Tucidide - I discorsi

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VII. DISCORSI NELLE STORIE DI TUCIDIDE
vare qualcosa che, se non celata, potrebbe essere di vantaggio ad uno dei nemici, qualora la notasse: non riponiamo infatti fiducia nei apprestamenti difensivi e nelle
manovre elusive più che nel senso di corresponsabilità di
ciascuno di noi nell’azione. E nell’educazione gli altri subito, fin dalla fanciullezza, inseguono con faticoso esercizio un animo virile; noi invece, pur vivendo senza regole,
nondimeno affrontiamo pericoli equivalenti. (...) Eppure
se consentiamo ad affrontare il pericolo con spensieratezza più che con duri addestramenti, e con un ardore che
non scaturisce dalle leggi più che dai nostri costumi, ne
ricaviamo il privilegio di non soffrire anticipatamente per
i patimenti futuri, e di non sembrare più privi di coraggio
di quanti sono sempre in travaglio: ed alla città ne deriva
di apparir degna di ammirazione per questi e per altri motivi.
1. L’elogio pericleo della democrazia ateniese
II 34. Nel medesimo inverno gli Ateniesi, seguendo l’uso
dei padri, celebrarono a spese pubbliche le esequie dei
primi caduti in questa guerra, nel modo che segue. (...) Per
questi primi caduti, dunque, fu invitato a parlare Pericle
figlio di Santippo. E quando arrivò il momento, dal cimitero salito su un palco che era stato costruito assai alto, affinché potesse essere udito dalla maggior parte della folla,
disse queste parole.
II 35. «La maggior parte di quanti hanno qui parlato loda
chi alla tradizione ha aggiunto quest’elogio funebre, ritenendo bello che esso venga pronunciato per i caduti in
guerra. A me invece sembrava sufficiente che per uomini
che si sono rivelati prodi alla prova dei fatti anche le lodi
funebri fossero illustrate nei fatti, e che il credere alle virtù di molti non dipendesse da un uomo solo, che può parlare bene o meno bene. (...)
II 40. Amiamo il bello con semplicità, e ricerchiamo la sapienza senza mollezza; usiamo il denaro più quando si
presenta l’occasione di farne uso che per vantarcene a
parole, e l’esser poveri non è considerato da nessuno disonorevole, mentre riteniamo un’onta piuttosto il non
sottrarsene con il lavoro. È contemporaneamente presente in noi la cura degli affari privati e di quelli pubblici, e
chi è dedito al lavoro è pure al corrente in modo non superficiale delle questioni politiche. Siamo i soli a giudicare
chi se ne disinteressi non pigro, ma inutile. (...) Anche in
ciò che riguarda la nobiltà d’animo differiamo dagli altri:
ci acquistiamo infatti gli amici non col ricevere un beneficio, ma col compierlo. Chi lo compie si rivela un amico più
saldo, in modo tale da conservarsi la stima del beneficato
mediante il proprio sentimento di benevolenza; chi invece deve restituirlo è più freddo, sapendo che è tenuto a
ricambiare quel gesto di nobiltà non in forza della riconoscenza, ma di un obbligo morale. (...)
II 36. Comincerò innanzitutto dai nostri progenitori: è
giusto infatti, ed insieme opportuno, che in questa solennità sia loro accordato questo onore della memoria. Essi
infatti, che abitarono questa terra senza interruzione, nel
volgere delle generazioni l’hanno tramandata libera sino
ad oggi col proprio valore. Costoro son degni di lode, ed
ancor più i nostri padri: venuti in possesso di quella parte
di dominio che possediamo, oltre a quanto avevano ereditato, ce l’hanno lasciata in eredità, non senza fatica. Ma la
maggior parte del nostro impero siamo proprio noi, e
principalmente quelli in età matura, ad averla accresciuta
e ad aver con ogni mezzo reso la città totalmente autosufficiente in vista tanto della guerra che della pace. (...)
II 37. Da noi è in vigore una costituzione che non si ispira
alle leggi dei popoli vicini, e invece di imitare gli altri,
siamo noi ad essere di modello per loro; e poiché essa è
rivolta non a pochi, ma ai più, viene chiamata democrazia.
Per quel che riguarda le leggi, nella sfera individuale tutti
si trovano in egual posizione, mentre per quanto riguarda
l’influenza nella vita pubblica, ciascuno viene apprezzato
a seconda che si segnali in qualche campo, non per la sua
estrazione sociale ma per il suo valore; né, per quel che
attiene alla povertà, chi ha la capacità di fare qualcosa di
buono per la città ne è ostacolato dall’oscurità della propria origine. (...)
II 41. In conclusione, io dico che l’intera città è di ammaestramento per la Grecia, e mi sembra che da noi ciascun
uomo possa con facilità applicare la propria persona, autonomamente e con eleganza, in moltissimi campi. (...)
Per una tale città, dunque, costoro sono caduti combattendo con magnanimità, poiché ritenevano giusto non
esserne privati; ed è ragionevole credere che ciascuno di
noi, che ancora siamo in vita, desideri sacrificarsi per lei».
2. Il dialogo tra Meli e Ateniesi
II 38. E per la mente abbiamo predisposto moltissime occasioni di svago dalle fatiche, giacché ricorriamo abitualmente a giochi ed a sacrifici distribuiti in tutto il corso
dell’anno, nonché ad eleganti arredi domestici, il cui diletto giorno dopo giorno scaccia il dolore. A causa della
grandezza della città da tutta la terra vi affluisce ogni cosa
(...).
V 84. Nell’estate successiva Alcibiade con una squadra di
venti navi fece un’incursione ad Argo, catturando gli individui ancora sospetti di nutrire simpatie politiche per
gli Spartani: i trecento detenuti furono confinati nelle isole vicine, suddite di Atene. Quindi gli Ateniesi si rivolsero
contro gli isolani di Melo con trenta navi della propria
flotta, sei di Chio, due di Lesbo, milleduecento opliti propri, trecento arcieri e duecento arcieri montati; gli alleati
e gli abitanti delle isole avevano contribuito con circa millecinquecento opliti. Melo è una colonia degli Spartani,
per nulla disposta ad inchinarsi alla grandezza di Atene
come gli altri isolani. Nelle fasi iniziali del conflitto i Meli
II 39. Nelle occupazioni belliche differiamo dai nemici nei
seguenti particolari. Mettiamo la città a disposizione di
tutti, e non ci accade con provvedimenti di espulsione degli stranieri di proibire a qualcuno di apprendere o osser-
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si mantenevano in sapiente equilibrio tra gli stati in lotta:
ma in seguito, incalzati dagli Ateniesi che ne devastavano
il territorio, ruppero la propria neutralità e fu guerra aperta. Dunque, piantato il campo sul suolo dei Meli con gli
effettivi militari di cui s’è dato cenno, gli strateghi Cleomede figlio di Licomede e Tisia figlio di Tisimaco, prima di
infliggere danni al paese, mandarono un’ambasceria con
l’intento di intavolare subito dei preliminari. I Meli non
introdussero i delegati al cospetto del popolo, ma li invitarono ad esprimere le ragioni della visita alla presenza
delle principali autorità e dei notabili. E gli ambasciatori
ateniesi esposero questi punti:
un governo libero da ansie e da rischi, e impiegare integre
le vostre forze per un comune profitto.»
V 85. «Poiché questo colloquio tra noi deve restare segreto alle orecchie del popolo (...) rinunciate a discorsi complessi e lunghi; esaminate ogni singola ragione esposta e
giudicatela contrapponendovi le eccezioni che vi parranno opportune. E per cominciare dite se questa proposta vi
conviene.»
V 95. Ateniesi: «No; per noi è minaccia più pericolosa la
vostra amicizia che il vostro odio aperto: la prima offrirebbe agli altri sudditi un esempio di fiacchezza da parte
nostra, mentre il rancore invece ricorderebbe loro perennemente la nostra potenza». (...)
V 92. Meli: «E come potrebbero collimare i nostri interessi, se noi fossimo resi schiavi e voi ci dominaste?»
V 93. Ateniesi: «Voi avreste la fortuna di vivere da sudditi,
invece di soffrire il castigo più crudele; e per noi sarebbe
un guadagno non avervi annientati.»
V 94. Meli: «Non sareste paghi della nostra neutralità, se
invece di incrociare le armi restassimo amici?»
V 98. Meli: «E non vedete che per voi la sicurezza sta in
quell’altra politica? (...) Tutti gli stati che attualmente non
sono iscritti a nessuna lega, credete che non prepareranno le armi, quando, riflettendo sul nostro destino, temeranno di ora in ora che vibriate loro il primo assalto? E
non accrescerete con le vostre mani le potenze che già vi
sfidano, spronando a giurarvi odio chi ancora se ne vive in
disparte?»
V 89. (...) Dal canto nostro, rinunceremo all’armamentario
fastoso dell’eloquenza, alla retorica interminabile di quei
discorsi celebrativi che non danno frutto. Perciò non ribadiremo che per avere demolito la prepotenza persiana
ci spetta il diritto all’impero, o che la nostra attuale campagna è la risposta a un attentato inferto al nostro onore.
Ma pretendiamo che neppure voi tentiate di piegarci giustificando il vostro rifiuto di fornire leve all’armata con la
circostanza che siete coloni di Sparta, o soggiungendo che
nei nostri riguardi siete innocenti e puri. Sentite: sforziamoci di restringere le ipotesi di compromesso nei confini
del realizzabile, attingendole ciascuno ai veri principi cui
di norma ispira la sua condotta. Siete consapevoli quanto
noi che nel linguaggio degli uomini i concetti della giustizia affiorano e assumono corpo quando la bilancia della
necessità resta sospesa in equilibrio tra due forze pari. In
caso contrario i più potenti agiscono, i deboli si piegano.»
V 99. Ateniesi: «Non ci pare che la minaccia di costoro incomba tanto grave. È gente di terra, sparsa per il continente: vivono liberi, e passerà molto tempo prima che avvertano seriamente l’obbligo di mettersi in guardia contro
di noi! Gli isolani invece ci fanno tremare, quelli sì! Non
solo quelli che, come voi, chi su un’isola, chi su un’altra,
non soffrono nessun giogo, ma quelli che, esacerbati, già
mordono il freno del nostro impero: giacché costoro, in
uno scatto folle e senza speranza, potrebbero coinvolgerci
in una caduta verso ben prevedibili abissi.» (...)
V 90. Meli: «È nostro avviso, almeno per quanto concerne
il nostro interesse (ormai è questa l’espressione da usare,
poiché voi avete subito accordato il dibattito su questo
tono dell’utile, ignorando quello della giustizia), che non
vi convenga ridicolizzare le riflessioni che concernono il
vantaggio comune, e che sia ragionevole concedere a chiunque i diritti che gli spettano se non altro in quanto creatura umana (...). Questa considerazione vi tocca da vicino
più di chiunque altro, perché nell’eventualità di una disfatta vi scolpireste esempio eterno nella memoria dei
popoli, per l’atrocità sanguinosa della vostra pena.»
V 102. Meli: «Eppure è noto che talvolta le sorti della
guerra si orientano verso equilibri che le rispettive potenze in campo non lascerebbero mai supporre. Sicché
per noi chinare subito il capo significa precluderci ogni
speranza, mentre agendo si può forse nutrirla ancora,
questa speranza di risorgere.»
V 103. Ateniesi: «La speranza, incanto che illude ad osare!
Sempre pronta a vibrare un colpo, anche se non a prostrare in ginocchio, chi arrischia con lei il superfluo. Ma
chi getta nell’avventura tutto ciò che ha, dopo la disfatta
impara a riconoscerne il volto (...). Il vostro paese è debole, e alla bilancia della sorte basterà oscillare di poco per
cancellarvi: evitatelo. (...)»
V 91. Ateniesi: «Piano. Non ci sgomenta la possibile decadenza della nostra signoria, se mai tramonterà. Non è chi
domina su altre genti – come ad esempio Sparta – la sorgente più viva di terrore per i vinti: e noi, tra l’altro, non
siamo in conflitto con Sparta. Piuttostom i popoli soggetti
devono incutere angoscia quando rovesciano il potere di
chi li tiene a freno. Ma vedercela con questo rischio è affar nostro. Per ora siamo qui a documentare due circostanze: primo, che il nostro intervento si ripromette un
utile per il nostro dominio; secondo, che con le offerte sul
tappeto proveremo la nostra volontà politica di salvaguardare la sicurezza del vostro stato. Intendiamo darvi
V 106. Meli: «(...) Melo è una colonia di Sparta. Sarà il suo
interesse politico a distoglierla dall’idea di tradirci, per
non apparire infida a quanti tra i Greci favoreggiano la
sua causa, e far così un dono prezioso ai nemici.»
V 107. Ateniesi: «Ne siete certi? Allora ignorate che, in
politica, l’utile va d’accordo con la sicurezza dello stato,
mentre a praticare il giusto e l’onesto ci si espone a pe-
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santi rischi. Non sono da Spartani queste prodezze: non è
la loro natura.»
la Sicilia e Cartagine in suo potere. Tra i cittadini godeva
di un larghissimo seguito, ma la sua febbre per
l’allevamento dei cavalli e per altre costose estrosità lo
travolgeva spesso oltre i limiti delle disponibilità familiari: un particolare che col correre degli anni fu origine - e
non la meno importante - della disfatta ateniese. Scosso
dalle frenetiche e smodate stranezze della sua personale
condotta e del suo tenore di vita, sorpreso dalla sconfinata ampiezza dei suoi disegni, qualunque fosse l’impresa
scelta ad esprimerli un vasto strato d’Atene gli giurava
aperto odio, nel sospetto che ambisse a farsi tiranno; e
trascurando il fatto che nella sfera pubblica aveva fornito
le indicazioni più efficaci per regolare il corso della guerra, toccati personalmente sul vivo dal ricordo molesto dei
suoi privati costumi costoro trasmisero ad altri il compito
di reggere lo stato, ed in breve sopravvenne la rovina.
Dunque in quella circostanza Alcibiade si fece largo sul
palco, e rivolto agli Ateniesi così prese a parlare:
V 108. Meli: «Però noi pensiamo che, in nostro favore,
Sparta sarà più portata a imboccare questa strada rischiosa e valuterà meno pericolosi i suoi passi in questo scacchiere che in altri: siamo prossimi, come teatro
d’operazioni, al Peloponneso, e per concezioni politiche la
comunanza di stirpe ci rende più degni di fiducia degli
estranei.»
V 111. Ateniesi: «Quand’anche quest’ipotesi s’avverasse,
non ci coglierebbe sprovvisti d’esperienza (...). I vostri
temi ricorrenti e più solidi sono speranze, fantasie campate nel futuro: e le concrete difese con cui vi proponete di
sbarrare il passo al congegno bellico che già preme alle
vostre porte sono troppo fragili per garantirvi scampo. Vi
renderete colpevoli di una più sinistra follia, se dopo averci congedati non stillerete dalle vostre menti qualche
risoluzione più avveduta. Non vi appellerete, speriamo, al
sentimento dell’onore: causa prima di tanta rovina tra gli
stati, tra i funesti e minacciosi bagliori di un abisso che
può inghiottire un popolo e seppellirlo in un silenzio avvilente. Già più d’uno, con gli occhi ben aperti sul destino
cui volava incontro, fu fatalmente trascinato dall’istinto
noto tra gli uomini con nome di onore. (...)»
VI 16. «O Ateniesi, il comando spetta a me più che a chiunque altro (...), e ho la chiara coscienza d’esserne degno.
(...) Abbagliai i Greci del mio splendore nella sacra cornice
d’Olimpia; e quel giorno, di fronte alla schiera dei miei
sette carri (...), quando oltre al trionfo del primo conquistai anche il secondo e il quarto premio, coronando ogni
altro momento della cerimonia con un fulgore degno della vittoria, si diffuse magnifica nel pubblico l’immagine di
un’Atene superba; mentre cadde dai cuori quella ormai
consueta di una città in ginocchio per i sacrifici del suo
lungo duello. (...) Lo sfarzo con cui mi rendo illustre in Atene - coregie o altre prestazioni - mi attira, com’è naturale, le gelosie dei miei propri cittadini: ma tra genti forestiere anche da esso spira un senso di grandezza. Dunque
non è sterile questa follia, quando uno splende del proprio per creare un profitto non solo a sé, ma allo stato.
Neppure è in torto chi concependo di sé un alto sentimento rifiuta di porsi alla pari con gli altri, giacché chi è vittima della sventura incontra forse chi lo allievi d’una parte del suo fardello? È pur vero che quando la fortuna ci
volge le spalle nessuno si degna più di rivolgerci la parola:
un buon motivo perché si stia contenti, se chi è sull’onda
di un fausto successo ci riserva un contegno orgoglioso. Io
so che gli uomini eletti, e chi in qualche campo ha guadagnato una cospicua vetta, riescono in vita anzitutto molesti ai propri contemporanei, e il fastidio tocca prima quelli della stessa cerchia, poi si diffonde con l’ampliarsi dei
contatti personali, delle relazioni; ma tra i posteri essi lasciano l’eredità della propria figura e in alcuni perfino
l’esigenza di rivendicare con loro legami di parentela
spesso inesistenti. Intanto la terra che ha dato loro i natali
ne trae gloria, fiera e commossa nel ricordarli come suoi
propri figli, artefici di nobili gesta, né certo pensa a sconfessarli per le loro presunte colpe. A tanto io aspiro! E se
per tali motivi la mia vita personale è bersaglio di continue polemiche, vedete se in fatto di politica non so destreggiarmi meglio di chiunque altro. Ho spinto le città
più poderose nel Peloponneso, senza sperperi di mezzi e
con minimi rischi, a far lega con voi e ho condotto Sparta
a gettar tutta se stessa allo sbaraglio nella sola giornata di
Mantinea: se la cavò sul campo, ma da allora la sua fierezza non si erge più tanto impavida.
V 112. A questo punto gli Ateniesi troncarono il negoziato
e si ritirarono. I Meli rimasero da soli, e ostinati in quei
medesimi principi che avevano espresso in sede di dibattito emisero il seguente comunicato: «La nostra decisione
non è mutata, cittadini d’Atene: non strapperemo la libertà a una città ormai in vita da ottocento anni. Pieni di fede
nella fortuna che sotto il governo degli dei l’ha per tanti
secoli salvaguardata, tenteremo di salvare la città con le
nostre forze e aspettando l’aiuto spartano. Ci offriamo
neutrali alla vostra amicizia, e vi proponiamo di allontanarvi dal nostro suolo dopo aver sancito quei patti che ad
ambedue promettano e garantiscano un profitto.»
V 113. Fu tutto qui il responso dei Meli. Gli Ateniesi, sospendendo definitivamente i negoziati, replicarono: «A
giudicare da questa risposta, frutto di una risoluzione
meditata, si potrebbe dire che tra gli uomini voi siete gli
unici a valutare il patrimonio del futuro più solido di quello del presente. Per il desiderio che vibra in voi scorgete
una realtà concreta laddove è l’invisibile. E per esservi
dati, anima e corpo, agli Spartani, alla sorte, alle speranze
con la più incondizionata fiducia, finirete nel più sanguinoso disastro.»
3. Il dibattito sulla spedizione in Sicilia
VI 15. (...) Tra gli Ateniesi saliti al palco, i più incoraggiavano alla campagna, vietando di riesaminare la questione:
le voci discordanti erano poche. Al progetto di spedizione
si scaldava con più intenso slancio Alcibiade figlio di Clinia, sia per il vivo desiderio di sopraffare Nicia, cui
l’opponevano in materia di politica non poche altre divergenze, sia soprattutto per quell’allusione polemica
dell’avversario nei suoi confronti. Ma ardevano in lui, implacabili, la passione del comando e la speranza di ridurre
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VI 17. «Fu questa mia giovinezza a indovinare il tono giusto per riaprire il dialogo con gli stati del Peloponneso
(...). Non abbiatene timore, ma mentre questa mia giovinezza mi solleva al culmine dell’energia e Nicia pare sospinto dalla fortuna cogliete il frutto che l’impegno
dell’uno e dell’altro sapranno offrirvi. Non mutate avviso
sulla spedizione in Sicilia, quasi fosse un urto contro una
potenza troppo grande. In quelle città s’affollano genti di
razza mista, ed è frequente in loro il traffico di cittadini in
partenza o di nuovi abitanti in arrivo. A causa di tali continui cambiamenti s’estingue il sentimento di patria: e
quindi il privato non si cinge d’armi a difesa di una patria
che non sente cara, né lo stato, nel suo complesso, dispone di ordinate installazioni difensive. Tutti coloro si sforzano di incassare a spese della comunità l’occorrente per
emigrare da tutt’altra parte, se non trovano fortuna in
patria. Si può pensare che un gregge di questa specie sappia concentrarsi e seguire la traccia prescritta da chi li
dirige? O si volga all’azione con unità di intenti? Basterà
intonare un discorso a loro gradimento, e uno dopo l’altro
saranno subito attratti dalla nostra causa: soprattutto se,
come ben sappiamo, sono in lotta tra loro. Tra l’altro non
possiedono tanti opliti quanti pretendono. Allo stesso
modo risultò che le altre genti greche non avevano in dotazione forze oplitiche di entità pari a quelle proclamate
dal loro vanto. La Grecia che aveva fornito in proposito
cifre fortemente artefatte s’è trovata, alla prova di questa
guerra, con un numero di opliti appena sufficiente. Ecco
dunque le condizioni della Sicilia quali le riferiscono le
mie fonti: e non tarderanno a farsi più vantaggiose per
noi (potremo contare su una folla di barbari che spinti
dall’odio contro Siracusa combatterà sotto i nostri vessilli). Dalla Grecia non nasceranno intralci, se sceglierete la
politica adatta. I nostri padri avevano contro quegli stessi
nemici che ora ci lasciamo alle spalle salpando, e in più li
premeva la minaccia persiana: eppure fondarono
l’impero, amministrando saldamente un solo vantaggio, la
supremazia della marina. Mai come in questi momenti è
caduta in basso per il Peloponneso la speranza di trionfare di noi. Supponiamo in loro un improvviso rigoglio
d’energia bellica: sarebbero senza dubbio in grado
d’invaderci, anche se lasciassimo cadere il progetto della
spedizione oltremare, ma comunque la loro flotta non ci
infliggerebbe perdite: perché a coprire Atene lasceremmo
una parte della nostra marina, di forza pari a quella di cui
essi dispongono. (...)
mi pare giunga a proposito per esporvi chiaramente la
mia idea. Regolandomi su voci riferite, mi sembra che il
nostro sforzo dovrà urtare contro città vaste, indipendenti l’una dall’altra e quindi non disposte a scosse politiche,
nel senso che in una gente sottomessa a un dominio severo può talvolta sorgere viva l’aspirazione a scuotere e migliorare il proprio stato. Com’è naturale non si adatteranno con entusiasmo a veder soppiantata la propria libertà
dal nostro impero. E il numero di quei centri è elevato,
considerando che sono compresi in un’unica isola; inoltre
sono Greci. Togliamo Nasso e Catania, che mi auguro passeranno da noi per l’affinità con Leontini. Ne restano altre
sette dotate di armamenti di efficacia pari e di tipo analogo a quelli che costituiscono il nostro potenziale bellico, e
tra le altre le più potenti son quelle scelte come diretto
bersaglio della nostra offensiva: Selinunte e Siracusa. Dispongono di numerose divisioni oplitiche, ranghi completi di arcieri e lanciatori di giavellotto, una marina poderosa di triremi, un’infinità di gente pronta ad armarle. Hanno consistenti depositi finanziari privati, cui s’aggiungono
le riserve auree dei santuari specie a Selinunte. A Siracusa
inoltre affluiscono i tributi di popolazioni barbare in suo
potere. Sul piano strategico vantano su di noi questa supremazia significativa, un nerbo potente di cavalieri. Poi
possono contare su raccolti propri di grano, senza preoccuparsi d’importarne.
VI 21. «Contro una macchina militare di tal mole, la solita
squadra navale, con il suo contingente limitato di sbarco,
è inoffensiva. Occorre imbarcare un’armata ingente, se
intendiamo realizzare un successo pratico degno del piano ambizioso e sperare che una cavalleria agguerrita non
ci spazzi via in un lampo dalla spiaggia dopo lo sbarco:
soprattutto se l’allarme collegherà i vari centri e se la solidarietà di altre potenze - che non sia esclusivamente
quella di Segesta - non ci provvederà a nostra volta di cavalleria sufficiente al contrattacco. Sarà in gioco il nostro
onore, se sommersi dall’avversario dovremo ritirarci e
ridurci a successive richieste di truppe per non aver decretato, con colpevole imprevidenza, le misure in proporzione allo sforzo. È indispensabile che già alla partenza gli
effettivi siano completi e in ordine, nella coscienza che un
tratto immenso d’acqua ci dividerà dalle nostre basi in
patria e la campagna avrà caratteristiche troppo diverse
da quando in teatri di guerra vicini siete scesi in campo al
fianco di qualche stato tributario, per contendere il passo
a un aggressore: allora i rifornimenti giungevano comodi
da una terra amica, mentre in questa circostanza rimarrete staccati in regioni straniere, da cui nei quattro mesi
d’inverno sarà assai arduo che riesca il passaggio anche di
un solo corriere.
VI 19. Suonò così in sostanza il discorso di Alcibiade. Ad
ascoltare le sue parole, quelle dei Segestani e quelle dei
fuoriusciti di Leontini che sulla tribuna chiedevano e imploravano l’aiuto ateniese, l’assemblea arse più che mai
dal desiderio di compiere la spedizione. Nicia a quel punto, sentendo che se ricorreva ai consueti argomenti non li
avrebbe più dissuasi e che forse calcando la mano sulla
larghezza dei preparativi necessari e insistendo con richieste gravose avrebbe ottenuto lo scopo d’indurli a ragionare diversamente, si presentò per la seconda volta e
prese la parola esprimendo questi motivi:
VI 22. «Sicché a mio giudizio deve risultare molto nutrito
il corpo di opliti da far passare in Sicilia, sia mobilitando i
nostri, sia quelli alleati e sudditi, e provvedendo a trarre
rinforzi anche dal Peloponneso. Ci servono arcieri in gran
folla e frombolieri per contrastare la cavalleria nemica.
Sul mare ci occorre subito una superiorità indiscussa, per
sveltire i collegamenti: ciò non ci esimerà tuttavia dal trasportare anche dall’Attica riserve abbondanti di viveri.
Impiegheremo navi da carico: ci vorrà grano, orzo tostato,
e un certo numero di panettieri al seguito e requisiti dai
VI 20. «Poiché, Ateniesi, noto come le vostre volontà convergano su un solo oggetto, e cioè questa campagna, ebbene ch’essa appaghi infine i nostri voti. Ma l’occasione
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diversi mulini in proporzione. Torneranno utili se resteremo bloccati dal tempo cattivo e l’esercito avrà necessità
di viveri (poiché sarà tale il suo numero che non tutte le
città avranno spazio ad accoglierlo). Quanto al resto, tutti
i preparativi dovranno riuscire il più possibile perfetti,
per garantirci una totale autonomia. Noi dobbiamo partire con riserve monetarie di tutto rispetto: i Segestani affermano di tener pronti tesori in casa propria, ma se credete a me potete aspettarvi laggiù di trovare ben poca sostanza oltre alle loro chiacchiere.
questi blocchi quadrangolari, nei vestiboli delle abitazioni
o nei recinti sacri) ebbero in maggioranza il volto mutilato, in una stessa notte. Sui responsabili restava il mistero:
ma si dava loro la caccia con ricche taglie statali. Non bastò; si decise dunque che chiunque dei cittadini e degli
stranieri - e persino dei servi - volesse, denunciasse pure
senza paura qualunque diverso atto sacrilego gli fosse noto. L’opinione pubblica ne fu seriamente scossa: vi si riconosceva un segno infausto per la partenza, collegato forse
a torbide trame per sovvertire lo stato e la democrazia.
VI 23. «(...) Alla città qui raccolta ho espresso i miei piani, i
più sicuri a garantire incolume lo stato e salvi e vittoriosi
noi, destinati a dirigere l’impresa sui campi di battaglia.
Se altri sono in disaccordo, offro loro il mio comando.»
VI 28. Finché, ad opera di certi meteci e di alcuni servi,
approda all’autorità una denuncia, che pur non avendo
nulla da spartire con lo scandalo delle Erme, riguarda certe altre statue sfregiate tempo prima da un gruppetto di
giovani ubriachi e in vena di stranezze: in certi ambienti
inoltre ci si diverte a scimmiottare i misteri. Le accuse
non risparmiavano Alcibiade, e furono lesti a raccoglierle
quelli cui la personalità di Alcibiade incuteva più geloso
fastidio, intralciando la scalata ai seggi più alti e solidi del
governo democratico; e pieni di speranza di ascendere ai
vertici della società ateniese, se lo avessero tolto di mezzo, facevano un chiasso eccessivo di quest’affare, insistendo in pubblico che le parodie dei misteri e la mutilazione delle Erme rientravano nel piano criminale di sconvolgere la compagine democratica e che nell’una e
nell’altra empietà spiccava evidente lo stile di Alcibiade.
Ne adducevano a prova il suo modo personalissimo di vita
che calpestava la tradizione: un autentico schiaffo alla
democrazia.
VI 24. Nicia tacque, ritenendo che l’esposizione di necessità così tremende avrebbe distolto gli Ateniesi, o, almeno nel caso che la spedizione fosse ormai inevitabile - si sarebbe garantito con questi mezzi un margine ampio di
sicurezza. Ma l’impegno faticoso dell’armamento suscitò
ben altro in Atene che la rinuncia a quella campagna desiderata: anzi era tutto un accendersi d’entusiasmi, di ora
in ora. Sicché Nicia ottenne un effetto opposto: si commentava che i suoi erano consigli d’oro, e da quel momento non c’era proprio più nulla da star preoccupati (...).
VI 25. Da ultimo si fece avanti uno d’Atene e interpellando
personalmente Nicia protestò che non era più l’ora di trastullarsi con pretesti e ritardi: svelasse al popolo a viso
aperto l’entità delle forniture belliche da lui fissata, per
sottoporla all’approvazione dell’assemblea. Di malumore
Nicia replicò che avrebbe scelto di ragionarne piuttosto
con i colleghi del comando con calma; ad ogni modo, per
quanto fosse un preventivo del tutto personale, esprimeva come minima, per avviare la spedizione, la cifra di cento triremi (compito degli Ateniesi sarebbe stato allestire
quante unità credevano opportune per trasporto truppe:
il resto era da requisirsi tra gli alleati). Gli organici della
fanteria pesante non dovevano essere inferiori a cinquemila opliti tra Ateniesi e alleati, meglio poi se si poteva
disporne di più. I reparti delle diverse armi, arcieri ateniesi e di Creta, frombolieri, e le altre forze che si stimasse
conveniente adunare per l’imbarco, dovevano adeguarsi,
come proporzione numerica, al resto degli effettivi.
VI 29. Alcibiade rintuzzò direttamente l’attacco, aggiungendo ch’era disposto ad affrontare un processo prima
dell’imbarco, perché si facesse piena luce sulle sue responsabilità nei delitti di cui lo si imputava (ormai erano
stati aggiunti anche gli ultimi ritocchi alle forze in partenza); e se fosse risultato colpevole di qualche mancanza,
avrebbe pagato; se invece fosse stato assolto, il comando
sarebbe rimasto suo. Li pregava di non dar credito alle
menzogne fatte circolare durante la sua assenza e di fargli
giustizia sommaria piuttosto, se era colpevole; e insisteva
che sarebbe stato assurdo affidargli il comando di una
armata così ingente sotto l’incubo di quell’accusa, prima
che in tribunale si emettesse un verdetto risolutore. Ma i
suoi avversari, temendo che le simpatie dell’esercito si
sarebbero orientate su di lui se si fosse celebrato un processo immediato, e che il popolo si sarebbe lasciato sedurre alla clemenza, riconoscente per il merito d’aver convinto personalmente Argo e qualche reparto di Mantinea
a seguire la spedizione, si preoccupavano con ogni zelo di
far cadere quella supplica d’Alcibiade. Sobillarono così più
di un oratore, il quale si fece avanti a dire che Alcibiade
doveva imbarcarsi subito senza bloccare la partenza
dell’armata, mentre al suo ritorno si sarebbero stabiliti i
giorni per il processo. L’intento era di gonfiare le calunnie
accumulando indizi e prove con più comodo, nel periodo
in cui era assente, e riconvocandolo quindi in patria per
risponderne. Così si decretò che Alcibiade salpasse.
VI 26. Attenti a questi calcoli, gli Ateniesi decretarono
all’istante che gli strateghi disponessero di pieni poteri
per designare il numero preciso degli armati e perché regolassero con vantaggio dello stato e sulla base della propria competenza ogni altro particolare della spedizione.
Conclusi i preliminari, si passò ai preparativi concreti, si
diramò alla lega l’all’erta e si procedette alla mobilitazione cittadina. Atene s’era appena risollevata dalla malattia
e dalla guerra ininterrotta, mentre la tregua consentiva
l’avvento sempre più copioso di classi giovani all’età di
leva, e all’economia statale d’irrobustirsi: sicché si provvedeva con larghezza a ogni preparativo. E ferveva in tutti la volontà di prodigarsi.
VI 27. A quel punto, le Erme marmoree erette in città dagli Ateniesi (sono parecchi, secondo la tradizione locale,
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