In tema di rapporti di lavoro fra societ sportive e professionisti

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Anno I
Pubblicazione numero 3
2005
GiustiziaSportiva.it
Rivista Giuridica
Direzione e Fondatori
Enrico Crocetti Bernardi
Antonino de Silvestri
Enrico Lubrano
Paolo Moro
Jacopo Tognon
Comitato di Redazione
Giuseppe Agostini
Marco Mazzucato
Emanuele Paolucci
Michela Pigato
Jacopo Tognon
Direttore Responsabile
Mario Liccardo
______________________________________________________________
Autorizzazione del Tribunale di Padova in data 1 ottobre 2004
al numero 1902 del Registro Stampa
- Periodico quadrimestrale 1
INDICE DEL FASCICOLO 3°
PARTE PRIMA
DOTTRINA
MASSIMILIANO GIUA ,
Sport dilettantistico: lavoro parasubordinato e
prestazioni sportive tra fisco e previdenza
pag . 3
MINO AULETTA ,
pag. 14
Il tribunale arbitrale dello sport
PARTE SECONDA
NOTE A SENTENZA
STEFANO CAVIGLIOLI , Note in tema di responsabilità civile per i danni
pag. 18
subiti dal concorrente di una gara di sci su pista omologata ma difettosa
GUIDO PARMEGGIANI , Recenti orientamenti in tema di responsabilità per
pag. 32
l'organizzatore di gare di sci alpino
Vincolo sportivo pluriennale: verso una fine
pag. 40
STEFANO ARPINO , Divieto di accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni
pag.52
ENRICO LUBRANO
,
annunciata?
agonistiche: anche la discrezionalità deve fare i conti con la costituzione
2
SPORT DILETTANTISTICO: LAVORO PARASUBORDINATO E PRESTAZIONI SPORTIVE
TRA FISCO E PREVIDENZA
PREMESSA
Negli ultimi anni il legislatore nazionale ha prestato sempre maggiore attenzione alle istanze
pervenute dal mondo sportivo dilettantistico rivolte ad ottenere un intervento normativo statuale in
campo tributario1 e giuslavoristico.
Prendendo spunto dalla Riforma Biagi, che, nel regolamentare il mercato del lavoro e
nell’introdurre – tra l’altro – la figura contrattuale del lavoro a progetto2 in sostituzione delle
co.co.co, stabilisce chiaramente che sono escluse dall’applicazione della legge “i rapporti e le
attività di collaborazione coordinata e continuativa comunque rese e utilizzate a fini istituzionali in
favore delle associazioni3 e società sportive dilettantistiche4 affiliate alle federazioni sportive
nazionali, alle discipline associate e agli enti di promozione sportiva riconosciute dal Coni, come
individuate e disciplinate dall’art.90 della legge 27 dicembre 2002, n.289”5, cercheremo qui di
fornire un quadro dettagliato della normativa succedutasi in questo specifico settore.
Legge n.133/1999
Per dovere di completezza, sarà dato impulso a questo lavoro con l’analisi della legge
n.133/1999, la quale rappresenta il primo intervento in tema di trattamento fiscale degli emolumenti
erogati nel settore dello sport dilettantistico.
Il quarto comma dell’articolo 256 della legge 13 maggio 1999, n.133, stabilisce – come noto
- che le società sportive dilettantistiche (SSD)7, anche se non riconosciute dal CONI o dalle
1
A titolo esemplificativo si ricordano, per citare solo gli interventi legislativi più importanti, la legge n.398/91
e, soprattutto, l’art.90 legge n.289/2002 (noto come Legge Pescante)
2
Problematica che non viene, per brevità, esaminata in questa sede se non per gli aspetti che interessano.
3
Di seguito ASD
4
Di seguito SSD
5
Art. 61, comma 3 D.Lgs. n.276/2003
6
rubricato “disposizioni tributarie in materia di associazioni sportive dilettantistiche”
7
Si noti che la rubrica cita solo le associazioni, mentre il testo della norma menziona solo le società
sportive dilettantistiche. Una svista del legislatore fiscale o un modo per assimilare due figure che
l’ordinamento sportivo già accomuna?
3
Federazioni Sportive Nazionali (FSN) a condizione di essere riconosciute da Enti di promozione
sportiva (EPS), che corrispondono “compensi comunque denominati”, comprese le indennità di
trasferta ed i rimborsi forfetari, per le “prestazioni inerenti alla propria attività”, devono operare
all’atto del pagamento (per la parte eccedente la somma di lire 90.000 per singola prestazione e –
comunque – di lire 6.000.000 complessivi annui per ogni percipiente) una ritenuta a titolo d’imposta
nella misura fissata dall’art.11 del TUIR per il primo scaglione di reddito8, maggiorata delle
addizionali Irpef.
Ad una prima lettura di questa norma, tre sono le domande che immediatamente ci si pone:
la disposizione si applica alle ASD, alle SSD o ad entrambe le tipologie di soggetti?
cosa intende il legislatore per “compensi comunque denominati…per le prestazioni inerenti
alla propria attività”?
chi sono i soggetti percipienti?
In aiuto agli operatori del settore è intervenuto il decreto ministeriale 26 novembre 1999,
n.4739 che subito ha chiarito come la norma si applicasse a “società o associazioni sportive
dilettantistiche”10, ricordando che nella definizione SSD si devono intendere ricompresi il CONI, le
Federazioni Sportive Nazionali, gli Enti di Promozione Sportiva e “qualunque altro organismo,
comunque denominato, che persegua finalità sportive dilettantistiche” e che sia da essi
riconosciuto11.
Per rispondere al secondo quesito, il decreto in esame stabilisce che i compensi (comunque
denominati) devono essere erogati per le prestazioni volte a “promuovere l’attività sportiva
dilettantistica”, rimanendo esclusi quelli corrisposti a:
lavoratori dipendenti assunti per lo svolgimento di attività amministrative ovvero di gestione
dell’organismo;
artisti e professionisti;
esercenti attività d’impresa.
Prima di rispondere al terzo quesito si ritiene opportuno esaminare nello specifico la
disciplina dei compensi erogati, dovendosi infatti puntualizzare come la somma di lire 90.000 per
singola prestazione e – comunque – di lire 6.000.000 complessivi annui non costituisca, per il
percipiente-persona fisica, reddito imponibile.
Nel caso in cui, però, la somma erogata superi tali limiti, l’intera eccedenza rappresenta
reddito, senza possibilità di esclusioni, riduzioni o deduzioni previste per le singole categorie
reddituali12. Sull’eccedenza le SSD e le ASD operano – con obbligo di rivalsa – una ritenuta a titolo
d’imposta nella misura fissata per il primo scaglione di reddito, maggiorata delle aliquote di
8
Fino al 2002 l’aliquota era al 18%. A partire dal 2003 è al 23%.
9
Regolamento recante norme di attuazione dell’art.25 della legge n.133/99, pubblicato in G.U. n.294
del 16 dicembre 1999
10
art.1, commi 1 e 2 nonché art.4, comma 1 DM 473/99
11
Si noti l’importanza che riveste, per le società e le associazioni sportive dilettantistiche, il
riconoscimento da parte di CONI, FSN e/o EPS per poter usufruire di agevolazioni di carattere fiscale.
Per un altro esempio sia concesso il rinvio a M.GIUA, Le scuole dello sport. Agevolazioni IVA, in
Consulenza Fisco e Società n.10/2003, pag. 55-56.
12
In tal senso l’art.2, comma 2 del DM 473/99
4
compartecipazione delle addizionali all’Irpef. Al momento del pagamento i percipienti
autocertificano eventuali compensi della medesima natura ricevuti da altri soggetti13.
Il Regolamento di attuazione dell’art.25 L.n.133/99 stabilisce anche che le SSD e le ASD,
qualora eroghino compensi non inferiori a 100.000 lire, devono utilizzare conti correnti bancari o
postali a loro intestati. In caso contrario, le somme concorreranno in ogni caso a formare reddito per
il percipiente persona fisica14.
Per quanto riguarda il terzo quesito, la lettura della norma consente di affermare che i
soggetti percipienti che possono beneficiare del regime di favore possono essere, oltre agli attori
principali di questo settore – gli sportivi dilettanti15 - anche i collaboratori coordinati e continuativi:
si ricordi infatti che si parla espressamente di “”compensi comunque denominati””.
In senso conforme si è anche espressa l’INPS, con la circolare 27 giugno 2000, n.12116,
secondo cui l’art.25 della legge n.133/99 non modifica in alcun modo le disposizioni relative alla
qualificazione degli emolumenti erogati dalle società ed associazioni sportive dilettantistiche, nel
senso che questi possono essere considerati “”ai fini fiscali e previdenziali, quali redditi da
collaborazione coordinata e continuativa”” a condizione – ovviamente – di trovarsi in presenza di
quelle attività (tipiche o atipiche) che presentino tutti i requisiti richiesti dall’ordinamento vigente.
L’immediata conseguenza di questa presa di posizione dell’Istituto previdenziale è riassunta
nella circostanza che, nel caso di ricorso a rapporti di co.co.co. per la promozione della propria
ASD17, i compensi erogati da società/associazioni non costituiscono reddito imponibile per i
percipienti persone fisiche fino al raggiungimento dei limiti più volte richiamati (90.000 o
6.000.000 di lire). Tali compensi non dovranno, quindi, essere assoggettati alla contribuzione
prevista per la cd. gestione separata.
Di contro, l’eventuale eccedenza, costituendo – come abbiamo visto – reddito imponibile
per il percipiente, “”si configura””, secondo l’INPS, “”come base imponibile anche ai fini della
contribuzione previdenziale18 dovuta per i collaboratori coordinati e continuativi, alla quale…non
dovrà essere applicata la deduzione forfetaria del 5 per cento o del sei per cento””. La mancata
13
Peraltro, ai sensi dell’art.2, comma 3 del DM in esame, gli organismi eroganti devono – comunque
– certificare ai percipienti i compensi erogati, anche se non assoggettati a ritenuta, e presentare la
dichiarazione dei sostituti d’imposta.
14
L’art.4, comma 3, DM 473/99 stabilisce infatti che “”i pagamenti o i versamenti non inferiori a
L.100.000 effettuati con modalità diverse da quelle previste nei precedenti commi concorrono in ogni
caso, rispettivamente, a formare il reddito del percipiente e sono indeducibili nella determinazione
del reddito del soggetto erogante e, qualora trattasi di associazioni che si avvalgono delle
disposizioni della legge n.398 del 1991, comportano la decadenza dalle agevolazioni previste dalla
legge medesima””
15
per una puntuale definizione di “sportivo dilettante”, si veda M. GIUA e L. SANZI, Previdenza ed
anti-infortunistica nello sport dilettantistico, in Consulenza Lavoro e Previdenza, n. 17/2004.
16
rubricata “Gestione separata, ex articolo 2, comma 26, legge 8.8.1995, n.335. Compensi erogati
dalle associazioni sportive dilettantistiche per collaborazioni coordinate e continuative: articolo 25,
legge 13.5.1999, n.133”
17
nella suddetta attività di promozione non rientra quella meramente amministrativa, come ricordato
da M.R.GHEIDO, Società sportive, il 10% all’Inps sui compensi oltre i sei milioni, in Il Sole24ore del
29 giugno 2000.
18
nella misura del 10-13%.
5
applicazione della deduzione forfetaria è sancita in ottemperanza al dettato dell’art.2, comma 2 del
DM n.473/9919.
Legge n.342/2000
Il successivo intervento nel tempo è costituito dall’art. 37 della legge 21 novembre 2000,
n.342, che ha sostanzialmente modificato la disciplina ex lege n.133/99.
In particolare, il collegato alla Finanziaria 2001 ha introdotto un regime di favore, stabilendo
che rientrano tra i redditi diversi di cui all’art.67 del TUIR20 le indennità di trasferta, i rimborsi
forfetari di spesa, i premi e i compensi erogati nell’””esercizio diretto di attività sportive
dilettantistiche dal CONI, dalle Federazioni sportive nazionali … dagli enti di promozione sportiva
e da qualunque organismo, comunque denominato, che persegua finalità sportive dilettantistiche e
che da essi sia riconosciuto””.
Secondo il successivo art. 6921, comma 2, le indennità di trasferta, i rimborsi forfetari di
spesa, i premi e i compensi non concorrono a formare il reddito per un importo non superiore
complessivamente nel periodo d’imposta a 7.500 euro. Peraltro sono esclusi dalla formazione del
reddito anche i “”rimborsi di spese documentate relative al vitto, all’alloggio, al viaggio e al
trasporto sostenute in occasione di prestazioni effettuate fuori dal territorio comunale””
Cosa si intende per “esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche”? Poiché il
legislatore non è stato molto chiaro, in aiuto agli operatori del settore è intervenuta l’Agenzia delle
Entrate con la risoluzione ministeriale 26 marzo 2001, n.34/E.
Secondo l’Agenzia, parlando di esercizio diretto, il legislatore ha voluto delimitare l’ambito
di applicazione del regime agevolativo in esame, escludendo i compensi corrisposti per lo
svolgimento di “”attività contabili ed amministrative in quanto non direttamente finalizzate alla
realizzazione delle manifestazioni sportive dilettantistiche””.
Di conseguenza, possono beneficiare della norma prevista dall’art.67 i compensi erogati a
soggetti che partecipano direttamente alla realizzazione della manifestazione sportiva a carattere
dilettantistico. In altre parole, l’agevolazione fiscale si riferisce a tutti quei soggetti le cui
prestazioni sono funzionali alla manifestazione sportiva dilettantistica, determinandone la concreta
realizzazione, ivi compresi coloro che nell’ambito e per effetto delle funzioni di rappresentanza
dell’associazione di norma presenziano all’evento sportivo.
Alla luce di questa presa di posizione dell’Agenzia delle Entrate, si considerano corrisposti
nell’esercizio diretto dell’attività sportiva dilettantistica i compensi riconosciuti a :
atleti dilettanti;
allenatori;
giudici di gara;
commissari speciali che durante le gare/manifestazioni devono visionare o giudicare
l’operato degli arbitri;
19
secondo cui “”la parte eccedente i predetti limiti costituisce interamente reddito per il percipiente
persona fisica, senza le esclusioni, riduzioni o deduzioni, previste per le singole categorie reddituali””
20
art.67 (già 81), comma 1, lett. m del DPR 917/86.
21
già art.83.
6
dirigenti che di solito presenziano direttamente a ciascuna manifestazione, consentendone il
regolare svolgimento, a condizione che non siano legati al soggetto erogatore dei compensi da
rapporti di collaborazione coordinata e continuativa22.
Di contro, la risoluzione n.34/E/2001 ribadisce espressamente come della norma agevolativa
non possano beneficiare i soggetti che svolgono “mera attività amministrativa”.
In conclusione, perché le somme corrisposte possano rientrare nella disciplina di cui
all’art.67, comma 1 lett m del TUIR, devono sussistere, come evidenziato dall’Agenzia delle
Entrate, contemporaneamente due condizioni:
condizione soggettiva: il soggetto percipiente deve rientrare in una delle categorie sopra
individuate;
condizione oggettiva: la manifestazione sportiva deve avere carattere dilettantistico.
Legge n.289/2002
Altro momento di assoluto rilievo nel settore in esame è, di certo, rappresentato dall’entrata
in vigore dell’art.90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, che, nell’introdurre una serie di novità
per l’attività sportiva dilettantistica, ha stabilito che il regime di favore previsto, ai sensi dell’art.67,
comma 1 lett.m, del DPR n.917/86 (come modificato dalla legge n.342/2000)23, per le somme
erogate nell’esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche agli sportivi dilettanti si applichi
anche “”ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di carattere amministrativogestionale di natura non professionale24 resi in favore di società ed associazioni sportive
dilettantistiche””25.
A parere di chi scrive, con la norma in esame il legislatore ha voluto introdurre un tertium
genus nell’ambito delle collaborazioni coordinate e continuative26. Tale assunto è suffragato dal
trattamento fiscale, contributivo e previdenziale riservato a tali co.co.co., diverso rispetto alle
co.co.co. “tipiche” e a quelle “atipiche” previste dall’art. 50, comma 1 lett. c-bis del DPR n.917/86
ed i cui proventi sono assimilati ai redditi da lavoro dipendente.
22
In tale tipologia rientrano sia i dirigenti delle ASD e SSD, sia i dirigenti di CONI, Federazioni
Sportive Nazionali o Enti di Promozione Sportiva
23
Vedasi nota n. 19.
24
Nel senso che le funzioni attribuite non devono rientrare nell’attività principale, caratterizzata da
abitualità e professionalità, del percettore del compenso.
25
Fino all’entrata in vigore di tale norma, la suddetta tipologia di collaborazioni era soggetta alla
disciplina ordinaria prevista dall’art. 50 (già 47), comma 1, lett. c-bis del DPR 917/86
26
Tale assunto è condiviso da larga parte della dottrina. Per tutti D.FESTA Riforma Biagi:
collaborazioni coordinate e continuative o prestazioni d’opera? in Il fisco n.19/2004 pagg. 7160 e
segg, secondo cui le co.co.co. si dividono in tipiche e atipiche. Sono definiti rapporti “tipici” quelli
derivanti dagli uffici di amministrazione, sindaco o revisore di società, associazioni ed altri enti con o
senza personalità giuridica, dalla collaborazione a giornali, riviste enciclopedie e simili e, infine, dalla
partecipazione a collegi e simili. Di contro, sono “atipici” quei rapporti aventi ad oggetto la
prestazione di attività svolte senza vincolo di subordinazione a favore di un determinato soggetto nel
quadro di un rapporto unitario e continuativo senza impiego di mezzi organizzati e con retribuzione
periodica prestabilita. In senso conforme anche l’Agenzia delle Entrate che, nella circolare
n.21/E/2003, punto 5.1, parla di “”particolari rapporti di collaborazione coordinata e continuativa””
7
L’Agenzia delle Entrate, nell’intervenire a commento dell’art.90 L.n.289/02 con la circolare
22 aprile 2003, n.21/E, con particolare riguardo alle collaborazioni di carattere amministrativogestionale, ha chiarito che nel novero di questa tipologia di co.co.co. vi devono essere ricomprese le
prestazioni connesse ai compiti tipici di segreteria, a condizione che non richiedano particolari
conoscenze di natura tecnico-giuridica tipiche del professionista. A titolo esemplificativo, ma a
parere di chi scrive non esaustivo, la circolare indica i compiti di raccolta delle iscrizioni e di tenuta
della cassa e della contabilità.
In questa ampia categoria di collaboratori vi possono, quindi, rientrare diverse tipologie di
soggetti incaricati di attività di natura amministrativo-gestionale. Da una lettura della norma – e non
limitandosi all’esemplificazione dell’Agenzia delle Entrate – parrebbe desumersi che tali attività
siano principalmente caratterizzate da una particolare autonomia sia direttiva che decisionale. Si
tratterebbe, cioè, di “attori” dotati, nell’ambito della SSD/ASD e delle specifiche mansioni loro
assegnate, di un potere decisionale di carattere organizzativo, a condizione – ovviamente, di non
svolgere tale attività in modo professionale.
Come affermato da parte della dottrina27, nella fattispecie in esame rientrerebbero i dirigenti
che hanno funzioni amministrative28, i collaboratori amministrativi con compiti direttivi ed – anche
– i responsabili di settori specifici (quali, ad esempio, manutentori, giardinieri incaricati della
manutenzione dei campi, ecc.). Di contro, non dovrebbero rientrare nella fattispecie i soggetti
sprovvisti di autonomia decisionale e direttiva (es. custodi, addetti alle pulizie, ecc.)29.
Non si può, comunque, tacere il fatto che l’ambito di valenza dell’agevolazione connessa
con la riconducibilità dei compensi (estensivamente considerati) erogati ai collaboratori coordinati e
continuativi per le prestazioni di carattere amministrativo-gestionale sia certamente più ristretto
rispetto a quello relativo ai compensi riconosciuti nell’esercizio diretto di attività sportiva. La norma
precisa infatti che sono redditi diversi i compensi corrisposti:
nell’esercizio diretto di attività sportiva dilettantistica da CONI, FSN, EPS e da qualunque
organismo, comunque denominato (facendovi rientrare sia le società di capitali che le associazioni),
che persegua finalità sportive dilettantistiche;
per collaborazioni coordinate e continuative di carattere amministrativo gestionale rese in
favore di SSD e ASD (escludendo, quindi, CONI, FSN e EPS).
Requisiti delle collaborazioni coordinate e continuative
Come chiarito anche dall’Agenzia delle Entrate nella circolare n.21/E/2003, le
collaborazioni coordinate e continuative sportive dilettantistiche, per usufruire delle agevolazioni di
cui si dirà tra poco, oltre ad essere di natura non professionale, devono presentare talune
caratteristiche gia’ individuate dal legislatore fiscale, nel senso di avere per “”oggetto la prestazione
di attivita’ svolte senza vincolo di subordinazione a favore di un determinato soggetto nel quadro di
un rapporto unitario e continuativo senza impiego di mezzi organizzati e con retribuzione periodica
prestabilita””30.
27
In senso conforme si veda M.SACCARO, Irpef: esenzione totale fino a 7.500 euro oltre questo
limite la ritenuta è del 23% in Il Sole 24 ore Sport del 10-24 gennaio 2003
28
Diversi dagli amministratori, il cui incarico deve essere gratuito ai sensi dell’art.90, comma 18,
lett.a della legge n.289/2002.
29
Sul punto si veda ancora M. GIUA e L. SANZI, Previdenza ed anti-infortunistica nello sport
dilettantistico - Cit
30
In tal senso recita il succitato art. 50, comma 1, lett. c-bis DPR n.917/86.
8
In particolare, secondo l’Agenzia, le prestazioni in esame – in quanto relative a rapporti di
co.co.co. – devono essere qualificate da continuità nel tempo, coordinazione, inserimento del
collaboratore nell’organizzazione economica del committente e da assenza del vincolo di
subordinazione.
Con riguardo, poi, alla natura non professionale della prestazione, dovrà essere di volta in
volta valutata, secondo l’Agenzia, se per lo svolgimento dell’attività di collaborazione siano
necessarie “”conoscenze tecnico-giuridiche direttamente collegate all’attività di lavoro autonomo
esercitata abitualmente””. Con la conseguenza di escludere tutte quelle prestazioni riconducibili
all’esercizio di arti o professioni.
Agevolazioni fiscali
Come abbiamo visto, sul piano fiscale è rilevante che, a differenza delle collaborazioni
coordinate e continuative “tipiche e atipiche” rese in altri settori, quelle prestate nell’ambito dello
sport dilettantistico non siano considerate dal legislatore assimilate a prestazioni di lavoro
dipendente. Di conseguenza, i compensi percepiti, sotto qualunque forma (indennità di trasferta,
rimborso spese, premio o remunerazione periodica), sono considerati redditi diversi, secondo
quanto previsto dagli artt.67 e 69 del testo unico delle imposte sui redditi.
Questo comporta che i compensi in qualunque forma erogati sono, ai fini della tassazione sui
redditi, divisi nelle seguenti tre fasce:
fino alla somma complessiva di 7.500 euro annui: esenti da imposta (cd. “no tax area”);
compresi tra i 7.500 e i 28.158,28 euro annui: soggetti a ritenuta a titolo d’imposta
all’aliquota del 23% maggiorata dell’aliquota di compartecipazione delle addizionali all’Irpef dello
0,9% (addizionale regionale);
superiori ai 28.158,28 euro: soggetti a ritenuta a titolo d’acconto all’aliquota del 23 %
maggiorata dell’aliquota di compartecipazione delle addizionali all’Irpef dello 0,9% (addizionale
regionale).
Peraltro, anche in questa circostanza sono esclusi dalla formazione del reddito i rimborsi di
spese documentate relative al vitto, all’alloggio, al viaggio e al trasporto sostenute in occasione di
prestazioni effettuate fuori dal territorio comunale.
E’ appena il caso di ricordare che le SSD e ASD, ogni qual volta elargiscano somme agli
sportivi ovvero ai collaboratori coordinati e continuativi, devono comunque farsi rilasciare
un’autocertificazione contenente la dichiarazione relativa alla percezione di un compenso inferiore
o superiore ai limiti indicati. Parimenti, anche la SSD/ASD deve rilasciare una certificazione dei
compensi erogati nel corso dell’anno per ogni soggetto31.
Agevolazioni IRAP
L’art.90, comma 10 della legge 289/2002 ha stabilito l’irrilevanza delle indennità e dei
rimborsi di cui all’art.67 (già 81), comma 1, lett. m del TUIR ai fini della determinazione del valore
della produzione netta soggetta all’imposta regionale.
Come confermato dall’Agenzia delle Entrate con la citata circolare n.21/E/2003, quindi, a
seguito della riconducibilità dei compensi erogati nella categoria dei redditi diversi, tali somme non
rientrano nel calcolo dell’Imposta regionale sulle attività produttive (IRAP). Nella circolare si legge
31
Sul punto si rinvia a G. D’Imperio, Le novità per le società sportive dilettantistiche, in questa
Rivista n.5/2003, pag 36 e segg.
9
infatti che, ai fini IRAP, per i soggetti che si avvalgono di regimi forfetari per la determinazione dei
reddito, il valore della produzione netta può essere determinato aumentando il reddito, così
calcolato, delle retribuzioni corrisposte al personale dipendente, dei compensi spettanti ai co.co.co.
e di quelli spettanti per prestazioni di lavoro autonomo non esercitate abitualmente, mentre “”non
vanno più sommate le indennità e i rimborsi di cui all’art.81 (ora 67), comma 1, lettera m) del
TUIR””. Dell’agevolazione possono beneficiare le SSD/ASD che si avvalgono del regime previsto
dalla legge n.398/91.
Sul punto si ricordi che l’art.5, comma 2 della legge 289/2002 ha modificato l’art.11, comma
1, lett.b, n.2 del D.Lgs. n.446/1997 nel senso che non sono più compresi tra i compensi indeducibili
nella determinazione della base imponibile IRAP le somme disciplinate dall’art.67, comma 1, lett.m
del TUIR. Con la conseguenza, certamente apprezzabile, che anche le SSD/ASD che non abbiano
optato per la 398/91 possono portare in deduzione le indennità di trasferta, i rimborsi forfetari di
spesa, i premi ed i compensi in sede di determinazione della base imponibile IRAP.
Agevolazioni contributive
Il nuovo inquadramento tra i redditi diversi dei compensi erogati ai co.co.co amministrativogestionali comporta che i collaboratori non devono più essere iscritti alla Gestione separata INPS,
che prevede il contributo del 10-14%.
Tale considerazione, già confermata dall’Istituto previdenziale all’indomani della legge
n.342/2000 con riguardo ai compensi erogati ai collaboratori nell’ambito dell’esercizio diretto di
attività sportiva dilettantistica, è stata ulteriormente avvalorata dalla recente circolare n.9 del 2004
(relativa ai lavori a progetto di cui alla Riforma Biagi e collegata alla circolare del Ministero del
Welfare n.1/2004), in cui l’INPS, nel disciplinare il trattamento previdenziale del lavoro a progetto,
così si esprime: “”in ordine alle associazioni e società sportive dilettantistiche preme evidenziare
che la nuova previsione normativa in nulla modifica l’attuale disciplina previdenziale e che,
conseguentemente, nelle fattispecie nelle quali gli emolumenti ed i compensi conseguiti siano
fiscalmente inquadrabili nei “redditi diversi” di cui al’art. 67, comma 1, lettera m, del TUIR non è
configurabile l’obbligo contributivo nei confronti della Gestione separata di cui alla legge
n.335/1995””.
Agevolazioni assicurative
Il nuovo inquadramento dei compensi comporta un’ulteriore agevolazione: i collaboratori
coordinati e continuativi operanti nel nostro settore non sono più obbligati ad iscriversi all’Inail.
L’Istituto, infatti, già nel 2001 (per le prestazioni rese nell’ambito dell’esercizio diretto) e nel
2003 (per le prestazioni di carattere amministrativo-gestionale) aveva avuto modo di chiarire che i
compensi erogati a collaboratori coordinati e continuativi devono considerarsi assoggettati ad
assicurazione antinfortunistica obbligatoria solo nel caso in cui i medesimi compensi rientrino nei
redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente. Circostanza questa che, come noto, non si verifica
per il settore sportivo dilettantistico. Tale orientamento è stato confermato dalla circolare 18 marzo
2004, n.22 (relativa ai lavori a progetto di cui alla Riforma Biagi e collegata alla circolare del
Ministero del Welfare n.1/2004)32.
A tal proposito si ricorda, altresì, che la Finanziaria 2003, con decorrenza 1° luglio 2003, ha
stabilito l’obbligo assicurativo a carico degli sportivi dilettanti tesserati (in qualità di atleti, dirigenti
e tecnici) alle FSN, alle discipline sportive associate (DA) ed agli EPS. Tale obbligo assicurativo
comprende i casi di infortunio avvenuti in occasione ed a causa dello svolgimento di attività
sportive, e che abbiano come conseguenza la morte o l’inabilità permanente dello sportivo.
32
Nella circolare n.22/2004 si legge, infatti: “”Restano, invece, escluse dall'assoggettamento
all'assicurazione obbligatoria: · le collaborazioni rese in favore di associazioni e società sportive
dilettantistiche, i cui compensi siano inquadrati dal punto di vista fiscale nei "redditi diversi".””
10
Peraltro, la Finanziaria 2004 ha stabilito che le modalità tecniche per l’iscrizione
all’assicurazione obbligatoria (SPORTASS), nonché i termini, la natura, l’entità delle prestazioni ed
i relativi premi assicurativi sarebbero dovuti essere disciplinati con un decreto interministeriale da
emanarsi entro il 31.12.2004. Tale decreto è stato emanato in data 17 dicembre 2004 e pubblicato in
Gazzetta Ufficiale il 28 aprile 2005, serie ordinaria n.97.
Peraltro, a differenza di quanto si pensasse all’indomani della pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale del citato decreto, la storia infinita dell’assicurazione per gli sportivi dilettanti33 ha visto
due nuovi capitoli.
Il primo è stato scritto il 24 giugno 2005, quando, su pressione di parte del mondo politico e
di quello sportivo, il Consiglio dei Ministri ha sospeso fino al 31 dicembre 2006 l’obbligo in esame.
Il secondo è rappresentato dalla conversione in legge del decreto legge 30 giugno 2005,
n.115 (decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.151 del 1 luglio 2005).
Questa nuova norma, all’art.6 ha introdotto una serie di disposizioni in materia sportiva, che
vanno dalle misure antiviolenza nelle manifestazioni sportive, alle regole in materia di bilanci delle
società sportive professionistiche, all’obbligo assicurativo per gli sportivi dilettanti.
In questa sede, ovviamente, interessa solo l’ultimo aspetto, tenuto conto, nello specifico, che
il citato articolo modifica il comma 2-bis34 dell'articolo 51 della legge 27 dicembre 2002, n. 289
(Finanziaria 2003), introdotto dalla L. 24 dicembre 2003 n. 350 (Finanziaria 2004).
Secondo la nuova previsione normativa, con decreto interministeriale del Ministro per i beni
e le attività culturali, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro
dell'economia e delle finanze, sentiti le federazioni sportive dilettantistiche e gli enti di promozione
sportiva, da emanare a decorrere dal 1° agosto 2005 ed entro il 31 dicembre 2006, dovranno essere
stabilite le nuove modalità tecniche per l'iscrizione all'assicurazione obbligatoria degli sportivi
dilettanti, nonché la natura, l'entità delle prestazioni e i relativi premi assicurativi.
Nel rispetto, ovviamente, delle norme comunitarie in materia di assicurazione
antinfortunistica, è data facoltà alle federazioni ed agli enti di promozione sportiva di scegliere la
compagnia assicuratrice con la quale stipulare le relative convenzioni.
A decorrere, quindi, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto
legge n.115/05, sono abrogate le disposizioni in materia di assicurazione obbligatoria degli sportivi,
introdotte dal decreto interministeriale del 17 dicembre 2004.
Si rimane, quindi, in attesa di conoscere le disposizioni di dettaglio che saranno introdotte
dall’emanando decreto interministeriale.
Sportivi dilettanti: co.co.co. o prestazione sportiva?
Abbiamo visto, nel corso di questo excursus normativo, che numerose sono le categorie di
attori che ruotano intorno all’attività delle SSD/ASD e delle cui prestazioni tali compagini si
avvalgono.
In particolare ricordiamo:
lavoratori assunti con contratto di lavoro dipendente35 per lo svolgimento di attività
amministrative ovvero di gestione dell’organismo;
33
Che in questa sede, per brevità, non si ripercorre se non in modo incidentale
34
Secondo cui, “con decreto del ministro per i beni e le attività culturali, di concerto con il ministro
del lavoro e delle politiche sociali e con il ministro dell’economia e delle finanze, sono stabiliti le
modalità tecniche per l’iscrizione all’assicurazione obbligatoria presso l’ente pubblico di cui al
decreto del presidente della repubblica 1° aprile 1978, n. 250, nonché i termini, la natura, l’entità
delle prestazioni e i relativi premi assicurativi”.
35
Per il cui inquadramento l’Autore rinvia al citato Previdenza ed anti-infortunistica nello sport
dilettantistico.
11
artisti e professionisti o esercenti attività d’impresa;
atleti, dirigenti e tecnici, tesserati a CONI, FSN o EPS in qualità di sportivi dilettanti (si
tralasciano, in questa sede, soggetti quali arbitri, commissari e giudici di gara in quanto legati alle
manifestazioni sportive e non alle società);
collaboratori coordinati e continuativi di carattere amministrativo-gestionale.
Se per l’inquadramento di lavoratori dipendenti, artisti, professionisti, imprenditori e
collaboratori coordinati e continuativi di carattere amministrativo-gestionale non si rilevano
problemi di sorta, dubbi si possono avere con riguardo agli sportivi dilettanti.
Qual è, infatti, la natura del rapporto che lega gli sportivi dilettanti (i cd. “tesserati”) a SSD e
ASD?
La risposta al suddetto quesito non può che prendere le mosse dall’analisi della scelta, a tal
riguardo, operata dal legislatore nazionale. L‘art. 3 L. n. 91/81, pone (anche se per i soli atleti), una
presunzione juris et de jure di lavoro subordinato per la sola prestazione sportiva professionistica. In
tale settore, in sostanza, la subordinazione viene riconosciuta ex lege e non necessita, pertanto, di
quella rigorosa indagine invece richiesta, nel diritto comune del lavoro, dal consolidato
orientamento della Suprema Corte di Cassazione, secondo il quale la prestazione lavorativa potrà
definirsi di lavoro dipendente quando si potrà dimostrare l’esistenza del requisito della
subordinazione, “intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro, con
assoggettamento alle direttive da questo impartite circa le modalità di esecuzione dell’attività
lavorativa, mentre altri elementi come l’osservanza di un orario, l’assenza di rischio economico, la
forma della retribuzione e la stessa collaborazione, possono avere valore indicativo ma mai
determinante“.
La legge n. 91/81, infatti, è legge speciale, dal momento che fornisce una nozione di lavoro
subordinato in parziale deroga di quella prevista dall’art. 2094 c.c.. In conseguenza di tale natura
speciale, le sue norme, ex art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile, non sono quindi
suscettibili di applicazione analogica al lavoro dilettantistico, la cui prestazione sarà, pertanto,
valutabile solo alla stregua della normativa di diritto comune, nel rispetto però delle scelte operate
dalla legge 91/81 (riconoscimento della subordinazione solo ai professionisti), così come
successivamente applicate dall’ordinamento sportivo, ordinamento autonomo36.
Secondo parte della dottrina37, la prestazione resa dai cd. “tesserati” costituisce
rapporto di lavoro atipico, caratterizzato dalla causa sportiva: il cd. “lavoro sportivo”, per il quale
viene stipulato apposito contratto di prestazione sportiva dilettantistica38.
Altra parte della dottrina, invece, ritiene che nell’ambito dell’attività di società ed
associazioni sportive dilettantistiche si possano distinguere due tipologie di collaborazioni
coordinate e continuative:
36
Sul punto, con particolare riguardo alla delibera del CONI sugli sport professionistici e – di
conseguenza – su quelli dilettantistici, si veda ancora M. GIUA e L. SANZI, Previdenza ed antiinfortunistica nello sport dilettantistico - Cit
37
Per tutti, A.SUCCI, Niente collaborazioni agli sportivi in Italia Oggi del 6 dicembre 2000 e Nasce
la co.co.co. anche nello sport in Italia Oggi del 21 gennaio 2003.
38
L’art.4, comma 1 della legge n.398/91 parla espressamente di “”diritti alle prestazioni sportive
degli atleti””. In senso analogo si veda anche l’art.7, comma 4 lett. d del DPR n.633/72, anche se con
riguardo agli sportivi professionisti.
12
una collaborazione che non afferisce direttamente all’attività sportiva dell’ente, tra le quali
rientrano i rapporti tra l’ente ed i collaboratori che si occupano esclusivamente di aspetti inerenti
alla gestione e all’amministrazione;
una collaborazione che afferisce direttamente alla promozione dell’attività sportiva dell’ente,
nel cui ambito rientrano i rapporti tra l’ente e gli atleti dilettanti, i dirigenti ed i tecnici (i cd.
“tesserati”)39
A supporto di tale secondo orientamento si può richiamare, nell’ambito della Riforma Biagi,
la circolare n. 1 del 8 gennaio 2004 del Ministero del Welfare la quale, nell’esplicare il contenuto
del D.lgs. n.276/2003 in tema di co.co.co. e lavori a progetto, chiarisce i motivi in forza dei quali i
rapporti e le attività di collaborazione coordinata e continuativa comunque rese e utilizzate a fini
istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni
sportive nazionali, alle discipline associate e agli enti di promozione sportiva riconosciute dal Coni
siano esclusi dall’applicazione della legge.
Considerazioni finali
Alla luce, quindi, della lettera della citata circolare n.1/2004, secondo cui “”l’articolo 3 della
legge n.91 del 23 marzo 1981 ha previsto, al secondo comma, talune ipotesi in cui la prestazione
sportiva dell’atleta è resa nella forma del contratto di lavoro autonomo; lavoro autonomo che può
anche svolgersi, qualora ne ricorrano i presupposti, in forma di collaborazione coordinata e
continuativa””40, ci si trova dinanzi ad attività tipiche contemplate ex lege.
Di conseguenza, non si ritiene che si debba applicare una disposizione che preveda la
necessaria indicazione di un progetto, programma di lavoro o fase di esso.
MASSIMILIANO GIUA, Esperto fiscale e giornalista pubblicista in Torino. Cultore di
“Organizzazione sportiva ed organismi sportivi” all’Università “D’Annunzio” di Chieti - Pescara e
di “Diritto dello Sport” all’Università di Camerino
39
In tal senso S.CERATO e G.POPOLIZIO, Trattamento fiscale, previdenziale e assicurativo dei
compensi corrisposti da società e associazioni sportive dilettantistiche alla luce delle novità recate
dalla legge Finanziaria per il 2003, in Il fisco n.6/2003, pagg. 1867 e segg.
40
L’art.3, comma 2 della legge n.91/81, prevede che la prestazione a titolo oneroso costituisce oggetto
di contratto di lavoro autonomo “”quando ricorra almeno uno dei seguenti requisiti: a) l’attività sia
svolta nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate in
un breve periodo di tempo; b) l’atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la
frequenza a sedute di preparazione od allenamento; c) la prestazione che è oggetto del contratto, pur
avendo carattere continuativo, non superi otto ore settimanali oppure cinque giorni ogni mese ovvero
trenta giorni ogni anno””.
13
IL TRIBUNALE ARBITRALE DELLO SPORT
La creazione del Tribunale Arbitrale dello Sport - TAS - si inserisce nel contesto degli
interessi sportivi e finanziari in gioco nell’ambito dello sport professionale che hanno avuto una
notevole evoluzione nel tempo.
In effetti, è stato considerato che, anche se le conflittualità giuridico-sportive potevano
essere definite attraverso i Tribunali ordinari, l’esistenza di un Tribunale Internazionale – come il
TAS – specializzato, poco oneroso e operante in termini veloci, avrebbe permesso di offrire un
modo in risoluzione delle liti in materia sportiva tali da aderire alle attese specifiche della comunità
sportiva mondiale.
Gettando uno sguardo sulla storia del Tribunale Arbitrale dello Sport, vi da tener presente
che all’inizio degli anni ottanta il continuo aumento del contenzioso internazionale in materia
sportiva, ha fatto riflettere le più alte organizzazioni portandole a valutare la possibile messa a punto
di un organismo di rapida risoluzione dei litigi nella specifica materia.
A seguito di una idea e di una intuizione dell’allora Presidente del C.I.O. – Juan Antonio
Samaranch – nel 1983 è stato impostato un primo statuto del TAS, che è entrato in vigore il 30
giugno 1984.
È da questa data che il Tribunale Arbitrale dello Sport è divenuto operativo.
Tale statuto del 1984 era accompagnato da un regolamento di procedura.
Ambedue sono stati leggermente modificati nel 1990.
Nell’ambito di questa prima organizzazione, il TAS era composto da sessanta membri,
designati dal C.I.O., dalle Federazioni Internazionali, dai Comitati Nazionali Olimpici e dal
Presidente del C.I.O. (15 membri ciascuno).
Lo statuto e il regolamento del TAS prevedevano una sola procedura contenziosa, quale che
fosse la natura del litigio. L’istante doveva depositare la sua richiesta al TAS, accompagnata dalla
convenzione arbitrale.
La domanda veniva quindi esaminata da una specifica formazione che si pronunciava sulla
ricevibilità, sotto riserva della decisione definitiva della formazione arbitrale che sarebbe stata
nominata. A lato di tale procedura contenziosa esisteva inoltre una procedura consultiva, aperta a
qualsiasi organismo sportivo e a qualsiasi persona singola interessata.
Grazie a tale procedura, il TAS poteva dare un suo parere su questioni di carattere giuridico
riguardanti qualsiasi attività riferita allo sport in generale. Tale procedura consultiva esiste ancora
attualmente, ma è stata in qualche modo rimaneggiata, ed ha ora un accesso limitato.
Nel 1991 il TAS ha pubblicato una guida dell’arbitrato comprendente diversi esempi di
clausole d’arbitrato. Le clausole prefiguravano già la creazione futura di una procedura speciale per
la definizione delle liti conseguenti alle decisioni rese dalle Federazioni e Associazioni Sportive
(procedura d’appello).
Con una sentenza resa il 15 marzo 1993, il Tribunale Federale Svizzero ha attribuito al TAS
la qualità di vero Tribunale Arbitrale, indipendente, ed in tal modo ampiamente riconosciuto.
La creazione del C.I.A.S., così come la nuova struttura del TAS, sono state consacrate a
Parigi il 22 giugno 1994, allorquando è stata sottoscritta la Convenzione relativa alla costituzione
del Conseil International de l’Arbitrage en matiere de Sport – detta Convenzione di Parigi -.
Questa Convenzione è stata sottoscritta dalle più alte autorità rappresentanti il mondo dello
sport, e così dal Presidente del C.I.O., dall’Associazione delle Federazioni Internazionali Olimpiche
di sport d’estate, dall’Associazione delle Federazioni Olimpiche di sport d’inverno e
dall’Associazione dei Comitati Nazionali Olimpici.
La convenzione ha regolato la nomina dei primi membri del C.I.A.S. ed ha organizzato il
finanziamento del TAS.
14
A partire dalla firma della Convenzione di Parigi, tutte le Federazioni Internazionali
Olimpiche e molti Comitati Nazionali Olimpici, hanno riconosciuto la giurisdizione del Tribunale
Arbitrale dello Sport, ed hanno inserito nei loro statuti una clausola di arbitrato in favore del TAS.
Dal 22 novembre 1994, il codice dell’arbitrato in materia di sport, ha regolato
l’organizzazione e le procedure operative del TAS. Questo codice è stato rivisto nel corso dell’anno
2003 al fine di codificare certi principi stabiliti da lungo tempo, sia attraverso la giurisprudenza del
TAS, sia attraverso la pratica costante degli Arbitri e del Segretariato.
L’ultima edizione del codice dell’arbitrato in materia di sport è entrata in vigore il 1°
gennaio 2004. Questo codice è formato da 69 articoli ed è diviso in due parti: lo statuto degli organi
abilitati a regolare i litigi in materia di sport, e il regolamento di procedura.
A partire sin dal 1999 il codice contiene anche un regolamento per la mediazione, istaurando
così una procedura informale che offre alle parti la possibilità di negoziare, con l’aiuto del
mediatore, la conclusione di un accordo che metta fine al litigio.
L’attuale codice dell’arbitrato in materia di sport regolamenta quattro procedure distinte:
la procedura d’arbitrato ordinario;
la procedura arbitrale d’appello;
la procedura consultativa;
la procedura di mediazione.
Le procedure d’arbitrato si svolgono in due fasi precise: una procedura scritta con scambio
di memorie, ed una procedura orale nell’ambito della quale le parti sono ascoltate dagli arbitri, in
linea di principio nell’ambito della sede del TAS a Losanna.
Il C.I.A.S., che costituisce l’organo supremo del TAS, ha come finalità quella di
salvaguardare l’indipendenza del TAS ed i diritti delle parti, assicurando anche l’amministrazione
ed il finanziamento del Tribunale Arbitrale. Il C.I.A.S. comprende 20 membri.
Tutti i componenti del C.I.A.S. devono essere giuristi di alto livello, particolarmente
competenti nell’ambito dell’arbitrato e del diritto dello sport.
Il C.I.A.S. esercita diverse funzioni che sono enumerate nel codice: funzioni che esercita sia
direttamente che attraverso l’intermediazione del suo Bureau composto dal Presidente, dai due
Vice-Presidenti, così come dai due Presidenti delle Camere del TAS.
Vi sono, d’altra parte, alcune funzioni che il C.I.A.S. non può delegare.
Ad esempio, la modificazione del codice dell’arbitrato in materia di sport non può essere
decisa che dal C.I.A.S. riunito in sedura plenaria, e più precisamente con una maggioranza di 2/3
dei suoi membri. Negli altri casi, è sufficiente la maggioranza semplice, a condizione che la metà
dei membri del C.I.A.S. partecipi alla decisione.
Il C.I.A.S. designa gli arbitri del TAS ed approva il budget ed i conti del TAS stesso.
Il TAS esercita le sue funzioni attraverso gli arbitri che sono ormai oltre duecento, con
l’ausilio del segretariato, a sua volta diretto dal Segretario generale.
Una delle grandi innovazioni della riforma del TAS è stata la creazione di due Chambres:
una Chambre d’arbitrato ordinario per le liti sottomesse al TAS in qualità di istanza unica, e una
Camera arbitrale d’appello per i litigi conseguenti a decisioni prese in ultima istanza da Organismi
sportivi. Ogni Camera è diretta da un Presidente.
Gli arbitri facenti parti dell’elenco del TAS sono designati dal C.I.A.S. per un periodo,
rinnovabile, di quattro anni.
Secondo le prescrizioni del codice il C.I.A.S. deve ricercarli tra personalità aventi una
riconosciuta formazione giuridica completa in materia di sport e/o di arbitrato internazionale, una
buona conoscenza dello sport in generale e la adeguata conoscenza di almeno una delle lingue di
lavoro del TAS, il francese e l’inglese.
Gli arbitri sono nominati su proposizione del CIO, delle Federazioni Internazionali e dei
Comitati Nazionali Olimpici. Aggiuntivamente, il C.I.A.S. nomina degli arbitri in vista di
salvaguardare gli interessi degli atleti.
Gli arbitri devono esercitare la loro funzione in assoluta obbiettività ed indipendenza, e a tal
fine, al momento della loro designazione, devono sottoscrivere una specifica dichiarazione.
15
Gli arbitri possono svolgere la loro attività nell’ambito di formazioni che intervengono sia
sul piano della procedura ordinaria che in quella di appello.
Tali formazioni possono essere composte da tre arbitri, ovvero da un solo, unico arbitro.
Tutti gli arbitri sono tenuti all’obbligo di riservatezza, e non devono assolutamente rivelare
una qualsiasi informazione relativa alle parti, alla lite o alla procedura.
In linea di principio due tipi di lite possono essere sottoposte al TAS, sempre riferite allo
sport: i litigi di natura commerciale e quelli in materia disciplinare.
La categoria dei litigi di natura commerciale raggruppa essenzialmente i litigi relativi
all’esecuzione di contratti – ad esempio nell’ambito dello sponsoring, della vendita di diritti
televisivi, dell’organizzazione di manifestazioni sportive, del trasferimento di giocatori, e delle
relazioni tra giocatori, allenatori, club e/o agenti – contratti di lavoro, contratti di agenzia -.
A tale categoria appartengono anche i litigi relativi a questioni di responsabilità civile.
Le questioni disciplinari rappresentano il secondo gruppo di liti sottoposte al TAS, e tra
questi i litigi relativi al doping occupano una rilevante posizione. Nel 1996 il C.I.A.S. ha creato due
uffici decentralizzati permanenti, il primo a Sydney in Australia, il secondo a Denver negli Stati
Uniti d’America. Nel dicembre 1999, gli uffici di Denver sono stati trasferiti a New York.
Tali uffici decentralizzati sono sempre collegati con il segretariato del TAS a Losanna e sono
competenti per ricevere e notificare qualsiasi atto di procedura.
La loro creazione ha consentito di facilitare l’accesso al TAS di parti domiciliate in Oceania
o nell’America del Nord. Nel 1996 il C.I.A.S. ha creato una chambre ad hoc del TAS avente come
finalità di regolare in maniera definitiva ed in un termine di ventiquattro ore le liti intervenute
durante i Giochi Olimpici d’Atlanta.
Tale Chambre ad hoc era composta da due copresidenti e di dodici arbitri presenti nella villa
olimpica durante tutta la durata dei giochi. Al fine di consentire un facile accesso alla Chambre ad
hoc una procedura speciale, snella, flessibile e gratuita è stata adoperata per l’occasione.
La Chambre ad hoc del TAS di Atlanta ha trattato sei questioni.
Dopo il 1996 altre Chambre ad hoc sono state create all’occasione di ogni edizione dei
Giochi Olimpici sia d’estate che d’inverno (Nagano, Sydney, Salt Lake City ed Atene).
Una specifica Chambre ad hoc è stata anche creata per i prossimi Giochi Olimpici di inverno
di Torino. Inoltre, una Chambre ad hoc del TAS è stata creata per l’occasione dei Giochi del
Commonwealth nel 1998, ed anche a Manchester quattro anni dopo.
Per quanto riguarda il football è stata creata una Chambre ad hoc, su indicazione della
UEFA, in occasione dei Campionati di Europa di football che sono intervenuti in Belgio e nei Paesi
Bassi nel giugno 2000, ed altra è stata creata per i Campionati d’Europa che si sono svolti in
Portogallo nel giugno 2004.
Le Chambre ad hoc si sono rilevate molto utili consentendo nei Giochi Olimpici di Sydney
l’esame di quindici liti e, a Salt Lake City nel 2002, di sette litigi.
Il successo di tali Chambre ad hoc ha notevolmente contribuito a far conoscere il Tribunale
Arbitrale dello Sport nell’ambito degli atleti, degli organismi sportivi, e di tutti coloro che si
interessano di sport nel mondo intero.
Nei suoi oltre venti anni di esistenza il TAS ha avuto una costante evoluzione, si è dotato di
una nuova struttura con la creazione del C.I.A.S.; il numero degli arbitri è aumentato
progressivamente – da 60 arbitri nell’86, ad oltre 200 nel 2003. Il volume di attività è fortemente
aumentato.
Dopo la fine dell’anno 2002 tutte le Federazioni Internazionali Olimpiche e moltissime
Federazioni non olimpiche riconoscono ormai la giurisdizione del TAS.
Sul piano generale, il ricorso al TAS sta divenendo sempre più sistematico nel caso di
questioni di notevole rilevanza lasciando intravedere come tale istituzione ormai abbia guadagnato
la fiducia del mondo sportivo.
Sono attualmente allo studio le eventualità di creazione di nuovi uffici decentralizzati nel
mondo al fine di organizzare un circuito esteso di notevole efficacia.
16
Dopo gli oltre venti anni trascorsi, il Tribunale Arbitrale dello Sport dispone ora di una
solida base che consente l’accrescimento del suo sviluppo sempre con la finalità di conservare i
vantaggi che hanno fatto, e che continuano ad accrescere, la sua reputazione nel corso degli anni.
MINO AULETTA , Avvocato del foro di Milano, vice-presidente del C.I.A.S.
17
TRIBUNALE DI TRENTO
SEZIONE DISTACCATA DI CAVALESE
Gara di sci su pista omologata dalla F.I.S.I. – Uscita di pista del concorrente e urto contro un
ostacolo non protetto con lesioni mortali – Azione di risarcimento danni degli eredi della
vittima – Legittimazione passiva del C.O.N.I. – Sussiste – Responsabilità ex art. 2043 c.c del
C.O.N.I., del Giudice Arbitro e del Tracciatore / Direttore di pista – Sussiste.
Verbale d’udienza con sentenza ex art. 281 sexies c.p.c.
<<Oggi 3/3/05 avanti al GI dott. Gianfranco Criscione, nella causa civile iscritta al numero
di ruolo generale sopra riportato, promossa con atto di citazione notificato in data 23,24,25/5/02 da
X.X., Y.Y. e Z.Z. (…)
ATTORI
contro
COMITATO OLIMPICO NAZIONALE ITALIANO (…)
CONVENUTO
e contro
W.W. SPA (…)
CONVENUTA
e contro
J.J. (…)
CONVENUTO
e contro
K.K. (…)
CONVENUTO
avente ad oggetto una controversia in materia di risarcimento danni da incidente sciistico
verificatosi durante una competizione agonistica >>
(omissis)
<< Premesso che per lo svolgimento del processo si rinvia alla relativa parte della memoria
conclusiva degli attori (…) si osserva innanzitutto che l’istruttoria orale svolta nel corso del
presente giudizio non ha apportato elementi di novità in ordine alla dinamica dell’incidente
controverso, che può quindi essere ricostruita prendendo a prestito le parole impiegate dal GUP di
Trento nella sentenza di non luogo a procedere emessa ai sensi dell’art. 425 c.p.p all’udienza del
22/11/00 nei confronti degli odierni convenuti J.J. e K.K. (allora imputati del delitto di omicidio
colposo di cui agli artt. 113 e 589 c.p.):
“La vittima stava scendendo lungo una pista di gara (…) seguendo un percorso tracciato e
segnato da porte da slalom (gigante) ed era giunto alla parte terminale, dove la pendenza
diminuisce decisamente, e si approssimava il punto in cui interviene un suo restringimento (…); in
sostanza era nel punto dove la velocità del concorrente è normalmente elevata” e allo stesso tempo
“non eccessiva, in quanto rallentata sia dalla costanza delle curve imposte dal percorso di slalom
18
che dalla diminuzione della pendenza (…). In quel punto la pista si restringe ancora; ciò avviene
subito dopo la curva destrorsa che la vittima avrebbe dovuto affrontare ma che non ha raggiunto;
in quel punto, e quindi più a valle del luogo del fatto, la pista è protetta da una rete (ovviamente
sulla sinistra) dato che a destra vi è l’ampio spazio della pista destinata ai normali sciatori.
Nella uscita dalla curva sinistrorsa, precedente quella di cui si è appena parlato, la vittima,
senza cadere, ha perso uno sci; nessuno dei molti testimoni del fatto ha saputo spiegare perché ciò
sia avvenuto. Invece di cadere, egli si è girato su sé stesso (…) ed ha continuato a procedere a
marcia indietro senza seguire il percorso di gara, ma con un percorso meno in pendenza, che lo ha
portato a monte della successiva porta rossa (…).
Ha quindi proseguito a tagliare la pista in tale (…) insolita posizione per oltre una decina di
metri, mentre gli era impossibile il governo del solo sci rimasto, fino a raggiungere il bordo esterno
della pista; qui un rialzo della neve, del tutto normale quale limite esterno, ha avuto sulla sua
traiettoria l’effetto di un trampolino: e lo ha lanciato prima su un albero più vicino, difeso da un
materassino, e poi su uno distante pochissimi metri, dove è urtato con la testa. Il decesso risulta
avvenuto con il secondo urto (…)”.
Va peraltro ribadito quanto si era sinteticamente affermato con l’ordinanza istruttoria e cioè
che la sopra citata sentenza – al pari di quella che l’ha confermata, successivamente emessa dalla
Corte di Appello a seguito di impugnazione da parte del Procuratore Generale – è priva di qualsiasi
efficacia nel presente giudizio ai sensi dell’art. 652 c.p.p. sia perché (…) non è stata pronunciata a
seguito di dibattimento, sia perché la formula di proscioglimento non è una di quelle considerate dal
suddetto art. 652 ai fini dell’attribuzione dell’efficacia di giudicato alla sentenza penale nel processo
civile.
Non è pertanto in alcun modo vincolante il successivo giudizio di imprevedibilità del fatto
che ha portato il GUP a escludere la sussistenza di una qualsiasi colpa degli imputati, che sono stati
quindi prosciolti “perché il fatto non costituisce reato”.
Se è vero infatti che il dato tradizionalmente ricavabile dalla comune esperienza è nel senso
che solitamente “le cadute intervengono in occasione delle curve e proiettano lo sciatore
all’esterno di esse, con caduta verso valle” ed è anche vero che nel tratto di pista in questione, per
siffatte cadute erano presenti adeguate protezioni in senso lato intese, (…) è pure vero che
dall’istruttoria svolta nel presente giudizio è emerso, con ragionevole certezza, che il suddetto
concorrente utilizzava degli sci sciancrati (…).
Invero quasi tutti i testi hanno dichiarato che almeno la metà dei partecipanti alla gara del
21/3/1998 utilizzava la nuova tipologia di sci, cosicché non c’è dubbio che a quella data il suddetto
problema fosse già sufficientemente conosciuto nel mondo dello sci alpino al quale pacificamente
appartengono e appartenevano tutti i convenuti (il primo per il rapporto di immedesimazione
organica con la Federazione Italiana Sport Invernali; la seconda in quanto gestrice dell’omonimo
comprensorio sciistico; il terzo in quanto giudice arbitro della gara; il quarto come tracciatore e
direttore della relativa pista nonché quale maestro di sci e collaboratore delle W.W. SpA).
Sembra allora evidente che gli imprevedibili comportamenti che gli sci di ultima
generazione dimostrano di innescare, man mano che le case produttrici ne esasperano le capacità di
condurre in modo efficace le curve su qualunque tipo di neve, (…) possano essere effettivamente
qualificati come imprevedibili – così come hanno fatto i Giudici penali – solo ed esclusivamente
rispetto alle traiettorie ipotizzabili per gli sci tradizionali ma non per quelle degli sci in questione, i
quali sono infatti ontologicamente connotati proprio dalla sostanziale impossibilità di individuare
anticipatamente le conseguenze dinamiche di una loro normale o comunque non eccezionale
“reazione automatica”.
Si vuole cioè sottolineare che, per i suddetti sci, l’anomalia delle traiettorie che si possono
verificare in caso di errore o distrazione dello sciatore, costituisce la regola e non l’eccezione e,
come tale, è certamente prevedibile, come è pure prevedibile, pertanto, l’evento dannoso
conseguente alle suddette traiettorie (…).
La reale scala dei valori è del resto desumibile dalla semplice lettura del Regolamento
Tecnico emanato dalla FISI, nella sua qualità di organo del CONI, il quale infatti espressamente
stabilisce da un lato che, nel disporre le porte, il tracciatore “deve osservare il principio che la
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sicurezza dei concorrenti ha la priorità assoluta su ogni altro fattore” e ha “il diritto e il dovere di
prendere tutte le misure indispensabili per la salvaguardia della sicurezza dei concorrenti” (cfr. i
punti 605.5.1 e 605.5.2 del suddetto Regolamento) e, dall’altro lato, che il giudice arbitro ha “il
diritto di (…) annullare (…) la gara se un pericolo grave minaccia i concorrenti”, coerentemente
attribuendogli la facoltà di modificare il tracciato ispezionato, previa consultazione del certificato di
omologazione della pista (cfr. i precedenti punti 604.1.1, 604.1.2, 604.1.3 e 604.4.2).
Tornando al caso in esame si osserva che è pacifico che il certificato di omologazione della
pista sulla quale si è svolta la gara del 21/3/1998, non prevedeva la posa di alcuna misura di
protezione della zona in cui si è poi verificata la fuoriuscita di pista di Q.Q.; così come è pacifico
che il giudice arbitro J.J. non si sia avvalso della facoltà di disporre misure di protezione ulteriori a
quelle prescritte nel suddetto certificato, che tale facoltà espressamente prevedeva. E’ altresì
pacifico, infine, che neanche il tracciatore e direttore di pista K.K. abbia disposto o richiesto, come
certamente avrebbe potuto fare avvalendosi del potere datogli dal sopra riportato punto 605.5.2 del
Regolamento, la posa di una rete nella suddetta zona, oppure la copertura con un materasso del
tronco d’albero contro il quale è poi avvenuto l’impatto che è stato letale per Q.Q. (…). E’ quindi
altamente probabile che le misure di protezione omesse avrebbero evitato l’evento mortale, che era
prevedibile per tutte le ragioni esposte illustrando le peculiarità tecniche degli sci sciancrati (…). Si
deve pertanto concludere nel senso che la colposa condotta omissiva dei convenuti K.K. e J.J. ha
cagionato la morte del figlio e fratello degli odierni attori.
Ad analoga conclusione si deve giungere per il convenuto CONI, poiché identica e più grave
omissione si riscontra nel certificato di omologazione della pista. Omologazione che, pur essendo
stata effettuata dalla FISI “è direttamente imputabile al CONI”. Ciò perché a quest’ultimo sono
istituzionalmente demandate, ai sensi dell’art. 3 legge 16/2/1942 n. 426, “le funzioni di
regolamentazione, controllo e coordinamento delle varie attività sportive che si svolgono in Italia”
che lo stesso CONI “esercita attraverso le Federazioni nazionali, in qualità di suoi organi” come
tali aventi sotto questo specifico profilo “natura pubblicistica”. Cosicché il rilascio del (…)
certificato di omologazione nazionale da parte della FISI “rende responsabile direttamente il CONI
per i danni riportati da un concorrente a seguito di incidente verificatosi per mancato rispetto (…)
di prescrizioni tecniche”, tra le quali, per esempio, quella relativa all’adeguata protezione degli
ostacoli esterni della pista “contro i quali i concorrenti possono essere proiettati” (così Cass.
23/6/1999 n. 6400). E’ infondata, pertanto, l’eccezione di difetto di legittimazione sostanziale
passiva (…) del suddetto convenuto (…).
La tracciatura e la direzione della pista di gara sono state affidate al convenuto K.K. non in
quanto semplice maestro di sci, ma anche e soprattutto in quanto collaboratore della gestrice degli
impianti e titolare della relativa autorizzazione all’esercizio (…) cosicchè diventa irrilevante il fatto
che una responsabilità delle Funivie ai sensi dell’art. 2049 c.c. per la condotta del K.K. non sia stata
prospettata dagli attori, la cui domanda verso la suddetta convenuta trova quindi fondamento nel
suddetto art. 2049 c.c..
Si deve quindi concludere nel senso che tutti i convenuti sono solidalmente responsabili, ai
sensi del combinato disposto degli artt. 2043, 2049 e 2055 c.c., delle ingiuste e unitarie conseguenze
dannose dei rispettivi fatti colposi omissivi (omissis)>>.
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NOTE IN TEMA DI RESPONSABILITÀ CIVILE PER I DANNI SUBITI DAL CONCORRENTE DI
UNA GARA DI SCI SU PISTA OMOLOGATA MA DIFETTOSA
Sommario :
1) Il caso.
2) La responsabilità del CONI per i danni riportati dal concorrente sciatore su una pista
omologata: una questione aperta.
3) Organizzatori di gare di sci e loro collaboratori: natura e limiti della responsabilità civile
per il danno subito dall’atleta.
4) Conclusioni.
1) Il caso
Nel marzo 1998 uno sciatore iscritto nelle liste della Federazione Italiana Sport Invernali
(FISI) partecipava in Cavalese, su una pista omologata, a una gara amatoriale di slalom gigante organizzata dal proprio Sci Club affiliato a tale Federazione e a questo riservata per l’occasione
dalla società proprietaria / gestrice degli impianti – allorquando perdeva uno dei suoi sci carving
mentre percorreva un tratto di modesta pendenza, roteava su sé stesso rimanendo in piedi,
fuoriusciva dopo alcune decine di metri oltre il bordo sinistro della pista e impattava infine contro
un albero privo di protezioni, decedendo sul colpo. A seguito del sinistro veniva attivato nei
confronti del giudice arbitro della gara e del tracciatore / direttore di pista procedimento penale che
si concludeva per entrambi con sentenza assolutoria del GUP del Tribunale di Trento perché il fatto
non costituisce reato, poi confermata dalla Corte di Appello di Trento a seguito di impugnazione del
PG.
Indi gli eredi della vittima chiedevano al Tribunale civile di Trento, sez. distaccata di
Cavalese, di ritenere responsabili del sinistro il CONI, ai sensi dell’art. 2043 c.c., sull’assunto che il
certificato di omologazione della pista rilasciato dalla FISI non conteneva adeguate protezioni lungo
la stessa; la società gestrice della pista ai sensi degli artt. 1218, 2043 e 2051 c.c. nonchè il giudice
arbitro e il tracciatore / direttore di pista ai sensi dell’art. 2043 c.c. – in particolare per avere violato
specifiche prescrizioni del Regolamento Tecnico della FISI in tema di organizzazione delle gare di
sci – nonché ex art. 2050 c.c..
Il CONI eccepiva preliminarmente il difetto di legittimazione passiva sull’assunto che
esulava dai suoi compiti ispettivi la vigilanza sull’organizzazione concreta delle singole
manifestazioni sportive. Tutti i convenuti contestavano la responsabilità evidenziando
concordemente che le anomale modalità del fatto – perdita di uno sci da parte del concorrente, suo
percorso a ritroso e quindi sua fuoriuscita dalla pista molto a monte della traiettoria del percorso di
gara – erano del tutto imprevedibili e che la pista doveva considerarsi adeguatamente protetta in
conformità al normale criterio di prevedibilità degli incidenti nel corso di competizioni sciistiche;
indi evidenziavano che ogni dovere di garanzia della incolumità degli atleti in occasione della gara
de qua incombeva sullo Sci Club (non evocato in giudizio) che la aveva organizzata. In particolare
il giudice arbitro e il tracciatore / direttore di pista sostenevano di avere ottemperato alle norme
organizzative previste nel regolamento della FISI e a quelle della comune diligenza e prudenza;
invocavano anche le scriminanti del rischio agonistico e dell’affidamento riposto nel certificato di
omologazione nazionale della pista, il quale autorizzava a svolgervi gare di slalom gigante per tutte
le categorie di atleti.
Il Tribunale di Cavalese, disattendendo le difese dei convenuti (e le sentenze dei Giudici
penali), affermava la responsabilità del CONI, del giudice arbitro e del tracciatore ex art. 2043 c.c.
21
sul fondamentale assunto che la vittima usava degli sci carving i quali si sarebbero caratterizzati per
la indeterminatezza e la imprevedibilità delle traiettorie in caso di perdita di loro controllo da parte
dello sciatore; di conseguenza tutti i convenuti avrebbero potuto e dovuto prevedere il possibile
verificarsi di sinistri conseguenti all’anomalo comportamento di tali sci e quindi provvedere a
predisporre ai lati della pista ulteriori presidi rispetto a quelli normalmente adottati in relazione
all’uso degli sci tradizionali (regolarmente presenti in loco). Invece il suddetto Tribunale
disattendeva le argomentazioni degli attori sia quanto alla pretesa responsabilità contrattuale ex art.
1218 c.c. ed extracontrattuale ex art. 2051 c.c. della società gerente la pista sia quanto alla asserita
responsabilità del giudice arbitro e del tracciatore ex art. 2050 c.c.. Neppure veniva valutato dal
Giudicante il rischio sportivo accettato dalla sfortunata vittima, la quale era fuoriuscita dal percorso
a seguito di una circostanza assolutamente fortuita - la perdita di uno sci lungo il percorso - e aveva
avuto lo spazio e il tempo sufficienti per arrestarsi entro il bordo della pista, posto invero a diverse
decine di metri di distanza dal punto in cui si era verificato il suddetto accidente.
Molti sono gli spunti offerti dalla sentenza in discorso che meriterebbero di essere
approfonditi. Si ritiene peraltro che la decisione del Tribunale di Cavalese solleciti alcune riflessioni
quanto alla questione della legittimazione passiva / responsabilità del CONI per danni riportati da
uno sciatore su pista omologata dalla FISI e quanto al contenuto e ai limiti dei doveri di garanzia
dell’incolumità degli atleti in capo all’organizzatore di gare di sci e ai suoi preposti, con particolare
riferimento alla tematica dell’accettazione del rischio sportivo da parte dei concorrenti di tali
competizioni.
2) La responsabilità del CONI per i danni riportati dal concorrente sciatore su una pista
omologata: una questione aperta.
La sentenza in commento affronta la problematica questione della legittimazione passiva /
responsabilità del CONI per i sinistri subiti dai concorrenti di una gara di sci su pista omologata
dalla FISI, richiamando la pronuncia della Corte di Cassazione, sez. III, 23/6/1999 n. 6400, che ha
invero deciso un caso del tutto simile a quello affrontato dal Tribunale di Cavalese.
Nel corso delle prove per una gara di sci programmata per il giorno 1/2/1981, su una pista
omologata in Loc. Cave di Predil (UD), una giovane concorrente perdeva il controllo degli attrezzi,
fuoriusciva dal tracciato di gara e andava a collidere contro un ostacolo presente a bordo pista
riportando gravi lesioni. Indi la danneggiata e i suoi genitori convenivano avanti al Tribunale di
Tolmezzo il CONI, la FISI, il Comitato di Zona Carnico-Giuliano di tale Federazione, nonché il
Presidente dell’Unione Sportiva organizzatrice della manifestazione e il Direttore di gara, per
chiedere il risarcimento di tutti i danni subiti nell’occorso. Detto Tribunale affermava il difetto di
legittimazione passiva della FISI e del suo Comitato di Zona in considerazione del rapporto di
immedesimazione organica tra Federazioni sportive e CONI sancito dalla l. n. 426/1942; riteneva
invece responsabili ex art. 2043 CC tutti gli altri convenuti condannandoli in solido a risarcire il
danno subito dalla sciatrice e dai suoi genitori in proprio.
Confermata tale sentenza dalla Corte di Appello di Trieste, il CONI proponeva ricorso alla
Suprema Corte ove sosteneva che l’omologazione di una pista da sci rientrava nell’attività
privatistica della FISI in quanto diretta ad accertare in concreto la corrispondenza di una pista ai
regolamenti federali e a controllare il luogo ove deve svolgersi la manifestazione sportiva;
richiamava in proposito la sentenza delle Sezioni Unite dd. 12/7/1995 n. 7640 di tale Collegio,
secondo cui il CONI stesso non ha alcuna competenza nella organizzazione delle singole gare
sportive poiché tale attività rientra nella autonomia tecnico-organizzativa delle singole Federazioni;
quindi sosteneva di non poter essere coinvolto nella causa, atteso che il certificato di omologazione
della pista era stato rilasciato dalla FISI, a seguito di autonoma attività di controllo compiuta da un
suo tecnico. La Corte di Cassazione respingeva tale impugnativa con articolata motivazione ove
affrontava dapprima la problematica del rapporto tra CONI e Federazioni sportive, indi la natura
dell’atto di omologazione di una pista da sci.
In sostanza i Supremi Giudici evidenziavano che l’art. 5 della l. n. 426/1942 conferiva alle
Federazioni sportive nazionali – qualificate “organi del CONI” – una duplice natura pubblicistica e
22
privatistica. Il primo aspetto concerneva le attività che si riconducevano all’esercizio delle funzioni
proprie del CONI quale ente pubblico; il secondo aspetto atteneva invece alle attività in cui si
esprime l’autonomia organizzativa e gestionale delle Federazioni, la quale doveva ritenersi
sussistente anche prima dell’espresso suo riconoscimento operato dall’art. 14 co. 2 della l.
23/3/1981 n. 91 (successiva al fatto di cui era causa e quindi inapplicabile in quella sede).
Ciò posto, i predetti Giudici Supremi osservavano che la questione consisteva nello
stabilire se l’attività di omologazione di una pista da sci fosse compiuta dalla competente
Federazione Nazionale (FISI) quale organo del CONI, e quindi fosse riconducibile a quest’ultimo,
ovvero integrasse attività privatistica della stessa Federazione; al proposito richiamavano l’art. 3 n.
2 della l. 426/1942 – secondo cui il CONI “coordina e disciplina l'attività sportiva comunque e da
chiunque esercitata” – e statuivano che l’omologazione di una pista da sci rientra tra i poteri di
controllo spettanti al CONI perché ha la funzione di accertare la conformità della pista al
Regolamento tecnico per le gare di sci emanato dalla FISI, attestata in via generale - e non per una
singola gara - nel ‘certificato di omologazione nazionale’; vale a dire che ambedue dette attività –
sia quella di emanazione del regolamento, sia quella di accertamento e controllo della regolarità
della pista con il conseguente rilascio della apposita certificazione – vengono compiute dalla FISI
nella qualità di organo del CONI e sono quindi imputabili a quest’ultimo.
La Suprema Corte concludeva quindi che il rilascio del certificato di omologazione
nazionale da parte della FISI rende responsabile direttamente il CONI per i danni riportati da un
concorrente a seguito di un incidente verificatosi per il mancato rispetto di prescrizioni tecniche
contenute nel regolamento della predetta Federazione, quali la mancanza – all’esterno delle curve –
di zone di caduta prive di ostacoli e la non idonea protezione di quelli contro i quali i concorrenti
possono essere proiettati (come riscontrato nel caso sottoposto alla sua attenzione).
I suddetti principi di diritto possono peraltro trovare difficoltà di applicazione nei casi
(come quello in commento) verificatisi nel vigore della l. n. 91/1981 – la quale riconosceva alle
Federazioni sportive nazionali “l’autonomia tecnica, organizzativa e di gestione” dell’attività
sportiva esercitata (art. 14 co. 2) – e dopo la succitata sentenza delle Sezioni Unite n. 7640/1995 la
quale ha statuito, come suddetto, che il CONI non è di per sé responsabile dei danni subiti da un
atleta durante la gara, in quanto esula dai suoi compiti ispettivi la vigilanza sull’organizzazione
concreta delle singole competizioni sportive.
Quindi la legittimazione passiva / responsabilità del CONI per i sinistri avvenuti nelle
vigenza di detta normativa sembra trarre fondamento non tanto dai previsti suoi poteri di
coordinamento e di controllo sulle singole Federazioni ma, piuttosto, dal rilievo che l’attività di
omologazione di una pista da sci rientra nelle funzioni pubblicistiche proprie di tale ente non in
quelle privatistiche dell’organizzazione della singola gara.
In proposito si è osservato da taluni interpreti che l’omologazione è un tipico
provvedimento di abilitazione, volto a consentire una determinata attività sulla base
dell’accertamento, di carattere tecnico, della sussistenza di determinati requisiti previsti da una
specifica fonte normativa. Nel caso dell’attività sciistica tale provvedimento non attiene alla verifica
della pista in occasione dello svolgimento di una determinata gara e non è quindi relativo a una
singola manifestazione sportiva; si tratta invece di una verifica di carattere generale volta a
consentire, per il futuro, lo svolgimento di un numero indeterminato di competizioni e posta a tutela
del primario interesse degli atleti a conservare la propria integrità fisica41.
Nello stesso senso altri autori hanno evidenziato che ricade nella sfera privatistica della
singola Federazione l’organizzazione delle singole gare sportive; ma, allorquando queste vengono
svolte su impianti omologati dalla Federazione, gli eventuali errori compiuti in occasione di tale
attività di verifica rientrano tra gli aspetti pubblicistici e non tra quelli privatistici; in particolare la
41
CAIAZZO L., Responsabilità del CONI per danni riportati da uno sciatore su una pista omologata in
Corriere giur., 2000, p. 74 e ss.
23
valutazione della idoneità tecnica della pista da sci comporta un accertamento, nell’interesse
pubblico, della conformità di tale impianto alla specifica regolamentazione dettata dalla FISI42.
Ci si chiede peraltro se il suddetto orientamento interpretativo possa essere seguito per i
sinistri avvenuti su piste omologate dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 242/1999 (c.d. Decreto
Melandri), il quale ha eliminato la duplice natura pubblicistica / privatistica delle Federazioni
sportive. Invero tale normativa da un lato ha confermato la personalità giuridica pubblica del CONI
(art. 1), dall’altro lato ha espressamente qualificato di diritto privato la personalità giuridica delle
Federazioni sportive (art. 15, co. 2), così recidendo il legame strutturale tra le seconde e il primo;
conseguentemente le Federazioni non possono più considerarsi incardinate nel suddetto ente
pubblico in qualità di organi di questo43.
Tuttavia il comma 1 dell’art. 15 del D.Lgs. 242/1999 dispone da un lato che l’attività delle
Federazioni si svolge “in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del CIO, delle federazioni
internazionali e del CONI”; dall’altro lato prevede che specifiche tipologie di attività delle singole
Federazioni sportive possono avere “valenza pubblicistica”, senza peraltro precisare in quali
contesti si estrinsechino tali attività. Quindi la suddetta normativa non sembra avere affatto risolto
la questione della natura giuridica delle singole attività svolte in concreto da tali Federazioni44.
A modesto parere di chi scrive va comunque considerato che, anche nel vigore della
suddetta normativa, l’attività di omologazione di una pista da sci persegue obiettivamente interessi e
fini di natura generale ovvero pubblicistica; quindi si può sostenere a ragione che il CONI è tenuto a
rispondere per i danni sofferti dagli sciatori (agonisti e non) che siano attribuibili a ipotetica
insussistenza e/o insufficienza sulle piste stesse dei necessari requisiti e presidi di sicurezza.
3)
Organizzatori di gare di sci e loro collaboratori: natura e limiti della responsabilità
civile per il danno subito dall’atleta.
Come suddetto, la sentenza in commento ha affermato la responsabilità anche della società
gestrice dell’impianto pur essendo pacifico che questa non aveva in alcun modo organizzato la gara
ma si era limitata a fornire un proprio collaboratore allo Sci Club organizzatore, il quale gli aveva
affidato il compito di tracciare il percorso. Specificatamente tale responsabilità è stata affermata ai
sensi dell’art. 2049 c.c., evidentemente sul presupposto che la messa a disposizione del predetto
collaboratore comportava di fatto l’estensione alla società della qualità di organizzatore della gara
(trattandosi peraltro di titolo di responsabilità non menzionato dagli attori è evidente che la sentenza
è affetta da vizio di ultra petita).
Lasciando ai successivi gradi del giudizio (invero pendente avanti alla Corte di Appello
competente) la valutazione della esattezza di tale impostazione, è da dire che questa pone due
delicati problemi: se vi sia responsabilità del gestore della pista qualora in nessun modo partecipi
all’organizzazione della gara (in tesi perché si limita a consentire che terzi particolarmente
qualificati, come uno Sci club, provvedano all’organizzazione della stessa); se vi sia responsabilità
di chi comunque (in via esclusiva o in concorso con altri, vuoi collaboratori esterni vuoi dipendenti)
provvede a organizzare la competizione. Si tralascia in questa sede la disamina della prima
questione in quanto di evidente soluzione e si affronta invece l’altra problematica, ben più
complessa.
42
CARBONE V., Danni riportati su pista da sci difettosa ma omologata: risponde la FISI o il CONI ? in
Danno e resp., 1999, p. 880 e ss.
43
FORLENZA O., Le federazioni sportive: natura giuridica, disciplina, funzioni in AA.VV., Diritto
dello Sport, Firenze, 2004, pp. 73-79.
44
DI CIOMMO F., Il punto sulla responsabilità civile dell’organizzatore di eventi sportivi e sui (nuovi?)
rapporti tra CONI e Federazioni alla luce del D.Lgs. 242/99 in Danno e resp., 2000, pp. 621-623.
24
A tale riguardo – ricordato anche che il giudice arbitro della gara era stato nominato dallo
Sci club organizzatore della stessa – si osserva che la sentenza in commento si inserisce nella scia
del prevalente orientamento interpretativo secondo cui il fondamento della responsabilità civile
degli organizzatori di manifestazioni / competizioni sportive per i danni subiti dagli atleti va
individuato nella clausola generale di cui all’art. 2043 c.c., non già nella norma speciale ex art. 2050
c.c. (che, come noto, configura una presunzione di responsabilità in capo a chi svolge un’attività
pericolosa, salva la prova contraria di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno).
Specificatamente si è osservato in Dottrina che l’attività competitiva va distinta dall’attività di
organizzazione della gara di talchè, anche se la prima presenta connotati di pericolosità, la seconda
non può considerarsi automaticamente rischiosa; ne consegue che tra i soggetti protetti dall’art.
2050 c.c. non possono considerarsi coloro che con la loro condotta pongono in essere la stessa
attività che viene organizzata, come gli atleti45.
La Giurisprudenza tende ad applicare al settore sportivo il principio generale secondo cui
il giudizio di pericolosità dell’attività, quando non è riconducibile a una valutazione del legislatore,
è rimesso caso per caso all’apprezzamento di fatto del Giudice di merito, il quale è tenuto a
distinguere tra attività pericolosa che rende probabile, e non semplicemente possibile, il verificarsi
dell’evento dannoso, e l’attività normalmente innocua, che diventa pericolosa per la condotta di chi
la esercita o la organizza46.
Peraltro anche il rispetto del precetto generale del nemimem laedere presuppone – in via
generale – che l’organizzatore della manifestazione sportiva predisponga i mezzi idonei a
salvaguardare l’incolumità dei partecipanti; vale a dire che egli deve adottare tutte le misure
protettive previste dalle normative vigenti e dai regolamenti sportivi e, in genere, quelle suggerite
dalla migliore scienza ed esperienza, tenendo conto anche dei pericoli insiti nello specifico sport
oggetto della gara organizzata e delle concrete contingenze ed esigenze di quest’ultima
Conseguentemente l’organizzatore potrà rispondere del danno subito dall’atleta sia per colpa
specifica (violazione di norme di legge e regolamenti nonché di ordini e discipline prescritti
45
DE MARZO G., Responsabilità dell’organizzatore e rischio sportivo in Danno e resp., 1997, pp. 456457, il quale ha evidenziato che, se non emergono specifici profili di pericolosità nell’attività
dell’organizzatore della gara, deve escludersi a monte che l’inevitabile rischio accettato dagli atleti
consenta di ritenere pericolosa la condotta del primo.
46
Cass. civ., III, 28/2/2000 n. 2220, in un caso di sinistro occorso al concorrente di una gara di discesa
libera, ha ritenuto che il danneggiato non avesse fornito la prova che l’attività di organizzazione di tale
evento sportivo fosse intrinsecamente pericolosa; vedi anche Tribunale di Brescia 5/3/1970 in Riv. dir.
sport., 1970, p. 251 e ss., il quale ha sottolineato che l’art. 2050 c.c. fa riferimento all’”esercizio” delle
attività pericolose, non già all’”organizzazione” delle medesime; pertanto in nessun caso è invocabile
nei confronti dell’associazione che organizzi la gara.Vedi in Dottrina tra gli altri: BEGHINI R.,
L’illecito civile e penale sportivo, Padova, 1999, p. 102; VIDIRI G., La responsabilità civile
nell’esercizio delle attività sportive in Giust. Civ., 1994, II, p. 202; FRATTAROLO V., La responsabilità
civile per le attività sportive, Milano, 1984, p. 118; DINI P., L’organizzatore e le competizioni: limiti
della responsabilità in Riv. dir. sport., 1971, p. 424, il quale distingue i doveri generali
dell’organizzatore di una manifestazione sportiva secondo una “tricotomia”: 1) controllare la
rispondenza dei mezzi tecnici ai principi della sicurezza; 2) controllare la rispondenza del luogo di
esercizio dell’attività sportiva ai canoni della sicurezza; 3) controllare che il concorrente sia in grado,
per la sua esperienza e per le sue condizioni psico-fisiche, di affrontare la competizione.
25
dall’autorità) sia per colpa generica (mancanza di prudenza, diligenza, perizia), secondo il disposto
dell’art. 43 c.p., pacificamente valevole anche per la nozione di colpa ex art. 2043 c.c.47.
Tale principio va certo applicato anche a colui che organizza gare di sci, tenendo tuttavia
presente che queste si svolgono spesso su pista omologata (quindi già oggetto di una generale
verifica concernente l’adeguatezza delle misure di sicurezza previste, come suesposto); pertanto il
suo dovere di controllare l’idoneità e la sicurezza del luogo teatro della competizione dovrebbe
essere circoscritto alla predisposizione di ulteriori presidi che appaiano necessari a fronte di
specifiche contingenti necessità48.
Al proposito va altresì evidenziato che nel settore delle competizioni sciistiche non esiste
tuttora un generale dovere previsto da norme di carattere primario di apporre misure di protezione
lungo il percorso di gara. Invero l’art. 3 della l. n. 363/2003 (“Norme in materia di sicurezza nella
pratica degli sport invernali da discesa e da fondo”) prevede che i gestori degli impianti sciistici
hanno l'obbligo di proteggere gli utenti da ostacoli presenti lungo le piste mediante l'utilizzo di
“adeguate protezioni” degli stessi e segnalazioni della situazione di pericolo; ma tali doveri del
gestore della pista non possono essere riferiti a colui che vi organizza occasionalmente una
competizione, anche considerando che tale normativa è specificamente riferita alla “pratica non
agonistica” di detti sports (art. 1). Vero è peraltro che doveri cautelari in tema di organizzazione di
competizioni sciistiche sono previsti da talune normative locali di carattere regolamentare49; quindi,
in tali casi, ben può configurarsi una responsabilità dell’organizzatore nel caso in cui non ottemperi
alle specifiche prescrizioni di cui è destinatario.
E’ notorio che spesso l’organizzatore delega a terzi il compito di curare particolari aspetti
tecnici dell’organizzazione della gara, soprattutto se a questa partecipano atleti tesserati con una
Federazione sportiva. Al proposito pare opportuno richiamare la nota distinzione tra l’organizzatore
della gara o manifestazione sportiva – comunemente inteso come la persona fisica, la persona
giuridica, l’associazione non riconosciuta o il comitato che promuove, assumendone la
responsabilità, l’incontro di uno o più atleti con lo scopo di raggiungere un risultato sportivo,
indipendentemente dalla presenza o meno di spettatori – i suoi preposti o collaboratori in senso
stretto – coloro cioè che, in esecuzione dell’incarico ricevuto dall’organizzatore, esplicano funzioni
attinenti alle operazioni di organizzazione della gara e alla disciplina dello svolgimento della stessa
– e gli ufficiali di gara, estranei all’organizzazione ma presenti nella competizione quali
47
Tribunale Busto Arsizio 22/2/1982 in Riv. dir. sport., 1982, p. 570 e ss.; Corte Appello Genova
4/9/1991 in Riv. dir. sport., 1992, p. 79 e ss.
48
Confortano tale tesi le osservazioni di DINI, op. cit., p. 426 – secondo cui l’organizzatore deve
“mantenere” il luogo omologato sempre agibile, in conformità ai principi che hanno consentito
l’omologazione – e di FRATTAROLO, op. cit. p. 128, secondo cui il collaudo positivo del percorso di
gara e la verifica, da parte delle autorità preposte, dell’assenza di insidie e dell’adeguatezza delle
misure di sicurezza predisposte ed attuate, lasciano poco spazio all’affermazione di responsabilità
dell’organizzatore in questa materia.
49
Esemplificativamente si segnala l’art. 25 del Regolamento per l’esecuzione della l. 21/4/1987 n. 7
della Provincia Autonoma di Trento (“Disciplina delle linee funiviarie in servizio pubblico e delle
piste di sci”), il quale prevede che “all’organizzatore dell’attività agonistica o dell’allenamento spetta
garantire, in relazione all’attività svolta, adeguate protezioni e misure di sicurezza”.
26
rappresentanti della Federazione interessata per controllare la regolarità sportiva e per pronunciare
giudizi tecnici50.
Quindi l’organizzatore risponderà ex art. 2049 c.c. se il danno subito dall’atleta sia
ascrivibile a fatto e colpa di taluno dei suoi collaboratori51; questi possono tuttavia essere chiamati a
rispondere in proprio degli eventi dannosi verificatisi nel corso della competizione, anche nel caso
in cui il danneggiato non abbia avanzato pretese risarcitorie nei confronti dell’organizzatore (è il
caso oggetto della sentenza in commento).
Specificatamente il Regolamento Tecnico della FISI prevede, per le gare organizzate dalle
associazioni sportive affiliate, tutta una serie di minute prescrizioni (tendenti vuoi al regolare
svolgimento della gara sotto il profilo strettamente sportivo vuoi a garantire l’incolumità degli atleti
e del pubblico), destinate ad essere osservate da una pluralità di ausiliari con mansioni tecniche
(direttore di gara, direttore di pista, ecc.) i quali rivestono posizioni di garanzia della incolumità
degli atleti vuoi come singoli vuoi come membri della giuria.
Esemplificativamente al tracciatore è attribuito il compito di disporre le porte in modo da
osservare il principio che “la sicurezza dei concorrenti ha la priorità assoluta su ogni altro fattore”
e gli è riconosciuto il diritto / dovere “di prendere tutte le misure indispensabili per la salvaguardia
della sicurezza dei concorrenti”; i membri della giuria (giudice arbitro – direttore di gara – direttore
di pista – giudice di partenza e di arrivo) sono invece tenuti ad annullare la gara in mancanza dei
fondamentali requisiti di sicurezza (in particolare se la neve sulla pista e ai suoi margini è
insufficiente; se lo strato di neve sulla pista è preparato male, se i punti pericolosi non sono
sufficientemente protetti).
Ci si chiede peraltro se la ipotetica violazione di tali norme tecniche regolamentari comporti
automaticamente l’affermazione di responsabilità civile in capo al trasgressore ovvero se la
condotta di questi debba essere valutata (anche o solo) in base alle ordinarie regole di diligenza,
prudenza e perizia.
In proposito si è giustamente osservato che il giudizio di responsabilità dell’organizzatore
della gara può indubbiamente prendere le mosse dal contenuto delle norme del CONI e delle
singole Federazioni per dedurne un significativo parametro di valutazione della diligenza nella
organizzazione, atteso che ogni Federazione elabora un corpus di regole conforme alle esigenze
collegate all’attività sportiva. Tuttavia non va dimenticato che tali norme hanno natura meramente
regolamentare, sono state emanate in un particolare contesto e perseguono specifiche finalità; di
talché l’interprete non può essere vincolato dal loro contenuto nella concreta individuazione degli
obblighi dell’organizzatore in tema di sicurezza degli atleti e quindi nell’affermazione o esclusione
della responsabilità dello stesso52; Conseguentemente anche la condotta dei preposti
all’organizzazione della gara dovrà essere valutata in rapporto sia alle regole particolari che
governano la specifica disciplina sportiva sia alle comuni norme di diligenza / prudenza / perizia.
Invece, a parere di chi scrive, le prescrizioni tecniche contenute nei regolamenti sportivi
possono senz’altro rilevare nella individuazione dei limiti dei doveri di garanzia incombenti sui
predetti ausiliari dell’organizzatore: ad esempio l’esame sistematico dei precetti riferiti dal
Regolamento della FISI al tracciatore induce a ritenere che il suo dovere di adottare ogni cautela
50
Sull’argomento vedi DINI, op. cit., pp. 424-425, il quale esclude in nuce la responsabilità ordinaria
dei soli ufficiali di gara federali qualora, per regolamenti generali o particolari, gli stessi non debbano
ingerirsi nell’organizzazione e non abbiano l’obbligo di intervenire per evitare un evento.
51
Vedi tra gli altri FRATTAROLO, op. cit., p. 124, secondo cui l’organizzatore deve rispondere del fatto
colposo dei suoi preposti e segretari, dei direttori di gara, dei commissari sportivi e di tutti coloro che
possano considerarsi suoi ausiliari in senso stretto.
52
MAGNI F.A., Brevi note in tema di responsabilità degli organizzatori per i danni subiti dai
partecipanti ad una competizione sportiva, in Giur. It., 1996 I, 2, 662.
27
indispensabile a garantire l’incolumità degli atleti vada circoscritto alla predisposizione del tracciato
di gara (corretta apposizione delle porte, adeguata preparazione e manutenzione del fondo nevoso,
ecc), non già al controllo della pericolosità dei luoghi a questo estranei.
Si pone a questo punto il problema di stabilire i criteri che devono essere osservati
dall’organizzatore e/o dai suoi preposti nel predisporre le (ulteriori) misure di sicurezza nelle gare
sciistiche. Al proposito va ritenuto ininfluente l’uso da parte dell’atleta di un particolare tipo o
modello di sci, atteso che non esistono sostanziali differenze tra gli sci c.d. tradizionali e quelli c.d.
sciancrati o carving (ormai di uso corrente) prodotti dalle varie case costruttrici, se non che questi
ultimi consentono un più rapido – indi più sicuro – inserimento in curva53.
Comunque si evidenzia che, secondo una condivisibile opinione, nessun addebito può essere
mosso all’organizzatore se, nonostante l’accertata conformità dei mezzi impiegati alle disposizioni
regolamentari federali, questi – per le loro caratteristiche intrinseche e per l’uso che ne sia stato
fatto – abbiano causato danno agli atleti o ad altri, atteso che le caratteristiche tecniche degli attrezzi
usati sono spesso il frutto di continue ricerche e sperimentazioni dirette a migliorare le prestazioni e
a renderle più sicure, quindi a minimizzare il rischio54.
Pertanto si può sostenere a ragione che la decisione dell’atleta sciatore di usare nella
competizione un attrezzo ‘all’avanguardia’ (purché esso sia conforme alle prescrizioni tecniche
dettate dalla FISI) ricade esclusivamente nel rischio insito nell’attività praticata; con conseguente
esonero da ogni responsabilità degli organizzatori per il sinistro subito dal concorrente e in ipotesi
riferibile a tale mezzo.
Conforta tale tesi l’insegnamento ormai pacifico che il c.d. rischio sportivo incide più
direttamente su chi esercita l’attività sportiva, il quale volontariamente si sottopone ai pericoli che
sono propri di certe competizioni e ne assume su di sé, senza possibilità di rivolgersi ad altri, le
conseguenze di quei danni che rientrano nell’alea normale della gara e che sono stati prodotti dal
normale esercizio dell’agone sportivo55. Tale principio trova riscontro nell’orientamento ormai
consolidato della Giurisprudenza, secondo cui l’attività agonistica implica l’accettazione del rischio
ad essa inerente da parte di coloro che vi partecipano, per cui ricadono sugli stessi i danni
53
In proposito si richiamano i risultati dello Studio sulla sicurezza dello sci alpino effettuato dal POOL
TECNICO DEI FORNITORI AZZURRI SPORT INVERNALI SCI ALPINO – pubblicato sul sito Internet
www.montagnaonline.com. – da cui emerge, sulla base di accurate rilevazioni statistiche, che
l’introduzione degli sci carving non ha comportato alcun elemento di ulteriore pericolosità dello sport
dello sci tale da alterare le percentuali di incidenti registrate quando essi non esistevano. Appare
quindi erroneo in fatto l’assunto contenuto nella sentenza in commento secondo cui l’utilizzo di tali
attrezzi aumenta considerevolmente il rischio di incidenti e impone l’apprestamento sulle piste di
strutture di protezione diverse e/o ulteriori rispetto a quelle invalse all’epoca degli sci tradizionali.
54
FRATTAROLO, op. cit., p. 125, ha evidenziato come in tali casi è alquanto arduo accertare la
responsabilità per il danno subito dall’atleta; sull’argomento vedi anche BEGHINI, op. cit., p. 103, il
quale esclude che l’organizzatore abbia il dovere di controllare la sicurezza degli attrezzi utilizzati dal
concorrente quando questi siano di sua proprietà esclusiva.
55
PASCASIO M.., Sul rischio sportivo in Riv. dir. sport., 1961, p. 78, nota adesiva a Cass. civ. SSUU
13/11/1958 n. 3702; FRAU R., La responsabilità civile sportiva in P. Cendon (a cura di) La
responsabilità civile, X, Torino, 1998, pp. 316-317; ID., Rischio sportivo e responsabilità degli
organizzatori in Resp. civ. e prev., 1997, p. 701 e ss., considera il rischio sportivo come speculare alla
condotta e alla diligenza esigibile nello svolgimento della competizione dall’atleta medio, intesa quale
risultante dalla combinazione tra regole tecniche e norme di comune prudenza; conseguentemente la
valutazione della colpa del danneggiante va valutata con maggiore elasticità mentre il corrispondente
ampliamento dei rischi posti a carico del danneggiato trova fondamento – e limite – nello stesso
interesse sociale sul quale poggia la scriminante atipica dell’attività sportiva. Con specifico
riferimento al rischio nelle competizioni individuali vedi DINI P., L’atleta e i limiti del rischio in Riv.
dir. sport., 1977, pp. 62-63, il quale osserva che in tali casi il concorrente può, in teoria, superare
qualsiasi limite del rischio a condizione di non ledere la sfera dei diritti altrui.
28
eventualmente sofferti rientranti nell’alea normale; onde è sufficiente che gli organizzatori della
competizione, al fine di sottrarsi da ogni responsabilità, abbiano predisposto le normali cautele atte
a contenere il pericolo nei limiti confacenti alla specifica attività sportiva, nel rispetto di eventuali
regolamenti sportivi56.
Con specifico riferimento all’attività sciistica va evidenziato che lo sci è uno sport
prettamente individuale e non di contatto, atteso che esso si può praticare senza collisioni contro
ostacoli posti sulla pista o altri utenti di questa; pertanto si potrebbe sostenere che lo sciatore accetta
solo i pericoli e i danni connaturati a tale sport (quali le cadute spontanee, ecc.) ma non quelli
causati da terzi: in tal senso si è espresso più volte in passato il Comitato della Federazione
Internazionale Sci – FIS – per rigettare la teoria del rischio accettato.
In contrario si è acutamente osservato che, sebbene lo sciatore non consente alle
conseguenze della trasgressione da parte altrui delle regole di condotta nello svolgimento
dell’attività sciatoria, non è tuttavia detto che un incidente abbia a verificarsi anche rispettando tali
norme, atteso il rischio insito nello sci da discesa; vale a dire che nell’esercizio dello sci rimarrebbe
– nonostante l’osservanza delle regole – una zona di rischio ineliminabile (accettato dallo sciatore) e
quindi la possibilità di incidenti non colposi57.
Quindi non ci si deve meravigliare se l’atleta sciatore subisce danni anche nel caso in cui
la pista sia stata adeguatamente preparata e dotata delle previste misure di protezione. E’ infatti
notorio che le condizioni del tracciato di gara possono essere alterate, imprevedibilmente ed
improvvisamente, da fattori ed elementi indipendenti dalla sua preparazione (per mutamento di
condizioni meteorologiche o altro); ma questi non si possono evidentemente attribuire a
responsabilità del tracciatore.
D’altra parte va ribadito che non esiste un generale obbligo giuridico di recingere tutta la
pista o di apporre protezioni sopra ogni ostacolo; di conseguenza è sempre possibile che l’atleta
fuoriesca dal tracciato in un punto privo di protezioni senza che ciò possa di per sé rilevare a carico
dell’organizzatore58.
Alla luce di quanto suesposto il dovere di garanzia dell’incolumità degli atleti incombente
sull’organizzatore della gara di sci e sui suoi collaboratori o preposti deve ritenersi circoscritto alla
predisposizione delle misure idonee a fronteggiare gli accadimenti che rientrano nel rischio normale
insito nella specifica disciplina di tale sport (negli slalom: apposizione di reti protettive in
corrispondenza delle porte direzionali, ove è prevedibile che il concorrente possa perdere il
controllo degli sci e fuoriuscire dal percorso; in ogni tipo di gara: copertura con materassini di
eventuali ostacoli fissi presenti sulla pista o sui bordi di questa a breve distanza dal tracciato, ecc.).
Invece l’atleta non può lamentarsi nei confronti degli organizzatori per i danni subiti a seguito della
mancata predisposizione dei rimedi atti a prevenire eventi dannosi frutto di circostanze del tutto
atipiche ed eccezionali (quali un inopinato cambiamento di direzione dello sciatore in un punto non
56
Cass. civ., III, 20/2/1997 n. 1564; Tribunale di Napoli 21/5/1986 in Riv. dir. sport., 1986, p. 466, il
quale ha precisato che la normalità del rischio va valutata anche in riferimento al particolare tipo di
gara. Conforme Cass.Civ. n. 20908/2005
57
BONDONI G., Il diritto sugli sci. Teoria e pratica casi concreti e clinici, Verona, 1977, p. 19,
richiama in proposito un interessante distinzione tra un meccanismo di feed-back o retroazione,
consistente in una successione di correzioni dell’errore compiuto dall’atleta, e altro meccanismo di
feed-forward o preazione che non consente spesso, anche allo sciatore più esperto, di correggere
l’errore iniziale e che concreterebbe appunto la fascia di rischio ineliminabile.
58
Sul punto si vedano i rilievi di MARTINO C., Osservazioni sulla responsabilità civile nelle gare
sciistiche in Problemi giuridici di infortunistica sciatoria - Atti del convegno di Cortina 2-5 luglio
1975, a cura del C.I.D.I.S., Milano, 1976, p. 197.
29
pericoloso della pista o un improvviso malore che non gli consenta assolutamente di governare gli
sci).
Inoltre le cautele che gli organizzatori della gara di sci devono adottare non possono
prescindere dalle caratteristiche tecniche e dall’esperienza dei partecipanti. E’ infatti noto che nelle
competizioni sciistiche (anche amatoriali) possono dirsi prevedibili quegli eventi dannosi del cui
pericolo di verificazione un atleta medio non si avveda: quindi l’organizzatore non è tenuto ad
adottare particolari cautele per scongiurare il pericolo esistente sul tracciato o lungo la pista, purché
la situazione rischiosa venga fronteggiata normalmente con padronanza dal concorrente e non venga
superata dal limite delle sue capacità.
Ma se questi patisca un evento dannoso nonostante la situazione pericolosa sia da lui
fronteggiabile (come nel caso in cui abbia sufficiente spazio per compiere manovre di emergenza
idonee a evitargli cadute o fuoriuscite dalla pista), chi è preposto al controllo della gara non verserà
in colpa proprio perché da quella situazione nessuna regola di condotta cautelare appare
estrapolabile59.
Ciò può sostenersi a fortiori per le gare di sci cui partecipano atleti tesserati con la FISI, i
quali sono inseriti in una classifica che, in base ai precedenti risultati, li inquadra in una determinata
posizione che costituisce l’indice della loro esperienza e capacità sportiva; in tali casi
l’organizzatore non deve esaminare preventivamente l’abilità del singolo concorrente ma deve solo
verificare i titoli di quest’ultimo60.
Va inoltre considerato che il Regolamento Tecnico della FISI prevede la possibilità per i
partecipanti alle gare di slalom di effettuare una ricognizione del percorso di gara prima della
partenza (in particolare nello slalom gigante è previsto che “i concorrenti saranno autorizzati a
prendere confidenza con la pista definitivamente tracciata avendo la possibilità di risalirla sci ai
piedi e discendendo a velocità ridotta ai bordi della pista”); mentre i concorrenti della discesa
libera hanno la facoltà di disputare vere e proprie sessioni di prova sulla pista di gara nei giorni a
questa antecedenti.
Quindi gli atleti possono rendersi conto di tutte le difficoltà del tracciato e dei possibili
pericoli presenti lungo l’impianto e segnalare agli organizzatori la mancanza o inidoneità delle
misure di protezione, invitandoli a ovviare a tale situazione; alternativamente hanno la facoltà di
astenersi dal partecipare alla gara se ritengono assenti le necessarie condizioni di sicurezza (tale
facoltà è certamente piena per l’atleta amatoriale, non legato da alcun vincolo di subordinazione a
un ente sportivo e quindi non obbligato a gareggiare a tutti i costi). Ma i concorrenti che decidono
di competere devono accollarsi le conseguenze pregiudizievoli di tale loro consapevole scelta61.
59
Tale principio è stato affermato dal Pretore di Aosta nella sentenza dd. 26/2/1990 n. 64 in Riv. dir.
sport., 1992, p. 200 e ss, in un caso di collisione di un comune sciatore contro un pilone di sostegno di
un impianto di risalita situato fuori pista; tale Giudice ha affermato che i sistemi di sicurezza devono
essere predisposti secondo il grado di difficoltà della pista, commisurata all’abilità degli utenti cui è
destinata; di talché nessuna cautela è necessaria in relazione ai pericoli evidenti che lo sciatore con la
sua capacità è in grado di fronteggiare.
60
DINI, L’organizzatore e le competizioni…, op. cit., p. 427; FRATTAROLO, op. cit., p. 126.
61
Conforta tale conclusione il caso riportato in Riv. dir. sport., 1999, p. 201 e ss., con nota di DI
CIOMMO F., Pista pericolosa e astensione dalla corsa di quasi tutti i piloti iscritti: l’omologazione non
impedisce l’annullamento della gara, ove la gran parte dei piloti iscritti a una gara automobilistica
organizzata dalla Federazione Auto Motoristica Sammarinese sul circuito “Enzo e Dino Ferrari” di
Imola decisero di ritirarsi dopo avere disputato le prove libere, avendo ritenuto che le condizioni della
pista e le misure di protezione ivi esistenti erano inidonee a garantire la sicurezza necessaria. Il
suddetto Commentatore ha giustamente evidenziato che, con tale condotta, i corridori hanno esercitato
il proprio diritto a non assumere rischi ulteriori rispetto a quelli inevitabilmente connessi allo
svolgimento della loro attività; d’altra parte la partecipazione alla gara deve considerarsi un atto libero
e non dovuto proprio in quanto implica l’accettazione del rischio-incidente.
30
4)
Conclusioni
Alla luce delle suddette considerazioni è dovere del concorrente sciatore rimasto
danneggiato fornire la compiuta prova della violazione – da parte del CONI o della FISI nonché da
parte dell’organizzatore della gara e/o dei suoi preposti – non solo (e non tanto) delle prescrizioni
regolamentari in tema di organizzazione di competizioni sciistiche ma anche (e soprattutto) delle
generali norme di diligenza / prudenza / perizia.
Tale onere dovrà essere assolto tenendo presenti il tipo di competizione e i fattori che
incidono sul suo svolgimento; in particolare il danneggiato dovrà dimostrare l’insufficienza o
l’inidoneità dei presidi presenti lungo il percorso in relazione vuoi alla specialità praticata (è noto
che le gare di slalom gigante e speciale richiedono l’apposizione di differenti misure protettive
rispetto a quelle di SuperG e discesa libera ove si raggiungono le massime velocità) vuoi alle
caratteristiche della pista (i tratti di lieve pendenza e di notevole larghezza non richiedono di per sé
l’apposizione di particolari cautele, diversamente da quelli caratterizzati da massimo dislivello e da
minima ampiezza) vuoi al grado di abilità e maturità dei concorrenti iscritti alla manifestazione (gli
obblighi di cautela devono considerarsi maggiori nei confronti dei concorrenti minorenni rispetto a
quelli maggiorenni).
In ogni caso la colpa dei soggetti coinvolti nell’organizzazione e nello svolgimento della
gara di sci andrà accertata tenendo presente la prevedibilità dell’evento e delle sue conseguenze
dannose, secondo il criterio del rischio prevedibile ex ante sulla base dell’id quod plerumque
accidit: non va infatti dimenticato che le regole di diligenza non sono concepite per impedire un
evento dannoso comunque accaduto, bensì per prevenire determinate modalità di causazione
dell’evento stesso concretamente individuate in base all’osservazione dei decorsi causali che
tipicamente presentano aspetti ripetibili.
Tale prognosi dell’evento dannoso potrà peraltro prescindere dall’accertamento e dalla
valutazione delle caratteristiche degli sci usati dagli atleti, i quali assumono su di sé il potenziale
(maggior) rischio derivante dall’evoluzione tecnologica delle attrezzature sportive scelte per la
competizione.
STEFANO CAVIGLIOLI , Avvocato del foro di Trento
31
CASS. CIV. SEZ. III, 15-07-2005, N. 15040
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
COMPOSTA
DAGLI
ILL.MI SIGG.RI MAGISTRATI:
Dott. FIDUCCIA Gaetano – Presidente
Dott. TRIFONE Francesco – Consigliere
Dott. DURANTE Bruno – rel. Consigliere
Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere
Dott. TALEVI Alberto – Consigliere
ha pronunciato la seguente sentenza
sul ricorso proposto da:
PAGANUCCI MIRKO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G.B. VICO 31, presso lo
studio dell’Avvocato SCOCCINI ENRICO, che lo difende unitamente all’Avvocato
ALESSANDRO ANTICHI, giusta delega in atti;
- ricorrente contro
DANTI GIAMPIERO, SCI CLUB ABETONE, in persona del suo Presidente e legale
rappresentante pro-tempore Sig. GIAMPIERO DANTI, selettivamente domiciliati in ROMA VIA
DEL BABUINO 51, presso lo studio dell’Avvocato RIDOLA MARIO GIUSEPPE, che li difende
unitamente agli Avvocati ALBERTO CROTT e SERGIO MENCHINI, giusta delega in atti;
- controricorrenti e contro
SCI CLUB MACINALE, SPORTIASS SPA
- intimati -
32
avverso la sentenza n. 366/01 della Corte d’Appello di FIRENZE, sezione seconda civile,
emessa il 9.12.2000, depositata l’8.2.2001, R.G. 1070/98 + 1072/98 + 1099/98; udita la relazione
della causa svolta nella Pubblica udienza del 27.5.2005 dal Consigliere Dott. Bruno DURANTE;
udito l’Avvocato Mario Giuseppe RIDOLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CICCOLO Pasquale Paolo
Maria che ha concluso per l’accoglimento del 1 motivo, assorbiti gli altri.
Svolgimento del processo
Mirko Paganucci conveniva innanzi al Tribunale di Grosseto gli sci club Macinale ed
Abetone per ottenerne la condanna solidale al risarcimento dei danni conseguenti alle lesioni che
assumeva di essersi procurato in occasione della partecipazione ad una gara di discesa libera
organizzata dagli sci club convenuti a causa della mancanza della rete protettiva.
Costituitisi in giudizio, gli sci club resistevano; lo sci club Macinale chiamava in causa
Giampiero Danti, Orlando Colò, direttore di pista, l’uno, e di gara, l’altro, e la s.p.a. Sportiass,
chiedendo che i primi due fossero riconosciuti responsabili dell’incidente e condannati assieme alla
terza a manlevarlo.
Il Tribunale, istruita la causa, condannava gli sci club, il Danti e gli eredi dei Colò, deceduto
nelle more, al pagamento solidale di lire 78.000.000 oltre accessori, con sentenza che era impugnata
autonomamente dagli sci club e dal Danti.
Lo sci club Abetone ed il Danti notificavano l’impugnazione al Paganucci e censuravano il
Tribunale per avere affermato la loro responsabilità; l’altro sci club la notificava, oltre che al
Paganucci, al Danti ed alla Sportiass, lamentandosi dell’affermazione della responsabilità,
dell’entità del risarcimento e del rigetto della domanda concernente la Sportiass.
Riunite le impugnazioni del Danti e dello sci club Abetone, era ordinata l’integrazione del
contraddittorio nei confronti degli eredi Colò e dello sci club Macinale; disposta la riunione
dell’impugnazione di quest’ultimo sci club, la difesa del Danti e dell’altro sci club rappresentavano
di non avere potuto dare esecuzione all’ordinanza perché vi era stata rinuncia all’eredità senza
nomina del curatore dell’eredità giacente.
La Corte di Appello di Firenze, con sentenza resa il 19.12.2003, rigettava la domanda,
motivando come segue.
Nella spese non è ravvisabile inscindibilità di cause, sicché non avrebbe dovuto ordinarsi
l’integrazione del contraddittorio in fase di appello e la mancata integrazione non comporta
inammissibilità del gravame; ciò perché il Paganucci ha chiesto il risarcimento nei soli confronti
degli sci club e non ha esteso la domanda al Danti ed al Colò, dopo che gli stessi sono stati chiamati
in causa dallo sci club Macinale per essere manlevato; il Tribunale ha ravvisato responsabilità ex
art. 2043 c.c. per non avere i convenuti ed i chiamati organizzato la gara in condizioni di sicurezza;
invece, dalle risultanze probatorie (deposizione del teste Tondi) emerge che l’incidente si è
verificato per errore del Paganucci, per cui non rileva la mancanza di reti di protezione,
indispensabili in piste strette, diverse da quella sulla quale si è svolta la gara.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il Paganucci sulla base di sei
motivi; hanno resistito il Danti e lo sci club Abetone, che ha depositato memoria.
33
Motivi della decisione
I primi tre motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente perché svolgono da
angolazioni diverse lo stesso tema della nullità della sentenza impugnata.
La causa della nullità è individuata nella violazione degli artt. 331, 101 e 102 c.p.c.. La tesi è
che lo sci club Macinale ha chiamato in causa il Colò ed il Danti, sostenendo che i medesimi sono
gli unici responsabili dell’incidente, per cui si è realizzata una situazione di litisconsorzio necessario
di natura processuale che comporta assoggettamento della causa al regime della conservazione del
litisconsorzio nella fase di appello onde evitare contrasto di giudicati.
Corollario della tesi è che è stata correttamente disposta l’integrazione del contraddittorio
nei confronti degli eredi Colò, mentre la Corte di merito ha erroneamente ritenuto che ricorresse
un’ipotesi di cause scindibili ex art. 332 c.p.c. ed il processo potesse proseguire senza la
partecipazione degli eredi anzidetti, con il risultato di non accogliere l’eccezione di inammissibilità
dell’impugnazione. Ulteriore corollario della tesi è che sussiste violazione degli artt. 101 e 102
c.p.c.. I motivi non possono ricevere accoglimento.
Punto fermo della vicenda processuale è che il Tribunale ha ritenuto la responsabilità
solidale dei convenuti e dei chiamati in causa, individuando la fonte della responsabilità dei primi
nell’organizzazione della gara e dei secondi nella qualità dei diretti di gara e di pista.
Con i tre separati atti d’appello lo sci club Abetone, il Danti e lo sci club Macinale si sono
lamentati, ciascuno, dell’affermazione della propria responsabilità, ma nessuno ha dedotto che vi
fosse responsabilità esclusiva di alcuno o di alcuni di essi o di altri; l’appellato Paganucci, dal canto
suo, si è limitato a chiedere il rigetto dei gravami.
Ne consegue che in grado d’appello si è venuta a creare una situazione nella quale alcuni dei
soggetti, di cui è stata affermata la responsabilità solidale, hanno contestato la propria responsabilità
senza prospettare la responsabilità esclusiva degli altri o di alcuno di essi e non si è posta la
questione dell’individuazione del vero responsabile, in relazione alla quale si deduce la sussistenza
del litisconsorzio necessario di natura processuale.
Una situazione cosiffatta, che si esaurisce interamente sul piano del processo, è riconducibile
all’ipotesi della solidarietà passiva tra i soggetti convenuti in un medesimo giudizio per il
risarcimento dei danni ricollegati all’illecito ad essi attribuito.
Questa ipotesi ordinariamente non comporta inscindibilità delle cause in fase di
impugnazione e non da luogo all’applicazione dell’art. 331 c.p.c. in quanto il danneggiato, come
può agire fin dall’inizio separatamente nei confronti di ciascuno dei responsabili per ottenere
l’intero ammontare del risarcimento, allo stesso modo può proseguire contro gli altri, omettendo di
proporre impugnazione nei loro confronti, con l’effetto di scindere il rapporto processuale (ex
plurimis Cass. 14.11.2003 n. 17249; Cass. 26.3.2001 n. 4634; Cass. 11.4.2000 n. 4602).
Né ai fini della definizione del rapporto danneggianti – danneggiato assume rilievo
l’accertamento dell’entità delle rispettive colpe e del loro contributo causale, avendo il danneggiato
il diritto di pretendere l’intera prestazione risarcitoria da ciascuno dei danneggiati a prescindere da
tali elementi. Diversamente deve dirsi in caso di azione di regresso, nel quale la differente gravità
delle rispettive colpe e la disuguale efficienza causale delle stesse rilevano ai fini della ripartizione
interna del peso del risarcimento tra i danneggianti (ex plurimis Cass. 24.6.2002, n. 9167; Cass.
12.12.2001 n. 1567); in tale caso, che non ricorre nella specie, si crea una situazione di dipendenza
che dà luogo all’applicazione dell’art. 331 c.p.c., il cui ambito non è circoscritto alle cause
inscindibili, ma si estende a quelle dipendenti (Cass. 11.4.2000 n. 4602).
Non merita, pertanto, censura la Corte di merito per avere escluso che nella specie fosse
ravvisabile litisconsorzio necessario di tipo processuale con applicazione dell’art. 331 c.p.c. e per
avere corrispondentemente ritenuto che il processo potesse proseguire senza la partecipazione degli
eredi Colò. Con l’esclusione del litisconsorzio necessario cade il presupposto del secondo e del
terzo motivo concernenti rispettivamente la violazione dell’art. 101 c.p.c. e del successivo art. 102.
Pure il quarto, il quinto ed il sesto motivo vanno esaminati in un contesto unitario, essendo
incentrati sulla medesima questione della responsabilità. Il quarto motivo pone censura di
34
violazione e falsa applicazione dell’art. 2050 c.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.; l’assunto del
ricorrente è che la Corte di merito, dopo avere correttamente affermato che la pratica agonistica
dello sci è un’attività pericolosa, ha erroneamente ricondotto la fattispecie all’art. 2043 c.c. anziché
all’art. 2050 stesso codice con il risultato di ritenere che ad escludere la responsabilità sia bastata
l’imprudenza del danneggiato, che non sarebbe stata, invece, sufficiente nella prospettiva dell’art.
2050 c.c., occorrendo in tale prospettiva la dimostrazione da parte del soggetto che esercita l’attività
pericolosa di avere adottato ogni cura e misura volta ad impedire l’evento dannoso.
Il quinto motivo contiene censura di violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. e si
sostanzia nella semplice deduzione che, ravvisata attività pericolosa, avrebbe dovuto ritenersi la
responsabilità anche a norma della menzionata disposizione legislativa.
La censura mossa con il sesto motivo è di omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione per avere la Corte di merito escluso la responsabilità in presenza della mancata
adozione di tutte le cautele possibili dopo avere ritenuto la pericolosità dell’attività sciistica.
Neppure questi motivi possono essere accolti. Va rilevato in proposito che, salvo il caso che
non sia espresso dal legislatore, il giudizio sulla pericolosità dell’attività svolta, ossia
l’apprezzamento circa la probabilità e non semplicemente la possibilità che da essi derivi per la sua
intrinseca natura o per i mezzi impiegati un evento dannoso, è rimesso al Giudice di merito e non è
sindacabile in sede di legittimità, ove sia correttamente e logicamente motivato (Cass. 28.2.2000 n.
2220; Cass. 29.5.1998 n. 5341).
Ora è ben vero che la Corte di merito ha affermato in linea di principio che la pratica
agonistica dello sci in sé e per sé presenta carattere pericoloso, ma ha escluso la ricorrenza
dell’indicato carattere nell’attività concretamente esercitata; ha in proposito considerato le
caratteristiche della pista, sulla quale si è svolta la gara (larghezza; andamento rettilineo; presenza di
un normale muretto di neve ai lati) ed il dato che nessun altro concorrente ha riportato ferite o è
caduto, per questo modo fornendo motivazione che, oltre a non essere specificamente censurata, è
congrua ed esente da errori logico-giuridici.
Esclusa la pericolosità dell’attività, la corte di merito ha ricondotto la fattispecie all’ambito
applicativo dell’art. 2043 c.c., ravvisando nell’errore del Paganucci la causa unica dell’evento
dannoso e negando ogni e qualsiasi responsabilità di terzi.
Ed anche la motivazione sul punto si presenta appagante.
In conclusione, il ricorso è rigettato; si ravvisano, peraltro, giusti motivi per compensare le
spese del giudizio di Cassazione.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di
Cassazione, il 27 maggio 2005.
Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2005
35
RECENTI ORIENTAMENTI IN TEMA DI RESPONSABILITÀ PER L'ORGANIZZATORE DI
GARE DI SCI ALPINO
Una recente interessante sentenza in tema di pratica agonistica dello sci, e
segnatamente per il caso di lesioni verificatesi all’atleta e conseguenti responsabilità, ci viene
dalla Suprema Corte di Cassazione con la sua pronuncia n. 15040 del 15.07.2005.
La sentenza rileva soprattutto in tema di applicabilità, in occasione di gare di sci
(segnatamente, di sci alpino) dell’art. 2043 c.c. oppure dell’art. 2050 c.c., con evidenti,
rilevanti conseguenze in tema di onere della prova.
Un atleta di sci alpino, che aveva disputato una gara di discesa libera e cadendo aveva
riportato varie lesioni, aveva citato in giudizio avanti il Tribunale di Grosseto i due sci club
organizzatori assumendo di essersi procurato dette lesioni a causa della mancanza della rete
protettiva, e chiedendo quindi il risarcimento dei danni derivatine. Gli sci club resistevano in
giudizio, e uno di essi chiamava in causa il direttore di pista, il direttore di gara nonché la
Compagnia Assicuratrice convenzionata come da tessera della F.I.S.I. (Federazione Italiana Sport
Invernali), chiedendo che i primi due fossero riconosciuti responsabili dell’incidente e condannati,
insieme alla terza, a manlevarlo.
Il Tribunale in primo grado condannava gli sci club, il direttore di pista e il direttore di gara
al pagamento solidale dei danni. La sentenza veniva impugnata dagli sci club e dal direttore di pista
(il direttore di gara era nel frattempo deceduto). Tralasciando alcuni aspetti di carattere processuale
che pure erano andati al vaglio del giudice dell’impugnazione, evidenziamo qui che la Corte
d’Appello di Firenze osservava come il Tribunale di prima istanza avesse ravvisato una
responsabilità ex art. 2043 c.c. per non avere i convenuti ed i chiamati organizzato la gara in
condizioni di sicurezza; invece, dalle risultanze probatorie, in particolare da una deposizione
testimoniale, era emerso che l’incidente si era verificato per errore dell’atleta, per cui non rilevava
la mancanza di reti di protezione, che risultavano indispensabili in piste strette, diverse da quella
sulla quale si era svolta la gara.
Pertanto rigettava le pretese dell’atleta. Questi allora proponeva ricorso per Cassazione: la
Suprema Corte, oltre a dover esaminare varie questioni procedurali come già accennato, osservava
che punto fermo della vicenda processuale era che il Tribunale in primo grado aveva ritenuto la
responsabilità solidale dei convenuti e dei chiamati in causa, individuando la fonte della
responsabilità dei primi nell’organizzazione della gara, e dei secondi nella qualità di direttori di gara
e di pista. Peraltro in grado di appello alcuni dei soggetti, di cui era stata affermata la responsabilità
solidale, avevano contestato la propria responsabilità senza prospettare la responsabilità esclusiva
degli altri o di alcuno di essi, e non si era posta quindi la questione dell’individuazione del vero
responsabile. Ai fini della definizione del rapporto danneggianti – danneggiato non aveva rilievo
l’accertamento dell’entità delle rispettive colpe e del loro contributo causale, avendo il danneggiato
il diritto di pretendere l’intera prestazione risarcitoria da ciascuno dei danneggianti a prescindere dai
predetti elementi. Diverso sarebbe stato in caso di azione di regresso, ai fini della ripartizione
interna del peso del risarcimento tra i danneggiati.
Venendo più propriamente ad esaminare gli aspetti di responsabilità che qui interessano, è da
evidenziare come la Suprema Corte abbia rilevato che l’assunto dell’atleta ricorrente fosse che la
corte di merito, dopo aver correttamente affermato che la pratica agonistica dello sci è un’attività
pericolosa, avesse però erroneamente ricondotto la fattispecie all’art. 2043 c.c. - anziché all’art.
2050 c.c. - con il risultato di ritenere che ad escludere la responsabilità dei convenuti era bastata
36
l’imprudenza del danneggiato, che non sarebbe stata, invece, sufficiente nella prospettiva dell’art.
2050 c.c., occorrendo in tale ottica la dimostrazione da parte del soggetto che esercita l’attività
pericolosa di aver adottato ogni cura e misura volta ad impedire l’evento dannoso.
Ebbene, nella pronuncia in esame la Corte di Cassazione osserva anzitutto che - salvo il caso
che non venga espresso dal legislatore - il giudizio sulla pericolosità dell’attività svolta, ossia
l’apprezzamento circa la probabilità (e non semplicemente la possibilità) che da essa derivi per la
sua intrinseca natura o per i mezzi impiegati un evento dannoso, è rimesso al giudice di merito e
non è sindacabile in sede di legittimità, ove sia correttamente e logicamente motivato (Cass.
28.2.2000 n. 2220; Cass. 29.5.1998 n. 5341).
E’ vero che la corte di merito ha affermato in linea di principio che la pratica agonistica dello
sci in sé e per sé presenta carattere pericoloso, ma ha escluso la ricorrenza dell’indicato carattere
nell’attività concretamente esercitata nel caso in esame; ha al proposito considerato le caratteristiche
della pista, sulla quale si era svolta la gara (larghezza; andamento rettilineo; presenza di un normale
muretto di neve ai lati) ed il dato che nessun altro concorrente aveva riportato ferite o era caduto, in
questo modo fornendo motivazione che, oltre a non essere specificamente censurata, risultava
congrua ed esente da errori logico-giuridici. Esclusa pertanto la pericolosità dell’attività, la corte di
merito aveva correttamente ricondotto la fattispecie all’ambito applicativo dell’art. 2043 c.c.,
ravvisando nell’errore dell’atleta la causa unica dell’evento dannoso e negando ogni e qualsiasi
responsabilità di terzi. La motivazione sul punto era ritenuta appagante, e di conseguenza il ricorso
per cassazione dell’atleta veniva respinto.
Merita ora un approfondimento il punto se lo sci, o più in particolare l’organizzazione di
gare di sci alpino vada o meno considerata attività pericolosa, che in quanto tale originerebbe in
capo agli organizzatori l’onere, ex art. 2050 c.c., di provare “di aver adottato tutte le misure idonee
ad evitare il danno” (onere, come si vede, assai gravoso) o se viceversa vada anche in tali ipotesi
applicato l’art. 2043 c.c., con conseguenti oneri probatori in capo al danneggiato.
Partiamo pure dalla constatazione che dal 1994 la F.I.S. (Federazione Internazionale dello
Sci) con procedura del tutto inusuale ha cominciato a subordinare l’ottenimento della licenza per le
gare internazionali alla sottoscrizione da parte dell’atleta di un documento (“athlete’s declaration”)
con cui l’atleta assume su di sé la responsabilità non solo per gli incidenti propri, ma addirittura
anche per danni che dalla competizione possano per suo fatto derivare a terzi. In realtà si ha motivo
di ritenere che tali dichiarazioni siano invalide (vi era stato in proposito anche un contenzioso civile
promosso dall’Unione Italiana Consumatori contro F.I.S.I. e F.I.S., attribuendo all’atleta nei rapporti
con la federazione la veste di “consumatore” per giungere poi alla considerazione che trattavasi
allora di “clausola vessatoria”, ma la vicenda si era conclusa con una pronuncia che non ravvisava
contrapposizione di interessi fra l’atleta e la federazione cui è affiliato).
Quanto precede potrebbe far ritenere che già di per sé (e in mancanza, ovviamente, di
esplicite definizioni in tal senso da parte del legislatore) la pratica agonistica dello sci alpino e
l’organizzazione delle relative gare debbano essere considerate “attività pericolose”.
Il Tribunale di Bolzano ha affrontato nella sentenza n. 201/95 del 4.11.1995 il problema
dell’applicabilità dell’art. 2050 c.c. allo sci. Premettendo che la portata della predetta norma non
può essere limitata all’ambito dell’impresa, in quanto né il testo, né i lavori preparatori della stessa
rinviano in alcun modo a concetti di attività imprenditoriale o, comunque, organizzata, tale giudice
di merito rileva quindi che anche il soggetto che solo sporadicamente o incidentalmente eserciti tale
attività, e perfino colui che ponga in essere un solo singolo atto, può rientrare nella precitata
previsione normativa. Per quanto concerne la pratica sportiva poi, ed in particolare quella sciistica,
si dovrà far ricorso all’art. 2043 c.c. se l’attività sportiva non riveste carattere di particolare
pericolosità, e all’art. 2050 c.c. qualora il rischio insito nell’attività stessa si riveli particolarmente
grave e tale da generare una specifica situazione di pericolo.
Nell’ipotesi di attività sciistica agonistica sembra al Tribunale indubitabile la possibilità di
inquadramento tra le attività pericolose ex 2050; nell’attività sciistica come modo di trasferimento o
come mera pratica sportiva si rileva invece che la giurisprudenza è pressoché costante
nell’escludere l’applicabilità del 2050 c.c.
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L’art. 2050 stabilisce, ad avviso del Tribunale, una presunzione specifica di prevedibilità (e
non solo di possibilità) di rischio e pericolo, innegabile specialmente in discipline di competizione
sciistica quali discesa libera e supergigante.
Come dice la Relazione Ministeriale, infatti, nell’esercizio di attività pericolose la
prevedibilità è in re ipsa e il soggetto deve agire tenendo conto del pericolo per i terzi, adottando
quindi cautele eccezionali. Ciò porta a ritenere che, come forma eccezionale, la legge faccia carico
in tal caso anche della culpa levissima.
Tale sentenza condannava dunque gli organizzatori che avevano fatto svolgere una gara di
discesa libera su di una pista non adeguatamente recintata con reti di protezione e di contenimento e
il cui fondo nevoso presentava una scalinatura di notevoli proporzioni, e veniva poi confermata
dalla Corte di Appello di Trento – Sezione di Bolzano con sentenza n. 23/98 in data 21.01.1998.
I giudici di legittimità hanno peraltro, come più innanzi si dirà, rimarcato in alcune sentenze
l’accettazione di un certo rischio da parte dell’atleta partecipante.
E‘ stato comunque sottolineato, sempre dal supremo giudice di legittimità, che gli
organizzatori devono aver predisposto le cautele atte a contenere il rischio nei limiti confacenti alla
specifica attività sportiva, nel rispetto altresì di eventuali regolamenti sportivi (Cass. Civ., Sez. III,
20.2.1997 n. 1564); è stato altresì specificato che bisogna individuare le attività pericolose in
ragione dei rischi prospettabili per i partecipanti o per il pubblico o per i terzi (Cass. 27.2.1984 n.
1393 in Foro It. 1984, 1280).
In una recente sentenza la Suprema Corte, in tema di infortunio subito nel corso di una gara
di sci, ha affermato che ai fini dell’accertamento della responsabilità ex art. 2050 c.c. il giudizio
sulla pericolosità dell’attività svolta, ossia l’apprezzamento della stessa come attività che, per sua
natura, rende probabile, e non semplicemente possibile, il verificarsi dell’evento dannoso da essa
causato, quando non è espresso dal legislatore è rimesso alla valutazione del giudice di merito.
Rispetto a tale accertamento di fatto, l’onere di provare la sussistenza di un’attività pericolosa
incombe su chi invoca l’applicazione dell’art. 2050 c.c. (Cass. Civ. Sez. III, 28.2.2000 n. 2220). In
ordine all’interpretazione di tale norma, sul fatto che il giudizio sulla pericolosità dell’attività,
quando non riconducibile ad una valutazione del legislatore, sia rimesso all’apprezzamento del
giudice di merito, la giurisprudenza della Corte di Cassazione è pacifica (si vedano anche Cass. Civ.
Sez. III, 12.5.2000 n. 6113; 30.8.1995 n. 9205; 27.7.1990 n. 7571).
Chi venga chiamato a rispondere in virtù dell’art. 2050 c.c., dunque, per vincere
l’obbligazione al risarcimento di cui alla predetta norma dovrebbe fornire la prova liberatoria di
aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Per la verità tale criterio è risultato mitigato,
negli ultimi anni, dalla giurisprudenza, che spesso ha evitato di applicare l’art. 2050 ai danni patiti
da atleti durante lo svolgimento di manifestazioni sportive, ritenendo che gli iscritti, ponendo in
essere la propria attività, accettino i rischi a questa connessi (c.d. rischio sportivo). Secondo tale
ottica l’attività agonistica implica da parte degli atleti l’accettazione del rischio dei danni rientranti
nell’alea normale dello sport praticato; per tale motivo gli organizzatori, al fine di sottrarsi alla
pretesa risarcitoria, hanno il solo onere di dimostrare di aver predisposto le normali cautele atte a
contenere il suddetto rischio nei limiti confacenti alla specifica attività sportiva (Cass. Civ.
20.2.1997 n. 1564).
Si ritiene quindi che l’attività dell’organizzatore possa essere qualificata pericolosa, ai sensi
dell’art. 2050, solo nei confronti degli spettatori, mentre i partecipanti alla competizione, in quanto
assumono (ovvero, accettano) il rischio a questa connesso, non possono invocare l’applicazione
dell’art. 2050 c.c.
Di recente anche il Tribunale di Belluno si è occupato di un caso concernente lesioni patite
da un’atleta che aveva gareggiato in una discesa libera di Coppa del Mondo a Cortina: nella
sentenza n. 196/04 detto Tribunale ha esaminato la questione dell’interpretazione dell’art. 2050 c.c.,
secondo quanto sopra esposto, osservando che la giurisprudenza della Suprema Corte è univoca nel
ritenere che il giudizio sulla pericolosità di una determinata attività vada espresso non sulla base
dell’evento dannoso effettivamente verificatosi, bensì attraverso una prognosi postuma, sulla base
delle circostanze di fatto che si presentavano al momento stesso dell’esercizio dell’attività (Cass.
30.10.2002 n. 15288) ed erano conoscibili dall’uomo medio o, comunque, dovevano essere
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conosciute dall’agente in considerazione del tipo di attività esercitata (Cass. 30.08.1995 n. 9205). Si
riafferma il principio che tale giudizio, quando non sia riconducibile ad una valutazione del
legislatore, è rimesso all’apprezzamento del giudice di merito (Cass. 5.06.2002 n. 8148, oltre alla
già citata Cass. 2220/2000).
La pericolosità dell’organizzazione di una gara sciistica di Coppa del Mondo, non derivando
da una valutazione normativa, costituiva pertanto una quaestio facti, che nella fattispecie il giudice
ha esaminato sulla base dell’ordinario riparto dell’onere della prova (vedasi sempre Cass.
2220/2000).
All’esito della compiuta istruttoria non venivano ravvisati elementi sufficienti per ritenere
provato che l’organizzazione di una gara di sci di discesa libera di Coppa del Mondo, riservata ad
atleti di livello internazionale ed affidata ad organizzatori qualificati, secondo regole internazionali
e sotto il controllo di autorità ed esperti, fosse di per sé un’attività pericolosa, ai fini
dell’applicabilità dell’art. 2050 c.c., e di conseguenza non si riteneva operante la presunzione ex
lege, restando così l’onere della prova ripartito secondo la regola generale.
Sempre in quella fattispecie, poi, non risultava provata, ad avviso del giudicante, la
sussistenza in capo agli organizzatori di colpa specifica (inosservanza del regolamento FIS) o
generica (negligenza, imprudenza o imperizia) per l’evento dannoso verificatosi, e venivano quindi
respinte le richieste di risarcimento avanzate dall’atleta.
GUIDO PARMEGGIANI , Avvocato del foro di Padova
39
TRIBUNALE DI PADOVA
“Il G.I., sciogliendo la riserva, ritenuto quanto al “fumus boni juris” che il vincolo
sottoscritto dai genitori del calciatore minorenne dovesse essere autorizzato, quale atto
eccedente l’ordinaria amministrazione, dal Giudice Tutelare ai sensi dell’art. 320 comma 3 c.c.
e, comunque, che non possa impegnare il medesimo oltre il raggiungimento della maggiore
età; quanto al “periculum in mora” che la durata del processo potrebbe compromettere le
legittime aspirazioni professionali del ricorrente in modo non riparabile altrimenti;
P.Q.M.
visti gli artt. 700 e 669 sexies c.p.c., 669 octies c.p.c,
autorizza S. F. considerato sciolto il vincolo con la U.S. D. C. ai limitati fini della
presente cautela, ad effettuare il tesseramento presso altra società sportiva affiliata alla FIGC
ed ivi trasferirsi liberamente;
fissa il termine di gg. 30 per l’inizio della causa di merito;
condanna la U.S. D.C. al pagamento delle spese della presente fase…..
VINCOLO SPORTIVO PLURIENNALE: VERSO UNA FINE ANNUNCIATA?
SOMMARIO
Introduzione - I. Evoluzione normativa nel sistema-calcio: dal vincolo a vita al vincolo
fino ai 25 anni. - II. Il vincolo sportivo pluriennale: le ragioni di illegittimità. - 1. Illegittimità
per violazione della normativa statale di fonte primaria. - 2. Illegittimità per violazione della
normativa statale di fonte costituzionale. - 3. Ulteriori profili di illegittimità. - III. Precedenti
giurisprudenziali in materia. - Conclusioni
Introduzione
Con ordinanza in data 28 luglio 2005, il Tribunale di Padova - in accoglimento della
domanda cautelare proposta da un calciatore dilettante per lo scioglimento dal “vincolo sportivo”
che lo legava alla propria società fino al compimento del venticinquesimo anno di età - ha
autorizzato lo stesso, “considerato sciolto il vincolo” con la propria Società, “ad effettuare il
tesseramento presso altra società sportiva affiliata alla FIGC ed ivi trasferirsi liberamente”.
“Another brick in the wall”. Un altro “mattone” eliminato “a picconate” da parte di un
giudice statale dal “muro” costituito dal vincolo sportivo pluriennale, l’istituto in base al quale gli
atleti non professionisti sono automaticamente legati alla propria società (senza possibilità di
trasferirsi ad altra società, salvo il caso di consenso della propria, rilasciato in genere previo
pagamento di somme corrispondenti al valore agonistico del giocatore oggetto di “vendita”) a vita
(normativa di diverse federazioni sportive) o comunque fino al compimento del venticinquesimo
anno di età (normativa F.I.G.C.).
40
I. Evoluzione normativa nel sistema-calcio: dal vincolo a vita al vincolo fino ai 25 anni.
Per quanto riguarda il settore del calcio dilettantistico, con Comunicato Ufficiale 14
maggio 2002, n. 34/A, la F.I.G.C. ha soppresso l’istituto del vincolo a vita ed ha previsto un vincolo
pluriennale fino all’età di 25 anni, sancendo il diritto per tutti i calciatori non professionisti di
ottenere lo svincolo per decadenza del tesseramento al compimento del venticinquesimo anno di età
(cfr. artt. 32 bis e 32 ter delle N.O.I.F. della F.I.G.C.) (62).
Tale riforma è stata accolta con grande favore, in quanto ha costituito un primo passo
fondamentale per la effettiva realizzazione del principio di libero esercizio dell’attività sportiva; è
evidente però che essa ha soltanto parzialmente “ridotto” il problema dell’esistenza del vincolo
sportivo, abrogando il vincolo a vita ed introducendo un vincolo fino al venticinquesimo anno di
età, ma non ha certo eliminato radicalmente lo stesso, riducendo (come era, ed è tuttora,
auspicabile) lo stesso ad una durata annuale (63).
62
Tale riforma è stata varata sulla base dell’avvenuto riconoscimento dell’illegittimità del
vincolo sportivo a tempo indeterminato da parte della stessa FIGC: in particolare, le Istituzioni del
calcio, con comunicato congiunto della FIGC e della L.N.D. dall’emblematico titolo “E’ finita l’era
del vincolo a vita”, hanno ripercorso le ragioni di tale illegittimità nel modo sotto testualmente
riportato. “…Il cosiddetto "cartellino a vita" vietava, di fatto, il trasferimento di un calciatore non
professionista senza il consenso della Società di appartenenza. Una situazione anomala, alla luce
soprattutto di una fase storica in cui prevalgono la mobilità e la libera circolazione degli atleti
all'interno dell’Unione Europea. La questione, tra l'altro, si fondava su un paradosso giuridico,
poiché la procedura del vincolo a vita non è mai stata applicata a coloro che svolgevano e svolgono
attività professionistica, in quanto ritenuto un impedimento concreto alla mobilità lavorativa. I
benefici ed i cambiamenti successivi alla sentenza Bosman, in questo senso, sono stati ritenuti
adattabili esclusivamente alla categoria degli sportivi professionisti, cioè a quel manipolo
privilegiato di "lavoratori" dello sport, soggetti alle disposizioni della Legge 91 del 1981. Solo per
questa categoria, pertanto, esisteva la possibilità di preferire una strada professionale invece di
un'altra, nonché di scegliere la collocazione più consona anche sotto il profilo economico.
Nonostante la sentenza Bosman, però, il problema si era continuato a porre per milioni di praticanti
dilettanti - tra cui il nostro esercito di calciatori -, raggiungendo in alcuni casi un livello di
irritazione insostenibile, spesso sfociato in iniziative giudiziarie da parte dei calciatori per ottenere la
libertà dall'attività sportiva, in interventi della Magistratura Penale ed in procedimenti urgenti di
fronte ai Giudici Civili per ottenere decreti di scioglimento dal vincolo. I motivi sono scontati: i
contrasti normativi individuati dalla Legge 91 e dall'art. 24 del Codice Civile (quest'ultimo garantisce
espressamente il diritto di recesso del contratto associativo), i contrasti con l'ordine pubblico (cioè i
principi informatori della Legislazione Statale) e, più in generale, nel rapporto sport - norme
costituzionali. Ma soprattutto c'è il fatto che la pratica sportiva dilettantistica rientra tra i diritti
inviolabili dell'uomo (art. 2 della Costituzione) e costituisce una fase irrinunciabile di aggregazione
sociale, con un obiettivo chiaramente rivolto allo svolgimento dell'attività sportiva con spirito di
divertimento, nei modi e nei tempi preferiti da ognuno, senza subordinazione. Ovvio che, invece,
l'adesione al vincolo indeterminato abbia comportato automaticamente l'accettazione alle norme
della Figc favorendo certamente le Società in misura maggiore. Nella più parte dei casi, la condotta
delle Società nella gestione delle trattative è stata ineccepibile, ma abbiamo dovuto purtroppo
riscontrare alcune situazioni, fortunatamente isolate, in cui i metodi operativi non hanno seguito la
direzione della legalità: ci siamo allora ritrovati a fare i conti con conflitti di interesse nell'ambito
sportivo (soprattutto a livello regionale) e, peggio ancora, con dirigenti di Società dilettantistiche
denunciati per estorsione alle Autorità Giudiziarie a causa di svincoli anticipati in sfavore di
malcapitati atleti di turno…”.
63
In relazione a tale riforma, nell’immediata approvazione della stessa, il sottoscritto ha evidenziato
quanto segue: “la sostanziale abolizione del vincolo a vita operata con l’art. 32 bis delle NOIF
41
Dunque riforma sicuramente meritoria, ma soltanto parziale, positiva se seguita da
un’ulteriore riforma (allo stato attuale non ancora intervenuta) con abrogazione totale anche del
vincolo pluriennale ed introduzione di un vincolo di durata annuale; ad oggi, quindi, il problema del
vincolo sportivo, e della sua legittimità, risulta essere purtroppo ancora attuale.
II. Il vincolo sportivo pluriennale: le ragioni di illegittimità.
Al fine di valutare la legittimità della normativa federale che prevede il vincolo
sportivo pluriennale, deve preliminarmente evidenziarsi come – stante il carattere di ordinamento
settoriale dell’ordinamento sportivo (derivato dall’ordinamento generale e subordinato ad esso
nell’ambito della pluralità degli ordinamenti giuridici) ed il carattere subordinato delle normative
sportive (in quanto fonti di rango “regolamentare”) rispetto alle leggi statali (in quanto fonti di
rango “legislativo”), alla luce del principio di gerarchia delle fonti del diritto – le normative federali
risultano essere legittime nel limite in cui esse non si pongano in violazione di normative superiori
statali o comunitarie.
In tale ottica, il vincolo sportivo di durata pluriennale, previsto dalle normative
regolamentari federali, risulta essere di dubbia legittimità in relazione alla potenziale violazione
della superiore normativa statale - di “rango” sia legislativo che costituzionale - e comunitaria.
1. Illegittimità per violazione della normativa statale di fonte primaria.
A. Il vincolo sportivo a durata pluriennale si pone innanzitutto in violazione della normativa
legislativa in tema di esercizio dell’attività sportiva: in particolare, l’art. 1 della legge n. 91/1981
dispone testualmente che “l’esercizio dell’attività sportiva, sia essa svolta in forma individuale o
collettiva, sia in forma professionistica o dilettantistica, è libero”; orbene, è evidente che – se,
nell’ambito di una legge che aveva quale unica ratio quella di regolamentare lo sport
professionistico (come chiaramente ribadito dal titolo della stessa, che si intitola “norme in materia
di rapporti tra società e sportivi professionisti”), il legislatore ha inteso “aprire” con una norma
(l’art. 1) che sancisce il diritto di tutti gli sportivi al libero esercizio dell’attività sportiva,
specificando che tale principio è valido non soltanto in ambito professionistico, ma anche in ambito
dilettantistico – la “proclamazione” di tale diritto non è affatto casuale, ma costituisce esplicazione
di un preciso indirizzo dell’ordinamento statale nei confronti di tutto il sistema sportivo, sia
professionistico che dilettantistico (64).
costituisce un primo passo fondamentale per la realizzazione del principio del libero esercizio
dell’attività sportiva anche in forma dilettantistica sancito dalla legge n. 91/1981; sarebbe comunque
opportuno arrivare ad una radicale abolizione del vincolo sportivo pluriennale, con conseguente
previsione di vincoli esclusivamente annuali (in modo che il calciatore dilettante possa, al termine di
ogni stagione agonistica, liberamente tesserarsi di nuovo con la propria società o trasferirsi ad
un’altra società” (cfr. LUBRANO E., L’ordinamento giuridico del giuoco calcio, Istituto Editoriale
Regioni Italiane 2004, pag. 233, nota n. 9).
64
In sostanza, con tale disposizione, il legislatore statale ha riconosciuto un valore giuridico al diritto
a praticare liberamente l’attività sportiva, sia in forma professionistica che in forma dilettantistica Tale
disposizione (art. 1) ha determinato il contenuto del successivo art. 16 della legge n. 91/1981
(intitolato “abolizione del vincolo sportivo”, effettivamente operata solo per il settore
professionistico), in quanto tale istituto si poneva in macroscopico contrasto con il principio di libero
esercizio dell’attività sportiva; ne consegue che tutte le disposizioni federali (di secondo livello, in
quanto di grado regolamentare) che prevedono ancora il vincolo sportivo a livello dilettantistico
devono ritenersi illegittime per violazione della superiore normativa costituita dall’art. 1 della legge n.
91/1981.
42
B. Sotto un diverso profilo, si osserva come tale istituto si ponga anche in violazione della
normativa civilistica in materia di associazionismo, costituita dall’art. 24, secondo comma, c.c., ai
sensi del quale “l’associato può sempre recedere dall’associazione se non ha assunto l’obbligo di
farne parte per un tempo determinato” (65), ed in violazione della normativa civilistica in materia di
rapporti di lavoro, costituita dagli artt. 2113 (invalidità delle rinunce) e 2118 c.c. (recedibilità da
contratti a tempo indeterminato previo preavviso) (66).
C. Per altro verso tale istituto si pone anche in contrasto con la normativa statale di riforma
del sistema sportivo, introdotta con il c.d. “Decreto Melandri” (D.Lgs. n.242/1999, poi modificato
dal D.Lgs. n. 15/2004, c.d. “Decreto Pescante”), che ha sancito i principi di democrazia interna” e
di partecipazione all’attività sportiva in condizioni di parità (67).
65
E’ evidente che, costituendo l’associazione sportiva un’associazione di diritto privato, il tesserato
deve potersi liberare dal vincolo recedendo liberamente dall’associazione (eventualmente con una
comunicazione data con un congruo preavviso) e non è neanche pensabile che allo stesso sia precluso
per anni di recedere dal vincolo associativo; ne consegue l’illegittimità di tutte le disposizioni che
prevedono il vincolo sportivo a vita per violazione della superiore normativa legislativa costituita
dall’art. 24 c.c..
66
L’art. 2113 c.c. stabilisce infatti che “le rinunce e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del
prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi
collettivi, non sono valide”: è evidente, sotto tale profilo, che la rinuncia al proprio diritto di recesso ai
sensi dell’art. 24 c.c., eventualmente ravvisabile nell’atto di accettazione del vincolo sportivo
sottoscritto al momento del tesseramento, non può ritenersi valida alla luce proprio dell’art. 2113 c.c.;
sotto un altro profilo, invece, tutte le norme regolamentari che prevedono l’istituto del vincolo a vita
(specie quando esso limita atleti che sono dei “professionisti di fatto”) sono comunque illegittime per
violazione dell’art. 2118 c.c., che stabilisce il diritto di recesso dal contratto a tempo indeterminato
(“ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando
preavviso”).
67
In particolare, l’art. 16 del Decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242 (poi modificato, ma non nelle
parte sottoindicate, dal Decreto legislativo n. 15/2004) ha stabilito che “le federazioni sportive sono
rette da norme statutarie e regolamentari sulla base del principio di democrazia interna, del principio
di partecipazione all’attività sportiva da parte di chiunque in condizioni di parità e in armonia con
l’ordinamento sportivo nazionale ed internazionale”.Tale norma ha, per la prima volta, riconosciuto
una vera e propria dignità, nell’ambito degli ordinamenti sportivi, alle componenti c.d. “minori” fino a
tale momento, ovvero alle componenti degli atleti e dei tecnici, sia dilettanti che professionisti, tanto è
che il secondo comma ha riconosciuto agli stessi la garanzia di essere presenti in tutti gli organi
direttivi delle varie federazioni in misura pari ad almeno il 30% del totale degli stessi (rispettivamente
previsto poi nel 20% per gli atleti e nel 10% per i tecnici). Tale disposizione, in applicazione della
quale sono stati poi modificati sia lo Statuto del C.O.N.I., sia tutti gli Statuti di tutte le federazioni
nazionali ad esso affiliate, ha avuto una “portata storica”, perché ha disposto, per la prima volta,
l’obbligatoria partecipazione anche degli atleti in tutti gli organi di direzione dello sport, segno di una
ormai acquisita maturazione di tutto il sistema sportivo nel senso dell’avvenuto riconoscimento della
posizione fondamentale non più soltanto del soggetto-società, ma anche del soggetto-atleta e del
soggetto-tecnico, e ciò non soltanto a livello professionistico, ma anche a livello dilettantistico ed
inoltre non solo a livello di sport maschili, ma anche a livello di sport femminili (come ribadito dal
fatto che la partecipazione nell’ambito degli organi direttivi dello sport, prevista dal secondo comma,
riguarda anche i dilettanti ed anche lo sport femminile: “ai fini di cui al comma primo, gli statuti
43
2. Illegittimità per violazione della normativa statale di fonte costituzionale.
Sotto un ulteriore profilo, inoltre, tale normativa risulta essere di dubbia compatibilità con le
disposizioni costituzionali che prevedono:
il diritto di esprimere la propria personalità nell’ambito delle formazioni sociali (art. 2) (68);
il principio di eguaglianza sostanziale (art. 3) (69);
prevedono procedure elettorali che garantiscono, negli organi direttivi, la presenza in misura non
inferiore al 30 per cento del totale dei loro componenti, di atleti e tecnici sportivi, dilettanti e
professionisti; a tal fine lo statuto assicura forme eque di rappresentanza di atlete e atleti”). Orbene, è
evidente che l’emanazione di tale normativa ha sancito ufficialmente l’abbandono di ogni forma di
impostazione di politica sportiva nel senso della visione (e della tutela) degli interessi esclusivamente
delle società, a dispetto degli interessi di atleti e tecnici fino a tale momento considerati
esclusivamente “merce di scambio”, rientranti nel genere “servus” di proprietà del “dominus” ovvero
della società; tale impostazione è indiscutibilmente rinvenibile nel riconoscimento del “principio di
democrazia interna”, sancito dal primo comma dell’art. 16 de quo, con l’effetto che tutte le
disposizioni regolamentari che prevedono il vincolo sportivo si pongono in violazione del principio di
democrazia interna e nel principio (tacito), ad esso presupposto, di avvenuto riconoscimento della
dignità della posizione degli atleti (anche dilettanti) e della loro parificazione sullo stesso piano delle
società (fino a tale momento assorte ad una illegittima posizione dominante riconosciutagli da principi
anacronistici contenuti nei vari regolamenti federali).
68
Ai sensi dell’art. 2 della Costituzione “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”: è pacifico
che tutto il sistema degli ordinamenti sportivi (nel quale si realizza tutto il fenomeno
dell’associazionismo sportivo) costituisce complessivamente una c.d. “formazione sociale” nella quale
si dovrebbero garantire i “diritti inviolabili” dei tesserati al fine di consentire loro di svolgere la
propria “personalità”; in realtà, però, lo svolgimento della propria “personalità agonistica” da parte dei
dilettanti, che avrebbe come necessario presupposto l’esplicazione effettiva del proprio diritto al libero
esercizio dell’attività sportiva, risulta radicalmente impedito dall’esistenza del vincolo de quo.
69
Dubbia sembra essere la legittimità del vincolo in relazione anche all’art. 3 della Costituzione, sia
sotto il profilo della violazione della c.d. eguaglianza formale in base al quale “tutti i cittadini hanno
pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge” (primo comma), sia sotto il profilo della
violazione della c.d. eguaglianza sostanziale, in base al quale “è compito della Repubblica rimuovere
gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei
cittadini, impedisco il pieno sviluppo della persona umana”: è, infatti, evidente che l’istituto del
vincolo sportivo, previsto dai vari regolamenti federali soltanto per gli atleti c.d. “non professionisti”,
realizza una grave disparità tra il trattamento previsto per i c.d. “sportivi professionisti” (ai sensi
dell’art. 2 della legge n. 91/1981) - per i quali l’istituto del vincolo sportivo è stato invece soppresso
sin dal 1981 con l’art. 16 della legge n. 91/1981 (intitolato proprio “abolizione del vincolo sportivo”
ed ai sensi del quale “le limitazioni alla libertà contrattuale degli atleti professionisti, individuate
come vincolo sportivo nel vigente ordinamento sportivo saranno gradualmente eliminate entro cinque
anni dalla data di entrata in vigore della presente legge”) - ed il trattamento previsto per i c.d.
“sportivi non professionisti”, i quali sono tuttora sottoposti alla “schiavitù” del vincolo sportivo, e ciò
anche nel caso dei c.d. “professionisti di fatto”, ovvero di coloro che, seppure formalmente inquadrati
come “dilettanti” dalla federazione di appartenenza, svolgono in realtà attività sportiva in maniera
sostanzialmente professionistica, tanto che le proprie prestazioni agonistiche sono retribuite con
contratti di lavoro veri e propri (ancorché spesso dissimulati come “rimborsi-spese”); tale situazione
comporta un effetto macroscopicamente disparitario tra “professionisti” e “non professionisti”.
44
il diritto al lavoro (art. 4) (70);
il diritto di associazione (art. 18) (71);
il principio di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa (art. 97) (72).
In particolare:
da una parte, infatti, i “professionisti”, alla scadenza del contratto che li lega alla propria società, sono
assolutamente liberi di “accasarsi” presso altra società, stipulando con essa un nuovo contratto di
prestazione sportiva, senza che la nuova società debba pagare alcunché alla precedente (c.d.
“trasferimenti a parametro-zero”, ovvero trasferimenti a costo-zero per gli atleti il cui contratto con la
propria società sia scaduto), secondo il principio stabilito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea
con la “sentenza-Bosman” emanata in data 15 dicembre 1995, che ha specificamente chiarito che
“sono illegittime, per violazione dell’art. 48 del Trattato U.E., tutte le norme emanate da federazioni
sportive, in forza delle quali un calciatore professionista, cittadino di uno Stato membro, alla
scadenza del contratto che lo vincola ad una società può essere ingaggiato da un’altra società
soltanto se questa ha versato alla società di provenienza un’indennità di trasferimento, formazione e
promozione”; dall’altra parte, invece, i “non professionisti”, ovvero coloro che non sono inquadrati
come “professionisti” dalla federazione di appartenenza (tra i quali i c.d. “professionisti di fatto”,
formalmente inquadrati come sportivi dilettanti, nonostante che essi svolgano l’attività sportiva in
maniera continuativa ed a titolo oneroso), che sono, invece, illegittimamente sottoposti all’istituto del
vincolo sportivo pluriennale.
70
Per quanto riguarda i c.d. “professionisti di fatto”, l’istituto risulta di estremamente dubbia
compatibilità anche in relazione all’art. 4 della Costituzione (“la Repubblica riconosce a tutti i
cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”): è, infatti,
chiaro che il vincolo sportivo comporta il fatto di non potere passare liberamente da una società ad
un’altra che sarebbe disponibile ad offrire all’atleta un contratto di lavoro ed una retribuzione per lo
svolgimento delle proprie prestazioni sportive, con grave lesione del diritto al lavoro dello stesso; è,
pertanto, compito della istituzioni sportive di “promuovere le condizioni che rendano effettivo questo
diritto” ovvero di rimuovere gli ostacoli (nella fattispecie, costituiti dall’esistenza del vincolo sportivo,
che impedisce sostanzialmente l’espletamento dell’attività sportiva, in quanto non consente il libero
trasferimento di un atleta da una società all’altra) che impediscono il legittimo svolgimento di tale
diritto per lo sportivo di svolgere la propria attività anche in maniera sostanzialmente professionistica.
71
Anche in relazione all’art. 18 della Costituzione (diritto di associazione), seri dubbi si pongono sulla
legittimità dell’istituto, in quanto il principio del libero associazionismo postula necessariamente
anche la possibilità di dissociarsi dall’associazione, laddove, invece, l’istituto del vincolo sportivo
preclude di fatto ogni possibilità per l’atleta di “dissociarsi” dalla propria società, alla quale rimane
pertanto vincolato fino al compimento del venticinquesimo anno; diritto di associazione - e relativa
“dissociazione” – sancito anche dagli artt. 11 e 14 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (legge 4 agosto 1955, n. 848) e dall’art. 22 del Patto
Internazionale sui diritti civili e politici (legge 25 ottobre 1977, n. 881), che ribadiscono i principi
sanciti dagli artt. 3 e 18 della Costituzione italiana.
72
La normativa federale relativa al vincolo sportivo pluriennale risulta poi di dubbia legittimità anche
in relazione all’art. 97 della Costituzione (principi di buon andamento ed imparzialità dell’azione
amministrativa), in quanto l’azione amministrativa svolta dalla Federazione sportiva - consistente
nell’organizzazione e nella promozione della rispettiva disciplina sportiva sul piano nazionale (il cui
45
3. Ulteriori profili di illegittimità.
Sotto un diverso punto di vista, la previsione di un vincolo sportivo pluriennale si pone
anche in contrasto con la normativa comunitaria, in particolare in relazione al principio di libera
circolazione dei lavoratori (art. 48 del Trattato U.E.) (73).
Infine, la normativa in questione risulta posta in essere anche in violazione anche dei
principi generali ed inderogabili (cfr. punto n. 8) della Carta Olimpica (vera e propria norma
fondamentale di tutto l’ordinamento sportivo internazionale), ai sensi del quale “la pratica sportiva
è un diritto dell’uomo; ogni individuo deve avere la possibilità di praticare uno sport in base alle
proprie necessità” (74).
III. Precedenti giurisprudenziali in materia.
La decisione del Tribunale di Padova sopra richiamata, infatti, prendendo atto del fatto che
la previsione del vincolo pluriennale contrasta con i principi basilari di ogni Stato di diritto, oltre a
carattere pubblicistico è inequivocabilmente riconosciuto dalla stessa attribuzione, da parte della legge
n. 280/2003, della giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo in materia di controversie di
carattere sportivo) - si pone manifestamente in contrasto con il principio di buon andamento
dell’azione amministrativa (che imporrebbe, nel perseguimento dell’interesse pubblico de quo, un
adeguato contemperamento degli interessi delle parti contrapposte, nella fattispecie società e tesserati,
laddove invece la previsione del vincolo sportivo, realizzata nella “notte dei tempi” secondo
un’arcaica concezione dell’esistenza di un rapporto “dominus-servus” tra società ed atleta, lede
gravemente gli interessi dell’atleta ad ingiustificato vantaggio della società); tale istituto si pone,
inoltre, in violazione del principio di imparzialità, perché realizza una macroscopica disparità di
trattamento tra professionisti e dilettanti, come ampiamente chiarito sopra.
73
L’esistenza del vincolo sportivo assoggetta infatti tutti gli atleti formalmente riconosciuti come
“non professionisti” dalla propria federazione, ma anche coloro che, al di là di tale riconoscimento,
svolgono l’attività in maniera sostanzialmente professionistica, ad un regime “vincolato” in base al
quale essi non possono esercitare il proprio diritto alla libera circolazione, in quanto, pur non essendo
formalmente legati alla propria società da alcun contratto, essi non possono liberamente trasferirsi ad
un’altra società, perché la nuova società deve pagare un prezzo per il trasferimento dell’atleta:
l’illegittimità di ogni norma che preveda l’obbligo di pagare un prezzo per il trasferimento da una
società ad un’altra di un atleta il cui precedente contratto sia scaduto è già stata riconosciuta dalla
Corte di Giustizia U.E. con la “sentenza-Bosman” (sopra richiamata); ne consegue, pertanto,
l’illegittimità del vincolo pluriennale, a maggior ragione quando esso gravi su atleti sostanzialmente
professionisti (anche se formalmente inquadrati come dilettanti).
74
E’, infatti, evidente che l’istituto del vincolo sportivo pluriennale, riducendo l’atleta ad una
posizione di “servus” e limitandone gravemente la propria libertà di trasferimento da un’associazione
sportiva all’altra (libertà del tutto preclusa dal fatto di essere un oggetto di vendita vero e proprio), si
pone in palese contrasto con il principio fondamentale di tutto il sistema sportivo, in base al quale il
diritto allo svolgimento dello sport è un diritto inviolabile dell’uomo.
46
confermare quanto da anni sostenuto dalla dottrina (75), si va ad aggiungere ad altri precedenti
giurisprudenziali in tal senso: in particolare, a tale proposito, infatti:
il T.A.R. Lazio, Sezione Terza Ter, con sentenza 12 maggio 2003, n. 4103, ha già
riconosciuto il carattere “arcaico”, “anacronistico” e “recessivo dei valori costituzionali”
dell’istituto in questione (76);
75
Sull’argomento del vincolo sportivo, si veda il testo di MORO P., DE SILVESTRI A., CROCETTI
BERNARDI E., LOMBARDI P:, Vincolo sportivo e diritti fondamentali, Editore Euro ’92; si veda,
inoltre, il testo di MORO P., Questioni di diritto sportivo: casi controversi nell’attività dilettanti,
Editore Euro ’92.
76
Con tale decisione il TAR Lazio ha chiarito che “la pretesa della società ricorrente al
mantenimento del vincolo sportivo con l’interessata successivamente alla scadenza del contratto (che
si fonda su una arcaica concezione che considerava l’atleta come “proprietà” della società) appare
recessiva proprio sul piano dei valori costituzionali; l’innovazione introdotta ha cercato di porre un
rimedio ai casi più evidenti di iniquità derivanti dal permanere del vincolo sportivo contro la volontà
dell’interessato, rimuovendo un anacronistico limite alla libertà contrattuale delle atlete”.
In relazione a tale decisione, si è già avuto modo di evidenziare quanto segue: “in effetti, il “vincolo”
(dal latino “vinculum”, ovvero “laccio”, “legame”, “corda”) è un concetto etimologicamente e
storicamente connesso da sempre con quello di “servus”; lo schiavo come “res” di proprietà del
“dominus”, titolare di ogni potere, anche di vita o di morte, sullo stesso; il “vincolo sportivo” è
ancora oggi una sorta applicazione del rapporto “dominus-servus” nel mondo dello sport;
anacronisticamente, il “dominus” è il presidente di società e il “servus” è l’atleta, tesserato con essa
a tempo indeterminato e inverosimilmente limitato nella propria libertà di svolgimento dell’attività
agonistica da un istituto che lo rende, di fatto, un vero e proprio “oggetto”: il presidente della
propria società ne può fare ciò che vuole, ovvero decidere se cederlo o meno ad un’altra Società ed
eventualmente stabilire il prezzo di tale “vendita umana”. Ma se, con la legge n. 91/1981 prima e con
la sentenza-Bosman poi, gli atleti professionisti hanno effettivamente conquistato un posizione di
lavoratore subordinato, gli atleti dilettanti sono invece rimasti prigionieri di regimi federali, che li
relegano, ancora oggi, in una posizione di “servus”, sottoposto al “vinculum”, del quale è titolare il
“dominus” presidente-padrone. Tale situazione poi risulta addirittura paradossale per quegli atleti
che svolgono attività agonistica in maniera sostanzialmente professionistica (ricevendo “profumati”
emolumenti), ma che, poiché svolgono tale attività in un settore operativamente riconosciuto dalla
rispettiva Federazione come “non professionistico”, sono formalmente inquadrati come “dilettanti”,
con tutti gli effetti negativi che ne derivano (in primis il fatto di essere sottoposti al “vincolo
sportivo”). Per anni la dottrina ha contestato la legittimità del “vincolo sportivo” - a maggior
ragione quando esso gravi su atleti che sono sostanzialmente professionisti - evidenziandone
l’illegittimità per violazione del principio di libero esercizio dell’attività sportiva anche in forma
dilettantistica (sancito dall’art. 1 della legge n. 91/1981), e dei diritti fondamentali sopra richiamati;
il T.A.R., con la sentenza richiamata, pur non entrando direttamente nel merito sulla questione della
legittimità del vincolo sportivo, ne ha già riconosciuto l’iniquità, il carattere arcaico, anacronistico e
recessivo sul piano proprio dei valori costituzionali; sarebbe quindi opportuno che le varie
federazioni intraprendessero un’opera di progressiva eliminazione del vincolo sportivo – come ha già
cominciato a fare la FIGC prevedendo il diritto di ottenere lo svincolo per tutti gli atleti over 25
(opera apprezzabile e meritoria, ma ancora parziale) – prima che intervenga il giudice statale a
dichiarare espressamente l’illegittimità del vincolo sportivo, imponendone l’abolizione anche per i
dilettanti e l’eliminazione da tutte le “Carte Federali” dei vari ordinamenti sportivi. (LUBRANO E.,
L’ordinamento giuridico del giuoco calcio, pag. 233, nota n. 9).
47
nello stesso senso si è posta un’analoga decisione del Tribunale di Padova, che, con sentenza
28 aprile 2004, n. 1676, ha dichiarato sciolto il vincolo associativo fra le parti in causa con effetto
dalla domanda giudiziale (77).
Alla luce di tali considerazioni in diritto e di tali precedenti, pertanto, ad oggi, un tesserato
sportivo dilettante, che voglia “liberarsi” dal vincolo pluriennale che lo lega alla propria società al
fine di svolgere attività agonistica per un’altra società - stante l’impossibilità di liberarsi dal vincolo
in base alle normative federali (se non nei limitati casi di “svincolo” dalle stesse previsti) - ha come
unica “strada” possibile (e legittima, nonché piuttosto celere) quella di esperire un’azione
giurisdizionale innanzi ai giudici statali competenti (78), chiedendo ad essi, previa accertamento
dell’illegittimità dell’istituto del vincolo pluriennale, di “scioglierlo dal vincolo” in modo da potersi
77
Con tale decisione, il Tribunale (caso relativo ad una giocatrice di volley e quindi ad un vincolo a
tempo indeterminato) - evidenziando il principio della necessaria temporaneità del vincolo e valutando
non legittima la normativa federale di riferimento, che prevedeva la possibilità per l’atleta di
sciogliersi dal vincolo solo mediante atto di adesione dell’associazione - ha dichiarato sciolto il
vincolo associativo.
78
Il problema che si pone, anche a seguito della legge n. 280/2003, è quello dell’individuazione del
giudice competente, ovvero se giudice civile o piuttosto giudice amministrativo; in teoria, entrambe le
soluzioni potrebbero essere ritenute giuridicamente corrette in ragione del fatto che il tesseramento di
uno sportivo si configura come un “rapporto a tre” (atleta-società-federazione), o meglio come un
“doppio rapporto a due”, da una parte atleta-società (in base al rapporto di “vincolo pluriennale” del
primo alla seconda) e, dall’altra parte, atleta-federazione (in base al “tesseramento” del primo per la
seconda); in sostanza, l’interessato potrebbe far valere i propri interessi su fronti diversi a seconda di
quale dei due soggetti del rapporto (società o federazione) convenga in giudizio, con l’effetto che: da
una parte, l’interessato può proporre azione giurisdizionale ex art. 700 c.p.c. innanzi al giudice civile
convenendo la propria società e chiedere al giudice, previo accertamento dell’illegittimità dell’istituto
del vincolo pluriennale, di scioglierlo dal vincolo; dall’altra parte, l’interessato - dopo avere richiesto
alla propria federazione lo scioglimento dal vincolo con la propria società ed il tesseramento per altra
società - può proporre impugnazione innanzi al giudice amministrativo (e, in particolare, innanzi al
TAR Lazio, alla luce della competenza funzionale in materia conferitagli dalla legge n. 280/2003)
avverso l’eventuale provvedimento federale di diniego di scioglimento dal vincolo e di conseguente
diniego di tesseramento per una società (diniego determinato dal fatto di essere già tesserato per
un’altra società), e chiedere al giudice, previo accertamento dell’illegittimità e annullamento dell’atto
presupposto (costituito dall’istituto del vincolo pluriennale), di scioglierlo dal vincolo.
Tra tali soluzioni alternative (entrambe comunque praticate con successo in passato, come attestato
dalla giurisprudenza civile ed amministrativa richiamata) deve ritenersi, a parere di chi scrive,
tecnicamente più corretta la seconda, in quanto - mentre nel primo caso si può discutere se la
questione possa essere fatta rientrare nella giurisdizione del giudice ordinario in base all’art. 3 della
legge n. 280/2003 (che riserva al giudice ordinario tutti i rapporti “patrimoniali” tra i c.d.
“pariordinati” all’interno dell’ordinamento sportivo, ovvero tra società, associazioni e tesserati), stante
il dubbio rilievo “patrimoniale” di questioni attinenti il rapporto tra società e atleti dilettanti - nel
secondo caso, non si può certo mettere in discussione la giurisdizione del giudice amministrativo in
quanto la legge n. 280/2003 gli attribuisce indiscutibilmente anche la materia relativa al tesseramento
degli atleti (come pacificamente riconosciuto a seguito dell’avvenuta soppressione delle lettere c e d
dell’art. 2 del decreto legge n. 220/2003, operata dal legislatore con le modifiche apportate a tale
normativa all’atto della propria conversione in legge).
48
liberamente tesserare con qualsiasi società (“strada giurisdizionale” che, in molteplici casi, anche
ulteriori rispetto a quelli richiamati (79), si è rivelata idonea a soddisfare gli interessi dei ricorrenti).
Conclusioni
Allo stato attuale viviamo un momento storico di grande evoluzione di tutto il settore
del diritto dello sport: in particolare, negli ultimi due anni, con l’emanazione e la successiva
applicazione giurisprudenziale della legge 17 ottobre 2003, n. 280 (80), si è passati da uno stato di
“totale anarchia” del settore dello sport (da sempre “abbandonato a sé stesso” da parte
dell’ordinamento statale) - nel quale vigeva di fatto una totale insindacabilità degli atti (normativi e
provvedimentali) emanati dagli ordinamenti sportivi - ad uno stato di “civiltà giuridica”, con
inquadramento degli ordinamenti sportivi nazionali come ordinamenti settoriali, subordinati, come
tali, all’ordinamento statale e con conseguente sindacabilità degli atti emanati dagli ordinamenti
sportivi ad opera del giudice statale a seguito di azioni promosse da tesserati sportivi ai sensi della
legge n. 280/2003.
Tale stato di “totale anarchia”, nel quale il settore sportivo ha potuto liberamente operare nel
corso di tutta la storia dello sport moderno, ha determinato una “crescita spontanea” (per molti
aspetti altamente positiva) e non regolata degli ordinamenti sportivi, con conseguente emanazione
di normative sportive (e conseguenti provvedimenti) sotto alcuni profili di dubbia legittimità, ma
“autolegittimate” dal fatto di non essere mai poste in discussione davanti ad organi giurisdizionali
79
Deve, infatti, evidenziarsi come, anche in casi ulteriori rispetto a quelli che hanno determinato
l’emanazione delle decisioni giurisprudenziali richiamate, alcuni tesserati hanno trovato soddisfazione
dei propri interessi (ottenendo cioè “spontaneamente” lo svincolo da parte della propria società) a
seguito della proposizione di azioni giurisdizionali innanzi al giudice amministrativo: in particolare, si
fa riferimento ai casi “Commissati” e “Mario” (atleti dilettanti tesserati rispettivamente per una società
di pallacanestro e per una società di pallavolo), i quali, dopo avere proposto ricorso innanzi al TAR
Lazio (rispettivamente rubricati come r.g. n. 4305/2004 e come r.g. n. 6658/2004) - proprio il giorno
della udienza fissata (rispettivamente in data 13 maggio 2004 per la sig.na Commissati ed in data 8
luglio 2004 per il sig. Mario) per la discussione della richiesta di sospensiva - si sono visti
“miracolosamente” depositare in udienza, da parte della federazione convenuta, un atto di formale
svincolo “spontaneamente regalatogli” dalle rispettive società (“svincolo” che ha determinato, in
entrambi i casi, la soddisfazione degli interessi dei ricorrenti e che, determinando la “sopravvenuta
carenza di interesse” per tali azioni, ha consentito alle federazioni resistenti di evitare una pronuncia
giurisdizionale sulla legittimità dell’istituto, che, in caso di accertata illegittimità e conseguente
annullamento, avrebbe avuto effetti generali per tutto il sistema sportivo, come una “Bosman dei
dilettanti”).
80
La legge n. 280/2003 rappresenta forse il più grande “autogoal” di tutta la storia dello sport: il
decreto legge n. 220/2003 (poi convertito, con modificazioni, nella legge n. 280/2003) - fortemente
richiesto e voluto proprio dagli esponenti di vertice dello sport nazionale (e del calcio in particolare)
per risolvere la situazione contingente determinata dai ricorsi del “Catania e soci” (ovvero Salernitana,
Genoa e Cosenza) ovvero per “delegittimare” le decisioni cautelari assunte dai vari T.A.R. locali nel
corso della “calda estate 2003” (mediante la previsione di una “competenza centralizzata” del TAR
Lazio ed una “improbabile” applicazione anche ai giudizi in corso, anche se già definiti per quanto
riguarda la relativa fase cautelare, della normativa di cui al decreto legge n. 220/2003,) - ha consentito
sì agli esponenti del mondo sportivo di risolvere la “ingarbugliata” situazione contingente (con il
“varo” della nota Serie B a 24 squadre), ma, una volta convertito in legge, ha determinato il
riconoscimento formale dell’ordinamento sportivo come ordinamento derivato da quello statale e,
conseguentemente, la definitiva “riconsegna” del sistema sportivo al proprio “genitore” ordinamento
statale, prevedendo il diritto di tutti i tesserati sportivi di impugnare innanzi al giudice statale i
provvedimenti emanati dalle federazioni sportive.
49
statali: sono nati così dei veri e propri “monstra iuris”, ovvero istituti come il “vincolo di giustizia”
ed il “vincolo sportivo” (prima a tempo indeterminato e poi fino ai 25 anni).
Ebbene, oggi che lo sport, come un “bambino-cresciuto” in uno stato di totale abbandono, è
stato “riconsegnato” al proprio “genitore-Stato” - da questi finalmente “riconosciuto” con
l’inquadramento dello stesso come uno dei propri “figli” ordinamenti settoriali, con conseguente
attribuzione della giurisdizione in materia sportiva ai giudici statali prevista dalla legge n. 280/2003
- tutto il sistema degli ordinamenti sportivi nazionali, deve necessariamente (magari gradatamente)
“ristrutturarsi” con normative che possano dirsi effettivamente legittime anche nel confronto con le
(superiori nell’ambito della gerarchia delle fonti) normative statali e comunitarie, ovvero
sopprimendo spontaneamente (magari in maniera ovviamente graduale) istituti di dubbia legittimità,
quali il “vincolo di giustizia” (81) ed il “vincolo sportivo” (82): in caso contrario è molto verosimile
81
Il “vincolo di giustizia” è un istituto, previsto in quasi tutte le normative dei vari ordinamenti
sportivi, in base al quale viene precluso ai tesserati sportivi di adire il giudice statale per la tutela dei
propri interessi, pena l’irrogazione di sanzioni disciplinari.Tale istituto - di estremamente dubbia
legittimità in relazione all’art. 24 della Costituzione (diritto di tutti i cittadini di adire gli organi di
giustizia statale per la tutela dei propri interessi) ed alla legge n. 280/2003 (che ha sancito tale diritto
anche per tutti i tesserati sportivi) - non è stato più applicato (se non in alcuni casi sporadici) dopo
l’emanazione della legge n. 280/2003. In uno dei pochi casi in cui esso è stato applicato (nei confronti
della Società Cosenza 1914) esso è stato radicalmente “delegittimato” dal TAR Lazio: in particolare,
la Società Cosenza - sanzionata dal punto di vista disciplinare (con tre punti di penalizzazione in
classifica, con l’interdizione per un anno a carico del proprio legale rappresentante e con una sanzione
pecuniaria) per avere in precedenza proposto un’azione innanzi al TAR Lazio - ha impugnato tali
provvedimenti disciplinari innanzi al TAR, sostenendone l’illegittimità (e, a monte, l’illegittimità
dell’istituto del vincolo di giustizia, come atto regolamentare presupposto) per violazione del diritto
alla tutela giurisdizionale sancito dalla Costituzione e dalla legge statale n. 280/2003; tale ricorso è
stato accolto dal TAR Lazio con ordinanza 21 aprile 2005, n. 2244 (“paradossale” è stato anche, nel
caso de quo, che, dopo la pronuncia del TAR, i provvedimenti disciplinari in questione siano stati
anche “autoannullati” dalla stessa CAF, che li aveva emanati, in accoglimento di un ricorso per
revocazione presentato dal Presidente Federale). Singolare risulta il fatto che - nonostante tale vicenda
(in ordine alla quale, per eventuali approfondimenti, si consenta di richiamare LUBRANO E., Il TAR
Lazio segna la fine del vincolo di giustizia: la FIGC si adegua, pubblicato sulla rivista telematica
www.giustamm.it) - attualmente il vincolo di giustizia continui a permanere nei regolamenti federali
e, addirittura, di tanto in tanto, ad essere applicato, con l’emanazione di provvedimenti sanzionatori,
nei confronti di alcuni (ma non di tutti…) i soggetti che abbiano proposto azioni innanzi ai giudici
statali.
82
Né può sostenersi, a favore del vincolo, che esso (per quanto illegittimo) costituisca un “male
necessario” o il “male minore”, ovvero l’unico mezzo per garantire il funzionamento del sistema
dilettantistico (in quanto le società “vivono” sulla cessione a titolo oneroso dei propri atleti). Sotto tale
profilo, si osserva, infatti, che l’eliminazione del vincolo costituisce, dal punto di vista economico
generale di sistema, un atto “a impatto-zero”, in quanto, se da un lato determina effetti negativi
(impossibilità di incamerare alcuna cifra per la cessione di un calciatore), parallelamente determina
effetti positivi della stessa identica portata (possibilità di acquisire un calciatore a zero); gli interessi
delle società sono, inoltre, tutelati dalla previsione del c.d. “indennizzo di formazione” (per tutte le
società che abbiano contribuito a “formare” un calciatore poi divenuto “professionista”) previsto dal
Regolamento FIFA su status e trasferimenti dei calciatori. Del resto anche l’esperienza fatta nel
settore professionistico conferma quanto indicato sopra: deve, infatti, oggettivamente prendersi atto
del fatto che - nonostante che grandi timori di “crollo del sistema” fossero stati espressi anche nel
settore professionistico, con la caduta del vincolo prima (art. 16 della legge n. 91/1981) e del c.d.
“parametro” poi (sentenza-Bosman: Corte Giustizia U.E. 15 dicembre 1995) - la realtà dei fatti ha
inevitabilmente dimostrato come, una volta caduto l’istituto del “vincolo”, l’intero settore si sia
riorganizzato, adattandosi al nuovo contesto (in particolare, ad oggi, dopo ben 10 anni dalla sentenzaBosman, le società si sono rese conto che avere un giocatore sotto-contratto costituisce un costo ancor
prima che un presunto valore patrimoniale e il vero “calcio-mercato” è diventato quello degli atleti a
“parametro-zero”). Sarebbe, pertanto, opportuno proseguire, in via graduale, la strada “tracciata” dalla
50
che (come già è avvenuto per il settore professionistico con l’emanazione della sentenza Bosman da
parte della Corte di Giustizia dell’U.E.) tali istituti (ovvero le norme federali che li prevedono)
vengano impugnati (come atti presupposti del provvedimento lesivo emanato nei confronti di un
singolo) e “abbattuti” a “picconate” dai giudici statali su ricorso di qualche “piccolo-Bosman dei
dilettanti”.
ENRICO LUBRANO, Avvocato del foro di Roma, Assistente alla Cattedra di Diritto
dello Sport della facoltà di Giurisprudenza della L.U.I.S.S. Guido Carli, Roma
riforma del 2002 (art. 32 bis delle NOIF, cui sopra si è fatto riferimento), nel senso di prevedere un
progressivo “abbattimento” ulteriore dell’età prevista per lo “svincolo”, fino ad arrivare (in ipotesi in
5-10 anni) alla previsione di un “vincolo annuale”; tale riforma dovrebbe avere, come necessario
corollario (per garantire anche il contrapposto interesse alla giusta “tutela dei vivai”), la complessiva
revisione del sistema di “premi” o “indennizzi” previsti in caso di trasferimenti di atleti “giovani”
(“dilettanti” e “di serie”) e “non professionisti”.
51
CONSIGLIO DI STATO
SEZIONE IV
SENTENZA 21 GIUGNO 2005, N. 3245
FATTO
Il Ministero dell’interno, con il presente appello, impugna la sentenza indicata in epigrafe,
con la quale il Tribunale amministrativo regionale del Veneto ha accolto un ricorso presentato dagli
attuali appellati avverso un provvedimento emesso dalla Questura di Verona, e concernente la
irrogazione di una misura amministrativa di divieto di accesso ad impianti sportivi (relativamente a
manifestazione
della
disciplina
del
calcio)
per
anni
uno.
L’accoglimento era stato determinato dalla considerazione che gli appellati, ricorrenti in primo
grado, non essendo stati né condannati né denunciati per aver preso parte attiva ad operazioni di
violenza, non potevano essere irrogatari della misura preventiva, non rientrando la vicenda nella
fattispecie prevista nell’art. 6, comma 1, della l. 13 dicembre 1989, n. 401.
Avverso la suddetta sentenza si grava l’appellante Ministero, rilevando come l’interpretazione data
dal giudice di primo grado dell’art. 6, comma 1, della l. n. 401 del 1989 sia errata, in quanto,
relativamente alla partecipazione attiva ad episodi di violenza in occasione o a causa di
manifestazioni sportive (come contestato agli appellati) non è prevista affatto la condanna o la
denuncia, anche in considerazione del fatto che la norma in parola non tende tanto a punire
comportamenti
violenti,
quanto
soprattutto
a
prevenirli.
Gli appellati si costituiscono in giudizio e resistono all’appello, chiedendone la reiezione e
controdeducendo ampiamente, anche con notevoli richiami di giurisprudenza, alla tesi avversaria.
La causa passa in decisione alla pubblica udienza dell’8 marzo 2005.
DIRITTO
L’ appello è evidentemente infondato.
La norma, sulla base della quale il Questore di Verona ha provveduto ad irrogare agli appellati la
misura restrittiva di carattere amministrativo (art. 6, comma 1, l. 13 dicembre 1989, n. 401), infatti,
pur nella sua non estremamente lineare tecnica espositiva, sembra al Collegio chiarissima,
così come peraltro argomentato dal giudice di primo grado, nel determinare i presupposti per
l’irrogazione della sanzione nella condanna e, quanto meno, nella denuncia per i reati ivi
espressamente indicati.
Ed invero la norma, depurata degli incisi relativi ai richiami normativi, manifesta senza dubbio la
significazione prima evidenziata, disponendo:
”Nei confronti delle persone che risultano denunciate o condannate anche con sentenza non
definitiva nel corso degli ultimi cinque anni… ovvero per aver preso parte attiva ad episodi di
violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime
circostanze abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza, il questore può disporre il divieto di
accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive specificamente indicate, nonché a
quelli, specificamente indicati, interessati alla sosta, al transito o al trasporto di coloro che
partecipano o assistono alle manifestazioni medesime”.
Come si vede, anche per la fattispecie relativa alla partecipazione ad episodi di violenza ovvero
all’incitamento, inneggiamento e induzione alla violenza (ipotesi riferita agli appellati) , occorre
52
necessariamente che i soggetti, dopo l’identificazione (che, peraltro, nella specie non è spiegato
come sia avvenuta essendo i manifestanti parzialmente travisati),
avrebbero dovuto essere denunciati all’Autorità giudiziaria per una delle fattispecie indicate
nell’art. 6, comma 1, di cui prima si è detto, mentre il non averlo fatto determina sicuramente
violazione
e
falsa
applicazione
della
norma
medesima.
Né ha rilevanza quanto indicato nell’atto introduttivo dell’appello, in ordine alla considerazione che
la sanzione di cui all’art. 6, comma 1, prima richiamata mirasse soprattutto alla prevenzione, in
quanto la misura interdittiva prevista dalla norma stessa (al di là del fatto che ogni sanzione ha
sempre un contenuto preventivo – la cosiddetta coazione psicologica – nei confronti degli altri
soggetti), insieme con la componente meramente affittiva, manifesta altresì una sua valenza
preventiva anche nel caso considerato nella sentenza di primo grado e riconfermata in questa sede
della necessità di una condanna (anche solo di primo grado) o di una denuncia.
D’altro canto non si comprenderebbe perché soggetti che abbiano preso parte attiva ad episodi di
violenze su cose o persone, ovvero abbiano incitato o indotto alla violenza, ipotesi tutte che
concretano fattispecie criminose, e che siano stati identificati, altrimenti non potrebbero essere
destinatari delle misure in esame, non avrebbero dovuto essere denunziati.
Il che val dire che la condanna o la denuncia, individuati quali presupposti, non sono affatto di
ostacolo a far coincidere le due misure – repressiva e preventiva – nella norma stessa.
L’appello va , pertanto respinto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano….
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sez. IV), definitivamente pronunciando
sull’appello in epigrafe, lo rigetta.
Condanna l’Amministrazione appellante al pagamento delle spese di giudizio, liquidate
come in motivazione.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
DIVIETO DI ACCESSO AI LUOGHI DOVE SI SVOLGONO COMPETIZIONI AGONISTICHE:
ANCHE LA DISCREZIONALITÀ DEVE FARE I CONTI CON LA COSTITUZIONE
E’ la prima volta che la Rivista si occupa di argomenti “border line”, ovvero non
direttamente pertinenti con il mondo del diritto sportivo ma che, purtroppo, alla luce dei sempre più
frequenti avvenimenti, ne fanno da corollario. La cosiddetta “violenza negli stadi”, e la normativa
speciale sviluppatasi per porre freno a questo dilagante fenomeno, ormai entra in stretta connessione
con il mondo dello sport e delle norme che lo provano a regolamentare.
Prima di commentare quella che può essere definita per vari aspetti una pronunciacaposaldo nella giurisprudenza specifica, è bene riassumere le linee guida di una normativa che si
sviluppa a cavallo tra il diritto amministrativo ed il diritto penale.
Il tentativo di arginare efficacemente la violenza negli stadi ha origini tutto sommato recenti:
con la risoluzione del Parlamento europeo dell’11 luglio 1985 sulle misure necessarie per
combattere il vandalismo e la violenza nello sport e con la Convenzione del Consiglio d’Europa del
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19 agosto 1985 sulla violenza e le intemperanze degli spettatori in occasione di manifestazioni
sportive, in particolare di incontri calcistici, la comunità internazionale aveva invitato gli Stati
all’introduzione di misure per prevenire e controllare tali comportamenti ed in particolare, tra le
misure indicate dalla citata convenzione, vi era proprio quella di vietare l’accesso agli stadi o agli
incontri a persone potenzialmente pericolose.
Dopo un primo intervento con un unico e laconico articolo (art. 6 l. 401/8983), incastonato in
una legge “variegata” e volta presuntuosamente a regolamentare sia il gioco d’azzardo che il
doping, che la violenza in occasione di manifestazioni agonistiche in un unico contesto84, il
legislatore si è trovato ad affrontare con decisione l’argomento dopo la morte del tifoso genoano
Vincenzo Spagnolo al termine di Genoa- Milan. Il decreto- Maroni (d.l. 22 dicembre 1994 n. 717,
convertito con modificazioni nella l. 24 febbraio 1995 n. 45), emesso sull’onda dello sdegno
dell’opinione pubblica, rappresenta il primo tentativo di affrontare il problema in maniera organica:
intervenire celermente e con efficacia nei confronti dei violenti senza dover attendere il normale
corso del procedimento penale.
Con il decreto legge 336/01, convertito nella legge 377/01, il legislatore nel settembrenovembre 2001 è intervenuto nuovamente in ottica ulteriormente severa nei confronti dei violenti. Il
recente decreto legge 24/02/03 n. 28 (legge 88 dd 24/04/03), e la sua peculiarità del cosiddetto
“arresto in flagranza differita” e la recentissima parte del Decreto Pisanu (decreto legge 162 dd
17/08/05)85 dedicata agli stadi, rappresentano quella che vuole essere la quadratura del cerchio di
una normativa esaminata più volte sinora dalla Corte Costituzionale e che non appare immune da
vizi di illegittimità.
Come detto è con il Decreto- Maroni che il legislatore, sostituendo completamente il
vecchio dettato dell’art. 6 l. 401/89, propone quella che, nonostante alcune modifiche, è anche oggi
la struttura base dell’impianto anti violenza negli stadi:
“Nei confronti delle persone che risultano denunciate o condannate per uno dei reati di cui
all’art. 4, primo e secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, ovvero per aver preso parte
attiva a episodi di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime
circostanze abbiano incitato, inneggiato o indotto alla violenza, il questore può disporre il divieto
di accesso ai luoghi in cui si svolgono competizioni agonistiche specificamente indicate nonché a
quelli, specificamente indicati, interessati alla sosta al transito o al trasporto di coloro che
partecipano
o
assistono
alle
competizioni
medesime”.
L’innovazione di maggior significato è, però, quella prevista dal secondo comma dell’ art. 6
che ha previsto che, alle persone cui sia stato notificato il divieto di cui al comma 1, il questore
possa “prescrivere di comparire personalmente nell’ufficio o comando di polizia competente per il
luogo di residenza, o in quello specificamente indicato, in orario compreso nel periodo di tempo in
cui si svolgono le competizioni per le quali opera il divieto di cui al comma 1”. Il provvedimento
83
La “battaglia” ai facinorosi era riassunta nel seguente articolo: "L'autorità di pubblica sicurezza può
sempre ordinare il divieto di accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche alle persone
che vi si rechino con armi improprie, o che siano state condannate o che risultino denunciate per aver
preso parte attiva a episodi di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle
stesse circostanze abbiano incitato o inneggiato alla violenza con grida o con scritte".
84
Letteralmente: “Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della
correttezza nello svolgimento di competizioni agonistiche”.
85
Che ha previsto sostanzialmente un inasprimento delle pene per i reati “tipici” quali il lancio
pericoloso di oggetti e lo scavalcamento di barriere in occasione di manifestazioni agonistiche e
l’estensione del divieto d’accesso anche alle competizioni che si svolgono all’estero.
54
(comma 3°) deve essere comunicato al procuratore della Repubblica che, ove ritenga esistenti i
presupposti previsti dalla norma in esame, ne chiede la convalida al giudice per le indagini
preliminari.
Il decreto legge 366/01, convertito nella legge 377/01 apportava alcune modifiche
ampliando (comma 1) l’elenco dei reati la cui denuncia o condanna (anche con sentenza non
definitiva) negli ultimi cinque anni costituisce il presupposto per l’applicazione delle misure;
secondariamente è stato aumentato il termine massimo di durata delle misure (da uno a tre anni);
infine è stato previsto, per la misura di cui al comma 2, l’obbligo per il questore, ove ritenga di
disporre la comparizione personale negli uffici di polizia, di tenere conto dell’attività lavorativa
della persona interessata.
Con il decreto legge 24/02/03 n. 28 veniva introdotto una sorta di unicum nel nostro
ordinamento ovvero l’arresto in “flagranza differita”: tale misura è adottabile entro 36 ore dal
verificarsi di episodi violenti, qualora “non sia stato possibile procedere immediatamente
all’arresto per ragioni di sicurezza o incolumità pubblica” e solo se le prove siano state ottenute
“sulla base di documentazione video fotografica o di altri elementi dai quali emerge con evidenza il
fatto”. E’ chiaro che quest’ultimo aspetto, ovvero il cosiddetto arresto differito, meriterebbe da solo
un approfondimento –che darebbe adito a non poche discussioni in diritto-, ma per ora, delineata
per sommi capi l’evoluzione legislativa in materia, accontentiamoci di affrontare la sentenza con cui
il Consiglio di Stato, in una delle sue poche pronunce sul tema, ha posto limiti importanti alla
discrezionalità del Questore.
Superata la questione attinente all’inquadramento di queste misure speciali, che limitano sia
la libertà di circolazione (art. 16 Cost.) in forza del provvedimento questorile di matrice
esclusivamente amministrativa (art. 6 c. 1), che –eventualmente a discrezione del Questore- anche
la libertà personale (art. 13 Cost. in riferimento all’art. 6 c. 2) qualora venga comminato pure
l’obbligo di presentazione in Questura in occasione delle partite della squadra del soggetto
violento86, in virtù dell’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite (44273/04), che le ha
definitivamente assegnate alla famiglia delle misure di prevenzione (l. 1423/56)87, ci si è trovati di
fronte al problema se la discrezionalità del Questore fosse illimitata nel catalogare determinati
86
Va ricordato, comunque che questo ulteriore obbligo strumentale e servente al divieto d’accesso che
serve a garantire l’effettiva presenza in Questura del tifoso in corrispondenza delle partite di calcio
deve essere convalidato dal GIP presso il Tribunale della Questura che ha emesso il provvedimento.
Diversamente, qualora il GIP non ordinasse la convalida (ad es. per mancanza dei presupposti o del
fumus di attribuibilità della condotta al prevenuto), resterebbe in vigore unicamente il divieto
d’accesso agli stadi. Tuttavia anche questo è un tema controverso e chi scrive ritiene che la mancata
convalida da parte del GIP travolga l’intero provvedimento e non solo la parte che comprime la libertà
personale, se non altro per il cristallino dettato dell’art. 6 c. 3: “ Il pubblico ministero, se ritiene che
sussistano i presupposti di cui al comma 1, entro quarantotto ore dalla notifica del provvedimento ne
chiede la convalida al giudice per le indagini preliminari. Le prescrizioni imposte cessano di avere
efficacia se il pubblico ministero con decreto motivato non avanza la richiesta di convalida entro il
termine predetto e se il giudice non dispone la convalida nelle quarantotto ore successive “. Il
legislatore ha fatto esplicito riferimento alle “prescrizioni imposte” utilizzando il plurale e quindi
indicando il divieto di accedere allo stadio (di cui all’art. 6 c. 1) e l’obbligo a comparire in Questura
(di cui all’art. 6 c. 2). In senso conforme al tenore letterale della norma: Cassazione penale sez. III
521/02, Tribunale Busto Arsizio GUP 11/01/05, Tribunale di Verona GIP ord. 05/03/03, Tribunale
Roma ord. 02/12/00. In senso contrario Cassazione penale sez. I 45184/04, Tribunale Udine 12/04/05.
87
Peraltro in passato: Cassazione penale sez. I, 21/02/96 n. 1165, secondo cui occorre "configurare il
divieto di accesso di cui al comma 1 dell'art. 6 come atipica misura interdittiva di competenza
dell'autorità di pubblica sicurezza per la salvaguardia di finalità inerenti all'ordine pubblico"
55
atteggiamenti come violenti e conseguentemente nel poter comminare il provvedimento di divieto
d’accesso agli stadi.
E’ bene sottolineare che, nel tentativo di garantire un bene obiettivamente rilevante come
l’ordine pubblico in una situazione generale di violenza dilagante (tra fine anni ’90 e primi anni del
2000), l’autorità amministrativa si è spesso spinta in un’interpretazione troppo superficiale della
legge emettendo provvedimenti privi di presupposti sostanziali. Ecco che ci sono volute le prime
pronunce di legittimità per cercare di interpretare la legge in maniera corretta o perlomeno secondo
quanto voluto dal legislatore. Ad es. nei primissimi anni 2000 la Suprema Corte88 con una serie di
pronunce ha statuito che l’elenco di reati per cui è comminabile il provvedimento di cui agli artt. 6
c. 1 e 2 è tassativo e quindi solo coloro che “risultino denunciati o condannati anche con sentenza
non definitiva nel corso degli ultimi cinque anni per uno dei reati di cui all’articolo 4, primo e
secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, all’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n.
152, all’articolo 2, comma 2, del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con
modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, e all’articolo 6-bis, commi 1 e 2, della presente
legge, ovvero per aver preso parte attiva ad episodi di violenza su persone o cose” in occasione o a
causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime circostanze abbiano incitato, inneggiato o
indotto alla violenza” possono essere destinatari del provvedimento de quo.
Tra i più significativi interventi del giudice delle leggi: Cassazione Penale sez. I, 16/06/98
n. 3545, per la quale introdursi allo stadio senza biglietto non rientra tra le attività violente di cui
all’art. 6 c. 1, Cassazione Penale sez. I, 01/07/03, 3494/03, secondo cui l’esposizione di uno
striscione offensivo nei confronti delle forze dell’ordine non è idoneo a costituire specifica
istigazione alla violenza come intesa dalla norma di interpretazione autentica di cui alla legge,
Cassazione Penale sez. I, 17/01/02 n. 7543, nei confronti di uno striscione offensivo verso la
tifoseria ospite, Cassazione Penale sez. III, 04/04/02, secondo la quale il semplice possesso di un
artifizio pirotecnico in occasione di manifestazioni agonistiche –a differenza del lancio pericoloso
dello stesso (art. 6bis) –non rientra tra le ipotesi di cui al primo comma.
Per altro verso, sempre attraverso la giurisprudenza, si è dato un contenuto concreto al
concetto di “manifestazioni sportive” sancendo che, solo colui il quale manifesta una sorta di
pericolosità in occasione di gare agonistiche organizzate sotto l’egida del CONI e delle federazioni
ad esso affiliate, può essere ragionevolmente destinatario del provvedimento interdittivo: il Tar
Toscana sez. I, 08/11/04, n. 5483/04, 5482/04, 5481/04, 5480/04, 5479/04 ha annullato i DASPO
nei confronti di alcuni tifosi della Carrarese che avevano aggredito l’allenatore al termine di un
allenamento –e quindi non di una partita ufficiale- a causa degli scarsi risultati della squadra
toscana, il GIP presso il Tribunale di Genova ord. 07/05/05 che non rilevava alcun collegamento tra
un diverbio tra un poliziotto ed un tifoso sampdoriano in ordine alla violazione del codice della
strada e la presenza nell’adiacente stazione di tifosi baresi in procinto di rientrare a casa dopo la
partita Genoa- Bari.
Orbene, il Consiglio di Stato si è trovato a chiarire un altro aspetto molto importante: ovvero
se per l’emissione del provvedimento, oltre all’osservanza della casistica tassativa dell’art. 6 c. 1 e
alla contestualizzazione dell’azione violenta in ambito di manifestazioni sportive, occorresse quale
presupposto indefettibile perlomeno una denuncia per lo stesso comportamento all’Autorità
Giudiziaria che sancisse il fumus di rilevanza penale del comportamento posto in essere dal tifoso.
Alcune pronunce del giudice amministrativo di primo grado avevano solo sfiorato il tema
negli ultimi anni: T.A.R. Lombardia 454/02 dicembre 2002, ha ritenuto che “il divieto di accesso ai
luoghi ove si svolgano partite di calcio presume che il soggetto sia stato denunciato o condannato
per alcuni tipi di reato specificatamente individuati”, TAR Friuli Venezia Giulia 25/10/03 n. 740:
“Il provvedimento del Questore di divieto di accesso a manifestazioni sportive presuppone non
88
competente a decidere unicamente qualora il divieto d’accesso agli stadi sia corredato dallo
strumentale e servente obbligo di comparizione presso la Questura o la Stazione dei Carabinieri n
corrispondenza del match giocato dalla squadra di riferimento dell’interessato, ex art. 6 c. 4 l. 401/89
come modificata.
56
l’accertamento della responsabilità dell’incolpato, riservato alla sede penale, cautelare o di merito,
ma il mero “fumus” della stessa che, ai sensi dell’art. 6, comma 1, della l. n. 401 del 1989, sussiste
anche per la semplice denuncia per “aver preso parte attiva ad episodi di violenza su persone o
cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive”, ed infine anche il Tar Umbria 08/04 e
09/04: “l’art. 6 l. 401/89 (come sostituito dalla legge 377/01) prevede che nei confronti delle
persone che risultano denunciate o condannate (…) per aver preso parte attiva ad episodi di
violenza su persone o cose in occasione o a causa di manifestazioni sportive, o che nelle medesime
circostanze abbiano incitato, indotto, inneggiato alla violenza, il Questore può disporre il divieto di
accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive…”.
Dicevamo sfiorato, senza approfondire il problema89.
La fattispecie che il Consiglio di Stato si è trovato di fronte è relativa a tre tifosi della
squadra di calcio dell’Hellas Verona che durante la trasferta di Torino erano scesi dai pullman
provocando la reazione dei sostenitori granata, sedata solo grazie al pronto intervento delle forze
dell’ordine presenti.
I tre venivano “diffidati” per questa inopinata discesa dall’autobus ma non denunciati alla
AG. Veniva proposta impugnazione innanzi al Tar Veneto sulla base dell’assunto che il tenore
letterale dell’art. 6 c. 1 lasciava intendere senza dubbio che gli interessati dovevano essersi resi
autori di una condotta riconducibile ad una delle quelle fattispecie tassativamente indicate, ma
anche che per la stessa avrebbero dovuto essere denunciati alla locale Procura della Repubblica.
Il tenore della norma chiaro nel suo incipit (“risultino denunciati o condannati anche con
sentenza non definitiva nel corso degli ultimi cinque anni”), ma in seno ai vari uffici “Anticrimine”,
“Misure di Prevenzione”, “Servizio Tifoserie” era diffusa convinzione che trattandosi di misure di
prevenzione il Questore dovesse vagliare la pericolosità complessiva del pseudo- tifoso traendo
spunto, magari, da un fatto specifico, ma senza restare allo stesso ancorato.
In primo grado il Tar Veneto 2538/04 aveva dato ragione ai ricorrenti. L’Avvocatura di Stato
impugnava deducendo che, trattandosi di tema legato all’ordine pubblico e di misure di prevenzione
che non debbono per forza essere strettamente legate ad un fatto delittuoso specifico, il Questore
aveva ben agito nell’ambito della sua ampia discrezionalità.
Il Consiglio di Stato propendeva per la interpretazione letterale della norma indicando nella
denuncia alla AG e nel correlato fumus di comportamento penalmente rilevante i requisitipresupposto per la comminazione del DASPO.
Del resto –evidenzia bene- o il comportamento contestato è percepibile, concreto, palpabile
e quindi doverosamente rilevante sotto il profilo penale, oppure si resta nell’ambito delle mere
supposizioni, di semplici elementi di valutazione personale degli operanti. Sostanzialmente il logico
ragionamento del Consiglio di Stato lascia intendere che l’interpretazione letterale della norma che
prevede la denuncia alla AG come presupposto necessario e sufficiente all’irrogazione del divieto è
ben conforme alla logica: o l’azione presenta i requisiti minimi della antigiuridicità (e quindi va
89
In dottrina il punto era stato affrontato solo dal Molinari “Le Misure di Prevenzione”- Giuffrè 2002
pag. 805 e ss. “Sono indicate (art. 6 l. 401/89 novellata dalla legge 1995) tre categorie di persone alle
quali sono applicabili il divieto d'accesso agli stadi: 1) persone denunciate o condannate per uno dei
reati previsti dal primo e secondo comma dell'art. 4 l. 110/75 (fattispecie estesa dalla l. 377/01 anche
agli altri casi già indicati tra cui l'art. 5 l.152/75); 2) persone denunciate o condannate per aver preso
parte attiva ad episodi di violenza in occasione o a causa di manifestazioni sportive; 3) persone che
nelle medesime circostanze abbiano incitato, indotto, inneggiato alla violenza”. (...) Inoltre in merito
all'induzione alla violenza: “sicché dovrebbe trattarsi di persone denunciate o condannate; che tuttavia
la formulazione della norma consente pure di ritenere, come peraltro probabilmente voluto dal
legislatore anche se poi ha usato una formulazione ambigua, che la categoria i discorso possa essere
sganciata dalla necessità di una denuncia o di una condanna qualora si tratti di comportamenti in
concreto non idonei, per la genericità del contenuto, ad indurre a delinquere”.
57
denunciata) oppure non può essere considerata rilevante nemmeno ai fini dell’applicazione della
misura di prevenzione90.
L’orientamento può dirsi ora consolidato poiché recepito da alcuni Tribunali Amministrativi:
il Tar Emilia sez. Parma con ordinanza 108 dd 05/04/05 ha sospeso il DASPO comminato nei
confronti di un tifoso della Reggiana poiché “ritenuta assistita da fumus boni juris la censura
incentrata sulla carenza della necessaria denuncia penale”. Inoltre, Tar Toscana 2845/05, 2844/05,
2846/05 in merito ad un gruppo di tifosi della Lucchese: “la denuncia costituisce presupposto
necessario per la adozione della misura di prevenzione in questione”.
Purtuttavia il doppio binario su cui si sta creando la giurisprudenza specifica in materia di
violenza negli stadi ovvero Giudice amministrativo da un lato e Cassazione penale dall’altro (per i
provvedimenti DASPO convalidati dal GIP, cfr. art. 6 c. 4 l. 401/89 come modificata) non aiuta nel
creare una solida e costante base interpretativa. Anche nel caso de quo possiamo richiamare un
passaggio dell’arcinota Cassazione penale sez. un. 44273 dd 27/10/04 che, pur non affrontando
direttamente l’argomento, lascerebbe intendere una interpretazione di fondo dell’art. 6 c. 1 opposta
rispetto a quella delineata con chiarezza dal Consiglio di Stato: “Sotto diverso profilo conferma la
natura di misura di prevenzione di questi provvedimenti la considerazione che si tratta di
provvedimenti che prescindono dalla consumazione di un reato e dal suo accertamento definitivo e
ciò porta ad escludere con certezza che si tratti di una misura di sicurezza”.
Non è l’unica dicotomia: basti pensare che per numerosi Tribunali Amministrativi la
competenza territoriale ad emettere il provvedimento di divieto d’accesso agli stadi è del Questore
del luogo di residenza91, mentre per altri Tar e per la Corte di Cassazione è del Questore del luogo
ove si sono svolti gli incidenti92. Ma si pensi anche alla controversa interpretazione della portata
effettiva del provvedimento con cui il GIP convalida i divieti d’accesso allo stadio corredati
dall’obbligo di presentazione in Questura: un orientamento è a favore di un mero controllo formale
di legittimità93, un secondo, invece, richiede essenziale un controllo penetrante, sostanziale, che
investa la valutazione dell’effettiva pericolosità dell’interessato, il fumus di attribuibilità delle
condotte contestate e la valutazione della loro gravità94.
90
In motivazione “D'altro canto non si comprenderebbe perché soggetti che abbiano preso parte attiva
ad episodi di violenze su cose o persone, ovvero abbiano incitato o indotto alla violenza, ipotesi tutte
che concretano fattispecie criminose, e che siano stati identificati, altrimenti non potrebbero essere
destinatari delle misure in esame, non avrebbero dovuto essere denunziati”.
91
Tar Veneto 12/12/02 6647/02, Tar Marche sent. 220/03 dd 11/04/03, Tar Veneto 12/12/02 6652/02,
Tar Veneto 2579/03 dd 06/05/03, Tar Sardegna 1054/03 dd 02/09/03, Tar Toscana 2837/03 dd
17/07/03, Tar Veneto 1608/03 27/02/03.
92
Cassazione penale n. 26064 dd 18/06/03, Cassazione penale 38661/04.
93
Cassazione penale, sez. I, 5 ottobre 2000, n. 825, Cassazione penale sez. I, 4 giugno 2003, n. 26064;
Cassazione penale sez. I, 20 gennaio 2004, n. 3875.
94
Cassazione penale, sez. I, 24 gennaio 2003 n. 6293, Cassazione penale sez. I, 26 marzo 2004, n.
19541, Cassazione penale sez. I, 20 gennaio 2004, n. 19049, Cassazione penale sez. un. 27/10/04
44273.
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I contrasti giurisprudenziali evidenziano che la normativa è ancora “giovane” e
l’interpretazione è ancora in evoluzione: vero è che, a giudizio di chi scrive, poiché la misura del
DASPO comporta limitazioni a libertà costituzionalmente garantite come quella alla circolazione ed
alla libertà personale, deve per forza essere interpretata secondo rigidi principi di legalità.
STEFANO ARPINO, Avvocato del foro di Udine
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