Il Colosseo fu costruito sull'area del lago, di cui Nerone aveva arricchito la sua Domus Aurea, alle falde del Celio dell'Oppio e della Velia.
Il terribile incendio del 64, che devastò ben dieci delle quattordici regioni augustee, distrusse tutti gli abitati compresi tra l'Oppius, il
Fagutal e le Carine, e con questi la Domus transitoria, il palazzo imperiale innalzato tra il Palatino l'Oppio ed il Celio. Nerone, subito dopo
l'incendio, iniziò la gigantesca costruzione della domus aurea, dove secondo Svetonio, ogni cosa era rivestita di oro. Tra le numerose
meraviglie essa conteneva una coenatio, o sala rotonda, che girava continuamente giorno e notte, mossa indubbiamente da una ruota
idraulica a cui doveva fornire l'energia una speciale derivazione dell'acquedotto Claudiano.Acque Salse Albule o solforose alimentavano i
ricchi bagni di cui la villa era doviziosamente fornita.
La domus aurea era talmente estesa che Roma sembrava quasi un borgo in suo confronto; nell'interno di essa Nerone, come si è detto,
fece scavare anche un capace bacino e dopo averlo riempito di acqua, ne adornò le rive di svariati edifici e vi dette importanti naumachie;
prosciugato poi da Vespasiano, servì per erigervi l'anfiteatro Flavio.
La morte di Nerone interruppe la costruzione della domus aurea, che fu ripresa da Ottone nei pochi mesi del suo regno, fino a che, saliti
sul trono i Flavi, la domus aurea di cui Nerone aveva fatto la residenza favorita, fu da essi, e specialmente da Vespasiano, uomo di gusti
molto semplici, demolita in gran parte ed i terreni che la circondavano destinati ad uso pubblico.
E' noto come Vespasiano abbia assunto le redini dell'Impero all'età di 60 anni, nel 69 di Cristo, mentre era nella Palestina a combattere
contro i Giudei. Ritornato a Roma, ne imprese la trasformazione edilizia con tale ardore che in capo a pochi mesi le vie della città, rese
impraticabili da una trascurata manutenzione, ritornarono in ottimo stato; l'opera sua più grande fu indubbiamente la costruzione
dell'Anfiteatro Flavio. Nell'ordinare il grandioso edificio, era naturale che l'Imperatore, ormai sui 65 anni, imponesse tutti quei
procedimenti più rispondenti al celere compimento dell'opera, in modo che fosse riservata a lui la gloria della dedicazione o, come diciamo
ora, della inaugurazione dell'imponente edificio.
Però malgrado gli espedienti geniali ora rivelati, che danno quasi la testimonianza della febbre costruttiva con cui fu innalzata la mole
maestosa, Vespasiano non potè avere la grande soddisfazione di solennizzarne la dedicazione, onore invece riservato al figlio Tito, l'anno
seguente alla sua stessa ascesa al trono, quando ancora il monumento non era completamente finito.
L'immensa altezza dell'anfiteatro Flavio, di cui
la fronte esterna si eleva di ben 56 metri
dall'antico fondo dello stagno neroniano, e
preme perciò alla base con un carico unitario di
oltre 11 kilogrammi a cmq. doveva certamente
preoccupare gli architetti, per la stabilità
dell'edificio. Occorreva quindi ricercare una
località dove le fondazioni potessero essere
spinte a tale profondità, da dare sicura garanzia
di un terreno perfettamente resistente al
carico ingentissimo che doveva sopportare.
Non fu quindi a caso, o per un'esclusiva ragione
di opportunità politica, tra cui per esempio
quella di utilizzare a vantaggio del popolo i beni
del precedente imperatore, che gli architetti di
Vespasiano scelsero l'area dell'antico stagno
Neroniano per erigervi l'anfiteatro.
La fig. 135 rappresenta la pianta dell'edificio, divisa in quattro settori, ognuno
dei quali corrisponde ad un piano ed ordine diverso, in modo da offrirci, l’esatta
distribuzione delle strutture in travertino, distinte con la tinta più scura, in
tutto l'edificio anfiteatrale. Vediamo così nel piano terreno, che i muri radiali,
i quali partendo dall'ambulacro esterno vanno verso l'arena, contengono
inseriti, nella parte massiva quattro pilastri di travertino, corrispondenti ai
numeri 3-4-5-6 della pianta stessa.
Il riempimento tra questi quattro pilastri, che raggiungono l'altezza del
secondo ordine per terminare al disotto della cavea, è stato ottenuto, per il
piano terreno, con opus quadrata di tufo, e per il secondo ordine con
conglomerato cementizio a paramento di semilateres.
In questi muri radiali i pilastri di travertino sono collegati, alla sommità, da
grossi arconi di mattoni bipedali, cioè dell'altezza di circa 60 centimetri,
situati in modo da rendere possibile la costruzione di, tante volte rampanti,
che nel loro complesso costituiscono il grande imbuto o cavea destinata a
sostenere le gradinate di marmo per gli spettatori. Ciò è evidente nella fig. 136
in cui risalta questo differente imposto degli arconi, necessario alla
costruzione della sovrapposta volta a botte inclinata, che è uno degli 80
elementi costitutivi della grande cavea dell'anfiteatro.
Anche nell'altra fig. 139 che rappresenta un muro radiale a cui manca un
pilastro di travertino, in corrispondenza della ringhiera, asportato
vandalicamente, e sostituito di recente nell'opera di risarcimento con un
pilastro laterizio, sono evidenti i due arconi e la soprastante volta a botte
inclinata.
Ora quasi tutti questi arconi hanno una singolare disposizione esterna; il modo
appunto con cui terminano a ridosso dello spigolo dei pilastri di travertino li
farebbe ritenere completamente mancanti di un piano d'imposto; se questo
fosse effettivamente avvenuto, l'impiego di questi archi e dei corrispondenti
pilastri di travertino su cui terminavano, non avrebbe trovato giustificazione.
Invece un'indagine accurata, fatta dove l'arco è scomparso, o dove manca un
tratto del paramento, mi ha rivelato la esistenza di un pulvino d'imposta,
emergente dai lati di uno dei conci di travertino situati nella parte alta di
ciascun pilastro; questo pulvino interno d'imposta mascherato dal paramento
esterno assicurava all’arcone stesso l’appoggio e la stabilità.
La fig. 137 ci mostra schematicamente il pulvino di un pilastro, ed il tratto di
arcone che vi insiste e l'altra fig. 138 la riproduzione di un concio ancora in
opera con il suo rozzo pulvino d'imposto.
A questa constatazione si è poi aggiunta l'altra, secondo la quale le strutture
in opus quadrata di tufo e quelle superiori in opera laterizia, di riempimento
tra pilastri di travertino 3-4-5-6 e che insieme a questi costituiscono le
pareti radiali dell'anfiteatro, si possono considerare come completamente
indipendenti dai pilastri stessi e dagli arconi superiori, e quindi anche
costruiti dopo di essi, in un secondo tempo. Questa possibilità è resa più
evidente dalla grande facilità con cui si può lavorare il tufo, e dalla nota
abilità dei Romani nell'esecuzione dell'opus quadrata.
Al piano terreno per esempio, dove i pilastri di travertino, 4-5, intermedi
delle strutture radiali, hanno anche dei risalti e delle rientranze per
assicurare l’immorsatura con la struttura in tufo di opus quadrata, nulla
esclude che questa opus quadrata sia stata eseguita indipendentemente dalla
costruzione dei pilastri in travertino, anzi questa indipendenza ci è
documentata in modo evidentemente particolare nella fig. 142 che ci
rappresenta un tratto di muro radiale con i pilastri di travertino 1-2-3-4. In
queste riproduzioni il piano di posa dei corsi di opus quadrata, è affatto
indipendente dai piani di posa dei massi di travertino dei pilastri stessi.
Ora se questa indipendenza non risulta a prima vista in modo egualmente
evidente in tutti i muri radiali del piano terreno, un'infinità di minuti
particolari che non possono sfuggire ad una attenta investigazione, ce ne
fanno assolutamente certi. Del resto basta che essa sia dimostrata in diversi
punti perchè possa essere accertata per tutta l'opera restante.
Al secondo ordine dell'anfiteatro questa indipendenza tra i pilastri di
travertino ed il riempimento in tufo o in laterizio, è indiscutibilmente
dimostrato dalle documentazioni fotografiche. La fig. 144 rappresenta un
tratto di uno dei pilastri di travertino del secondo ordine e l'opera quadrata
che gli è addossata, la fig. 143 i pilastri di travertino e l’opus laterizia che li
unisce e che trovasi anche al secondo ordine.
Ora l'ufficio di questi arconi non sarebbe comprensibile se essi
fossero stati eseguiti direttamente sopra le murature che
risultano a loro sottostanti; queste poi hanno uno spessore tale
che sarebbe stato ridicolo alleggerirle, con archi di scarico, del
lieve peso rappresentato dalle volte rampanti costituenti la
cavea.
Risulta chiaro allora il concetto geniale della costruzione
dell'anfiteatro. I pilastri di travertino nella zona sottostante alla
cavea, in un certo momento completamente isolati, formavano un
organismo solo con gli archi rampanti che li collegavano, e questi e
quelli in un primo tempo sostenevano, in uno scheletro
indipendente di archi e pilastri, le volte di sostegno della cavea,
prima che le murature di riempimento tra i pilastri stessi fossero
eseguite. Le dimensioni di questi pilastri e la loro costituzione li
rendevano perfettamente rispondenti al carico loro assegnato ed
alla funzione loro imposta, che rivela un vero tratto di genio
costruttivo ed organizzativo degli antichi Romani. Fig. 150.
Questo procedimento tanto semplice, quanto evidente, ha
consentito di giungere in modo rapidissimo alla costruzione del
grande imbuto della cavea ed alla copertura del secondo ordine di
ambulacri ; nello stesso tempo ha reso possibile costituire due
vastissimi ordini di cantieri di lavoro sulla stessa superficie : un
primo in basso completamente al coperto per lavorare anche in
tempo di pioggia, ed un secondo in alto sopra il piano della cavea,
per la costruzione della parte superiore dell'edificio.
Nella parte coperta, ossia nei cantieri inferiori si sviluppavano
tutte le numerose murature tra i pilastri di travertino, le volte
rampanti delle scalee, le volte perimetrali di copertura
dell'ambulacro terreno, gli intonaci e le opere decorative a
stucco; nei cantieri superiori tutte le opere murarie, relative alla
costruzione degli ultimi due ordini dell'anfiteatro, del podio,
delle gradinate e la costruzione del portico ligneo terminale.
Importanza fondamentale ebbero anche le opere
provvisionali e non solo per il getto di tutte le volte
tra le strutture di travertino. Chiunque percorra
l’ambulacro del terzo ordine può osservare una serie
di mensole, ognuna delle quali sporge circa di 30 cm,
dalla faccia interna del pilastro. Per le loro dimensioni
atte ad una eccesionale resistenza, sono stati
supporti delle armature in legno, usate nel periodo
costruttivo dell’anfiteatro. Ecco dunque che è
possibile ricostruire i saettoni che su di esse
poggiavano per sorreggere un ponte a sbalzo.
In una prima fase alla costruzione delle volte della
cavea esse abbracciavano tutta la superficie della
cavea per rendere possibile il sollevamento e la posa
in opera dei travertini delle pareti perimetrali. La
seconda fase corrisponde all’elevazione del secondo
ordine esterno
La Maison Carree a Nimes 30 a.C.
Una interpretazione romana del tempio greco
Il tempio di Augusto e Livia a Vienne
l’antica Vidobona
I romani hanno coniugato il principio del temenos (appezzamento di terreno assegnato al culto) con
l’agorà. La Maison Carrée è il tempio romano sopraelevato in una piazza rettangolare interamente
circondata da portici intorno ad un solo tempio a ridosso del lato corto di fronte all’ingresso della
piazza. Nel temenos il tempio è isolato nel mezzo dell’area sacra. La struttura romana è invece
collegata al contesto che la circonda. Al dislivello naturale l’architetto aggiunge la sopraelevazione
del piano di base con una sorta di podio di circa tre metri di altezza. Il podio è eredità della cultura
etrusca. Per entrare nell’edificio bisogna dunque servirsi, come in tutti i templi latini di una
scalinata posta sulla facciata principale. Il tempio è pseudo peripter, ossia la cella ingloba nelle sue
mura le colonne della facciata posteriore e 8 su 11 delle colonne di ciascun lato lungo. L’edificio si
compone di due parti un ampio pronao e una cella completamente chiusa.
A Vienne troviamo una disposizione intermedia tra il tempio a tre portici e quello pseuso periptero.
Il tempio faceva parte di un insieme
architettonico di cui costituiva l’elemento
essenziale. Questo insieme oggi ricoperto
dalla città moderna che racchiude troppo da
vicino il santuario e gli fa perdere le sue
proporzioni, era inserito nel foro.
La Maison Carrée è di ordine corinzio. Le proporzioni si rifanno a Vitruvio
Il tempio di Bacco a Baalbek
Questo complesso colpisce per la vastità
delle proporzioni. Il tempio di Bacco è
l’edificio meglio conservato. Periptero
con una doppia fila di colonne nel pronao è
costruito su un alto basamento. Al fondo
della sala l’adyton , casa del dio, il cui
accesso era permesso ai soli sacerdoti,
formava una unità monumentale autonoma.
Senza dubbio costruito con volta a botte,
esso non era illuminato che dalla porta e
da due piccole finestre nell’adyton.
L’ordine basilicale nei santuari romani
risponde al desiderio di attirare
all’interno della cella il cerimoniale che il
rituale tradizionale manteneva fuori.
L’uso di un partito monumentale all’interno
dell’edificio suggerisce l’esistenza al di là
della parete che ornano di un mondo
misterioso, una specie di paese delle
meraviglie di cui noi percepiamo le
prospettive infinite attraverso questa
parete , essa stessa pensata come
trasparente. Questo invito a rendere più
profonda la composizione è accentuato
dalle nicchie che forano il muro dietro il
portico con scure macchie di ombra.
L’inquadratura delle nicchie è trattata
come quella delle finestre o delle porte:
sono le porte del paese degli dei e gli
stessi vengono sotto forma di statue , per
accogliere i loro visitatori sulla soglia.
La Maison carrée a Nimes
Il tempio di Bacco a Baalbek
L’architettura romana era architettura: molti edifici non erano opere
d’arte, ma erano architettura. Lo spazio interno è grandiosamente
presente, e se i romani non avevano la vibrata raffinatezza degli
scultori architetti greci, avevano il genio dei costruttori architetti, che
è in fondo il genio dell’architettura.
La pluriformità del programma edilizio romano che nettamente si
oppone all’univoco tema dell’architettura greca, la sua scala
monumentale, la nuova tematica costruttiva degli archi e delle volte
che riduce colonne e trabeazioni a motivi decorativi, il senso dei
grandi volumi nei serbatoi, nei tumuli, negli acquedotti, negli archi, le
possenti concezioni spaziali delle basiliche e delle terme, una
coscienza altamente scenografica.
Se mettiamo a confronto le terme romane e il tempio greco ci
rendiamo conto della totale diversità dello spazio per l’impostazione
architettonica che non chiude, ma copre lo spazio
Anche nei monumenti in cui i romani non sfruttarono la loro capacità di voltare gli
ambienti, anche nei templi e nelle basiliche in cui si valsero del sistema di supporto e
trabeazione applicato in Grecia, è chiara l’antitesi tra le due culture. Mettiamo vicino
tempio greco e tempio romano e ci accorgiamo che fondamentalmente i romani hanno
portato i colonnati che cingono i templi all’esterno, all’interno. La civiltà greca ha
conosciuto pochi colonnati interni, quando ci sono come nel tempio di Poseidone a
Paestum, essi rispondono alla necessità costruttiva di sostenere le travi di copertura,
non ad una concezione spaziale interna.
Portare il colonnato greco all’interno significa deambulare nello spazio racchiuso e
convergere tutta la decorazione plastica all’interno di questo spazio.
La pluriformità del programma edilizio romano che nettamente si oppone all’univoco
tema dell’architettura greca, la sua scala monumentale, la nuova tecnica costruttiva
degli archi e delle volte che riduce colonne e trabeazioni a motivi decorativi, il senso
dei grandi volumi negli acquedotti, negli archi
La basilica romana è simmetrica rispetto
ai due assi. Essa crea uno spazio che ha
un centro preciso
La colonna traiana è un monumento funerario ma
anche un monumento alla vittoria. La sua base
conteneva le ceneri dell’imperatore, il fusto il
lungo nastro scolpito, che si sviluppa in spirale e
rappresenta la conquista della Dacia, ma
sopratutto la lotta intrapresa dall’imperatore per
la divinizzazione. Deve dunque provare il suo
coraggio e il suo talento strategico, ma anche le
qualità morali necessarie a un sovrano. Devozione
verso gli dei, giustizia e benevolenza verso i
cittadini e i soldati, clemenza nei confronti dei
vinti. I temi ripresi per la decorazione sono
orientati in questo senso anche se in qualche caso
hanno un valore storico minore.
Il Ponte sul Gard
Tutti sanno che si tratta di un acquedotto destinato a portare a Nimes le acque della sorgente d'Eure, vicino a Uzès.
Studieremo più tardi il ruolo che l'acqua aveva per gli agi della comunità che caratterizzano la civiltà romana; venivano
fatti tutti gli sforzi per procurarsene delle quantità enormi, e noi abbiamo già visto citando Frontino, che la dignità del
«curator aquarum» era una delle più alte cariche dell'Impero. Ma troppo spesso si crede che gli acquedotti consistessero
essenzialmente in quelle alte arcate di cui il Ponte sul Gard ci offre sicuramente un magnifico esempio. Di fatto
l'acquedotto è un canale di conglomerato, che collega la sorgente d'origine al luogo di utilizzazione; il problema è di
stabilire la pendenza più favorevole allo scolo dell'acqua, lungo un percorso che attraversa spesso regioni molto
accidentate perché le sorgenti migliori sgorgano dalla montagna. Gli ingegneri romani, infatti, non amano affatto servirsi
del sifone, ideato dagli idraulici di Alessandria; ed è solo eccezionalmente, come, per esempio, per l'approvvigionamento di
Lione, che essi ricorrono a questo procedimento. Abitualmente, il condotto è ricavato in sterro nelle parti del percorso
dove l'altezza del terreno è superiore al profilo dell'acquedotto e in elevazione nelle depressioni. Le arcate non sono
utilizzate, per principio, che per superare le valli: è il caso del Ponte sul Gard. Ciononostante ci si rese ben presto conto
che queste preservavano l'acqua dalla sporcizia e dai furti, e soprattutto nelle vicinanze di Roma, vennero utilizzate per
costruire in elevazione la maggior parte della canalizzazione.
Questa canalizzazione, che è il cuore dell'acquedotto, sembra essere una delle invenzioni più tipicamente romane. I
contadini del Lazio e dell'Etruria meridionale avevano dovuto, già da tempo, scavare canali nel tufo per prosciugare le
paludi che si formano e riformano così facilmente in questa regione. A Roma, il primo nucleo abitato era situato sulle
colline, non potendo estendersi nelle valli – soprattutto a quella del Foro – se non dopo la canalizzazione dei rigagnoli che in
origine scorrevano disordinatamente sul loro fondo; si arrivò a questo a partire dal VI secolo, inizialmente con mezzi
rudimentali: la Cloaca Massima restò a cielo scoperto durante parecchi secoli. Dapprima fu ricoperta con delle assi, e la
volta che ora la chiude non è anteriore alla fine della Repubblica.
L'idea di servirsi dei condotti per portare l'acqua e non solo per evacuarla, prende forma alla fine del VI secolo a.C. Il
censore Appio Claudio Ceco, uno dei più grandi uomini politici di quei tempi e uno dei fondatori dell'espansione imperiale, fa
allora sistemare, contemporaneamente alla strada che collega Roma alla Campania, «l'aqua Appia», che portava l'acqua di
una sorgente lontana dalla capitale una quindicina di chilometri; il canale, scavato nel tufo dove appena era possibile, era
costituito, quando c'erano terreni friabili e melmosi, da blocchi di pietra forati nel centro a tubo e addossati gli uni agli
altri.
Ponte acquedotto sul
Gard a Nimes
20 a.C.
Archi di granito
dell’acquedotto
romano a Segovia