20 • L UGLIO Paesi di Sardegna 2006 SANT’ANTIOCO Un’isola unica ricca di bellezze naturali e misteri millenari La sua posizione privilegiata sulle antiche rotte del Mediterraneo I Fenici vi fondarono Sulci, sulle cui rovine sorge ora il capoluogo di quella che un tempo veniva chiamata Insula Plumabaria diFranco Fresi a più grande delle isole vicine alla costa sud-occidentale della Sardegna, Sant’Antioco, dovrebbe essere indicata nelle guide turistiche come una tappa da non dimenticare: per le sue bellezze naturali e i misteri che la rendono unica. La sua posizione privilegiata, sull’antica rotta che portava i popoli spinti dall’avventura e dal desiderio di conquista, dai mari e dalle coste del Mediterraneo orientale verso quelli iberici, non sfuggì ai Fenici che ci fondarono intorno all’VIII secolo prima di Cristo, una città importante, Sulci, sulle cui rovine sorge ora Sant’Antioco, il capoluogo dell’isola omonima, che a quel tempo veniva chiamata Insula Plumabaria per le sue naturali riserve di metallo. Passata sotto il dominio cartaginese, Sulcì continuò ad esercitare la vocazione commerciale, per la quale, del resto, i Fenici avevano fondato anche Karalis, l’attuale Cagliari, Nora, Bithis, Tharros, delle quali esistono imponenti rovine, e Bosa. Nel 238 prima di Cristo Sant’Antioco passò sotto il dominio romano. Ci restò per un lungo periodo, durante il quale il centrò si ampliò, e il porto vene adeguato al traffico sempre più attivo dei prodotti metallurgici estratti dalle miniere dell’Iglesiente e destinati ad altri approdi del Mediterraneo. Ma furono soprattutto i Fenici a segnare del proprio carattere bizzarro il centro di cui avevano gettato le basi. Furono loro a lasciare a Sulci, molto prima di essere Sant’Antioco, quella connotazione mitica e allo stesso tempo un po’ fosca che l’avrebbe indicata a dito fino ai giorni nostri. L Connotazione che si coglie soprattutto sulla collinetta alla periferia occidentale della cittadina, con in cima il tophet ( secondo una voce semitica, ma riportata nella lingua della Bibbia, significherebbe “luogo di arsione”), dove pare che i Fenici prima e i Punici dopo, offrissero dei bambini agli dei, bruciandoli e conservando la loro cenere in anforette di terracotta, molte delle quali sono ancora lì, disseminate tra le rocce del rilievo. L’hanno anche analizzata quella cenere millenaria con i mezzi tecnologici del nostro tempo. E pare che siano veramente resti di bambini arsi, quei grumi di cenere rappresa. La morte è di casa in quella collina rocciosa, anche perché verso di essa sembrano arrampicarsi le ultime case dei vivi e dei morti della solare cittadina di Sant’Antioco. Per arrivare in cima all’altura del tophet, infatti, si attraversa un pendio intagliato di tombe, dello stesso periodo in cui Sulci era fiorente, scavate nel sottosuolo calcareo, con l’ingresso a cielo aperto. Giù per ripidi gradini si arriva a dei piccoli ambienti sotterranei collegati l’un l’altro, come nelle Domus de Janas. Ora questi ambienti funerari sono quasi tutti “sfitti”, ma fino a pochi anni fa molte di queste tombe erano abitate da famiglie che molto spesso se le scambiavano, come per eredità, di padre in figlio. Entrarci a visitarle mitiga nel visitatore, con una certa sensazione di soffocamento data dal buio e dalla profondità, l’ampio respiro che l’aspetta appena arrivato al culmine del rilievo aperto a tutti i venti: ti prende una specie di capogiro da troppo spazio Q PERDASDEFOGU uando, dopo un lungo per corso stradale attraverso territori solitari (dall’Ogliastra, o dal Gerrei), si arriva a Perdasdefogu si immagina di entrare in un villaggio arcaico e quasi fuori del tempo; ci si trova invece in un abitato moderno, disposto intorno alla piazza Europa, grande ed alberata. Sulle strade principali, ben tenute e in qualche caso lastricate, si affacciano abitazioni d’aspetto quasi cittadino e si aprono i vari servizi, compresi ristoranti e un albergo. Il paese, che conta oltre 2300 abitanti, è attrezzato per ospitare forestieri perché ospita nel proprio territorio il più esteso e importante poligono di sperimentazione militare e missilistica dell’Europa occidentale. Anche la chiesa parrocchiale, che si affaccia sul centrale corso Vittorio Emanuele, ha linee moderne: costruita a partire dalla fine dell’Ottocento, in sostituzione di una precedente risalente al e da troppa luce che rende quasi cruenta la rossastra compagine delle anforette ricolme di cenere. Molte di esse contengono cenere di legna messa lì per il turista: una specie di vendita del sacro. Ma la maggior parte conservano vera cenere di bambini bruciati in offerta agli dei. Quando quegli ospiti navigatori e commercianti erano solo Fenici, i loro bambini, soprattutto figli di capi e di gente importante, venivano offerti a El, dio supremo, e ad Adone e Astarte, suoi sottoposti. Quando divennero Fenicio-Punici, li sacrificavano, perché i loro affari divenissero sempre più pingui e le stagioni più clementi, in nome di Baal Hammon e di Tanit. Per la precisione, c’è chi afferma che bambini, giovinetti e fanciulle vergini venivano sacrificati solo per ottenere dagli dei la fine di grandi calamità naturali. Per altre richieste di comune soccorso bastava immolare animali e offrire i frutti vegetali della terra. Tertulliano, apologeta e scrittore convertitosi al cristianesimo, nato e vissuto a Cartagine tra il 155 e il 222, tramanda che il sacrificio del bambini veniva praticato fino ai tempi del proconsolato di Tiberio, intorno al 30 dopo Cristo, aggiungendo che << ancora oggi, di nascosto, si continua a compiere quel delittuoso sacrifico >>. In periodo fenicio-punico, i bambini, secondo Tertulliano, venivano immolati pubblicamente nei santuari di tutta l’isola, decapitandoli prima di essere arsi: e mai prima, comunque, che i genitori avessero tagliato delle ciocche di capelli da conservare devotamente. Erano loro stessi a offrirli agli dei addolcendoli con carezze e parole affettuose perché non piangessero al momento del sacrificio. C’è chi parla di usi diversi del sacrificio. Spesso i piccoli, dei due sessi, venivano precipitati nei burroni, molto probabilmente dopo essere stati uccisi e lasciati lì a decomporsi. Ne sarebbero testimonianza i resti di bambini trovati in fondo alla grotta di Ispinigoli, vicino a Dorgali. Il tophet è un luogo inquietante. Soprattutto chi lo visita per la prima volta sente come un diverso clima su quell’altura incongrua come se il tempo attuale e quello in cui sono avvenuti i sacrifici facciano parte di un’invenzione, magari cinematografica: e che, comunque fra di loro non ci sia né rapporto né continuità. Le anforette sono parzialmente interrate con la bocca rivolta in alto coperta da un piatto della stessa materia del vaso tenuto da una pietra perché il vento che soffia sul tophet quasi di continuo non lo porti via. Altre sono incastrate tra le spaccature della roccia, tra cespi di elicriso e tignamica odorosa. Con tutto quello scialo di mare intorno, di punte amaranto di trachite che bucano il verde-oro degli assetati coltivi; con tutta quella vita naturale e artificiale che anima l’orizzonte lontano, viene da pensare davvero che la collina del tophet sia un set cinematografico o televisivo approntato per girarci un film. E che quegli orcioli riempiti di cenere di improvvisati falò, di lì a poco sarebbero scomparsi, portati via per restituire alla collina il suo volto naturale. Vicino al “luogo di arsione” c’è l’Antiquarium, suddiviso in sale Deve la sua fama alla presenza del poligono missilistico Il suo nome farebbe pensare a un villaggio arcaico, invece è un paese moderno diSalvatore Tola Seicento, è stata ultimata soltanto nel 1950. Per respirare sapore di antico, e avere una qualche testimonianza delle prime origini del paese, bisogna visitare un’altra chiesa, quella dedicata a San Sebastiano, che si trova tra le case della periferia, nella parte alta dell’abitato. Fino a qualche tempo fa si trattava di poche mura sbrecciate, ma un restauro intelligente le ha salvate da ulteriori rovine: non è sta- ta aggiunta nessuna parte nuova, ma l’esistente è stato consolidato, e soprattutto salvaguardato con una copertura che si adatta alle vecchie tipologie. L’interno è diviso in tre navate da due rustici muri ad archi, e tre sono le nicchie che sulla parete di fondo ospitavano altrettante statue. Il restauro ha comportato anche una pavimentazione rustica, ma gli anziani ricordano che un tempo c’era soltanto la terra bat- tuta tanto che, quando si celebravano feste o matrimoni, la si ricopriva con uno strato di mirto e felci. La chiesa era rimasta infatti in uso sino agli anni Venti del Novecento; il restauro è avvenuto nel 1996, e l’inaugurazione nell’agosto di quell’anno, con un concerto cui prendeva parte il violinista Alessio Murgia, nativo del luogo, che fa parte dell’orchestra del Regio di Torino. La chiesa di San Sebastiano è ricche di reperti provenienti dalle tombe cartaginesi e romane: gioielli in oro, pietre dure, scarabei di diaspro, anfore, armi, brandelli di metalli e spezzoni di lastre con iscrizioni tombali. C’è anche materiale che proviene dal thophet, ancore, lucerne. C’è un Kàntaros, vaso greco per bere, a due anse del II secolo; ci sono alcune iscrizioni che pare appartenessero a un cimitero giudaico; ci sono tracce evidenti dell’ira di Cesare, che fece distruggere la città di Sulci perché sosteneva Pompeo. E c’è il graffio mercenario dei molti pirati in età posteriore e quello di rapina dei non pochi conquistatori dell’isola. Non solo luoghi di morte offre al visitatore, ma anche luohi dove la vita della cristianità è sorta con la forza del seme di carrubo che, per vedere il sole, spezza anche la pietra e il cemento. Monumento da non dimenticare è, più importante di tanti altri, la chiesa di Sant’Antioco, consacrata al santo patrono della città che da lui ha preso il nome: l’uomo “dal bisturi e la croce”, medico e uno fra i primi evangelizzatori della Sardegna. Antioco, venuto in barca dall’Africa e martirizzato sotto l’imperatore Adriano intorno al 125 dopo aver predicato e difuso il Vangelo, riposa nella grotta che fu il suo primo rifugio, ora incorporato nella chiesa. Con i suoi circa 1000 abitanti, Sant’Antioco vive attualmente di turismo, di pesca e di agricoltura. Ortograficamente irregolare, il breve territorio si sviluppa in una successione di rocce e pianori coltivati a vigneti. Ottimi i vini locali e la ristorazione che ha nel pesce la sua base più consistente. legata alle origini dell’abitato, ma i documenti sono talmente scarsi che si deve far ricorso ai racconti popolari: si dice che la fondazione fu opera di un nucleo di pastori e contadini che avevano dovuto abbandonare il loro villaggio costiero (Turu, presso la foce del Flumendosa) a causa delle incursioni dei pirati saraceni. Particolare curioso: nel viaggio di trasferimento erano guidati da una donna, perché gli uomini erano rimasti nel tentativo di salvare le loro case. Tutto questo potrebbe essere accaduto intorno al Mille: di fatto alcuni studiosi dicono che San Sebastiano, prima parrocchiale del nuovo insediamento, risale al 950-1000, altri all’XI-XII secolo. Il segno della sua antichità sta, oltre che nelle strutture, dal sapore così nettamente medioevale, nelle pitture color ocra che sono comparse sotto strati di intonaco e, anche per la presenza della croce di Costantino, rivelano l’influsso greco-bizantino.