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UGLIO
Paesi di Sardegna
2006
SANT’ANTIOCO
Un’isola unica
ricca di bellezze naturali
e misteri millenari
La sua posizione privilegiata sulle antiche rotte del Mediterraneo I Fenici vi fondarono Sulci, sulle cui rovine sorge ora il capoluogo
di quella che un tempo veniva chiamata Insula Plumabaria
diFranco Fresi
a più grande delle isole vicine alla costa sud-occidentale della Sardegna, Sant’Antioco, dovrebbe essere indicata
nelle guide turistiche come una
tappa da non dimenticare: per le
sue bellezze naturali e i misteri che
la rendono unica.
La sua posizione privilegiata,
sull’antica rotta che portava i popoli spinti dall’avventura e dal
desiderio di conquista, dai mari e
dalle coste del Mediterraneo
orientale verso quelli iberici, non
sfuggì ai Fenici che ci fondarono
intorno all’VIII secolo prima di
Cristo, una città importante, Sulci,
sulle cui rovine sorge ora Sant’Antioco, il capoluogo dell’isola
omonima, che a quel tempo veniva
chiamata Insula Plumabaria per le
sue naturali riserve di metallo.
Passata sotto il dominio cartaginese, Sulcì continuò ad esercitare
la vocazione commerciale, per la
quale, del resto, i Fenici avevano
fondato anche Karalis, l’attuale
Cagliari, Nora, Bithis, Tharros,
delle quali esistono imponenti rovine, e Bosa. Nel 238 prima di Cristo Sant’Antioco passò sotto il
dominio romano. Ci restò per un
lungo periodo, durante il quale il
centrò si ampliò, e il porto vene
adeguato al traffico sempre più
attivo dei prodotti metallurgici
estratti dalle miniere dell’Iglesiente e destinati ad altri approdi del
Mediterraneo.
Ma furono soprattutto i Fenici a
segnare del proprio carattere bizzarro il centro di cui avevano gettato le basi. Furono loro a lasciare
a Sulci, molto prima di essere Sant’Antioco, quella connotazione
mitica e allo stesso tempo un po’
fosca che l’avrebbe indicata a dito
fino ai giorni nostri.
L
Connotazione che si coglie soprattutto sulla collinetta alla periferia occidentale della cittadina,
con in cima il tophet ( secondo una
voce semitica, ma riportata nella
lingua della Bibbia, significherebbe “luogo di arsione”), dove pare
che i Fenici prima e i Punici dopo,
offrissero dei bambini agli dei,
bruciandoli e conservando la loro
cenere in anforette di terracotta,
molte delle quali sono ancora lì,
disseminate tra le rocce del rilievo.
L’hanno anche analizzata
quella cenere millenaria con i
mezzi tecnologici del nostro tempo. E pare che siano veramente
resti di bambini arsi, quei grumi
di cenere rappresa. La morte è di
casa in quella collina rocciosa,
anche perché verso di essa sembrano arrampicarsi le ultime case
dei vivi e dei morti della solare
cittadina di Sant’Antioco. Per arrivare in cima all’altura del
tophet, infatti, si attraversa un
pendio intagliato di tombe, dello
stesso periodo in cui Sulci era
fiorente, scavate nel sottosuolo
calcareo, con l’ingresso a cielo
aperto. Giù per ripidi gradini si
arriva a dei piccoli ambienti sotterranei collegati l’un l’altro,
come nelle Domus de Janas. Ora
questi ambienti funerari sono
quasi tutti “sfitti”, ma fino a pochi anni fa molte di queste tombe
erano abitate da famiglie che
molto spesso se le scambiavano,
come per eredità, di padre in figlio. Entrarci a visitarle mitiga
nel visitatore, con una certa sensazione di soffocamento data dal
buio e dalla profondità, l’ampio
respiro che l’aspetta appena arrivato al culmine del rilievo aperto
a tutti i venti: ti prende una specie di capogiro da troppo spazio
Q
PERDASDEFOGU
uando, dopo un lungo per
corso stradale attraverso
territori solitari (dall’Ogliastra, o dal Gerrei), si arriva
a Perdasdefogu si immagina di
entrare in un villaggio arcaico e
quasi fuori del tempo; ci si trova
invece in un abitato moderno, disposto intorno alla piazza Europa,
grande ed alberata. Sulle strade
principali, ben tenute e in qualche
caso lastricate, si affacciano abitazioni d’aspetto quasi cittadino
e si aprono i vari servizi, compresi ristoranti e un albergo. Il paese,
che conta oltre 2300 abitanti, è
attrezzato per ospitare forestieri
perché ospita nel proprio territorio il più esteso e importante poligono di sperimentazione militare
e missilistica dell’Europa occidentale.
Anche la chiesa parrocchiale,
che si affaccia sul centrale corso
Vittorio Emanuele, ha linee moderne: costruita a partire dalla
fine dell’Ottocento, in sostituzione di una precedente risalente al
e da troppa luce che rende quasi
cruenta la rossastra compagine
delle anforette ricolme di cenere.
Molte di esse contengono cenere di legna messa lì per il turista:
una specie di vendita del sacro.
Ma la maggior parte conservano
vera cenere di bambini bruciati in
offerta agli dei.
Quando quegli ospiti navigatori e commercianti erano solo Fenici, i loro bambini, soprattutto figli
di capi e di gente importante, venivano offerti a El, dio supremo, e ad
Adone e Astarte, suoi sottoposti.
Quando divennero Fenicio-Punici, li sacrificavano, perché i loro affari divenissero sempre più pingui
e le stagioni più clementi, in nome
di Baal Hammon e di Tanit. Per la
precisione, c’è chi afferma che
bambini, giovinetti e fanciulle vergini venivano sacrificati solo per
ottenere dagli dei la fine di grandi
calamità naturali. Per altre richieste
di comune soccorso bastava immolare animali e offrire i frutti vegetali della terra.
Tertulliano, apologeta e scrittore convertitosi al cristianesimo,
nato e vissuto a Cartagine tra il
155 e il 222, tramanda che il sacrificio del bambini veniva praticato
fino ai tempi del proconsolato di
Tiberio, intorno al 30 dopo Cristo,
aggiungendo che << ancora oggi,
di nascosto, si continua a compiere quel delittuoso sacrifico >>.
In periodo fenicio-punico, i
bambini, secondo Tertulliano,
venivano immolati pubblicamente
nei santuari di tutta l’isola, decapitandoli prima di essere arsi: e
mai prima, comunque, che i genitori avessero tagliato delle ciocche di capelli da conservare devotamente. Erano loro stessi a offrirli
agli dei addolcendoli con carezze
e parole affettuose perché non
piangessero al momento del sacrificio.
C’è chi parla di usi diversi del
sacrificio. Spesso i piccoli, dei due
sessi, venivano precipitati nei
burroni, molto probabilmente
dopo essere stati uccisi e lasciati lì
a decomporsi. Ne sarebbero testimonianza i resti di bambini trovati
in fondo alla grotta di Ispinigoli,
vicino a Dorgali.
Il tophet è un luogo inquietante.
Soprattutto chi lo visita per la prima volta sente come un diverso
clima su quell’altura incongrua
come se il tempo attuale e quello
in cui sono avvenuti i sacrifici facciano parte di un’invenzione, magari cinematografica: e che, comunque fra di loro non ci sia né
rapporto né continuità.
Le anforette sono parzialmente
interrate con la bocca rivolta in
alto coperta da un piatto della
stessa materia del vaso tenuto da
una pietra perché il vento che soffia sul tophet quasi di continuo
non lo porti via. Altre sono incastrate tra le spaccature della roccia, tra cespi di elicriso e tignamica
odorosa.
Con tutto quello scialo di mare
intorno, di punte amaranto di trachite che bucano il verde-oro degli assetati coltivi; con tutta quella vita naturale e artificiale che
anima l’orizzonte lontano, viene
da pensare davvero che la collina
del tophet sia un set cinematografico o televisivo approntato per girarci un film. E che quegli orcioli
riempiti di cenere di improvvisati
falò, di lì a poco sarebbero scomparsi, portati via per restituire alla
collina il suo volto naturale.
Vicino al “luogo di arsione” c’è
l’Antiquarium, suddiviso in sale
Deve la sua fama alla presenza
del poligono missilistico
Il suo nome farebbe pensare a un villaggio arcaico, invece è un paese moderno
diSalvatore Tola
Seicento, è stata ultimata soltanto nel 1950.
Per respirare sapore di antico, e
avere una qualche testimonianza
delle prime origini del paese, bisogna visitare un’altra chiesa,
quella dedicata a San Sebastiano,
che si trova tra le case della periferia, nella parte alta dell’abitato.
Fino a qualche tempo fa si trattava di poche mura sbrecciate, ma
un restauro intelligente le ha salvate da ulteriori rovine: non è sta-
ta aggiunta nessuna parte nuova,
ma l’esistente è stato consolidato, e soprattutto salvaguardato
con una copertura che si adatta
alle vecchie tipologie.
L’interno è diviso in tre navate
da due rustici muri ad archi, e tre
sono le nicchie che sulla parete di
fondo ospitavano altrettante statue. Il restauro ha comportato
anche una pavimentazione rustica, ma gli anziani ricordano che un
tempo c’era soltanto la terra bat-
tuta tanto che, quando si celebravano feste o matrimoni, la si ricopriva con uno strato di mirto e
felci. La chiesa era rimasta infatti
in uso sino agli anni Venti del
Novecento; il restauro è avvenuto nel 1996, e l’inaugurazione nell’agosto di quell’anno, con un
concerto cui prendeva parte il
violinista Alessio Murgia, nativo
del luogo, che fa parte dell’orchestra del Regio di Torino.
La chiesa di San Sebastiano è
ricche di reperti provenienti dalle
tombe cartaginesi e romane: gioielli in oro, pietre dure, scarabei di
diaspro, anfore, armi, brandelli di
metalli e spezzoni di lastre con
iscrizioni tombali. C’è anche materiale che proviene dal thophet, ancore, lucerne.
C’è un Kàntaros, vaso greco per
bere, a due anse del II secolo; ci
sono alcune iscrizioni che pare
appartenessero a un cimitero giudaico; ci sono tracce evidenti dell’ira di Cesare, che fece distruggere la città di Sulci perché sosteneva Pompeo. E c’è il graffio mercenario dei molti pirati in età posteriore e quello di rapina dei non
pochi conquistatori dell’isola.
Non solo luoghi di morte offre
al visitatore, ma anche luohi dove
la vita della cristianità è sorta con
la forza del seme di carrubo che,
per vedere il sole, spezza anche la
pietra e il cemento. Monumento
da non dimenticare è, più importante di tanti altri, la chiesa di
Sant’Antioco, consacrata al santo patrono della città che da lui ha
preso il nome: l’uomo “dal bisturi
e la croce”, medico e uno fra i primi evangelizzatori della Sardegna. Antioco, venuto in barca
dall’Africa e martirizzato sotto
l’imperatore Adriano intorno al
125 dopo aver predicato e difuso
il Vangelo, riposa nella grotta che
fu il suo primo rifugio, ora incorporato nella chiesa.
Con i suoi circa 1000 abitanti,
Sant’Antioco vive attualmente di
turismo, di pesca e di agricoltura.
Ortograficamente irregolare, il breve territorio si sviluppa in una
successione di rocce e pianori coltivati a vigneti. Ottimi i vini locali e
la ristorazione che ha nel pesce la
sua base più consistente.
legata alle origini dell’abitato, ma i
documenti sono talmente scarsi
che si deve far ricorso ai racconti
popolari: si dice che la fondazione
fu opera di un nucleo di pastori e
contadini che avevano dovuto
abbandonare il loro villaggio costiero (Turu, presso la foce del Flumendosa) a causa delle incursioni
dei pirati saraceni. Particolare curioso: nel viaggio di trasferimento
erano guidati da una donna, perché gli uomini erano rimasti nel
tentativo di salvare le loro case.
Tutto questo potrebbe essere
accaduto intorno al Mille: di fatto
alcuni studiosi dicono che San
Sebastiano, prima parrocchiale
del nuovo insediamento, risale al
950-1000, altri all’XI-XII secolo. Il
segno della sua antichità sta, oltre che nelle strutture, dal sapore
così nettamente medioevale, nelle pitture color ocra che sono
comparse sotto strati di intonaco
e, anche per la presenza della croce di Costantino, rivelano l’influsso greco-bizantino.