UNIVERSITA’ LA SAPIENZA Facoltà di Scienze della Comunicazione CORSO DI LAUREA IN SCIENZE E TECNOLOGIE DELLA COMUNICAZIONE IL BRAND DIVENTA STAR LA NOVITA’ DEL PRODUCT PLACEMENT NEL SISTEMA CINEMATOGRAFICO ITALIANO Relatore: prof. Andrea Piersanti Correlatore: prof. Massimo Canevacci Candidato: Antonio Micali Matr. 868355 Anno Accademico 2005/2006 1 2 Indice Introduzione alla lettura..........................................................5 Capitolo I Il Product Placement nel sistema cinematografico globale. Premessa...................................................................... 10 1. Marketing cinematografico e Product Placement........11 - Appendice. Il marketing cinematografico. 2. Brand e Product Placement.........................................13 - Appendice. Il brand. 3. Breve storia del Product Placement............................19 4. Il Product Placement in Italia dal Fascismo ai giorni nostri...........................................................................22 Capitolo II La novità del Product Placement italiano: la normativa. Premessa......................................................................26 1. Dalle “origini” agli anni ’90........................................27 1.1 Dal Fascismo agli anni ’80..............................................27 1.2 La svolta che arriva dall’Europa.......................................31 2. Dagli anni ’90 al 2004.................................................35 2.1 La repressione della pubblicità ingannevole in Italia......35 2.2 Il decreto 74/92, articolo 4: la trasparenza della pubblicità................................................................38 2.3 L’art. 4 e il Product Placement.......................................40 2.4 Il post-Decreto 74/92......................................................43 2.5 L’Autorità Garante e il Giurì in azione... ......................48 2.5.1. L’Autorità Garante..................................48 3 - Appendice. Provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. 2.5.2. Il Giurì..............................................50 - Appendice. Provvedimento del Giurì Pubblicità. della 3. Dal Decreto Urbani ad oggi......................................52 3.1 La fattibilità del Product Placement...............................52 3.2 Le conseguenze dell’art. 9.3...........................................55 4. Alcune riflessioni......................................................57 - Appendice. Intervista a Michele Lo Foco. Capitolo III Dal Decreto Urbani a Il mio miglior nemico: il Product Placement all’italiana. Premessa...................................................................64 1. Una tecnica che suscita interesse... .........................65 - Appendice. Analisi tecnica del Product Placement. 2. Le case di produzione cinematografiche..................71 3. Le agenzie di comunicazione e Product Placement....................................................76 - Appendice. Intervista a Gerardo Corti. 4. Le imprese commerciali...........................................79 5. Product Placement tra presente e futuro..................83 - Appendice. Oltre cinematografico. il Product Placement Conclusioni.........................................................................87 Appendice...........................................................................94 Bibliografia........................................................................147 Articoli, Tesi ed Altro... ...................................................148 Webgrafia..........................................................................148 4 Introduzione alla lettura. Osserviamo le immagini in copertina: 1895: L’uscita degli operai dalla fabbrica Lumière. 1926: The Texas Streak. 1969: Un maggiolino tutto matto. 1995: Golden Eye. 2005: L’uomo perfetto. 2006: Il mio miglior nemico e La cura del gorilla. Ecco una sintesi generale dei casi di Product Placement cinematografico dalla sua “nascita” ai giorni nostri. Ma perché per il 2005 e il 2006 ho scelto di riportare solo casi italiani? e, soprattutto, Perché non ho riportato casi di Product Placement italiano prima del 2004? Il motivo è molto semplice: non esistono casi “dichiarati” di Product Placement prima del 2004 proprio perché non era concesso il suo esercizio. La tesi che segue affronta in maniera abbastanza articolata – e a volte anche piuttosto critica – il rapporto che negli ultimi anni si è venuto a creare nel sistema italiano tra case di produzione cinematografica (e non) e imprese commerciali, in seguito alla promulgazione del Decreto Urbani, e, più nello specifico, in seguito alla liberalizzazione del Product Placement. Lo sviluppo normativo su questo tema si è dimostrato, in Italia, molto lento e, soprattutto, molto superficiale, considerando le difficoltà avute dai legislatori nel definire in quale frangente tale tecnica di marketing dovesse essere inserita; una difficoltà che ha portato il sistema giuridico italiano a non ritenere il 5 Product Placement né lecito, né illecito, fino agli anni ’90, quando – a mio parere erroneamente – cominciò ad essere considerato perseguibile ai sensi dell’art. 4.1. del D.lgs 74/92 incentrato sulla pubblicità ingannevole. Oggi il sistema normativo italiano è riuscito a togliersi ogni dubbio: la promulgazione del D.lgs 28/2004 e i successivi decreti attuativi, hanno aperto il campo a tutta una serie di possibilità che non riguardano tanto il contenuto filmico, quanto l’effettiva possibilità di produrre, e di agire su nuovi mercati, anche internazionali. La liberalizzazione del Product Placement offre vantaggi prestigiosi a tutte le parti in causa. Le case di produzione si servono di finanziamenti da parte delle imprese commerciali per produrre il film, offrendo in cambio una visibilità del loro brand al suo interno; parallelamente le imprese commerciali sfruttano un mezzo di grande presa – come il cinema – per pubblicizzare il proprio prodotto in un contesto sicuramente più naturale e meno invasivo di quanto non lo sia lo spot pubblicitario. Senza contare che la nascita di un nuovo “terreno di conquista” come il Product Placement richiede competenze e capacità mirate, permettendo così lo sviluppo di agenzie fortemente specializzate che diventano “mediatori-creativi” del rapporto tra casa di produzione e impresa commerciale. Essendo quello del Product Placement un argomento particolarmente complesso, che tocca i campi più disparati, ho ritenuto opportuno analizzare lo sviluppo di questo fenomeno in Italia dal 2004 ad oggi, analizzando il fenomeno su livelli differenti. Il primo capitolo, infatti, affronta il tema del Product Placement nella sua accezione più ampia; dalla definizione al rapporto col marketing cinematografico e con il brand, per poi concludere con lo sviluppo del Product Placement cinematografico nel mondo, e in Italia. 6 Il secondo capitolo invece affronta l’evoluzione normativa del Product Placement in Italia individuando tre fasi storiche determinanti alle quali corrispondono tre diverse considerazioni del Product Placement: la prima fase parte dal periodo fascista fino agli anni ’90 – il Product Placement non è considerato né lecito né illecito... semplicemente non è considerato, punto. La seconda fase, invece, va, storicamente, dagli anni ’90 al 2004 – il Product Placement viene considerato come una forma di “pubblicità ingannevole” e quindi perseguibile ai sensi dell’art. 4.1. Infine, la terza fase è quella che parte da Febbraio 2004 fino ai giorni nostri – ossia la fase di legalizzazione del Product Placement attraverso l’art. 9.3. del Decreto Urbani e i successivi decreti attuativi. Il terzo capitolo, e ultimo di questa tesi, affronta le conseguenze che il Decreto Urbani ha avuto nel contesto pubblicitario e cinematografico italiano, a partire dall’interesse creatosi sul tema del posizionamento cinematografico del brand e sfociato nei vari convegni e incontri tra i diversi “addetti ai lavori”, fino alle trasformazioni avvenute nei tre attori principali – case di produzione, imprese commerciali, e agenzie di comunicazione e Product Placement – che hanno cominciato ad adattare il proprio modus operandi a questa nuova opportunità. Il capitolo si conclude, infine, con uno sguardo rivolto verso il futuro, verso le ulteriori opportunità che questa liberalizzazione porta con sé. Perché se inserire un prodotto all’interno di un’inquadratura di un qualsiasi film può garantire un qualche margine di profitto, o, quanto meno, di visibilità, che cosa potrebbe accadere se quello stesso prodotto prendesse vita sullo schermo, diventando così protagonista del film? La tesi affronta il tema dell’integrazione del brand nel film italiano anche attraverso il parere degli esperti del settore, come Michele Lo Foco, avvocato e presidente di Cinecittà 7 Diritti, il quale ha giocato un ruolo importante nella realizzazione dell’art. 9.3. del Decreto Urbani, e Gerardo Corti, presidente dell’agenzia di comunicazione e Product Placement JMN & DY di Lecco, uno dei principali “profeti” di questa tecnica in Italia. Ciascun capitolo della tesi verrà introdotto da una struttura particolarmente originale: ho deciso di creare una testata giornalistica fittizia, che ho chiamato From Brand to Star Journal, all’interno della quale è presente il titolo del capitolo che introduce – che si presenta al lettore come titolo della prima pagina della testata – e una sorta di riassunto del capitolo seguente – costruito come se fosse un articolo. Ovviamente, il mio consiglio non è quello di fermarsi al riassunto, ma di andare oltre, ve ne sarei veramente grato... Un ultimo appunto sulla struttura della tesi. Allegato al testo è presente un cd-rom all’interno del quale vi è una sorta di appendice, che permette di approfondire determinati argomenti che vengono trattati in maniera superficiale nel testo, in quanto non determinanti per la realizzazione di questa tesi. Ho deciso di realizzare questa appendice al fine di rendere la tesi stessa accessibile tanto agli addetti ai lavori – che sicuramente riterranno sufficiente quanto riportato sul testo – quanto a chi si avvicina per la prima volta a questo tema – e che può trovare negli allegati ulteriori delucidazioni. Inoltre nell’allegato vengono riportate per intero le interviste da me realizzate e che nella tesi vengono solo accennate o ridotte all’essenziale. Quanto riportato su questo testo mi permetterà di rispondere a una domanda che, alla luce dei fatti avvenuti dal 2004 a oggi, è finalmente possibile porsi: Può la tecnica del Product Placement integrarsi positivamente nel sistema cinematografico italiano? 8 9 Premessa. La tecnica del Product Placement non è una “novità” come potrebbe sembrare, ma si tratta di una tecnica di marketing conosciuta già da parecchi anni tra i cosiddetti “addetti ai lavori” e, soprattutto, nel contesto pubblicitario americano. Per quanto possa apparire come “scontata”, ritengo sia comunque importante offrire ai lettori di questa tesi una presentazione, diciamo, “genetica”, di questa tecnica. Come proporre un’analisi sugli effetti del Product Placement in Italia se prima non si è parlato del Product Placement in sé. Ricostruiamo, quindi, questa tecnica partendo dal primo elemento: la definizione. Che cos’è il Product Placement? Il Product Placement è una particolare tecnica di marketing che consiste nel posizionamento di un brand/prodotto all’interno di un contesto apparentemente inusuale, come, ad esempio, un film. Il brand/prodotto si integra perfettamente nel normale svolgimento narrativo, senza interromperlo. Il posizionamento avviene in seguito ad accordi stipulati tra imprese commerciali e case di produzione, attraverso la mediazione svolta da agenzie specializzate (di comunicazione e product placement). Alla luce di questa prima definizione è possibile evidenziare l’esistenza di un legame tra il Product Placement e due concetti determinanti nel mondo della comunicazione e dell’immagine: - il marketing (con particolare riferimento al marketing cinematografico); - il brand. Vediamo quindi di analizzare il perché dell’esistenza di tale legame1. 10 1. Marketing cinematografico Placement. e Product Il Product Placement cinematografico rappresenta una tecnica di marketing cinematografico a tutti gli effetti in quanto si inserisce con specifici strumenti e modalità all’interno di uno specifico sistema produttivo. Entrare a far parte del processo produttivo cinematografico vuol dire partecipare in maniera attiva ad un sistema che negli ultimi 30 anni ha subito un’importante trasformazione, legata tanto ai mezzi di diffusione entrati in gioco quanto alla trasformazione della figura del pubblico. Il passaggio avvenuto dalla vecchia alla nuova filiera cinematografica è ben rappresentato dal seguente grafico: Vecchia filiera cinematografica Produzione – Distribuzione – Esercizio Spettatore cinematografico Nuova filiera cinematografica Televisione/Pay-TV Internet Produzione - Distribuzione Esercizio Consumatore filmico Home-Video DVD, ... Qual è il rapporto rintracciabile tra il nuovo spettatore cinematografico (detto consumatore filmico), le nuove modalità di fruizione del messaggio (che vanno a sommarsi alla sala) e il Product Placement? 11 La nuova filiera cinematografica garantisce all’applicazione della tecnica del Product Placement maggiori margini d’azione, e, quindi, di successo. Facciamo un esempio generico per spiegare meglio questo concetto. Un film viene prodotto da una casa di produzione, la quale, attraverso un’agenzia, ha stipulato accordi di Product Placement con un’impresa commerciale. Se il film fosse trasmesso solo nella sala cinematografica, il consumatore sarebbe essenzialmente lo spettatore cinematografico della vecchia filiera. Ma questo film non verrà trasmesso solo in sala, dato che i diritti verranno poi acquistati da una rete televisiva, da un canale Pay-per-wiev, e, ancora, del film stesso verrà prodotta la versione VHS, quella DVD, … e così via. Il film non verrà quindi consumato dal solo spettatore cinematografico, bensì dal consumatore filmico; anche gli effetti del Product Placement verranno così percepiti da un target molto più ampio, garantendo maggiori margini di successo. Molti studiosi osservarono, quando il Product Placement aveva cominciato a prendere piede, che un limite di questa tecnica fosse l’impossibilità di reiterare il messaggio; quanto detto finora smentisce l’esistenza di un limite del genere. La moltiplicazione degli spazi permette al messaggio di essere trasmesso più e più volte, anche se con livelli di frequenza non calcolabili. È ovvio che la moltiplicazione degli spazi d’azione a disposizione non garantisce l’effettivo successo del placement. E sono altri i fattori negativi da tenere in considerazione, la maggior parte dei quali “esterni”, ossia non direttamente controllabili: - il gradimento del film; - le percezioni associate al placement dell’offerta; 12 - la comunicazione promozionale alla diffusione della pellicola; - i giudizi della critica; - la percezione che il pubblico ha dei personaggi del film; - l’associazione del brand ad un’immagine percepita come negativa; e così via. Non mancano, tuttavia, i vantaggi legati all’utilizzazione di questa tecnica, quali: - la predisposizione di un effetto enfasi, che aumenta il livello di verosimiglianza del racconto; - la presentazione pianificata di prodotti e marche, ossia un’offerta “visiva” ottimale del prodotto o brand in questione; - l’interesse attivo dell’audience, ossia pubblicizzare un prodotto sfruttando il livello d’attenzione che il pubblico sviluppa nei confronti del film; - un livello predeterminato d’affollamento, ossia la predisposizione di un tot di brand presenti nella pellicola; - l’elevata segmentazione dell’audience, ossia la presenza di determinati brand in determinati film, in modo da tenere in considerazione quale segmento di pubblico consuma quel particolare genere, o quel particolare film con uno specifico attore, e così via; - la presentazione di particolari categorie di prodotto con vincoli e limiti di pubblicità; - la gradualità dell’investimento. 2. Brand e Product Placement. Che esista un legame inscindibile tra la presenza di un brand nel contesto cinematografico – e non – e l’applicazione del Product Placement, è sempre stato talmente ovvio da aver 13 creato sempre dubbi e interesse anche quando questo rapporto in realtà risultava essere del tutto casuale. Il Product Placement rientra a tutti gli effetti nella categoria degli strumenti capaci di produrre uno stimolo pubblicitario. Nel caso di Product Placement cinematografico un medium – il cinema – trasmette un messaggio – l’immagine “brandizzata” di un film – al pubblico, il quale lo elabora e lo apprende. La reazione dello spettatore sarà una (possibile) propensione all’acquisto. La presenza di un brand all’interno di un film, nel momento in cui viene percepito dal pubblico, aumenta la sua brand awareness, ossia la conoscenza che il consumatore possiede di un determinato brand o di una specifica categoria di prodotto. Questo risulta essere molto utile non solo per i grandi brand che, all’interno di una stessa categoria lottano per restare o diventare top of mind, ma anche per i brand in crescita, che si affidano al Product Placement per aumentare la conoscenza che il pubblico ha di loro2. Molti posizionamenti cinematografici, inoltre, avvengono tenendo in considerazione la brand identity (caratteristiche fisiche, personalità, universo culturale del prodotto, ... tutti quei fattori che contribuiscono nella determinazione dell’identità di una marca) del prodotto in questione. Questo si verifica soprattutto nei casi di Product Placement Culturale3. A livello puramente teorico – poiché non è possibile presupporre con certezza il successo di un Product Placement – la presenza di un prodotto all’interno di uno spettacolo cinematografico può contribuire ad aumentare positivamente il Power Grid – il valore che il consumatore attribuisce a una marca – di un brand. Quello che invece non si può assolutamente prevedere è l’aumento della sua brand equity – il valore effettivo, tanto personale quanto economico, di un 14 brand – proprio perché non è presumibile che l’esposizione del pubblico al brand nel film determini l’acquisto del prodotto stesso nei negozi e, conseguenzialmente, aumenti il potere finanziario dell’impresa. Senza contare che il posizionamento di un prodotto all’interno di un film non garantisce al 100% che quel prodotto verrà percepito positivamente dal pubblico. Essi infatti potrebbero crearsi un’immagine negativa del prodotto perché associata a personaggi negativi nel film, ad attori poco ammirati, o a scene poco gradite. Si avrebbe così non solo una diminuzione del Power Grid del brand (e quindi della sua brand image), ma anche della sua brand equity. Ma quali sono le “sembianze” del brand sul grande schermo? Un brand si presenta sul grande schermo attraverso il suo brand name, indicatore primario della marca, primo punto di contatto con l’esterno, dimensione fondamentale della notorietà, base di tutta la comunicazione. Il nome del brand è la metonimia del patrimonio di senso che la marca ha accumulato e capitalizzato nel suo divenire. Il suo aspetto determinante è la memorabilità: un buon appellativo commerciale si dovrebbe ricordare facilmente. In genere il ricordo è favorito quando il nome è abbastanza insolito da generare curiosità e attirare l’attenzione del pubblico. Questo particolare aspetto dell’identità di marca – definito come Visual Brand Identity – si suddivide in 4 categorie principali: - I nomi propri. Un gran numero di appellativi commerciali deriva dai nomi propri. Siano nomi patronimici, pseudonimi, nomi di personaggio, mitologici, storici oppure geografici, essi sono in grado di attribuire alla marca personalità e identità, attraverso 15 un trasferimento di significati dal particolare, dall’individuale (nome di persona, di cosa, ...), al generale, al globale (nome di una serie, di una marca, di una famiglia di oggetti, ...). La Benetton è un esempio di nome patronimico che porta il nome di una persona, generalmente un fondatore , capostipite di una dinastia di imprenditori e dunque di una famiglia. L’Aiax è un esempio di nome mitologico poiché deriva da Aiace (nome di due eroi greci della guerra di Troia). - I nomi descrittivi, associativi, espressivi. Il brand name può essere in grado di suggerire il posizionamento del prodotto. Nomi comuni, aggettivi, verbi, avverbi, funzionano, in questa direzione, come precisi indicatori. Capaci di illustrare, raccontare, spiegare. Ma anche di produrre utili associazioni simboliche, particolarmente attinenti alla nazionalità e all’utilizzo del prodotto o del servizio. Mentadent o Fila & Fondi sono nomi descrittivi, un condensato di informazioni sulle performance e sulle promesse della marca. Activia o Vitasnella sono nomi associativi, che utilizzano un’immagine o un’idea particolarmente impattante per “dire” della marca. Clic-Clac o Tic Tac sono nomi espressivi, capaci di rinviare, grazie a una precisa sonorità o musicalità, ad una peculiarità o a un tratto caratteristico della marca. - Il logo. Si tratta della prima forma di comunicazione della marca: è il referente principale che stabilisce un’iniziale “patto silenzioso” col consumatore. La natura del logo è simbolica, convenzionale ed emblematica. Parliamo di logo: 16 quando il segno in questione è la rappresentazione di una parola, di un nome, di un’iniziale, di una sigla il cui referente è un’espressione di tipo fonologico/alfabetico (Esempi: Ford, Champion, American Express). quando il referente iconico è un oggetto, un simbolo, una figura più o meno stilizzata, un personaggio (Esempi: Kellogg’s, Apple, Nike). quando si viene a generare una soluzione intermedia che contiene lettere e immagini, che comunica, cioè, messaggi visuali composti (Esempi: McDonald’s, Ferrari, BMW). 17 - Il packaging. In origine, il packaging nasce per contenere e proteggere i prodotti. Oggi, invece, il packaging è divenuto una vera e propria risorsa di comunicazione per le imprese. Il packaging è capace di rendere competitiva una marca, persino di divenire il tratto di riconoscibilità per eccellenza. Marche come Coca-Cola, Toblerone e Pringles hanno costruito la propria identità attraverso la peculiarità e la distintività del packaging. Alcune, addirittura, hanno reso il pack del prodotto, parte determinante della narrazione pubblicitaria: è il caso dell’Absolut. 18 Ciascuna di queste categorie analizzate finora (nomi propri, nomi descrittivi-associativi-espressivi, logo e packaging) rappresentano quindi la “personificazione” del brand all’interno di un qualsiasi contesto, quindi anche filmico. In particolare, data la natura del messaggio cinematografico, il logo e il packaging si prestano alle strategie di placement con maggiore efficacia e immadiatezza. Alcuni marchi (così come alcuni pack) vengono inseriti all’interno di una sceneggiatura con la consapevolezza che il pubblico saprà riconoscerli anche senza ulteriori chiarimenti o riferimenti che, a quel punto, apparirebbero come innaturali e artificiosi. La sinuosità femminile della bottiglia di Coca-Cola o il “baffo” della Nike sono talmente rappresentativi della propria impresa da non richiedere precisazioni. 3. Breve storia del Product Placement. Quali sono le origini del Product Placement? Se volessimo riportare una storia del Product Placement in quanto forma di mecenatismo, dovremmo partire addirittura dal Medioevo, quando era una pratica comune raffigurare il mecenate, di solito un personaggio in vista, all’interno di un’opera pittorica – pratica che si sviluppò ulteriormente in epoca rinascimentale4. Per parlare invece di Product Placement cinematografico dobbiamo saltare al 19 Marzo 1895, quando i fratelli Lumiere girarono il primo film della storia, L’uscita degli operai dalla fabbrica Lumiere: cinema e Product Placement nascono quindi contemporaneamente. E questo non fu nemmeno l’unico caso: i Lumiere infatti trovarono modo di posizionare i propri cartelli anche ne La collera dell’affissore del 1896, dove alcuni colleghi litigano mentre stanno attaccando i cartelloni pubblicitari dei due fratelli. 19 È utile, comunque, fare una precisazione: il cinema dei primi anni è, per lo più, di natura “autopromozionale”, mira cioè a mostrare al pubblico il cinema in quanto magnifico strumento di comunicazione; il suo contenuto diciamo che è solo marginale. Per questo motivo, nonostante le caratteristiche sembrino presentare i film dei Lumiere come esempi di Product Placement, essi non lo sono a tutti gli effetti. Il primo vero esempio di Product Placement possiamo rintracciarlo in Cripple Creek Bar-Room Scene, il primo film western della Storia, filmato nel 1899, della durata di 46 secondi. Il film è ambientato all’interno di un saloon con tre cow-boy e la ragazza del bar. Dietro la barista c’è un cartello con la scritta Ballantine’s. Ovviamente non si può sapere con certezza quale accordo ci sia stato fra la produzione Edison e la Ballantine’s, ma è certo che in quel periodo il cinema fosse sotto osservazione da parte delle aziende e, sicuramente, la caratterizzazione di un ambiente “da duro” come un saloon poteva essere vista come un ottimo mezzo per un whisky scozzese per conquistare il mercato americano. Il 1926 vedrà l’esordio di uno dei principali “attori commerciali” della storia del cinema: nel film The Texas Streak farà la sua comparsa un cartello con la scritta CocaCola. Il prodotto comincia ad essere posizionato anche in modo dinamico, utilizzato dagli attori, come avviene in Sturme der Leidenschaft, un film di Robert Siodmak girato in Germania nel 1931: questo film si apre nelle cucine di una prigione piene di scatoloni di dadi Maggi. Il capocuoco assaggia la minestra e dopo aver fatto una faccia schifata rimprovera il cuoco dicendogli che per fare un buon brodo bisogna usare i dadi. Ne prende tre da un vassoio e dopo averli sbriciolati li getta nell’acqua bollente. 20 L’evoluzione tecnologica del cinema permette l’evoluzione tecnica del Product Placement. Con l’acquisizione del sonoro diventa fattibile la citazione della marca, cosa che avviene per la prima volta nel caso de I figli del deserto del 1934 in cui gli attori “chiedono” una Coca-Cola. Il Product Placement ritrova nel cinema un altro alleato potente, oltre al sonoro: la star. Nel film Accadde una Notte Clark Gable non indossa alcuna canottiera sotto la camicia, fatto che provoca nel giro di poco tempo una crisi nella vendita dell’intimo maschile. La star diventa uno strumento utile ai fini del Product Placement, come viene dimostrato ancora da casi come Susanna di Hawks – in cui si assiste al primo esempio di pubblicità comparativa tra le palline da golf Pca e quelle della Kranfly – o Laura di Preminger – in cui la figura dell’attore e quella del personaggio vengono associate al whisky Black Pony, da quel momento tra gli alcolici più richiesti e ricercati. A questo punto molti cominciarono a intravedere l’importanza e l’utilità che potevano nascere da accordi tra le aziende e le case di produzione, così nel 1939 ne Il romanzo di Mildred, Joan Crowford si trovò faccia a faccia con il Jack Daniel’s. Da questo momento in poi i casi di associazione tra star e prodotto si sprecano5. Il 1963 segna un altro punto di svolta nel mondo del Product Placement con la nascita del testimonial-movie per eccellenza: James Bond. Compagni delle sue avventure diventano Martini, Walter Ppk, Aston Martin, Dom Perignon del ’56, … e altri ancora. Il Product Placement diventa “commercialmente ufficiale” nel 1968 con 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, anche se l’esempio da manuale, secondo molti esperti, è dato da E.T. di Spielberg del 1982. Da questo momento in poi il Porduct 21 Placement diventa uno strumento di comunicazione aziendale a tutti gli effetti, con delle regole ben precise. 4. Il Product Placement in Fascismo ai giorni nostri. Italia dal Il primo Product Placement italiano lo si può trovare durante il Fascismo, quando la nascita dei film di propaganda aveva portato la necessità di “pubblicizzare” il benessere garantito dal regime. I prodotti aumentano negli anni successivi alla guerra. Arrivano i prodotti americani, capitanati dalla Coca-Cola, che hanno così la possibilità di conquistare il nostro mercato. Il Product Placement segue lo sviluppo economico dell’Italia e comincia, attraverso il cinema a influenzare le mode e i gusti dei suoi abitanti. Con gli anni del boom arriva anche la televisione e con essa il Carosello. Il Carosello si presenta come la versione ridotta di quello che succedeva al cinema, in cui gli attori rivivevano avventure analoghe a quelle del grande schermo circondati da merci d’ogni tipo. Ovviamente la differenza tra Carosello e Product Placement è sostanziale: se in entrambi i casi si assiste a un’integrazione del prodotto e della storia nello stesso programma, in Carosello i due elementi sono scissi (come dimostra l’esistenza del pezzo – la storia – e del codino – la pubblicizzazione del prodotto), mentre nel Product Placement sono fusi. Le pellicole, soprattutto quelle comiche, si riempiono di marche più o meno integrate. Se c’è stato un periodo storico nel quale, forse, sarebbe stato giusto vietare il Product Placement per proteggere lo spettatore “indifeso” è stato proprio questo, vista l’impreparazione degli italiani a questo tipo di comunicazione pubblicitaria. Con l’arrivo degli anni ’70 la situazione degenera e i posizionamenti diventano sempre più invasivi. Qualunque film 22 è adatto per inserire prodotti. Dal thriller italico alle commedie sulle liceali, dall’horror all’erotico, dal poliziesco al film d’autore, è un tripudio di pacchetti di sigarette mostrati in primo piano, acqua Pejo a tavola, bagnoschiuma Vidal per il bagno o la doccia della protagonista e superalcolici che spuntano in ogni luogo. La situazione non migliora negli anni ’80 e ’90, pur diminuendo vistosamente il numero dei prodotti presenti in ogni film. Finché non arriva il decreto legislativo 74/92 sulla pubblicità ingannevole che dichiara l’illegalità di pratiche assimilabili al Product Placement. Inizia così un decennio caratterizzato da diffidenza, dall’impossibilità da parte delle produzioni cinematografiche di ottenere finanziamenti dalle aziende e da posizionamenti improvvisati grazie ai cambimerce, che consentivano di inserire i propri prodotti all’interno di un film senza nessun tipo di garanzia. In Italia la pratica del Product Placement è stata considerata illegale per svariati motivi, di cui i principali erano a. l’impossibilità di riconoscerne la natura pubblicitaria; b. la tutela del consumatore (che non è cosciente della sua attivazione); c. la tutela degli autori (costretti a “rovinare” il proprio film con la pubblicità); d. la tutela degli imprenditori concorrenti (che non potevano confrontarsi in maniera obiettiva all’interno di un film sponsorizzato da una casa concorrente). A tal proposito Mario Mazzeo, nella sua Tesi di Laurea La pubblicità occulta scrive: è auspicabile che, così come è avvenuto per la pubblicità comparativa, anche per il product placement si giunga, in Italia a una regolamentazione che non vieti semplicemente, 23 ma regoli il fenomeno, consentendo di garantire una più efficace tutela dei consumatori, ma anche la libertà di iniziativa economica. Un’osservazione astratta che si concretizza il 22 Gennaio 2004, col Decreto Urbani, elemento normativo di partenza dal quale prenderanno forma, a livello “Product Placement Movie” come L’uomo Perfetto, Melissa P. o Il mio miglior nemico. Alla luce di quanto detto, ricostruire un iter normativo del Product Placement diventa un’impresa, per quanto ardua, comunque possibile. Divideremo, quindi, questo percorso in 3 periodi storici, partendo dal periodo fascista fino ad oggi. E’ possibile avere ulteriori informazioni sul concetto di marketing cinematografico e di brand consultando il cd-rom allegato alla tesi. 2 A tal proposito, emblematico è il caso Pasta Garofalo, che ha investito il 100% del proprio budget in comunicazione nel Product Placement. 3 Per avere maggiori informazioni sul concetto di Product Placement Culturale, consultare il cd-rom allegato alla tesi. 4 Si pensi a La comitiva dei Re Magi di Benozzo Bozzoli (1460), esposto al Palazzo Medici-Riccardi a Firenze, in cui si può notare tutta la famiglia Medici al seguito dei Re Magi. 5 Citiamone solo alcuni: Khatarine Hepburn e il Gordon’s Gin in La regina d’Africa, Marilyn Monroe e la Coca-Cola in Come sposare un milionario, Tony Curtis e la Shell in A qualcuno piace caldo. 1 24 25 Premessa. È possibile ricostruire un percorso normativo italiano circa il Product Placement? In effetti, non si tratta di una procedura tanto semplice, e il motivo è sostanziale: non esiste una vera e propria storia normativa su questo argomento. La risposta alla domanda sopra riporta appare, quindi, ad una prima riflessione, negativa. Ma riflettendo più attentamente è possibile fare due interessanti considerazioni: In generale, il panorama cinematografico italiano, e in particolare il film in sala, permettono di osservare il comportamento di imprese commerciali, case di produzione cinematografica e agenzie pubblicitarie sul tema del Product Placement. Attraverso questo aspetto più tangibile, unito alle norme del periodo, si avrà la possibilità di commentare e capire il perché di determinate decisioni in determinati momenti. Se, da un lato, il termine Product Placement non viene mai menzionato nel sistema normativo italiano, è importante sottolineare, dall’altro, che il suo concetto, ossia quello di pubblicizzazione di un prodotto attraverso un mezzo di diffusione non convenzionale (appunto il film in sala o in TV) può essere utile al fine di ritrovare nel “Codice della Pubblicità” una serie di norme legate all’argomento, e che, in maniera più o meno importante, una dopo l’altra, hanno portato alla nascita del decreto “più ufficiale” su questo tema: il decreto “Urbani”. 26 1. Dalle “origini” agli anni ’90. 1.1. Dal Fascismo agli anni ’80. A partire dal regime fascista, passando attraverso gli anni che hanno caratterizzato il secondo ‘900 italiano, dalla Ricostruzione al Miracolo Economico, dagli “Anni di Piombo” a quelli del consumismo sfrenato, ebbene, non è possibile, a livello normativo, trovare un qualsiasi riferimento sul tema del posizionamento del brand/prodotto all’interno di sistemi inusuali (come possono esserlo, appunto, i film). E allora, per quale motivo dovremmo partire proprio dalla seconda metà degli anni ’30 nella nostra opera di ricostruzione? Innanzitutto, lo studio che mi appresto a fare mette su piani, a volte convergenti, altre divergenti, il Product Placement e la cosiddetta “pubblicità ingannevole”, che, secondo molti studiosi, in Italia risale proprio al ventennio fascista. Inoltre, si è scelto questo punto di partenza poiché, secondo gli studi e le ricerche svolte dalla JMN & DY1 l’utilizzazione di questa tecnica in Italia è riconducibile proprio al Fascismo. In generale, la legislazione fascista sulla pubblicità si basava preferibilmente sulla censura preventiva, pur limitandola ad alcuni settori merceologici di più immediato interesse sociale, e integrandola, sul piano generale, con un sistema censorio di pubblica sicurezza e con quello sanzionatorio del Codice Penale e di altre leggi speciali. Nel caso del cinema, parliamo di uno strumento di grande impatto sociale, e di conseguenza, di carattere potenzialmente propagandistico se nelle mani di un regime come, appunto, quello fascista; appare chiaro, dunque, come il cinema fosse un strumento utile alla “pubblicizzazione dei prodotti derivanti dal regime fascista”2. 27 Da queste considerazioni possiamo giungere, quindi, ad una prima conclusione: pubblicizzare un prodotto attraverso lo spettacolo cinematografico non poteva ritenersi, effettivamente, illegale. Altre leggi sembrano avallare – in senso lato – questa ipotesi: nel Regio Decreto 21 Giugno 1942 n. 929 (Testo delle disposizioni legislative in materia di brevetti per marchi d’impresa, modificato dal Decreto Legislativo 4 Dicembre 1992 n. 480), nel quale si parla di Diritti di Brevetto e Uso del Marchio, si può osservare come non vi siano articoli (in particolare legati all’Uso del Marchio) che vietino l’utilizzazione del brand per scopi pubblicitari attraverso sistemi di diffusione eccezionali3. Come ulteriore prova di questa conclusione vorrei riportare un’osservazione che ho fatto durante le ricerche da me svolte per la realizzazione di questa tesi. Tra i diversi libri che ho utilizzato per documentarmi, ho avuto modo di leggere un libro di Maurizio Fusi, L’autodisciplina pubblicitaria in Italia, rassegna completa delle decisioni del Giurì (1983), un libro che racconta la nascita e l’evoluzione dell’Autodisciplina Pubblicitaria in Italia, a partire dalle influenze straniere fino agli anni di pubblicazione del libro. Il testo riporta, inoltre, gli articoli del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria che, se violati, spingono il Giurì della Pubblicità e il Comitato di Controllo ad intervenire, e, infine, tutti gli interventi di questi organismi di controllo. In particolare mi sono concentrato sull’articolo 7: La pubblicità deve sempre essere riconoscibile come tale. Nei mezzi in cui, oltre alla pubblicità, vengono comunicati al pubblico informazioni e contenuti di altro genere, la pubblicità inserita deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti. 28 In questo testo viene riportato come esempio di pubblicità che viola l’articolo 7, la cosiddetta pubblicità redazionale4. Gli interventi pratici del Giurì riportati sul testo di Fusi sono 12. Ma, a pensarci bene, anche il posizionamento di un marchio o di un prodotto in un film può essere considerata una “pubblicità non riconoscibile come tale”; e se pensiamo che gli anni ’60, e, soprattutto, gli anni ’70, a livello cinematografico, assistono a un posizionamento sempre più invasivo del brand, allora è lecito chiedersi: perché ben 12 interventi per la carta stampata e nessuno per il cinema? Non sarà che, in assenza di norme ad hoc, di una sorta di “corrispettivo normativo” a livello statuale, il Giurì preferiva non intervenire in questo campo? In realtà il motivo è molto più semplice, ma avremo modo di parlarne dettagliatamente più avanti. Ma se, dal lato della vittima/consumatore gli interventi erano nulli in quanto privi di fondamento normativo, dal lato della vittima/concorrente l’azione legale era più che fattibile: si pensi all’articolo 2598 del Codice Civile, relativo alla Concorrenza Sleale. Il terzo atto di questo articolo attribuisce lo svolgimento di una forma di concorrenza sleale a chi si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della concorrenza professionale o idoneo a danneggiare l’altrui azienda. Qual è allora il motivo di questa contraddizione normativa? Secondo Maurizio Fusi il pensiero giuridico italiano si è per lungo tempo rifiutato di comprendere e interpretare correttamente un fenomeno così particolare e complesso come è quello della pubblicità, pretendendo per contro di considerarlo alla stregua della comunicazione commerciale tradizionale. Di qui l’iniziale ricorso al concetto del dolus bonus5 (scomparso proprio grazie all’art. 2598) o ad assiomi secondo cui per la natura “tipicamente ingannatoria e tendenziosa” 29 della pubblicità, il pubblico sarebbe di regola scettico verso i suoi messaggi e sempre in grado di cogliervi l’eventuale menzogna6. Ma uno squilibrio del genere non è destinato a durare: il 24 Settembre 1971 la Corte d’Appello di Milano afferma che: “la tendenza a considerare i destinatari dei messaggi di pubblicità come affetti da una sorta di costituzionale e fanciullesca disponibilità a cadere vittime di qualsiasi grossolano tranello, vero o immaginario, deve pur trovare qualche limite…” Nel 1973 due decisioni di merito edite affermano senza ambiguità che la pubblicità ingannevole, per la sua idoneità a sviare il giudizio dei consumatori, a detrimento dei concorrenti, costituisce violazione dell’art. 2598, n. 3, del Codice Civile. Inoltre, il Tribunale di Milano arriva espressamente ad affermare l’irrilevanza della “normalità” del ricorso a pubblicità ingannevole da parte delle imprese di un determinato settore, superando così l’argomento cardine a sostegno della regola del dolus bonus secondo cui “le affermazioni mendaci provenienti da più imprese si neutralizzerebbero a vicenda”. Perché diventa importante parlare in questa dell’estensione del potere d’azione dell’art. 2598? sede In base alle ricerche da me svolte, ritengo importante questo articolo in quanto simbolo di un cambiamento in atto non solo in Italia, ma anche in Europa, in materia di pubblicità ingannevole. In particolare, ritengo che l’art. 2598, insieme alla Direttiva 84/450/CEE (di cui parleremo nel prossimo paragrafo) rappresentano “l’embrione normativo” del Product Placement italiano. 30 1.2. La svolta che arriva dall’Europa. Come abbiamo avuto modo di osservare finora, la normativa legata alla pubblicizzazione del prodotto attraverso il lungometraggio (cinematografico o televisivo che sia) appare piuttosto evanescente e contraddittoria. Oltre ai motivi sopra riportati, ne esiste sicuramente un altro di grande rilievo: in Europa, in seguito al secondo conflitto mondiale, cominciano a svilupparsi nei paesi industrializzati le premesse per la riconsiderazione del problema della comunicazione pubblicitaria ingannevole in una nuova prospettiva. Premesse di cui se ne farà carico, a partire dai primi anni ’70 la CEE. Nel 1975, infatti verrà emesso il Programma preliminare della CEE per una politica di tutela e informazione dei consumatori, prevedendo, come precisa priorità, l’adozione di mezzi appropriati per proteggere i consumatori dalla pubblicità falsa ed ingannevole. E, sempre nello stesso anno, la Commissione CEE presentava un primo draft di direttiva sulla pubblicità ingannevole e sleale. Vive obiezioni arriveranno dagli operatori della pubblicità – utenti, mezzi ed agenzie – basate sulla considerazione dell’inutilità di una regolamentazione da parte degli ordinamenti statuali, vista l’esistenza dell’Autodisciplina Pubblicitaria. Dopo 4 anni di continue trasformazioni e revisioni, si giungerà, nel 1978, alla Proposta di Direttiva, revisionata e sottoposta in via definitiva nel 1979 al Consiglio delle Comunità, in una versione che trovava sostanzialmente concordi tanto le organizzazioni dei consumatori facenti capo al Bureau Européen des Unions de Consommateurs (B.E.U.C.) quanto gli operatori della pubblicità rappresentati dalla European Advertising Tripartite che riunisce utenti, mezzi ed agenzie. Sembra fatta, eppure trascorreranno ancora 5 anni tra dubbi, discussioni, indugi e rinvii, finché, il 10 Settembre 1984 31 nascerà la Direttiva relativa al riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli stati membri in materia di pubblicità ingannevole. La Direttiva 84/450 è tanto semplice quanto generica in quanto si limita ad indicare gli strumenti ai quali (alternativamente e a loro scelta) gli stati membri possono ricorrere per lottare contro la pubblicità ingannevole nell’interesse sia dei consumatori che dei concorrenti e del pubblico in generale. Tale Direttiva lascia comunque arbitri gli stati membri di decidere se l’organo competente a conoscere delle azioni considerabili ingannevoli debba essere di natura amministrativa o giudiziaria. Inoltre viene espressamente fatta salva l’attività degli organismi autodisciplinari. Prendiamo adesso in considerazione la definizione di pubblicità ingannevole riportata in questa Direttiva: (…) qualsiasi pubblicità che in qualsiasi modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, dato il suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il comportamento economico di dette persone o che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente. In effetti, l’ingannevolezza di cui parla questa norma sembra non toccare in alcun modo l’applicazione della tecnica di Product Placement. Il termine “inganno” viene qui considerato nella sua connotazione più stretta, quella di “menzogna”, e non nel senso più ampio di “assenza di trasparenza” (che riguarda, appunto, il nostro ambito di ricerca). Lo stesso iter formativo della Direttiva dimostra che essa ha subito, tra una revisione e l’altra, un progressivo impoverimento delle disposizioni comunitarie rispetto a quelle originariamente progettate. Infatti: - nonostante si concentri inizialmente sia sulla pubblicità ingannevole che su quella scorretta, la Direttiva sceglierà di combattere esclusivamente la prima; 32 - verrà eliminato qualsiasi riferimento precedentemente inserito in materia di pubblicità comparativa; - verrà eliminata la norma che dichiarava tout court ingannevole la pubblicità priva di qualsiasi contenuto informativo; - verranno eliminati i riferimenti al danno che la pubblicità ingannevole può determinare, e di cui le precedenti versioni prevedevano si dovesse tener conto nella determinazione delle sanzioni; - scomparirà il riferimento alla necessità che gli ordinamenti dei singoli stati prevedano “agevolazioni efficaci e non dispendiose” a favore di chi voglia promuovere l’azione; e, fondamentale nella nostra ricerca, - verrà eliminata la disposizione secondo cui, indipendentemente dal suo contenuto, doveva ritenersi ingannevole la pubblicità presentata in modo tale da non essere riconoscibile come pubblicità. E allora perché parlare della Direttiva 84/450 in una tesi del genere? Come ho già detto in precedenza, l’importanza di questa Direttiva risiede nel fatto che la sua comparsa determinerà in Italia la nascita del Decreto Legislativo 25 Gennaio 1992 n. 74, attuazione della Direttiva n. 84/450/CEE in materia di pubblicità ingannevole. In essa però vi sarà una differenza sostanziale rispetto alla Direttiva Europea: il concetto di ingannevolezza assumerà una connotazione più ampia che porterà a considerare anche l’applicazione del Product Placement come forma di pubblicità ingannevole7. La scelta del sistema giuridico italiano di considerare ingannevole anche la pubblicità “non riconoscibile come tale”, anche se, a prima vista, possa apparire divergente rispetto alla 33 Direttiva Europea, in realtà, è in piena conformità con essa. A confermare ciò ci pensa l’articolo 7: La presente Direttiva non si oppone al mantenimento o all’adozione da parte degli Stati membri di disposizioni che abbiano lo scopo di garantire una più ampia tutela dei consumatori, delle persone che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, nonché del pubblico in generale. Ma esiste anche un altro contributo europeo alla nascita del Decreto 74/92, forse meno incisivo, ma sicuramente degno di citazione in questa tesi, dato il suo stretto legame con l’art. 4 del suddetto decreto, nonché col concetto di trasparenza: si tratta della Direttiva del Consiglio del 3 Ottobre 1989 relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive (89/552/CEE). L’articolo 1 c) della direttiva, anche se non parla di Product Placement, ne presenta le caratteristiche catalogandola all’interno della “famiglia” delle pubblicità clandestine. per « pubblicità clandestina » si intende la presentazione orale o visiva di beni, di servizi, del nome, del marchio o delle attività di un produttore di beni o di un fornitore di servizi in un programma, qualora tale presentazione sia fatta intenzionalmente dall'emittente per perseguire scopi pubblicitari e possa ingannare il pubblico circa la sua natura; si considera intenzionale una presentazione quando è fatta dietro compenso o altro pagamento. Interessante per la nostra ricostruzione è anche l’articolo 10, specie per i diversi punti in comune con l’articolo 4 del Decreto 74/92: 34 1. La pubblicità televisiva deve essere chiaramente riconoscibile come tale ed essere nettamente distinti dal resto del programma con mezzi ottici e/o acustici. 2. Gli spot pubblicitari isolati devono costituire eccezione. 3. La pubblicità non deve utilizzare tecniche subliminali. 4. La pubblicità clandestina è vietata. 2. Dagli anni ’90 al 2004. 2.1. La repressione della pubblicità ingannevole in Italia. L’ultimo decennio del nostro secolo si è caratterizzato sin dall’inizio per un’intensa attività del legislatore italiano su questo argomento. Il panorama legislativo sonnacchioso e restio a tali innovazioni si è improvvisamente animato, materie tradizionalmente non regolamentate si sono trovate improvvisamente ad essere oggetto di minuziose e severe normative, e la stessa Autodisciplina Pubblicitaria – per 25 anni assolutamente ignorata dall’ordinamento statuale – si è vista inserita, come parte del sistema, nel meccanismo predisposto della legge dello stato a tutela di concorrenti e consumatori contro gli effetti pregiudizievoli della pubblicità menzognera ed ingannevole. Gli anni ’90 sono gli anni della “Legge Mammì”, della legge sulle sponsorizzazioni radiotelevisive, di quella sulla pubblicità audiovisiva di tabacco e alcolici, ma, soprattutto – nel nostro caso – sono gli anni del Decreto Legislativo 25 Gennaio 1992 n. 74 sulla pubblicità ingannevole. Come abbiamo avuto modo di vedere, gli aspetti più “primitivi” della pubblicità ingannevole in Italia sono riconducibili all’art. 2598 del Codice Civile e alla Direttiva 84/450/CEE. Ma cosa succede, dal punto di vista normativo, in Italia tra la Direttiva europea e il Decreto 74/92? 35 Sembra incredibile, ma, proprio in Italia, all’indomani dell’approvazione della Direttiva, il nostro Ministro dell’Industria, Commercio e Artigianato presenta al Senato della Repubblica un Disegno di Decreto Legge che tale direttiva recepiva (D.D.L. 22 Ottobre 1984 n. 995 – Disciplina della pubblicità ingannevole e istituzione dell’osservatorio dei prezzi). L’intenzione era indubbiamente ottima, ma non altrettanto soddisfacente si rivelava il contenuto del documento, profondamente criticabile a livello giuridico. Poco dopo, una “proposta di legge sulla disciplina della pubblicità” veniva presentata alla camera dall’opposizione. La proposta, nota come Proposta Rodotà dal nome di uno dei presentatori, pur riecheggiando nelle norme di contenuto sostanziale, sia la direttiva sia soprattutto il disegno di legge governativo, se ne differenziava per il particolare rilievo dato al problema della trasparenza della pubblicità, con particolare attenzione all’informazione giornalistica e televisiva e, nelle norme processuali, per il ricorso esclusivamente al rito civile, mediante un procedimento di tipo sommario, da applicarsi anche nelle azioni di concorrenza sleale. Tutte le proposte successive seguiranno questa falsariga: in parte mutueranno dalla Direttiva europea e, in parte, introdurranno disposizioni a rigore estranee alla materia dell’inganno pubblicitario e non presenti nella direttiva: - la liberalizzazione, entro certi limiti, della pubblicità comparativa; - il divieto dell’uso improprio del termine “garanzia”; - la regolamentazione della pubblicità per prodotti pericolosi; - la tutela dei minori; - la riconoscibilità della pubblicità come tale (principio di trasparenza)8. 36 A partire dal 1989 l’aspetto civilistico delle norme sulla pubblicità ingannevole lascia spazio a quello amministrativopenale: non verranno puniti gli artefici dell’advertising o indennizzate le “vittime”, ma (sempre sul modello dell’Autodisciplina Pubblicitaria) si farà cessare la pubblicità ingannevole e eliminarne gli effetti, attraverso l’intervento di un organo amministrativo. Questo organo verrà istituito poco dopo con la Legge 10 Ottobre 1990 n. 287 (o “Legge Antitrust”): si tratta dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Alla fine del 1990 il Parlamento, con la legge 29 Dicembre 1990 n. 428 (la “Legge Comunitaria per il 1990”), delega il governo ad emanare entro un anno i decreti legislativi occorrenti per l’adeguamento della legislazione italiana ad una numerosa serie di direttive comunitarie, inclusa la Direttiva 84/450. Tra i diversi criteri di delega per il suo recepimento, sono importanti nel nostro caso: - la previsione della competenza di un’Autorità Garante sia per la sospensione che per il divieto della pubblicità ingannevole che per l’adozione dei provvedimenti necessari per l’eliminazione degli effetti; - la valorizzazione degli organismi volontari e autonomi di autodisciplina e la loro funzione preventiva prevedendo la sospensione della procedura avanti l’autorità per un periodo non superiore a trenta giorni, in caso di ricorso avanti l’organo di autodisciplina; - il salvataggio della giurisdizione del giudice ordinario in materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell’art. 2598 del Codice Civile9. A seguito della legge delega, già all’inizio del 1991 il Ministero dell’Industria editava una prima bozza di progetto di legge delegata. La bozza subirà diverse revisioni e modifiche, fino all’approvazione definitiva in data 25 Gennaio 1992. 37 2.2. Il Decreto 74/92, articolo 4: La trasparenza della pubblicità. Concentriamoci adesso sull’articolo 4 del decreto 74/92, quello dedicato alla trasparenza della pubblicità. In particolare, il nostro interesse si orienta sul I° e III° comma10: Comma 1. La pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale (…) Comma 3. È vietata ogni forma di pubblicità subliminale. Una prima osservazione può essere fatta a proposito dell’intero articolo; le tre disposizioni in esso contenute, quanto meno nella formulazione letterale, sembrano sostanzialmente avulse dalla materia regolata dal Decreto 74/92. Il testo normativo palesa la finalità di disciplinare solo ed esclusivamente la pubblicità ingannevole. Tanto è vero che nel trattare i casi riguardanti l’advertising dei prodotti pericolosi e la tutela di bambini e adolescenti, il legislatore si è preoccupato di equipararle formalmente, ai fini della legge, alla pubblicità ingannevole. Ciò permette all’Autorità Garante di intervenire secondo quanto espresso nell’art. 7.2 dello stesso decreto: I concorrenti, i consumatori, le loro associazioni ed organizzazioni, il Ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, nonché ogni altra pubblica amministrazione che ne abbia interesse in relazione ai propri compiti istituzionali, anche su denuncia del pubblico, possono chiedere all’Autorità Garante che siano inibiti gli atti di pubblicità ingannevole o la loro continuazione e che ne siano eliminati gli effetti. Per le tre forme di illecito pubblicitario prese in considerazione all’art. 4 il decreto non formula invece alcuna 38 equiparazione con la pubblicità ingannevole. Sorge quindi spontaneo chiedersi: Ma l’Autorità Garante può intervenire ai sensi dell’art. 4? Questa lacuna normativa viene in qualche modo colmata dall’interpretazione ampia che si dà al termine “ingannevole”: tutte le fattispecie nella norma hanno in comune il non riferirsi necessariamente a forme pubblicitarie che tendono ad attirare il consumatore prospettandogli caratteristiche o pregi diversi da quelli realmente posseduti dal prodotto pubblicizzato, ma piuttosto a forme di promozione attuate in modo clandestino. Ne consegue che un messaggio può essere di contenuto veritiero, e tuttavia contrastante con il decreto, in quanto l’idoneità ad indurre in errore il consumatore deriva dalla sua non riconoscibilità. Quindi, al di fuori di questa piccola imprecisione normativa, è lecito pensare che l’Autorità Garante possa intervenire anche ai sensi dell’art. 4. Analizziamo adesso, brevemente, ciascun comma. Il I° comma – la riconoscibilità della pubblicità – non deriva, come abbiamo avuto modo di vedere, dalla Direttiva 84/450, ma ritrova le sue origini: - nell’articolo 7 del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria; - nell’articolo 10.1 della Direttiva 89/552/CEE; - nell’articolo 8.2 della Legge 6 Agosto 1990 n. 223, Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato – o Legge Mammì11. La pubblicità che non si presenta o non è riconoscibile come tale è quindi maggiormente insidiosa, sia perché aggira molte delle naturali difese che il destinatario è invece pronto a porre in essere quando sia fatto oggetto di una pressione pubblicitaria scoperta, sia perché è più autorevole e 39 attendibile, sia infine perché fa almeno in parte venir meno quelle condizioni ambientali che obiettivamente indeboliscono l’efficacia del messaggio. L’articolo 4.1 è un importante esempio di sostanziale coincidenza di principi, precetti e intenti fra la nuova normativa statuale e il Codice di Autodisciplina pubblicitaria. Anche per il III° comma – la pubblicità subliminale – le origini sono, più o meno le stesse: - l’articolo 10.3 della Direttiva 89/552/CEE; - l’articolo 15.9 della Legge 6 Agosto 1990 n. 223. Anche in questo caso, la Direttiva 84/450 non ne fa menzione, ma il legislatore italiano ha ritenuto idoneo inserirla come forma di “pubblicità non trasparente”. La pubblicità subliminale è un tipo di comunicazione che dovrebbe stimolare un messaggio all’insaputa del soggetto, inducendolo quindi a compiere l’atto economico per riflesso condizionato12. 2.3. L’art. 4 e il Product Placement. In base a quanto riportato nel paragrafo precedente, appare chiaro che l’uso di una tecnica come quella del Product Placement diventi, a partire dal 1992, punibile ai sensi dell’art. 4.1. del decreto 74/92, in quanto considerabile come una forma di “pubblicità non trasparente”, “non riconoscibile come tale”. La pubblicità scaturente da accordi di Product Placement pone, però, delle difficoltà non indifferenti, appartenenti a versanti diversi. Innanzitutto il suo trattamento attraverso gli strumenti forniti dal decreto sulla pubblicità ingannevole può avvenire solo mediante uno sforzo di adattamento. Problematica si presenta, inoltre, l’individuazione stessa della pubblicità indiretta. La produzione di un film che ambienta la propria storia in città, non può esimersi dalle inquadrature di cartelloni pubblicitari, negozi di alta moda, manifesti, autobus, e con essi, 40 tante altre forme di pubblicità, difficili, nell’immediato, da definire “volute” o “involontarie”. Le difficoltà che vengono incontrate dall’ordinamento statuale (l’Autorità Garante) e da quello autodisciplinare (il Giurì) possono, tuttavia, ridursi tramite l’individuazione dei soggetti cui debba essere attribuita la qualifica di operatore pubblicitario13. Si rende quindi necessaria una verifica delle figure di committente e autore del messaggio pubblicitario. Nei casi di Product Placement cinematografico il committente del messaggio è certamente l’impresa i cui prodotti sono stati fatti oggetto della pubblicità, in maniera occulta. Più complessa la definizione dell’autore. Immaginando l’attuazione del Product Placement vedremo in esso coinvolti, a vario titolo, una serie eterogenea di soggetti. Innanzitutto, coloro che contribuiscono, da un punto di vista creativo, alla realizzazione dell’opera all’interno della quale il messaggio pubblicitario è stato occultato. Nel campo cinematografico parliamo, quindi, del regista, dello scenografo, dello sceneggiatore e anche degli stessi attori. Bisogna però considerare che, se procedere contro queste figure ai sensi dell’art. 4 del Decreto 74/92 appare pressoché corretto dal punto di vista della legittimazione passiva (in quanto contribuiscono alla creazione dell’opera in maniera diretta, e con essa, all’inserimento della pubblicità), non lo è altrettanto sul piano pratico, e, inoltre, difficilmente giustificabile sotto il profilo sistematico: vediamo il perché. Il principale elemento che porta tendenzialmente a escludere, di fatto, la partecipazione dell’agenzia di pubblicità – in qualità di autore – nel procedimento avviato ai sensi dell’art. 3 del Decreto 74/92 è la presunta mancanza, in capo a tale soggetto, da un lato della disponibilità giuridica del messaggio pubblicitario, dall’altro dell’interesse alla diffusione dello stesso. 41 Analoghe considerazioni possono valere per i soggetti che hanno contribuito alla creazione materiale dell’opera cinematografica ospite della pubblicità clandestina. In relazione al Product Placement cinematografico, da una parte, si amplia la nozione di committente e, dall’altra parte, si esclude il coinvolgimento di soggetti pur astrattamente definibili quali autori del messaggio pubblicitario. Riteniamo, quindi, che si possa condurre all’attribuzione della qualifica di operatore pubblicitario e di “autore” del messaggio, a un soggetto diverso e non necessariamente coincidente con quelli prima elencati, e cioè al produttore dell’opera cinematografica. Perché l’individuazione del produttore come operatore pubblicitario dovrebbe agevolare l’azione dell’Autorità Garante e/o del Giurì? Semplicemente perché permette loro di agire secondo un criterio di valutazione quasi assoluto, il quale permette di verificare la volontarietà o meno dell’immagine (o delle immagini) indagate: l’individuazione di un rapporto di collaborazione tra impresa e responsabili della produzione dell’opera (cinematografica o televisiva che sia). Prendiamo in considerazione un esempio di intervento sia dell’Autorità Garante che del Giurì della pubblicità: si tratta dell’interessante vicenda del serial televisivo Un Commissario a Roma, co-prodotto dalla RAI e dall’Editoriale “La Repubblica”. Nel serial il protagonista, ma anche alcuni personaggi marginali, esibivano in diverse occasioni copie del quotidiano “La Repubblica”, con la testata in bella evidenza. In alcune scene girate in interni, poi, si intravedeva attraverso una finestra una scritta luminosa recante il titolo del medesimo quotidiano. L’impostazione adottata dall’ordinamento statuale e da quello autodisciplinare è stato lo stesso; quanto alla decisione, 42 l’Autorità si è espressa in senso più rigoroso. Entrambi d’accordo sul fatto che non fosse nel loro potere reprimere forme di comunicazione funzionali al regolare svolgimento narrativo dell’opera, hanno di conseguenza provato a individuare in che misura le scene incriminate potessero essere considerate a tale stregua. Il Giurì ha così ritenuto che l’unico elemento da considerarsi privo di qualunque giustificazione nell’ambito della narrazione fosse l’esibizione della scritta luminosa. L’Autorità ha invece considerato come aventi natura prettamente promozionale anche le numerose altre esibizioni del giornale. Ha ritenuto, tra l’altro, che indizio dell’esistenza di un rapporto di Product Placement fosse da riscontrarsi proprio nella presenza dell’editore tra i produttori della serie. 2.4. Il post-Decreto 74/92. Da questo momento, a livello giudiziario, e di riflesso, a livello autodisciplinare, si assisterà ad un’ampia attività degli organismi di controllo sul tema della pubblicità ingannevole e, nello specifico, sul tema della trasparenza14. Ma, a parte l’azione dell’Autorità Garante e del Giurì, cosa succede in Italia su questo tema, a livello normativo, tra il Decreto 74/92 e il “Decreto Urbani”? Innanzitutto, si assiste alla definitiva concretizzazione del ruolo dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato con il D.P.R. 10 Ottobre 1996, n. 627 – Regolamento recante norme sulle procedure istruttorie dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in materia di pubblicità ingannevole. Da una ricostruzione parallela si può notare come le modalità d’azione dell’Autorità Garante e quelle del Giurì siano molto simili15. Vediamo la tabella16: 43 Giurì Richiesta di intervento Procedimento Autorità Garante Chiunque ritenga di subire pregiudizio da attività pubblicitarie contrarie al Codice di Autodisciplina può richiedere l’intervento del Giurì nei confronti di chi (…) abbia commesso le attività ritenuto pregiudizievoli. La parte interessata deve presentare un’istanza scritta indicando la pubblicità che intende sottoporre all’esame del Giurì, esponendo le proprie ragioni, allegando la relativa documentazione e i previsti diritti di istanza (Titolo IV, art. 36). I concorrenti, i consumatori, le loro associazioni e organizzazioni, il Ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato, nonché ogni altra pubblica amministrazione che ne abbia interesse in relazione ai propri compiti istituzionali, che intendano richiedere l’intervento dell’Autorità al fine di ottenere l’inibizione degli atti di pubblicità ingannevoli o della loro continuazione o l’eliminazione degli effetti ne fanno richiesta per iscritto all’Autorità. (Art. 2.1.). Ricevuta l’istanza, la Il responsabile del presidenza del Giurì procedimento, verificate la nomina fra i membri del regolarità e la completezza Giurì un relatore, dispone della richiesta, comunica la comunicazione degli l’avvio del procedimento, atti delle parti interessate ai sensi dell’art. 7 comma assegnando loro un 3, del decreto, al termine, non inferiore agli committente del messaggio otto e non superiore ai pubblicitario e, se dodici giorni lavorativi, conosciuto, al suo autore, per il deposito delle nonché al richiedente. rispettive deduzioni e di Quando il committente non eventuali documenti e le è conosciuto, il convoca avanti al Giurì responsabile del entro il termine più breve procedimento fissa un possibile per la termine al proprietario del discussione orale che mezzo perché fornisca ogni 44 dovrà vertere soprattutto sugli aspetti della controversia che non sia stato possibile trattare per iscritto (Art. 37). Procedimento Decisione Il Giurì, al termine della discussione, emette la sua decisione il cui dispositivo viene immediatamente comunicato alle parti. Quando la decisione stabilisce che la pubblicità esaminata non è conforme alle norme del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, il Giurì dispone che le parti interessate desistano dalla stessa, nei termini indicati dall’apposito Regolamento autodisciplinare (Art. 38) informazione idonea a identificarlo (Art. 5.1.). Il responsabile del procedimento, ove ciò sia necessario ai fini della raccolta o della valutazione degli elementi istruttori, o venga richiesto da almeno una delle parti, può disporre che le parti siano sentite in apposite audizioni nel rispetto del principio del contraddittorio, fissando un termine inderogabile per il loro svolgimento (Art. 8.1.). Il responsabile del procedimento comunica alle parti il provvedimento finale dell’Autorità, che è altresì pubblicato, entro 20 giorni dalla sua adozione, nel bollettino di cui all’art. 26 della l. 10 Ottobre 1990, n. 287 (Art. 16.1.). Il provvedimento finale dell’Autorità deve altresì contenere l’indicazione del termine e l’autorità cui è possibile ricorrere (Art. 16.2.). Ricordiamo, comunque, che si tratta pur sempre di due sistemi differenti, e che esistono delle differenze sostanziali fra i due: 45 Giurì Effetto vincolante I mezzi pubblici che direttamente o tramite le proprie associazioni hanno accettato il Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, ancorché non siano stati parte nel procedimento avanti al Giurì, sono tenuti ad osservarne le decisioni (Art. 41) Le decisioni del Giurì non Collaborazione sono mai con organismi condizionate o prese in “esterni”. collaborazione con altri organismi “esterni”. Autorità Garante La D.P.R. 10 Ottobre 1996, n. 627 non riporta alcun riferimento legato ad un effetto vincolante della decisione finale dell’Autorità Garante. Il responsabile del procedimento, nei casi in cui all’art. 7, comma 5, del decreto, prima dell’adempimento di cui al comma 1, richiede il parere al Garante17, al quale trasmette gli atti del procedimento. Il Garante comunica il proprio parere entro 30 giorni dal ricevimento della richiesta (Art. 13.2.). Inoltre, l’art. 14.1. della D.P.R. 10 Ottobre 1996, n. 627 sottolinea la possibilità di poter richiedere la sospensione dell’azione dell’Autorità Garante solo qualora esistesse già un procedimento di fronte all’organismo di autodisciplina: I soggetti che, ai sensi dell’art. 8 comma 3 del decreto, richiedono la sospensione del procedimento dinanzi all’Autorità, devono inoltrare apposita istanza, fornendo prova dell’esistenza del procedimento dinanzi all’organismo di 46 autodisciplina, con le indicazioni idonee a individuare tale organismo e l’oggetto del procedimento stesso. Il tema della riconoscibilità della pubblicità viene ripreso inoltre dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni che il 26 Luglio 2001 delibera il Regolamento in materia di pubblicità radiotelevisiva e televendite (Deliberazione n. 538/01/CSP). Il regolamento è diviso in 2 sezioni: la prima presenta le disposizioni generali, e la seconda si concentra sui messaggi pubblicitari e le televendite all’interno dei programmi. Ai fini della nostra tesi, è importante: l’art. 1 – Definizioni – punto g): Ai fini del presente regolamento si intende: (…) g) per pubblicità clandestina: la presentazione orale o visiva di beni, di servizi, del nome, del marchio o delle attività di un produttore di beni o di un fornitore di servizi in un programma, qualora tale presentazione sia fatta intenzionalmente dall’emittente per perseguire fini pubblicitari e possa ingannare il pubblico circa la sua natura; si considera intenzionale una presentazione quando è fatta dietro pagamento o altro compenso. l’art. 3 – Riconoscibilità del messaggio pubblicitario rispetto al testo del programma – comma 1: La pubblicità e le televendite devono essere chiaramente riconoscibili come tali e distinguersi nettamente dal resto della programmazione attraverso l’uso di mezzi di evidente percezione, ottici nei programmi televisivi, o acustici nei programmi radiofonici, inseriti all’inizio e alla fine della pubblicità o della televendita. 47 l’art. 3, comma 7: È vietata la pubblicità clandestina e che comunque utilizzi tecniche subliminali18. 2.5. L’Autorità Garante e il Giurì in azione… 2.5.1. L’Autorità Garante. Quali sono i fattori tenuti in considerazione dall’Autorità Garante quando questa interviene ai sensi dell’art. 4.1. del decreto 74/92? Questi fattori potrebbe essere in qualche modo ricavati dal D.P.R. 10 Ottobre 1996, n. 627 – Regolamento recante norme sulle procedure istruttorie dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in materia di pubblicità ingannevole. Tuttavia ritengo che sia molto più interessante soffermarsi su un caso pratico e dedurre da esso il comportamento dell’Autorità Garante in azione19. Consultando il sito www.agcm.it ho avuto modo di trovare diversi provvedimenti ai sensi dell’art. 4.1. Ho deciso di concentrarmi, in particolare, sul provvedimento 5945 (30/04/1998), relativo al film Fuochi d’Artificio, di e con Leonardo Pieraccioni. Ecco l’incipit del provvedimento: Un consumatore ha denunciato come pubblicità non trasparente l'immagine della autovettura marca Mercedes, modello “classe A”, apparsa nel film Fuochi d'Artificio, di e con Leonardo Pieraccioni. Nella scena in questione, in un primo tempo viene inquadrata la protagonista mentre esce e si allontana da un'autovettura per poi dirigersi verso l'attore. Nella stessa inquadratura è possibile scorgere, in margine allo schermo, il marchio Mercedes-Benz. Successivamente, nella stessa scena, si può cogliere, alle spalle del primo piano dell'attrice, l'immagine sfocata dell'autovettura. 48 Dopo aver ascoltato le parti in causa, l’Autorità Garante si è espressa in questi termini: Alla luce dei fatti e delle verifiche svolte, il Garante ha considerato che, sebbene la circostanza che sia stata utilizzata un'autovettura non ancora commercializzata al momento in cui veniva girato il film deponesse a favore dell'intenzionalità pubblicitaria, alcuni elementi importanti non potevano essere trascurati: - l'auto è stata inquadrata nel corso di un'unica scena; - il marchio commerciale non è stato messo in particolare evidenza; - l'inquadratura non risulta ravvicinata, prolungata, priva di naturalità e artificiosa, ovvero avulsa dal contesto narrativo. In conclusione, il Garante, in questo caso, non ha ritenuto il fatto punibile ai sensi dell’4.1. del Decreto 74/92. Da questo provvedimento possiamo dedurre che: Il Garante tiene in seria considerazione il rapporto esistente tra l’uscita del film nelle sale e il lancio del prodotto – pubblicizzato nel film – nel mercato. Tiene in considerazione il tempo di esposizione del pubblico al prodotto. Tiene in considerazione la centralità del prodotto nella scena e, in generale, in tutto il film. Tiene inoltre in considerazione il rapporto esistente tra l’attore e il brand in questione, sia all’interno del lungometraggio (il ruolo positivo o negativo dell’attore nel film) che al suo esterno (l’essere o meno testimonial di quel brand). E’ possibile, inoltre, individuare altri fattori tenuti in serie considerazione dall’Autorità Garante20: L’Autorità Garante tiene in considerazione anche la pubblicizzazione del prodotto che si verifica all’esterno del contesto cinematografico, al fine di rintracciarne eventuali legami; 49 Tiene in considerazione il rapporto esistente tra il produttore del film e quello del prodotto; Tiene in considerazione la possibile esistenza di un legame inscindibile tra un prodotto e un personaggio (il legame tra James Bond e l’Aston Martin o la BMW esiste a prescindere dai possibili accordi esistenti fra le parti); Tiene in considerazione l’effettiva esposizione dello spettatore verso il prodotto “indagato”; Tiene in considerazione la “funzione narrativa” che un prodotto può avere nel film. Tiene in considerazione anche del parere di altri organismi di controllo (ad esempio il Garante per la Radiodiffusione e l’Editoria). 2.5.2. Il Giurì. Sin dall’inizio (e fino al 200221) il Giurì intervenne nei casi “considerabili” di Product Placement solo due volte nella sua storia. La possibilità di intervenire da parte del Giurì ai sensi dell’art. 7 CAP nei casi di Product Placement e la scarsa mole di interventi effettuati sono entrambi desumibili dall’introduzione di una di queste pronunce, la 62/1993/I (il caso del serial Un Commissario a Roma, di cui abbiamo parlato nel par. 3.3.): L’art. 7 CAP si riferisce sia alla pubblicità redazionale che al product placement, che consiste nella promozione di un prodotto o di un servizio, mediante uno spettacolo cinematografico o televisivo, in cui il prodotto o il servizio appaiono come naturalmente presenti nella vicenda narrativa e come prescelti dal protagonista in funzione della loro superiorità, sulla base di un accordo che coinvolge tutti i soggetti che concorrono a diverso titolo nella realizzazione dell’opera cinematografica o televisiva. Gli autori e gli attori di un’opera cinematografica concretante un’ipotesi di product placement non assumono alcun obbligo autodisciplinare, ma al contempo non hanno alcun diritto di opporsi all’attuazione del regolamento 50 autodisciplinare, che può avere conseguenze solo indirette sull’integrità dell’opera cinematografica e sulla sua diffusione, e precisamente conseguenze nel rapporto interno fra produttore vincolato all’Autodisciplina e autori e attori che non lo siano: onde la partecipazione di questi ultimi al giudizio autodisciplinare non è necessaria. L’inserzionista e il produttore di un film realizzante un product placement debbono entrambi interloquire di fronte alla contestazione della violazione dell’art. 7 CAP, anche se uno solo di essi sia in ipotesi negozialmente vincolato a rispettare questa regola: onde iniziato il giudizio autodisciplinare contro i soli coproduttori dell’opera cinematografica vincolati al Codice di Autodisciplina, deve essere disposta l’integrazione del contraddittorio anche nei confronti del coproduttore a essa non legato per consentirgli comunque di esprimere la propria opinione. Definire il concetto di Product Placement e sottolineare quali soggetti devono rispondere alle decisioni del Giurì dimostra come, prima del 1993, l’art. 7 CAP non fosse mai stato applicato al di fuori della pubblicità redazionale. Tralasciando la pronuncia 62/1993/I, poiché già affrontata in precedenza, passiamo all’altro caso di intervento del Giurì. Si tratta della pronuncia 2/1997, un caso in cui il Comitato di Controllo chiese l’intervento del Giurì nei confronti di Ford Italia e Publitalia ’80 per un potenziale Product Placement televisivo avvenuto durante il programma “Non dimenticare lo spazzolino da denti”, condotto da Ambra Angiolini. Il prodotto in questione era una Ford “Ka”. Il provvedimento inizia subito con una nota abbastanza determinante: Non si è in presenza di una comunicazione pubblicitaria o di una forma di product placement qualora un’autovettura, acquistata presso un concessionario all’insaputa della casa produttrice e senza altra collaborazione da parte di quest’ultima, venga presentata, priva di marchi di fabbrica, come premio nel corso di una trasmissione televisiva; né espressioni elogiative della vettura presentata come premio e la riconoscibilità del modello costituiscono elementi presuntivi, idonei a supplire alla mancanza della prova storica del rapporto di committenza. 51 Questo caso dimostra che l’affermazione dell’assenza di un contratto tra la Ford Italia e la Mediaset, unita alla serie di accorgimenti esercitati sul prodotto al fine di eliminare qualsiasi presunzione di natura pubblicitaria, sono stati fattori sufficienti, agli occhi del Giurì, per ritenere il caso non imputabile ai sensi dell’art. 7 CAP. Chiediamoci nuovamente, perché così pochi interventi in casi di Product Placement da parte del Giurì? In realtà la risposta è estremamente semplice: il Product Placement non è pubblicità, e tanto meno pubblicità occulta: essa possiede dignità e caratteristiche proprie al pari della publicity e dell’advertising. Non la pensa diversamente Gerardo Corti, Presidente della JMN & DY, e tra i principali fautori del Product Placement in Italia22: Secondo te perché ho scritto un libro intitolato Occulta sarà tua sorella? Non è un caso. Perché tutti parlano di pubblicità occulta, compreso il legislatore, senza sapere di cosa stanno parlando. Quando è arrivato il Product Placement hanno detto a tutti “bisognerà farlo convergere nelle norme di Autodisciplina Pubblicitaria”... ma come nelle norme di Autodisciplina Pubblicitaria? Non si tratta di pubblicità! E’ come giocare a baseball con le regole del calcio!23 3. Dal “Decreto Urbani” ad oggi. 3.1. La fattibilità del Product Placement. Come abbiamo avuto modo di verificare nei paragrafi precedenti, il Product Placement nel contesto italiano ha attraversato un decennio di monitoraggio da parte del Giurì e dell’Autorità Garante. Ciò che risulta essere giuridicamente rilevante è che nei casi di Product Placement lo spettatore non sa di poter valutare il prodotto in base all’offerta. Questo ci 52 porta, innanzitutto a fare una distinzione di base: quella tra Product Placement e Sponsorizzazione. In passato queste due forme di pubblicizazzione venivano spesso confuse e addirittura ritenute coincidenti. E in effetti, esistono degli elementi assimilabili: - come avviene nella sponsorizzazione, il Product Placement contempla un accordo tra l’impresa cui è ascrivibile il prodotto e il produttore del film o del programma televisivo; - come nella sponsorizzazione, oggetto dell’operazione è altresì l’affidamento della promozione di un prodotto ad un testimonial, cioè ad un personaggio, estraneo al mondo pubblicitario, ma noto e gradito alla maggioranza del pubblico; Ma i fattori determinanti sono quelli che distinguono le due tecniche pubblicitarie: - mentre la sponsorizzazione “colpisce” l’intera programmazione, il Product Placement può concentrarsi solo su una singola scena; - inoltre il Product Placement si distingue dalla sponsorizzazione sul piano del risultato finale, perché la sua efficacia poggia proprio sulla mancata esplicitazione dell’accordo tra il committente e i responsabili del programma finanziato24. Il confronto tra sponsorizzazione e Product Placement ha senso solo se si considerano entrambi quali forme di finanziamento di iniziative pubblicitarie. Non bisogna invece confondere sponsorizzazione e pubblicità indiretta, perché le due nozioni operano su piani diversi. Al di fuori di queste osservazioni di natura tecnica, la confusione che si poteva creare tra il concetto di sponsorizzazione e quello di Product Placement è stato 53 sicuramente connesso al fatto che, dal punto di vista normativo, non esisteva niente che parlasse di questa forma di pubblicità indiretta in maniera esplicita25. Al contrario, le regolamentazioni in materia di sponsorizzazioni trovavano un riflesso normativo nella l. 223/90, art. 8, comma 13°, 14°, 15° Legge Mammì (modificata poi dalla legge 17 Dicembre 1992, n. 483). Oggi, però, le cose sono cambiate. Il sistema normativo nazionale si è mosso anche su questo frangente, e i risultati arrivano a partire dal 2004. La spinta propulsiva in direzione del Product Placement passa attraverso una riqualificazione del “tipo” di consumatore preso a modello dalla legislazione, ma anche dalla giurisprudenza in materia. È un dato di fatto che la credulità del pubblico nei confronti della pubblicità non è più la stessa che poteva presumersi esistente fino a non molti anni fa: il consumatore è più smaliziato e la maggioranza delle persone ha sentito parlare e sa valutare quei casi di “piazzamento di prodotti” in cui si imbatte. Furono queste considerazioni che portarono nel 2004 Giuliano Urbani, allora Ministro per i Beni e le Attività Culturali, ha condurre a termine un progetto di riforma della legislazione in materia di cinema, concretizzandolo in un decreto legislativo: il Decreto 22 Gennaio 2004, n. 28 – Decreto Urbani. All’art. 9.3. si legge: Fatte salve le disposizioni contenute nella legge 10 Aprile 1962, n. 165, per i film che contengono inquadrature di marchi e prodotti comunque coerenti con il contesto narrativo, è previsto un idoneo avviso che renda nota la partecipazione delle ditte produttrici di detti marchi e prodotti ai costi di produzione del film. Con decreto ministeriale, sentito il Ministero per le Attività produttive, sono stabilite le relative modalità tecniche di attuazione. 54 Si può senz’altro dire che un passo in avanti è stato fatto per risolvere quelli che abbiamo chiarito essere i “limiti normativi” incontrati in materia, ma è altrettanto certo che molto resta ancora da fare. Si pensi per esempio alla coerenza del posizionamento nel contesto narrativo, o si pensi al problema dell’idoneo avviso26. Resta comunque da sottolineare un elemento fondamentale: da questo momento in poi il posizionamento del marchio nello spettacolo filmico, avvenuto come conseguenza di accordi tra impresa commerciale e casa di produzione, non verrà più considerato una forma di “pubblicità ingannevole”, “non trasparente”. 3.2. Le conseguenze dell’art. 9.3. Riportiamo per intero la conseguenza più importante avvenuta dalla promulgazione dell’art. 9.3. del Decreto 22 Gennaio 2004, n. 28: il Decreto attuativo 30 Luglio 2004. Modalità tecniche di attuazione del collocamento pianificato di marchi e prodotti nelle scene di un’opera cinematografica “product placement”. IL MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITA’ CULTURALI Visto il decreto legislativo 22 Gennaio 2004, n. 28, di riforma della disciplina in materia di attività cinematografiche; visto l’art. 9, comma 3, del citato decreto legislativo, che prevede che, con decreto ministeriale, siano dettate, per i film che contengono inquadrature di marchi e prodotti, le modalità tecniche di attuazione del relativo avviso; visto l’art. 27, comma 8, del citato decreto legislativo, come modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 22 Marzo 2004, n. 72, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 Maggio 2004, n.128; sentito il Ministero delle attività produttive; Adotta 55 il seguente decreto: Art. 1 Ammissibilità del collocamento pianificato di marchi e prodotti 1. Ai sensi dell’art. 9 del decreto legislativo 22 Gennaio 2004, n. 28, è ammesso il collocamento pianificato di marchi e prodotti nelle scene di un’opera cinematografica “product placement” con le modalità tecniche previste dal presente decreto. 2. Le forme di collocamento pianificato di cui al comma 1 sono rimesse alla contrattazione tra le parti, nel rispetto dei limiti di cui all’art. 2. Art. 2 Requisiti e limiti di applicazione 1. La presenza di marchi e prodotti è palese, veritiera e corretta , secondo i criteri individuati nell’articoli 3, 3 bis e 6 del decreto legislativo 25 Gennaio 1992, n. 74. Essa deve integrarsi nello sviluppo dell’azione , senza costituire interruzione del contesto narrativo. 2. Ai fini della riconoscibilità delle forme di collocamento pianificato di cui all’art. 1, l’opera cinematografica deve contenere un avviso nei titoli di coda che informi il pubblico della presenza dei marchi e prodotti all’interno del film, con la specifica indicazione delle ditte inserzioniste. 3. Alle forme di collocamento di marchi e prodotti di cui all’art. 1 si applicano i divieti e le limitazioni di cui alla legge 10 Aprile 1962, n. 165, all’art. 8, comma 5, della legge 6 Agosto 1990, n. 223, e all’art. 2 del decreto ministeriale 30 Novembre 1991, n. 425. Si applicano, altresì, le disposizioni in materia di tutela amministrativa e giurisdizionale di cui all’art. 7 del decreto legislativo 25 Gennaio 1992, n. 74. Il presente decreto sarà sottoposto ai competenti organi di controllo e sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. Roma, 30 Luglio 2004 Il Ministro: Urbani 56 4. Alcune riflessioni. Per concludere questo capitolo ritengo sia importante riportare una serie di considerazioni sull’evoluzione normativa del Product Placement in Italia. Quello che è direttamente osservabile è che, dalle origini al 2004, il comportamento del legislatore è sempre stato eccessivamente cauto, quasi timoroso; un timore che risale alla paura del sistema normativo italiano a rendere legale ciò che non si conosce a tutti gli effetti. E, più in generale, una considerazione sempre e comunque negativa della pubblicità, che fino a qualche tempo fa, negava la nazionalità italiana, e, quindi, una considerazione altrettanto negativa di quelli che possiamo definire “i suoi derivati”. Il percorso da me ricostruito dimostra infatti come esista in Italia una tendenza a “vietare ciò che non si conosce” piuttosto che “conoscerlo e agire di conseguenza”. Si pensi, per esempio al Decreto 74/92 sulla pubblicità ingannevole; non solo nasce nel giro di poco tempo a partire dalla Direttiva 84/450 – assimilandone la maggior parte dei divieti – ma vi include anche il principio di trasparenza con l’art. 4, nonostante la direttiva non ne facesse alcun riferimento. A rendere illecito il Product Placement è bastato quindi un decreto... a renderlo lecito, invece, uno non è ancora sufficiente. Infatti, se con l’art. 9.3. del Decreto 28/2004 viene raggiunto il primo traguardo della legalizzazione del posizionamento cinematografico del brand, tale traguardo riguarda, appunto, il solo sistema cinematografico, e non quello televisivo, dove il posizionamento del brand è ancora vietato. Si tratta di un vero e proprio paradosso: non tanto per il fatto che l’art. 9.3. non abbia incluso il sistema televisivo27, quanto piuttosto perché è proprio la programmazione televisiva, fatta di fiction e di reality show, il vero punto di forza dell’intrattenimento 57 audiovisivo italiano. Le aziende stesse, quindi, orientate ad un investimento sicuro, dimostrerebbero maggior fiducia nel Product Placement televisivo piuttosto che nell’attuale Product Placement cinematografico28. Quanto detto sinora non si distacca affatto dal pensiero di Michele Lo Foco, presidente di Cinecittà Diritti, che ho avuto modo di intervistare recentemente29. Ecco come l’avvocato Lo Foco si esprime sulla “non liberalizzazione” del Product Placement televisivo: L’aver ufficializzato il Product Placement cinematografico e il non essersi interessati ancora delle altre forme di Product Placement (televisivo su tutti) rappresenta una delle infinite contraddizioni della società italiana. Il Decreto, come sappiamo, riguarda la cinematografia, e non poteva essere diversamente, dato che il Ministero fautore del decreto era il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali; la televisione invece è sotto un altro ministero. Dove nasce la contraddizione assurda? La televisione, trasmettendo film (che abbiano o meno la nazionalità italiana) ed essendo ormai questa forma di pubblicità “lecita”, non può discriminare il contenuto di un film. Ma nel momento in cui questo meccanismo viene applicato anche nelle produzioni televisive, improvvisamente viene fuori il discorso puramente televisivo. La Rai sancisce che nelle programmazioni che la riguardano non può essere utilizzata la leva pubblicitaria poiché essa la riserva solo a se stessa, con inserimenti e trattative fatte da lei stessa. Ciò ovviamente non vale per le produzioni straniere. Ed ecco appunto questa assurda contraddizione. Che poi è quello che succedeva prima con i film del grande schermo passati poi in televisione. Perché mentre la televisione italiana poteva trasmettere e ha trasmesso tranquillamente “Il Maggiolino tutto matto” – pubblicizzando la Wolkswagen – la legge italiana non consentiva di fare altrettanto con le produzioni italiane. Quando capita di assistere a casi di posizionamento riferito a serie televisive italiane, salvo che si tratti di una casualità, le trattative pubblicitarie dovrebbero essere state condotte da Sipra; non si parla comunque di Product Placement bensì di “comodato d’uso”. Certo, il mio obiettivo in questo momento non è quello di trovare il nuovo anello debole di un sistema che ha cominciato a muoversi nella giusta direzione. Ma se abbiamo scelto di 58 salire sul ring è combattere sullo stesso terreno di professionisti – come il sistema americano – allora non è sufficiente saper tirare pugni, bisogna imparare a boxare. Perché per quanto possa sembrare forte e al di sopra delle nostre potenzialità, ricordiamoci che gran parte della forza che il nostro avversario vanta siamo stati proprio noi a dargliela. Il sistema italiano ha, infatti, “la colpa” di aver vissuto per troppo tempo una sorta di “sudditanza psicologica” nei confronti del sistema cinematografico americano, tanto da avergli garantito alcuni privilegi che hanno contribuito ad aumentare il suo potere di controllo. A tal proposito l’avv. Michele Lo Foco si esprime in termini anche molto “duri” nei confronti del contesto italiano: I privilegi che la cinematografia americana ha avuto e ha nel contesto nazionale italiano sono infiniti, inenarrabili. E i privilegi di cui ha goduto la cinematografia americana non si limitano a questo. Ad esempio da sempre viene tollerato che le majors americane presenti in Italia, pur essendo società americane, distribuiscano i prodotti americani del proprio listino ad una provvigione molto bassa (9-10%), consentendo così alle major americane italiane di mandare fuori tutto il resto di quello che viene fatturato. Quindi non c’è nessuna norma che abbia vincolato le aziende americane, quantomeno a spendere sul territorio nazionale un po’ di più. Tutti sanno infatti che per compiere il ciclo distributivo si dovrebbe minimo raggiungere una percentuale del 18-19%, mentre per le majors americane viene tollerato il tetto del 9-10% E questo vale per i film, i telefilm, il Product Placement, ... Noi siamo una terra di conquista, una terra che è quasi Africa, e quindi gli americani, che dalla loro hanno una grande, diciamo, pratica di questi meccanismi, risultano essere più facilitati nelle loro azioni. E nel frattempo noi li abbiamo sempre guardati con grande rispetto, ammirazione, timore, e non abbiamo mai fatto nulla per placare questo divario. E, al contrario, loro si dimostrano sempre implacabili nella difesa del proprio territorio. Il Decreto Urbani rappresenta sicuramente un notevole passo avanti per l’industria cinematografica italiana, così come per le agenzie di comunicazione e per le imprese commerciali; ma non può e non deve rimanere un caso isolato. Esso dovrà essere 59 ricordato negli anni come l’incipit e la spinta a un processo di rinnovamento che conferisca dignità alla pubblicità come forma di espressione culturale e la avvicini a un sistema come quello cinematografico, con il quale per troppo tempo ha avuto un rapporto di negazione e inconciliabilità. 1 S tratta di una delle più importanti agenzie di Product Placement italiana di cui parleremo meglio in seguito. 2 Acciaio di Walter Ruttmann non è altro che – nonostante lo scarso successo al botteghino – “il posizionamento cinematografico dell’Acciaieria di Terni”. 3 Dove con “eccezionali” intendo, come al solito, “inusuali”. 4 La pubblicità redazionale non parla esplicitamente di un prodotto, ma ne esalta caratteristiche e potenzialità attraverso l’uso di una figura autorevole e neutrale che ne parla in maniera del tutto oggettiva. 5 Concetto proveniente dal Diritto Romano secondo il quale non ogni dichiarazione che i contraenti si scambiano nel corso del procedimento che conduce alla stipula dell'accordo ha rilevanza rispetto alle determinazioni dei paciscenti. 6 Libera citazione tratta dal libro di Fusi e Testa, La pubblicità ingannevole, 1993. 7 Approfondiremo meglio questo argomento nel prossimo paragrafo. 60 8 Ognuna di queste disposizioni trova corrispondenze nelle norme del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria. 9 Il valore che i primi due punti hanno nell’ambito di questa tesi verrà chiarito nei prossimi paragrafi; il terzo punto, invece, non è altro che la conferma di quanto detto nel par. 1.1. di questo capitolo). 10 Escludiamo da questa analisi il II° comma (legato all’uso improprio del termine “garanzia”) in quanto appartiene a un contesto, diciamo, “più tecnico” della costruzione del messaggio, a differenza del I° e III° comma che si collocano invece su un piano “più percettivo”. 11 Che, tra l’altro, deriva dalla Direttiva 84/450/CEE. 12 Bisogna però dire che, poiché l’applicazione della pubblicità subliminale si è rivelata pressoché nulla in ambito pubblicitario, questo divieto, per quanto encomiabile, appare per lo più inutile. 13 Il concetto di operatore pubblicitario si ritrova nella stessa legge 74/92, art. 3. 14 Avremo modo di analizzare qualche caso di intervento dell’Autorità Garante e del Giurì nel par. 2.5. 15 Ciò dimostra, come abbiamo detto anche in precedenza, l’avvicinamento verificatosi tra la normativa autodisciplinare e quella statuale a partire proprio dagli anni ’90. 16 Gli articoli riportati sulla colonna del “Giurì” provengono dal Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, mentre quelli riportati sulla colonna della “Autorità Garante” dal D.P.R. 10 Ottobre 1996, n. 627. 17 Con Garante si intende, in questo caso, il Garante per la Radiodiffusione e l’Editoria. 18 È chiaro il riferimento di questi art. alla Direttiva 89/552/CEE (vedi par. 1.2.). 19 Il caso trattato per l’Autorità Garante – così come per il Giurì – è stato semplicemente accennato in questa tesi. E’ possibile comunque consultarli nella loro versione integrale attraverso il cd-rom allegato alla tesi. 20 Le prime quattro considerazioni sull’Autorità Garante sono state da me ricavate in seguito alla supervisione del Provvedimento n. 6388 – Il domani non muore mai – del 04/09/1998; le ultime due invece provengono dalla supervisione del Provvedimento n. 5326 – Linda e il Brigadiere – del 18/09/1997. 21 Il cd-rom della Rassegna completa delle decisioni del Giurì da me consultato non va oltre questa data. 22 Nel terzo capitolo si trovano ulteriori informazioni su Gerardo Corti (più un’intervista) e sulla JMN & DY. 61 L’osservazione di Gerardo Corti viene da un’intervista da me svolta e consultabile dal cd-rom allegato alla tesi. 24 Si combinano così i vantaggi del ricorso a un testimonial, con il quale lo spettatore tende a identificarsi, e quelli della comunicazione non dichiaratamente pubblicitaria. 25 Come abbiamo avuto modo di vedere sinora, nelle varie norme analizzate non si parla mai di Product Placement, ma si ritiene possibile applicare tali norme a tal tecnica. 26 Questo, in particolare, è un problema risolvibile attraverso il “Product Placement Dinamico”, di cui parleremo nel prossimo capitolo. 27 Non poteva essere incluso proprio perché la riforma partiva dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, mentre una riforma simile in campo televisivo dovrebbe partire dal Ministero per le 28 Che sta dimostrando comunque un notevole successo, soprattutto nell’arco dell’ultimo anno. 29 L’intervista completa all’avv. Michele Lo Foco è consultabile dal cd-rom allegato alla tesi. 23 62 63 Premessa. Siamo giunti al capitolo conclusivo della mia tesi. Adesso cercherò di mostrare come il contesto cinematografico italiano sia stato effettivamente influenzato alla luce del “Decreto Urbani”. Parlerò innanzitutto dell’impatto immediato che il decreto ha avuto nel panorama cinematografico italiano, il quale si è tradotto in una serie di incontri, convegni e conferenze di grande rilevanza. Ma mi concentrerò anche sui tre sistemi che giocano un ruolo determinante nell’applicazione della tecnica del Product Placement: - la casa di produzione cinematografica; - l’agenzia di comunicazione e Product Placement; - l’impresa commerciale. Concluderò il capitolo con una riflessione sulle ultime tendenze e le novità che continuano a farsi largo nel campo del posizionamento cinematografico del brand. 64 1. Una tecnica che suscita interesse... Qual è stata la reazione immediata degli “addetti ai lavori” in seguito alla promulgazione del “Decreto Urbani”? Non esistendo una vera e propria “teoria del placement” – fatta eccezione per il lavoro di alcuni “profeti” del posizionamento cinematografico – il primo obiettivo dei diretti interessati era quello di conoscere appieno questa tecnica, attraverso studi e confronti. L’organizzazione di convegni, conferenze, incontri e tavole rotonde sul tema del Product Placement ha colpito in maniera abbastanza continua il territorio nazionale. Potrei parlare di decine di incontri sul Product Placement avvenuti nell’ultimo biennio, ma mi limiterò a tre casi, che considero tra i più importanti proprio perché dimostrano anche un’evoluzione avvenuta in questo campo negli ultimi due anni. Workshop on Product Placement (18 Maggio 2004). Primo importante incontro sul Product Placement in Italia, Workshop on Product Placement rappresenta quello che, possiamo chiamare, annuncio della legalizzazione del posizionamento cinematografico in Italia. L’incontro, organizzato nell'ambito del Festival di Cannes 2004 da Cinecittà Holding e tenutosi al Pavillon Italien, inizia con l’intervento di Alessandro Usai, Direttore Generale di Cinecittà Holding e membro dell'equipe che ha redatto il Decreto Urbani, il quale illustra le possibilità di utilizzo di prodotti e marchi nei film previste dalla nuova legge. Il passo immediatamente successivo è stato l’analisi degli aspetti legali e contrattuali dell'applicazione del Product Placement, attraverso il confronto della nuova norma vigente in Italia con le legislazioni che sulla stessa materia sono in vigore in altri paesi europei. In questa fase dell’incontro, quindi, i 65 protagonisti sono stati l’avv. Bruno della Ragione, dello Studio della Ragione Garofalo, per l’Italia, Pedro Callol dello studio Allen & Overy per la Spagna, Sarah Miccichè della Hammonds & Hussman per la Francia e Wolfgang Brehm della Brehm & v. Moers per la Germania. Infine l’incontro ha visto protagoniste autorevoli aziende, che hanno testimoniato i benefici offerti dai nuovi canali di comunicazione pubblicitaria all'industria cinematografica. In particolare, sono intervenuti Lapo Elkann, Direttore Marketing Straegico di Fiat Group: Noi dobbiamo adesso provare a mostrare l’essenza del contenuto del mezzo che stiamo vendendo nel film attraverso il posizionamento della macchina. Clement Vachon, Direttore Marketing Internazionale di S. Pellegrino: La gente non beveva la nostra acqua solo perché era italiana, ma soprattutto perché nella bottiglia loro “trovavano” l’Italia, la bellezza, il piacere. Elegante, preziosa, chic, come Sofia Loren, come Giorgio Armani, e tutto questo in una bottiglia d’acqua, ed è questa la cosa incredibile! e Joerg E. Schweizer, Manager per il Product Placement e AV Media del BMW Group: La BMW ha una grande tradizione nel fare Product Placement. Noi abbiamo iniziato nel 1934 ed è diventato per noi un fattore strategico negli anni ’60. C’è sempre stata una persona nel gruppo BMW incaricata di fare Product Placement. Metti un prodotto sul grande schermo. Il Product Placement nel cinema tra marketing e comunicazione (15 Luglio 2004). Il convegno Metti il prodotto sul grande schermo è stato organizzato in occasione dell’Ischia Global Film&Music Festival. Diversi sono stati i partecipanti al convegno, 66 appartenenti sia al mondo cinematografico che a quello d’impresa: Michele lo Foco, avvocato e presidente di Cinecittà Diritti: Finalmente l'Italia è in linea con gli altri Paesi (...) Occorre ora instaurare un dialogo tra produttori, pubblicitari e registi. Gianni Massaro, presidente ANICA Italia: (...) bisogna adesso essere capaci di introdurre bene la pubblicità nelle storie cinematografiche, senza che queste perdano la loro valenza narrativa. Fabio Fabbi, Direttore marketing strategico e comunicazione Cinecittà Holding: Il territorio del Product Placement è un territorio che non invade solo ed esclusivamente il contenuto ma anche quello che sta attorno al contenuto. Parliamo di merchandising, di affissioni, di tutto ciò che forse risulta essere più facilmente percepibile dal mondo della pubblicità che oggi in Italia non è ancora abituata a una valorizzazione di un ritorno di investimenti contestualizzata in un’operazione di branding nel contesto cinematografico. Alessandro d’Alatri, regista: Quando ho saputo dell’arrivo di questa legge, ho salutato questa cosa come il primo colpo di piccone contro un muro che negava tante libertà al cinema italiano. (...) Finalmente si assiste al riavvicinamento di due mondi che fino a poco tempo fa si guardavano in cagnesco (quello del cinema e quello della pubblicità). Francesco Moneta, presidente Egg: Vi consiglio di distinguere dichiaratamente il Product Placement dalla pubblicità. Le aziende guarderanno con attenzione solo se capiranno che non stiamo parlando di spot pubblicitario, proprio perché, in quanto tale verrebbe percepito dal pubblico come pubblicità “pagata”, commerciale. Nel momento in cui il prodotto viene contestualizzato alla storia esso acquisisce importanza, autorevolezza e, soprattutto, due fattori ritenuti determinanti dalle aziende: distintività e memorabilità. 67 Oltre a questi, erano presenti al convegno Pascal Vicedomini (fondatore dell’Ischia Global Film&Music Festival), Ilaria Borrelli (regista), Jack Gilardi (agente USA), Armando Branchini (segretario generale ALTAGAMMA Italia), Mick Davis (regista), Fulvio Lucisano (produttore), Gerard Butler (attore). Product Placement: cinema e brand si incontrano (6 e 11 Ottobre 2005). Molto probabilmente si tratta di uno dei convegni più interessanti tenutisi per ora in Italia sul tema del Product Placement. Suddiviso in due giornate (6 e 11 Ottobre 2005) e in due città (il primo incontro alla Casa del Cinema a Roma e il secondo alla Terrazza Martini a Milano), il convegno affronta il tema del Product Placement rendendo partecipi tutti i diretti interessati di questa forma di comunicazione: le case di produzione, le imprese commerciali e le agenzie. L’incontro del 6 Ottobre alla Casa del Cinema di Roma aveva come sottotitolo Il brand incontra il cinema; infatti oltre 200 tra produttori e professionisti del cinema hanno ascoltato alcuni tra i più importanti rappresentanti del mondo della pubblicità e non del calibro di Michael Göttsche, Presidente e Direttore Creativo Göttsche: (Il Product Placement è) un'opportunità da cogliere assolutamente per superare il problema dell'affollamento pubblicitario che rende meno performanti le forme classiche di advertising, cui si aggiungono le aggravanti dovute agli strumenti tecnologici che stanno modificando le abitudini degli spettatori. Fabio d'Angeloantonio, Direttore Marketing Luxottica Group: 68 (...) un esercizio estenuante ma di grande risultato per la costruzione della marca. (...) un matrimonio tra creatività artistica e creatività di marketing, applicato in 1000 film l'anno o Paola Manfroni, Direttore Creativo Esecutivo McCann Erickson Roma: (...) una pratica che non disturba perché un mondo senza marchi non è un mondo reale. Presenti a Roma anche Kellie Belle (Direttore Bellwood Media Ltd), Sergio Giorcelli (Partner Studio Avvocati Bruno Della Ragione), Aaron Lenzini (Vice Presidente William Morris Consulting), Patrick Russo (Presidente The Salter Group). E’ stato inoltre possibile rivolgergli diverse domande grazie alla tavola rotonda moderata da Fabio Fabbi. L’incontro dell’11 Ottobre alla Terrazza Martini di Milano aveva, invece, il sottotitolo Il cinema incontra i brand. Durante il convegno sono intervenuti Luca Lucini, regista de L’uomo perfetto (nel quale compare il posizionamento del brand Coca Cola Light): (...) un buon placement è frutto di integrazioni semplici e contestuali, in pieno accordo con il marketing dell'azienda sponsor. Mark Workman, Presidente della First Fireworks: (...) Solamente in alcuni film e per pochi momenti è possibile rendere un brand memorabile attraverso un legame emotivo con la storia e i personaggi del film. Aaron Lenzini, intervenuto anche a Roma, che si dimostra d’accordo con le opinioni di Workman e aggiunge diversi commenti sul rapporto ormai esistente tra brand, film e celebrità. 69 Anche in questo incontro, comunque, saranno diversi i soggetti a intervenire: Michele Lo Foco (presidente Cinecittà Diritti), Emidio Mansi (Direttore Commerciale Pasta Garofalo), Roberto Nepoti (critico cinematografico di Repubblica e docente di Filmologia all’Università di Trieste), Enrico Pacciani (Responsabile Product Placement di Cattleya), Maurizio Totti (Presidente Colorado Film) e Alessandro Usai (Direttore Generale Cinecittà Holding). E sempre in questo incontro, a Fabio Fabbi il dovere di gestire la tavola rotonda. L’interesse nei confronti del Product Placement c’è; e, a quanto pare, anche la partecipazione degli addetti ai lavori. Gli argomenti affrontati nei vari convegni, per quanto possano essere determinanti, risultano essere propri di un sistema alle prime armi, che si sta organizzando e che è pronto a partire, ma che si trova pur sempre all’inizio. E’ vero che, esiste una differenza sostanziale tra gli incontri del 2004 e quello del 2005, caratterizzata dal fatto che i primi 2 rappresentano più una sorta di “comitato di ben venuto” promosso in onore del Decreto Urbani, mentre il doppio incontro del 2005 chiama in causa l’effettivo lavoro portato a termine in seguito alle novità normative del 2004 (L’uomo perfetto, Quo vadis, Baby?, ...). Ma è anche vero che gli incontri del 2005, attraverso la presenza di personaggi come Lenzini e Workman, creano termini di paragone tra il Product Placement all’italiana e il Product Placement made in USA, paragone che sottolinea il gap ancora oggi esistente tra i due sistemi. Si tratta di un gap ovvio, dovuto ai diversi tempi di attuazione del placement nei due paesi, ma sicuramente non si tratta di una distanza incolmabile o così ampia come si possa pensare: se questi due sistemi cinematografici sono così lontani, che ci fa Gabriele Muccino a Hollywood a girare un film con Will Smith? E che cosa ci faceva Monica Bellucci in Matrix Reloaded? 70 Abbiamo ancora tanto da imparare, è vero, ma non è detto che non possiamo riuscirci in meno tempo del previsto; ci vuole volontà e perseveranza. Gli incontri finora organizzati le dimostrano entrambe. Ma parlarne va bene fino a un certo punto; adesso volontà e perseveranza devono essere dimostrate dagli addetti ai lavori. 2. Le case di produzione cinematografica. Passiamo ora all’analisi dei tre settori interessati nel processo di attuazione del Product Placement cinematografico; e partiamo, in particolare, dalle case di produzione. Che l’avvento del Product Placement in Italia abbia modificato fortemente il modus operandi di molte case di produzione, è una realtà non solo verificabile, ma anche facilmente intuibile a partire dalle caratteristiche del cinema italiano: un cinema che, a livello contenutistico, è sempre stato particolarmente predisposto alla realizzazione di film d’autore, in cui il posizionamento di un brand appariva quasi come una sorta di negazione dell’artisticità dell’opera – un’idea direttamente derivante dalla considerazione della pubblicità come un sistema che nega la nazionalità italiana (Michele Lo Foco); un cinema che difficilmente scavalcava il panorama nazionale per affermarsi in quello estero (tranne alcuni casi come La vita è bella, la cui la campagna promozionale, tra l’altro, fu affidata a un’impresa americana, la Miramax); un cinema il cui star system è sempre stato considerato inferiore se paragonato a quello americano, e quindi, di conseguenza, ritenuto incapace di aumentare la forza del film al quale partecipa. Il Decreto Urbani sembra aver avuto un effetto positivo su questo sistema; la sua promulgazione infatti ha cominciato a spazzare via molte di queste considerazioni ed oggi, diverse sono le case di produzione che agiscono alla luce del sole, ricercando brand da poter inserire nei propri film in cambio di 71 finanziamenti. Il cinema italiano ha finalmente deciso di aprirsi al mercato, e di farlo alla luce del sole, senza sotterfugi o espedienti di cui si è sempre sentito parlare ma sui quali non si è mai veramente intervenuto (avremo modo di vedere qualcosa più avanti). In Italia, tra le prime case di produzione che hanno aperto le proprie porte al mondo del Product Placement ricordiamo la Cattleya e la Colorado Film. La Cattleya, nel 2005, ha prodotto il film L’uomo Perfetto, all’interno del quale si ritrova il posizionamento della Coca Cola Light. E non si tratta di un caso unico e solo, considerando che per il 2006, questa casa di produzione ha previsto di trattare altri 8 casi di posizionamento. Il forte interesse della Cattleya per l’applicazione del placement è stato ampiamente dimostrato da Enrico Pacciani, Responsabile Product Placement, durante il convegno di Milano dell’11 Ottobre 2005. Durante il convegno, Pacciani espone il proprio punto di vista sul Product Placement ideale da applicare all’interno di un film, sottolineando principalmente le caratteristiche del prodotto, ossia il suo brand name: Penso che ci siano prodotti e brand che non hanno bisogno di una rappresentazione esplicita per svolgere comunque un ruolo determinante nella storia. (...) E tutti i prodotti di consumo preferiscono un inserimento di questo tipo (riferendosi al film L’uomo Perfetto), che non è troppo evidente. (...) Preferisco questo piuttosto che il contrario. Anche gli studi di psicologia negli Usa dimostrano che funziona una rappresentazione del prodotto non troppo esplicita... a meno che non si tratti di prodotti di lusso... se vogliamo fare un Product Placement sulla Ferrari non possiamo nascondere che di Ferrari si tratta! Come è stato detto anche nel primo capitolo, la presenza di determinati brand all’interno di un film può essere individuata con immediatezza proprio grazie a caratteristiche quali il logo o la struttura del pack. Ritengo però, che l’osservazione di Pacciani sia per lo più legata al fatto che il Product Placement 72 in Italia sia ancora una realtà troppo recente, ed è quindi giusto cominciare dall’inizio, ossia dalla forma di posizionamento più semplice, basata sulla semplice visibilità del prodotto. Ciò non toglie che esistono altre forme di posizionamento, molto più complesse e articolate, ma altrettanto efficaci, come il Product Integration o il Brand Entertaiment (che avremo modo di vedere meglio in seguito), tecniche già ampiamente utilizzate in America, possibili prospettive future nel campo Italiano. Pacciani, nonostante ciò, sottolinea come esistano dei vantaggi che il sistema cinematografico italiano ha rispetto a quello americano: si tratta dei diversi tempi di inserimento del brand nei film italiani e in quelli anglosassoni. Mentre in America, infatti, il periodo di uscita del film, così come il posizionamento di un brand al suo interno, devono essere dichiarati moltissimo tempo prima – generalmente l’uscita del “blockbuster” di fine maggio viene deciso già un anno prima – in Italia i tempi sono molto più stretti, dai pochi mesi alle poche settimane dall’uscita. Per il caso La cura del gorilla – prodotto dalla Colorado Film – la Pasta Garofalo è riuscito a inserire il proprio brand quando la scena in questione era già stata parzialmente girata... ciò potrebbe apparire come una fase di attuale disorganizzazione del sistema, ma, all’atto pratico, essa garantisce a qualsiasi impresa commerciale la possibilità di decidere, anche all’ultimo momento, di partecipare ad una qualsiasi operazione di Product Placement. Molto interessante anche il caso della Colorado Film che, nel 2005, ha prodotto il film Quo vadis Baby? che ha visto la partecipazione del brand TIM, e, nel 2006, ha realizzato La cura del gorilla all’interno del quale è stato posizionato il brand Pasta Garofalo. Maurizio Totti, produttore cinematografico, presidente della Colorado Film, dell’agenzia di talenti Moviement, e della società di spot Colorado Commercial, durante il convegno di Milano, dimostra anche 73 con le parole, e non solo coi fatti, il proprio sostegno alla liberalizzazione del Product Placement: Finalmente posso agire alla luce del sole e posso anche ottenere da un ipotetico ricavo derivante da Product Placememt una fonte di sostentamento. Anche lui sostenitore del principio “è impossibile concepire un mondo senza marchi”, Totti racconta come fosse difficile prima del Decreto Urbani, per una casa di produzione come la Colorado, muoversi tra esigenze artistico-contenutistiche e limiti normativo-commerciali. In particolare racconta che durante la realizzazione del film Nirvana, Gabriele Salvatores aveva deciso di lasciar vedere, in quell’ipotetico futuro – col solo scopo di dare maggiore credibilità alla storia – il marchio della Sony su diversi apparecchi. La reazione di Cecchi Gori, co-produttore del film, fu negativa a tale richiesta, tanto che Salvatores fu costretto ha mutare il nome del brand in Zony. Incredibilmente, la non applicabilità del Product Placement tutelava l’artisticità dell’opera ma contribuiva a distruggerne la verosimiglianza...! Maurizio Totti si dimostra talmente a favore del Product Placement, da individuare in esso anche delle caratteristiche funzionali alla realizzazione del film: L’altro tipo di pubblicità, quella ornamentale diciamo, ha anche una funzione... per esempio quando giri di notte, al direttore della fotografia una fonte di luce proveniente da un insegna gli fa molto più gioco che una luce artificiale...! Ma la figura di Maurizio Totti sul tema del Product Placement assume un significato maggiore nel momento in cui si parla dello star system italiano, e del contributo che questo può offrire tanto per il successo del film quanto per il successo del placement. Egli infatti sottolinea l’importanza della star come 74 testimonial del film e, di conseguenza, testimonial del prodotto in esso rappresentato. Nonostante ciò, Totti non si dimostra del tutto audace su questo tema: egli infatti sottolinea come sia difficile, anche per il prossimo futuro, pensare di poter agire allo stesso livello dello star system americano, senza però escludere la possibilità di ottenere notevoli successi in merito, garantiti in qualche modo dalla presenza all’interno del nostro star system di personaggi di grande presa a livello nazionale e internazionale come Monica Bellucci, Stefania Rocca, Gabriele Muccino, e tanti altri. Anche lo stesso Enrico Pacciani si dimostra fiducioso nei confronti del nostro star system sottolineando lo star power di un personaggio come Stefano Accorsi, che solo per la sua presenza nel film, attira automaticamente una fetta di pubblico nelle sale. L’uso della star italiana come potenziamento dell’effetto di placement nel film appare, anche se entro certi limiti, fattibile. Cattleya e Colorado sono solo due delle moltissime case di produzione che negli ultimi tempi hanno cominciato a dimostrare fiducia verso questa tecnica di marketing. Personalmente però ritengo che la presenza di troppe agenzie di comunicazione e Product Placement nel territorio nazionale, comparse improvvisamente negli ultimi tempi, rappresenti un elemento di ostacolo e di confusione per tutte quelle case di produzione che ancora si dimostrano incerte sull’utilizzazione del Product Placement come ulteriore fonte di finanziamento. Affronteremo comunque questo tema più nello specifico nel prossimo paragrafo, quando parleremo dettagliatamente delle agenzie di Product Placement. 75 3. Le agenzie di comunicazione e Product Placement. Prima di iniziare a raccogliere informazioni, quando ancora non avevo le idee chiare su dove, questa tesi, mi avrebbe portato, avevo commesso un errore di valutazione. Ritenevo che le agenzie alle quali mi sarei dovuto rivolgere per avere notizie sul Product Placement fossero agenzie di pubblicità. L’errore nel quale sono caduto io non è molto dissimile da quello che è stato commesso dall’intero assetto legislativo italiano su questo tema: ossia l’errore di considerare il Product Placement come una forma di pubblicità (occulta, clandestina, camuffata). Come ho già detto nel capitolo precedente, il Product Placement è una tecnica a sé stante, e poco c’entra con la pubblicità. Quindi, i “mediatori-creatori” che avrei dovuto cercare non li avrei mai trovati in un’agenzia pubblicitaria, bensì in un’agenzia altamente specializzata, di comunicazione e Product Placement. Inserendo quindi su Google le parole chiave”agenzia Product Placement Italia” ho trovato quello che stavo cercando: la JMN & DY, una delle prime agenzie di Product Placement nate in Italia. Il suo presidente, Gerardo Corti, è uno dei principali fautori del posizionamento del brand nel film già da molti anni. Laureato in Economia e Commercio, nel 1997 ha partecipato alla fondazione dell’Associazione per il Product Placement, il cui scopo era quello di far conoscere questo strumento di comunicazione auspicandone la liberalizzazione in Italia: obiettivo raggiunto, direi! Per avere un quadro completo delle agenzie di Product Placement in Italia ho pensato di intervistare proprio Gerardo Corti, il quale mi ha dato totale disponibilità. Dalla conversazione che abbiamo avuto ho potuto trarre una serie di conclusioni sull’attuale situazione delle agenzie di Product 76 Placement e sulla loro genesi. Innanzitutto, siamo in un contesto che trabocca di agenzie di Product Placement, italiane e straniere: JMN & DY, Popvision, Camelot, Goettsche, Bellwood, ... troppe agenzie per un sistema cinematografico come quello italiano. E’ la chiara dimostrazione della minaccia che le agenzie pubblicitarie hanno subito percepito con la comparsa del Product Placement in Italia. Una tendenza che le ha portate ad operare strategie di integrazione della novità, assimilando ciò che era percepito come “nuovo” per non rischiare di restare indietro; una condizione che, a mio parere, condurrà ben presto alla saturazione del mercato. Non ci vorrà molto prima che molte agenzie vedano “troppa gente a spartirsi la torta”, e decidano di abbandonare il campo, dedicandosi a qualcos’altro, chissà, magari all’ultima novità, lasciando il campo libero a poche agenzie, ma tutte altamente specializzate, con capacità e competenze indiscusse. Gerardo Corti pensa che non saranno più di 4... per me è stato anche troppo fiducioso. Comunque, sempre meglio questa condizione che quella vissuta fino a qualche anno fa, prima della promulgazione del Decreto Urbani. Un periodo che ha visto agenzie di Product Placement nascere ancor prima che il decreto fosse passato, per farsi trovare pronte, ma che in effetti non avevano niente da offrire (e non solo perché non potevano, ma soprattutto perché non sapevano come farlo); agenzie che Corti definisce di catering, il cui scopo era quello di procurare alle case di produzione determinati prodotti, richiedendo il compenso anche qualora non fossero riuscite a portare in porto l’affare; accordi tra case di produzione e imprese, senza figure intermediarie, dove si richiedeva il prodotto in cambio di uno spazio nel film, senza però offrire alcuna garanzia dell’effettivo posizionamento... si aveva a che fare con una vera e propria anarchia del placement. Oggi, la liberalizzazione del placement cinematografico ha permesso alle agenzie di 77 riorganizzarsi, di rivedere le proprie priorità, e, soprattutto, di ragionare non solo in termini di “che cosa si può fare”, ma anche in termini di “che cosa si potrebbe anche fare”. Molti, tra i quali la stessa JMN & DY, stanno spingendo già da diverso tempo al fine di ottenere la legalizzazione del Product Placement nel sistema televisivo, che garantirebbe ulteriori margini di profitto dato il successo indiscusso di spettacoli italiani del piccolo schermo come la fiction o il reality show. E mentre nel campo televisivo aspettano (e, alla luce delle ultime novità in campo internazionale, l’attesa non sarà poi così lunga), molte agenzie si danno da fare negli altri settori in cui il placement è una realtà fattibile, come i videogiochi, la letteratura o i video musicali. La JMN & DY, ad esempio, ha aperto da poco i settori videoclip e videogame, vedendo in essi delle ottime opportunità di posizionamento. Il problema, però, legato a questi nuovi spazi del placement risiede nel fatto che le imprese commerciali non dimostrano ancora abbastanza fiducia in questi strumenti alternativi. Come avremo modo di chiarire nel prossimo paragrafo, il problema del posizionamento, in base alla situazione attuale, non riguarda tanto le agenzie – più che ben disposte ad agire in maniera mirata e innovativa – quanto le imprese commerciali, che – secondo Corti – percepiscono la crisi economica che sta attraversando il nostro paese e corrono ai ripari attraverso l’eliminazione di ciò che, ai loro occhi, rappresenta spese senza garanzie. In conclusione ritengo che, superata questa fase di assestamento, di placement delle agenzie nel mercato nazionale, si potrà contare sull’indiscussa professionalità delle poche rimaste, o della “sola” agenzia rimasta, dato che Gerardo Corti, sul futuro delle agenzie di Product Placement italiane, cita ironicamente Highlander: ne resterà solo uno! 78 4. Le imprese commerciali. “E' giusto che guardiate ai numeri, ma qualche volta occorre un pizzico di coraggio. Perché non investire sui giovani autori, che oggi si fanno conoscere all'estero, come Saverio Costanzo candidato italiano all'Oscar?”. Questa domanda è stata posta da Gaetano Blandini durante il convegno di Roma Product Placement: cinema e brand si incontrano. E francamente questa domanda l’avrei voluta porre anch’io alle aziende. Non perché mi consideri un “giovane autore”, sia chiaro, ma perché, in tutto il lavoro da me svolto, mi sono reso conto del fatto che il contatto con l’impresa commerciale è stato il punto debole della mia tesi. Sono diverse le imprese che ho contattato, chiedendo loro un breve colloquio che mi permettesse di approfondire ulteriormente il discorso del Product Placement all’italiana, ma le risposte sono sempre state negative... anzi, sono sempre state nulle! Solo una mi ha risposto, la Bacardi, dicendomi però che la loro azienda non si interessa di operazioni di Product Placement. Riporto la risposta della Bacardi perché su di essa è possibile fare un’osservazione: il Product Placement, uno strumento dalle grandissime potenzialità, nonostante sia stato liberalizzato ormai da due anni, per molte aziende italiane non rappresenta ancora una strategia di comunicazione completamente affidabile. Mi viene quindi da pensare che se molte imprese non mi hanno nemmeno risposto (fatta eccezione per la Bacardi, che approfitto per ringraziare, comunque, per la cortesia dimostrata), il motivo di base è rappresentato dal fatto che, effettivamente, non avessero poi così tanto da dirmi... E alla luce di quanto mi è stato detto da Gerardo Corti, l’ipotesi non è poi così azzardata. 79 Il problema del rapporto tra imprese commerciali e Product Placement sono riuscito comunque a risolverlo grazie a un articolo del giornale Boxoffice nel quale sono riportate le opinioni dei responsabili di diverse imprese commerciali sul tema del Product Placement. Ecco le diverse citazioni. Emidio Manzi, Responsabile Commerciale Italia di Pasta Garofalo. La scelta di iniziare ad utilizzare il Product placement nasce dalla convinzione che oggi la pubblicità, molto più diversificata che non in passato, sia diventata dispersiva e meno efficace di prima, praticamente non offre più risultati soddisfacenti e costa sempre di più. Invece il Product Placement è uno strumento che, se usato bene, valorizza il prodotto e lo fa muovere in un contesto reale. Quindi crediamo che il futuro di questo strumento in Italia possa essere plurivalente, proprio perché aggancia brand e prodotti ad un mondo molto caro agli italiani, cioè al loro cinema. Abbiamo dunque ideato un progetto organico biennale di Product Placement attivando la collaborazione con due tra le principali case di produzione operative nel nostro Paese: Cattleya e Colorado. Il piano, ideato a inizio 2005, finora ha portato alla partecipazione di Garofalo in 4 pellicole: La cura del gorilla di Carlo A. Sigon di produzione Colorado e uscito lo scorso 3 febbraio; Lezioni di volo di Francesca Archibugi e N. di Paolo Virzì, entrambi prodotti da Cattleya, di prossima uscita ed infine Notturno bus di produzione EDM. Ma la previsione è, per la fine del 2007, di collocare il nostro prodotto in almeno 8 pellicole in totale. Selezioniamo i film a cui proporci tra i vari progetti di produzione nazionale che scopriamo attraverso diversi canali di informazione; tra questi cerchiamo di scegliere quelli che per le loro caratteristiche meglio si avvicinano al nostro target. L’incontro con i produttori avviene di solito attraverso un’agenzia di pubblicità, nel nostro caso Camelot, i cui esperti hanno già letto le sceneggiature ipotizzando varie forme di placement. Una volta che anche il regista è d’accordo, si sigla il contratto di collocamento. I nostri placement hanno finora coperto per ciascun film dal 5 al 10% del budget di produzione ma sono certo si possa crescere. I produttori italiani dovrebbero essere più attenti a questa risorsa, sia 80 quelli di film fortemente “di cassetta” che quelli specializzati in opere di qualità. In quest’ultimo caso un Product Placement ben fatto è una riserva in più. Lorenzo Sironi, Brand Manager di Coca Cola Light. Riteniamo che questo strumento di comunicazione, assolutamente non convenzionale, sia altamente innovativo e valorizzante per il marchio o il prodotto in quanto riesce a costruire nell’immaginario del consumatore un’associazione molto forte tra le sequenze del film e il marchio/prodotto che vi si muove. Fare product placement implica un investimento sensibilmente meno oneroso di uno spot televisivo e per questo conviene. Accanto a L’uomo perfetto, abbiamo collocato il nostro brand in Natale a Miami di Filmauro. Tuttavia nutriamo ancora qualche riserva: in Italia non esistono ancora strumenti di misurazione parametrati, per questo è ancora difficile impostare pianificazioni o comportamenti commerciali particolari sul suo utilizzo. Anna Laura Giorgio, Ufficio Stampa di Melting Pot. Siamo molto attenti al settore cinematografico ma per quanto attiene al Product Placement non lo abbiamo mai applicato attraverso una ricerca pianificata e soprattutto con scambio in denaro. Questo perché in Italia non ci sono ancora regole ben definite. Il nostro prodotto è rientrato e rientra in diversi film, ma questo essenzialmente perché nasce dalla richiesta dei costumisti delle varie produzioni che si rivolgono a noi. Può in tal caso scattare la risorsa dello sponsor. Se applicato in maniera adeguata, secondo appunto la definizione che include il denaro e non lo scambio merci, il Product Placement potrebbe diventare uno strumento molto utile anche perché darebbe la possibilità a diversi competitor dello stesso settore di comparire contemporaneamente nel medesimo film. Luca Pacitto, Responsabile Comunicazione di Fastweb. Per ora non facciamo Product Placement perché riteniamo che i tempi in Italia non siano ancora maturi, almeno relativamente ad una azienda come la nostra che non offre un bene di largo consumo 81 da posizionare in modo ben visibile in un film, bensì i benefici di un servizio di comunicazione integrata. E questo, chiaramente, implica uno studio assolutamente attento e sottile perché si possa integrare in un film senza apparire pubblicità smaccata. È chiaro che nel momento in cui lo strumento sarà dotato di adeguati monitoraggi, e le condizioni saranno mature e favorevoli, anche noi rivaluteremo la nostra posizione attuale e probabilmente ci doteremo di una pianificazione che comprenda anche il Product Placement. Sabina Rivetti, Responsabile Comunicazione della CP Company. In Italia i registi si prestano difficilmente ad un intervento di questo tipo all’interno delle loro opere. Probabilmente i tempi non sono maturi, ma forse si tratta proprio di un tratto caratteristico del cinema italiano, almeno di quello autoriale a cui noi prevalentemente guardiamo. Il Product Placement viene accusato come una limitazione espressiva ed un’invadenza di campo. Forse andrebbe usato diversamente, ma i passi da compiere sono comunque ancora molti. Da parte nostra, preferiamo investire nel cinema utilizzando altri canali promozionali, come la sponsorizzazione di varie situazioni legate al festival di Locarno e il coinvolgimento in fase di lancio e distribuzione di film di qualità italiani ed europei. Dal grandissimo entusiasmo all’estrema cautela, le imprese dimostrano comunque di conoscere il fenomeno e di tenerlo nelle dovute considerazioni. Il volerlo applicare in Italia, a quanto pare, è una realtà, per imprese come Pasta Garofalo, o una prospettiva futura, per imprese come la CP Company. Molto più scettiche nei confronti del cinema italiano appaiono invece imprese come la Mercedes – Smart che non ha mai utilizzato Product Placement in un’opera di nostra nazionalità, poiché difficilmente supera i nostri confini. 82 5. Product Placement tra presente e futuro. Qual è la situazione del Product Placement in Italia oggi? Oggi il Product Placement è considerato una tecnica di marketing a tutti gli effetti, così come lo sono l’advertising o la publicity. L’importanza acquisita da questa tecnica viene ampiamente dimostrata da Cinecittà, all’interno della quale è stato formato un gruppo di lavoro che ha il compito di raccogliere dati e informazioni utili allo sviluppo del Product Placement in Italia: il Product Placement Lab. Il suo obiettivo finale è quello di sensibilizzare le produzioni italiane e i grandi marchi commerciali sulle potenzialità di questo strumento. La fiducia affidata a questa tecnica le ha permesso di svilupparsi ulteriormente, all’interno di un sistema sempre più complesso e articolato. Lo stesso Product Placement si ritrova infatti a rientrare all’interno di strategie molto più ampie, il più delle volte volute e ricercate dalle stesse aziende, che scelgono di legarsi ad uno specifico progetto anche per mezzo di interventi collaterali. I sistemi sono molteplici e dipendono dal livello di investimento che l’azienda intende dedicare: ad esempio legare direttamente film e prodotto (come nel caso dell’Happy Meal di McDonald per il film Alla ricerca di Nemo) oppure avviare una campagna pubblicitaria ad hoc studiata prima dell’uscita del film (come nel caso della Mini per The Italian Job). Questa operazione collaterale viene definita cross promotion; essa permette all’azienda di associare il proprio marchio o il proprio nome al film o al personaggio anche fuori dalla pellicola stessa e, nello stesso tempo, il film viene sponsorizzato. L’importanza di queste operazioni collaterali è molto alta; un film che presenta al suo interno casi di Product Placement ha bisogno di rendere noto tutto ciò proprio per garantire il successo dell’operazione. Rendere noto un Product Placement 83 cinematografico attraverso cross promotion, ma anche grazie a comunicati stampa, articoli di giornale, promo, trailer, il tutto legato a fattori quali l’importanza del film o il livello di coinvolgimento, viene oggi definito come Product Placement dinamico. Paradossalmente, per aumentare i margini di successo di un’operazione di Product Placement, è necessario rendere nota la pubblicità occulta. Ma quali sono le principali forme di posizionamento oggi esistenti? Non esiste una vera e propria classifica dei livelli di complessità del posizionamento del brand. Nonostante tutto è possibile individuare l’esistenza di una sorta di “gerarchia del placement” che, anche se di natura generica, può essere molto utile a livello rappresentativo. Questa gerarchia è stata esposta al pubblico da Mark Workman, presidente della First Fireworks, durante il secondo appuntamento del convegno Product Placement: cinema e brand si incontrano, tenutosi a Milano l’11 Ottobre 2005. Brand Entertaiment Il prodotto diventa protagonista. Product Integration Product Placement Vengono messi in evidenza elementi caratterizzanti del prodotto. Semplice presenza del prodotto. Il primo livello, quello del Product Placement, è anche il più comune e si basa sulla semplice presenza del brand o del prodotto all’interno della scena (ad esempio un cartellone 84 pubblicitario o una lattina di una bibita appoggiata sul bancone di un bar). Il secondo livello – Product Integration – prende in considerazione caratteristiche peculiari del prodotto e li rende parte integrante della storia (ad esempio i personaggi di Man in Black non sono contraddistinti solo dall’abito nero, ma anche da riconoscibilissimi occhiali Rayban). Il terzo livello – Branded Entertaiment – consiste nella trasformazione del prodotto stesso nella star, il protagonista della storia (uno degli esempi migliori è sicuramente Toy Story in cui tutti i personaggi sono giocattoli della Playskool e della Mattel). Durante il convegno, Workman ha sottolineato che, mentre in America ci si ritrova oggi ad applicare un posizionamento appartenente al terzo livello, in Italia la sua applicazione è ancora ferma al primo stadio. L’intenzione di fare di più, di superare i propri confini, comunque, esiste, è viva e forte tra i diversi addetti ai lavori. Ad esempio già nel maggio del 2005 si parlava della possibilità di realizzare quello che in America viene chiamato Product Tie-In per un film prodotto dalla Really Good Productions di Valerio Zanoli. Il film in questione è The Minis, la storia di nani che giocano a basket, e riguardo all’applicazione di questa forma di Product Placement Zanoli si esprime in questi termini: Negli Stati Uniti il valore del Product Placement è dato dalle molteplici operazioni di promozione legate al film. E per questo ho pensato di esportare lo stesso format anche in Italia. Ed è proprio seguendo la filosofia del cross promotion che svilupperemo le nostre partnership: Blockbuster realizzerà una promozione ad hoc in occasione dell’uscita del film, Autogrill e Spizzico daranno vita ad un “Mini Menu”, così come i supermercati Sma, utilizzando le immagini e i contenuti legati alla pellicola per una raccolta punti. E anche Tim sarà presente in tre scene per promuovere un servizio di telefonia mobile. (...) E c'è ancora spazio per altre operazioni commerciali dentro e fuori la sceneggiatura di The Minis. I 85 nani sono dei testimonial perfetti per molti marchi. (...) Di solito un buon Product Placement può arrivare a coprire il 5%-10% dei costi di produzione. Con The Minis, nonostante manchi ancora del tempo all'inizio delle riprese, sono molti i nomi di aziende già sponsor del film e il loro investimento contribuisce per il 30% al costo totale per la realizzazione della pellicola. Una performance alla Steven Spielberg. E’ vero che questa iniziativa ancora non è partita – nonostante il lancio del film fosse stato previsto per Gennaio 2006 – ma sicuramente si tratta di un chiarissimo esempio dello sforzo dimostrato dagli esperti del settore italiani nell’applicazione di questa tecnica e delle sue forme più avanzate. Uno sforzo che ha avuto anche le sue concretizzazioni nella realizzazione di un Brand Entertaiment da parte dell’impresa Lavazza, con la realizzazione, su Italia 1, di minifilm ispirati a Carosello. Dopo 30 anni infatti Lavazza ripropone Carmencita e Caballero, in chiave attualizzata, sotto forma di sit-com “ultracorta” (2 minuti e mezzo), a partire dal 14 ottobre 2005, ogni venerdì alle 19,15. Si tratta di una grande dimostrazione dello spirito di iniziative che regna negli ultimi anni su questo tema, considerando anche che, mentre in America l’applicazione di questa tecnica avviene ormai da decenni, in Italia la sua “legalizzazione” è avvenuta solo a partire dal 2004. Per quanto possa apparire come un sistema arretrato, l’utilizzazione del Product Placement all’interno del contesto nazionale italiano ha riscosso e riscuote tuttora un notevole successo, come è dimostrato da film come L’uomo perfetto, Melissa P., Il mio miglior nemico o La cura del gorilla. 86 Conclusioni. Siamo giunti alla fine di questa tesi. Abbiamo analizzato un fenomeno complesso e articolato come il Product Placement e il suo processo di integrazione all’interno del contesto commerciale e cinematografico italiano. E solo adesso è possibile riportare alcune importanti considerazioni su questo fenomeno. L’impatto che questa tecnica ha avuto sul sistema italiano è stato senza dubbio molto forte; un impatto che ha prodotto effetti in più settori. E’ vero che l’art. 9.3. del Decreto Urbani ha trasformato – e in alcuni casi agevolato – il modus operandi di imprese commerciali, case di produzione e agenzie di comunicazione, ma è anche vero che i sui effetti non si riducono al solo ambiente commerciale. Si pensi per esempio all’assetto normativo e a come la liberalizzazione del Product Placement abbia permesso di abbattere definitivamente un antico tabù che vedeva la pubblicità come un fattore che negava la nazionalità italiana. Si tratta quindi di una norma che ha modificato col suo avvento non solo il modo di agire, ma anche un modo di pensare e di rapportarsi ad un specifico fenomeno come, appunto, quello pubblicitario. Si tratta comunque di una trasformazione che non poteva tardare ancora ad arrivare; gli ultimi 50 anni, infatti, hanno visto l’evoluzione di un nuovo modo di concepire il contenuto dello spettacolo al quale il pubblico sceglie di esporsi, un evoluzione basata sull’appagamento, da parte dello spettatore, non solo di interessi puramente ludici (oserei dire quasi spirituali...) ma anche interessi, diciamo, “sociali”, basati sulla conoscenza dei fattori che caratterizzano la propria società, tra i quali la merce; si pensi per esempio a Carosello, e alla sua capacità di integrare al divertimento del “pezzo” l’informazione del “codino”. Ovviamente Carosello in questo 87 frangente non risponde completamente a questa trasformazione ma ne rappresenta semplicemente il punto di partenza in Italia. Con la comparsa dello spot pubblicitario negli anni ’70 e l’esplosione creativa degli anni ’80 la tendenza di integrare informazione sul prodotto e “storia” verrà da una parte appagata del tutto, ma provocherà, dall’altra, una saturazione del flusso disponibile, e la nascita di un sensazione di fastidio nei confronti della presenza pubblicitaria. Questi due elementi diventeranno il cruccio dei creativi a partire dagli anni ’90: come veicolare l’immagine pubblicitaria verso il grande pubblico in maniera efficace e alternativa, senza però arrecare fastidio? Un problema che, sì, ha riguardato l’Italia, ma si è esteso anche oltre i nostri confini e all’interno delle tecnologie della comunicazione più disparate. Si pensi per esempio all’evoluzione della struttura di internet, che negli ultimi anni ha assunto la dimensione del portale, all’interno del quale informazione richiesta e pubblicità si integrano perfettamente. Il Product Placement in Italia è, possiamo dire, figlio di questa necessità: mostrare al pubblico un prodotto attraverso le scene di un film integra perfettamente informazione e contenuto, senza per questo provocare fastidio nello spettatore, poiché si inserisce all’interno di un flusso continuo. Oggi, a due anni dalla promulgazione del Decreto Urbani, molti passi avanti sono stati fatti e molte barriere sono state abbattute; ma è anche vero che siamo ancora agli inizi. E’ vero, infatti, che case di produzione cinematografica come la Cattleya e la Colorado Film hanno dimostrato un’apertura pressoché immediata a questa tecnica, riscontrando in essa una possibile fonte di finanziamento alternativa, ma e anche vero che si tratta ancora di casi sin troppo isolati per poter essere giudicati come rappresentativi di un sistema in rapida ascesa. Quello che serve nell’immediato è una maggiore apertura nei 88 confronti di questa tecnica, una maggiore predisposizione nei suoi confronti, una maggiore capacità di osare. E se dal lato delle case di produzione esiste ancora una leggera diffidenza, sul versante delle agenzie di comunicazione l’interesse nei confronti del Product Placement appare sin troppo eccessivo. Troppe agenzie, infatti, con competenze o meno, inserite nel settore o aspiranti tali, hanno deciso di lanciarsi in questo business, generando anche una forma di confusione sul mercato. Dal punto di vista cinematografico/italiano la presenza di decine di agenzie di comunicazione e Product Placement appare piuttosto eccessiva; sarebbe più auspicabile pensare ad un assetto organizzativo su questo frangente caratterizzato da poche agenzie che si dividono il lavoro su quei pochi film che nell’arco dell’anno vengono annunciati come pellicole di sicuro successo al botteghino. Per quanto riguarda le imprese commerciali, invece, ritengo che esse rappresentino, più degli altri due settori, l’effettivo ago della bilancio tra il successo e il fallimento del Product Placement cinematografico italiano. E’ vero che esistono oggi imprese come Pasta Garofalo o Luxottica che hanno investito parte del proprio budget in comunicazione proprio sull’applicazione del posizionamento cinematografico del brand, ma è anche vero che esiste una profonda sfiducia del settore più strettamente commerciale nei confronti della cinematografia all’italiana. Ancora troppe sono le imprese che si dimostrano diffidenti nei confronti di questa tecnica di marketing, e non semplicemente per il fatto di non rintracciare in essa alcuna potenzialità pubblicitaria, ma più nello specifico perché non vedono nel cinema italiano uno strumento sufficientemente forte da poter offrire un’immagine del proprio prodotto altrettanto forte. E come ulteriore riprova di ciò basta dare un’occhiata al cinema americano: a Hollywood ben 7 film 89 su 10 mostrano prodotti e marchi made in Italy. Secondo uno studio operato da Eta Meta Research, in un caso su tre si tratta di Product Placement, mentre due volte su tre a scegliere i marchi italiani è la produzione, che al contrario paga per l'utilizzo del prodotto – come è avvenuto, per esempio per il caso The Aviator in cui lo stesso Martin Scorsese ha chiesto a Giorgio Armani di creare gli occhiali da sole per i protagonisti del suo film ispirandosi alla “Golden Age” americana degli anni '30 ed allo stile di Howard Hughes, il miliardario-aviatoreproduttore interpretato da Leonardo Di Caprio. Un caso, questo, che dimostra, oltre a quanto detto sulla maggior fiducia delle imprese commerciali italiane nei confronti del cinema americano rispetto a quello italiano, anche lo spirito di iniziativa delle case di produzione nei confronti del Product Placement che dovrebbe rappresentare un modello per tutti gli altri paesi. Dare maggior fiducia alla cinematografia italiana è inoltre un elemento utile al fine di eliminare problemi interpretativi come quelli che si sono verificati per il film L’uomo perfetto nel quale compare in una scena un pacco di patatine San Carlo, impresa con la quale non esisteva alcun accordo di Product Placement ma che ne garantì comunque tutti i vantaggi del caso. Secondo Enrico Pacciani, questi casi anomali saranno risolvibili solo in futuro, quando, appunto, molte più imprese decideranno di dare fiducia al Product Placement (italiano) permettendo così di effettuare maggiori selezioni. La promulgazione del Decreto Urbani sta quindi modificando in maniera piuttosto evidente il panorama cinematografico italiano ed ha rappresentato, e sta rappresentando tuttora, un ottimo esempio di rinnovamento. Tuttavia ritengo che il successo del Product Placement in Italia, in tempi non troppo lontani, non interesserà tanto il mercato cinematografico quanto piuttosto quello televisivo. Si pensi che in America nel 90 2005, vi è stato un aumento degli investimenti in modalità Product Placement pari al 23% (arrivando così a una cifra pari a 4,24 miliardi di dollari) di cui la metà proveniente dal Product Placement televisivo. E, alla luce di questi dati, e considerato inoltre il grande successo che negli ultimi anni ha caratterizzato in Italia la produzione di fiction televisiva, non si può non prendere in seria considerazione l’idea di uno sviluppo di questa forma di Product Placement anche nel nostro paese. Come abbiamo più volte sottolineato in questa tesi – e come è possibile rintracciare anche negli allegati – il Product Placement televisivo in Italia è ancora vietato; ma è anche vero che qualcosa ha cominciato ha muoversi verso la sua liberalizzazione: il 13 dicembre 2005 la Commissione Europea ha approvato uno schema di aggiornamento per la direttiva sulla “Tv senza frontiere” del 1989 che tiene conto dei progressi fatti in questi anni sui linguaggi e sulle tecnologie televisive e che, cosa più importante per questa tesi, intende legittimare il Product Placement nei programmi televisivi a eccezione dei programmi per bambini e di quelli informativi. La direttiva proposta dal Commissario lussemburghese Viviane Reding deve passare all’esame dell’Europarlamento e del Consiglio dei ministri. Liberalizzare il Product Placement televisivo in Italia permetterebbe alle imprese commerciali, inoltre, di esorcizzare la paura proveniente dall’arrivo in Italia del cosiddetto dispositivo Tivo, il videoregistratore con funzione di kill spot, ossia capace di eliminare la pubblicità sia dalla regolare programmazione che dall’eventuale registrazione del programma. Le vere fonti di guadagno provenienti dal Product Placement applicato in Italia potrebbero arrivare quindi non dal settore inizialmente liberalizzato (quello cinematografico, appunto), ma dai settori in via di liberalizzazione (quello televisivo). E 91 anche da un altro settore, nel quale l’applicazione delle tecniche di Product Placement è notevolmente aumentato negli ultimi tempi: il settore dei videogiochi. Gli investimenti in Product Placement nel settore dei videogiochi è proiettato a una crescita maggiore rispetto ad altri settori. E’ prevista una crescita del 22.2%, corrispondente a un fatturato di 40,4 milioni di dollari nel 2005. Il settore videogiochi rappresenta oggi il 10.1% del totale Product Placement. Per quanto riguarda infine le forme di placement applicabili in Italia, la considerazione di Workman secondo la quale il nostro paese si ritrovi a fare ancora Product Placement basato sulla semplice presenza del brand, a differenza del sistema americano che ragiona nei termini di Brand Entertaiment, è un osservazione che oggi deve assolutamente essere rivista. Il sistema italiano, infatti, da questo punto di vista ha già dimostrato interesse (si pensi al convegno del 29 e 30 Novembre 2005 tenutosi a Milano sul rapporto esistente tra Brand Entertaiment e Media Digitali, la Digital Entertaiment Conference 2005, durante il quale si è affrontato il tema delle nuove strategie di valorizzazione dei marchi all'interno di film e all'interno di trasposizioni di film), propensioni all’azione (si pensi al Product Tie-In previsto per The Minis) e risultati effettivi (il Brand Entertaiment realizzato da Lavazza su Italia 1). In conclusione, ritengo che il Product Placement si presenti, dal punto di vista cinematografico, come un mezzo capace di offrire grossi margini di crescita a un sistema così altalenante negli ultimi anni, mentre, dal punto di vista non cinematografico – e televisivo in particolare – si presenta come un sistema molto forte, di enormi potenzialità, e margini di crescita non indifferenti... una vera e propria opportunità economica per il nostro paese. 92 Appendice Il marketing cinematografico. Introduzione. Partiamo innanzitutto da una definizione-standard: quella di marketing1. Il marketing è un processo di pianificazione e realizzazione delle attività di concepimento, attribuzione del prezzo, promozione e distribuzione di idee, beni e servizi destinati a creare scambi allo scopo di soddisfare obiettivi degli individui e delle organizzazioni. Facendo, quindi, riferimento alle 4 P del marketing-mix (Product, Price, Place e Promotion – Prodotto, Prezzo, Distribuzione e Promozione) la nuova definizione considera “prodotto da vendere” non più il solo prodotto “tangibile”, ma anche un comportamento o un’attività di un’istituzione. “Prodotto da vendere” diventa, a questo punto, anche un film; quindi, per quanto possa apparire banale, il marketing cinematografico non è altro che l’applicazione di appropriati strumenti di marketing all’interno del contesto cinematografico. Il cinema, oggi, è un’impresa che compete sul mercato con altri beni e servizi, i quali hanno come scopo principale quello di accaparrarsi il tempo libero della popolazione. E la La definizione è del 1985 e nasce sotto la spinta dell’American Marketing Association come alternativa alla definizione ufficiale del 1960 – il marketing si identifica con lo svolgimento di tutte le attività aziendali che servono a far muovere il flusso dei beni e dei servizi dal produttore al consumatore o utilizzatore. 1 93 competizione non è soltanto esterna al settore, ma anche interna: l’ultimo film della casa di produzione A deve fare i conti, contemporaneamente, con programmi televisivi, videogiochi, libri, spettacoli teatrali, ed altro – concorrenza esterna – ma anche con i film in uscita nello stesso periodo realizzati dalle case di produzione B, C, D, e così via – concorrenza interna. Inoltre, il prodotto cinematografico è un cosiddetto benesperanza, un prodotto la cui utilità agli occhi del consumatore si palesa solo dopo il consumo. Il potenziale consumatore ha bisogno quindi di essere rassicurato sul prodotto che desidera acquistare attraverso molteplici informazioni provenienti dai canali più disparati: ed è qui che entra in gioco il marketing cinematografico. Gli elementi riportati sinora dimostrano quanto sia importante il continuo riferimento allo spettatore cinematografico lungo l’intero processo gestionale del film, dalla produzione alla distribuzione all’esercizio, e giustifica l’applicazione di determinati strumenti capaci di agevolare il processo di vendita di uno specifico prodotto (filmico). Analisi del nuovo spettatore cinematografico. Perché si parla oggi dell’esistenza di un nuovo spettatore cinematografico? Il motivo principale risiede nello spostamento del polo di attrazione che il pubblico percepisce nei confronti del cinema. Quando i Lumiere offrirono al pubblico L’arrivo del treno alla stazione di Ciotat, l’elemento centrale era la cosiddetta “mirabilia tecnologica”, l’esaltazione della capacità di uno strumento come il cinematografo di proiettare sullo schermo un’immagine in movimento, talmente “reale” da terrorizzare il “giovane” spettatore cinematografico. 94 La spettacolarità tecnica del grande schermo ha subito una battuta d’arresto nel momento in cui il cosiddetto “cinema paesaggista2” non è stato più sufficiente a catturare l’interesse del pubblico. Lo spettatore non si accontenta più del semplice movimento delle onde del mare, ma cerca una storia, un racconto, una proiezione che non “mostri” semplicemente, ma “comunichi”. L’altalena tra il cinema/spettacolo tecnico e il cinema/racconto si è protratta negli anni fino ad arrivare alla condizione attuale, in cui sia la storia che l’effetto speciale rendono lo spettacolo cinematografico degno di essere visto in sala3. Oggi, in particolare, lo spettatore cinematografico è divenuto uno dei fattori determinanti che il marketing cinematografico tiene in considerazione, proprio perché la crescita dell’interesse per il contenuto filmico ha portato alla nascita del sistema dei generi, e, di conseguenza, alla segmentazione del pubblico cinematografico – in cui, appunto, ciascun individuo, attratto da un particolare genere, ne diventa “suo pubblico”. “Promuovere” un film non basta, bisogna “venderlo” ad un target specifico. Per questo motivo conoscere lo spettatore cinematografico di oggi diventa determinante. 2 La proiezione su grande schermo di specifici paesaggi come ad esempio il mare. 3 Il tutto unito all’evoluzione della sala stessa e alla nascita del cosiddetto “multisala”, in cui la visione del film si unisce a tutta una serie di altre attività legate al tempo libero. 95 La personalizzazione del consumo di cinema. Come abbiamo accennato in precedenza, l’utente cinematografico non è più “omogeneo”, “indifferenziato”, bensì è caratterizzato da parametri socioeconomici alti, il cui comportamento di acquisto risulta fortemente diversificato e connotato sul piano personale. Da un lato il consumatore è maturato rispetto al passato, acquisendo maggiore indipendenza, e, dall’altro, i mercati si sono trasformati, diventando micro-mercati, nei quali si ritrovano prodotti destinati a micro-universi differenziati tra di loro. Il cinema degli esordi era il medium e la forma di spettacolo più diffusa. La televisione, poi, ha sostituito il cinema in questo suo ruolo sociale, e recarsi nella sala cinematografica per vedere un film è diventata una scelta mirata, precisa e consapevole. Lo spettatore non vede più il cinema come “la scelta” bensì come “una possibile scelta”. Dal “consumatore cinematografico” al “consumatore filmico”. Fino alla fine degli anni ’40, negli USA, e fino alla prima metà degli anni ’60, in Europa, la domanda di cinema era di tipo “passivo”; la sala rappresentava un luogo di aggregazione e la visione dello spettacolo costituiva un modo estremamente economico di impiegare il tempo libero. In questa fase lo spettatore voleva semplicemente vedere un film al cinema: esso era quindi un consumatore cinematografico. Con il cambiamento delle condizioni di vita generali, l’incremento del reddito, la nascita di attività di tempo libero alternative, e anche la nascita della televisione, lo spettatore diventa consumatore filmico, interessato a vedere un film, 96 anche in un contesto diverso da quello della sala cinematografica. Consumo “aperto” e consumo “mirato”. Il consumo “mirato” rappresenta il consumo di un servizio a pagamento i seguito all’acquisto di supporto tecnologico necessario. In questo caso, il consumatore sarà un piccolo gruppo o addirittura un solo individuo. Questa forma di consumo si stacca completamente dalla sala cinematografica. Al consumo mirato si contrappone quella fruizione aperta, tipica delle televisioni generaliste. In questo caso, anche se la natura generalista di queste televisioni provoca una segmentazione del pubblico, il consumatore sarà comunque un numero particolarmente elevato di individui. 97 Il brand. Brand’s Attack! Quando io mi sveglio la mattina la prima cosa che faccio è quella di staccare la sveglia del mio Motorola. Subito dopo mi alzo e vado in bagno, mi faccio una doccia mi lavo i capelli col Fructis e il corpo con l’Axe. Poi mi lavo i denti col mio AZ mentre in cucina è quasi pronto il Lavazza. Dove voglio arrivare? Non è sicuramente mia intenzione volervi raccontare nel dettaglio tutta la mia giornata-tipo momento per momento... Quello che voglio fare è dimostrarvi che un uomo medio come me, ancor prima di uscire di casa la mattina, si ritrova ad essere al centro di un vero e proprio attacco mirato da parte di molteplici marche e prodotti. Sono in piedi da mezz’ora, non mi sono nemmeno vestito, e sono già stato “colpito” da cinque brand! E l’attacco diventa ancora più incisivo e incessante quando accendiamo la televisione, quando ci colleghiamo in rete, o quando, semplicemente, usciamo di casa per andare a scuola, all’università, al lavoro, ovunque. Sembrerebbe un estremismo, eppure un brand, oggi, e parte integrante della nostra vita così come lo è un parente o un amico. Si tratta di una situazione inevitabile; immaginate un mondo privo di marchi: non avremmo forse a che fare con un mondo piatto, monocromatico, asettico... alla Matrix? Accettare l’attacco del brand al quale siamo sottoposti vuol dire accettare una parte della nostra vita fatta di oggetti con un nome, un’identità (psicologica e fisica), una forza e un valore con i quali noi tutti cresciamo, interagiamo e, soprattutto, scegliamo di interagire. Ha proprio ragione la recente 98 campagna pubblicitaria che su tutte le reti offre al pubblico lo slogan Le tue marche, la tua storia. Il brand come stimolo pubblicitario. I brand fanno quindi parte della nostra vita, e fin qui ci siamo. Ma, come la differenza che esiste tra un amico e un conoscente, così anche i brand non hanno tutti la stessa importanza nella nostra vita. Io stesso la mattina uso l’AZ come dentifricio e non il Colgate... questo perché il valore che do al primo è diverso da quello che do al secondo. Ma come fa una marca ad affermarsi rispetto alle altre nella mente del consumatore? Il brand, così come qualsiasi altro stimolo pubblicitario, segue un itinerario che prevede 6 passaggi: 1. Attraverso l’azione dei mass media volta a superare le difficoltà ambientali (“rumori” fisici e semantici) e quelle soggettive del pubblico, il messaggio è esposto al soggetto prescelto. La percezione dell’azione dei mass media rappresenta già di per sé un primo esempio di successo dato l’affollamento di brand nel nostro tempo. 2. All’esposizione segue l’elaborazione: un altro effetto molto dipendente dal soggetto e dalla categoria strategica adottata dalla marca. Si tratta di una fase in cui, all’effetto del brand si uniscono tutte le altre politiche aziendali, quelle del marketing mix, e parallelamente continuano le influenze di tutta la restante industria culturale e della soggettività dell’individuo. 3. All’elaborazione segue l’apprendimento, di cui la pubblicità può essere da sola la maggiore responsabile. Il soggetto apprende, si costruisce una sua immagine 99 del prodotto/marca, acquisisce una certa conoscenza e percepisce una certa forza della marca (band power). 4. Alla struttura di un’immagine segue l’effetto azione, un atto preparatorio alla scelta e poi l’acquisto vero e proprio. 5. L’insieme di queste azioni costituisce l’effetto delle vendite di marca (sell out) che ci permette di raggiungere il livello finale… 6. …, ossia il profitto da parte dell’impresa. Dato che il tema centrale in questo momento è rappresentato dal brand, la fase sulla quale risulta più interessante soffermarsi è quella dell’apprendimento. Subito dopo essere stati esposti al brand, e averlo elaborato, inizia, quindi il processo di apprendimento, il quale parte dalla brand awareness (o conoscenza della marca) fino a giungere alla brand equity (o valore della marca). Brand Awareness. La conoscenza della marca rappresenta la base stessa dell’apprendimento. Se dire Just do it è sufficiente per capire di che cosa stiamo parlando, vuol dire che la conoscenza che noi abbiamo della Nike è particolarmente forte. Esistono comunque diversi livelli che danno la dimensione di quanto una marca sia riuscita a farsi conoscere, dalla pubblicità classica ad altre forme di comunicazione (sponsorizzazioni, promozioni, ... product placement), dalla distribuzione al packaging. Tra tutte, però la misura più selettiva è quella della brand saliency, ossia se e quanto una marca supera le concorrenti nel venire in mente spontaneamente. La prima marca che viene citata parlando di una determinata categoria è detta top of mind. L’insieme delle citazioni rappresenta la conoscenza spontanea totale della marca in questione. Non bisogna trascurare però 100 che non tutte le marche vengono sempre in mente spontaneamente, ma, a volte, hanno bisogno di uno stimolo. Alcune invece vengono ricordate solo perché il consumatore entra in contatto con esse in prossimità dell’acquisto(in questo caso non si parla proprio di ricordo ma di riconoscimento). L’insieme di tutte le marche citate rappresentano infine la notorietà totale, o Global Brand Awareness. Global Brand Awareness Riconoscimento Ricordo Aiutato Ricordo Spontaneo Top of mind seconda, terza, … Brand Identity. L’identità di marca è un vero e proprio processo di costruzione e di messa a punto del brand che avviene ad opera del management. E’ soltanto grazie all’identità che la marca prende forma, s’investe di un contenuto, si rende concreta, vitale ed afferrabile. Esiste uno schema che può aiutarci a capire quali siano gli elementi caratterizzanti di un’identità di marca: il modello di Kapferer. 2) La marca come luogo fisico. Un insieme di caratteristiche oggettive significative, caratteristiche che vengono subito alla mente o che restano latenti, sommerse, ma ugualmente importanti (l’uomo Moretti, il Blu per la Barilla, la mela della Apple, …). 3) La marca e la sua personalità. Da quando inizia a comunicare la marca acquista un carattere (Marlboro è serena, Telecom è simpatica, …). 101 4) La marca come universo culturale. Deve possedere un sistema di valori profondo (si pensi al Power to the people della Apple, ispirato alla cultura est della California). Troppo spesso, però la pubblicità si concentra più sulla personalità che sul suo universo culturale, essenziale invece nell’istituire la relazione prodotto/marca e nel legittimare il comportamento della marca stessa (Adidas incarna la cultura dello sport serio, sofferto, di squadra, mentre Nike quella dello sport spettacolare, popolare, individualista). Il paese d’origine può essere una buona riserva per la cultura di marca (il made in Italy della Barilla come gioia di vivere, piacere e creatività). 5) La marca come relazione. (Barilla aggrega la famiglia, Apple comunica unione e intesa, IBM assicura ordine). 6) La marca come riflesso. In questo caso si tratta dell’immagine esteriore che il brand dà del proprio utilizzatore ideale (Mercedes riflette un passeggero con autista, BMW una persona direttamente alla guida). 7) La marca come rappresentazione mentale. Rappresentazione di una relazione interiore tra il consumatore e se stesso (l’acquirente della Porsche che vuole provare a se stesso di “potercela fare”). Brand Image. La costruzione di una marca di successo passa attraverso la costruzione dell’immagine di marca, una successione molto precisa di percezioni del consumatore, la prima delle quali è rappresentata dalla Diversità. Diversità, ossia distinzione di una marca da tutte le altre; essa rappresenta quello che possiamo definire il motore della marca. A seconda dei punteggi rilevati in Diversità distinguiamo le marche in due grandi categorie. Da una parte le up and coming brands, marche che si caratterizzano per un alto livello di Diversità; 102 dall’altra le marche mature che mostrano un punteggio piuttosto basso in Diversità: è il caso delle cosiddette marche commodity, di uso quotidiano. Dopo la Diversità viene la Rilevanza, ossia l’adattabilità della marca alle esigenze personali dei consumatori. Se una marca non è di reale beneficio ai consumatori, non è corrispondente ai loro bisogni, difficilmente riuscirà ad attrarli, e tanto meno a mantenerli, o almeno non in gran numero. La combinazione tra Diversità e Rilevanza rappresenta la Vitalità di una marca, il suo potenziale di crescita nel futuro. La Diversità permette alla marca di nascere, la Rilevanza determina la sua misura dell’espansione. Il terzo indicatore rappresentato dalla Stima; essa cresce nei consumatori nel momento in cui gli sforzi affrontati per costruire una diversità rilevante hanno successo. Quando questi sforzi raggiungono il culmine, si assiste al passaggio al quarto e ultimo indicatore: la Familiarità. Essa non significa soltanto conoscere la marca, ma anche comprendere pienamente quello che la marca rappresenta, fino a considerarla parte integrante del proprio ambiente. La combinazione tra stima e familiarità dà la Statura della marca, la sua attuale grandezza. La brand image del prodotto è rappresentata dalla combinazione finale tra Vitalità e Statura, che viene indicata col termine di Power Grid. Brand Equity. La brand equity rappresenta una visione estesa della brand image; indica il valore effettivo della marca. Quindi non solo quello legato alle percezioni del consumatore, ma anche il suo valore finanziario. Sembra un gioco di parole, ma la marca ha valore quando introietta e trasmette forti valori. La marca ha valore se, e in quanto, riesce a sedimentarsi con un’identità chiara, distintiva e coinvolgente nella mente del consumatore. 103 Il concetto di customer oriented brand equity (COBE) parte proprio da questo assunto. La forza della marca, la sua capacità di produrre ricchezza, la sua equity si basa in realtà su ciò che il consumatore ha appreso, visto, sentito, percepito, sperimentato personalmente nel tempo. La COBE si attiva quando il consumatore elabora un elevato livello di conoscenza e familiarità con la marca che riesce a sedimentare nella sua mente un ricco patrimonio di associazioni positive in maniera consistente e duratura. La brand equity è la struttura latente e la risultante di una catena sillogistica che prende avvio dalla percezione della marca da parte dei consumatori (come cioè la marca vive nella mente del consumatore), che ne influenza la soddisfazione in funzione dei comportamenti di consumo, che a sua volta genera la fedeltà ed è capace di trasformarli in alto-consumanti e ad elevato tasso di frequentazione della marca, attraendo anche i consumatori più Floaters. Tangibile Attributi percepiti Intangibile Heavy buyers Customer satisfaction Fedeltà Valore della marca Floaters La fedeltà è quindi rapportabile alla soddisfazione del consumatore che, a sua volta, è funzione del plesso di attributi associati alla marca e percepiti dal suo pubblico. Si crea così una catena causale che, oltre a determinare la fedeltà, influisce su gli Heavy buyers e riesce a intercettare i Floaters. 104 Un esempio di brand equiy: la Coca Cola. La Coca Cola è un prodotto che firma una banale soft drink. Metà del suo nome (Cola) è un nome generico di cui tutti possono impossessarsi, l’altra metà è vagamente inquietante ed allude a un lontano passato in cui l’estratto delle foglie di coca c’era realmente. Eppure è divenuta in tutto il mondo una marca di culto. Ed è riuscita persino a contrastare grandi trend socioculturali che altrimenti ne avrebbero decretato un pressoché certo declino. La forza del marchio è ben sintetizzata dalle vicende che accompagnano gli esordi della New Coke. Nel 1985, il management della Coca Cola, dopo una serie di test sul gradimento del pubblico che avevano rilevato la netta preferenza per una variante di gusto optò per lo storico cambio di formula. Facendo oggetto di una massiccia comunicazione il nuovo prodotto, ribattezzato New Coke, e ritirando quello originario dal mercato, ai vertici della Coca Cola-Company erano sicuri di riuscire ad arginare il calo delle quote di mercato e di accontentare il pubblico, con un gusto nuovo e superiore. Invece, quando fu dato l’annuncio ufficiale, le reazioni furono così drammaticamente negative da indurre l’azienda a reintrodurre precipitosamente la vecchia versione con il nome di Coca Cola Classic. Eppure i test condotti dalla Coca Cola erano assolutamente inequivoci: la nuova formulazione non solo risultava decisamente preferibile rispetto a quella commercializzata, ma si era dimostrata anche del tutto superiore rispetto alla sua grande concorrente, la Pepsi. Il gusto più gradevole era stato immediatamente declassato in quanto percepito come attentato all’integrità della marca, al suo statuto costitutivo. Reintroducendo la tradizionale Coca Cola e ammettendo quello che nei manuali viene definito come “il più grande errore di marketing di tutti i 105 tempi”, Donald Keough, chief operating manager di Coca Cola, si espresse in questi termini: La passione per l’originale Coca Cola – questa è la parola giusta, passione – ci ha davvero colti di sorpresa. E’ stato meraviglioso. E’ un meraviglioso mistero tutto americano, un enigma americano che non si può misurare come non si può misurare l’amore, l’orgoglio e il patriottismo. 106 Provvedimento n. 5945. Fuochi d’Artificio (30/04/1998). Un consumatore ha denunciato come pubblicità non trasparente l'immagine della autovettura marca Mercedes, modello “classe A”, apparsa nel film Fuochi d'Artificio, di e con Leonardo Pieraccioni. Nella scena in questione, in un primo tempo viene inquadrata la protagonista mentre esce e si allontana da un'autovettura per poi dirigersi verso l'attore. Nella stessa inquadratura è possibile scorgere, in margine allo schermo, il marchio Mercedes-Benz. Successivamente, nella stessa scena, si può cogliere, alle spalle del primo piano dell'attrice, l'immagine sfocata dell'autovettura. Al fine di acquisire specifici elementi di valutazione, l’Autorità Garante ha richiesto alla Mercedes Benz Italia Spa, in qualità di presunto committente e a Cecchi Gori Group Fin. Ma. Vi. Srl, quale presunto coautore, di fornire una documentazione relativa ad eventuali accordi, stipulati tra le due società, connessi all'utilizzo dell’autovettura nel film. L’Autorità ha richiesto, inoltre, di acquisire una copia della sceneggiatura del film e una copia degli storyboard utilizzati nella predisposizione della sequenza in questione. Vediamo ora le osservazioni fondamentali esposte dalla Mercedes Benz Italia Spa in propria difesa: - la Mercedes-Benz Italia ha consegnato la vettura alla Cecchi Gori Group non per conseguire finalità pubblicitarie, ma nell'ambito di un puro e semplice rapporto di cortesia, esistendo tra le due società buone relazioni commerciali, dal momento che la Mercedes-Benz Italia investe in spazi pubblicitari, evidentemente non in esclusiva; - la Mercedes-Benz Italia non ha fatto ricorso a pubblicità occulta al fine di lanciare una vettura che non era ancora stata commercializzata al momento della realizzazione del film. Infatti, al momento della proiezione, “la classe A” era già nota al pubblico grazie a un'ampia campagna promozionale operata da MercedesBenz Italia; - non è obiettivamente sostenibile che la Mercedes-Benz Italia abbia fatto ricorso a un “frame” di pochi secondi per lanciare il suo prodotto, dopo aver pianificato una campagna pubblicitaria all'insegna dello slogan "Contatto diretto", che aveva interessato la stampa periodica e quotidiana, televisione, radio, circuiti cinematografici, affissioni e volantinaggio, per un investimento di circa tredici miliardi di lire. 107 Con riferimento all'inquadratura contestata, la Mercedes-Benz Italia Spa sostiene che la stessa non risulta mai artificiosa e innaturale, essendo occasionale e determinata da esigenze tecnico-narrative: - la vettura è inquadrata solo per pochi secondi, il tempo strettamente necessario alla narrazione, e occupa un posto secondario nella scena, come dimostrato dalla circostanza che la macchina da presa non indugia né sulle caratteristiche esterne né su quelle interne; - il marchio compare solo per frazioni di secondo e neppure in primo piano, così da rendere impossibile all'osservatore soffermarsi su di esso; - durante il colloquio tra i due attori, la vettura si intravede sullo sfondo, cosicché l'immagine della “Classe A” è sfocata e non consente di apprezzarne alcuna caratteristica; inoltre, la vettura risulta coperta dal primo piano dell'attrice; - al termine della sequenza la macchina da presa non indugia sulla protagonista, che si allontana presumibilmente a bordo della vettura in questione, ma si sofferma sul volto dell'attore; - l'attrice, nel contesto del film, è un soggetto connotato negativamente e pertanto da ritenersi palesemente inidoneo ad accreditare positivamente il marchio e la vettura, in modo tale da escluderne l'attitudine promozionale. Secondo la Cecchi Gori Group Fin. Ma. Vi. Srl non esiste alcun accordo di Product Placement con la Mercedes-Benz Spa e osserva, inoltre, che la scena oggetto del procedimento non può essere qualificata come pubblicità non essendo funzionale a promuovere la vendita della vettura, in quanto: - la scena in questione non è affatto nitida, è al contrario una scena notturna e risulta pertanto buia; - il modello dell'autovettura è difficilmente individuabile, se non con attentissimo studio da parte di un esperto; - l'utilizzo di una vettura nuova è previsto dalla sceneggiatura ed è funzionale alle caratteristiche narrative del film; - per la scena in questione è stata utilizzata una vettura di cui vi era disponibilità, e, se si fosse utilizzata una vettura di un'altra marca, si sarebbe potuta contestare la pubblicità occulta di quella marca. Alla luce dei fatti e delle verifiche svolte, il Garante ha considerato che, sebbene la circostanza che sia stata utilizzata un'autovettura non ancora commercializzata al momento in cui veniva girato il film deponesse a favore dell'intenzionalità pubblicitaria, alcuni elementi importanti non potevano essere trascurati: 108 - l'auto è stata inquadrata nel corso di un'unica scena; il marchio commerciale non è stato messo in particolare evidenza; l'inquadratura non risulta ravvicinata, prolungata, priva di naturalità e artificiosa, ovvero avulsa dal contesto narrativo. In conclusione, il Garante, in questo caso, non ha ritenuto il fatto punibile ai sensi dell’4.1. del Decreto 74/92. 109 GIURI’ – 21 Gennaio 1997 – Pres. BALDASSARRE – Est FLORIDIA – Comitato di Controllo c. Ford Italia S.p.a. (avv. Imperiali) e Publitalia ’80 S.p.a. Non si è in presenza di una comunicazione pubblicitaria o di una forma di product placement qualora un’autovettura, acquistata presso un concessionario all’insaputa della casa produttrice e senza altra collaborazione da parte di quest’ultima, venga presentata, priva di marchi di fabbrica, come premio nel corso di una trasmissione televisiva; né espressioni elogiative della vettura presentata come premio e la riconoscibilità del modello costituiscono elementi presuntivi, idonei a supplire alla mancanza della prova storica del rapporto di committenza. 1. Con istanza in data 20/12/1996, il Comitato di Controllo ha chiesto al Giurì di pronunciarsi nei confronti della Ford Italia S.p.a. e di Publitalia ’80 imputando loro di aver trasmesso sulla rete televisiva Italia 1 di Mediaset, l’1/12/1996, un programma di intrattenimento intitolato “Non dimenticare lo spazzolino da denti”, nel quale – secondo l’opinione del Comitato – è collocata la pubblicità dell’automobile Ford “Ka” senza che tale pubblicità sia distinta per mezzo di idonei accorgimenti dal contenuto del programma di intrattenimento. Per questa ragione il Comitato ritiene che vi sia stata una violazione dell’art. 7 CAP. Descrivendo più in dettaglio la fattispecie dedotta, il Comitato rileva che la nota conduttrice Ambra Angiolini invita una signora del pubblico a partecipare a un gioco consistente nel trovare il telecomando che possa aprire e quindi vincere l’automobile nuova che viene mostrata: appunto una Ford “Ka”. Il gioco prevede anche la distruzione pezzo per pezzo della vecchia auto della signora fino a quando quest’ultima non abbia trovato il telecomando giusto per aprire la nuova auto. All’interno dello spazio dedicato a questo gioco l’automobile Ford “Ka” viene inquadrata più volte e la conduttrice si riferisce ad essa con chiare espressioni di contenuto pubblicitario e promozionale. Secondo il Comitato di Controllo si tratta di pubblicità camuffata perché non riconoscibile come tale e perciò viene chiesto che sia dichiarata in contrasto con l’art. 7 del Codice e che ne sia ordinata l’immediata cessazione. E’ pervenuta memoria illustrativa della Ford Italia S.p.a. in data 13/1/1997, con la quale viene richiamata l’attenzione del Giurì sul fatto che la casa 110 automobilistica è stata non soltanto totalmente estranea alla preparazione della trasmissione ma anche del tutto all’oscuro del contenuto dei giochi effettuati nel corso della trasmissione stessa. La Ford prosegue sottolineando di non aver ricevuto alcuna proposta riguardante la trasmissione in questione e di non aver effettato televendite in nessuno dei programmi delle reti Mediaset nel corso del 1996, e probabilmente, anche nel corso degli anni precedenti. Avendo presa visione del filmato la Ford ha notato che il suo marchio, posto sul cofano della “Ka” è stato coperto con materiale dello stesso colore della carrozzeria nell’esemplare utilizzato per la trasmissione: dal che la Ford deduce che la Mediaset non avesse alcuna intenzione di pubblicizzare la vettura, il cui aspetto, peraltro, all’epoca della trasmissione non era certo ancora familiare al pubblico dei consumatori, trattandosi di un modello nuovo e appena lanciato sul mercato. La Ford ha sottolineato infine che la vettura è stata acquistata ai fini della trasmissione dalla società Videotime presso la concessionaria Dama S.r.l. con sede in Cologno Monzese ed è stata pagata al prezzo di mercato. La Ford ha allegato alla sua memoria una dichiarazione della Ogilvy & Mather S.p.a. la quale conferma che per tutto il 1996 non sono state proposte, acquistate e pagate nell’interesse della Ford televendite in nessuno dei programmi delle reti Mediaset e che l’attività svolta dall’agenzia nell’interesse della Ford tramite la concessionaria Publitalia ’80 è consentita unicamente nell’utilizzo di spazi pubblicitari “tabellari” normalmente inseriti nei break e acquistate alle normali tariffe di mercato. La Ford ha allegato alla sua memoria anche una dichiarazione di Sabina Gregoretti produttore esecutivo della Rti fatta pervenire a Vincenzo Ponterlo di Publitalia ’80 che chiedeva spiegazioni in ordine alla trasmissione televisiva oggetto della vertenza. Sabina Gregoretti ha confermato che l’automobile Ford “Ka” messa in palio nel gioco televisivo è stata regolarmente acquistata e fatturata dal concessionario, che il premio è stato assoggettato al normale trattamento tributario, che il nome e il marchio dell’automobile non sono stati visualizzati nel corso della trasmissione che il prezzo pagato è stato quello di mercato. E’ pervenuta memoria difensiva di Publitalia ’80 in data 13/1/1997 con la quale è stato chiesto al Giurì di riconoscere che la comunicazione denunciata non è qualificabile come pubblicità e perciò non viola alcuna norma del Codice di Autodisciplina. Ciò in quanto: - sia Publitalia che Ford Italia S.p.a. sono completamente estranee alla comunicazione oggetto dell’istanza; 111 - nessun rapporto di commissione è inoltre intervenuto nemmeno tra Rti, cioè l’editore proprietario del mezzo e la Ford; - la visualizzazione dell’auto è avvenuta per libera, autonoma e unilaterale scelta della società responsabile del programma, motivata unicamente da esigenze editoriali rientranti nella sfera di libertà di espressione dell’editore; - l’analisi degli elementi formali e sostanziali della comunicazione rivela una serie continua di avvertenze e di strumenti comunicazionali orali e visivi perfettamente coerenti con la natura non pubblicitaria della comunicazione stessa. Alla memoria di Publitalia ’80 sono allegate le dichiarazioni dei sigg. Massimo Gervasio della Rti e Giovanni Gatti della Videotime che confermano che l’automobile oggetto della trasmissione è stata regolarmente acquistata dalla concessionaria. 2. Nella seduta all’uopo appositamente convocata del giorno 21/1/1997 sono comparsi: per il Comitato di Controllo il prof. avv. Giorgio Ferrari; per la società Ford Italia S.p.a. l’avv. Andrea Imperiali; per Publitalia ’80 il dr. Alessandro Morselli, la dr. Valeria Tosi e il dr. Davide Cacciatore; per Rti Videotime il dr. Massimo Gervasio e il dr. Stefano Longhin. La discussione orale ha avuto inizio con l’intervento del prof. Ferrari per il Comitato di Controllo, il quale ha esordito affermando che, per ritenere violato il divieto pubblicità camuffata, non è necessario che sia stato concretamente concluso un pactum sceleris fra Publitalia e Ford, e cioè un patto preordinato consapevolmente al camuffamento della pubblicità, ma è sufficiente che l’operazione posta in essere, per come programmata e realizzata, sia tale da fare luogo oggettivamente a un effetto promozionale a beneficio di un prodotto che, appunto per ciò, può ben dirsi pubblicizzato. Il camuffamento della pubblicità infatti non consiste soltanto nel redigere un messaggio in forme redazionali ma anche nel porre in essere il cosiddetto product placement, collocando il prodotto in un programma a fini promozionali. In questo senso – secondo l’oratore – si è pronunciato il Garante della concorrenze e del mercato con il provvedimento n. 3304. Con questo provvedimento il Garante ha ravvisato la violazione dell’art. 4 del decreto legislativo contro la pubblicità ingannevole (norma parallela all’art. 7 del Codice di Autodisciplina) nel caso di un servizio televisivo dedicato alla nuova vettura Fiat denominata “Barchetta”: servizio trasmesso nel corso di una trasmissione intitolata “Videosapere”. In questo servizio compaiono dapprima alcune scene del film di Dino Risi Il sorpasso nelle quali la protagonista è una vettura spider degli anni ’60 e subito dopo vi sono le inquadrature della nuova spider Fiat “Barchetta”. La società Fiat ha 112 negato che si trattasse di una pubblicità camuffata osservando che l’argomento della trasmissione era il design industriale e che, proprio in funzione di questo argomento, nel contesto della trasmissione è comparsa l’automobile “Barchetta” come la prima spider italiana di serie prodotta dopo la “Duetto”, famosissima spider degli anni ’60. La società Fiat negato che si fosse trattato di pubblicità camuffata osservando altresì che questo illecito postula un rapporto di committenza tra l’inserzionista e il medium che nelle specie non era in alcun modo sussistente. Avuto riguardo a questo caso, il prof. Ferrari ha evocato il principio teorizzato nell’occasione dal Garante secondo il quale “l’affermazione della reale natura promozionale di una pubblicazione può prescindere dall’effettivo accertamento dell’esistenza di un rapporto di committenza fra impresa e proprietario del mezzo di diffusione, quando lo scopo promozionale, possa desumersi anche da altri elementi presuntivi, purché questi siano gravi, precisi e concordanti”. Il prof. Ferrari ha sottolineato infine che, secondo il Garante, la natura pubblicitaria del servizio può essere desunta dal vantaggio reciproco che le parti traggono dall’utilizzazione e diffusione del materiale filmato predisposto in quell’occasione dalla società Fiat: quest’ultima infatti diffonde il materiale pubblicitario e ne riceve un vantaggio indiretto promuovendo attraverso una trasmissione ad ampia diffusione l’immagine della propria autovettura; la Rai, a sua volta, ottiene un risparmio nella realizzazione di programmi dedicati all’informazione e alla cultura in genere, in quanto occupa gli spazi di una trasmissione “contenitore” utilizzando del materiale filmato già predisposto da altri. In questo senso è stata ritenuta dal Garante irrilevante l’argomentazione dedotta dalla Rai, secondo la quale il servizio in questione sarebbe stato dedicato al disegno industriale italiano considerato come punta di diamante della creatività italiana nel mondo, dal momento che in ordine al tema del design il servizio non forniva alcuna informazione di carattere generale, trattando solo ed esclusivamente della nuova vettura. Replicando alle argomentazioni contenute nelle difese di controparte, il prof. Ferrari osserva che, per escludere la fondatezza dell’istanza, non rileva affatto che la Ford non faccia televendite sui canali Mediaset ma rileva che faccia investimenti pubblicitari su queste reti per importi molto consistenti. L’oratore ha citato la testimonianza di Mirella Pallotti, secondo la quale la giornalista non ha alcuna libertà nello svolgimento della sua attività professionale perché le viene imposto di esaudire i desideri degli inserzionisti. Il programma per cui è causa è un programma a premio e quando esso è polarizzato su di un premio costituito da un prodotto, per questa sola ragione può essere considerato un programma pubblicitario. Il 113 fatto che sulla vettura della Ford presentata come premio nel programma in questione il marchio posto sul davanti sia stato coperto non basta a escludere la natura pubblicitaria della comunicazione stessa: perché anzi questa copertura acuisce la curiosità dello spettatore e quindi l’effetto promozionale che si voleva perseguire. La vettura è pienamente riconoscibile anche se appena uscita sul mercato, dato che un servizio su di essa era apparso sulla rivista specializzata “Quattroruote”: e questo dato rivela l’effetto sinergico della recente apparizione sul mercato e dell’adozione della vettura come premio nella trasmissione a fini, naturalmente, promozionali. La discussione orale è proseguita con l’intervento dell’avv. Imperiali nell’interesse della Ford. Anche il product placement – secondo Imperiali – postula la conoscenza del fenomeno che si vuole realizzare da parte del produttore, mentre nel caso di specie Ford non ha mai saputo nulla della trasmissione oggetto dell’istanza fino a quando questa non è stata realizzata. E’ vero che il rapporto di commissione può essere provato mediante presunzioni, ma queste devono essere gravi, precise e concordanti. Nel caso di specie non vi sono presunzioni di questo genere: - la macchina non è affatto inquadrata con insistenza nel corso della trasmissione; - essa non era nota, poiché la notorietà di una vettura postula che ve ne siano in circolazione almeno 35.000; - l’utilizzazione di frasi come “bella macchina” non ha alcun significato al fine di accertare la natura pubblicitaria della trasmissione, proprio in quanto si tratta di frasi molto generiche e che non descrivono nulla; - il meccanismo competitivo posto in essere dalla trasmissione che presenta una vecchia macchina da demolire per la sostituzione con la nuova macchina Ford potrebbe far pensare a una pubblicità comparativa se non fosse che si tratterebbe di una comparazione impensabile fra due veicoli completamente eterogenei, perché uno di essi è superato mentre l’altro è appena uscito sul mercato. L’avv. Imperiali ha concluso il suo intervento sottolineando che la Ford non avrebbe mai scelto di pubblicizzare la sua vettura con una tale trasmissione, dal momento che il concetto promozionale seguito dalla Ford per la vettura “Ka” è antitetico a quello che emerge dalla trasmissione, trattandosi di una vettura che viene presentata essenzialmente come seconda macchina e non come macchina per la famiglia. 114 La discussione orale è proseguita con l’intervento del dr. Morselli, che si è riportato alla lunga memoria e che ha ribadito che nella specie non solo mancano presunzioni gravi, precise e concordanti per affermare la natura pubblicitaria della comunicazione ma esistono semmai presunzioni contrarie alla tesi della pubblicità camuffata. L’oratore ha proseguito ribadendo che la vettura è utilizzata nella trasmissione come premio e viene presentata positivamente proprio in questa sua funzione di regalo. Dopo le repliche le parti si sono ritirate per consentire al Giurì di deliberare. 3. Nel panorama delle fattispecie riconducibili fenomenologicamente all’applicazione dell’art. 7 CAP quella che oggi viene sottoposta all’esame del Giurì si caratterizza come una forma nuova di product placement: nel senso che il prodotto compare nel corso di una trasmissione televisiva di intrattenimento con una funzione diversa rispetto a quella di oggetto di promozione pubblicitaria, vi compare cioè come premio che viene vinto dal partecipante al gioco ricorrendo le condizioni previste la cui attuazione anima il gioco stesso e realizza l’intrattenimento televisivo. Nell’affrontare la disamini della fattispecie per come dedotta nell’istanza, Publitalia si duole innanzitutto, molto insistentemente, di quella che chiama “tautologia distorsiva” nella quale incorrerebbe il Comitato di Controllo, che parte dal presupposto che la comunicazione costituisca pubblicità per poi giungere alla conclusione che costituisce pubblicità con un ragionamento circolare e chiuso, perché si conclude appunto con l’esatta ripetizione di ciò che era stato dato per scontato sin dall’inizio: sicché alla fine, risultato e premessa combaciano perfettamente e rimangono indimostrati in quanto indimostrati e apodittici lo erano sin dall’inizio. Sembra al Giurì che questa censura metodologica non sia condivisibile, perché in realtà il Comitato di Controllo individua il fondamento dell’istanza nel fatto che, all’interno della comunicazione, vi sono frasi aventi un contenuto oggettivamente promozionali, le quali vengono pronunciate in ambito di forte ambiguità comunicazionale, perché sospese fra l’apparente anonimato della vettura adottata come premio e la funzionalità rispetto alla conduzione del gioco. In altri termini nell’istanza la comunicazione viene accusata di costruire un abile camuffamento della sua natura promozionale mediante il meccanismo del gioco e l’intrattenimento televisivo. Per contro nella discussione orale il Comitato di Controllo, per bocca del prof. Ferrari, ha posto il fondamento dell’istanza in un concetto alquanto diverso tratto dalla pronuncia 3304 del Garante della concorrenza e del mercato emessa nel caso “Barchetta” Fiat secondo la quale la natura pubblicitaria di una comunicazione può ben risultare dal 115 vantaggio reciproco dell’impresa il cui prodotto viene presentato nella comunicazione stessa e del gestore del mezzo televisivo. Queste, essendo le alternative giustificazioni che sono state addotte dal Comitato nell’istanza e nella discussione orale per ottenere la censura del Giurì, di esse occorrerà farsi carico nella motivazione che segue superando l’asserita vacuità di una tautologia distorsiva che nella specie non sembra appunto ravvisabile. Sempre sul piano metodologico Publitalia ’80 si duole che non sia stata convenuta nella presente vertenza la società Rti che pure è la società editrice del programma dedotto come pubblicità camuffata: lacuna questa che ha una rilevanza non soltanto formale ma soprattutto sostanziale, perché lede i diritti della difesa nei confronti di un soggetto che pure fa parte del sistema di autodisciplina pubblicitaria e la cui presenza è pienamente giustificata per ciò solo che è in gioco la sua stessa programmazione televisiva. Non evocando nel giudizio autodisciplinare la società Rti, il Comitato di Controllo – secondo Publitalia – mostra di non ammettere alcun dubbio circa il fatto che le immagini televisive “incriminate” siano state trasmesse in uno spazio venduto da Publitalia e Ford e che per giunta questa vendita sia stata fatta con la collaborazione necessariamente consapevole dell’editore, senza che allo stesso venga dato modo di interloquire. Nonostante questo rilievo sia sicuramente fondato, Publitalia ’80 non ha chiesto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di Rti ritenendo di poter svolgere adeguatamente la sua difesa anche senza l’intervento della casa di produzione televisiva: ciò di cui il Giurì si limita a prendere atto. Venendo alle ragioni addotte dal Comitato di Controllo per sostenere l’applicabilità nel caso di specie dell’art. 7 del Codice, e in particolare alla presenza nella comunicazione televisiva di espressioni elogiative della vettura presentata come premio, reputa il Giurì che esse non siano sufficienti per integrare gli estremi di una presunzione grave e precisa di preordinazione pubblicitaria della comunicazione stessa. Non sussistono innanzitutto elementi da cui desumere che la vettura Ford sia stata offerta dalla casa automobilistica come premio per il partecipante al gioco che abbia trovato il telecomando capace di aprire l’automobile. Al contrario è stata allegata una dichiarazione di Massimo Gervasio, produttore responsabile di Rti, secondo la quale la scelta della vettura è stata fatta autonomamente dalla redazione e senza alcuno stimolo esterno. Inoltre, e soprattutto, è stata data la prova documentale che la vettura è stata acquistata presso un concessionario Ford ed è stata regolarmente pagata: elemento questo certamente non risolutivo rispetto all’ipotesi di una preordinazione dolosa spinta fino al punto di creare tutte le apparenze 116 necessarie per evitare l’accusa di camuffamento della pubblicità, ma tuttavia non per questo priva di significato se quella ipotesi venga scartata in quanto oggetto di un puro e semplice sospetto. Le espressioni elogiative adoperate nel corso delle comunicazioni televisive sono proporzionate rispetto all’obiettivo della valorizzazione del premio, dal momento che non si può pretendere che un gioco a premi venga condotto senza incentivare l’interesse dei partecipanti medianti valutazioni positive del premio che può essere conseguito. La vettura che forma oggetto del premio viene mostrata ma non indicata con la menzione del suo marchio di fabbrica e addirittura dopo che il marchio è stato soppresso dalla parte anteriore: elemento anche questo di per sé non decisivo ma solo a condizione di trasformare in realtà il semplice sospetto di un accordo di camuffamento organizzato anche nei minimi dettagli. Ben diversa la seconda ragione addotta dal Comitato per sostenere l’applicabilità nella specie dell’art. 7 CAP in sede di discussione orale. Qui infatti è stato invocato il precedente del Garante nel caso della Fiat “Barchetta” e in particolare il principio in questa occasione enunciato secondo il quale “la mancanza di prova circa un accordo di committenza formalizzato tra le parti non esclude che la natura oggettivamente promozionale del servizio giornalistico possa desumersi dal vantaggio reciproco che le parti hanno dall’utilizzazione e diffusione del materiale filmato distribuito dalla società Fiat. A nessuno sfugge tuttavia che questo precedente si riferisce a una fattispecie caratterizzata dal fatto che le immagini filmiche utilizzate per mostrare la vettura della Fiat sono state fornite dalla stessa casa automobilistica, la quale pertanto ha attivamente partecipato alla realizzazione del servizio televisivo proprio in quanto ha fornito tutte le immagini concernenti la vettura di sua fabbricazione. Questa attiva partecipazione della casa automobilistica ha consentito al Garante di ravvisare nella fattispecie un concorso in senso tecnico fra l’editore televisivo e il fabbricante del prodotto, i cui comportamenti hanno consentito a entrambi i soggetti di ricavare reciproco vantaggio. Come si è ricordato, nella motivazione del Garante, il vantaggio della casa automobilistica è stato quello di promuovere l’immagine della propria autovettura, mentre il vantaggio dell’editore televisivo è stato quello di occupare gli spazi di una trasmissione utilizzando del materiale filmato già predisposto dalla casa automobilistica. Non altrettanto può dirsi nel caso di specie, perché quivi nessun apporto, e tantomeno l’apporto del materiale filmato, è stato dato dalla casa Ford, la quale infatti può legittimamente sostenere senza essere smentita di non avere saputo nulla della trasmissione televisiva nella quale è stata utilizzata 117 la vettura di sua fabbricazione come premio del gioco. Questa differenza concernente gli elementi di fatto assume dunque un ruolo determinante ai fini della decisione e comporta la necessità di escludere la presenza di elementi presuntivi idonei a supplire alla mancanza della prova storica del rapporto di committenza. In altri termini e per concludere, tutti gli elementi di fatto concorrono a configurare una situazione nella quale l’editore televisivo, agendo in modo del tutto autonomo, ha scelto un prodotto inserendolo in una trasmissione di intrattenimento e di gioco come premio e, per giunta, prendendo qualche precauzione per ridurre nei limiti del possibile l’effetto promozionale che la presenza del prodotto nella trasmissione inevitabilmente comporta. In questa situazione il sospetto del Comitato di Controllo di una preordinazione dolosa della trasmissione televisiva a fini promozionali non può che rimanere tale e l’istanza che su di esso è fondata non può che essere rigettata. 118 Il Product Placement come tecnica. L’esordio del brand. Come avviene l’integrazione di un brand o di un prodotto all’interno di una sceneggiatura cinematografica? Durante il III Convegno Internazionale “Le Tendenze del Marketing”, tenutosi nel 2003, Daniele Dalli, professore ordinario di Marketing presso l’Università di Pisa e Dottore di Ricerca in Economia Aziendale ha risposto a domande del genere. Nel suo documento di presentazione intitolato “Product Placement: oltre la pubblicità?” egli sottolinea l’esistenza di almeno tre modalità di inserimento: 1) visuale – screen placement. Il prodotto viene rappresentato visivamente (screen) in primo piano, pienamente visibile dallo spettatore garantendo la massima esposizione della marca. Può anche essere inserito sullo sfondo, sia in interni che in esterni, come parte della scenografia. In questo caso però è più difficile riconoscere il prodotto4. Inoltre, nell’ambito dell’intero programma è possibile combinare diverse modalità di inserimento, per ottenere effetti più o meno intensi sullo spettatore. 2) verbale – script placement. Meno frequente e meno evidente di quella visiva, la modalità verbale consiste nel far parlare del prodotto dai personaggi del programma o del film. Anche in questo caso i livelli di esposizione sono differenti: il prodotto può essere l’oggetto di una discussione tra i protagonisti, uno frazione casuale di conversazione tra due passanti, un break pubblicitario di una Problema risolvibile attraverso l’elevata frequenza o con la lunghezza del periodo di esposizione. Ma anche in base alle caratteristiche del prodotto, quali logo o packaging. 4 119 trasmissione radiofonica. Vale anche in questo caso la regola della ripetizione. Bisogna comunque precisare che il solo inserimento verbale è raro: esso viene spesso associato a quello visuale. 3) integrato – plot placement. Esso consiste nel costruire la sceneggiatura in modo tale da attribuire al prodotto un ruolo sostanziale nello sviluppo della storia; in alcuni casi il prodotto può arrivare ad essere addirittura il protagonista5. Commerciale, Culturale o Casuale? Alla luce di quanto visto sinora, il Product Placement inteso come posizionamento del brand o del prodotto in un contesto non proprio ha radici molto profonde nel tempo, ben più lontane del concetto stesso di Product Placement dal punto di vista commerciale. D’altra parte è sempre stato difficile costruire una determinato racconto scindendo il fatto stesso dalla moltitudine di prodotti e marchi che popolano la vita di tutti i giorni; raccontare una storia in cui una ragazza ordina al bar una “bevanda gassata” non apparirebbe veritiera come quella della stessa ragazza che ordina una “Coca”. Quindi, se da una parte il posizionamento del brand o del prodotto può essere legato ad accordi tra imprese e case di produzione, dall’altra parte la presenza di quei brand o di quei prodotti può essere legata a una semplice casualità, oppure avere un valore di natura simbolica, ma priva di alcun fine commerciale. Escludendo il cosiddetto Product Placement Commerciale – del quale abbiamo parlato sinora – possiamo precisare che il posizionamento del brand nel film può avere altre due nature: a) Intenzionale. 5 Un esempio è Harbie, il maggiolino tutto matto del 1968. 120 Si parla in questo caso di Product Placement Culturale poiché registi e sceneggiatori decidono di utilizzare consapevolmente prodotti e marchi, talvolta in modo positivo, altre volte in modo neutro, altre volte in modo negativo o critico, e ciò perché questi oggetti costituiscono importanti vettori di significato, per via della loro diffusione tra il pubblico, al pari di altri simboli più tradizionali. Per questo motivo, per esempio, Nanni Moretti in Caro Diario gira per Roma – città-simbolo della tradizione nel mondo – proprio con una Vespa – mezzo-simbolo della tradizione automobilistica italiana6. b) Casuale. Si parla di Product Placement Casuale quando la comparsa di quel particolare brand o prodotto durante la scena non era stata prevista, ma viene comunque mantenuta. Ad esempio, il bus che passa dietro all’attore nel momento in cui attraversa la strada mostra una pubblicità non voluta, non prevista, appunto, casuale. Un interessante caso di Product Placement: Fight Club. Applichiamo adesso quanto visto nei paragrafi precedenti al film Fight Club, un interessante caso cinematografico che descrive una vicenda personale piuttosto intricata e intrigante (lo sdoppiamento di personalità del protagonista combattuto tra il grigio impiegato Jack e l’esuberante aspirante terrorista Tyler) abbinata a una lettura critica della moderna società americana. Vediamo adesso alcuni dei placement presenti nel film: 6 Non sono da escludere comunque i casi in cui Product Placement Commerciale e Culturale coincidono. 121 Esterno, sullo sfondo. Jack insegue Tyler per tutti gli Stati Uniti e in questa panoramica si riconosce il logo American Airlines sulla coda di un aereo. Interno, sullo sfondo. Jack è al ristorante con Marla, dove scopre nuovi adepti della setta di Tyler: sulla macchina del caffè e a destra, su un tavolo, si notano vari barattoli di Pepsi. Interno, in primo piano. Jack insegue Tyler e, nel corridoio, fa bella mostra di sé un distributore di Pepsi in posizione strategica. Interno, in primissimo piano. Il bicchiere di Starbucks scorre a destra e sinistra sul piano mobile di una fotocopiatrice. 122 Nelle mani di un protagonista. Jack e Tyler bevono Bud dopo essersi presi a cazzotti Nelle mani di un personaggio minore. Il compagno di terapia di gruppo di Jack, anche lui assoldato da Tyler ha in mano una scatola di ciambelle Krispy Kreme. Ognuno di questi rappresenta esempi di Product Placement Commerciale. Bisogna però precisare che: 1) I prodotti o i marchi del gruppo Anheuser Busch (Budweiser e Busch) appaiono 7 volte, al pari di Pepsi, ma questa non viene mai collegata ai protagonisti che, invece, in due occasioni bevono Bud e in una Busch. 2) Non esistono concorrenti di categoria: non compare altra birra che non sia Bud (salvo alla fine, ma si tratta di Busch, che appartiene allo stesso gruppo) e neppure una lattina di Coca Cola, il che non sembra propriamente in linea con l’esigenza di realismo spesso citata a supporto della necessità del Product Placement7. Ma il film presenta anche casi interessanti di Product Placement Culturale. Vediamone alcuni. 7 Sul piano commerciale, il ruolo di questi inserimenti si giustifica in funzione della loro efficacia sulla notorietà e sull’atteggiamento, ma la trama e le singole scene non sarebbero diverse se al loro posto fossero inseriti prodotti di altre marche. 123 Attacco al consumismo. Tyler spiega a Jack che il vero problema è il consumismo: Tyler: “siamo consumatori, siamo sottoprodotti di uno stile di vita che ci ossessiona, …, quello che mi spaventa sono le celebrità sulle riviste, la televisione con 500 canali, il nome di un tizio sulle mie mutande, i farmaci per capelli, il viagra”. Jack: “Martha Stewart”. Tyler: “A quel paese Martha Stewart. Martha sta lucidando le maniglie sul Titanic, va tutto a fondo, bello. Perciò a quel paese anche te e il tuo divanetto a strisce. … Le cose che possiedi, alla fine ti possiedono. Fa’ come vuoi, bello!” L’astio di Tyler è rivolto verso il sistema e verso gli effetti che esso ha sugli individui, ma per metterlo in discussione servono elementi concreti che vengono identificati nel consumismo, nella comunicazione di massa e in beni di consumo ben precisi (il divano). I love Ford. Jack e Tyler cominciano a mettere in pratica atti di vandalismo sempre più efferati, ma con le auto manifestano un atteggiamento selettivo: la prima è una Bmw e la prendono a mazzate, la seconda è una Ford e la risparmiano, mentre la terza (un nuovo maggiolino Volkswagen) viene preso di mira. E’ improbabile che ci sia un messaggio nazionalista o protezionista dietro all’accanimento nei confronti delle auto tedesche (Bmw e Vw), mentre è più verosimile l’associazione delle auto straniere (di grande marca o alla moda) allo stile iperconsumistico che Jack e Tyler odiano, mentre la cara vecchia Ford viene risparmiata in quanto rappresentante del ceto medio americano. In molti altri film questo brand viene rappresentato come espressione di valori medi, quando non mediocri, e associato a persone di buon carattere e ben disposte verso gli altri. Comunque appartenenti a una classe sociale 124 piccolo borghese che non ha grilli per la testa, né soldi da buttare per una macchina di grido8. La moda. Sul bus Jack e Tyler sogghignano davanti alla pubblicità di Gucci. Jack fa dell’ironia sul modello della fotografia “così dovrebbe essere un uomo?” e Tyler inveisce contro Calvin Klein e Tommy Hillfiger. La moda è uno dei settori messo in discussione esplicitamente: è uno dei canali di comunicazione più importanti tra il mondo dei consumi e la cultura di massa e ha effetti significativi sui comportamenti individuali. Gli autori non possono risparmiarlo e si concentrano su tre nomi di grande prestigio che vengono considerati alla stregua di corruttori di coscienze. 8 Ecco un caso in cui un prodotto assume un significato particolare all’interno del film alla luce della sua brand identity. 125 Oltre il Product Placement cinematografico. Fino ad ora abbiamo parlato di Product Placement riferendoci sempre e comunque allo stretto ambito cinematografico. Ma, nella definizione di Product Placement riportata nell’introduzione del primo capitolo si parlava di “posizionamento del brand/prodotto all’interno di contesti apparentemente inusuali”; ciò vuol dire che questo discorso vale sì per il cinema, ma non solo. Riportiamo una breve rassegna che mostri tutti i casi di Product Placement non cinematografico9. Product Placement e fiction. In Italia il Product Placement nelle fiction è considerato ancora illegale e avviene tramite il cambio-merce, o “comodato d’uso gratuito”, cosa che, però, non fornisce garanzie alle aziende coinvolte e a volte può comportare un posizionamento dannoso. La televisione non è mai stata a guardare, è, anche se al momento è più orientata alla pubblicità vera e propria, si cominciano a vedere i primi casi di Product Placement anche in alcune serie TV. La TV italiana non potrà sottrarsi ancora per molto, quindi, all’applicazione di tecniche di Product Placement attraverso accordi economici tra imprese commerciali e case di produzione. Product Placement e telefilm. Sta assumendo proporzioni dilaganti negli USA e non solo. Da 24 a C.S.I., da Buffy ad Alias, da Ally McBeal a Will & Grace... in ognuno di essi si ritrovano posizionamenti da manuale. Riportiamo un esempio. Nella prima serie di 24 tutti i buoni usavano computer Apple mentre i cattivi usavano Dell. Le cose Sulla legalità o meno di questi posizionamenti, si veda l’intervista all’avv. Michele Lo Foco, capitolo II. 9 126 però cambiarono leggermente nella seconda e terza serie, anche perché, spiegato questo trucco, sarebbe stato inevitabile scoprire immediatamente i doppioghiochisti rovinando così gran parte delle sorprese. Product Placement e show televisivi. Anche questa è una tecnica molto sfruttata negli USA; sono molti infatti gli studi televisivi che espongono cartelloni pubblicitari, oppure talk show durante i quali vengono offerte note marche di whisky. In Italia questa tecnica è sottoposta a divieto, anche se non mancano numerosi casi ambigui. Un caso molto interessante riguarda il reality show di Italia 1 Campioni, il sogno. I protagonisti sono calciatori che giocano per la squadra del Cervia, continuamente ripresi dalle telecamere, dentro e fuori dal terreno di gioco. Come tutte le squadre di calcio, anche il Cervia aveva i suoi sponsor. Ma in questo caso se ne sono visti in maniera esagerata. Per il Cervia – una squadra di Eccellenza – si sono mossi Vodafone, Adidas, Seat, Grana Padano, Technogym, Beretta, Pringles, e così via. Non si trattava in questo caso di semplice sponsorizzazione sportiva, proprio perché esisteva un elemento differenziale rappresentato dalla presenza televisiva. In questo caso, la presenza di grosse aziende a sostegno di un contesto “inconsueto” rispetto ai propri canoni d’azione – ossia la categoria di Eccellenza – non è legato al settore sportivo ma al reality show: la semplice sponsorizzazione diventa così Product Placement. Product Placement e cartoni animati. La citazione di marche all’interno dei cartoni animati avviene soprattutto in Oriente, negli anime per adulti, ma anche in cartoon per bambini come ad esempio la saga cinese del maialino McDuffy, piena di sponsor disegnati a tutto schermo. Ma l’Italia non resta a guardare: “Yo-Rhad, un amico dallo 127 spazio” è il primo lungometraggio d'animazione italiano a contenere product placement. Il cartoon di Camillo Teti e Victor Rambaldi, con personaggi e scenografie del celebre Carlo Rambaldi e le musiche di Lucio Dalla, uscito nelle sale italiane il 14 Aprile 2006, ospita una scena animata contenente il videotelefono di Telecom Italia e gli occhiali Luxottica. Product Placement e fumetti. In questo caso molti band servono per caratterizzare i personaggi, altri compaiono in alcuni fumetti più o meno regolarmente. Bisogna però sottolineare che non sempre si tratta di veri e propri Product Placement Culturali, ma, a volte, abbiamo a che fare con pure e semplici “licenze artistiche”. Product Placement e software. I brand possono essere presenti in molti software, ma il primato di questo genere di posizionamento spetta sicuramente ai videogiochi. In questi casi si assiste, per esempio, alla sponsorizzazione dei propri atleti virtuali da parte delle marche tradizionali, altre volte, invece, vengono inseriti cartelli o oggetti che possono servire al protagonista del gioco nel corso della sua avventura. In Italia la FIAT ha deciso di investire nell’in-game advertising così come ha già fatto la DaimlerChrysler e tra le operazioni per lanciare la grande Punto si prevede il suo inserimento nel videogioco più famoso del mondo: Need for Speed. Ma l’ultima frontiera nel campo dei videogiochi con pubblicità è stata varcata in Internet con la nascita degli advergames. Si tratta di giochi estremamente semplici nella struttura che nascono essenzialmente come spazio pubblicitario. Qualsiasi azienda quindi può rendere il proprio prodotto o il proprio brand protagonista di un’avventura in rete. 128 Product Placement e video musicali. Molti critici considerano il video musicale come una sorta di cortometraggio. Appare quindi ovvia la possibilità di sfruttare questi spazi come spazi pubblicitari; senza contare che il video offre un vantaggio in più rispetto al film o al normale cortometraggio: la reiteratività della trasmissione. Il video musicale può inoltre “ospitare” un prodotto e agire da cross promotion contemporaneamente; e non in modalità imitativa, bensì in maniera del tutto originale. Una delle ultime tendenze in questo campo è quella di inserire nel video scene del film e, insieme ad esse, anche delle scene del tutto inedite, create appositamente, coi cantanti nella parte degli attori, quindi, coinvolti nelle vicende. Un ottimo esempio lo hanno dato sia Larry Mullen & Adam Clayton che i Limp Bizkit rispettivamente per le colonne sonore di Mission Impossible e Missione Impossible 2. Product Placement e pubblicità. Si tratta più che altro di un’evoluzione della normale pubblicità, fatta di vere e proprie marche inserite e mostrate in tutta la loro bellezza all’interno di prodotti completamente diversi. Un esempio rappresentato dallo spot del panno Sweefer all’interno del quale viene inserito anche il promo del film, da poco uscito nelle sale allora, Le cronache di Narnia. In questa categoria potremmo inserire anche la cosiddetta “pubblicità comparativa”. Si pensi a Tele2 che nella propria pubblicità paragona le proprie tariffe quelle di Infostrada e Telecom. Anche se è vero che in questo caso la pubblicità di cui usufruisce la concorrenza è negativa, come qualcuno è solito dire oggi: non è importante che se ne parli bene o se ne parli male... l’importante è che se ne parli! 129 Product Placement e arte. Il Product Placement nell’arte è molto simile alla sponsorizzazione visto che molte multinazionali finanziano, di tanto in tanto, il lavoro degli artisti: il prodotto viene rappresentato all’interno dell’opera o addirittura serve per costruire l’opera, quando non è lui stesso l’opera. Vediamo due esempi. Nel 1997 il padiglione giapponese della Biennale di Venezia ospitò l’opera Megadeath, dell’artista Tatsuo Miyajima, che attraverso 2400 contatori digitali rappresentava la vita: l’accensione dei contatori cresceva a poco a poco, finché questi scoppiavano fino a spegnersi completamente, in una sorta di uccisione di massa. Poi si ricominciava da un singolo contatore seguito dalla lenta riaccensione degli altri. Un’opera di sicuro effetto visivo fatta anche grazie al contributo della Casio, il cui logo appariva all’entrata. Al Pac di Milano, nell’estate del 2001, è invece comparsa un’opera dell’artista svizzera Sylvie Fleury, consistente in una stanza completamente buia, le cui pareti erano coperte da enormi lamette da barba fosforescenti e sul fondo veniva trasmesso un filmato in cui tre top model, con tute della Mercedes, gioivano di un’ipotetica vittoria, inondandosi con bottiglie di Moet e Chandon. Nel primo caso il marchio esterno, per evidenziare la sua collaborazione nella costruzione dell’opera, serviva per dimostrare l’estrema precisione e la potenzialità delle attrezzature Casio, nel secondo i due marchi all’interno dell’opera della Fleury rappresentavano, insieme alle top model, l’oggetto del desiderio, il massimo che si possa raggiungere, la cui strada è però disseminata dalle enormi difficoltà rappresentate dalle lamette. Product Placement e fotografia. 130 Si tratta di una tecnica abbondantemente diffusa. Perde molte caratteristiche del Product Placement tradizionale, ma l’attenzione dello spettatore è comunque garantita. Di solito si utilizzano riviste specializzate, da quelle di arredamento, per poter piazzare televisori, stereo, bicchieri, soprammobili e tovaglie, fino a quelle come “Playboy”, dove si può far posare una playmate mentre scende nuda da una macchina di lusso, o più semplicemente mettendo ai suoi piedi una bottiglietta di Coca Cola come è stato fatto per Barbara Moore nel paginone centrale di “Playboy” del dicembre 1992. Product Placement e letteratura. Si tratta di un caso piuttosto arduo da interpretare. Non è semplice infatti capire quando il posizionamento è frutto di accordi oppure è una semplice libertà artistica dell’autore. I libri maggiormente sottoposti al Product Placement sono i bestseller gialli, horror e spy, visto l’ampio consumo. Si potrebbe segnalare un favoloso caso di Product Placement letterario perfino nell’Ulisse di James Joyce. Neanche in questo caso è possibile stabilire quanto lo scrittore irlandese fosse influenzato dalla Guinness, ma il fatto che scriva, nel quinto capitolo, che se i preti potessero scegliere metterebbero la Guinness nel calice al posto del vino risulta uno dei più azzardati casi di Product Placement della letteratura. Il caso recente più importante è sicuramente The Bulgari Connection (2002), che comincia appunto all’interno del Bulgari di Londra, dove affascinanti ragazze vendono al miliardario Barley Salt uno splendido gioiello del valore di 18 mila sterline. Product Placement e spettacoli teatrali. Anche il palcoscenico si offre come un ottimo mezzo per veicolare brand e prodotti. I piazzamenti vanno studiati a seconda della sceneggiatura e i prodotti possono essere 131 all’interno della scenografia (ad esempio l’enorme freezer della Coca Cola sul palco del The Rocky Horror Show), citati o addirittura offerti agli spettatori. Product Placement e celebrità. Il Celebrity Endorsement è un fenomeno che vive nel mondo dell'alta moda da sempre. I fattori di successo di una campagna di Celebrity Endorsement partono dalla scelta del testimonial, che deve avere caratteristiche affini al brand e al prodotto da associare. Secondo una recente ricerca, il numero di campagne che utilizzano celebrità sono raddoppiate negli ultimi 10 anni. L'incremento è forte soprattutto nel settore del lusso, che comprende anche gioielleria, automobili, motocicli, liquori e soprattutto alta moda. Ad esempio, Versace prima e Dolce&Gabbana poi hanno utilizzato la cantante Madonna per anni. 132 Intervista a Michele Lo Foco. Quali sono state le conseguenze in Italia in seguito alla promulgazione del “Decreto Urbani”? Le conseguenze principali sono state due: innanzitutto un divieto, che prima esisteva, viene meno. Mentre in passato la normativa riteneva il Product Placement – e in generale la pubblicità stessa – come un rimedio ostativo al riconoscimento della nazionalità italiana, dal 2004 questo non è più vero. Inoltre l’introduzione di questa forma di libertà economica si presenta come un nuovo fattore di produzione. Il Decreto Urbani non solo quindi rende lecito ciò che fino ad allora era considerato illecito, ma gli attribuisce anche una nobiltà. Discorso pubblicitario e fattori di produzione acquisiscono egual valore. Il decreto 28/2004 nella sua semplicità introduce due concetti, quello di garbo e quello di trasparenza. Prima del 2004 una pubblicità ufficiale all’interno di uno spettacolo cinematografico avrebbe reso impossibile ottenere la nazionalità italiana del film. Per questo veniva fatta in maniera clandestina, in modo da poter guadagnare qualcosa senza incorrere nel divieto. Questa mentalità della pubblicità occulta (o clandestina) ha permeato talmente tanto l’industria cinematografica nazionale da rendere molto difficile il passaggio da “clandestino” a “ufficiale”. Noi abbiamo molti operatori clandestini che riescono a ragionare in termini di clandestinità e pochi che riescano a farlo in termini ufficiali. Questo perché l’attitudine, l’uso di voler fare le cose di nascosto in realtà ha creato una forma di imprenditore occulto che si è inevitabilmente diffusa. Nel momento in cui il P.P. è stato ufficializzato è diventato indispensabile avere delle professionalità adeguate che in Italia ancora non c’erano. 133 Perché nel campo del Product Placement televisivo non sono state ancora realizzate norme simili al “Decreto Urbani”? L’aver ufficializzato il Product Placement cinematografico e il non essersi interessati ancora delle altre forme di Product Placement (televisivo su tutti) rappresenta una delle infinite contraddizioni della società italiana. Il Decreto, come sappiamo, riguarda la cinematografia, e non poteva essere diversamente, dato che il Ministero fautore del decreto era il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali; la televisione invece è sotto un altro ministero. Dove nasce la contraddizione assurda? La televisione, trasmettendo film (che abbiano o meno la nazionalità italiana) ed essendo ormai questa forma di pubblicità “lecita”, non può discriminare il contenuto di un film. Ma nel momento in cui questo meccanismo viene applicato anche nelle produzioni televisive, improvvisamente viene fuori il discorso puramente televisivo. La Rai sancisce che nelle programmazioni che la riguardano non può essere utilizzata la leva pubblicitaria poiché essa la riserva solo a se stessa, con inserimenti e trattative fatte da lei stessa. Ciò ovviamente non vale per le produzioni straniere. Ed ecco appunto questa assurda contraddizione. Che poi è quello che succedeva prima con i film del grande schermo passati poi in televisione. Perché mentre la televisione italiana poteva trasmettere e ha trasmesso tranquillamente “Il Maggiolino tutto matto” – pubblicizzando la Wolksvagen(?) – la legge italiana non consentiva di fare altrettanto con le produzioni italiane. Quando capita di assistere a casi di posizionamento riferito a serie televisive italiane, salvo che si tratti di una casualità, le trattative pubblicitarie dovrebbero essere state condotte da Sipra; non si parla comunque di Product Placement bensì di “comodato d’uso”. 134 Esistono delle norme che vietano l’applicazione di altri casi di Product Placement non cinematografico (escludendo quindi il caso della televisione)? Non esiste niente a livello normativo che vieti o autorizzi l’applicazione di Product Placement non cinematografico, proprio perché non se ne è mai percepita – fino ad oggi – la presenza. Noi viviamo in una società di consumo e quindi utilizziamo ogni minuto-secondo un qualcosa che abbia un marchio. Utilizzare in una produzione un prodotto, un brand, ecc... in realtà non è altro che un ulteriore adeguamento alla realtà in cui viviamo. Dovremmo avere la reazione contraria nel non vedere marchi... sarebbe tutto asettico, finto. Ormai oggi viviamo in un mondo fortemente brandizzato e non ci si può sottrarre a questo. Poi possiamo pure parlare di Product Placement nei reality o nella fotografia, ma, insomma, non sarebbe niente di nuovo rispetto a quanto già accadeva nel passato; gli esempi eclatanti sono molti. E per gli americani è sempre stato molto normale farlo. Il nostro problema è quello di avere non tanto una fobia verso i marchi, ma piuttosto un’ipocrisia verso i soldi. L’Italia ha queste norme e ha questo tipo di imbarazzo perché il pensiero dominante e sempre quello dietrologico del c’è qualcuno che sta guadagnando di nascosto; quello che per gli americani è molto lecito, cioè guadagnare seguendo anche l’andamento della società, a noi crea sempre molto imbarazzo, perciò pensiamo che sia sempre più opportuno vietare, eliminando così qualsiasi pensiero malvagio. A questo si aggiunge poi il discorso, molto famoso in Italia, della cultura, come se la pubblicità di per sé fosse anticulturale. Avendo quindi noi avuto una legge che finanziava i film, che si chiamava Fondo di Garanzia, dal ’94 al 2004, questo concetto del “culturale” è diventato talmente prevalente da assumere una posizione primaria nella mentalità comune. Quindi direi che è questo il problema principale, un 135 problema di mentalità. Oggi credo che chiunque, superato lo shock che si può fare cultura anche utilizzando mezzi pubblicitari, abbia imparato ad accettare il Product Placement – e comunque può imparare a farlo – come una possibilità per ottenere ricavi. Purtroppo non esiste ancora un mercato o un meccanismo tale da rendere certo questo ricavo; ma, comunque si va per tentativi, anche perché, ritorno a dire, si viene da una mentalità clandestina. Per cui le aziende americane, ma anche francesi, abituate a fare P.P. erano poco inclini a farlo in Italia perché era sempre sembrato difficile riuscirci. Oggi le cose funzionano un po’ meglio; esistono diverse aziende nazionali che cominciano a lavorare professionalmente. Insomma, è un punto di partenza, direi che qualcosa ha iniziato a muoversi. Esistono dei limiti precisi, specifici, legati all’applicabilità del Product Placement nel film italiano? Ossia, quali sono le regole che gli addetti ai lavori devono seguire affinché il posizionamento sia completamente legale? Non esistono limiti all’applicabilità del Product Placement, fatta eccezione per la coerenza col contesto narrativo; d’altra parte gli americani ci insegnano che si può affogare nel Product Placement senza che questo venga minimamente avvertito dagli spettatori. Questo perché noi spettatori, non solo in Italia ma nel mondo, siamo talmente abituati ai marchi da non provare alcun fastidio nei loro confronti. Anche la stessa campagna promozionale sui marchi (Le tue marche, la tua storia) rappresenta un osservazione sul fatto che noi nel corso della nostra vita ci portiamo dietro delle immagini pubblicitarie, sin da quando siamo nati, una dimostrazione del fatto che esse diventano quasi elemento di memoria. Tutti infatti ci ricordiamo delle pubblicità di tanti anni prima, di prodotti che esistono da 20 o 30’anni e che ancora oggi utilizziamo. Io credo che oggi si sia passati da una logica del 136 marchio a una logica del messaggio; per cui direi che è diventato anche meno spigoloso il messaggio pubblicitario, il quale tende più a regolare dei comportamenti e meno ad aumentare la memorizzazione del marchio. E questo ha reso anche più fluida la trasmissione pubblicitaria. Quindi è ammessa anche la realizzazione di pubblicità comparativa all’interno della narrazione? Ad esempio, la Coca Cola può chiedere un posizionamento in un film chiedendo inoltre che il proprio prodotto venga esaltato rispetto alla Pepsi? No. E’ permesso a imprese appartenenti allo stesso mercato di apparire all’interno del medesimo contesto narrativo, ma sempre che entrambe siano d’accordo – anche perché altrimenti non ci sarebbe Product Placement. Nell’esempio che fai tu, solo una ditta – e non tutte e due – decide di fare un’attività pubblicitaria all’interno di un film esponendosi direttamente, ma anche mettendo in negativo una controparte. Questo espone il film, e in particolare il produttore, a delle azioni legali ad opera della ditta non coinvolta; infatti, è vero che è possibile la pubblicità comparativa, però essa è possibile solo su dati esatti e non in un contesto narrativo, ma in un contesto pubblicitario. Se io utilizzo il contesto narrativo per procurare nocumento a una ditta mia concorrente, ovviamente essa potrà agire per vie legali. Perché, tra il 1992 e il 2004 esisteva un diverso modo di agire, sia a livello giuridico che a livello autodisciplinare, nei confronti del film italiano rispetto a quello americano? I privilegi che la cinematografia americana ha avuto e ha nel contesto nazionale italiano sono infiniti, inenarrabili. E i privilegi di cui ha goduto la cinematografia americana non si 137 limitano a questo. Ad esempio da sempre viene tollerato che le majors americane presenti in Italia, pur essendo società americane, distribuiscano i prodotti americani del proprio listino ad una provvigione molto bassa (9-10%), consentendo così alle major americane italiane di mandare fuori tutto il resto di quello che viene fatturato. Quindi non c’è nessuna norma che abbia vincolato le aziende americane, quantomeno a spendere sul territorio nazionale un po’ di più. Tutti sanno infatti che per compiere il ciclo distributivo si dovrebbe minimo raggiungere una percentuale del 18-19%, mentre per le majors americane viene tollerato il tetto del 9-10% E questo vale per i film, i telefilm, il Product Placement, ... Noi siamo una terra di conquista, una terra che è quasi Africa, e quindi gli americani, che dalla loro hanno una grande, diciamo, pratica di questi meccanismi, risultano essere più facilitati nelle loro azioni. E nel frattempo noi li abbiamo sempre guardati con grande rispetto, ammirazione, timore, e non abbiamo mai fatto nulla per placare questo divario. E, al contrario, loro si dimostrano sempre implacabili nella difesa del proprio territorio. 138 Intervista a Gerardo Corti. Quali sono le conseguenze che vivono oggi le agenzie pubblicitarie in seguito alla promulgazione del Decreto Urbani? Le agenzie pubblicitarie si sono ritrovate con una bella gatta da pelare. Si sono ritrovate davanti a uno strumento nuovo, destinato a sfondare... in America si vede quello che sta succedendo: il 30% del budget per una produzione cinematografica arriva spesso da accordi di Product Placement. Molte agenzie italiane hanno cercato di correre ai ripari, ma non sono per niente pronte, visto che essere agenzie pubblicitarie non vuol dire diventare facilmente agenzie di Product Placement. Infatti in Italia tutte quelle che si sono convertite – concessionarie, centrimedia, agenzie di pubblicità, runner, ... – tutte quante si sono inventate che potevano fare Product Placement; devi nascere Product Placement, proprio perché sono necessarie delle competenze di cinema che non si inventano dall’oggi al domani... va bene le competenze di target, pubblicità, ... ma non hai le competenze di cinema necessarie per affrontare produttori, registi, ecc... E quindi oggi in molti stanno cercando di farsi largo in un mercato che alla fine lascerà spazio a 3-4 agenzie, massimo... Alla fin fine parliamo pur sempre del mercato italiano, quante agenzie vuoi che abbia?! Vedrai, ne resterà solo uno!10 Perché molte grandi imprese italiane appaiono diffidenti nei confronti del Product Placement? Possiamo dire che i motivi principali sono tre: 10 Commento ironico riferito al film Highlander. 139 In generale, c’è diffidenza nei confronti di un mercato in cui sono presenti troppe agenzie e poche con competenze adeguate. In secondo luogo, ricordiamoci che siamo in crisi economica, e la prima cosa che ti insegnano a Economia e Commercio è quella di tagliare la pubblicità quando si è in crisi economica; e delle cose che tagli, tagli quello che non conosci...! Infine devo dire che c’è una mancanza di fiducia nel cinema italiano. Riguardo a quest’ultimo punto comunque qualcosa sta cambiando, ho dei grandi produttori che mi hanno contattato dandomi ragione, dicendomi che il Product Placement si può e si deve fare, e non solo Product Placement. Senza contare che molti dei film prodotti dal nostro cinema non sono predisposti al posizionamento; che cosa volevi posizionare in un film come “La bestia nel cuore”? La Barilla accanto all’incesto? Al momento i film italiani maggiormente predisposti al posizionamento sono quelli di Natale. Ma il film contemporaneo è predisposto al posizionamento. Facciamo tanta fiction sulla polizia, perché non concentrarsi lì? E ti risulta che sia legale farlo? No. E partendo da questo posso chiederle, ma perché la liberalizzazione del P.P. ha toccato solo il cinema e non la televisione, visto che un punto di forza della produzione audiovisiva italiana è proprio la fiction? Perché non c’è stato ancora nessuno che ha fatto pressione su questo (e in realtà c’è!11). Io infatti ho fatto pressione per una riforma sul cinema, e anche le mie pressioni hanno portato a 11 Riferendosi a se stesso. 140 dei risultati nel 2004. E la stessa cosa sto facendo adesso per quanto riguarda la televisione. Anche perché, parliamoci chiaro, il Product Placement è sempre esisto, ma non esistevano garanzie... ed è per questo che adesso c’è diffidenza. Molte imprese mi hanno confessato di soldi dati per prodotti che poi non sono mai comparsi in pellicola. Per rendere l’idea, mettiamo che un’impresa abbia pagato per televisori al plasma, cellulari, ecc... e poi i film era ambientato nel Medioevo...! Eravamo a questi livelli. Ho contattato anche grandi imprese, filiali italiane di aziende internazionali, e prima non avevano intenzione di fare niente... ad un certo punto, e comunque molto recentemente, tre o quattro si sono svegliate, e sono state loro a chiamare me. E dopo aver fatto i primi briefing, dopo essere entrati un po’ più in confidenza, parlando con i responsabili, loro mi hanno confessato che la decisione di voler fare Product Placement veniva direttamente dalle sedi centrali delle majors. Ad esempio c’era il responsabile in Germania della BMW – che tra le tante azioni pubblicitarie si è occupato anche degli accordi per 007 – che inviava direttive a tutte le altre filiali internazionali chiedendo loro di non fare accordi di Product Placement se prima non fossero passati sotto la sua visione. Quando viene commissionato un lavoro a un’agenzia come la vostra, cosa vi viene chiesto esattamente? E qual è il vostro modo di agire? Dipende. Ci sono aziende che possono chiederci operazioni di crosso promotion, e quindi creare dei legami con un determinato film in uscita. Altre aziende possono chiederci esplicitamente il posizionamento nel cinema americano. Per ogni richiesta esiste un modo di agire unico... 141 Secondo lei per quale motivo il sistema italiano ha “liberalizzato” il Product Placement così tanto in ritardo rispetto al sistema americano? Ma non c’era neanche l’intenzione di liberalizzare il Product Placement, perché non si sapeva nemmeno che cosa fosse. E poi sono arrivato io...! Il mio sostenere che fosse “illegale che il Product Placement fosse illegale” – insieme a molti altri miei lavori in materia – ha dato una spinta non indifferente. Ed era giusto così, perché si è capito che nell’era della globalizzazione era inutile lasciare una legge che gli remava contro. Comunque fino al 2004 era possibile intervenire nei casi ritenuti di P.P. hai sensi dell’art. 4.1. del decreto 74/92. Si, ma in quel decreto c’è una bellissima riga che fa scuola, che dice E’ vietata la pubblicità subliminale, punto. Che cos’è la pubblicità subliminale? Boh! Nessuno lo sapeva. Secondo te perché ho scritto un libro intitolato Occulta sarà tua sorella? Non è un caso. Perché tutti parlano di pubblicità occulta, compreso il legislatore, senza sapere di cosa stanno parlando. Quando è arrivato il Product Placement hanno detto a tutti “bisognerà farlo convergere nelle norme di Autodisciplina Pubblicitaria”... ma come nelle norme di Autodisciplina Pubblicitaria? Non si tratta di pubblicità! E’ come giocare a baseball con le regole del calcio! Anche se la liberalizzazione del Product Placement è avvenuta solo di recente, i casi di placement, anche di prodotti italiani in pellicole italiane, riscontrabili prima del 2004 sono moltissimi. Esisteva anche un intervento delle agenzie in questi casi, oppure veniva sempre fatto tutto direttamente da impresa commerciale e casa di produzione? 142 Per quello che so io, quando questo accadeva, il tutto veniva organizzato dalle case di produzione. Qualche agenzia è nata come esperta in Product Placement prima del 2004, sapendo che di lì a poco sarebbe arrivata la legge; ma prima del 2004 non ha mai operato. La cosa imbarazzante è che esistevano delle agenzie, che ancora tentano di riciclarsi, di copertura materiale. Ossia venivano pagate per trovare determinate cose, e venivano pagate all’infuori del fatto che avessero successo o meno. Ma quelle non erano agenzie di placement... erano come agenzie di catering, ambigue, che non davano sicurezza né alle aziende né alle case di produzione. In questo momento le aziende pagano il film, allora le case di produzione pagavano le agenzie che a loro volta cercavano le aziende. La JMN & DY si occupa anche di Product Placement non cinematografico. Su che cosa si concentra in particolare? E qual è il suo modo di agire in questi casi? Quale fra questi, secondo lei, offre maggiori potenzialità e vantaggi per tutte le parti in causa? Nonostante abbia dei difetti maggiori rispetto a quello cinematografico, la maggior parte delle aziende italiane interessate al Product Placement preferirebbero di più la fiction. Il problema è che ancora non si può fare. Noi comunque per adesso siamo aperti a tutti i tipi di Product Placement, abbiamo attivato il settore videoclip, il settore videogioco; solo che le aziende al momento non si sono ancora esposte a tutti i tipi di Product Placement. Prima è meglio che si regolino sul Product Placement più conosciuto, quello cinematografico, poi vedremo. Poi, quello che fa Klaus David, il suo P.P. sui personaggi famosi, potrebbe essere interessante, però anche lì la situazione lascia un po’ il tempo che trova. Il fatto che la Fiat gli abbia concesso un’auto da dare a 20 personaggi famosi non esclude il problema che poi il 143 personaggio che gira con la sua Fiat devi trovarlo... vallo a cercare...! Per quanto riguarda i videogiochi il mercato è molto interessante; ma i problemi non mancano. E il problema non è mio, o del settore videogiochi, il problema è delle aziende. Mentre col cinema si sono fatti notevoli passi avanti, coi videogiochi siamo ancora agli inizi; e questo perché le aziende non hanno ancora capito le grandi potenzialità del mezzo – oppure non le vogliono capire. E questo finché non prendono le batoste. E riguardo agli advergames12? Anche quello è Product Placement. In Italia, per esempio, io so che la Ferrero è una di quelle imprese che offre ogni tanto un videogames – e a volte anche veri e propri cartoni animati – in cui protagonista è un personaggio che si trova nelle stesse confezioni. In questo caso però non è Product Placement perché il gadget e il cd rom si trovano nella stessa confezione, provengono dallo stesso prodotto. Nel caso degli advergames, quelli li trovi su internet, quindi quello è Product Placement. Io so che lei ha fondato un’associazione, l’Associazione per il Product Placement, il cui scopo era quello di far conoscere e apprezzare questa tecnica anche in Italia. Quale è stato il modus operandi di questa associazione? Giornali, web-zine, conferenze radio... è stato un lavoro lungo. E la speranza era che, a furia di parlarne, si creasse una legge ad hoc, e ci siamo riusciti. Nella mia tesi A Sud di Band Aid, io lo avevo già previsto, avevo previsto che avrei aperto 12 Informazioni più specifiche sugli advergames al paragrafo 3.6. 144 un’agenzia. E questo perché mi sono ritrovato a marciare su un terreno nuovo e inesplorato. E’ stato bellissimo! I casi di placement attualmente realizzati in Italia si possono definire idonei, o abbiamo ancora molto da imparare? Abbiamo ancora molto da imparare! Anzi, gli altri hanno ancora tanto da apprendere! Lei crede che dovremo aspettare molto per poter parlare anche in Italia di Branded Entertaiment? Se io domani trovo il produttore giusto, l’azienda giusta, tutto giusto... io te lo faccio dopodomani il Branded Entertaiment! Di che cosa si è occupata recentemente la JMN & DY? Non posso dirti troppe cose. Ma ti dico, in anteprima, che a Venezia ci sarà il nuovo film di Fabio Volo, Uno su due, che avrà quattro casi di Product Placement marchiati JMN & DY, placement assolutamente fuori dagli schemi, talmente tanto che se io te li dicessi adesso, domani i miei concorrenti chiamerebbero i loro clienti per dirgli “Abbiamo avuto una grande idea!”. Non è una bibita, non è abbigliamento, non è auto, non è moto, non è televisione, non è cellulare, ... è un qualcosa che non penseresti mai che si possa pubblicizzare. 145 Bibliografia. M. Fusi, Codice della Pubblicità, 1958. M. Fusi e P. Testa, L’autodisciplina pubblicitaria in Italia, Milano, 1983. L. Mansani, Product Placement: la pubblicità nascosta negli spettacoli cinematografici e televisivi, in Contratto e impresa, 1988. M. Fusi, P. Testa e P. Cottafavi, La pubblicità ingannevole, Milano, 1993. V. Meli, La repressione della pubblicità ingannevole, Torino, 1994. G. Rossi, La pubblicità dannosa. Concorrenza sleale, «Diritto a non essere ingannati», diritti della personalità, Milano, Giuffrè, 2000. G. Ghidini, N. Ciampi e R. Gambardella, Codice della pubblicità: leggi italiane e direttive CE, Milano, Giuffrè, 2002. G. Celata e F. Caruso, Cinema, Industria e Marketing, Guerini e Associati, Milano 2003. G. Fabris e L. Minestroni, Valore e valori della marca. Come costruire e gestire una marca di successo, Franco Angeli Editore, Milano, 2004. M. Lombardi, Il nuovo manuale di tecniche pubblicitarie, Franco Angeli Editore, Roma, 2004. G. Corti, Occulta sarà tua sorella! Pubblicità, product placement, persuasione: dalla psicologia subliminale ai nuovi media, Castelvecchi, Roma, 2004. 146 Articoli, tesi e altro... Convegno – 25 anni di autodisciplina pubblicitaria, 1991. R. Angelini, “L’operatore pubblicitario” nel decreto legislativo n. 74/92, Riv. dir. Ind. 2000, 6, 185. M. Mazzeo, La pubblicità occulta, relatore Stefano Rodotà, correlatore Guido Alpa, Università La Sapienza, Roma, 2002-2003. A. M. Pasetti, Product Placement? Qualcosa si muove, in “Boxoffice”, 30 Aprile 2006. Workshop on Product Placement, cd-rom contente il video dell’intera conferenza (18/05/2004). Metti un prodotto sul grande schermo, cd-rom contente il video dell’intero convegno (15/07/2004). Product Placement: Cinema e Brand si incontrano, cd-rom contenenti i video delle conferenze di Roma e di Milano (6 e 11/10/2005). La giurisprudenza completa dell’Autodisciplina Pubblicitaria, cd-rom contenente la raccolta integrale delle decisioni autodisciplinari. Webgrafia. www.agcm.it Sito Ufficiale dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, dal quale ho potuto consultare i diversi provvedimenti citati nella tesi. http://marketing.cinecitta.com Sito di Cinecittà Holding nel quale è presente uno spazio interamente dedicato al Product Placement. Di seguito riporto le pagine web appartenenti a questi sito da me consultate: http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=6ù Workshop al Festival del cinema di Cannes (27/05/2004). http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=14 147 Il product placement sbarca a Ischia 2004 (16/07/2004). http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=18 I decreti attuativi del Product Placement (06/10/2004). http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=22 Nasce il Product Placement Lab (13/12/2004). http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=36 Product Tie-In - Una nuova generazione di Product Placement (11/05/2005). http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=49 Cinema e brand si incontrano (03/09/2005). http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=59 Product Placement nell'Entertainment Marketing tra videogames e cinema (08/09/2005). http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=58 A Hollywood 7 film su 10 mostrano prodotti e marchi made in Italy (15/09/2005). (conclusioni) http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=91 Product Placement - Cinema e Brand si incontrano (12/10/2005). http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=93 Lavazza fa brand entertainment su Italia1 (14/10/2005). http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=95 La Commissione Europea approverà presto l'uso del product placement in tv (10/11/2005). http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=100 A Milano il branded entertainment sui media digitali (17/11/2005). http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=110 Product placement: prevista per il 2005 una crescita del 23% (28/11/2005). http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=115 La Commissione Europea approva il product placement televisivo (15/12/2005). http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=113 Nel 2004 il product placement in tv è cresciuto del 46% (19/12/2005). http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=125 Il product placement nei videogiochi sta crescendo velocemente (09/01/2006). http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=147 Telecom Italia e Luxottica in un film d'animazione italiano (14/04/2006). http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=142 Il Product Placement decolla anche in tv (19/04/2006). 148 http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=156 Luxury Brands & Celebrities (16/05/2006). http://www.cinema.beniculturali.it Sito dal quale ho preso il Decreto Attuativo 30 Luglio 2004. http://www.jmnanddy.com Sito ufficiale della JMN & DY di Lecco che mi ha permesso, insieme all’intervista al presidente Gerardo Corti, di ricostruire le caratteristiche dell’agenzia. http://www.escp-eap.net/conferences/marketing/pdf_2003/it/dalli.pdf Relazione del Prof. Daniele Dalli dell’Università di Pisa, tenuta al Congresso Internazionale Le Tendenze del Marketing, dal titolo Il Product Placement cinematografico: oltre la pubblicità? http://www.dyschronicles.com/global.pdf Global Product Placement, prodotto dalla JMN & DY. Fonte di diverse immagini e osservazioni sulle prospettive future per il Product Placement in Italia. 149