CREAZIONE E REDENZIONE Introduzione Il binomio “creazione-redenzione” è il risultato di una precisa impostazione di pensiero teologico: ciò che era stato fatto all’inizio nella creazione ha avuto bisogno di “redenzione”, salvezza, riparazione. Il modello cosmologico-teologico di fondo posto alla base di questo binomio è quello fissistacreazionista in cui l’inizio assoluto del tutto deve essere caratterizzato dagli elementi propri della causa che ne è l’origine, cioè dalla perfezione; di conseguenza i segni di imperfezione, quali il decadimento e la morte (il male), sono da attribuire ad un evento successivo negativo, che ha inciso sulla stessa perfezione e ha reso necessario un nuovo evento (da parte della causa prima) capace di recuperare quanto perduto. Le basi culturali di tipo filosofico e teologico sottostanti a questa lettura generale sono precise e chiare. A livello filosofico-cosmologico vi è la visione di un principio eterno, esterno alla creazione, che produce altro da sé, mediante un atto di “emanazione” (il demiurgo di Platone) o di causa eterna (il motore immobile di Aristotele), imprimendo la sua perfezione a quanto prodotto. La creazione dunque non può che essere specchio della perfezione da cui si origina. La spiegazione del male, quale situazione inconciliabile con la presupposta perfezione del mondo, ha costituito da sempre una sfida intellettuale nella quale conciliare l’origine buona del creato e le sue manifestazioni di male e di morte. La ricerca di una causa iniziale (esterna a Dio e posta all’interno della creazione stessa) che abbia interrotto lo stato di perfezione è stata la via percorsa per trovare una risposta soddisfacente al dilemma filosofico-teologico. Nel mondo cristiano la soluzione è stata posta nel peccato dell’uomo quale atto di libertà iniziale che ha inciso non solo sulla sua natura ma anche sulle condizioni generali della realtà. In diretto rapporto con questa visione, di una “rottura” iniziale che ha inciso profondamente sulla perfezione creativa, vi è, di conseguenza, la figura del salvatore quale unica possibilità per riparare la condizione di perfezione perduta. La sua opera di salvezza restaura lo stato di origine, immettendo nella dinamica riparatrice una tensione fortemente escatologica, cioè spostando il pieno compimento della sua opera ripartiva nel tempo ultimo, quando finalmente ciò che era stato perduto agli inizi sarà riottenuto in pienezza e perfezione. Una tale struttura di pensiero è stata alla base dell’annuncio cristiano, dove il peccato ha quasi sempre costituito il presupposto per comprendere l’evento di Cristo, evento di riparazione e salvezza di un mondo altrimenti irrimediabilmente decaduto dalla sua perfezione iniziale. Mi sembra che questo rapporto tra perfezione iniziale, evento del peccato e bisogno ripartivo di Cristo si scontri con due importanti considerazioni. La prima è di tipo scientifico: la scienza moderna non sembra permettere una facile visione creazionista perfetta e fissa fin dall’inizio. Al contrario, la ricerca sia cosmologica, cioè indirizzata alla formazione del cosmo nel suo legame con un inizio assoluto descritto come un “big bang”, sia paleontologica, cioè rivolta ai processi vitali sulla terra, spinge fortemente a pensare ad un processo evolutivo della realtà, costituito da un moto di sviluppo che è andato dal meno al più di perfezione e crescita. La seconda è invece di tipo teologico e riguarda la cristologia: partire dal peccato per comprendere l’evento di Cristo significa ridurre l’incarnazione del Verbo a strumento occasionale e condizionato, infatti se l’uomo non avesse peccato Cristo non si sarebbe incarnato. In tal caso l’evento più importante della storia sarebbe stato determinato e condizionato da un evento inferiore e condizionato dalla libertà umana. Tenendo presenti tutte queste considerazioni, è possibile allora avanzare un altro binomio che preceda e inglobi quello iniziale da cui siamo partiti; sembrerebbe legittimo e forse necessario spostarsi dal binomio “creazione e salvezza” per proporre quello di “creazione e realizzazione”. In questa seconda coppia al centro è posta la visione espansiva del reale che ha in Cristo il punto di arrivo di un processo teologico-evolutivo avviato con la creazione, giunto al suo punto di espansione nel Cristo incarnato e proteso al suo definitivo compimento nella riunificazione escatologica del tutto con Dio. Il breve intervento che qui viene proposto costituisce un tentativo multiplo nell’individuare indizi biblico-teologici per rendere possibile un tale cambiamento di accento che dal creazionismo si sposti all’evoluzionismo ponendo al centro non più il peccato ma Cristo quale logica di tutto l’evento della creazione. 1. Il racconto di una creazione evolutiva in Genesi Il racconto di Genesi 1-2 si colloca dentro una cultura mediorientale in cui la narrazione mitica costituiva l’unico accesso per una efficace “spiegazione” del male. In questo tentativo si cerca di individuare delle cause iniziali assolute, poste fuori del tempo, capaci di spiegare il processo del tempo segnato dal dolore e dalla morte. Nonostante questa influenza culturale sul linguaggio biblico utilizzato nei primi capitoli di Gn, si può leggere in essi la presenza di prospettiva evoluzionistica nel pensare l’evento fondativo della storia. Vorremo fermarci solo a due testi relativi al racconto iniziale dei sei giorni creativi (Gn 1,1-2,4a) alla creazione della donna per essere di aiuto all’uomo (Gn 2,24b-25). Partiamo dal racconto dei sei giorni creativi. Pur se l’autore biblico intende i sei giorni non come metafore ma come eventi legati ad uno spazio che avviene ogni volta in 24 ore, cioè all’interno di un vero giorno, questo non toglie che quella costruzione narrativa rinvii ad un processo evolutivo di formazione dell’atto creativo. Nel racconto genesiaco vi sono due grandi notizie fondanti la fede cristiana: da parte la presenza di Dio quale principio causativo di quanto avviene, dall’altra tale evento ha una dinamica progressiva al cui sommo è collocato l’uomo. La descrizione di un cammino di sei giorni rinvia ad una sua possibile integrazione con l’asserto di base dell’evoluzione intesa come processo temporale della trasformazione della creazione per cause interne legate alla casualità delle processi. A tale asserto di fondo si aggiunge una visione teleologica del processo mosso verso una crescita di perfezione, guidata e voluta dalla Parola di Dio1. Anche nel famoso testo di Gn 2,4b-25 vi è una doppia allusione conciliabile con una teoria evoluzionista dell’atto creativo. Innanzitutto il passo biblico assegna all’uomo un doppio compito in rapporto al giardino nel quale era stato collocato da Dio: “per coltivarlo e custodirlo” (Gn 2,15). L’uomo è dunque immesso in una situazione di ambiguità e di potenzialità: con il suo lavoro è chiamato a far crescere quanto gli era stato affidato. Da sempre, e indipendentemente dal peccato, la struttura antropologica dell’uomo è collocata dentro un’evoluzione ambientale di cui egli è anche responsabile e facitore. Altrettanto sembra emergere con la notizia sulla creazione della donna quale evento di completamento dell’uomo stesso (Gn 2,22-23). La ricerca di pienezza mossa dal bisogno di una presenza che lo completasse costituiscono indizi di un’antropologia in evoluzione verso il suo compimento, un processo presente prima e indipendentemente dal peccato. 2. La proposta di un cristocentrismo cosmico in Paolo (Inni cristologici Col 1 ed Ef 1) Indubbiamente a livello biblico il testo più interessante per intravvedere una prospettiva “evoluzionista” di tipo cristologico è costituito dall’inno di lode presente nella lettera ai Colossesi. In esso la figura di Cristo diventa il criterio generale per una lettura globale dell’evento creativo posto dentro una logica che ha in Cristo il suo punto originante e finale. Leggiamo un passaggio nodale della proposta innica: Con questi asserti siamo di fronte alla discussione sulla presenza di un “disegno intelligente” che ha guidato il processo creativo. La discussione sulla possibilità di individuare a livello scientifico tale presenza di una guida intelligente nel processo evolutivo della natura è stata rilanciata dal famoso articolo del 2005 su “New York Times” del cardinale Schönborg il quale tra l’altro affermava: «Qualunque sistema di pensiero che nega o cerca di spiegare completamente la schiacciante evidenza di un disegno in biologia è ideologia e non scienza». Su tutta questa questione è stato dedicato nel 2009 un numero della rivista “Credere oggi” intitolato Evoluzione e fede cristiana. 1 Egli è l'immagine del Dio invisibile, il primogenito di ogni creatura; poiché in lui sono state create tutte le cose che sono nei cieli e sulla terra, le visibili e le invisibili: troni, signorie, principati, potenze; tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di ogni cosa e tutte le cose sussistono in lui. Poiché al Padre piacque di far abitare in lui tutta la pienezza (Col 1,15-17.19) Cristo costituisce il centro per capire tutto il movimento che, originatosi da Dio come evento creativo, avrà il suo punto di arrivo nell’incarnazione stessa quale evento teleologico a cui aspirava dall’eternità il processo creativo. Il mistero di Cristo, compiutosi nell’evento incarnativo, non solo precede la creazione, ma costituisce il principio unico a partire dal quale essa acquista il suo senso. Egli è prima del tempo e costituisce il perché del tempo e della creazione. La logica cristocentrica proposta nell’inno si condensa nell’affermazione secondo cui “tutto è stato fatto per mezzo di lui e in vista di lui”. In tal senso allora comprendiamo perché l’accadimento cristologico è definito “pienezza” che mentre precede il tempo si compie nel tempo. Cristo è il punto di arrivo previsto da sempre da Dio indipendentemente dal peccato. La “teo-logia” del testo dunque non è amartiacentrica ma cristocentrica, proclamando un processo evolutivo che ha nell’eternità di Dio il suo inizio e nel tempo dell’incarnazione il suo compimento. La creazione dunque è stata solo un mento di un processo di perfezionamento che ha in Cristo il suo punto teleologico: in lui si giunge alla “pienezza” della volontà di Dio (il suo mistero) nascosta dall’eternità e compiutasi nel tempo quale anticipazione della sua definitiva realizzazione quando nell’eternità quando Dio sarà tutto in tutti. 3. Il tentativo di una nuova ipotesi in Grossatesta Nella storia della teologia l’interpretazione redentiva-riparativa dell’evento di Cristo ha costituito costantemente la risposta al perché dell’incarnazione: per liberare l’uomo dal peccato e riparare alle conseguenze negative che esso ha avuto sulla natura umana e sul mondo intero2. Uno dei primi autori che tentarono di ripensare la relazione tra Cristologia, creazione e peccato è stato il teologo inglese Roberto Grossatesta3. In un piccolo opuscolo scritto nel 1231 (circa) dal titolo De cessatione legalium4, il maestro di Oxford si pone la domanda fondamentale nell’analisi dell’evento di Cristo: se l’uomo non avesse peccato Dio si sarebbe incarnato in Cristo? Cosciente della costante risposta negativa che fin a quel tempo si era dato alla questione5, Roberto tenta di ribaltare la soluzione argomentando sulla categoria di perfezione. Due sono gli ambiti nei quali egli tenta di articolare il suo ragionamento per concludere che l’incarnazione non è dipesa dal peccato ma dal piano di perfezionamento che Dio aveva previsto di realizzare proprio mediante la carne del Cristo. Il primo ambito è quello della creazione: solo con l’evento di Cristo essa giunge alla sua pienezza di bontà e perfezione: Poniamo che l’uomo non avesse peccato e né Dio fosse diventato uomo, la creazione sarebbe in questo caso tanto buona e perfetta, tanto bella e gloriosa quanto lo è adesso? Assolutamente no. Ogni creatura, in quanto pura creatura, è “inadorabile”. La carne infatti assunta dal verbo, sebbene, secondo la sua natura propria non sia 2 A tal proposito un testo di estremo valore è stato quello di San Anselmo, Cur Deus homo, dove alla somma offesa arrecata a Dio da parte dell’uomo con il peccato di Adamo, doveva prestare soccorso solo un sommo riparatore quale è stato l’uomo-Dio Gesù Cristo. 3 Cf. su questo cf. P. Maranesi, Il cristocentrismo ecclesiologico ed eucaristico di Roberto Grossatesta, in “Mistero” e “misteri”: dall’esperienza religiosa all’esperienza cristiana. Le chiavi di un percorso, a cura di E. Brancozzi (Collana dell’Istituto teologico Marchigiano diretta da Mario Florio, Gestis Verbisque, 4), Assisi, Cittadella Ed., 2010, 137-173. 4 D.J. Unger, Robert Grosstetest Bishop of Lincon (1235-1253) on the reasons for the incarnation, in Franciscan Studies (1956) 3-18. 5 Ivi, n. 3: “Debbo riconoscere che la questione se Dio sarebbe diventato uomo anche se l’uomo non avesse peccato, non è stato trattato da nessuno degli espositori della sacra scrittura nei libri che io fino ad esso ho letto, se non erro nella memoria. Al contrario sembrerebbero insinuare piuttosto che se l’uomo non avesse peccato Dio non si sarebbe incarnato e perciò Dio si è fatto uomo per riparare l’uomo perduto”. adorabile, è adorata nel Verbo di Dio incarnato, non a motivo di se stessa, ma per l’unità ipostatica. Né adoriamo la carne nuda, ma la carne di Dio, cioè il Dio incarnato6. L’altro ambito utilizzato da Roberto è quello della Chiesa quale spazio comunitario dell’invocazione di Dio. Se Cristo, per l’assenza del peccato, non si fosse incarnato, la Chiesa non avrebbe avuto il suo capo e il suo sposo, essa ciò non sarebbe mai diventata una con Cristo. Di conseguenza «se l’uomo non avesse peccato, e Cristo non si fosse incarnato, la Chiesa non avrebbe avuto il bene più prezioso che possiede, cioè non sarebbe diventata “un Cristo” con il Figlio di Dio»7. Dunque lo sganciamento della cristologia dal peccato ha permesso a Grossatesta di affermare con estrema lucidità il cristocentrismo quale orizzonte definitivo dell’evento cristiano. L’incarnazione non è uno strumento riparativo, ma il fine di tutta la realtà; in Lui si compie la volontà di Dio, di donarsi all’uomo per realizzare la bellezza e la pienezza della creazione e della Chiesa. La cristologia di Roberto Grossatesta dunque è mossa fondamentalmente da una visione evolutiva-completativa, un processo che si sarebbe attuato indipendentemente dal peccato. Giovanni Duns Scoto, il frate minore inglese morto nel 1308, venne sicuramente a contatto con la teoria cristologica di Roberto. Ne è prova la sua ripresa della proposta di una precedenza teologica dell’evento di Cristo sulla creazione e sul peccato. La logica scotista che presiede alla comprensione del mistero di Cristo è nel mistero trinitario: l’incarnazione di Cristo era stata da sempre prevista da Dio al fine di prolungare fuori di sé la dinamica trinitaria dell’amore. In Cristo si compie il circolo trinitario che diventa puro amore nella creatura estrinseca a se stesso, là dove si realizza definitivamente il perché dell’atto creativo 8. La libertà dell’amore trinitario, che si espande fuori di sé, costituisce il principio definitivo sia del creato che dell’incarnazione, dove la seconda rappresenta il punto di arrivo di una volontà eterna e libera che si manifesta primariamente nella creazione e solo in Cristo giunge al suo compimento. Egli è il primo voluto e l’ultimo realizzato; egli è l’alfa e l’Omega della storia trinitaria. 4. L’uomo perfetto del Vaticano II Queste categorie cristologiche utilizzate per comprendere la logica generale del tutto, senza che la creazione e l’incarnazione siano ridotte o condizionate dal peccato, emergono per la prima volta nei testi magisteriali della Chiesa nel Vaticano II. In particolare, decisivi rinvii al cristocentrismo quale via alla comprensione dell’antropologia e dell’evento creativo sono presenti nel documento più innovativo dell’autocoscienza della Chiesa nel suo dialogo con il mondo contemporaneo. Nella Gaudium et spes le immagini di Cristo quale “uomo perfetto” e “centro focale della storia dell’umanità” costituiscono le due categorie risolutive che obbligano la Chiesa a porsi in ascolto e a servizio de “le gioie e le speranze, le tristezze e le gioie dell’uomo”. Bastano qui ricordare due passaggi nodali dell’utilizzo di queste categorie cristocentriche caratterizzate da una visione evolutiva dell’umanità che in Cristo trova la logica del suo cammino di crescita e di perfezionamento. Il primo testo è proposto al n. 22, posto al termine del capitolo 1 della prima parte del documento conciliare dedicata a “La chiesa e la vocazione dell’uomo”. Nel capitolo di apertura il concilio tenta di determinare quale sia la “Dignità della persona umana”, trovata appunto nel Cristo definito l’“uomo perfetto”. Il n. 22, chiusura della trattazione, contiene il nucleo risolutivo della proposta antropologica cristiana che nel Cristo l’uomo perfetto il suo punto di arrivo: 6 Ivi, n. 8. n. 19. 8 Reportatio Parisiensis. III, d. 7, q. 4,“Dio ama in primo luogo se stesso; in secondo luogo egli ama se stesso negli altri e questo è puro amore; in terzo luogo egli vuole essere amato da qualcuno che lo possa amare al massimo grado possibile ad un essere estrinseco a se stesso; finalmente, egli prevede e quindi decide l’unione ipostatica di quella natura [ossia della natura umana di Cristo] che deve amarlo al massimo grado possibile, indipendentemente dal fatto che l’uomo sia caduto” (Ed. minor, II/2, 1003). 7 In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione. Il primo Adamo non ha possibilità di essere capito se non in rapporto al secondo: il primo era stato creato in vista del secondo, colui nel quale il progetto diventa pieno e compiuto. Nel secondo testo si è di fronte ancora ad un passaggio strategico sia per la posizione da esso occupata all’interno del documento, sia per il suo contenuto cristocentrico. Il brano si trova infatti al n. 45, testo che chiude l’intera prima parte, dove la chiesa ribadisce in modo definitivo il suo impegno fondamentale di proclamare la salvezza che viene da Cristo per l’intera umanità. Tale missione svolta a favore di tutto il mondo, e che la fa essere “l’universale sacramento di salvezza”, scaturisce e prende forza da una coscienza teologica generale: Infatti il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, si è fatto egli stesso carne, per operare, lui l'uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale. Il Signore è il fine della storia umana, "il punto focale dei desideri della storia e della civiltà", il centro del genere umano, la gioia d'ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni. Egli è colui che il Padre ha risuscitato da morte, ha esaltato e collocato alla sua destra, costituendolo giudice dei vivi e dei morti. Nel suo Spirito vivificati e coadunati, noi andiamo pellegrini incontro alla finale perfezione della storia umana, che corrisponde in pieno col disegno del suo amore: "ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle del cielo come quelle della terra" (Ef. 1, 10). Il brano di fatto si pone come punto di partenza per la seconda parte quando la costituzione dogmatica inizia ad occuparsi di “Alcuni problemi più urgenti” dell’umana famiglia. L’impegno che la Chiesa vuole assumersi a favore dell’umanità intera nasce dalla coscienza di un processo di crescita e di sviluppo umano che va verso “la finale perfezione della storia umana”. Tale dinamica “evolutiva” ha nel Cristo il suo fine escatologico perché nel suo evento storico egli ha compiuto la ricapitolazione, il compimento storico di un progetto unico che lo pone al centro della storia stessa facendolo “punto focale dei desideri della storia e della civiltà”. Dunque due elementi nodali dominano la visione della GS: il cammino di perfezione della storia umana e il ruolo risolutivo di Cristo nella comprensione e nella realizzazione di tale evoluzione creativa-salvifica. Dunque da una visione fissista e statica legata alla creazione e al peccato da cui si è guariti per opera del redentore, si passa ad una accentuazione più dinamica in cui il processo di perfezionamento costituisce la logica di fondo dell’evento creativo compreso innanzitutto non si se stesso ma in relazione all’evento di Cristo, principio e fine della storia. Queste categorie evolutive, fondate su di un cristocentrismo dinamico, costituiscono in qualche modo l’assunzione di un modello di pensiero che ha in Pierre Theilard de Chardin il suo principio ispiratore. Proponendo un punto omega verso cui la creazione sta evolvendo, il gesuita francese vede in questa unificazione finale di tutti nel tutto (senza che le singole parti vengano annullate) l’arrivo di un processo che è passato dalla previta, alla vita, poi al pensiero e infine alla super vita mediante un cammino “evolutivo” di tipo creativo e teologico. Il fenomeno umano è comprensibile solo all’interno di questa crescita evolutiva che lascia intravvedere il suo compimento in un punto focale, un “punto omega” il quale «considerato nel suo principio ultimo, non può essere che un centro distinto irradiante nel cuore di un sistema di centri. Un raggruppamento in cui la personalizzazione del tutto e la personalizzazione degli elementi raggiungono, senza mescolanza e simultaneamente, il massimo grado, sotto l’influsso di un focolaio d’unione sommamente autonomo»9. 9 T. de Chardin, Il fenomeno umano, Brescia, ed. Queriniana, 2010, 244.