sapere e presunzione di sapere un equivoco pericoloso

Internet ed educazione sanitaria:
sapere e presunzione di sapere un equivoco pericoloso
“L’arte lunga della cura” come efficacemente Giorgio Cosmacini definisce la
medicina nella sua declinazione clinica, sussume in sé due aspetti che la
connotano: quello nascosto del sapere (diagnosi come lettura oracolare di
sintomi e la loro ardua “interpretazione”) e quello manifesto della terapia, che,
se appropriata, conduce a guarigione.
Il conoscere la natura del male e i suoi rimedi comportava la dotazione di un
potere taumaturgico che, dall’età classica di Ippocrate ai taumaturghi di Marc
Bloch riveste di un’aura sacrale quanto mai autorevole e influente il dominio
medico.
Il prestigio e l’ascendente che ne derivano, la necessità delle sue applicazioni
e la sua intrinseca validità laddove raggiungeva i risultati sperati,
stratificarono nei secoli la sua egemonia e al contempo la sua “metasovranità”, nella sua irriducibile indipendenza poiché per sua natura si
sovrapponeva e sovrastava qualsiasi struttura politica.
Altrettanto lentamente nel trascorrere del tempo storico, andò acquisendo
metodologie e criteri che razionalizzavano in prove, fatti, teorie, spiegazioni e
numeri il proprio procedere e l’ordine delle proprie convinzioni, competenze e
pratiche, che l’emanciparsi da uno sfondo magico e suggestivo per
consolidare e consacrare il proprio statuto scientifico, non l’indebolì ma al
contrario rafforzò, in una società e in una cultura sempre più secolarizzate, il
proprio potere, temuto e indiscusso che arrivò, nelle sue derive, a oscurare,
quando non a ignorare, il rapporto medico-paziente.
L’antropologia medica si pose dal suo nascere come voce e coscienza critica
al fenomeno della disumanizzazione della medicina, dell’implicita violenza
generata dall’asimmetria di posizioni in cui la disparità necessitava di essere
colmata, per ridare un equilibrio oggettivo e concreto a scelte responsabili e
libere (pur se difficili e complesse) che spettano al paziente come soggetto
agente, informato dei rischi, della prognosi, delle alternative terapeutiche
praticabili o dell’incurabilità di talune patologie.
Un paziente non riassumibile solo nei dati biochimici, radiologici o genetici di
una cartella clinica ma calato in un contesto famigliare, sociale, lavorativo.
Con una storia biografica, generazionale e clinica, che si intersecano e hanno
necessità di espressione e indagine, che non possono essere escluse né dalla
diagnosi né dalla compliance terapeutica.
Le tematiche che sollecitarono il dibattito femminista rispetto le scelte inerenti
la fertilità e la maternità, una corporeità intesa come espressione di sé, della
propria volontà e del proprio desiderio, incrinarono un atteggiamento
paternalistico e maschilista della classe medica, rivendicando l’avocazione
soggettiva di opzioni personali e, in quanto tali, legittime e giustificate.
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La diffusione dell’AIDS con le sue implicazioni di trasmissione e gravità
riproponeva in modo drammatico i termini epidemiologici di salute pubblica e
al contempo individuale, quale il diritto alla privacy, il non subire
discriminazioni o stigma, che la natura epidemica ed esiziale della patologia
portavano con sé.
D’un tratto, nel trionfo della diagnostica sempre più sofisticata, nella
spettacolarità dei trapianti diventati interventi di routine, nelle impensate
conquiste della microchirurgia e della robotica utilizzate dalla chirurgia
mininvasiva, la medicina ritornava “fragile”, schiacciata sul contenimento
anziché sulla risoluzione, impotente all’autodistruzione violenta
dell’immunodeficienza acquisita. Lo spettro di una morte “incontrollata” e
spaventosa tornava ad agitare le nostre paure più profonde e a farci dubitare di
questa “scienza bionica”, miracolistica che tende nell’immaginario più
all’immortalità che alla salute.
Nel caso dell’AIDS, grande rilevanza assunse l’informazione per prevenirne
la diffusione, incoraggiare lo screening e monitorare con costanza l’eventuale
sieropositività.
Questo gradiente così importante in qualsiasi campagna di salute pubblica o di
promozione della salute è divenuto un fenomeno a sé stante e di difficile
gestione quando l’accesso a internet è diventato un utilizzo di massa.
Conoscere ci difende: dalle paure, dalle superstizioni, dai soprusi, dalle
manipolazioni, dalle omissioni, dall’errore.
Ma conoscere equivale a consultare Wikipedia o i blog più disparati purchè
parlino di patologie e farmaci?
Chi garantisce tali informazioni e soprattutto come assimila, comprende e
vaglia un soggetto lontano da una formazione medica appresa all’università ed
esercitata negli anni? Che idea si fa in questo modo rispetto un quadro clinico
che lo minaccia o che affligge un suo famigliare?
Quale aspettative si creano?
In quale misura si percepiscono i rischi o i possibili benefici raggiungibili?
(Aspettative e rischi non desunti dalla letteratura scientifica).
Qual è l’indice “realistico” nel considerare l’effettiva pericolosità di una
patologia supposto o accertata (indipendentemente da quanto dicano i sanitari
o i medici di famiglia)?
E ancora quanto l’accesso a internet da parte degli stessi medici di base
sostituisce un aggiornamento approfondito di una seria “formazione
permanente”?
Conoscere ci rende critici ma presumere di conoscere ci svia, ci indebolisce e
ci asserva, rendendoci vittime dell’equivoco, della mistificazione e
dell’illusione.
Non è un problema semplice con soluzioni razionali e pragmatiche. Esso va
individuato soprattutto nella sua cornice culturale e nella “rappresentazione”
sociale della medicina nelle società avanzate.
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Essa incarna aspettative elevate in virtù dell’enfasi riposta sul profilo
scientifico della disciplina, vissuta e invocata in senso “miracolistico” capace
di superare l’abisso della nostra ignoranza e incompetenza.
La natura “salvifica” che attribuiamo alla scienza e alle sue acquisizioni ci
rende acritici e irrealisti.
Peraltro i grandi interessi economici che finanziano la ricerca farmacologia e
tecnologica, in ragione degli ingenti esborsi finanziari investiti, alimentano
questa “leggenda potente” che giustifica tentativi a volte discutibili, azzardati,
pericolosi o incerti.
La parola “limite” è off limits da questo discorso, discorso che si fa dominante
quando i suoi termini investono la vita, la sua qualità, la sua durata.
E’ nel grado fra salute-non salute che la differenza più profonda e talvolta
irreversibile, si pone fra le nostre esistenze e può davvero ledere e snaturare la
struttura democratica della nostra società.
In questo discorso molti degli attori sono motivati a offrire e produrre rapporti
che non rispondono a criteri di attendibilità, verificabilità, significatività
statistica, evidenza clinica. Immettono in rete informazioni parziali,
incomplete, ambigue quando non infondate o fasulle. Ciò nondimeno assunte
da pazienti o famigliari come elementi di valutazione degli operatori sanitari o
di un servizio ospedaliero, possono scatenare reazioni avversariali di denuncia
e risarcimento che vanno a potenziare il fenomeno prodotto dalla “Medicina
difensiva”, in cui il clinico si ritrae, non tenta il possibile per salvare o
migliorare le condizioni del paziente, temendo azioni di rivalsa se l’esito non
corrisponde alle aspettative (createsi nelle modalità sovracitate).
Paradossalmente l’informazione infondata o fraintesa, acquisita da internet,
pregiudica e inficia un esercizio clinico etico, professionale e scientificamente
appropriato per paura di venire accusati da pazienti e famigliari pseudoinformati e giudicati da magistrati le cui sentenze possono essere motivate a
loro volta più da un ulteriore discutibile accesso a internet che da una CTU
affidata a periti competenti.
La scienza medica si sta orientando, nelle sue ricerche e nelle sue pratiche,
verso due filoni che la caratterizzeranno vieppiù nel tempo a venire:
l’evidence based degli outcomes ottenuti o ottenibili attraverso la
sperimentazione ed un approccio personalizzato comprendente la dotazione
genetica e gli interventi ad essa ascrivibili, la medicina narrativa che esprime
le valenze esperenziali, valoriali, famigliari, sociali e lavorative del paziente
nonché una promozione della salute che la promuova, la sostenga e la difenda
attraverso stili di vita, corrette abitudini alimentari, l’interazione psicologica in
sintonia con il contesto culturale in cui si è immersi e con quello da cui si
proviene (nei casi in cui sia diverso).
Questa prospettiva che osserva e valuta clinicamente la persona nella sua
totalità ed unicità confligge con le generalizzazioni e la massimizzazione di
cui internet rappresenta processi che negano la personalizzazione,
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convertendo nella dimensione “virtuale” accessi, presenze e pratiche
spersonalizzate.
Renderla invece uno strumento corretto quando non spersonalizzante,
coerente, accettabile e autorevole per orientare i cittadini nei labirinti delle
patologie, delle risposte terapeutiche, delle strutture sanitarie, dei centri di
eccellenza e di ricerca è la sfida cui siamo chiamati e provocati soprattutto
dalle richieste anche politiche e giuridiche, sollecitate da una “pseudo
informazione”.
La presunzione di sapere può rivelarsi in tal modo più pericolosa che
l’ignoranza (intesa nel suo senso letterale).
Il compito di curare un informazione che non sia solo conoscenza ma anche e
soprattutto educazione sanitaria intesa come pedagogia della salute,
consapevolezza di diritti e obblighi che abbiamo in primo luogo verso noi
stessi e i nostri cari e in un secondo luogo con le strutture e gli operatori
sanitari, cui nella maggior parte dei casi va riconosciuta gratitudine e non
polemica o sfida, può e deve, a mio avviso, essere svolto dall’Istituto
Superiore di Sanità, voce autorevole e istituzionale per riaffermare anche in
rete “informazione e salute” e una sempre più necessaria “informazione
salutare”.
Il Ministero della Salute e le Autorità Sanitarie devono assegnare in esclusiva
all’istituto Superiore di Sanità questa funzione rendendola pubblica e nota.
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