Terza lezione Dall’uomo tecnologico al dominio della tecnica Se con la modernità la tecnica si salda tenacemente al dire e al fare scientifico nell’ottica di un controllo della realtà che vede l’uomo come padrone dell’essere nel suo insieme, con l’avvento della società contemporanea si assiste a una ulteriore trasformazione concettuale da cui deriva, è bene sottolineare la relazione di causa ed effetto, tutta una serie di eventi storici che hanno segnato le drammatiche vicende del Novecento. Non soltanto le due guerre mondiali che hanno lasciato sul campo di battaglia milioni di morti, ma il ricorso alla bomba a idrogeno, lanciata sulla popolazione inerme, e l’organizzazione razionale dello sterminio del popolo ebraico, consumato nell’efficientissima Germania, luogo d’elezione della filosofia contemporanea da Leibniz sino ad Heidegger, rappresentano la cifra concreta, il volto più umano e brutale che la tecnica ha assunto nel corso del Novecento. La tecnica contemporanea è figlia senz’altro della storia che l’ha preceduta, essa affonda le proprie matrici concettuali tanto nel pensiero antico quanto in quello moderno; allo stesso tempo però lungo il corso dell’Ottocento avviene in filosofia una grande trasformazione nei nodi del pensiero che modifica la struttura di base nella comprensione della tecnica. Proviamo dunque a riassumere brevemente questo passaggio: Se con Cartesio, padre del razionalismo moderno, l’uomo – e la realtà nel suo insieme – era pensato come strutturalmente costituito da un dualismo di fondo, la celebre contrapposizione tra res cogitans res extensa, con l’idealismo hegeliano si prova a ricucire questa separazione, pensando l’uomo nella sua interezza, ma assegnando allo stesso tempo allo spirito quella ‘capacità’ di informare la materialità, di permeare di sé la res extensa. Da qui l’idea che il pensiero umano sia in grado di dominare totalmente attraverso il logos – inteso tanto come ragione, quanto come pensiero, linguaggio e strumentalità, la totalità nel suo insieme, la realtà nel suo insieme. Il pensiero umano, insomma, è facoltà dell’afferrare, del catturare, del dominare il mondo nella sua interezza, non già nella singolarità dell’individuo che ha potere su qualcosa, quanto nella generalità del logos che insieme dice e supera l’individuo. In tal modo la tecnica, in quanto modalità dell’esecuzione del logos, non rappresenta più o soltanto quella peculiare volontà umana di afferrare comprendendo e dominando il mondo, ma la manifestazione più autentica dell’IDEA che attraversa la storia e di cui l’uomo è un esempio, un caso, ma non più l’artefice. La ricomposizione voluta dalla filosofia hegeliana di rinsaldare il divario tra soggetto e oggetto tanto di Cartesio, quanto, sebbene ingiustamente, di Kant, non rinnega tuttavia la volontà di dominio, ma la sposta semplicemente dall’esterno all’interno, rendendo l’uomo parte integrante di una realtà che nel suo perenne dispiegarsi afferma se stessa, l’idea che non già l’uomo, ma la storia consista in un processo di dispiegamento e affermazione di un ideale che, pur passando per la negazione e per il negativo, non può che essere destinato a compiersi. Ora, questo passaggio riveste un ruolo decisivo nella trasformazione della tecnica da strumento naturale che caratterizza il fare umano in quanto fare tecnologico (già Aristotele e Platone ne avevano, seppur da prospettive diverse e con giudizi differenti) a accadimento inevitabile che caratterizza la realtà nel suo insieme e dunque l’uomo che ne fa parte. Da questo trasformazione nell’interpretazione fondamentale della tecnica derivano alcune importanti conseguenze: 1. Da dominante l’uomo diventa dominato: se la tecnica non è strumento nelle mani dell’uomo ma è puro inevitabile accadere essa sfugge al controllo dell’uomo. E cioè l’uomo è risucchiato da quella stessa tecnica che pure credeva in grado di dominare e di dargli dominio sulle cose. 2. La tecnica da strumento diviene evento: la tecnica è il modo che ha il logos di relazionarsi al mondo, ma il logos umano è espressione, momento, stadio di un processo più generale, più universale che, sebbene dipendente, supera nella sua essenza le determinazioni concrete. La tecnica, insomma, in quanto accadimento della storia, è neutrale, ovvero non dice una modalità positiva o negativa del relazionarsi, perché precede di fatto le determinazioni morali. La tecnica è neutrale. 3. La tecnica non indica più un agire, ma un patire: dal momento che la tecnica non è più espressione di deliberazione e volontà, ma corrispondenza a un accadimento della storia, l’uomo di fatto non può sottrarsi al dominio della tecnica, non può di fatto opporsi a questo accadere, ma deve imparare a misurare le sue azioni in base all’accadimento tecnico che lo circonda. Il nostro filo conduttore per rintracciare le radici di questa trasformazione, il suo compiersi e, non meno importante, la disamina di eventuali indicazioni morali che possano essere adeguate alla modalità con cui l’uomo deve rapportarsi a questo nuovo evento, che non ha precedenti nella storia, sarà un piccolo scritto di Heidegger composto appena dopo la fine del secondo conflitto mondiale, nel 1946, La lettera sull’Umanismo1. Scritto in risposta a una lettera del filosofo francese Jean Beaufret che domandava ad Heidegger se era possibile ‘ridare un senso alla parola umanismo’, questo breve saggio affronta, seppur con un tono meno sistematico di altri scritti heideggeriani, il tema della relazione dell’uomo al mondo, e dunque all’essere nel suo insieme, nell’era attuale che dal filosofo friburghese è definita come ‘epoca del dominio della tecnica’. In esso Heidegger prova a mettere in luce, fin dalle prime battute, una sostanziale, ma non altrettanto riflettuta, differenza tra il fare inteso come ‘produrre qualcosa’ e il fare come ‘agire’ che è una modalità dell’azione propriamente umana, ovvero che lo caratterizza, distinguendolo, rispetto agli altri esseri viventi. Per comprendere questa differenza capitale occorre, tuttavia, anzitutto dare alcune tracce biografiche essenziali -tracce che saranno utili per comprendere in quale clima e perché questo scritto può rappresentare uno dei momenti cruciali della riflessione novecentesca sul destino dell’Europa 2 –, ma anche fare una breve premessa sulla 1 M. Heidegger, Lettera sull‘Umanismo, F. Volpi (a cura di), Adelphi, Milano 1987. 2 La comprensione della situazione esistenziale di Heidegger al tempo della composizione della Lettera, dunque negli anni immediatamente seguenti al secondo conflitto mondiale, è determinante per noi. Bisogna comprendere che i filosofi non sono individui avulsi dalla storia, dal contesto storico-fattuale in cui vivono e dagli stessi accadimenti che nelle loro vite personali accadono. Vita e pensiero, sebbene non siano lo stesso, si muovono in una relazione di reciproca contaminazione per cui è impossibile pensare l’una senza l’altra. Dopo una folgorante carriera universitaria, che lo vide in pochi anni bruciare le tappe e occupare nel 1927 la prestigiosa cattedra di filosofia all’Università di Friburgo in Bresgovia – cattedra che era stata del suo maestro, il fenomenologo Edmund Husserl –, Heidegger si avvicinò alle posizioni politiche del nascente movimento nazista. Tale avvicinamento si trasformò al principio del 1933 in aperta adesione, segnato da due differenti episodi: il tesseramento al partito nazista e l’elezione a Rettore dell’Università di Freiburg. Per l’inaugurazione dell’anno accademico del 1933 Heidegger tenne una celebre prolusione intitolata ‘L’autoaffermazione dell’Università tedesca’ nella quale non pochi sono i riferimenti al destino della Germania rispetto al mondo, alle sue potenzialità, alla sua storia. In essa Heidegger indicava ai suoi giovani studenti un cammino da seguire, una presa di coscienza, un monito per prendere in mano la loro storia. Dopo pochi mesi dall’incarico, tuttavia, a seguito anche di alcune rimostranze mosse tanto dalle organizzazioni studentesche naziste, quanto da quelle ebraiche, Heidegger si risolse a dimettersi dall’incarico. Tali dimissioni coincisero con una interruzione delle relazioni con i referenti culturali del partito nazista. Di fatto Heidegger venne osteggiato da quel momento in poi dai dirigenti del partito, ma anche dagli stessi colleghi socialisti e comunisti che ne criticarono l’adesione al partito. Il filosofo continuò a tenere corsi sino al 1941, ma fu emarginato dagli intellettuali del suo paese. Quando nel 1944 la Germania era sull’orlo della disperazione e si risolse a chiamare tutte le forze in campo per difendere le posizioni, oramai fragili, raggiunte in Europa, Heidegger fu l’unico accademico ultracinquantenne mandato a combattere al fronte. Non meno duro fu il trattamento che gli riservarono gli occupanti americani durante il cosiddetto processo di ‘denazificazione’: la sua casa venne occupata dagli americani e la sua enorme biblioteca sequestrata. Gli fu interdetto l’insegnamento accademico. Per contro, lui decise di ritirarsi nella baita sulle colline della foresta nera che pochi anni prima si era fatto costruire senza nessun ‘confort tecnico’ al suo interno. Nel 1946 alcuni intellettuali francesi meditano di reinserire Heidegger nel dibattito culturale post bellico. La lettera sull’Umanismo è il segno di una ripresa dunque, della ripresa di un dialogo che, sebbene fuori dalle aule dell’accademia, e contrassegnata da un ‘riserbo’ sulle snodi storici fondamentali comprensione heideggeriana dell’uomo, ovvero sulla sua nuova interpretazione dell’essere umano che mette in discussione anzitutto l’approccio di tipo metafisico e dialettico (cfr. uomo=animal rationale=zoon logon echon). Nell’opera maggiore del filosofo, Essere e tempo3, viene rigettata fin dalle prime pagine la classica definizione dell’uomo come animal rationale; in questo rifiuto Heidegger respinge tanto la deriva della cosiddetta essenza dell’uomo dall’animalità, quanto la focalizzazione della differenza, e dunque della specificità umana, sulla razionalità in senso stretto, e cioè come quella facoltà di ridurre i contenuti dell’osservazione a contenuti della ragione, facoltà che presiederebbe all’atteggiamento teoretico (nella priorità assegnata in filosofia all’atteggiamento umano rispetto al mondo come atteggiamento teoretico Heidegger vede una linea di continuità che da Platone condurrebbe sino a Hegel e definita come ‘storia della metafisica’ ovvero storia nella quale l’accento è posto più sul carattere gnoseologico dell’umano che non in quello pratico. Con modalità teoretica si indica precisamente il mondo in cui l’uomo si rapporta ai contenuti del mondo circostante mediate un processo scandito dai seguenti passaggi: osservazione della realtà, astrazione in concetti base, incasellamento e catalogazione del reale in base a una relazione generalizzante e/o formalizzante). Se la maggior parte dei filosofi ha insistito sul carattere razionale dell’uomo, e di conseguenza sulla facoltà teoretico-conoscitiva che ne definirebbe essenzialmente l’essere, vi sono di contro alcuni sporadici casi nei quali l’attenzione è rivolta più alla dimensione pratico-fattuale o esistenziale (in linea di continuità Agostino, la mistica medioevale, Pascal, Kant, per certi aspetti lo stesso Schelling). Kant, in questo quadro, costituirebbe la punta di diamante, ovvero il tentativo più profondo e complesso di radicare l’eccezionalità umana nell’ambito pratico: l’essere umano, infatti, e la sua ragione, è limitata fintano che han a che fare con ‘oggetti esterni’, laddove invece la ragione si concentra su oggetti ‘interni’, oggetti cioè che derivano dalla ragione stessa e costituiscono l’impalcatura della nostra soggettività, essa dischiude all’uomo gli orizzonti infiniti della libertà, della metafisica, ovvero di quell’apertura che non è vincolata al mondo fenomenico ma si sporge, comprendendolo a fondo e regolamentandolo, il mondo noumenico. Se nella tradizione metafisica, insomma, l’uomo sarebbe un ente (Seiendes) pari agli altri enti e differente dagli altri esclusivamente in virtù della sua ragione, con la proposta kantiana – letta evidentemente da una prospettiva ontologico-esistenziale non usuale, ma pur sempre possibile – l’eccezionalità dell’uomo rispetto agli altri enti sarebbe invece da rintracciarsi nella sua capacità di costruire un vero e proprio regno dei fini morali: solo la ragione pratica, scrive Kant, è in se stessa pura, ovvero determina se stessa e le sue potenzialità non già in virtù di un apparato teoretico, ma in ragione della sua libertà e della perentorietà del dovere morale che, tuttavia, è pur sempre un prodotto del suo stesso essere. Ora, con la filosofia di Heidegger, che risente nella sua prima fase di motivi esistenzialistici (c’è molto Kierkegaard come è stato giustamente osservato dagli interpreti più attenti), si assiste a una ulteriore determinazione in senso pratico-esistenziale della condizione umana. L’uomo, dal filosofo definito Dasein (esser-ci), non è un ente tra gli enti, un oggetto al pari degli altri, ma nemmeno un soggetto circondato da oggetti, piuttosto è un essere la cui eccezionalità e specificità consisterebbe da un lato nell’occupare un determinato spazio nel mondo (nell’essere qui, intendendo il ci come un locativo) e, dall’altro, di eccedere questa stessa spazializzazione (che non è dunque soltanto locativa, ma esistenziale). Il mondo, tuttavia, non sarebbe un mero margine fisico che contiene la vita umana, ma il raggio d’azione della sua esistenza Il mondo, inteso come ciò in cui l’uomo viene ad essere, è ben più che un margine dell’azione ma quel ventaglio di possibilità che gli sono offerte assieme a tutte le possibilità che gli sono precluse (in primis la morte intesa come possibilità estrema, ovvero come ciò che nel suo compiersi estingue la stessa possibilità). Di fronte a questa apertura, che l’uomo intende come la sua casa, in essa viene ‘al mondo’, si consuma certo un senso di peculiare appartenenza, ma anche, e qui s’insinua dell’Europa durante il periodo bellico, Heidegger tenne con il mondo sino agli ultimi anni settanta. Sul silenzio di Heidegger rispetto al nazismo e all’olocausto in particolare è possibile consultare moltissimo materiale in internet. Esso appare a molti un tema cruciale per giudicare l’intera filosofia di Martin Heidegger. 3 M. Heidegger, Essere e tempo, P. Chiodi (a cura di), Longanesi 1976. l’eccedenza dell’umanità, quel non sentirsi identici a tutte le cose che occupano lo spazio mondano, al mondo nel suo insieme inteso come insieme oggettuale di utilizzabili, e cioè cose con cui ‘io mi do da fare’. La distanza dalle cose, il sentirsi eccedenti rispetto ad esse, va di pari passo al riconoscimento che altre identità, come me nel medesimo stato sospeso tra appartenenza ed eccedenza, mi sono simili. I miei simili sono tutti coloro che mi circondano in questo spazio mondano, che condividono il mio stesso destino e che, come me, sperimentano la differenza con la mera oggettualità utilizzabile. Se dunque la prima modalità di relazione al mondo come insieme oggettuale è una modalità del fare manipolante utilizzabile, di fronte all’apertura di un altro essere come me, questo tentativo, che pure può accadere perché iscritto nella modalità primaria della relazione, è destinato al fallimento: i miei simili, gli altri in quanto tali, non possono essere spogliati da quel modo di essere apparentemente eccedente che li caratterizza e che non dipende dal mio pensiero, dal mio fare, dal mio agire. Per quanto si possa, non c’è alcun dubbio, trattare gli altri come semplici oggetti utilizzabili (fare degli esempi), essi non si riducono a oggetti, essi non diventano oggetti solo perché io posso pensarli tali (vanno inseriti dei rimandi a Sein und Zeit in fotocopia, bisogna far leggere loro qualcosa!). Vediamo dunque a vedere come si apre lo scritto di Heidegger di cui tratteremo. Al principio è in discussione proprio il concetto di potere. Cosa significa avere potere? Fin dove ne abbiamo? Su cosa, davvero? ‘Noi non pensiamo in modo abbastanza decisivo l’essenza dell’agire. Non si conosce l’agire se non come produrre un effetto la cui realtà è valutata in base alla sua utilità. L’essenza dell’agire, invece è il portare a compimento (Vollbringen portare a pienezza propriamente). Portare a compimento significa portare qualcosa alla pienezza della sua essenza, condurre fuori a questa pienezza, producere. Dunque in senso proprio può essere portato a compimento solo ciò che già è. Ma ciò che prima di tutto è è l’essere. Il pensiero porta a compimento il riferimento (Bezug) dell’essere all’essenza dell’uomo. Non che esso produca o provochi questo riferimento 4). Il pensiero lo offre all’essere solo come ciò che gli è stato consegnato dall’essere. Questa offerta consiste nel fatto che nel pensiero l’essere viene a linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere; essi, infatti, mediante il loro dire, lo conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono. Il pensiero non si fa azione perché da esso scaturisce un effetto o una sua applicazione. Il pensiero agisce in quanto pensa. Questo agire è probabilmente il più semplice, ma forse il più alto’ 5. In un rovesciamento apparentemente ardito tra pensare e fare, Heidegger colloca nel pensare l’azione più significativa che spetta all’uomo rispetto al mondo che lo circonda. Tuttavia, lo stesso pensare non è più inteso come una certa tradizione metafisica ha voluto intendere, ovvero come quella disposizione teoretica di fissare oggettivamente i contenuti dell’esperienza, al contrario il pensare è autenticamente un fare perché la prima modalità della relazione al mondo e agli altri è tipo pratico. Andiamo un passo per volta. 4 Evidentemente la relazione tra l’uomo e il suo essere, tra l’uomo e l’essere in generale, è un che di originario, improducibile così come non riproducibile (l’essere non è un dato, certo, non un positum, ma ci è in qualche modo sempre offerto, ovvero è ciò che ci precede e insieme rappresenta l’orizzonte significante della nostre nostra esistenza). Con la sottrazione dell’essere dal dominio del pensare – l’essere come ciò che è indisponibile – Heidegger intende per un verso sottrarre la questione dell’essere a una pura interpretazione gnoseologica, dall’altro però vuole caratterizzare questa datità ontologica dell’essere come qualcosa di non totalmente dispiegato, ma aperto al senso, ovvero al modo della relazione dell’uomo al suo stesso essere. Per sintetizzare: il fatto che l’essere non dipende da noi, ma come l’essere è, ovvero quali sono le possibilità della sua attestazione dipende dal fare e dall’agire umani, attiene al regno della libertà e, dunque, propriamente dell’etica. 5 M. Heidegger, Lettera sull’Umanismo, pp. 267-268. Nella prima fase della sua riflessione filosofica Heidegger insiste, sebbene talora in modo scomposto e non del tutto rigoroso, sulla necessità di tornare a ripensare su ciò che origina e mantiene desto il pensiero. Egli individua nella riflessione sulla vita lo scopo primario della filosofia. Siamo negli anni venti. L’Europa è appena uscita dal primo conflitto mondiale, tutti i valori in cui credevano i giovani si sono frantumati contro il muro della violenza bellica che ha lasciato sui campi di battaglia milioni di cadaveri. L’etica del padri vacilla ma un nuovo senso di rinascita attraversa l’occidente. E un forte senso di riscatto si fa strada nella Germania sconfitta e umiliata (siamo ai prodromi della nascita del nazionalismo sociale). La ragione hegeliana è incapace di spiegare l’assurdo della guerra, ma di contro le filosofie del vitalismo sembrano scivolare proprio nell’alveo dell’assurdo che ha generato la distruzione. La filosofia può ancora dire qualcosa sulla vita? Heidegger, a quanto pare, crede di sì. Crede che filosofia e vita sono saldate in modo tale che è impossibile pensare l’una senza l’altra (sebbene FILOSOFIA E VITA NON SIANO LO STESSO). Da qui l’esigenza di provare a capire cosa sta a monte della filosofia, da cosa essa si generi e se questo legame sia recidibile a un certo punto. ‘la filosofia scaturisce dalla vita effettiva per poi farvi ritorno rimbalzando in essa’. Questa definizione di un circolo che starebbe a monte del pensare, dalla vita alla filosofia e dalla filosofia nuovamente alla vita, non è la mera assegnazione di un oggetto al pensare, ma la descrizione di un modo proprio della filosofia che va indagato più a fondo. Cosa è la vita? Per Heidegger la vita è l’esistenza umana, uno stare al mondo nel quale l’apertura non indica semplicemente lo spazio che occupiamo ma il modo in cui veniamo e stiamo, ovvero ci rapportiamo da sempre e per sempre al mondo. Il mondo, a sua volta, non indica semplicemente un’indicazione locativa ma un insieme di significati e di rapporti e di legami dentro al quali ci troviamo gettati. Il mondo è l’insieme delle relazioni e dei rapporti dentro i quali la nostra vita sorge e si costituisce. Il mondo non è neutrale, ma precompreso, caratterizzato in un modo o in altro: non è lo stesso il mondo che davanti a sé un bambino padovano accolto dalle braccia della madre e ninnato al suono di un carillon e quello di un bambino siriano che in questi giorni nasce stretto da un terrorizzato abbracciato materno sotto il fragore delle bombe. Il mondo è l’insieme di ciò che intorno a noi gli altri fanno e ciò che noi stessi facciamo, ovvero come a esso ci relazioniamo. Il pensiero è azione perché i significati che attribuiamo alle cose del mondo creano il nostro mondo. Ora, in questa visione d’insieme evidentemente Heidegger sta criticando ‘la modalità di apprensione originaria dell’essere che noi stessi siamo’. Ovvero noi nasciamo e ci rapportiamo al mondo non pensandolo astrattamente, ma vivendo in esso, agendo. L’insieme dei significati è dato dalla modalità della relazione e la relazione è sempre pratica: il neonato pensa alla madre non come a un oggetto sentimentale, ma come ciò grazie a cui si creano condizioni di benessere e di soddisfazione, o piuttosto di insoddisfazione e malessere. Nell’intendere gli altri e gli oggetti del mondo tendo a vederli sempre nell’uso che ne faccio, nel riferirli a me e alla finalità con cui io posso raggiungere i miei scopi: le cose e gli altri, scrive Heidegger, sono degli utilizzabili. Utilizzabile è lo strumento, il mondo è l’insieme degli strumenti che io posso utilizzare. Si direbbe a questo punto che la tecnica è la modalità autentica del rapportarsi al mondo. Sbagliato. La tecnica è potere, poter fare qualcosa, potere una cosa o un’altra, un’azione o un’altra. Addirittura la tecnica è anche un poter essere qualcosa, un poter essere immortali, un poter creare la vita. Noi possiamo creare la vita ma non il fondo da cui la vita proviene, possiamo generare l’immortalità, la vita infinita ma non disegnare il margine entro cui a questa vita dare un senso. Noi possiamo dominare le cose, è certo, ma anche nel dominio produttivo qualcosa CI è INDISPONIBILE. C’è un potere più autentico. È il potere della possibilità, il potere del possibile (Kierkegaard), il potere della libertà del tutto simile a quello kantiano perché essa comincia solo a partire da un dovere, ovvero da ‘un punto fermo’ che ci è indisponibile, non ritrattabile, non nelle nostre mani. Nella Lettera sull’Umanismo Heidegger ci dice, quasi poeticamente, che l’essenza del potere non è il produrre, cioè far diventare qualcosa, ma l’amare 6. Io posso solo fintanto che qualcosa è, ma non posso agire sull’è. Posso produrre oggetti certo, ma non posso, nemmeno nel caso della creazione di un altro essere umano, dare luogo a quell’è che lo caratterizza. Nella nascita di una nuova vita io non sono padrone, ma custode, sono garanzia che la vita venga a sé stessa. Posso anche immaginare la vita come la creazione fittizia in laboratorio di un altro essere umano la cui cura non dipende dall’ospitalità all’interno di un essere umano ma nelle fredde stanze di un laboratorio. Eppure, anche in quel caso, il sarei tutt’al più padrone del processo che la conduce fuori al mondo, ma non padrona del senso che essa ha. Poiché il senso, il dare senso a qualcosa dipende da ogni essere nel suo farsi e nel suo darsi. E questo poter dare senso è strettamente connesso al potere dell’uomo, ovvero è qualcosa di cui l’uomo è in potere. Torniamo dunque per un momento al potere. Il potere è l’amare. Heidegger scrive che il potere è un mögen (questo verbo indica tanto il volere quanto il desiderare e l’amare. Rispetto al wollen, che nell’uso comune suona perentorio all’interno di una frase in cui si richiede qualcosa a qualcuno – ich will noch wasser, suonerebbe scortese in una domanda perché significa voglio ancora dell’acqua–, nel mögen è presente una cortesia e una cura del domandare, ma anche un desiderare che è frutto di deliberazione. È sì certo anche un volere, ma un voler non dettato dal bisogno, piuttosto dalla preferenza, dall’affinità), un voler bene e voler bene, ci dice Heidegger, significa lasciare che qualcosa sia (rispettarne la differenza, la distanza, attenderne che cresca e dispieghi appieno le sue possibilità più proprie, averne cura consegnandola alla sua stessa cura, scriveva nel 1927 Heidegger in Sein und Zeit)7. Nella Lettera proseguendo scrive il filosofo: ‘prendersi a cuore una cosa o una persona nella sua essenza vuol dire amarla, volerle bene. Pensato in modo più originario, questo voler bene significa donare l’essenza’ e ancora: ‘potere qualcosa significa conservarlo nella sua essenza, mantenerlo nel suo elemento’ 8. La filosofia può questo potere rispetto all’essere nel suo insieme, inteso non come un oggetto di cui ricercare le cause ultime –se così fosse la filosofia sarebbe soltanto un habitus conoscitivo e non avrebbe alcuna relazione con la vita se non estrinseca e oggettiva –, ma come quell’orizzonte all’interno del quale è possibile dare e fare senso della propria strutturale relazione all’essere, e dunque del proprio essere. Tuttavia, nella storia della filosofia, scrive Heidegger, le cose sono andate diversamente, essa ‘si è procurata un valore come téchne, come strumento di formazione, come attività culturale, come esercizio scolastico’, insomma ‘come tecnica della spiegazione a partire dalle cause supreme’. Il linguaggio della filosofia è stato asservito a questa causa ed è divenuto, tanto come il pensiero, strumento del dominio e non della custodia. Nel linguaggio della filosofia si indica all’uomo come obiettivo quello di essere riportato alla sua humanitas, ma l’humanitas è pensata come un modello universale fuori dalle possibilità concrete dell’uomo nel 6 7 8 Nei primi anni di lezione, quando ancora era un allievo del grande Husserl, Heidegger intesse una complicata relazione con la filosofa Hannah Arendt, due personalità distanti, due caratteri opposti. Lei segue un corso su Agostino, su cui ritornerà spesso e molto più tardi nella sue riflessioni filosofiche. In uno scambio epistolare Heidegger scrive alla Arendt: non esiste l’amare, ma il tuo amare; non esiste l’amore ma il tuo amore. E richiamando Agostino prosegue spiegando come l’essenza dell’amore che lei avrebbe per lui si potrebbe riassumere in un’unica proposizione: volo ut sis, desidero che tu sia. Come si vede, il voler bene richiamato qui nella Lettera sull’Umanismo non ha nulla di sentimentale o irrazionale, piuttosto coincide con il consegnare l’altro alla pienezza delle sue possibilità in quanto esistente, fare spazio alla sua libertà affinché ne abbia cura e ancora lasciare che l’essere suo proprio sia responsabile per un fare senso. mondo, ovvero in un al di là pensato teoreticamente come contrapposto al di qua, o ancora come pienezza immanente dell’umano, ma ancora una volta intesa come un universale sia esso storico o sovrastorico. L’appello all’umanismo è dunque essenzialmente metafisico, cioè pensa l’essenza dell’uomo come contrapposta alla sua esistenza, mentre invece l’essenza riposa nell’esistenza e l’esistenza è la relazione all’essere come ciò rispetto al quale abbiamo il compito di fare e dare senso, rispetto al quale abbiamo il potere dell’amare. Pensare l’essenza dell’uomo significa, perciò, pensare la differenza tra essere ed ente, ovvero tra l’orizzonte che abbraccia la nostra esistenza e gli oggetti che fanno parte del mondo. Ma pensare la differenza tra essere e ente significa ancora pensare la distanza che intercorre tra ciò che ha valore in sé, ciò che è degno di cura in quanto è, e ciò che viene valorizzato con un atto del pensiero e del linguaggio, del fare o dell’usare, ovvero ciò a cui si consegna valore distogliendolo dal suo è. La questione ontologica insomma è già di per sé una questione etica. La riformulazione della teoria del valore e di cosa ha valore per l’uomo non può ripartire se non si è fatto chiarezza sulla struttura metafisica di questo pensiero (cfr. 82-83). Tra la critica alla metafisica e l’indicazione di un cammino da seguire in quella che Heidegger definisce epoca del dominio della tecnica vi è quindi una relazione ben più che accidentale, dal momento che la storia della metafisica viene a coincidere con l’epoca della tecnica. Noi abbiamo appreso lungo il corso di queste lezioni che la tecnica caratterizza un modo di intendere la conoscenza umana fin da Platone e Aristotel, figure chiave della filosofia occidentale, che hanno fatto sentire le ripercussioni della loro visione dell’uomo e del mondo su tutto il pensiero che dopo di essi è venuto. La scienza nel suo sorgere ha corroborato o estremizzato le posizioni degli antichi, ma il nucleo più profondo resta legato alla modalità del pensiero e dell’espressione che la filosofia ha consegnato alla storia. Per questo è necessario se si vuole ripensare l’essere ripensare anche il linguaggio e forse provare a uscire dalla logica che ne è la forma essenziale. Ora, se la critica alla metafisica restasse soltanto un momento di decostruzione sarebbe di un certo interesse dal punto di vista storico, ma meno in senso filosofico. Heidegger, seppur con rimandi talvolta lievi e oscurati senz’altro dalle sue vicende biografiche, ha indicato una via che certo necessita di essere approfondita perché carente sotto tanti aspetti. Ma è una via che consegna al soggetto un posto nel mondo non isolato dal mondo e dagli altri, ma intessuto fin dall’origine con gli uni e gli altri e rimandato, tuttavia, a una ulteriorità che li contiene e li significa: l’essere. Ebbene, la struttura più propria dell’esserci, ci dice Heidegger, chiama un potere della possibilità che coincide con l’amare, con lasciar essere, eppure non vi è dubbio che lo spazio mondano che ci circonda sia contrassegnato da una volontà di manipolazione e dominio che tenta di ridurre l’interezza di ciò che è a prodotto dell’uomo, a uso dell’uomo – e può certamente farlo perché è iscritto nella modalità fondamentale del suo essere al mondo usare l’ente –. La tecnica, d’altra parte, è un destino. Ci incombe. Ma noi siamo allo stesso tempo nella possibilità di disporci a questo destino. Non è in nostro potere certo cancellare o combattere il progresso della scienza e della tecnica, ma possiamo ancora e sempre intendere la vita come ciò che si sottrae a questo dominio, ovvero possiamo e dobbiamo comprendere che la vita nostra e altrui è libera, è in nostro potere, ma non come ciò rispetto a cui tutto possiamo, ma come un orizzonte, finito nel tempo ma infinito nelle possibilità, lungo il quale possiamo tracciare i solchi del senso. Perché il fare senso – nelle azioni – e il dare senso – nel linguaggio – dell’essere è ciò che è in nostro potere. La chiamata al fare e al dare senso è, in tal modo, chiamata alla responsabilità (responsus participio passato di respondere), cioè invito a rispondere a un appello che ci precede. Un appello singolare come lo è l’esistenza umana. Una filosofia che ‘opponga al dominio planetario della tecnica l’inapparenza di un pensiero della meditazione e della riflessione’ – scriva Heidegger alla fine degli anni sessanta – sembra ben poca cosa. Incapace di influire per davvero, incapace di cambiare. Eppure è solo nella mobilitazione dei singoli che le trasformazioni sono possibili. Questa via non è una semplice sottrazione alla tecnica, ma un invito a non fare della tecnica l’unico strumento di relazione al mondo, ovvero di intenderla come non totalmente pervasiva seppure mondialmente dominante9. L’invito, dunque, che chiude la Lettera sull’Umanismo solo a un’interpretazione estrinseca suona poetico o idealistico, ma a ben guardare esso è inserito nella pienezza di un percorso filosofico che ha sempre fatto dell’esistenza singolare e della sua possibilità di dare senso un nucleo speculativo principale: ‘Il linguaggio è la casa dell’essere così come le nuvole sono le nuvole del cielo. Con il suo dire il pensiero traccia nel linguaggio solchi poco vistosi. Essi sono ancora meno vistosi dei solchi che il contadino, a passi lenti, traccia nel campo. l’uomo non è il padrone dell’ente, ma il pastore dell’essere’. 9 Un piccolo inciso sulla differenza di vedute tra Heidegger e Popper: «È inevitabile che sulla nostra Terra sovrappopolata noi facciamo permanentemente tutti gli errori ecologici possibili, ed è innegabile che vigilare è necessario; potremmo allora fare un buon uso di qualcosa come un movimento verde razionale. Ma è altrettanto chiaro che in questo campo non si ottiene nulla senza l’aiuto delle scienze naturali e della tecnica». Questo il punto di avvio di Karl Popper nel saggio Tecnologia ed etica (Rubbettino). Se pertanto è ragionevole pensare che i danni provocati da un utilizzo non di rado prevedibilmente sconsiderato della tecnica possono e debbono in primo luogo e soprattutto venir affrontati, nello sviluppo della ricerca scientifica, da ulteriori innovazioni tecnologiche, è anche vero, prosegue Popper, che le esagerazioni dei Verdi dinanzi ai rischi ecologici – pur necessarie «per dare una scossa al mondo» – «sono assai pericolose e hanno portato [...] a peggiori abusi». E qui Popper – siamo nel 1991 – viene al suo primo problema, chiedendosi perché mai in Germania l’ostilità dei Verdi alla tecnica e alla scienza della natura sia tanto grande, mentre in altri Paesi ha un ruolo, quando lo ha, del tutto insignificante. Alle radici dell’atteggiamento antiscientifico e antitecnologico dei verdi tedeschi Popper scorge il pensiero di Heidegger: «È stata l’incomparabile fama mondiale di Heidegger a conferire una certa autorità all’attacco verde alla tecnologia e alle scienze in Germania». Per Heidegger la metafisica da Platone e Aristotele a Hegel e fino allo stesso Nietzsche avrebbe pensato l’essere sul modello dell’ente. Ma, così, la metafisica è in realtà una "fisica" assorbita dalle cose e che ha obliato l’essere conducendo all’oblio di questo oblio. Platone avrebbe degradato la metafisica a fisica capovolgendo il rapporto tra essere e verità: questa starebbe nel pensiero che giudica e non più nell’essere che si dis-vela (verità come aletheia) all’uomo. In tal modo l’uomo, che dovrebbe essere il «pastore dell’essere», si è trasformato in «padrone dell’ente», e questo proprio in forza di quella fisica che si è presentata come metafisica. La svolta data da Platone al concetto di verità e con ciò il destino della metafisica spiegherebbero, pertanto, il destino dell’Occidente con il primato della tecnica nel mondo moderno. La tecnica non è uno strumento neutrale nelle mani dell’uomo né essa è un evento accidentale dell’Occidente. Per Heidegger, la tecnica è l’esito scontato di quello sviluppo per cui l’uomo, obliando l’essere, si è lasciato travolgere dalla «volontà di potenza», rendendo la realtà e se stesso puro oggetto di un gigantesco "apparato" tecnologico. Ed è sullo sfondo del pensiero di Heidegger, che si insiste sul fatto che la civiltà occidentale non conoscerà salvezza se non diventerà consapevole del suo atteggiamento sbagliato nei confronti dell’essere, della realtà. Il mondo occidentale è un mondo costruito sulla manipolazione delle cose, e dunque sull’idea che le cose siano trasformabili, prive di una propria consistenza, prive di essere, ridotte a niente. Senonché siffatta riduzione delle cose a niente riduce l’uomo stesso a cosa manipolabile – oggetto del potere politico o, per esempio, dell’ingegneria genetica – e porta alla devastazione selvaggia dell’ambiente naturale. In questo modo, il problema della tecnica diventa il rifiuto della tecnica. E il rifiuto della tecnica (con il rifiuto dei suoi presupposti "fisici" e "metafisici") si trasforma nella condanna e nel rifiuto della tradizione scientifica occidentale. Ma qui Popper non esita a mettere le carte in tavola: «Io ritengo Heidegger un impostore, un falsario, e lo disprezzo perché lo ritengo un vile e un opportunista. La sua fama mondiale è uno scandalo per la filosofia, sia tedesca o internazionale».