Parrocchia di san Simpliciano – Ciclo di 5 incontri sul tema Un “nuovo umanesimo”? tenuti da don Giuseppe Angelini, nei lunedì di aprile/maggio 2015 3. Le scienze umane contro l’umanità dell’uomo La cultura moderna rimuove la morte. Verso la fine degli anni sessanta, all’improvviso, si determina un accumulo di saggi dedicati alla morte; rompono la lunga censura psicologi e sociologi, assai più che filosofi e preti, come osserva con arguzia da Philip Ariès nel suo libro L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi (Laterza, Bari 1980. Il fatto che si occupino della morte psicologi e sociologi ha prevedibili riflessi sulla qualità della cura; essa diventa fondamentalmente ‘clinica’; il fine è rimediare alla sofferenza del morente, non elaborare il senso della morte nella vita umana. La morte che si avvicina interpella il soggetto che la vive, è una sfida per la libertà. Questo profilo è ignorato dall’approccio clinico di psicologi e sociologi; essi si occupano soltanto di come anestetizzare la morte. Quel che accade con evidenza nel caso della morte accade per tutti gli ambiti della vita umana. Accade in forme appariscenti nel caso della malattia. Di essa si occupa la medicina; se ne occupa in termini ‘oggettivi’, senza riguardo ai vissuti di coscienza, al profilo dunque per il quale la malattia non è un fenomeno biologico, ma è un vissuto umano. L’attenzione agli aspetti soggettivi, agli aspetti per i quali la malattia è esperienza del soggetto, o detto più semplicemente è esperienza umana, quando di fatto si renda necessaria, è assegnata alla competenza della psicologia, che di essa si occupa per riguardo alla sofferenza, o allo stress; non come di prova di quelle certezze delle quali il singolo ordinariamente vive. Il riferimento alla psicologia è sempre più netto quando si tratti di difficoltà nelle relazioni umane primarie, genitori e figli, coniugi, o in generale uomo e donna. Talcott Parsons afferma che nella società contemporanea alla famiglia sono assegnati in esclusiva due compiti decisivi per la vita individuale, «la socializzazione primaria dei figli […] e la stabilizzazione delle personalità adulte della popolazione di tale società». Non stupisce che la famiglia, affettiva e privata, stenti a realizzare tali compiti; nella difficoltà si rivolge a specialisti, tipicamente psicologi. È dubbio essi possano effettivamente provvedere; nulla sanno della verità profonda delle relazioni primarie. Origine delle scienze umane Oggi le “scienze umane” hanno ormai una collocazione formale nell’enciclopedia accademica dei saperi; essa però non risulta da un progetto epistemologico preciso. Le scienze umane sono nate una per una, a procedere da presupposti disparati. Solo in seconda battuta hanno trovato definizione per differenza rispetto alle scienze della natura. La riforma della scuola italiana del 2011 (Gelmini) ha previsto un liceo delle scienze umane, che sostituisce le magistrali e il liceo socio-psico-pedagogico. Le singole scienze umane sono psicologia, pedagogia, sociologia e antropologia. La più vecchia è la pedagogia; e proprio il suo caso illustra il difetto di sistemazione dell’enciclopedia delle scienze. La pedagogia è nata come ramo della filosofia morale; con questa sua fisionomia è scomparsa dalla Università; non esiste più la pedagogia, ma una facoltà (meglio un dipartimento) di scienze dell’educazione e della formazione. La pedagogia rimane, sotto il profilo nominale, nei licei. Ma anche lì è diventata scienze dell’educazione. Il passaggio dalla pedagogia alle scienze dell’educazione è indice eloquente del passaggio dell’interesse per l’uomo dalla filosofia alla ricerca scientifica. Il senso delle scienze umane Le scienze umane sono le nuove forme di approccio all’umano praticate dal sapere del Novecento. Di quel tema un tempo si occupavano filosofia e teologia, sotto il titolo di psicologia razionale, dottrina dell’anima elaborata dalla ragione. Tale dottrina assumeva la forma di una descrizione delle facoltà: spirituali (ragione e volontà) e sensibili (appetiti). Il modello teorico era quello di una “antropologia delle facoltà”; le facoltà erano definite dalla natura dell’uomo, dalla nascita. Mancava ogni riferimento alla forma che l’uomo prende nella storia, attraverso la vicenda biografica e la cultura sociale. Il naturalismo della visione convenzionale era il riflesso dell’immutabilità del costume e del grado assai alto di consenso culturale: le due circostanze consentivano di rappresentare quasi come naturali aspetti che in realtà erano plasmati dalla storia e dalla cultura. Con l’accelerazione del mutamento e le difficoltà dell’intesa reciproca, prima ancora con l’incertezza dei processi di identificazione, si impone l’evidenza della mediazione culturale e biografica dell’identità. La storiografia Certo, era presente anche in passato il riferimento alla storia, agli exempla, ai modelli ideali dell’umano offerti da personaggi eminenti, guerrieri, intellettuali e santi. Di essi si occupavano, a livello accademico, storici e letterari, le humanities. La memoria storica assume figura edificante e ‘scientifica’. Venendo meno il consenso culturale, si afferma la necessità di una memoria critica, scientifica, e non celebrativa. Il modello epistemologico diventa quello delle scienze della natura. Per riferimento alla natura, sapere scientifico vuol dire sapere oggettivo: senza necessità di coinvolgere il soggetto, la sua coscienza, l’immagine che egli ha di sé e del mondo. C’è un nesso stretto tra oggettività della scienza e sospensione di ogni interrogativo relativo al senso. È possibile un sapere scientifico della realtà umana? Ovviamente no. La discussione sulla storiografia negli ultimi anni dell’Ottocento, in ambito tedesco, cerca di definire le scienze dello spirito per differenza rispetto alle scienze della natura: erklären e verstehen, spiegare e comprendere (Dilthey); scienze in nomotetiche (che stabilisce delle leggi) e idiografiche (che descrive il singolo, così Windelband). Pur senza giungere a un modello concettuale chiaro, il dibattito di fine Ottocento segnala il concorso essenziale della storia alla determinazione dell’umano. Le scienze umane del Novecento Le nuove scienze del Novecento hanno fisionomia decisamente diversa. Il loro proposito non è comprendere. Esse nascono da difficoltà concrete incontrate nella vita di relazione; esse mettono in evidenza come i codici di intesa correnti, per secoli parsi idonei a garantire l’intesa, non funzionano. Si rende necessaria una riflessione, che allarghi l’orizzonte. In ordine ad una tale ricognizione occorre elaborare una nuova teoria generale dell’umano. Occorre superare il vecchio modello della antropologia delle facoltà. Un esempio: la coscienza morale e il modello di Freud. Le scienze umane concorrono alla fine dell’umanesimo proprio in forza del loro discorso meta-: esso immette nella comunicazione pubblica modelli di comprensione dell’umano distorti; essi non servono per dare risposta alle domande esistenziali, ma per dare risposta ai problemi di relazione. La meta-psicologia freudiana Consideriamo il caso della psicoanalisi. Essa nasce dal un progetto di cura della malattia nervosa mediante le parole; la malattia di cui Freud si occupa è la nevrosi. I sintomi sono interpretati secondo il modello dei sogni. L’Io della nevrosi è dormiente; la pulsione, per realizzarsi senza passare per la coscienza, crea soddisfazioni immaginarie. Il modello teorico (meta-psicologico) delle tre istanze: Es, Io e super-Io. Esso non intende valere come nuova concezione dell’umano; e tuttavia alimenta di fatto un modo di pensare l’uomo: la pulsione sarebbe mera energia; la coscienza (Io) funzione di calcolo di piaceri e dispiaceri; il super-Io istanza di controllo. Tra tutte le scienze umane la psicologia pare essere quella entrata in maniera più massiccia nella vita dei singoli. La distanza tra coscienza e società alimenta la regressione della coscienza individuale a forme soltanto emotive, proporzionalmente incapaci di autorizzare un comportamento responsabile. Appunto su questo sfondo dev’essere inteso il fatto che dei vissuti personali si occupino oggi psicologia e sociologia assai più di quanto facciano la filosofia o la teologia. Il caso della sociologia Anche per la sociologia l’interesse cognitivo di fondo è generato dalle difficoltà del rapporto sociale. Esse impongono di ripensare le ragioni dell’alleanza sociale. La filosofia della tradizione liberale facilmente rappresenta il rapporto sociale come contratto; vige il pregiudizio per il quale l’individuo è naturale, il rapporto è convenzionale. Il modello del contratto respinge il fondamento religioso che tradizionalmente veniva cercato per quell’alleanza. L’alleanza sociale un tempo era ‘naturale’, nel senso di spontanea. In epoca moderna diventa sempre più complessa e improbabile, non sostenuta da un orizzonte di senso condiviso; ogni sistema parziale di scambio (economia, famiglia, politica, cultura, religione) si separa dagli altri e si organizza in forma autoreferenziale. La frammentazione dei sistemi genera problemi di compatibilità reciproca; soprattutto, genera problemi di sostenibilità dei rapporti sociali da parte del singolo. Per intendere le nuove forme della realtà effettiva diventa necessaria un’elaborazione teorica altra rispetto a quella disposta dalla tradizione filosofica convenzionale. Specie i padri fondatori della sociologia hanno prodotto altrettante teorie generali della società, che – nelle loro prime intenzioni – certo non erano da intendere come filosofie del fatto sociale, ma come modelli meta-sociologici, elaborazioni concettuali cioè che aiutassero ad intendere i fenomeni. Un’illustrazione: il dribblaggio del problema della separazione tra coscienza e società. La riduzione della coscienza morale a coscienza collettiva in Durkheim, e cioè ai «modi di agire, di pensare e di sentire esteriori all’individuo e dotati di un potere di coercizione grazie al quale gli si impongono». La separazione delle due etiche, della coscienza e della responsabilità, in Weber. La cultura e l’antropologia culturale Categoria di rilievo strategico, per pensare il rapporto tra coscienza e società, è la cultura; ignota al pensiero tradizionale. Entrata ormai in maniera prepotente nel lessico familiare contemporaneo, la categoria è fino ad oggi assai imprecisa. Stenta ad assumere i tratti di una precisa disciplina in specie l’antropologia culturale. I cultori di essa mostrano nei tempi recenti una crescente insofferenza all’uso della categoria. La nozione continua invece a godere di grande favore, addirittura crescente, presso sociologi e cultori di Cultural Studies, coloro che dei processi di mondializzazione considerano gli inconvenienti. L’idea di cultura ha in ogni caso un bassissimo grado di elaborazione teorica (vedi il nostro progetto culturale). I compiti conseguenti per la teologia Necessità di un’’elaborazione teorica che consenta di cimentarsi con i dati empirici, evitando una troppo precipitosa fuga nel vangelo.