Chiesa di Santa Maria in Valle Porclaneta Descrizione Di origine benedettina si trova di fronte le pendici del massiccio del monte Velino, costruita probabilmente come parte di un insieme conventuale oggi scomparso, ad opera di un certo Nicolò nel 1048 in forme semplici del primo romanico con influssi bizantini, ed in seguito donata all'abbazia di Montecassino. Conserva all'interno un ambone scolpito con influenze orientali e bizantine, attribuito a Nicola da Guardiagrele con storie bibliche, un ciborio con intarsi di derivazione moresca e una rara iconostasi in legno sorretta da quattro colonnine con capitelli decorati e fusti tortili. L'iconografia lignea è unica al mondo e rappresenta la conformazione dell'antico Tempio di Re Salomone, con le due colonne pilastro che sorreggevano il Tempio stesso: le colonne di Ioachim e Boaz, rispettivamente la "colonna del maestro" e la "colonna dell'apprendista". La stessa iconografia è rappresentata nella Cappella di Rosslyn ad Edimburgo in Scozia. Storia La chiesa di Santa Maria in Valle Porclaneta fu eretta nella prima metà dell'XI secolo. nella valle del Velino, nei pressi dell'antica Rosculum (o Rusculum). Accanto alla dedicazione alla Vergine il tempio conserva il nome antico della valle, "Porclaneta", la cui origine è variamente interpretata: termine in uso nella lingua ebraica, con significato di "baratro"; dal greco "poru clanidos" (manto di tufo); culto locale della divinità pagana di "Porcifer" (o "Purcefer")[1]. La chiesa, inclusa in un più ampio complesso conventuale, esisteva nella valle già nella prima metà dell'XI secolo, posta sopra il castello di Rosciolo, feudo dei Conti dei Marsi. Nel 1077 Berardo di Berardo donò il Castello al monastero, che nel 1080 divenne di pertinenza dell'abbazia benedettina di Montecassino. Alterne vicende interessarono la chiesa nel corso dei secoli: la distruzione avvenuta nel 1268 in concomitanza con la battaglia fra Corradino di Svevia e Carlo d’Angiò; un periodo di abbandono da parte dei monaci nel 1362; le dispute fra i Conti dei Marsi e l'abbazia di Farfa per la proprietà del cenobio; l'acquisizione del complesso da parte della famiglia Colonna e la rivendicazione regia nel 1765; la distruzione del monastero fino ai restauri piuttosto invasivi del 1931. Nonostante si siano del tutto perse le tracce del monastero e quasi del tutto quelle del chiostro, la chiesa ha conservato il suo originario impianto benedettino, caratterizzato da una spazialità semplice ed essenziale e da una decorazione plastica di altissima qualità. L'organismo consisteva in un'aula rettangolare conclusa da un'abside semicircolare e divisa in tre navate da possenti pilastri posti a sostegno di arcate a tutto sesto. Al di sotto della zona presbiteriale furono ricavati gli ambienti ipogei della cripta, voltata a botte. Dell'impostazione primitiva della chiesa si conserva solo il braccio destro (la parte sinistra crollò durante la campagna di lavori del 1931), a cui fu aggiunta una navatella ad un livello leggermente inferiore. Lo schema planimetrico, ampiamente sperimentato in ambito cassinese, subì un processo di adeguamento alle formule iconografiche del mondo benedettino. Due iscrizioni incise sui fianchi dei pilastri dell'arcone d'ingresso ricordano i protagonisti di questo rinnovamento: il donatore Berardo di Berardo e l'esecutore Maestro Niccolò. La semplice impostazione della chiesa marsicana è più articolata in prossimità dell'ingresso, dove fu costruito una sorta di pronao fra il portale gotico ed il distrutto chiostro conventuale. La decorazione architettonica del tempio consiste nei pittoreschi capitelli dei pilastri, vigorosamente scolpiti a raffigurare elementi geometrici, vegetali, zoomorfi e figure umane intrise di profonde simbologie (inerenti alla prima fase architettonica, realizzati verosimilmente dagli scalpellini che collaboravano con Niccolò) e nella cosiddetta “cornice benedettina”: un motivo decorativo d'ispirazione campano-abruzzese (applicato come collarino di pilastri, o come abaco sui capitelli, o come capitello di lesene) legato alla ripresa classicista promossa dall'abate cassinese Desiderio. I frammenti della recinzione presbiteriale della chiesa (gli unici ad essersi conservati in Abruzzo, insieme all'iconostasi di San Pietro di Albe) possono altresì essere inclusi in un gruppo di sculture inerente al primo quarto del XII secolo, caratterizzato dalla resa marcatamente lineare di tralci “a canna”, posti ad inquadrare foglie e frutti. A quest'apparato esornativo si aggiunse, sul finire del XIII secolo, la splendida decorazione della cortina muraria dell'abside poligonale, in cui si possono ravvisare molteplici punti di contatto con la facciata della chiesa di Santa Giusta di Bazzano e, soprattutto, con le coeve costruzioni lombarde. Elementi di maggior spicco del tempio abruzzese sono tuttavia da riconoscere nel ciborio e nell'ambone firmati nel 1150 da Roberto, che lavorò in collaborazione con Nicodemo. Sia l'ambone (posto ancora nella sua collocazione originaria) che il ciborio sono caratterizzati da un gusto calligrafico desunto dagli ornati della miniatura, che concede tuttavia ampio spazio ad articolati ed appassionati temi narrativi. Secondo quanto riportato nel libro "La Rivelazione dell'Aquila" di Ceccarelli e Cautilli, prendendo spunto dalle teorie della scrittrice Maria Grazia Lopardi sulla famosa battaglia del 23 agosto 1268 (impropriamente chiamata di Tagliacozzo da Dante Alighieri nella sua Divina Commedia, in realtà combattuta nei pressi di Scurcola Marsicana), la Chiesa si lega ai misteri legati ai Cavalieri del Tempio, alla Città dell'Aquila, che ha a sua volta forti connessioni con la città santa di Gerusalemme, ma soprattutto al mistero su cosa abbia spinto la popolazione aquilana a tradire i suoi fondatori svevi per appoggiare gli angioini di Carlo I D'Angiò.