Effetti penali della sentenza di patteggiamento

ISSN 1125-856X
Cassazione
penale
direttore scientifico
Domenico Carcano
condirettore
Mario D’Andria
LIII - dicembre 20 13 , n° 12
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EFFETTI PENALI DELLA SENTENZA A PENA
CONCORDATA: IL PESO INSOSTENIBILE DI
UNA CONDANNA SENZA GIUDIZIO DI
COLPEVOLEZZA
di Alessandra Sanna
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CODICE DI PROCEDURA PENALE
| 1068 LA CONDIZIONE SOGGETTIVA
RICHIESTA DALL’ART. 707 C.P.
SUSSISTE NEL CASO DI SENTENZA
DI PATTEGGIAMENTO
SEZ. II - UD. 4 DICEMBRE 2012 (DEP. 19 DICEMBRE 2012), N. 49281 - PRES. ESPOSITO - REL. IASILLO
- P.M. POLICASTRO (CONCL PARZ DIFF.) - (255233)
PATTEGGIAMENTO - Possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli - Condizione
soggettiva di persona già condannata - Precedente sentenza di patteggiamento - Sussistenza
della condizione.
(C.P. ART. 707; C.P.P ART. 444)
La condizione soggettiva di persona condannata per delitti determinati da motivi di lucro,
ricorrendo la quale è configurabile il reato di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di
grimaldelli, sussiste anche quando l’autore ha come unico precedente una sentenza di “patteggiamento”.
Con sentenza del 31 ottobre 2011, la Corte di appello di Ancona – dopo aver chiesto il parere del
Procuratore Generale – dichiarava, de plano, non doversi procedere nei confronti di N.R. per
essere il reato di cui all’art. 707 c.p. estinto per intervenuta prescrizione (in primo grado l’imputato era stato condannato a mesi 6 di arresto).
Avverso la predetta sentenza ricorre il difensore dell’imputato sostenendone la nullità assoluta: 1) per violazione del principio del contraddittorio, in quanto l’imputato e il suo difensore non
hanno potuto interloquire per evidenziare le ragioni per le quali si poteva arrivare ad un’assoluzione nel merito; 2) che nel caso di specie risulta dalla stessa sentenza della Corte di appello che
non sussistono i presupposti per ritenere l’imputato responsabile del reato di cui all’art. 707 c.p.;
infatti le precedenti condanne del N.R. per reati contro il patrimonio – elemento essenziale per
la sussistenza del predetto reato – sono state inflitte con sentenza di patteggiamento e tale sentenza è solo equiparata ad una sentenza di condanna quanto agli effetti e la condizione soggettiva di già condannato non è un mero effetto della condanna.
Conseguentemente la contravvenzione di cui all’art. 707 c.p. non sussisterebbe. Dunque in
questo caso la stessa Corte di cassazione potrebbe applicare l’art. 129, comma 2, c.p.p. e annullare senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
Il ricorrente conclude, pertanto, per l’annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza perché il fatto non sussiste e in subordine per l’annullamento con rinvio per violazione del contraddittorio.
M O T I V I D E L L A D E C I S I O N E - Il ricorso è fondato, nei termini che seguono.
È certo, nella fattispecie, che la Corte distrettuale ha deliberato la sentenza impugnata de
plano, quindi prima della trattazione del processo in udienza e senza alcuna interlocuzione dell’imputato e del suo difensore. Sussiste pertanto la nullità assoluta dedotta dal ricorrente, per violazione del contraddittorio, rilevabile in ogni stato e grado del giudizio e comunque in concreto
dedotta tempestivamente. È altrettanto certo che il reato per cui si procede è estinto per prescrizione – circostanza non contestata nello stesso ricorso – e che non vi è stata alcuna rinuncia del
ricorrente alla sopravvenuta causa estintiva, neppure all’interno dell’atto di ricorso (primo atto
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con cui la parte privata si rivolge all’autorità giudiziaria dopo l’intervenuta prescrizione e che,
pertanto, può e deve contenere tale eventuale rinuncia: da ultimo, anche Sez. un., sentenza n.
43055 del 30 settembre 2010 Ud. – dep. 3 dicembre 2010 – rv. 248379).
La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente insegnato, con riferimento alla fattispecie astratta oggetto del ricorso, che, quando la Corte d’appello procede de plano alla deliberazione di prescrizione, la sentenza deve essere annullata. Invero, la sentenza con la quale la Corte
d’appello dichiari “de plano” prima del dibattimento l’estinzione del reato, oltre ad essere affetta
da nullità assoluta di ordine generale in quanto incidente sull’intervento e assistenza dell’imputato, non è nemmeno giustificata dall’art. 129 c.p.p., la cui prescrizione dell’obbligo di dichiarare
immediatamente la sussistenza di una causa di non punibilità può operare in relazione ad un
giudizio in senso tecnico e non anche per la fase predibattimentale. La Corte costituzionale (con
la sentenza 249/1989) allerta, poi, sulla peculiarità della nullità assoluta per violazione del contraddittorio, che caratterizza la sentenza d’appello deliberata de plano in presenza della prescrizione del reato: poiché la cognizione ex art. 129 c.p.p. della Corte di cassazione è limitata al contenuto delle sentenze e degli atti di impugnazione, mentre quella del giudice d’appello si estende al contenuto di tutti gli atti del processo di primo grado – sicché radicalmente diversa è la fonte
dell’evidenza di una causa di proscioglimento nel merito – sussiste l’interesse dell’imputato alla
pronuncia in contraddittorio del giudice del merito, perché le ragioni del proscioglimento ex art.
129 c.p.p. che potrebbero essere dedotte davanti allo stesso giudice del merito sono più ampie, e
qualitativamente diverse, da quelle conoscibili dal giudice di legittimità. Pervenendo, allora, alla
conclusione, ancorché non costituisca provvedimento abnorme, la sentenza ex art. 129 c.p.p. deliberata dalla Corte d’appello prima dell’udienza è affetta da nullità assoluta per una violazione
radicale del contraddittorio che è caratterizzata da due peculiarità: da un lato, è conseguenza
diretta dell’essere stata deliberata al di fuori della fase processuale, con un esercizio scorretto del
potere di giudizio, che pur sussiste e permane, e, dall’altro, per sè determina l’interesse dell’imputato alla sua dichiarazione, nonostante l’intervenuta prescrizione, ad essa inevitabilmente conseguendo la decisiva restrizione dei parametri di cognizione della valutazione ex art. 129, comma
2, c.p.p.
Conseguentemente va ribadito il principio di diritto che anche in presenza della prescrizione
del reato, sussiste l’interesse dell’imputato alla dichiarazione di nullità della sentenza d’appello,
che abbia deliberato “de plano” l’improcedibilità del reato, perché solo il giudice del merito può
valutare la sussistenza delle condizioni per il proscioglimento ai sensi dell’art. 129, comma 2,
c.p.p. con riferimento al contenuto di tutti gli atti del processo (Sez. VI, sentenza n. 24062 del 10
maggio 2011 Cc. – dep. 15 giugno 2011 – rv. 250499; Sez. II, sentenza n. 47432 del 25 novembre
2009 Ud. – dep. 14 dicembre 2009 – rv. 246796).
Il difensore del ricorrente e il Procuratore Generale ritengono, poi, che questa Corte potrebbe giungere ad un annullamento senza rinvio perché dagli atti processuali emerge in modo evidente che il fatto non sussiste e, quindi, si deve applicare l’art. 129, comma 2, c.p.p.
Le parti giungono a tale conclusione sulla base di quanto affermato da due sentenze di questa Corte nelle quali si afferma che non si configura, per difetto della condizione soggettiva di
persona condannata per delitti determinati da motivi di lucro, il reato di possesso ingiustificato
di chiavi alterate o di grimaldelli se l’autore ha come unico precedente una sentenza di patteggiamento per un tentativo di furto, in quanto la sentenza di patteggiamento non è una sentenza
di condanna ma a questa è solamente equiparata quanto agli effetti, e tra gli effetti non rientra
l’assunzione della condizione di persona già condannata (Sez. II, sentenza n. 21423 del 5 maggio
2006 Ud. – dep. 20 giugno 2006 – rv. 234342; Sez. II, sentenza n. 1365 del 24 novembre 2010, non
massimata; e secondo il ricorrente – anche se solo implicitamente – dalla Sez. II, sentenza n.
21544 del 6 maggio 2008).
Quanto richiesto dal difensore del ricorrente e dal P.G. non è, però, accoglibile, perché questo
Collegio non condivide i motivi che giustificano le decisioni sopra citate. L’esame delle ragioni
esposte nelle predette sentenze riguarderà, in effetti, solo quelle contenute nella sentenza del
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2006 n. 21423. Infatti, nella sentenza n. 1365 del 2010 si ripete solo il principio di diritto fissato
con la sentenza del 2006 in modo del tutto acritico; e nella sentenza n. 21544 del 2008 – che secondo il difensore del ricorrente confermerebbe implicitamente il principio delle due predette sentenze – in relazione alla contestazione della mancanza di precedenti condanne per delitti determinati da motivi di lucro si afferma solo che: «… dall’esame del certificato penale in atti, da cui
risultano (oltre alla sentenza di patteggiamento) precedenti sentenze irrevocabili di condanna in
relazione (tra l’altro) ai reati di detenzione e cessione illecite di sostanze stupefacenti; donde la
ricorrenza del presupposto del reato di cui all’art. 707 c.p., rappresentato dall’esistenza anche di
una sola condanna per delitto determinato da “motivi di lucro”. Invero il tenore letterale della
norma è di tale ampiezza da riferirsi non solo ai delitti contro il patrimonio, ma a tutti i delitti in
cui il fine di lucro operi come uno dei motivi più o meno remoti del reato». È evidente che la frase
“oltre la sentenza di patteggiamento” (non viene specificato neppure per quale tipo di reato) non
esplicita se il Collegio abbia ritenuto tale sentenza rilevante o meno al fine della configurazione
della contravvenzione di cui all’art. 707 c.p.; e nel caso non ne avesse tenuto conto il perché (ad
esempio: reato non determinato da motivi di lucro).
Tanto premesso si deve osservare, preliminarmente, come risulti evidente che la sentenza n.
21423 del 2006 segua solo i principi di diritto fissati da questa suprema Corte e dalla Corte costituzionale prima delle varie modifiche apportate dal Legislatore all’istituto dell’applicazione della
pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento); è sufficiente, a tal proposito, constatare le date
delle decisioni richiamate a pagina 2 della predetta sentenza. Si può, ora, entrare nell’esame specifico della sentenza n. 21423 del 2006. In essa si afferma che la condizione personale indicata
nell’art. 707 c.p. di essere stato condannato per delitti determinarti da motivi di lucro non può
essere ravvisata per il soggetto che ha come precedente un’applicazione di pena su richiesta
delle parti. Si individua, poi, la norma sulla quale si poggia la suddetta affermazione – art. 445
c.p.p., comma 1-bis, così come modificato dalla l. n. 134 del 2003 –, che dispone: «salve diverse
disposizione di legge, la sentenza (ex art. 444 c.p.p.; nds.) è equiparata a una pronuncia di condanna». Nella sentenza del 2006, di cui sopra, si evidenzia che su tale articolo si sono pronunciate recentemente le Sezioni unite (Sez. un., sentenza n. 17781 del 29 novembre 2005 Cc. – dep.
23 maggio 2006 – rv. 233518) e si sottolineano correttamente alcuni principi enunciati dalle medesime Sezioni unite (ad esempio: l’ineludibile unitarietà dell’istituto regolato dagli artt. 444 ss.
c.p.p.) che hanno affermato, infine, che la sentenza di patteggiamento, in ragione dell’equiparazione legislativa ad una sentenza di condanna in mancanza di un’espressa previsione di deroga,
costituisce titolo idoneo per la revoca, a norma dell’art. 168, comma 1, n. 1, c.p. della sospensione
condizionale della pena precedentemente concessa. Con questo richiamo si conclude l’esame
della motivazione delle Sezioni unite effettuato nella sentenza di questa Corte n. 21423 del 2006;
sentenza questa che ha, con evidenza, ritenuto che i principi fissati dalle Sezioni unite confermassero quelli della consolidata giurisprudenza di questa Corte – formatasi prima delle varie
modifiche dell’istituto del “patteggiamento” – citati a pagina 2 e di cui si è già detto in premessa.
Infatti, nella motivazione – a pagina 2, appunto – subito dopo l’enunciazione del principio delle
Sezioni unite relativo alla sospensione condizionale, di cui sopra, si afferma «questa Corte rileva, poi, che la costante giurisprudenza di legittimità …» e si richiamano proprio quelle decisioni
(ad esempio: Sez. un., sentenza n. 11 del 08 maggio 1996 Cc. – dep. 4 giugno 1996 – rv. 204826 imp.
Da Leo; Sez. un., sentenza n. 3600 del 26 febbraio 1997 Ud. – dep. 18 aprile 1997 – rv. 207245 imp.
Bahrouni; Sez. un., sentenza n. 31 del 22 novembre 2000 Ud. – dep. 3 maggio 2001 – rv. 218526,
imp. Sormani) che sono state esaminate, criticate e superate dalla sentenza delle Sezioni unite n.
17781 del 29 novembre 2009. D’altronde un’ulteriore conferma di quello che si è sopra affermato si ricava dal fatto che nella sentenza n. 21423 del 2006 non si rinviene neppure un superficiale esame di cosa volessero dire le Sezioni unite allorché hanno stabilito – ciò che, tra l’altro, viene
riportato a p. 2 della sentenza 21423/2006 – che «il regime di equiparazione, ora codificato alla
stregua della normativa complementare più volte menzionata, non consente di rifuggire dall’applicazione di tutte le conseguenze penali della sentenza di condanna che non siano categorica-
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mente escluse»; né si affronta la questione del perché la sentenza di patteggiamento costituisca
titolo idoneo per la revoca, a norma dell’art. 168, comma 1, n. 1, c.p. della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa e non possa costituire, invece, valido presupposto per
ritenere sussistente la contravvenzione di cui all’art. 707 c.p.. L’esame della sentenza di questa
Corte n. 21423 del 2006 si conclude, quindi, con l’affermazione del principio di diritto di cui alla
massima sopra evidenziata.
Orbene, gli argomenti posti a sostegno della decisione di questa Corte n. 21423 del 2006 non
giustificano, certo, la rivisitazione del principio di diritto posto dalle Sezioni unite; principio confermato, tra l’altro, in modo costante dalla successiva giurisprudenza di questa Corte di cassazione. Invero, come si è già accennato, nella decisione di cui sopra non si critica nessuno degli argomenti sostenuti dalle Sezioni unite ed anzi si ritiene, erroneamente, che le stesse Sezioni unite,
con la sentenza n. 17781 del 29 novembre 2009, abbiano confermato l’indirizzo giurisprudenziale precedente. Questo Collegio, invece, condivide pienamente il lungo iter argomentativo della
sentenza delle Sezioni unite che esaminano criticamente le motivazioni delle 3 precedenti decisioni delle stesse S.U. (proprio quelle citate a conforto della decisione sull’art. 707 oggetto dell’odierno esame critico) alla luce anche delle varie e rilevanti novelle all’istituto del patteggiamento a partire da quelle del 1999 per finire a quella della l. n. 134 del 2003. È proprio in base a ciò
che, poi, affermano che la sentenza emessa all’esito della procedura di cui agli artt. 444 c.p.p. e
segg. poiché è, ai sensi dell’art. 445, comma 1-bis, equiparata, salvo diverse disposizioni di legge
(che non vi sono per la revoca della sospensione condizionale, così come non vi sono per escludere che la condanna di patteggiamento costituisca il presupposto per la sussistenza del reato di
cui all’art. 707 c.p.), ad una pronuncia di condanna costituisce titolo idoneo per la revoca, a norma
dell’art. 168, comma 1, n. 1, c.p. della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa (si vedano: Sez. un., sentenza n. 17781 del 29 novembre 2005 Cc. – dep. 23 maggio 2006 – rv.
233518, Conf. a Sez. un., 29 novembre 2005, n. 17782/06, Duduman, non massimata; si vedano Sez.
IV, sentenza n. 2987 del 22 novembre 2007 Ud. – dep. 21 gennaio 2008 – rv. 238667;Sez. I, sentenza n. 43158 del 23 ottobre 2008 Cc. – dep. 19 novembre 2008 – rv.242415; Sez.VI, sentenza n. 10094
del 25 febbraio 2011 Ud. – dep. 11 marzo 2011 – rv. 249642).
In particolare le Sezioni unite sono giunte a questa conclusione all’esito di una diffusa analisi delle mutazioni subite dall’istituto del patteggiamento, quali ad esempio: la novella che ha
attinto l’art. 653 c.p.p. in forza della l. n. 97 del 2001, attribuendo alla sentenza di patteggiamento
l’efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare (si veda, in proposito, anche la sentenza della
Corte costituzionale n. 394 del 2002); le novelle normative introdotte con la l. n. 134 del 2003 sul
c.d. patteggiamento allargato, che ha rimodulato il rito alternativo con le previsioni dell’applicabilità della misura della confisca c.d. facoltativa e della possibilità di revisione per ogni sentenza
di patteggiamento.
Non si deve, poi, dimenticare che varie decisioni di questa Corte riconoscevano – già prima
delle riforme dell’istituto del patteggiamento;
– che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti è equiparata ad una pronuncia di condanna, e tale equiparazione rende possibili gli effetti concernenti la contestazione
della recidiva e la valutazione della sentenza ex art. 444 c.p.p. ai fini dell’ammissione alla sostituzione della pena detentiva, secondo quanto disposto dalla l. 24 novembre 1981, n. 689, art. 59 (Sez.
3, sentenza n. 7939 del 4 giugno 1998 Ud. – dep. 7 luglio 1998 – rv. 211684; Sez. IV, sentenza n. 11225
del 15 giugno 1999 Ud. – dep. 29 settembre 1999 – rv. 214770).
Proprio per quanto sopra evidenziato le Sezioni unite concludono affermando la necessità di un
ritorno al regime della equiparazione della sentenza di patteggiamento a quella di condanna in termini di assoluto rigore ermeneutico. Una tale conclusione, peraltro, non implica un processo di vera
e propria identificazione tra i due tipi di pronuncia, ma sta univocamente a significare che il regime di equiparazione, ora codificato alla stregua della normativa complementare più volte menzionata, non consente di rifuggire dall’applicazione di tutte le conseguenze penali della sentenza di
condanna che non siano categoricamente escluse. E sul punto la Corte costituzionale;
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– dopo aver evidenziato i condivisi motivi che hanno portato le Sezioni unite ad affermare il
principio di diritto di cui sopra (Sez. un., 29 novembre 2005, n. 17781/06) – ha rilevato che «spetta dunque al Legislatore, in questa prospettiva, prescegliere, nei confini che contraddistinguono
il normale esercizio della discrezionalità legislativa, quali siano gli effetti che – in deroga al principio “di sistema” che parifica le due sentenze – diversificano, fra loro, la sentenza di condanna
pronunciata all’esito del patteggiamento rispetto alla condanna pronunciata all’esito del giudizio
ordinario. Una logica, dunque, del tutto antitetica rispetto a quella presupposta dal Collegio
rimettente (che sembra essere anche quella seguita nella sentenza di questa Corte n. 21423 del
2006, oggetto di critica; nds), il quale, invece, muove dalla erronea tesi di ritenere che gli effetti
del patteggiamento debbano “ontologicamente” differenziarsi da quelli della sentenza ordinaria,
salvo le deroghe -espressamente previste – che “assimilino” le conseguenze derivanti dai due tipi
di pronunce» (sentenza della C. cost. n. 336 del 14 dicembre 2009; con tale sentenza la Corte
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 445, comma 1-bis, c.p.p. e
art. 653, comma 1-bis, c.p.p. sollevata, in riferimento all’art. 3, comma 2, art. 24, comma 2, e art.
111, comma 2). Si deve, infine, ricordare che nella stessa sentenza della Corte costituzionale n.
336 del 2009 si afferma che la scelta del patteggiamento rappresenta un diritto per l’imputato –
espressivo, esso stesso del più generale diritto di difesa (si veda, al riguardo, l’excursus contenuto nella ordinanza della stessa C. cost. n. 309 del 2005) – al quale si accompagna la naturale accettazione di tutti gli effetti – evidentemente, sia favorevoli che sfavorevoli – che il legislatore ha tassativamente tracciato come elementi coessenziali all’accordo intervenuto tra l’imputato ed il
pubblico ministero ed assentito dalla positiva valutazione del giudice.
Da tutto quanto sopra esposto appare, quindi, evidente che la domanda – sul significato e la
valenza di quanto affermato dalle Sezioni unite – che non si è posta la sentenza di questa Corte
n. 21423 del 2006 trova una risposta chiara nella stessa decisione delle Sezioni unite n. 17781/06.
In particolare che la sentenza di patteggiamento, in ragione dell’equiparazione legislativa ad una
sentenza di condanna, in mancanza di un’espressa previsione di deroga, costituisce titolo idoneo
per la revoca, a norma dell’art. 168, comma 1, n. 1, c.p. della sospensione condizionale della pena
precedentemente concessa. Quindi se non vi è un’espressa deroga, fissata esclusivamente per
legge, gli effetti della sentenza di condanna pronunciata all’esito del patteggiamento sono eguali a quelli della sentenza di condanna pronunciata all’esito del giudizio ordinario. Non è un caso
che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 336 del 2009, citata, parli di «principio di sistema che
parifica le due sentenze», che può essere derogato solo da una legge che di volta in volta individui gli effetti che non possono discendere dalla sentenza di condanna pronunciata all’esito del
patteggiamento. Da ciò discende, con evidenza, che poiché nessuna norma prevede che la sentenza di condanna pronunciata all’esito del patteggiamento non debba essere considerata il presupposto (precedente condanna per delitto motivato da lucro) della contravvenzione di cui
all’art. 707 c.p., è chiaro che, nel caso di specie, tale reato sussiste in forza del seguente principio
di diritto: la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento)
costituisce – come una sentenza di condanna pronunciata all’esito del giudizio ordinario – il presupposto dell’essere stato condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio previsto dall’art. 707 c.p.
Pertanto la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte
di appello di Ancona per un nuovo giudizio.
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DI COLPEVOLEZZA
Sanctionative effects of sentence upon request: the untenable weight of a sentence
without judgement
Sul solco dell’indirizzo inaugurato dalle Sezioni unite nel 2005, che avvalorò la stretta interpretazione della
clausola dell’equivalenza ex art. 445, comma 1-bis, c.p.p., la giurisprudenza prosegue nell’espandere gli effetti sanzionatori ricollegabili alla pronuncia applicativa della pena su richiesta, senza, peraltro, mutare orientamento circa la natura acognitiva della medesima pronuncia. Le riflessioni al riguardo corrono lungo un duplice binario: se, da un lato, sembra aggravarsi la ferita inferta al dettato costituzionale dal divario crescente tra
poena e iudicium, dall’altro ci si interroga sull’opportunità di una simile scelta, destinata a sminuire l’appetibilità del rito negoziale e, quindi, a tradire le esigenze deflative ad esso sottese.
In the wake of the decision of the plenary session of the Court of cassation in 2005, which corroborated the narrow interpretation
of the clause of equivalence of art. 445 paragraph 1-bis c.p.p, the case law continues to expand the sanctionative effects that may
be linked to the enforcement of the sentence pronounced upon request, without, however, changing its mind about the nature of
the same decision. The reflections run along a dual binary: on the one hand, if the widening gap between poena and iudicium
seems to worsen the wound to the Constitution; on the other hand, if such a choice, meant to decrease the attractiveness of this
proceeding and, therefore, to betray the underlying purpose to reduce the workload of the courts, may be advisable.
(Traduzione in inglese a cura dell’Autrice)
Sommario 1. La questione. — 2. L’efficacia riflessa della sentenza penale: le ipotesi configurabili. — 3. La pronuncia di condanna come elemento costitutivo di fattispecie sostanziali: l’indefettibilità dell’accertamento
sulla colpevolezza. — 4. Il nesso tra natura ed effetti penali della sentenza di patteggiamento nel primo indirizzo delle Sezioni unite. — 5. La svolta della Cassazione e l’inconsistente impatto sul profilo cognitivo della
pronuncia ex art. 444 c.p.p. — 6. Le implicazioni del nuovo indirizzo: lo stravolgimento dei meccanismi sanzionatori ad opera della legge processuale.
1. LA QUESTIONE
La decisione in esame, nel confermare un trend costante nell’ultima giurisprudenza,
espande gli effetti della pronuncia applicativa della pena concordata, incanalandosi
senza tentennamenti lungo il percorso tracciato dalle Sezioni unite fin dal 2005, allorché riconobbero l’idoneità della sentenza ex art. 445 c.p.p. a costituire titolo per la
revoca della sospensione condizionale della pena nell’ipotesi prevista dall’art. 168,
comma 1, n. 1, c.p. (1). Dopo avere condiviso gli argomenti posti a sostegno dell’indirizzo in discorso e, in particolare, «la necessità di un ritorno al regime della equiparazione della sentenza di patteggiamento a quella di condanna in termini di assoluto rigore ermeneutico», i giudici di legittimità ne sottoscrivono pure le conclusioni: tale regi-
di
Alessandra
Sanna
—
Ricercatore
Università degli Studi
di Firenze
(1) Cfr. Sez. un., 29 novembre 2005, n. 17781, Diop
Oumar, in questa rivista, 2006, p. 2769.
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me «non consente di rifuggire dall’applicazione di tutte le conseguenze penali della
sentenza di condanna che non siano categoricamente escluse». Segue il corollario per
cui la pronuncia a pena concordata vale a perfezionare la fattispecie ex art. 707 c.p.,
ben integrando la condizione ivi richiesta dell’essere stato il colpevole condannato
per delitti determinati da motivi di lucro (2).
Le riflessioni cui sollecita la sentenza in commento si spingono oltre il principio
di diritto enunciato, estendendosi alle implicazioni sistematiche derivanti dal peso
sanzionatorio via via crescente assegnato ad una decisione che – stando all’indirizzo tuttora maggioritario nella giurisprudenza (3) – non esprime un giudizio di colpevolezza. Si osservi, infatti, come l’equiparazione alla sentenza di condanna riconosciuta dalle Sezioni unite operi in via esclusiva sul piano degli effetti senza, peraltro, alterare l’asserita natura acognitiva della sentenza patteggiata. In tal modo la
carica “eversiva” del tessuto costituzionale, già racchiusa negli indirizzi coltivati
dalla giurisprudenza in materia (4), s’accresce a dismisura. La stretta interpretazione della clausola di equivalenza ex art. 445, comma 1-bis, c.p.p., comporta che una
condanna sine iudicio potenzi la sua forza afflittiva nei confronti dell’imputato, così
accentuando il divario rispetto ai classici capisaldi del sistema penale. Per comprendere appieno l’entità del vulnus occorre indagare sugli effetti giuridici tipici
della decisione di condanna, a partire dagli ambiti e dalle forme in cui essi si manifestano.
2. L’EFFICACIA RIFLESSA DELLA SENTENZA PENALE: LE
IPOTESI CONFIGURABILI
Un classico criterio classificatorio, mutuato dagli studi civilistici, s’impernia sulla
dimensione dell’efficacia della sentenza, per distinguerne una diretta, ovvero contenuta entro i limiti della regiudicanda, ed una riflessa, perché capace di operare al di
fuori del perimetro segnato dall’oggetto della controversia. La distinzione, dunque,
«non tanto corre sul filo della differenza tra parti e terzi quanto tra res in iudicium
deducta e res extra iudicium». Ne deriva che si può discorrere di un’efficacia riflessa
della sentenza, non solo nei confronti dei terzi rimasti estranei al processo, ma pure
rispetto alle stesse parti processuali (5).
(2) Ci si discosta così da una precedente presa di
posizione: cfr. Sez. II, 5 maggio 2006, n. 21423, in Dir.
pen. proc., 2006, p. 1223.
(3) Emblematiche al riguardo: Sez. un., 8 maggio
1996, n. 11, De Leo, in Dir. pen. proc., 1996, p. 1228 ss.,
con nota di PERONI; Sez. un., 26 febbraio 1997, n.
3600, Bahrouni, ivi, 1997, p. 1485, con nota di
TREVISSON LUPACCHINI; Sez. un., 22 novembre 2000, n.
31, Sormani, in questa rivista, 2001, p. 2998.
(4) Definisce il patteggiamento come rito “dal
carattere intrinsecamente eversivo” del modello
processuale delineato dalla Costituzione: GIALUZ, La
virata delle Sezioni unite in tema di patteggiamento e
revoca della sospensione condizionale: verso l’abbandono dell’orientamento anticognitivo?, in Riv. it. dir. e
proc. pen., 2007, p. 393. Esprime un’analoga opinio-
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ne, non dubitando che il meccanismo in discorso
«presenti caratteristiche stridenti rispetto a taluni
valori fondamentali del processo»: SCELLA,
Patteggiamento, consenso per la prova e consenso dell’imputato, in Eccezioni al contraddittorio e giusto
processo. Un itinerario attraverso la giurisprudenza, a
cura di Di Chiara, Giappichelli, 2009, p. 121.
(5) Onde «i così detti limiti della cosa giudicata
sono veramente implicati in un limite oggettivo, che
è segnato dai contorni della lite». Ne deriva che «non
tanto l’efficacia diretta è efficacia in confronto delle
parti e l’efficacia riflessa nei confronti dei terzi
quanto la prima è efficacia intra litem e la seconda
extra litem» (CARNELUTTI, Efficacia diretta e riflessa
del giudicato penale, in Riv. dir. proc., 1948, vol. III,
parte I, p. 2).
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Quanto al contenuto, l’efficacia riflessa si traduce nella necessità di adattarsi alle
conseguenze giuridiche dell’accertamento giudiziale: dalla sentenza deriva, infatti, un
giudizio vincolante in ordine al presupposto di una situazione giuridica, altra e diversa rispetto a quella che ha costituito oggetto del processo (6).
Sul piano normativo un simile vincolo si produce in un duplice modo: può accadere, anzitutto, che il legislatore includa tra gli elementi costitutivi di una fattispecie
sostanziale l’esistenza di un reato, preso in considerazione come entità autonoma
rispetto alla pronuncia che lo accerti in sede penale. In tal caso gli effetti della fattispecie in discorso non risultano condizionati da un pregresso accertamento giudiziale dell’illecito.Tuttavia, il giudizio penale e la pronuncia che lo conclude, benché estranei alla struttura della fattispecie sostanziale, possono pur sempre condizionarne gli
effetti qualora intervenga una norma processuale che disponga in tal senso. È il codice di rito a stabilire che in taluni casi l’accertamento del reato ad opera del giudice
civile, amministrativo o disciplinare si compia sulla base dei risultati già conseguiti ad
opera dell’omologo penale (7). Qui l’efficacia della sentenza penale si proietta fuori dai
confini dell’originaria res judicanda in virtù di una norma processuale. Perché il vincolo si produca la decisione deve, però, assumere carattere definitivo: solo l’autorità di
giudicato consente alla sentenza di imporsi positivamente in ordine a differenti regiudicande.
Esempio tipico della situazione ora descritta è l’ipotesi ex art. 185 c.p., dove l’esistenza del reato funge da presupposto dell’obbligazione risarcitoria da far valere in
sede civile, a prescindere dalla sentenza penale che lo accerti. È il codice di rito che,
attraverso norme apposite – si allude agli artt. 651 e 652 c.p.p. – vincola la cognizione
civile al pregresso accertamento penale, realizzando quel pre-giudizio – nel senso letterale del termine (8) – in cui consiste l’efficacia riflessa.
Da questo punto di vista gli artt. 651 ss. c.p.p. rappresentano congegni normativi
tramite i quali la sentenza penale irrevocabile produce effetti di natura costitutiva su
regiudicande extrapenali (9). Si mira, in altre parole, a limitare l’esercizio del potere
decisorio dei giudici civile, amministrativo e disciplinare, «obbligandoli a considerare
immodificabili determinati accertamenti compiuti dal giudice penale» (10). È questa
(6) Lo precisa con incomparabile chiarezza:
CARNELUTTI, Efficacia diretta, cit., p. 3. Descrive, viceversa, il “fenomeno di c.d. riflessione” del giudicato
penale come «possibilità che gli effetti della cosa
giudicata si comunichino ai terzi»: DE LUCA, I limiti
soggettivi della cosa giudicata penale, Giuffrè, 1963, p.
166.
(7) Si giunge così a distinguere, nell’ambito dei
rapporti tra processi, «la rilevanza delle situazioni
sostanziali dalla rilevanza dei provvedimenti che ad
esse si riferiscono»: v. ZUMPANO, Rapporti tra processo civile e processo penale, Giappichelli, 2000, p. 46.
La distinzione era già chiara a DE LUCA (I limiti soggettivi, cit., p. 194), il quale, nel classificare alla stregua di efficacia riflessa le ipotesi in cui la condanna
rientrasse all’interno di una fattispecie prevista
dalla legge civile, chiariva che l’effetto giuridico di
una simile fattispecie si sarebbe in tali casi prodotto
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«direttamente, senza risalire alla efficacia della cosa
giudicata».
(8) Dove si allude al significato di giudizio “non sul
diritto”, ma “su un presupposto del medesimo”:
CARNELUTTI, Efficacia diretta, cit., p. 3.
(9) Se la regola del ne bis in idem esaurisce l’efficacia diretta del giudicato, il codice di rito prevede
strumenti in virtù dei quali la sentenza penale irrevocabile esercita un vincolo positivo, sia su altre
regiudicande penali (art. 238-bis c.p.p.), sia su procedimenti extrapenali (artt. 651 ss. c.p.p.): cfr. sul punto,
NORMANDO, Il valore, gli effetti e l’efficacia del giudicato penale, in Trattato di procedura penale, a cura di
Spangher, vol. VI, Esecuzione e rapporti con autorità
giudiziarie straniere, a cura di Kalb, Utet, 2009, p. 55.
(10) Sintetizza efficacemente la portata del vincolo: CHIAVARIO, voce Giudizi (rapporti tra), in Enc. dir.,
vol. XVIII, Giuffrè, 1969, p. 984.
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l’efficacia riflessa del giudicato, inevitabilmente legata al contenuto cognitivo della
decisione (11).
Diverso è il discorso riguardo alle ipotesi in cui gli effetti riflessi della sentenza si
trasmettono in virtù, non già di una norma del codice di rito, bensì di una fattispecie
di diritto sostanziale che includa tra i suoi elementi costitutivi l’atto decisorio del giudice penale. In tal caso non è l’esistenza del reato, ma la decisione che lo accerta a
risultare inscritta nella fattispecie sostanziale, contribuendo a delinearne la struttura (12).
Rientrano in un simile quadro talune previsioni proprie del diritto penale sostanziale. Sono le norme regolatrici degli effetti penali della sentenza di condanna, intesi nel significato di conseguenze sanzionatorie – ergo, sfavorevoli per il condannato
– di natura eventuale ma derivanti ipso jure dal giudizio di colpevolezza (13). Si accede, così, ad una nozione ristretta della categoria degli effetti penali (14), imperniata su
modalità operative comuni, rappresentate dai caratteri della non immediatezza e
della mera eventualità applicativa (15). Emerge, a tal punto, l’elemento distintivo
(11) Trattasi di fattispecie processuali «in cui è
chiara la necessità di attingere alla valenza positiva
della cosa giudicata», la cui previsione rivela «l’insufficienza di ogni dogmatica che individui nel ne bis
in idem l’unico effetto» del giudicato penale: così
MANCUSO, Il giudicato nel processo penale, in Trattato
di procedura penale, diretto da Ubertis-Voena, vol.
XLI.1, Giuffrè, 2012, p. 125 e, nel medesimo senso,
MARZADURI, voce Questioni pregiudiziali (dir. proc.
pen.), in Enc. dir., vol.VI Agg., Giuffrè, 2002, p. 916 ss.
(12) Dove la pronuncia di condanna concorre
direttamente a formare la fattispecie, «non occorre
una norma espressa che preveda l’estensione dell’efficacia del giudicato rispetto ad altri giudizi» (DE
LUCA, I limiti soggettivi, cit., p. 192). Per un’ analoga
ricostruzione cfr. ZUMPANO, Rapporti, cit., p. 47.
(13) La dottrina concorde individua nell’operatività di diritto – capace di rendere superfluo il provvedimento dispositivo del giudice – il tratto essenziale della categoria: cfr., fra gli altri, LARIZZA, voce
Effetti penali della sentenza di condanna, in Dig. d.
pen., vol. IV, Utet, 1990, p. 2013; MANTOVANI, Diritto
penale, Cedam, 2007, p. 775; PALAZZO, Corso di diritto
penale. Parte generale, Giappichelli, 2008, p. 574;
PULITANÒ, Diritto penale, Giappichelli, 2007, p. 535.
(14) In assenza di una espressa definizione normativa, non vi è accordo in dottrina sul significato da
attribuire alla categoria degli effetti penali. Il punto
controverso attiene all’ambito operativo: ci si chiede
se gli effetti penali siano capaci di incidere anche in
ambiti giuridici diversi da quelli di diritto penale.
Molte leggi extrapenali ricollegano, infatti, alla condanna il divieto di accesso ai pubblici concorsi o
quello di ottenere licenze e autorizzazioni e così via.
Parte della dottrina privilegia la tesi restrittiva, in
omaggio al principio del favor rei che risulterebbe
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disatteso da una lettura estensiva del dato testuale:
del resto, l’art. 20 c.p. non parla di effetti della condanna penale, ma di effetti penali della condanna
(cfr., in tal senso, CANESTRARI-CORNACCHIA-DE
SIMONE, Manuale di diritto penale. Parte generale, il
Mulino, 2007, p. 837; MARINUCCI-DOLCINI, Manuale di
diritto penale. Parte generale, Giuffrè, 2007, p. 503;
PALAZZO, Corso di diritto penale, cit., p. 575).Altri propendono per l’orientamento opposto, nell’intento di
allargare le garanzie prettamente penali ad una congerie di conseguenze pregiudizievoli discendenti
dalla sentenza di condanna che ne sarebbero altrimenti prive: v. CERQUETTI, Gli effetti penali della condanna, Cedam, 1990, p. 60; LARIZZA, voce Effetti penali, cit., p. 208. In questa prospettiva «l’effetto mutua la
propria natura penale, non tanto dal terreno su cui
dovrà operare … quanto dallo specifico carattere
della decisione dalla quale esso origina: vale a dire,
l’effetto della condanna è penale perché nasce da
una condanna penale»: così FRISOLI, voce Effetti
penali della sentenza di condanna, in Enc. dir., vol.
XIV, Giuffrè, 1965, p. 411. Su tali posizioni si attesta
pure la giurisprudenza: v. Sez. un., 20 aprile 1994,
Volpe, in Giur. it., 1995, II, c. 424.
(15) Simile nozione considera la specie di effetti
penali che incidono su situazioni giuridiche soggettive del condannato in un momento successivo alla
condanna, mentre non include l’altra specie di effetti penali, capaci di incidere su tali situazioni giuridiche fin dal momento della condanna e, quindi, privi
del requisito della non immediatezza. Rientrano in
questo secondo nucleo le incapacità giuridiche speciali, quali le interdizioni e le sospensioni ovvero le
revoche, destituzioni e decadenze (da determinate
attività funzioni, professioni, ecc.) disciplinate dal
diritto extrapenale: cfr., per simile distinzione,
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rispetto alle pene accessorie, le quali, pur confluendo nel genus degli effetti penali (16),
consistono in limitazioni immediatamente sofferte, nonché indefettibili (17), là dove
gli effetti penali, nel significato qui accolto, determinano un peculiare status soggettivo, capace di tradursi in un reale svantaggio per il condannato a condizione che nei
suoi confronti si apra un nuovo procedimento penale per un altro reato (18). Esempi
significativi al riguardo si rintracciano nella disciplina sulla sospensione condizionale della pena (sub specie di ostacolo all’applicabilità del beneficio ex art. 164, comma
2, n. 1, c.p. e di presupposto per la sua revoca ex art. 168, comma 1, n. 1 e 2, c.p.), sul
riconoscimento della recidiva obbligatoria (art. 99, comma 5, c.p.), sulla declaratoria
di delinquenza qualificata (artt. 101 ss. c.p.), nonché – ed è il caso che qui interessa –
sulle condizioni integranti talune fattispecie incriminatrici (artt. 707 e 708 c.p.). In
particolare, nel reato di possesso ingiustificato di chiavi alterate o grimaldelli, la precedente condanna per delitti determinati da “motivi di lucro” compare tra gli elementi della contravvenzione (19).
In tutte le ipotesi descritte la sentenza di condanna rientra tra gli elementi di una
fattispecie normativa complessa (20) perché intesa a determinare una situazione giuridica di sfavore per il condannato, altra e diversa rispetto a quella oggetto del processo conclusosi con il giudizio di colpevolezza.
Si realizzano così, per il tramite di una serie di norme sostanziali, altrettante ipotesi di efficacia riflessa della condanna. Nella ricostruzione qui proposta l’effetto
CERQUETTI, Gli effetti penali, cit., p. 57. Si consideri,
peraltro, come secondo altra dottrina quest’ultima
categoria non rientrerebbe neppure nel genus degli
effetti penali, il cui ambito di incidenza sarebbe in
esclusiva circoscritto alla sfera dei rapporti penali:
cfr. supra, nota precedente.
(16) Che tra i due istituti, accomunati dal prodursi
come conseguenze automatiche della decisione,
intercorra un rapporto di genus a species parrebbe
avvalorato dallo stesso codice penale, dove l’art. 20
stabilisce che le pene accessorie «conseguono di
diritto alla condanna, come effetti penali di essa». Il
legislatore non fornisce però alcun criterio capace di
ritagliare dal genus degli effetti penali la species
delle pene accessorie; né si tratta di questioni meramente classificatorie perché, come è noto, gli effetti
penali, si caratterizzano per una più marcata “resistenza” alle vicende estintive della punibilità. Di qui
l’importanza di delimitare nettamente i rispettivi
confini: v., sul punto, FRISOLI, voce Effetti penali, cit.,
p. 410.
(17) S’individua così il discrimine tra pene accessorie ed effetti penali: l’indefettibilità è un tratto
essenziale delle prime, mentre non lo è affatto dei
secondi, contrassegnati dalla mera eventualità: v., in
tal senso, CANESTRARI-CORNACCHIA-DE SIMONE,
Manuale di diritto penale, cit., p. 837. Altri sottolineano come la natura eventuale non riguardi gli effetti
penali che si producono immediatamente con il passaggio in giudicato della sentenza, quali, ad esempio,
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le incapacità giuridiche speciali (cfr. supra, nota 15):
v. LARIZZA, voce Effetti penali, cit., p. 208 e, sulla
medesima linea, CONCAS, La estensione degli effetti
penali della sentenza che applica la pena su richiesta
delle parti, in Studi economico-giuridici. In memoria
di Lino Salis, Giappichelli, 2000, p. 322. Si badi però
come l’inclusione di tali provvedimenti nell’ambito
del genus effetti penali non sia affatto pacifica (cfr.
supra, nota 15).
(18) Si tratta della classica definizione proposta da
PANNAIN (Le incapacità giuridiche quali effetti – penali e non – delle sentenze penali, Jovene, 1938, p. 25 ss.)
su cui converge anche una parte della più recente
dottrina: v. CANESTRARI-CORNACCHIA-DE SIMONE,
Manuale, cit., p. 837; MARINUCCI-DOLCINI, Manuale,
cit., p. 503, nonché PALAZZO, Corso di diritto penale,
cit., p. 575.
(19) Sui profili di irrazionalità ed incostituzionalità
insiti nella previsione di reati alla stregua degli artt.
707 e 708 c.p. «la cui ratio consiste nel sospetto che
chi è stato condannato per taluni reati possa aver
commesso o intenda commettere altri reati»: v.
CERQUETTI, Gli effetti penali, cit., p. 320.
(20) Per la medesima ricostruzione, con particolare riguardo al riconoscimento dell’abitualità e della
professionalità del reato, alla dichiarazione della
recidiva, nonché alle fattispecie ex art. 707 e 708 c.p.,
cfr. DE LUCA, I limiti soggettivi, cit., p. 193 e, più di
recente, MANCUSO, Il giudicato, cit., p. 125.
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penale consiste in un giudizio vincolante circa l’esistenza di un presupposto necessario perché si determini la conseguenza sanzionatoria – l’ostacolo a fruire di un
beneficio o la revoca del medesimo – contemplata dalla norma sostanziale. Se così è,
il giudice, cui è diretto quel vincolo, è chiamato a verificare l’integrazione della fattispecie complessa, non già a provvedere in ordine all’effetto penale, destinato, in
quanto tale, a prodursi in maniera automatica, conseguendo di diritto alla sentenza
di condanna (21).
3. LA PRONUNCIA DI CONDANNA COME ELEMENTO
COSTITUTIVO
DI
FATTISPECIE
SOSTANZIALI:
L’INDEFETTIBILITÀ DELL’ACCERTAMENTO SULLA COLPEVOLEZZA
Emerge a tal punto l’importanza di dare contenuto al provvedimento di condanna cui
rimandano le fattispecie sostanziali in questione. Qui soccorre la dottrina che, nel
definire la condanna quale «atto processuale a contenuto decisorio con cui il giudice
riconosce l’imputato colpevole di un reato e gli applica la pena prevista dalla legge»,
ne pone bene in luce “gli elementi indeffettibili”, costituiti dal binomio accertamento
della responsabilità e irrogazione della pena (22). Il primo elemento – c.d. elemento
cognitivo o epistemico – «rimanda al percorso argomentativo che dalle prove conduce alla colpevolezza», il secondo – c.d. elemento imperativo o deontico – è costituito
dall’“atto performativo” con cui il giudice impone all’imputato la qualifica di colpevole (23). Se l’uno richiama al rispetto del complesso di garanzie poste a presidio della
qualità del giudizio, l’altro è strumentale all’irrogazione della pena; ma per entrambi
è evidente la valenza costituzionale che ne corrobora l’indefettibilità.
Pare scontato che a tale contenuto indefettibile debba rinviare il legislatore ogniqualvolta includa il provvedimento di condanna tra gli elementi costitutivi di una fattispecie normativa complessa di diritto penale sostanziale. Un’interpretazione differente, volta a circoscrivere il contenuto dell’atto decisorio alla mera componente
imperativa, lasciando in ombra il profilo cognitivo, è destinata a scontrarsi con il dettato costituzionale (24). Si pensi agli esempi sopra rammentati in tema di effetti penali, la cui disciplina rispecchia – nientemeno – che le opzioni dell’ordinamento in materia di pena (25). Pare impensabile subordinarne l’operare all’esistenza di una condan(21) Sul punto cfr. CERQUETTI, Gli effetti penali, cit.,
p. 53, secondo il quale la previsione normativa di uno
o più elementi diversi rispetto alla condanna non
esclude che quest’ultima sia la condizione, sia pure
non unica, della produzione di diritto dell’effetto
penale.
(22) Così, con efficace sintesi, CAPRIOLI, voce
Condanna (diritto processuale penale), in Enc. dir.,
Annali II, vol. 1, Giuffrè, 2008, p. 101.
(23) Esprime in tal modo la dualità di significato
insita nell’espressione “accertamento di responsabilità”: FERRUA, Il “giusto” processo tra modelli regole e
principi, in Dir. pen. proc., 2004, p. 401 e 402.
(24) La scissione è teorizzata in sede dottrinale da
chi ritiene che solo il profilo imperativo – che coin-
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cide con l’affermazione di responsabilità – sia davvero coessenziale alla condanna, in virtù di «un vero
e proprio nesso di implicazione logica: l’irrogazione
della pena postula necessariamente la contestuale
affermazione di colpevolezza». Diverso il discorso
per quanto riguarda la componente cognitiva (l’accertamento di responsabilità in senso stretto), tra
questa e l’applicazione della pena correrebbe soltanto un rapporto di tipo “deontologico”. Segue il
corollario per cui, mentre il legislatore non può scindere la condanna dall’affermazione di responsabilità, può invece allentare “fino ad escluderlo” il nesso
tra questa e l’accertamento di responsabilità
(GIALUZ, La virata delle Sezioni unite, cit., p. 380).
(25) Così, con specifico riguardo alla sospensione
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na deprivata della componente epistemica e, quindi, incapace di salvaguardare le
finalità cui l’art. 27, comma 3, Cost. indirizza la sanzione penale.
Eppure simili interpretazioni appaiono suffragate dall’orientamento sviluppatosi
nel settore processuale, sul cui terreno si registra il disegno di svuotare la condanna
del suo indefettibile contenuto, ricollegando conseguenze afflittive – necessariamente implicanti un giudizio di responsabilità – ad una decisione che, stando all’indirizzo
maggioritario in giurisprudenza (26), ne prescinde (27). Allo scopo si fa leva sull’art. 445
c.p.p. che, nel tipizzare in modo analitico i benefici premiali conseguenti alla scelta
dello schema negoziale, non esita ad equiparare, sul terreno degli effetti, “la sentenza
prevista dall’art. 444, comma 2” alla decisione di condanna (art. 445, comma 1-bis,
c.p.p.) (28).
Sta in questa impostazione la radice del dibattito attorno alla natura della sentenza che applica la pena concordata. Erra chi ascrive il tema al campo sterile del dogmatismo (29): in tanto ci si interroga sullo status attribuibile alla pronuncia emessa ai
sensi dell’art. 444 c.p.p., in quanto il giudizio che la precede non è ritenuto conforme
al rigore imposto dalla Costituzione (30). Da questo punto di vista l’equivalenza tracciata dall’ art. 445, comma 1-bis, c.p.p. appare insoddisfacente perché, nel prescindecondizionale della pena e alla revoca del medesimo
beneficio: PERONI, Il patteggiamento tra archetipo
codicistico e modelli giurisprudenziali, in Dir. pen.
proc., 1996, p. 1231.
(26) Cfr. supra, nota 3. Né l’indirizzo ha subito
mutamenti a seguito della novella n. 134 del 2003,
introduttiva del patteggiamento c.d. “allargato”: cfr.,
infra, nota 75.
(27) Cfr, in tal senso, BUSETTO, Natura giuridica del
c.d.“patteggiamento”e revoca della sospensione condizionale: le sezioni unite ribadiscono una conclusione
discutibile, in Gazz. Giur., Giuffrè, 1997, n. 21, p. 5.
(28) Secondo un’esegesi fedele al dato testuale, il
riferimento esclusivo alla «sentenza prevista dall’art. 444, comma 2» c.p.p. contenuto all’art. 445
c.p.p., vale a differenziare sul piano degli effetti
l’ordinaria decisione di patteggiamento da quella
emessa in esito al dibattimento, nelle ipotesi previste dall’art. 448, comma 1, c.p.p. (così PERONI,
voce Riti alternativi, I) Applicazione della pena su
richiesta delle parti, in Enc. giur. Treccani, vol.
XXVII, 2001, p. 8). In tal caso l’imputato non usufruirebbe del corredo premiale previsto dall’art.
445, comma 1, c.p.p. allorché la pena concordata
non superi il limite dei due anni. L’orientamento
non è però condiviso da chi ritiene l’esistenza di
solidi argomenti sistematici a favore dell’identità
di effetti tra la sentenza “propria” di patteggiamento e quella di “recupero” dibattimentale: cfr. VIGONI,
L’applicazione della pena su richiesta delle parti,
Giuffrè, 2000, p. 375 e, con riflessioni estese alle
modifiche apportate dalla l. n. 134 del 2003:
GERACI, L’appello contro la sentenza che applica la
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pena su richiesta, Cedam, 2011, p. 77. Ma pure l’ostacolo testuale sarebbe destinato a svanire qualora si ritenesse che l’art. 445, comma 1-bis, c.p.p.
qualifichi anche la sentenza di patteggiamento
post-dibattimentale come «sentenza prevista dall’art. 444 comma 2»: cfr., in tal senso, LAVARINI,
Applicazione post-dibattimentale della pena e
appello dell’imputato, in Dir. pen. proc., 2006, p. 996.
A favore dell’identità effettuale delle sentenze in
discorso si schiera anche la giurisprudenza: cfr.
Sez. III, 17 aprile 2002, n. 905, in questa rivista,
2003, p. 1628, nonché in Dir. pen. proc., 2002, p.
1115 con nota critica di PERONI; Sez. un., 24 giugno
2005, n. 36084, Fragomeli, ivi, 2005, p. 3275.
(29) Di “approccio dogmatico” alla questione circa
la natura della sentenza di patteggiamento parla
GIALUZ, La virata delle Sezioni unite, cit., p. 376. Il
tema rappresenta viceversa «uno snodo decisivo,
dal quale non si può prescindere se si vuole impostare correttamente ogni discorso sulla legittimità
costituzionale dell’applicazione della pena su
richiesta delle parti» (SCELLA, Patteggiamento, cit.,
p. 123).
(30) A fronte di «un corredo concettuale rimasto
parzialmente inespresso all’interno del codice»,
s’impone un’analisi estesa alla cornice costituzionale. Di qui la nozione di condanna costituzionalmente orientata (PERONI, La sentenza di patteggiamento,
Cedam, 1999, p. 3), nata sulle orme di quella dottrina
che alla definizione “formale” di sentenza, privilegiata dal codice di rito, ne contrappone una “sostanziale”, modellata sui precetti costituzionali e, in particolare, sull’obbligo di motivazione: cfr. al riguardo
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re dalle modalità di verifica del fatto accolte nell’ambito del rito speciale (31), fornisce
una copertura di sola facciata al canone nulla poena sine iudicio (32).
Se le norme che disciplinano gli effetti penali della sentenza di condanna rispecchiano le scelte dell’ordinamento sulle funzioni della pena, la decisione da cui discendono implica necessariamente una verifica circa la colpevolezza dell’imputato. Di qui
il dubbio: può la sentenza applicativa della pena su richiesta considerarsi condanna
nel significato richiesto dalle fattispecie sostanziali di efficacia riflessa, in cui un siffatto provvedimento compare alla stregua di presupposto? Non si tratta di un interrogativo da poco perché dalla risposta positiva dipende l’operare di una serie di effetti giuridici pregiudizievoli per la sfera di libertà del condannato (33).
La questione sorge rispetto alle situazioni non disciplinate in modo espresso dalla
legge. Talora, infatti, è il codice di rito ad escludere che la sentenza de qua sia idonea
ad integrare il provvedimento di condanna nell’accezione richiesta dalle fattispecie
sostanziali. Così, ad esempio, nell’area riservata allo schema minor del patteggiamento, la decisione a pena concordata non vale quale presupposto per l’applicazione delle
pene accessorie (art. 445, comma 1, c.p.p.).
Accade, invece, che l’operatività degli effetti penali, costitutivi per definizione di
uno status pregiudizievole per il condannato, non risulti espressamente regolata con
riguardo alla sentenza concordata dalle parti. L’omissione è gravida di conseguenze,
aprendo a soluzioni interpretative opinabili.
4. IL NESSO TRA NATURA ED EFFETTI PENALI DELLA
SENTENZA DI PATTEGGIAMENTO NEL PRIMO INDIRIZZO
DELLE SEZIONI UNITE
Le posizioni della giurisprudenza rispetto all’efficacia riflessa della sentenza applicativa della pena negoziata hanno avuto modo di esprimersi in modo diffuso rispetto ad
un tipico effetto penale della condanna: la revoca di diritto della sospensione condizionale ex art. 168, comma 1, n. 1, c.p. La ratio specialpreventiva cui obbedisce l’istituNAPPI, voce Sentenza penale, in Enc. dir., vol. XLI,
Giuffrè, 1989, p. 1313 ss.
(31) Si dimentica che la decisione giudiziale non
esaurisce la sua rilevanza «nel legittimare un determinato trattamento punitivo, altrimenti inammissibile; ma si pone come meta di un’attività conoscitiva
in base alla quale si stabilisce se un illecito penale è
stato commesso», così, con parole che conservano
intatta la loro valenza: ILLUMINATI, La presunzione
d’innocenza dell’imputato, Zanichelli, 1979, p. 78.
(32) Per conformarsi al principio di legalità non
basta, infatti, che la sanzione discenda da un qualsivoglia atto processuale classificabile come condanna alla stregua di una norma del codice, ma
occorre che la condanna sia inflitta su basi persuasive. Allo scopo l’intervento del giudice implica il
riferimento ad un sistema di valori recepito dalla
Costituzione sotto forma di garanzie procedurali: si
pensi al diritto di difesa, al metodo del contraddit-
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torio, al principio della presunzione di non colpevolezza. Trattasi di un modello di processo di tipo
cognitivo «diretto all’accertamento di una verità
processuale empiricamente controllabile e controllata» (FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, 1990, p. 550). Sul nesso di
implicazione necessaria che lega il principio di
legalità alla qualità e, quindi, alla giustizia della
decisione: cfr. di recente, TARUFFO, Opinioni a confronto. Fatto prova e verità (alla luce del principio
dell’oltre ogni ragionevole dubbio), in Criminalia,
2009, p. 314.
(33) Intende la nozione di effetti riflessi della sentenza di patteggiamento in un significato diverso da
quello qui considerato, includendovi tutte le conseguenze della decisione «riconducibili, di norma, al
presupposto della condanna» purché estranee
all’insieme dei contenuti premiali tipici ex art. 445
c.p.p.: PERONI, La sentenza, cit., p. 149.
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to spinge a ravvisarne i presupposti nella “accertata” responsabilità di un nuovo
reato (34). Una simile verifica, nel disattendere la prognosi di ravvedimento a suo
tempo formulata a favore dell’imputato, fonda un giudizio di immeritevolezza capace
di giustificare la revoca del beneficio (35). L’effetto risolutivo risulta, quindi, subordinato ad una pregressa verifica giudiziale sulla colpevolezza dell’imputato. La ratio dell’istituto si rispecchia nella formulazione normativa: la condanna figura tra gli elementi costitutivi della fattispecie ex art. 168, comma 1, n. 1, c.p., condizionandone la
portata.
Segue la domanda: può la sentenza applicativa della pena su richiesta integrare la
condanna nel significato richiesto dall’art. 168, comma 1, n. 1, c.p., consentendo così di
produrre l’effetto risolutivo ivi previsto?
La risposta negativa verso cui si è, in un primo tempo, orientata la giurisprudenza
poggia sull’esclusione di qualsivoglia forma di accertamento in facto dall’area del rito
speciale. Secondo lo schema argomentativo seguito dalle Sezioni unite degli anni ‘90,
l’effetto della revoca della sospensione condizionale della pena risulta conseguibile
solo in esito ad un processo caratterizzato da una plena cognitio e, perciò, del tutto
estraneo all’ambito dello “specialissimo” rito di cui agli artt. 444 ss. c.p.p. (36). Coerente
al quadro descritto appariva l’epilogo di un simile iter: una decisione priva “degli elementi essenziali idonei” ad inscriverla nella categoria delle ‘sentenze di condanna’,
dove si allude all’assenza di un accertamento della responsabilità penale (37).
Non spingeva a diverse conclusioni la formulazione testuale dell’art. 445, comma
1, c.p.p. (oggi comma 1-bis) che, nell’equiparare la sentenza emessa all’epilogo del
patteggiamento ad una pronuncia di condanna, salve “diverse diposizioni di legge”,
avrebbe potuto indurre a ritenere operanti tutti gli effetti tipici della condanna non
esclusi in modo espresso (38). L’equivalenza statuita dall’art. 445, comma 1, c.p.p. si
sarebbe, secondo la Corte, incentrata, sul solo profilo imperativo della condanna – la
costituzione in capo all’imputato della qualifica di colpevole – mentre sarebbe stata
indifferente al profilo epistemico della decisione (39), da ritenersi estraneo alla sentenza emessa ex art. 444 c.p.p. (40). L’ambito operativo della clausola sarebbe stato, dunque,
(34) Cfr. Sez. un., 8 maggio 1996, n. 11, De Leo, cit.,
p. 1228 ss.
(35) L’istituto funge da «condizione risolutiva dell’esperimento probatorio» e rappresenta un requisito «indefettibile dei modelli sospensivi» in cui s’inscrive la revoca della sospensione condizionale della
pena (GIUNTA, voce Sospensione condizionale della
pena, in Enc. dir., vol. XLIII, Giuffrè, 1990, p. 96).
(36) Il quale «si sostanzia nell’applicazione di una
pena ‘senza giudizio’» sulla fondatezza dell’accusa e
sulla responsabilità dell’imputato, riducendosi la
verifica giurisdizionale alla mera «ricognizione dell’accordo intervenuto tra le parti» (Sez. un., 8 maggio
1996, n. 11, De Leo, cit., p. 1228 ss.).
(37) «… formalmente estrinsecabile in una espressa dichiarazione di colpevolezza» (Sez. un., 26 febbraio 1997, n. 3600, Bahrouni, cit., p. 1485).
(38) Nella consapevolezza, peraltro, di come «l’ele-
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vata carica di ambiguità» del verbo «equiparare»
renda vano «ogni tentativo di soluzione che attinga
unicamente al piano delle formule testuali»: v., in tal
senso, PERONI, voce Riti alternativi, cit., p. 10.
(39) Per tale partizione, cfr. supra, nota 23.
(40) E poiché le eccezioni cadono entro l’ambito
assegnato alla regola, si ritenevano tali rispetto all’equiparazione tracciata dall’art. 445, comma 1, c.p.p.,
gli effetti menzionati dal medesimo comma, in
quanto «correlati all’applicazione della pena e non
già al riconoscimento giudiziale della responsabilità
dell’imputato». Il legislatore non avrebbe, invece,
incluso nel novero delle eccezioni la revoca della
sospensione condizionale della pena, da considerarsi «un effetto estraneo alla sfera di previsione dell’art. 445 c.p.p.», in quanto conseguente all’accertamento della colpevolezza da cui prescinde la sentenza ex art. 444 c.p.p. (Sez. un., 26 febbraio 1997, n.
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circoscritto agli effetti correlati al primo profilo, con esclusione di quelli, invece, derivanti dal «riconoscimento giudiziale della responsabilità dell’imputato», categoria
includente la revoca della sospensione condizionale della pena (41).
La costruzione proposta a suo tempo dalle Sezioni unite suscitò una vasta eco di
critiche, perlopiù focalizzate sulla rivoluzionaria premessa argomentativa: la categorica rottura del nesso tra pena e giudizio (42). Da una diversa angolazione si segnalava,
tuttavia, un ulteriore profilo critico, annidato nello sviluppo del ragionamento della
Corte e coinvolgente la fondatezza sistematica di uno degli argomenti-chiave. A non
convincere era la teorizzata distinzione tra effetti giuridici legati al profilo imperativo
della condanna ed effetti ascrivibili all’accertamento di responsabilità che la sentenza contiene. Forse – ci si domandava – alla luce dei principi fondanti il sistema penale sostanziale sono configurabili effetti sanzionatori che prescindono da una verifica
sulla responsabilità dell’imputato? Se rispetto alla revoca della sospensione condizionale sub art. 168, comma 1, n. 1, c.p., la risposta offerta dalla Corte era negativa, altrettanto doveva dirsi riguardo a tutte le conseguenze sanzionatorie che discendono dalla
condanna, nessuna esclusa.
Emergeva qui il vizio logico che caratterizzava quel primo indirizzo delle Sezioni
unite: per sciogliere il nodo del rapporto tra sentenza concordata dalle parti e revoca
del beneficio ex art. 168 c.p. e, più in generale, tra la prima e gli effetti penali della condanna, non si poteva far leva su quegli stessi principi dettati in materia di finalità della
pena «che si presuppone il legislatore abbia integralmente rifiutato e smentito nel
delineare la disciplina del rito negoziale» (43). Quei principi devono di necessità valere
anche quando da quella medesima sentenza discende l’applicazione di una pena.
Eppure, in tal caso, la giurisprudenza non ha avuto remore a recidere il nesso nevralgico tra giudizio in facto e sanzione penale. Di qui lo strappo radicale rispetto ai fondamenti del sistema che non poteva essere ricomposto limitatamente ad un singolo
profilo, nella specie rappresentato dalla revoca del beneficio nell’ipotesi configurata
dall’art. 168, comma 1, n. 1, c.p.: la strada maestra passava per l’inclusione della verifica in facto nell’area del rito negoziale.
Si noti, in proposito, come il dato normativo, dal tratto volutamente ambiguo (44), mai
3600, Bahrouni, cit., p. 1487 ss). La medesima lettura
dei rapporti tra sentenza di patteggiamento e revoca
della sospensione condizionale della pena ex art.
168, comma 1, n. 1, c.p. è ribadita da Sez. un., 22
novembre 2000, n. 31, Sormani, cit., p. 2998.
(41) Sulla base dei medesimi argomenti, si è in
seguito escluso che il giudice del patteggiamento
possa disporre la revoca dei seguenti benefici: indulto (Sez.V, 15 giugno 1999, n. 9047, in Arch. n. proc. pen.,
2000, p. 198), liberazione anticipata ex art. 54, comma
3, l. 26 luglio 1975, n. 354 (Sez. I, 12 novembre 2004, n.
50176, C.E.D. Cass., n. 230389; Sez. I, 19 dicembre
2000, n. 14362, in questa rivista, 2002, p. 1796; Sez. I, 28
ottobre 1999, n. 5959, ivi, 2000, p. 3439), sospensione
dell’esecuzione della pena a favore del tossicodipendente ex art. 93 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Sez. I, 12
gennaio 2000, n. 230, ivi, 2001, p. 2800). Più in genera-
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le può dirsi che la giurisprudenza si sia, almeno in un
primo tempo, orientata «nel senso di negare la natura condannatoria della sentenza in questione, ogniqualvolta il giudicato di condanna è dalla legge considerato per la affermazione di responsabilità che esso
racchiude»: ORLANDI, Procedimenti speciali, in Compendio di procedura penale, Cedam, 2012, p. 686.
(42) Cfr., tra gli altri, PERONI, Il patteggiamento
senza revoca della sospensione condizionale concessa
in precedenza, in Dir. pen. proc., 1996, p. 1233 e
TREVISSON LUPACCHINI, Sospensione condizionale
della pena: un successivo patteggiamento ne comporta o no la revoca?, ivi, 1997, p. 1494.
(43) Così, nell’ambito di una incisiva critica dell’orientamento giurisprudenziale allora dominante,
BUSETTO, Natura giuridica, cit., p. 6.
(44) Il legislatore codicistico ha inteso consegnare
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abbia imposto “soluzioni così avvilenti” per il ruolo del giudice all’interno del patteggiamento (45). A ben vedere, la deriva verso forme fittizie di cognizione si deve più
all’ansia di promuovere lo schema della giustizia “negoziata” che a reali impedimenti
riscontrabili sul piano codicistico (46). D’altra parte, anche i giudici della Consulta sono
infine giunti, dopo qualche oscillazione, non solo a riconoscere, ma a promuovere il
fondamento negoziale della pena concordata (47). Il monstrum giuridico – l’idea di una
pena avulsa dalla colpevolezza – poteva dirsi oramai accolto a pieno titolo dal sistema.
Risulta così spiegabile l’approccio pragmatico abbracciato dalle Sezioni unite nelle
decisioni in discorso: evidenziato il reale funzionamento del rito (48) – la sentenza a
pena concordata non implica un accertamento positivo della responsabilità (49) – la
giurisprudenza di legittimità s’adoperava per attenuarne i riflessi sulla sfera di libertà
dell’imputato. Qui l’impostazione della Corte si lasciava apprezzare: si puntava al
cuore della controversia, riconoscendo l’inscindibilità del nesso tra verifica in facto ed
effetti destinati ad aggravare il trattamento sanzionatorio a carico del condannato (50).
Trattasi del perno argomentativo dell’intera costruzione, rivelatore di una residua
sensibilità ai principi di diritto sostanziale in materia di pena (51), del rifiuto di consialla giurisprudenza un “materiale semilavorato”,
lasciando che fosse l’esperienza applicativa a definire i rapporti tra poteri negoziali e funzioni del giudice all’interno del rito. La scelta rispecchiava la
necessità di sperimentare un inedito quanto rivoluzionario meccanismo in grado di rispondere alle
pressanti istanze di deflazione: delinea così il quadro
storico in cui matura la disciplina sul patteggiamento: AMODIO, Giustizia penale negoziata e ragionevole
durata del processo, in questa rivista, 2006, p. 3407.
(45) Ne è convinto MARZADURI, sub art. 3,
l.12.6.2003 (Patteggiamento “allargato”), in Leg. pen.,
2004, p. 248. La medesima opinione è espressa con
accenti particolarmente critici sull’operato della giurisprudenza da LOZZI, Il patteggiamento e l’accertamento della responsabilità: un equivoco che persiste,
in Riv. it. dir. e proc. pen., 1998, p. 99 e MARCOLINI, Il
patteggiamento nel sistema della giustizia penale
negoziata. L’accertamento della responsabilità nell’applicazione della pena su richiesta delle parti tra
ricerca di efficienza ed esigenze di garanzia, Giuffrè,
2005, p. 157 ss.
(46) L’attuale punto di arrivo dell’elaborazione
giurisprudenziale, plasticamente rappresentato
dalla rottura del nesso tra pena e accertamento della
responsabilità, appare il frutto del «tentativo di propiziare un più marcato utilizzo del rito nella prospettiva di deflazione del carico giudiziario»: così
VIGONI, L’applicazione della pena, cit., p. 192.
(47) Benché la Corte abbia in un primo tempo ritenuto che la sentenza ex art. 444 c.p.p. poggiasse
sopra un accertamento, sia pure incompleto, della
responsabilità dell’imputato (C. cost., 2 luglio 1990, n.
313, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1990, p. 1596), in seguito ha mutato opinione, per individuare, senz’altro, il
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“fondamento primario” della pena concordata «nell’accordo tra pubblico ministero ed imputato sul
merito dell’imputazione»: così C. cost., 6 giugno 1991,
n. 251, in Giur. cost., 1991, p. 2056; nel medesimo
solco si pongono: C. cost., 11 dicembre 1995, n. 499,
ivi, 1995, p. 4256 («… alla sentenza prevista dall’art.
444 c.p.p. non si può certamente riconoscere natura
di vera e propria sentenza di condanna, stante il
profilo negoziale che la caratterizza») e C. cost., 20
maggio 1996, n. 155, ivi, 1996, p. 1464 (secondo cui la
sentenza ex art. 444 c.p.p. si limita a presupporre la
responsabilità).
(48) La scelta di non occultare la realtà del rito
(“dove la pena è applicata in nome dell’accordo tra
le parti”) compiuta dalla giurisprudenza, è parsa di
gran lunga preferibile alla “singolare operazione di
cosmesi processuale” portata avanti dalla dottrina
«allo scopo di ‘salvare’ ad ogni costo il patteggiamento senza alcun compromesso sul piano dei valori» (FERRUA, Studi sul processo penale, III, Declino del
contraddittorio e garantismo reattivo, Giappichelli,
1997, p. 138).
(49) Secondo l’interpretazione prevalente, nell’ambito del patteggiamento si proscioglie ex art. 129
c.p.p. solo quando dagli atti – formati, si badi, in prevalenza dagli organi investigativi nel corso delle
indagini – emergano elementi probanti la non punibilità o consti la mancanza di prove a carico. Si tratta di un orientamento risalente (cfr., Sez. un., 9 giugno 1995, n. 18, Cardoni, in questa rivista, 1996, p.
473), ma non ancora smentito dalla giurisprudenza:
cfr. infra, nota 75.
(50) Parla, in proposito, di “rigore di metodo”:
PERONI, Il patteggiamento senza revoca, cit., p. 1231.
(51) Oltre ovviamente alle esigenze deflative che
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derarli «materia inerte della quale il legislatore del processo possa disporre sino al
completo sacrificio» (52).
Premesso che la sentenza ex art. 444 c.p.p. non è sorretta da alcuna verifica sulla
colpevolezza – ragionava all’epoca la Corte – bisogna, per quanto possibile, circoscriverne l’efficacia penale, intervenendo in senso limitativo ogniqualvolta norme di diritto sostanziale impongano di conformarsi alle conseguenze dell’accertamento contenuto nella pronuncia del giudice. Si giungeva così a negare alla decisione concordata
natura di condanna, nel significato pieno inteso da quelle disposizioni in discorso, e la
si equiparava a quest’ultima solo per taluni effetti, svincolati dal «riconoscimento giudiziale della responsabilità» (53). Di qui l’inidoneità a produrre la revoca di diritto della
sospensione condizionale: quell’effetto era inibito perché la sentenza applicativa della
pena su richiesta non è capace di integrare la “condanna” figurante tra gli elementi
costitutivi della fattispecie ex art. 168, comma 1, n. 1, c.p.
Se tale corollario era del tutto condivisibile, non suonava altrettanto persuasiva la
pretesa della Corte di restringerne l’ambito alla categoria degli «effetti sanzionatori
derivanti dall’accertamento della responsabilità», postulando così l’esistenza di
un’improbabile categoria di effetti sanzionatori svincolati da un simile accertamento.
Non serviva a sciogliere il nodo, la chiave di lettura proposta da chi, nel tentativo di
far luce su quell’oscura distinzione, la faceva coincidere con quella, desumibile dall’art. 77 c.p., tra effetti penali legati «al reato per il quale viene pronunziata la condanna» ed altri discendenti «dalla pena che per esso sia inflitta», con la conseguenza
che soltanto questi ultimi potrebbero derivare dalla decisione concordata tra le
parti (54). Se è vero che il legislatore fa talora discendere l’effetto pregiudizievole, non
solo dalla condanna tout court, ma pure dalla condanna per specifici titoli di reato o
ad un determinato ammontare di pena, la differenza tra le varie ipotesi attiene alle
modalità scelte per circoscrivere la fonte del pregiudizio, mentre non incide affatto
sulla natura della fonte medesima, in ogni caso individuabile nella pronuncia di condanna (e non già nel reato o nella pena). Si ritorna così al quesito di partenza: quale
il contenuto essenziale della decisione produttiva delle conseguenze sanzionatorie?
In sintesi, può dirsi che il primo indirizzo della Cassazione tracciasse una linea di
compromesso, i cui limiti – logici e sistematici (55) – non devono far velo al pregio di
risulterebbero frustrate qualora i benefici legati al
concordato sulla pena fossero ridimensionati dalla
revoca della sospensione condizionale precedentemente accordata: simili preoccupazioni traspaiono
dalla stessa motivazione della sentenza De Leo: cfr.
BUSETTO, Natura giuridica, cit., p. 6.
(52) Così PERONI, Il patteggiamento senza revoca,
cit., p. 1232.
(53) Sez. un., 26 febbraio 1997, n. 3600, Bahrouni,
cit., p. 1487 ss.
(54) Così CONCAS, La estensione degli effetti penali,
cit., p. 338. Ne deriva che la sentenza di patteggiamento potrà concorrere a formare, ad esempio, la
fattispecie descritta dall’art. 59, comma 1, l. n. 689 del
1991, dove è la condanna ad un determinato
ammontare di pena a produrre l’effetto ostativo
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all’applicazione delle sanzioni sostitutive. Seguendo
il medesimo ragionamento le Sezioni unite (26 febbraio 1997, n. 3600, Bahrouni, cit., p. 1487 ss.) ammettono che la sentenza ex art. 444 c.p.p. costituisca titolo per la revoca della sospensione nell’ipotesi prevista dall’art. 168, comma 1, n. 2, c.p. Qui l’effetto penale discenderebbe, non già dalla statuizione sul reato,
bensì dalla condanna ad una pena che superi il limite stabilito.
(55) Sotto quest’ultimo profilo, si riteneva che la
chiave di lettura costituita dalla compatibilità dell’effetto con i limiti cognitivi giudiziali, introducesse “un
elemento destabilizzante” del quadro normativo,
finendo per rendere solo “apparente la tassatività
delle deroghe previste nell’art. 445 c.p.p. e incerto il
quadro dei profili premiali” (VIGONI, voce Applicazio-
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essere, quantomeno, espressiva di attenzione ai fondamenti del sistema penale. Si
cercava un punto di equilibrio tra istanze deflattive e valori costituzionali che, al riparo di un contenuto ambito applicativo, riuscisse, in qualche modo, a sorreggere il patteggiamento.
5. LA SVOLTA DELLA CASSAZIONE E L’INCONSISTENTE
IMPATTO SUL PROFILO COGNITIVO DELLA PRONUNCIA
EX ART. 444 C.P.P.
È naturale che simili equilibri diventino instabili alla luce della l. n. 134 del 2003. La
linea di compromesso già tracciata dalla Cassazione, pareva superata da un legislatore che non esitava ad elevare la soglia della pena negoziabile a cinque anni da determinarsi in concreto e a ravvicinare, quanto ad effetti, la sentenza conclusiva di
entrambi i modelli di rito all’ordinaria pronuncia di condanna (56).
Si osservi, in particolare, che «tutta la disciplina premiale, fatta eccezione per la
diminuente fino ad un terzo, rimane estranea al nuovo maxipatteggiamento (57)» e
riservata all’ipotesi in cui la pena irrogata non superi i due anni. Non solo, nella
variante maior del rito (58), è pure inibito il peculiare meccanismo estintivo del reato e
di “ogni effetto penale” configurato all’art. 445, comma 2, c.p.p. (59), sicché la sentenza,
divenuta irrevocabile, sarà destinata a produrre effetti intangibili, a prescindere dalla
successiva condotta dell’imputato (60).
ne della pena su richiesta delle parti, in Enc. dir., vol.
VI Agg., Giuffrè, 2002, p. 51 e 52); allo stesso modo,
critica l’indirizzo per avere «dischiuso l’otre dei
benefici non espressamente previsti dal codice di
rito», ma cumulabili agli altri sul presupposto della
mancata dimostrazione della responsabilità dell’imputato: CAPUTO, Il diritto penale e il problema del patteggiamento, Jovene, 2009, p. 352.
(56) Non solo, in entrambe le varianti del rito, il
corredo dei benefici premiali non include più la confisca facoltativa (art. 445, comma 1, c.p.p.), ma pure
l’area dell’inefficacia extrapenale si restringe perché
la sentenza di patteggiamento, quale che sia l’entità
della pena concordata, è destinata a far stato nei
procedimenti disciplinari dinanzi alle pubbliche
autorità (art. 445, comma 1-bis, c.p.p.). Si noti, d’altro
canto, come rientri tra i benefici premiali comuni ad
entrambe le fattispecie del rito la non menzione nel
certificato del casellario giudiziale richiesto dai privati (artt. 24, comma 1, lett. e e 25, comma 1, lett. e
d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313). La previsione, probabile frutto di un deficit di coordinamento del legislatore novellistico (cfr., in tal senso, PERONI, Le nuove
norme in materia di patteggiamento “allargato” e di
sanzioni sostitutive, in Dir. pen. proc., 2003, p. 1073), è
parsa inopportuna rispetto alla sentenza emessa
all’esito del rito “allargato”, che «comporta l’esecuzione della pena concordata e l’insensibilità della
pronuncia alla condotta dell’imputato»: così AMODIO,
I due volti della giustizia, cit., p. 705; esprime analo-
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ghe perplessità, «tenuto conto della gravità dei reati
per cui sarebbe consentito il beneficio», MARZADURI,
sub art. 3, l.12.6.2003, cit., p. 255.
(57) Così, testualmente, AMODIO, I due volti della
giustizia, cit., p. 703. Del resto, se nella versione
“allargata” del rito, si dispone il pagamento delle
spese processuali, l’applicazione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza, è innegabile una più
stretta vicinanza tra la sentenza che recepisce l’accordo e l’ordinaria pronuncia di condanna.
(58) È la giurisprudenza della Cassazione a denominare “editio maior” ed “editio minor” le due varianti del modello negoziale: cfr. infra e nota 69.
(59) La particolarità della causa di estinzione consiste nell’essere differita nel tempo, realizzandosi
solo a seguito dell’intervallo previsto dalla legge,
durante il quale gli effetti della sentenza si producono. Si distingue così dalla sospensione condizionale
della pena che invece paralizza provvisoriamente gli
effetti della sentenza. Ne deriva che il congegno ex
art. 445, comma 2, c.p.p. «non vale a ripristinare la
situazione quo ante determinata da effetti penali che
nel frattempo si sono verificati»: lo sottolinea
CAPUTO, Il diritto penale, cit., p. 434.
(60) Ne deriva, inoltre, che la pena concordata,
superiore ai due anni e, perciò, sottratta al beneficio
di cui all’art. 163 c.p., non può essere sospesa, ma
deve essere immediatamente eseguita al passaggio
in giudicato della pronuncia negoziale. Si noti, in
proposito, come la possibilità di fruire del beneficio
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Emerge qui il tratto caratterizzante l’intera novella: impoverito, comunque, il corredo dei vantaggi premiali legati alla scelta del rito, s’accentua l’equiparazione tra gli
effetti derivanti dalla sentenza di patteggiamento e quelli propri delle sentenze di
condanna (61). Il risultato era destinato a rappresentare solo il tassello di un più articolato progetto di riforma, concepito dal legislatore in nome di esigenze di razionalità
del sistema, ma infine non realizzatosi. L’idea originaria era che di fronte ad una
accentuata valorizzazione del rito negoziale occorresse superare un quadro normativo «in cui la sentenza esiste, irroga una pena, ma non fa stato, non accerta non significa nulla quanto ai fatti che hanno giustificato la sentenza stessa» (62). L’obiettivo
avrebbe richiesto la completa equiparazione, o meglio, una riconosciuta identità tra la
sentenza negoziale e la sentenza di condanna, quantomeno nell’ambito riservato al
modello maior di rito. Di qui l’ostacolo: l’operazione si sarebbe tradotta in un forte
deterrente all’accesso al rito, frustrando le esigenze deflattive cui ambiva la riforma (63). Si è mancato perciò di intervenire sul versante dei poteri giudiziali, così da
rafforzare la componente cognitiva del rito in misura proporzionale all’accresciuto
peso sanzionatorio della decisione patteggiata. Ma, nella medesima prospettiva, non
si è voluto neppure far luce sulla qualifica da attribuirsi a siffatta decisione, strappando una volta per tutte il velo di ambiguità che avvolge la clausola dell’equivalenza, tuttora racchiusa nel corpo dell’art. 445 c.p.p.
Di qui la “vistosa asimmetria” che affligge la novellata disciplina: «laddove, a fronte del ridotto corredo premiale assegnato alla fattispecie allargata di patteggiamento,
la relativa decisione si candidi a mantenere l’ambigua configurazione di pronuncia
equiparata alla condanna» (64).
Prevedibile che la segnalata disarmonia dovesse subito imporsi all’attenzione della
della sospensione condizionale è spesso la circostanza che induce alla scelta del rito negoziato. È
più facile che l’imputato accetti di «accelerare l’esito del processo e di limitare fortemente le eventuali impugnazioni, se questo non significa altresì l’immediato ingresso in carcere». Di qui la ridotta appetibilità del patteggiamento a pene superiori ai limiti dei due anni, quantomeno nei confronti di imputati non detenuti: cfr., per simili riflessioni, BOVIO, Il
punto di vista del difensore, in Patteggiamento “allargato” e giustizia penale, a cura di PERONI,
Giappichelli, 2004, p. 230.
(61) Si tratta di una tendenza non riscontrabile
solo all’interno del codice di rito: a partire dagli anni
‘90 il legislatore è ripetutamente intervenuto sul terreno amministrativo a chiarire che la sentenza di
patteggiamento produceva i medesimi effetti preclusivi della sentenza di condanna: v. TONINI,
Giudizio abbreviato e patteggiamento a vent’anni
dalla riforma del 1988, in Dir. pen. proc., 2010, p. 653
e gli esempi ivi riportati alla nota 15.
(62) Così, incisivamente, l’on. Fassone nell’ambito
di un intervento nell’Aula del Senato (seduta del 28
gennaio 2003, n. 317), riportato da SCELLA (Il patteg-
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giamento “allargato” nel quadro della programmata
espansione della giustizia negoziale, in Patteggiamento “allargato” e giustizia penale, cit., p. 16)
all’interno di un’accurata retrospettiva critica dei
lavori preparatori della l. n 134 del 2003.
(63) Si sottolinea come «proprio il rifiuto di ogni
modifica sospettata di poter assumere una valenza
deterrente rappresenti uno dei più vistosi difetti
della novella in esame». D’altro canto, il legislatore
non sembrava avvertire il rischio che un accesso
indiscriminato all’applicazione della pena su richiesta delle parti finisse «col trasformare il rito alternativo in una alternativa al processo»: SCELLA, Il patteggiamento “allargato”, cit., p. 17 e 4. Da questo punto di
vista si avverte un’indubbia tensione tra l’obiettivo
perseguito dalla novella legislatore e il principio del
contraddittorio per la prova: cfr. FERRUA,
Patteggiamento allargato, una riforma dai molti
dubbi, in Dir. giust., 2003, n. 8, p. 10. Simili preoccupazioni non sono state, però, condivise dalla Corte
costituzionale: cfr. sent. 9 luglio 2004, n. 219, in Giur.
cost., 2004, p. 2304.
(64) PERONI, Le nuove norme, cit., p. 1073.
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giurisprudenza di legittimità. Occorreva superare un indirizzo divenuto anacronistico: un irriducibile contrasto pareva correre tra i contenuti sanzionatori desumibili dall’innovato testo dell’art. 445 c.p.p. e una pronuncia classificata di “non condanna”.
Il revirement interpretativo delle Sezioni unite arriva puntuale in occasione di un
ricorso in cui il giudice remittente poneva in discussione non solo l’incompatibilità tra
il patteggiamento e l’istituto ex art. 168, comma 1, n. 1, c.p., ma le premesse stesse di
quell’asserto: non ha natura di condanna la sentenza ex art. 444 c.p.p. Si gravava in tal
modo la Corte dell’arduo compito di liberare il rito-emblema della giustizia “negoziata” dall’ambiguità che lo affliggeva sin dalla nascita, per condurlo all’interno del sistema costituzionale. La soluzione pareva a portata di mano: per ribaltare il precedente
indirizzo sarebbe bastato sostenere che, in virtù delle modifiche legislative del 2003,
la sentenza concordata implicava una previa verifica circa la responsabilità dell’imputato.
Poteva essere letta come una sollecitazione in tal senso la teoria c.d. asimmetrica
proposta da una parte della dottrina all’indomani dell’entrata in vigore della novella.
Così, a fronte della marcata differenza di effetti tra la sentenze emesse in epilogo ai
due distinti modelli di rito, si asseriva l’esistenza di un accertamento in facto nell’ambito della variante maior per escluderlo, invece, da quella minor (65).
Ma il pur generoso tentativo non ha esito alcuno. La Corte, infatti, rifiuta di
imboccare il percorso suggerito: vi ostava l’assenza di indici normativi capaci di
esprimere in modo inequivocabile la necessità di un accertamento rafforzato all’interno del nuovo schema di rito. Qui i giudici hanno buon gioco nello sfruttare la
disarmonia che si è detto caratterizzare il disegno novellistico. Al salto qualitativo
compiuto sul piano delle conseguenze afflittive derivanti dalla sentenza negoziale
che applichi una pena superiore ai due anni, il legislatore non ha voluto accompagnare alcuna modifica dei poteri riconosciuti al giudice. In entrambi i modelli di rito
la verifica sul tema storico resta disciplinata dall’art. 129 c.p.p. (66), sicché, stando alla
lettura più seguita, si attesterebbe prima e fuori dal procedimento negoziale, mentre la sentenza che accoglie l’accordo pattizio non sottenderebbe alcun giudizio in
ordine alla colpevolezza (67).
Le Sezioni unite nel 2005 possono così concludere per una costruzione unitaria del
rito, ritenuta ancora valida alla luce delle novità che, pur caratterizzando in modo
diverso i due schemi di patteggiamento (68), non investono “struttura negoziale e
(65) V. AMODIO, I due volti della giustizia, cit., p. 704
e VIGONI, Patteggiamento “allargato”: riflessi sul sistema e sull’identità della sentenza, in questa rivista,
2004, p. 716. Non cogente, perché sfornita di un appiglio normativo, la tesi spingeva ad una riflessione
sulla capacità di “tenuta” dei tradizionali approdi
giurisprudenziali a fronte della radicale modifica
legislativa.
(66) Di qui una sorta di cortocircuito: le congenite
inadeguatezze del rito, non solo emergono senza più
veli, ma risultano accentuate dai nuovi orizzonti
applicativi. Segue l’interrogativo che investe la proponibilità di “un vaglio giudiziale allentato” rispetto
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all’accertamento di gravi reati: VIGONI, Patteggiamento “allargato”, cit., p. 714.
(67) Per un analisi critica dell’orientamento cfr.,
volendo, SANNA, Applicazione dell’art. 129 c.p.p. e
regole di giudizio: gli spazi per la verifica sul fatto nel
patteggiamento, in Ind. pen., 2009, p. 139 ss.
(68) Le varianti non sono ritenute decisive per
determinare l’ asimmetria del rito: cfr., per la critica
degli argomenti utilizzati a sostegno della costruzione, CREMONESI, La successiva condanna può revocare
la precedente sospensione condizionale contenuta
nella sentenza di patteggiamento, in Dir. pen. proc.,
2006, p. 1510.
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modelli di controllo”, la cui disciplina risulta identica “sia per l’editio minor sia per l’editio maior” (69).
D’altra parte, la Corte non poteva evidentemente sottrarsi al compito di calibrare il
proprio indirizzo al mutato panorama normativo. Bocciata la tesi c.d. asimmetrica e
accolto l’assetto unitario del rito, un’alternativa praticabile portava ad un generale
ripensamento dell’indirizzo volto ad escludere, con la nota radicalità di accenti, la
natura cognitiva della sentenza a pena concordata. Si potevano, in altri termini, individuare forme di apertura alla verifica giudiziale in facto, valide per entrambe le
varianti del rito (70).
Ma anche questa strada è stata scartata dalla sentenza Diop Oumar a favore di
un’altra diametralmente opposta. L’impressione del lettore è che, a fronte di un inalterato bilanciamento legislativo tra prerogative delle parti e poteri giudiziali, la Corte
miri ad eludere il tema scottante dell’esistenza, all’interno del rito speciale, di una
cognizione sul fatto e sulla responsabilità dell’imputato (71).
Per raggiungere lo scopo non si esita a ripudiare il canone ermeneutico fino ad
allora impiegato per far luce sui rapporti tra sentenza negoziale ed effetti penali.
Individuato “il nodo problematico da sciogliere” nel significato della clausola di
equivalenza ex art. 445, comma 1-bis, c.p.p., ci si rifiuta di determinare quegli effetti sulla base della loro compatibilità rispetto ad un rito caratterizzato da un accertamento incompleto, se non assente, con il risultato di rendere eccezionale un «assetto configurato come normativamente immancabile, salvo diverse disposizioni di
legge».
Si abbandona così il tentativo di limitare le conseguenze afflittive della pronuncia
concordata tramite la ricerca di una nozione di condanna legata alle garanzie dell’accertamento. Gli effetti della decisione ex art. 444 c.p.p. sono ora gli stessi che il codice
fa discendere dalla decisione di condanna (art. 533 c.p.p), salvo quelli espressamente
esclusi dall’art. 445 c.p.p. in nome di insopprimibili esigenze premiali. La “penetrante
assimilazione” realizzatasi oramai tra le due pronunce in virtù dello ius novum impone di ascriverle al medesimo genere. Né vi è spazio, nell’inedita costruzione accolta
dalla Corte, per differenze riconducibili al distinguo tra le componenti imperativa e
cognitiva della sentenza di condanna.
Il sistema pare in tal modo ricomporsi: abbandonando deviazioni giudicate pericolose, la giurisprudenza torna ad affermare l’inscindibilità del legame tra corredo punitivo ed atto giurisdizionale assimilabile alla condanna. L’obiettivo di sanare il contrasto tra l’accresciuto peso sanzionatorio riconosciuto alla sentenza a pena concordata
(69) Così Sez. un., 29 novembre 2005, n. 17781,
Diop Oumar, cit., p. 2780.
(70) Tracciava la “pista interpretativa” collocandola all’interno di un novero ristretto di alternative:
VIGONI, Patteggiamento “allargato”, cit., p. 715.
(71) E se è vero che talora la Corte, nell’ambito
della medesima decisione, sembrerebbe alludere al
contenuto di accertamento della sentenza ex art. 444
c.p.p., la forza di simili affermazioni si esaurisce, a
ben vedere, sul piano retorico senza ripercuotersi
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sulle conclusioni: per un’analisi più approfondita sul
punto, cfr., volendo, SANNA, Le coordinate del patteggiamento allargato secondo le Sezioni unite, in Giust.
pen., 2007, III, c. 463. Sulla stessa linea, nel ritenere
che la pronuncia in questione abbia innovato solo
sotto il profilo degli effetti, senza peraltro recepire
l’“orientamento cognitivo” patrocinato dalla dottrina
maggioritaria, GIALUZ, Fisionomia del patteggiamento
ed efficacia della sentenza concordata nel giudizio
disciplinare, in Giur. cost., 2009, p. 5011.
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dal nuovo testo dell’art. 445 c.p.p. e una pronuncia già definita di “non condanna”,
potrebbe dirsi raggiunto.
Diverso il discorso qualora si ritenga che il nesso tra pena e giudizio non sia soddisfatto da un qualsivoglia giudizio (72). Su questo terreno la sentenza Diop Oumar non
offre motivi di conforto. Abbandonata la linea di compromesso, imperniata sul contenimento dell’equiparazione tracciata dall’art. 445, comma 1-bis, c.p.p., restano sul tappeto le istanze ispiratrici di quel controverso indirizzo giurisprudenziale volto ad attenuare il vulnus inferto ai principi da una disciplina che allenta, fino a disconoscerlo, il
nesso tra accertamento ed effetti penali (73). Non solo, quella ferita diviene più profonda per via delle conseguenze afflittive della sentenza di stampo negoziale, oggi assai
gravose e talora del tutto comparabili a quelle discendenti dall’ordinaria pronuncia di
condanna.
In definitiva, la strategia perseguita dalla giurisprudenza di legittimità, consistente
nell’eludere il nodo più spinoso dal meccanismo negoziale per puntare sulla chiave di
lettura offerta dalla “stretta interpretazione” della clausola ex art. 445, comma 1-bis,
c.p.p., rappresenta senza dubbio un’abile mossa argomentativa (74), ma non scioglie i
nodi emergenti dal dettato normativo (75).
Si rifletta come le posizioni espresse dalla Corte conducano a risultati inappaganti pure sul piano definitorio perché la stessa classificazione della sentenza negoziale
(72) Si è detto come il principio di legalità risulti
svuotato qualora ci si fermi alla constatazione che la
pena è inflitta da un atto formalmente parificato alla
condanna, senza interrogarsi sui modi attraverso i
quali si è pervenuti alla decisione: v. le considerazioni espresse supra al § 3 e alle note 31 e 32.
(73) In tal senso la scelta di individuare «il punto
cruciale nella formula normativa dell’equiparazione» ex art. 445, comma 1-bis, c.p.p., avrà sì la «semplicità delle intuizioni felici» (così SANTALUCIA,
Patteggiamento e revoca di diritto della sospensione
condizionale: le sezioni unite mutano orientamento, in
questa rivista, 2006, p. 2783), ma non è esente da
limiti. Per altro verso, sulla svolta delle Sezioni unite
ha forse pesato anche il «naturale affievolimento
dell’esigenza di favorire il ricorso al rito alternativo,
conseguente alla cospicua estensione dell’ambito di
applicazione dell’istituto»: GIALUZ, voce Applicazione
della pena su richiesta delle parti, in Enc. dir., Annali
II, vol. I, Giuffrè, 2008, p. 34.
(74) Bisogna riconoscere l’abilità tattica della
Corte: “con uno scarto laterale” si offre una risposta,
“tutto sommato, convincente al problema degli
‘effetti riflessi’ della sentenza di patteggiamento,
lasciando impregiudicata l’altra, più ardua, questione”: così SCELLA, Patteggiamento, cit., p. 123. Sono,
viceversa, inclini a riconoscere alla sentenza Diop
Oumar un contenuto innovativo esteso alla componente cognitiva della pronuncia a pena concordata:
BONINI, La riscoperta del modello cognitivo e la sua
prevalenza sulla negozialità processuale: un significa-
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tivo superamento di consolidati orientamenti della
Corte di cassazione, in Ind. pen., 2007, p. 179;
CAPRIOLI, L’accertamento della responsabilità penale
“oltre ogni ragionevole dubbio”, in Riv. it. dir. e proc.
pen., 2009, p. 80; CREMONESI, La successiva condanna,
cit., p. 1508.
(75) Ne deriva una spinta a percorrere il solco di
indirizzi consolidati, la cui comune premessa consiste nella negazione di qualsivoglia giudizio in facto
nell’ambito del rito speciale. Si persiste, così, nell’ostracismo alla regola dell’«al di là di ogni ragionevole dubbio» (art. 533, comma 1, c.p.p.), sicché il quadro
probatorio carente o contraddittorio è nel patteggiamento destinato ancor’oggi a sfociare in una sentenza applicativa della pena: cfr. Sez. IV, 7 giugno 2012,
n. 27952, in C.E.D. Cass., n. 253588, nonché Sez. II, 9
gennaio 2009, n. 6095, in Riv. pen., 2010, p. 189. Allo
stesso modo, si ritiene tuttora operante il medesimo
schema motivazionale a suo tempo elaborato dalla
giurisprudenza dei primi anni ‘90, secondo un
modello gravemente deficitario rispetto alle garanzie sottese all’art. 111, comma 6, Cost. Così, stando a
Sez. II, 17 novembre 2011, n. 6455, in questa rivista,
2013, p. 2382: «Nella motivazione della sentenza di
patteggiamento il richiamo all’art. 129 c.p.p è sufficiente a far ritenere che il giudice abbia verificato ed
escluso la presenza di cause di proscioglimento, non
occorrendo ulteriori e più analitiche disamine al
riguardo»; in pari senso, Sez. IV, 13 luglio 2006, n.
34494, ivi, 2007, p. 3824.
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continua ad apparire ambigua. Si badi, infatti, come le Sezioni unite, non giungano ad
affermare l’identità (76) tra sentenza negoziale e sentenza di condanna, limitandosi,
come si è riportato, a concedere solo “una penetrante assimilazione tra le due pronunce”. E qual’è, nella prospettiva accolta dalla Corte, l’ostacolo verso l’obiettivo del
riconoscimento di una medesima natura, se non l’assenza nella pronuncia negoziale
di uno degli elementi indefettibili della condanna, ovverossia il profilo cognitivo o epistemico?
Ancor oggi, dunque, la fragile clausola dell’equivalenza è chiamata a sorreggere
l’oberante carico di una costruzione sistematica sempre più opinabile.
6. LE IMPLICAZIONI DEL NUOVO INDIRIZZO: LO
STRAVOLGIMENTO DEI MECCANISMI SANZIONATORI AD
OPERA DELLA LEGGE PROCESSUALE
L’inadeguatezza dell’indirizzo inaugurato dalla pronuncia Diop Oumar e sposato dalla
sentenza in commento si manifesta sotto ulteriori aspetti.
Si è detto come la stretta interpretazione della clausola ex art. 445, comma 1-bis,
c.p.p., faccia sì che la sentenza a pena concordata potenzi la sua forza afflittiva nei
confronti dell’imputato. Possiamo a tal punto misurare il grado dell’incremento:
secondo la chiave di lettura promossa dalle Sezioni unite, la decisione pattizia è destinata ad integrare tutte le fattispecie di diritto sostanziale che contemplino la condanna tra i propri elementi costitutivi, così ricollegandovi una serie di effetti giuridici pregiudizievoli per la sfera di libertà del condannato.
È quanto accade nella pronuncia in commento, dove la stretta interpretazione
della clausola di equivalenza ex art. 445, comma 1-bis, c.p.p. funge da premessa
argomentativa alle conclusioni: poiché «nessuna norma” prevede che la sentenza
pronunciata all’esito del patteggiamento “non debba essere considerata il presupposto (precedente condanna per delitto motivato da lucro) della contravvenzione di
cui all’art. 707 c.p. è chiaro che nel caso di specie tale reato sussiste». La sentenza
negoziale è, quindi, idonea a comparire tra gli elementi costitutivi della fattispecie
incriminatrice.
A non convincere è, per chi scrive, il postulato che nega l’esistenza di ostacoli normativi all’equiparazione asserita dalla Corte. Quegli ostacoli esistono e si desumono
dai fondamenti del sistema penale, per i quali solo un atto decisorio comprensivo del
profilo epistemico risulta idoneo ad integrare la “condanna”, qualora essa figuri tra gli
elementi costitutivi di una fattispecie di reato (77).
Se la giurisprudenza ignora un simile precetto, di modo che la sentenza concordata produca i medesimi effetti penali della sentenza di condanna, è perché conduce il
proprio ragionamento ponendosi nel limitato angolo prospettico della disciplina di
rito, senza estendere lo sguardo al piano del diritto sostanziale e ai canoni che lì governano i meccanismi sanzionatori. Ed è questo strabismo che porta non solo a non risol(76) La necessità di «un ritorno al regime della
equiparazione in termini di assoluto rigore ermeneutico», non implica, a parere delle Sezioni unite,
«un processo di vera e propria identificazione tra i
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due tipi di pronuncia» (Sez. un., 29 novembre 2005,
n. 17781, Diop Oumar., cit., p. 2781).
(77) Cfr. supra, § 3.
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vere, ma, perfino, ad aggravare le disarmonie introdotte nel tessuto normativo dalla
novella del 2003. Si è più volte detto del marcato disequilibrio tra sentenza negoziale
– specie se emessa all’esito del modello maior di rito – ed effetti ad essa riconducibili. Ebbene, al pari di quanto accade riguardo all’art. 707 c.p., in ciascuna delle altre ipotesi classificabili alla stregua di effetti penali della condanna (78), la linea interpretativa indicata dai giudici di legittimità farà sì che la sentenza di patteggiamento determini una serie di conseguenze sanzionatorie ulteriori rispetto a quelle finora desunte dal dettato codicistico, tutte ovviamente sganciate dal giudizio di colpevolezza .
Così, sul terreno della revoca dei benefici, il criterio della “stretta interpretazione”,
già induce ad affermare che la pronuncia a pena concordata costituisca titolo tanto
per la revoca dell’indulto (79), come della liberazione anticipata (art. 54, comma 3, l. 26
luglio 1975, n. 354) (80), mentre, in futuro, analoga conclusione dovrà coerentemente
trarsi per le fattispecie relative alla dichiarazione di delinquenza qualificata (81) o al
riconoscimento della recidiva ex art. 99, comma 5, c.p.
Benché la valenza costituzionale degli interessi in gioco, coinvolgenti il fondamento stesso della pena, imponga di escludere che simili effetti derivino da una decisione
contraddistinta dall’assenza del profilo cognitivo, oggi quel limite può dirsi definitivamente superato. Nel ribaltare il precedente indirizzo, ispirato al contenimento del
carico sanzionatorio della sentenza concordata, la giurisprudenza di legittimità si
mostra oramai indifferente a quello che si è detto essere il contenuto indefettibile
della sentenza di condanna, almeno nell’ambito di un sistema penale costituzionalmente orientato.
Si dirà che simile deriva costituisca il prezzo da pagare in cambio della funzionalità del processo: come è noto, la “stampella” della giustizia negoziata è ritenuta oramai essenziale al sistema. Ma neppure l’approccio pragmatico è invocabile a difesa
(78) In quanto tali, sempre pregiudizievoli per il
condannato: cfr. supra, § 3.
(79) Cfr. Sez. I, 9 novembre 2012, n. 47916, in C.E.D.
Cass., n. 254016; Sez. I, 11 luglio 2008, n. 29959, in
questa rivista, 2009, p. 3938. Si ricorderà come la giurisprudenza si fosse finora espressa in senso contrario: cfr. supra, nota 41.
La revoca del beneficio, è collegata dai vari provvedimenti clemenziali alla commissione di un reato
per il quale sia stata emessa una condanna a una
pena superiore ad un determinato limite. Il presupposto della revoca è, dunque, il fatto della condanna
«presa in considerazione nel suo contenuto sanzionatorio e concretamente quantificato»: cfr. PERONI,
La sentenza, cit., p.165.
(80) Cfr. Sez. I, 20 ottobre 2006, n. 37931, in questa
rivista, 2007, p. 3002, con nota di GIALUZ, La sentenza
di patteggiamento concorre a determinare la revoca
della liberazione anticipata. Si supera così un precedente indirizzo volto ad escludere che la sentenza di
patteggiamento rientri nella categoria della “condanna per delitto non colposo”, alla quale l’art. 54,
comma 3, ord. penit. subordina la revoca del beneficio (cfr. supra, nota 41). Proseguendo sul medesimo
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solco si deve coerentemente ammettere che la
medesima pronuncia valga a determinare la revoca
della sostituzione della pena detentiva ex art. 72,
comma 1, l. n. 689 del 1981 (così Sez. I, 17 gennaio
1997, n. 270, ivi, 1998, p. 204), o della sospensione
dell’esecuzione della pena disposta a favore del tossicodipendente ex art. 93, comma 2, d.P.R. n. 309 del
1990 (contra Sez. I, 12 gennaio 2000, n. 230, cit., p.
2800): entrambe le fattispecie, nel disciplinare altrettanti effetti penali della condanna, elevano la decisione del giudice ad elemento costitutivo.
(81) Qui, a dire il vero, si riscontra una certa resistenza della Corte di cassazione ad abbandonare l’orientamento prevalente sulla base dell’argomento
per cui il giudice, allorché individua, tra i presupposti di cui all’art. 102 c.p., i “reati della stessa indole”, è
chiamato a compiere una valutazione discrezionale
eterogenea rispetto alla verifica richiesta ex art. 444
c.p.p.: cfr. Sez. V, 1° aprile 2008, n. 19623, in questa
rivista, 2009, p. 3937 e, in senso conforme, Sez. V, 20
maggio 2004, n. 27994, in Riv. pen., 2004, p. 801; v.,
peraltro, in senso contrario: Sez. II, 18 ottobre 2005,
n. 40813, ivi, 2006, p. 1233.
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dell’orientamento in questione. Anzi, le istanze deflative risultano tradite dall’accresciuto peso sanzionatorio della sentenza a pena concordata. La volontà di collegare a
quella decisione una serie – potenzialmente assai estesa (82) – di conseguenze afflittive derivanti dallo status di condannato si pone in aperto contrasto con l’intento perseguito dal legislatore codicistico di evitare all’imputato che acceda al rito speciale
quella stigmatizzazione (83) cui soggiace il soggetto condannato all’esito del rito ordinario (84).
Da questo punto di vista la giurisprudenza si spinge perfino oltre il limite cui si è
attestato il legislatore del 2003, il quale, proprio in nome delle esigenze di deflazione
e – bisogna riconoscerlo – con una buona dose di ipocrisia, ha scelto di continuare a
diversificare la sentenza a pena concordata dall’ordinaria condanna, anche allo scopo
di circoscriverne le conseguenze sanzionatorie. L’intento è reso palese dai lavori preparatori: qui un emendamento volto ad incidere sulla disciplina sostanziale in modo
da collegare espressamente taluni effetti penali – tra i quali spiccava la revoca ex art.
168, comma 1, c.p. – alla pronuncia patteggiata, è stato respinto sulla base dell’opinione, espressa dal relatore di maggioranza, che così operando si sarebbe creato un
disincentivo all’accesso al rito (85). Si ragionava evidentemente sul presupposto dell’accoglimento dell’indirizzo, all’epoca maggioritario, che escludeva quei medesimi
effetti dall’area del rito negoziale. Ma la Cassazione non si dimostra altrettanto accorta, restando insensibile ai segnali lanciati dalla sede parlamentare a difesa del finalismo deflattivo sotteso al rito.
Né si dica che la strada imboccata dalla giurisprudenza fosse obbligata dinanzi alla
scelta compiuta dal legislatore del processo, il quale, ben potendo espressamente recidere il legame tra la sentenza di patteggiamento e l’operatività di tutti o di taluni tra
gli effetti penali discendenti dalla sentenza di condanna, ha lasciato che sia ancora la
(82) La natura aperta di tale categoria ne ha determinato «il progressivo incremento e la consequenziale perdita dell’apparato giuridico nel suo complesso di controllare gli innumerevoli effetti che la
sentenza di condanna produce». Se lo stesso legislatore «non ha ben presenti il nugolo di conseguenze
pregiudizievoli che si abbatterà sul condannato»,
pure «il giudice si trova sovente nell’impossibilità di
‘prevedere’ gli effetti sanzionatori della sua pronuncia». Da questo punto di vista gli effetti penali integrerebbero delle vere e proprie “pene occulte”: cfr.
LARIZZA, voce Effetti penali, cit., p. 220. Simili considerazioni acquistano particolare valore qualora si
acceda ad una nozione ampia di effetti penali, comprensiva delle preclusioni operanti in ambiti diversi
da quello penale.
(83) Come il “rito della stigmatizzazione” attinga “a
piene mani dalla categoria degli effetti penali”, è ben
spiegato da LARIZZA, voce Effetti penali, cit., p. 218.
(84) Rientrano in un simile disegno la scelta di non
includere l’ammissione di colpevolezza tra i presupposti del rito, la circostanza che la sentenza applicativa della pena concordata non dichiari l’imputato
colpevole come invece prevede l’art. 533 c.p.p., non-
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ché il rifiuto di classificare la medesima sentenza
alla stregua di condanna: cfr. sul punto AMODIO,
Giustizia penale, cit., p. 704, secondo il quale «la
natura di decisione atipica è dettata dal favor rei». In
tal modo la disciplina del patteggiamento «permette
di accettare una pena che non scarica sul destinatario la stessa dose di biasimo e di stigmatizzazione
sociale che la qualifica di colpevole usualmente
comporta»: così CAPUTO, Il diritto penale, cit., p. 252.
(85) Si allude al tentativo (segnalato da SCELLA,
Patteggiamento, cit., p. 12, nota 30) di collegare gli
effetti penali ex art. 168, comma 1 e 177, comma 1,
c.p. nonché ex art. 93, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990,
n. 309, non all’aver “commesso” ma all’aver “riportato condanna” per uno dei reati vi previsti (em.
4.0.100 testo 2, a firma di Fassone, Calvi, Ayala,
Maritati). Il relatore al Senato, nell’esprimere parere
negativo al riguardo, lo argomentava asserendo che
la modifica suggerita «nel completare il discorso del
patteggiamento come vera e propria sentenza di
condanna» avrebbe scoraggiato dall’aderire al rito
«moltissime persone e questo è contro la ratio dell’istituto» (Atti del Senato, XIV leg., Aula, seduta 29
gennaio 2003, n. 318, in www.senato.it).
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clausola ex art. 445, comma 1-bis, c.p.p. ad illuminare di fioca luce la complessa esegesi in materia. Benché criticabile, il silenzio serbato dal legislatore non rappresenta
una novità: si è visto come, proprio impugnando la chiave di lettura desumibile da
quella clausola, la giurisprudenza anteriore al 2005 avesse alleviato il carico sanzionatorio della sentenza a pena negoziata. Il cambio di passo si deve, dunque, non già
alla persistente lacuna legis, ma ad una mutata sensibilità della Cassazione ai fondamenti di diritto sostanziale che presiedono alla pena.
Emerge a tal punto il risultato paradossale cui approda l’indirizzo in commento. Il
vulnus inferto ai principi costituzionali dalla scissione – sempre più marcata – tra giudizio ed effetti sanzionatori finisce per smarrire l’originaria ratio ispiratrice dell’istituto consistente nel dar sfogo alle istanze di economia processuale. Se il gravoso carico sanzionatorio che può ormai accompagnare la sentenza emessa in esito ad entrambi i moduli del patteggiamento genera una ridotta appetibilità del rito, niente più giustifica l’elusione del principio di legalità cui approda la giurisprudenza dominante. Si
consuma, così, un sacrificio altissimo sull’altare di una vuota divinità.
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