UNIVERSITA’ LA SAPIENZA
Facoltà di Scienze della Comunicazione
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE E TECNOLOGIE
DELLA COMUNICAZIONE
IL BRAND DIVENTA STAR
LA NOVITA’ DEL PRODUCT PLACEMENT NEL
SISTEMA CINEMATOGRAFICO ITALIANO
Relatore: prof. Andrea Piersanti
Correlatore: prof. Massimo Canevacci
Candidato: Antonio Micali
Matr. 868355
Anno Accademico 2005/2006
1
2
Indice
Introduzione alla lettura..........................................................5
Capitolo I
Il Product Placement nel sistema cinematografico
globale.
Premessa...................................................................... 10
1. Marketing cinematografico e Product Placement........11
-
Appendice. Il marketing cinematografico.
2. Brand e Product Placement.........................................13
-
Appendice. Il brand.
3. Breve storia del Product Placement............................19
4. Il Product Placement in Italia dal Fascismo ai giorni
nostri...........................................................................22
Capitolo II
La novità del Product Placement italiano:
la normativa.
Premessa......................................................................26
1. Dalle “origini” agli anni ’90........................................27
1.1 Dal Fascismo agli anni ’80..............................................27
1.2 La svolta che arriva dall’Europa.......................................31
2. Dagli anni ’90 al 2004.................................................35
2.1 La repressione della pubblicità ingannevole in Italia......35
2.2 Il
decreto
74/92,
articolo
4:
la
trasparenza
della pubblicità................................................................38
2.3 L’art. 4 e il Product Placement.......................................40
2.4 Il post-Decreto 74/92......................................................43
2.5 L’Autorità Garante e il Giurì in azione... ......................48
2.5.1. L’Autorità Garante..................................48
3
-
Appendice. Provvedimento dell’Autorità Garante
della Concorrenza e del Mercato.
2.5.2. Il Giurì..............................................50
- Appendice. Provvedimento del Giurì
Pubblicità.
della
3. Dal Decreto Urbani ad oggi......................................52
3.1 La fattibilità del Product Placement...............................52
3.2 Le conseguenze dell’art. 9.3...........................................55
4. Alcune riflessioni......................................................57
-
Appendice. Intervista a Michele Lo Foco.
Capitolo III
Dal Decreto Urbani a Il mio miglior nemico:
il Product Placement all’italiana.
Premessa...................................................................64
1. Una tecnica che suscita interesse... .........................65
-
Appendice. Analisi tecnica del Product Placement.
2. Le case di produzione cinematografiche..................71
3. Le
agenzie
di
comunicazione
e
Product Placement....................................................76
-
Appendice. Intervista a Gerardo Corti.
4. Le imprese commerciali...........................................79
5. Product Placement tra presente e futuro..................83
-
Appendice.
Oltre
cinematografico.
il
Product
Placement
Conclusioni.........................................................................87
Appendice...........................................................................94
Bibliografia........................................................................147
Articoli, Tesi ed Altro... ...................................................148
Webgrafia..........................................................................148
4
Introduzione alla lettura.
Osserviamo le immagini in copertina:
1895: L’uscita degli operai dalla fabbrica Lumière.
1926: The Texas Streak.
1969: Un maggiolino tutto matto.
1995: Golden Eye.
2005: L’uomo perfetto.
2006: Il mio miglior nemico e La cura del gorilla.
Ecco una sintesi generale dei casi di Product Placement
cinematografico dalla sua “nascita” ai giorni nostri.
Ma perché per il 2005 e il 2006 ho scelto di riportare solo casi
italiani?
e, soprattutto,
Perché non ho riportato casi di Product Placement italiano
prima del 2004?
Il motivo è molto semplice: non esistono casi “dichiarati” di
Product Placement prima del 2004 proprio perché non era
concesso il suo esercizio.
La tesi che segue affronta in maniera abbastanza articolata – e a
volte anche piuttosto critica – il rapporto che negli ultimi anni
si è venuto a creare nel sistema italiano tra case di produzione
cinematografica (e non) e imprese commerciali, in seguito alla
promulgazione del Decreto Urbani, e, più nello specifico, in
seguito alla liberalizzazione del Product Placement. Lo
sviluppo normativo su questo tema si è dimostrato, in Italia,
molto lento e, soprattutto, molto superficiale, considerando le
difficoltà avute dai legislatori nel definire in quale frangente
tale tecnica di marketing dovesse essere inserita; una difficoltà
che ha portato il sistema giuridico italiano a non ritenere il
5
Product Placement né lecito, né illecito, fino agli anni ’90,
quando – a mio parere erroneamente – cominciò ad essere
considerato perseguibile ai sensi dell’art. 4.1. del D.lgs 74/92
incentrato sulla pubblicità ingannevole.
Oggi il sistema normativo italiano è riuscito a togliersi ogni
dubbio: la promulgazione del D.lgs 28/2004 e i successivi
decreti attuativi, hanno aperto il campo a tutta una serie di
possibilità che non riguardano tanto il contenuto filmico,
quanto l’effettiva possibilità di produrre, e di agire su nuovi
mercati, anche internazionali.
La liberalizzazione del Product Placement offre vantaggi
prestigiosi a tutte le parti in causa. Le case di produzione si
servono di finanziamenti da parte delle imprese commerciali
per produrre il film, offrendo in cambio una visibilità del loro
brand al suo interno; parallelamente le imprese commerciali
sfruttano un mezzo di grande presa – come il cinema – per
pubblicizzare il proprio prodotto in un contesto sicuramente più
naturale e meno invasivo di quanto non lo sia lo spot
pubblicitario. Senza contare che la nascita di un nuovo “terreno
di conquista” come il Product Placement richiede competenze e
capacità mirate, permettendo così lo sviluppo di agenzie
fortemente specializzate che diventano “mediatori-creativi” del
rapporto tra casa di produzione e impresa commerciale.
Essendo quello del Product Placement un argomento
particolarmente complesso, che tocca i campi più disparati, ho
ritenuto opportuno analizzare lo sviluppo di questo fenomeno
in Italia dal 2004 ad oggi, analizzando il fenomeno su livelli
differenti.
Il primo capitolo, infatti, affronta il tema del Product
Placement nella sua accezione più ampia; dalla definizione al
rapporto col marketing cinematografico e con il brand, per poi
concludere con lo sviluppo del Product Placement
cinematografico nel mondo, e in Italia.
6
Il secondo capitolo invece affronta l’evoluzione normativa del
Product Placement in Italia individuando tre fasi storiche
determinanti alle quali corrispondono tre diverse
considerazioni del Product Placement: la prima fase parte dal
periodo fascista fino agli anni ’90 – il Product Placement non è
considerato né lecito né illecito... semplicemente non è
considerato, punto. La seconda fase, invece, va, storicamente,
dagli anni ’90 al 2004 – il Product Placement viene considerato
come una forma di “pubblicità ingannevole” e quindi
perseguibile ai sensi dell’art. 4.1. Infine, la terza fase è quella
che parte da Febbraio 2004 fino ai giorni nostri – ossia la fase
di legalizzazione del Product Placement attraverso l’art. 9.3.
del Decreto Urbani e i successivi decreti attuativi.
Il terzo capitolo, e ultimo di questa tesi, affronta le
conseguenze che il Decreto Urbani ha avuto nel contesto
pubblicitario e cinematografico italiano, a partire dall’interesse
creatosi sul tema del posizionamento cinematografico del
brand e sfociato nei vari convegni e incontri tra i diversi
“addetti ai lavori”, fino alle trasformazioni avvenute nei tre
attori principali – case di produzione, imprese commerciali, e
agenzie di comunicazione e Product Placement – che hanno
cominciato ad adattare il proprio modus operandi a questa
nuova opportunità. Il capitolo si conclude, infine, con uno
sguardo rivolto verso il futuro, verso le ulteriori opportunità
che questa liberalizzazione porta con sé. Perché se inserire un
prodotto all’interno di un’inquadratura di un qualsiasi film può
garantire un qualche margine di profitto, o, quanto meno, di
visibilità, che cosa potrebbe accadere se quello stesso prodotto
prendesse vita sullo schermo, diventando così protagonista del
film?
La tesi affronta il tema dell’integrazione del brand nel film
italiano anche attraverso il parere degli esperti del settore,
come Michele Lo Foco, avvocato e presidente di Cinecittà
7
Diritti, il quale ha giocato un ruolo importante nella
realizzazione dell’art. 9.3. del Decreto Urbani, e Gerardo
Corti, presidente dell’agenzia di comunicazione e Product
Placement JMN & DY di Lecco, uno dei principali “profeti” di
questa tecnica in Italia.
Ciascun capitolo della tesi verrà introdotto da una struttura
particolarmente originale: ho deciso di creare una testata
giornalistica fittizia, che ho chiamato From Brand to Star
Journal, all’interno della quale è presente il titolo del capitolo
che introduce – che si presenta al lettore come titolo della
prima pagina della testata – e una sorta di riassunto del capitolo
seguente – costruito come se fosse un articolo. Ovviamente, il
mio consiglio non è quello di fermarsi al riassunto, ma di
andare oltre, ve ne sarei veramente grato...
Un ultimo appunto sulla struttura della tesi. Allegato al testo è
presente un cd-rom all’interno del quale vi è una sorta di
appendice, che permette di approfondire determinati argomenti
che vengono trattati in maniera superficiale nel testo, in quanto
non determinanti per la realizzazione di questa tesi. Ho deciso
di realizzare questa appendice al fine di rendere la tesi stessa
accessibile tanto agli addetti ai lavori – che sicuramente
riterranno sufficiente quanto riportato sul testo – quanto a chi si
avvicina per la prima volta a questo tema – e che può trovare
negli allegati ulteriori delucidazioni.
Inoltre nell’allegato vengono riportate per intero le interviste da
me realizzate e che nella tesi vengono solo accennate o ridotte
all’essenziale.
Quanto riportato su questo testo mi permetterà di rispondere a
una domanda che, alla luce dei fatti avvenuti dal 2004 a oggi, è
finalmente possibile porsi:
Può la tecnica del Product Placement integrarsi
positivamente nel sistema cinematografico italiano?
8
9
Premessa.
La tecnica del Product Placement non è una “novità” come
potrebbe sembrare, ma si tratta di una tecnica di marketing
conosciuta già da parecchi anni tra i cosiddetti “addetti ai
lavori” e, soprattutto, nel contesto pubblicitario americano.
Per quanto possa apparire come “scontata”, ritengo sia
comunque importante offrire ai lettori di questa tesi una
presentazione, diciamo, “genetica”, di questa tecnica. Come
proporre un’analisi sugli effetti del Product Placement in Italia
se prima non si è parlato del Product Placement in sé.
Ricostruiamo, quindi, questa tecnica partendo dal primo
elemento: la definizione.
Che cos’è il Product Placement?
Il Product Placement è una particolare tecnica di marketing
che consiste nel posizionamento di un brand/prodotto
all’interno di un contesto apparentemente inusuale, come, ad
esempio, un film. Il brand/prodotto si integra perfettamente
nel normale svolgimento narrativo, senza interromperlo. Il
posizionamento avviene in seguito ad accordi stipulati tra
imprese commerciali e case di produzione, attraverso la
mediazione svolta da agenzie specializzate (di comunicazione
e product placement).
Alla luce di questa prima definizione è possibile evidenziare
l’esistenza di un legame tra il Product Placement e due concetti
determinanti nel mondo della comunicazione e dell’immagine:
- il marketing (con particolare riferimento al marketing
cinematografico);
- il brand.
Vediamo quindi di analizzare il perché dell’esistenza di tale
legame1.
10
1.
Marketing cinematografico
Placement.
e Product
Il Product Placement cinematografico rappresenta una tecnica
di marketing cinematografico a tutti gli effetti in quanto si
inserisce con specifici strumenti e modalità all’interno di uno
specifico sistema produttivo. Entrare a far parte del processo
produttivo cinematografico vuol dire partecipare in maniera
attiva ad un sistema che negli ultimi 30 anni ha subito
un’importante trasformazione, legata tanto ai mezzi di
diffusione entrati in gioco quanto alla trasformazione della
figura del pubblico. Il passaggio avvenuto dalla vecchia alla
nuova filiera cinematografica è ben rappresentato dal seguente
grafico:
Vecchia filiera cinematografica
Produzione – Distribuzione – Esercizio
Spettatore cinematografico
Nuova filiera cinematografica
Televisione/Pay-TV
Internet
Produzione - Distribuzione
Esercizio
Consumatore filmico
Home-Video
DVD,
...
Qual è il rapporto rintracciabile tra il nuovo spettatore
cinematografico (detto consumatore filmico), le nuove
modalità di fruizione del messaggio (che vanno a sommarsi
alla sala) e il Product Placement?
11
La nuova filiera cinematografica garantisce all’applicazione
della tecnica del Product Placement maggiori margini
d’azione, e, quindi, di successo.
Facciamo un esempio generico per spiegare meglio questo
concetto. Un film viene prodotto da una casa di produzione, la
quale, attraverso un’agenzia, ha stipulato accordi di Product
Placement con un’impresa commerciale. Se il film fosse
trasmesso solo nella sala cinematografica, il consumatore
sarebbe essenzialmente lo spettatore cinematografico della
vecchia filiera. Ma questo film non verrà trasmesso solo in
sala, dato che i diritti verranno poi acquistati da una rete
televisiva, da un canale Pay-per-wiev, e, ancora, del film stesso
verrà prodotta la versione VHS, quella DVD, … e così via. Il
film non verrà quindi consumato dal solo spettatore
cinematografico, bensì dal consumatore filmico; anche gli
effetti del Product Placement verranno così percepiti da un
target molto più ampio, garantendo maggiori margini di
successo.
Molti studiosi osservarono, quando il Product Placement aveva
cominciato a prendere piede, che un limite di questa tecnica
fosse l’impossibilità di reiterare il messaggio; quanto detto
finora smentisce l’esistenza di un limite del genere. La
moltiplicazione degli spazi permette al messaggio di essere
trasmesso più e più volte, anche se con livelli di frequenza non
calcolabili.
È ovvio che la moltiplicazione degli spazi d’azione a
disposizione non garantisce l’effettivo successo del placement.
E sono altri i fattori negativi da tenere in considerazione, la
maggior parte dei quali “esterni”, ossia non direttamente
controllabili:
- il gradimento del film;
- le percezioni associate al placement dell’offerta;
12
-
la comunicazione promozionale alla diffusione della
pellicola;
- i giudizi della critica;
- la percezione che il pubblico ha dei personaggi del film;
- l’associazione del brand ad un’immagine percepita
come negativa;
e così via.
Non mancano, tuttavia, i vantaggi legati all’utilizzazione di
questa tecnica, quali:
- la predisposizione di un effetto enfasi, che aumenta il
livello di verosimiglianza del racconto;
- la presentazione pianificata di prodotti e marche, ossia
un’offerta “visiva” ottimale del prodotto o brand in
questione;
- l’interesse attivo dell’audience, ossia pubblicizzare un
prodotto sfruttando il livello d’attenzione che il
pubblico sviluppa nei confronti del film;
- un livello predeterminato d’affollamento, ossia la
predisposizione di un tot di brand presenti nella
pellicola;
- l’elevata segmentazione dell’audience, ossia la presenza
di determinati brand in determinati film, in modo da
tenere in considerazione quale segmento di pubblico
consuma quel particolare genere, o quel particolare film
con uno specifico attore, e così via;
- la presentazione di particolari categorie di prodotto con
vincoli e limiti di pubblicità;
- la gradualità dell’investimento.
2.
Brand e Product Placement.
Che esista un legame inscindibile tra la presenza di un brand
nel contesto cinematografico – e non – e l’applicazione del
Product Placement, è sempre stato talmente ovvio da aver
13
creato sempre dubbi e interesse anche quando questo rapporto
in realtà risultava essere del tutto casuale.
Il Product Placement rientra a tutti gli effetti nella categoria
degli strumenti capaci di produrre uno stimolo pubblicitario.
Nel caso di Product Placement cinematografico
un medium – il cinema – trasmette un messaggio –
l’immagine “brandizzata” di un film – al pubblico, il quale lo
elabora e lo apprende. La reazione dello spettatore sarà
una (possibile) propensione all’acquisto.
La presenza di un brand all’interno di un film, nel momento in
cui viene percepito dal pubblico, aumenta la sua brand
awareness, ossia la conoscenza che il consumatore possiede di
un determinato brand o di una specifica categoria di prodotto.
Questo risulta essere molto utile non solo per i grandi brand
che, all’interno di una stessa categoria lottano per restare o
diventare top of mind, ma anche per i brand in crescita, che si
affidano al Product Placement per aumentare la conoscenza che
il pubblico ha di loro2.
Molti posizionamenti cinematografici, inoltre, avvengono
tenendo in considerazione la brand identity (caratteristiche
fisiche, personalità, universo culturale del prodotto, ... tutti quei
fattori che contribuiscono nella determinazione dell’identità di
una marca) del prodotto in questione. Questo si verifica
soprattutto nei casi di Product Placement Culturale3.
A livello puramente teorico – poiché non è possibile
presupporre con certezza il successo di un Product Placement –
la presenza di un prodotto all’interno di uno spettacolo
cinematografico può contribuire ad aumentare positivamente il
Power Grid – il valore che il consumatore attribuisce a una
marca – di un brand. Quello che invece non si può
assolutamente prevedere è l’aumento della sua brand equity –
il valore effettivo, tanto personale quanto economico, di un
14
brand – proprio perché non è presumibile che l’esposizione del
pubblico al brand nel film determini l’acquisto del prodotto
stesso nei negozi e, conseguenzialmente, aumenti il potere
finanziario dell’impresa.
Senza contare che il posizionamento di un prodotto all’interno
di un film non garantisce al 100% che quel prodotto verrà
percepito positivamente dal pubblico. Essi infatti potrebbero
crearsi un’immagine negativa del prodotto perché associata a
personaggi negativi nel film, ad attori poco ammirati, o a scene
poco gradite. Si avrebbe così non solo una diminuzione del
Power Grid del brand (e quindi della sua brand image), ma
anche della sua brand equity.
Ma quali sono le “sembianze” del brand sul grande schermo?
Un brand si presenta sul grande schermo attraverso il suo
brand name, indicatore primario della marca, primo punto di
contatto con l’esterno, dimensione fondamentale della
notorietà, base di tutta la comunicazione.
Il nome del brand è la metonimia del patrimonio di senso che la
marca ha accumulato e capitalizzato nel suo divenire. Il suo
aspetto determinante è la memorabilità: un buon appellativo
commerciale si dovrebbe ricordare facilmente. In genere il
ricordo è favorito quando il nome è abbastanza insolito da
generare curiosità e attirare l’attenzione del pubblico.
Questo particolare aspetto dell’identità di marca – definito
come Visual Brand Identity – si suddivide in 4 categorie
principali:
- I nomi propri.
Un gran numero di appellativi commerciali deriva dai nomi
propri. Siano nomi patronimici, pseudonimi, nomi di
personaggio, mitologici, storici oppure geografici, essi sono in
grado di attribuire alla marca personalità e identità, attraverso
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un trasferimento di significati dal particolare, dall’individuale
(nome di persona, di cosa, ...), al generale, al globale (nome di
una serie, di una marca, di una famiglia di oggetti, ...).
La Benetton è un esempio di nome patronimico che porta il
nome di una persona, generalmente un fondatore , capostipite
di una dinastia di imprenditori e dunque di una famiglia.
L’Aiax è un esempio di nome mitologico poiché deriva da
Aiace (nome di due eroi greci della guerra di Troia).
- I nomi descrittivi, associativi, espressivi.
Il brand name può essere in grado di suggerire il
posizionamento del prodotto. Nomi comuni, aggettivi, verbi,
avverbi, funzionano, in questa direzione, come precisi
indicatori. Capaci di illustrare, raccontare, spiegare. Ma anche
di produrre utili associazioni simboliche, particolarmente
attinenti alla nazionalità e all’utilizzo del prodotto o del
servizio.
Mentadent o Fila & Fondi sono nomi descrittivi, un
condensato di informazioni sulle performance e sulle promesse
della marca.
Activia o Vitasnella sono nomi associativi, che utilizzano
un’immagine o un’idea particolarmente impattante per “dire”
della marca.
Clic-Clac o Tic Tac sono nomi espressivi, capaci di rinviare,
grazie a una precisa sonorità o musicalità, ad una peculiarità o
a un tratto caratteristico della marca.
- Il logo.
Si tratta della prima forma di comunicazione della marca: è il
referente principale che stabilisce un’iniziale “patto silenzioso”
col consumatore. La natura del logo è simbolica, convenzionale
ed emblematica. Parliamo di logo:
16
quando il segno in
questione è la
rappresentazione di una
parola, di un nome, di
un’iniziale, di una sigla il
cui referente è
un’espressione di tipo
fonologico/alfabetico
(Esempi: Ford, Champion,
American Express).
quando il referente iconico
è un oggetto, un simbolo,
una figura più o meno
stilizzata, un personaggio
(Esempi: Kellogg’s,
Apple, Nike).
quando si viene a generare
una soluzione intermedia
che contiene lettere e
immagini, che comunica,
cioè, messaggi visuali
composti (Esempi:
McDonald’s, Ferrari,
BMW).
17
- Il packaging.
In origine, il packaging nasce per contenere e proteggere i
prodotti. Oggi, invece, il packaging è divenuto una vera e
propria risorsa di comunicazione per le imprese. Il packaging è
capace di rendere competitiva una marca, persino di divenire il
tratto di riconoscibilità per eccellenza.
Marche come Coca-Cola, Toblerone e Pringles hanno costruito
la propria identità attraverso la peculiarità e la distintività del
packaging.
Alcune, addirittura, hanno reso il pack del prodotto, parte
determinante della narrazione pubblicitaria: è il caso
dell’Absolut.
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Ciascuna di queste categorie analizzate finora (nomi propri,
nomi descrittivi-associativi-espressivi, logo e packaging)
rappresentano quindi la “personificazione” del brand
all’interno di un qualsiasi contesto, quindi anche filmico. In
particolare, data la natura del messaggio cinematografico, il
logo e il packaging si prestano alle strategie di placement con
maggiore efficacia e immadiatezza. Alcuni marchi (così come
alcuni pack) vengono inseriti all’interno di una sceneggiatura
con la consapevolezza che il pubblico saprà riconoscerli anche
senza ulteriori chiarimenti o riferimenti che, a quel punto,
apparirebbero come innaturali e artificiosi. La sinuosità
femminile della bottiglia di Coca-Cola o il “baffo” della Nike
sono talmente rappresentativi della propria impresa da non
richiedere precisazioni.
3.
Breve storia del Product Placement.
Quali sono le origini del Product Placement?
Se volessimo riportare una storia del Product Placement in
quanto forma di mecenatismo, dovremmo partire addirittura dal
Medioevo, quando era una pratica comune raffigurare il
mecenate, di solito un personaggio in vista, all’interno di
un’opera pittorica – pratica che si sviluppò ulteriormente in
epoca rinascimentale4.
Per parlare invece di Product Placement cinematografico
dobbiamo saltare al 19 Marzo 1895, quando i fratelli Lumiere
girarono il primo film della storia, L’uscita degli operai dalla
fabbrica Lumiere: cinema e Product Placement nascono quindi
contemporaneamente. E questo non fu nemmeno l’unico caso: i
Lumiere infatti trovarono modo di posizionare i propri cartelli
anche ne La collera dell’affissore del 1896, dove alcuni
colleghi litigano mentre stanno attaccando i cartelloni
pubblicitari dei due fratelli.
19
È utile, comunque, fare una precisazione: il cinema dei primi
anni è, per lo più, di natura “autopromozionale”, mira cioè a
mostrare al pubblico il cinema in quanto magnifico strumento
di comunicazione; il suo contenuto diciamo che è solo
marginale. Per questo motivo, nonostante le caratteristiche
sembrino presentare i film dei Lumiere come esempi di
Product Placement, essi non lo sono a tutti gli effetti.
Il primo vero esempio di Product Placement possiamo
rintracciarlo in Cripple Creek Bar-Room Scene, il primo film
western della Storia, filmato nel 1899, della durata di 46
secondi. Il film è ambientato all’interno di un saloon con tre
cow-boy e la ragazza del bar. Dietro la barista c’è un cartello
con la scritta Ballantine’s. Ovviamente non si può sapere con
certezza quale accordo ci sia stato fra la produzione Edison e la
Ballantine’s, ma è certo che in quel periodo il cinema fosse
sotto osservazione da parte delle aziende e, sicuramente, la
caratterizzazione di un ambiente “da duro” come un saloon
poteva essere vista come un ottimo mezzo per un whisky
scozzese per conquistare il mercato americano.
Il 1926 vedrà l’esordio di uno dei principali “attori
commerciali” della storia del cinema: nel film The Texas
Streak farà la sua comparsa un cartello con la scritta CocaCola.
Il prodotto comincia ad essere posizionato anche in modo
dinamico, utilizzato dagli attori, come avviene in Sturme der
Leidenschaft, un film di Robert Siodmak girato in Germania
nel 1931: questo film si apre nelle cucine di una prigione piene
di scatoloni di dadi Maggi. Il capocuoco assaggia la minestra e
dopo aver fatto una faccia schifata rimprovera il cuoco
dicendogli che per fare un buon brodo bisogna usare i dadi. Ne
prende tre da un vassoio e dopo averli sbriciolati li getta
nell’acqua bollente.
20
L’evoluzione tecnologica del cinema permette l’evoluzione
tecnica del Product Placement. Con l’acquisizione del sonoro
diventa fattibile la citazione della marca, cosa che avviene per
la prima volta nel caso de I figli del deserto del 1934 in cui gli
attori “chiedono” una Coca-Cola.
Il Product Placement ritrova nel cinema un altro alleato
potente, oltre al sonoro: la star. Nel film Accadde una Notte
Clark Gable non indossa alcuna canottiera sotto la camicia,
fatto che provoca nel giro di poco tempo una crisi nella vendita
dell’intimo maschile.
La star diventa uno strumento utile ai fini del Product
Placement, come viene dimostrato ancora da casi come
Susanna di Hawks – in cui si assiste al primo esempio di
pubblicità comparativa tra le palline da golf Pca e quelle della
Kranfly – o Laura di Preminger – in cui la figura dell’attore e
quella del personaggio vengono associate al whisky Black
Pony, da quel momento tra gli alcolici più richiesti e ricercati.
A questo punto molti cominciarono a intravedere l’importanza
e l’utilità che potevano nascere da accordi tra le aziende e le
case di produzione, così nel 1939 ne Il romanzo di Mildred,
Joan Crowford si trovò faccia a faccia con il Jack Daniel’s. Da
questo momento in poi i casi di associazione tra star e prodotto
si sprecano5.
Il 1963 segna un altro punto di svolta nel mondo del Product
Placement con la nascita del testimonial-movie per eccellenza:
James Bond. Compagni delle sue avventure diventano Martini,
Walter Ppk, Aston Martin, Dom Perignon del ’56, … e altri
ancora.
Il Product Placement diventa “commercialmente ufficiale” nel
1968 con 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, anche se
l’esempio da manuale, secondo molti esperti, è dato da E.T. di
Spielberg del 1982. Da questo momento in poi il Porduct
21
Placement diventa uno strumento di comunicazione aziendale a
tutti gli effetti, con delle regole ben precise.
4.
Il Product Placement in
Fascismo ai giorni nostri.
Italia
dal
Il primo Product Placement italiano lo si può trovare durante il
Fascismo, quando la nascita dei film di propaganda aveva
portato la necessità di “pubblicizzare” il benessere garantito dal
regime. I prodotti aumentano negli anni successivi alla guerra.
Arrivano i prodotti americani, capitanati dalla Coca-Cola, che
hanno così la possibilità di conquistare il nostro mercato. Il
Product Placement segue lo sviluppo economico dell’Italia e
comincia, attraverso il cinema a influenzare le mode e i gusti
dei suoi abitanti. Con gli anni del boom arriva anche la
televisione e con essa il Carosello. Il Carosello si presenta
come la versione ridotta di quello che succedeva al cinema, in
cui gli attori rivivevano avventure analoghe a quelle del grande
schermo circondati da merci d’ogni tipo. Ovviamente la
differenza tra Carosello e Product Placement è sostanziale: se
in entrambi i casi si assiste a un’integrazione del prodotto e
della storia nello stesso programma, in Carosello i due elementi
sono scissi (come dimostra l’esistenza del pezzo – la storia – e
del codino – la pubblicizzazione del prodotto), mentre nel
Product Placement sono fusi.
Le pellicole, soprattutto quelle comiche, si riempiono di
marche più o meno integrate. Se c’è stato un periodo storico
nel quale, forse, sarebbe stato giusto vietare il Product
Placement per proteggere lo spettatore “indifeso” è stato
proprio questo, vista l’impreparazione degli italiani a questo
tipo di comunicazione pubblicitaria.
Con l’arrivo degli anni ’70 la situazione degenera e i
posizionamenti diventano sempre più invasivi. Qualunque film
22
è adatto per inserire prodotti. Dal thriller italico alle commedie
sulle liceali, dall’horror all’erotico, dal poliziesco al film
d’autore, è un tripudio di pacchetti di sigarette mostrati in
primo piano, acqua Pejo a tavola, bagnoschiuma Vidal per il
bagno o la doccia della protagonista e superalcolici che
spuntano in ogni luogo.
La situazione non migliora negli anni ’80 e ’90, pur
diminuendo vistosamente il numero dei prodotti presenti in
ogni film. Finché non arriva il decreto legislativo 74/92 sulla
pubblicità ingannevole che dichiara l’illegalità di pratiche
assimilabili al Product Placement. Inizia così un decennio
caratterizzato da diffidenza, dall’impossibilità da parte delle
produzioni cinematografiche di ottenere finanziamenti dalle
aziende e da posizionamenti improvvisati grazie ai cambimerce, che consentivano di inserire i propri prodotti all’interno
di un film senza nessun tipo di garanzia. In Italia la pratica del
Product Placement è stata considerata illegale per svariati
motivi, di cui i principali erano
a. l’impossibilità di riconoscerne la natura
pubblicitaria;
b. la tutela del consumatore (che non è cosciente
della sua attivazione);
c. la tutela degli autori (costretti a “rovinare” il
proprio film con la pubblicità);
d. la tutela degli imprenditori concorrenti (che non
potevano confrontarsi in maniera obiettiva
all’interno di un film sponsorizzato da una casa
concorrente).
A tal proposito Mario Mazzeo, nella sua Tesi di Laurea La
pubblicità occulta scrive:
è auspicabile che, così come è avvenuto per la pubblicità
comparativa, anche per il product placement si giunga, in
Italia a una regolamentazione che non vieti semplicemente,
23
ma regoli il fenomeno, consentendo di garantire una più
efficace tutela dei consumatori, ma anche la libertà di
iniziativa economica.
Un’osservazione astratta che si concretizza il 22 Gennaio 2004,
col Decreto Urbani, elemento normativo di partenza dal quale
prenderanno forma, a livello “Product Placement Movie” come
L’uomo Perfetto, Melissa P. o Il mio miglior nemico.
Alla luce di quanto detto, ricostruire un iter normativo del
Product Placement diventa un’impresa, per quanto ardua,
comunque possibile. Divideremo, quindi, questo percorso in 3
periodi storici, partendo dal periodo fascista fino ad oggi.
E’ possibile avere ulteriori informazioni sul concetto di marketing
cinematografico e di brand consultando il cd-rom allegato alla tesi.
2
A tal proposito, emblematico è il caso Pasta Garofalo, che ha investito il
100% del proprio budget in comunicazione nel Product Placement.
3
Per avere maggiori informazioni sul concetto di Product Placement
Culturale, consultare il cd-rom allegato alla tesi.
4
Si pensi a La comitiva dei Re Magi di Benozzo Bozzoli (1460), esposto al
Palazzo Medici-Riccardi a Firenze, in cui si può notare tutta la famiglia
Medici al seguito dei Re Magi.
5
Citiamone solo alcuni: Khatarine Hepburn e il Gordon’s Gin in La regina
d’Africa, Marilyn Monroe e la Coca-Cola in Come sposare un milionario,
Tony Curtis e la Shell in A qualcuno piace caldo.
1
24
25
Premessa.
È possibile ricostruire un percorso normativo italiano circa il
Product Placement?
In effetti, non si tratta di una procedura tanto semplice, e il
motivo è sostanziale: non esiste una vera e propria storia
normativa su questo argomento.
La risposta alla domanda sopra riporta appare, quindi, ad una
prima riflessione, negativa.
Ma riflettendo più attentamente è possibile fare due interessanti
considerazioni:
 In generale, il panorama cinematografico italiano, e in
particolare il film in sala, permettono di osservare il
comportamento di imprese commerciali, case di
produzione cinematografica e agenzie pubblicitarie sul
tema del Product Placement. Attraverso questo aspetto
più tangibile, unito alle norme del periodo, si avrà la
possibilità di commentare e capire il perché di
determinate decisioni in determinati momenti.
 Se, da un lato, il termine Product Placement non viene
mai menzionato nel sistema normativo italiano, è
importante sottolineare, dall’altro, che il suo concetto,
ossia quello di pubblicizzazione di un prodotto
attraverso un mezzo di diffusione non convenzionale
(appunto il film in sala o in TV) può essere utile al fine
di ritrovare nel “Codice della Pubblicità” una serie di
norme legate all’argomento, e che, in maniera più o
meno importante, una dopo l’altra, hanno portato alla
nascita del decreto “più ufficiale” su questo tema: il
decreto “Urbani”.
26
1. Dalle “origini” agli anni ’90.
1.1. Dal Fascismo agli anni ’80.
A partire dal regime fascista, passando attraverso gli anni che
hanno caratterizzato il secondo ‘900 italiano, dalla
Ricostruzione al Miracolo Economico, dagli “Anni di Piombo”
a quelli del consumismo sfrenato, ebbene, non è possibile, a
livello normativo, trovare un qualsiasi riferimento sul tema del
posizionamento del brand/prodotto all’interno di sistemi
inusuali (come possono esserlo, appunto, i film).
E allora, per quale motivo dovremmo partire proprio dalla
seconda metà degli anni ’30 nella nostra opera di
ricostruzione?
Innanzitutto, lo studio che mi appresto a fare mette su piani, a
volte convergenti, altre divergenti, il Product Placement e la
cosiddetta “pubblicità ingannevole”, che, secondo molti
studiosi, in Italia risale proprio al ventennio fascista. Inoltre, si
è scelto questo punto di partenza poiché, secondo gli studi e le
ricerche svolte dalla JMN & DY1 l’utilizzazione di questa
tecnica in Italia è riconducibile proprio al Fascismo. In
generale, la legislazione fascista sulla pubblicità si basava
preferibilmente sulla censura preventiva, pur limitandola ad
alcuni settori merceologici di più immediato interesse sociale, e
integrandola, sul piano generale, con un sistema censorio di
pubblica sicurezza e con quello sanzionatorio del Codice
Penale e di altre leggi speciali. Nel caso del cinema, parliamo
di uno strumento di grande impatto sociale, e di conseguenza,
di carattere potenzialmente propagandistico se nelle mani di un
regime come, appunto, quello fascista; appare chiaro, dunque,
come il cinema fosse un strumento utile alla “pubblicizzazione
dei prodotti derivanti dal regime fascista”2.
27
Da queste considerazioni possiamo giungere, quindi, ad una
prima conclusione: pubblicizzare un prodotto attraverso lo
spettacolo
cinematografico
non
poteva
ritenersi,
effettivamente, illegale. Altre leggi sembrano avallare – in
senso lato – questa ipotesi: nel Regio Decreto 21 Giugno 1942
n. 929 (Testo delle disposizioni legislative in materia di
brevetti per marchi d’impresa, modificato dal Decreto
Legislativo 4 Dicembre 1992 n. 480), nel quale si parla di
Diritti di Brevetto e Uso del Marchio, si può osservare come
non vi siano articoli (in particolare legati all’Uso del Marchio)
che vietino l’utilizzazione del brand per scopi pubblicitari
attraverso sistemi di diffusione eccezionali3.
Come ulteriore prova di questa conclusione vorrei riportare
un’osservazione che ho fatto durante le ricerche da me svolte
per la realizzazione di questa tesi. Tra i diversi libri che ho
utilizzato per documentarmi, ho avuto modo di leggere un libro
di Maurizio Fusi, L’autodisciplina pubblicitaria in Italia,
rassegna completa delle decisioni del Giurì (1983), un libro
che racconta la nascita e l’evoluzione dell’Autodisciplina
Pubblicitaria in Italia, a partire dalle influenze straniere fino
agli anni di pubblicazione del libro. Il testo riporta, inoltre, gli
articoli del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria che, se
violati, spingono il Giurì della Pubblicità e il Comitato di
Controllo ad intervenire, e, infine, tutti gli interventi di questi
organismi di controllo. In particolare mi sono concentrato
sull’articolo 7:
La pubblicità deve sempre essere riconoscibile come tale. Nei
mezzi in cui, oltre alla pubblicità, vengono comunicati al
pubblico informazioni e contenuti di altro genere, la
pubblicità inserita deve essere nettamente distinta per mezzo
di idonei accorgimenti.
28
In questo testo viene riportato come esempio di pubblicità che
viola l’articolo 7, la cosiddetta pubblicità redazionale4. Gli
interventi pratici del Giurì riportati sul testo di Fusi sono 12.
Ma, a pensarci bene, anche il posizionamento di un marchio o
di un prodotto in un film può essere considerata una
“pubblicità non riconoscibile come tale”; e se pensiamo che
gli anni ’60, e, soprattutto, gli anni ’70, a livello
cinematografico, assistono a un posizionamento sempre più
invasivo del brand, allora è lecito chiedersi: perché ben 12
interventi per la carta stampata e nessuno per il cinema? Non
sarà che, in assenza di norme ad hoc, di una sorta di
“corrispettivo normativo” a livello statuale, il Giurì preferiva
non intervenire in questo campo? In realtà il motivo è molto
più semplice, ma avremo modo di parlarne dettagliatamente
più avanti.
Ma se, dal lato della vittima/consumatore gli interventi erano
nulli in quanto privi di fondamento normativo, dal lato della
vittima/concorrente l’azione legale era più che fattibile: si pensi
all’articolo 2598 del Codice Civile, relativo alla Concorrenza
Sleale. Il terzo atto di questo articolo attribuisce lo svolgimento
di una forma di concorrenza sleale a chi
si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non
conforme ai principi della concorrenza professionale o idoneo
a danneggiare l’altrui azienda.
Qual è allora il motivo di questa contraddizione normativa?
Secondo Maurizio Fusi
il pensiero giuridico italiano si è per lungo tempo rifiutato di comprendere e
interpretare correttamente un fenomeno così particolare e complesso come è
quello della pubblicità, pretendendo per contro di considerarlo alla stregua
della comunicazione commerciale tradizionale. Di qui l’iniziale ricorso al
concetto del dolus bonus5 (scomparso proprio grazie all’art. 2598) o ad
assiomi secondo cui per la natura “tipicamente ingannatoria e tendenziosa”
29
della pubblicità, il pubblico sarebbe di regola scettico verso i suoi messaggi
e sempre in grado di cogliervi l’eventuale menzogna6.
Ma uno squilibrio del genere non è destinato a durare: il 24
Settembre 1971 la Corte d’Appello di Milano afferma che:
“la tendenza a considerare i destinatari dei messaggi di pubblicità come
affetti da una sorta di costituzionale e fanciullesca disponibilità a cadere
vittime di qualsiasi grossolano tranello, vero o immaginario, deve pur
trovare qualche limite…”
Nel 1973 due decisioni di merito edite affermano senza
ambiguità che la pubblicità ingannevole, per la sua idoneità a
sviare il giudizio dei consumatori, a detrimento dei concorrenti,
costituisce violazione dell’art. 2598, n. 3, del Codice Civile.
Inoltre, il Tribunale di Milano arriva espressamente ad
affermare l’irrilevanza della “normalità” del ricorso a pubblicità
ingannevole da parte delle imprese di un determinato settore,
superando così l’argomento cardine a sostegno della regola del
dolus bonus secondo cui “le affermazioni mendaci provenienti
da più imprese si neutralizzerebbero a vicenda”.
Perché diventa importante parlare in questa
dell’estensione del potere d’azione dell’art. 2598?
sede
In base alle ricerche da me svolte, ritengo importante questo
articolo in quanto simbolo di un cambiamento in atto non solo
in Italia, ma anche in Europa, in materia di pubblicità
ingannevole. In particolare, ritengo che l’art. 2598, insieme alla
Direttiva 84/450/CEE (di cui parleremo nel prossimo
paragrafo) rappresentano “l’embrione normativo” del Product
Placement italiano.
30
1.2. La svolta che arriva dall’Europa.
Come abbiamo avuto modo di osservare finora, la normativa
legata alla pubblicizzazione del prodotto attraverso il
lungometraggio (cinematografico o televisivo che sia) appare
piuttosto evanescente e contraddittoria. Oltre ai motivi sopra
riportati, ne esiste sicuramente un altro di grande rilievo: in
Europa, in seguito al secondo conflitto mondiale, cominciano a
svilupparsi nei paesi industrializzati le premesse per la
riconsiderazione del problema della comunicazione
pubblicitaria ingannevole in una nuova prospettiva. Premesse
di cui se ne farà carico, a partire dai primi anni ’70 la CEE. Nel
1975, infatti verrà emesso il Programma preliminare della
CEE per una politica di tutela e informazione dei consumatori,
prevedendo, come precisa priorità, l’adozione di mezzi
appropriati per proteggere i consumatori dalla pubblicità falsa
ed ingannevole. E, sempre nello stesso anno, la Commissione
CEE presentava un primo draft di direttiva sulla pubblicità
ingannevole e sleale.
Vive obiezioni arriveranno dagli operatori della pubblicità –
utenti, mezzi ed agenzie – basate sulla considerazione
dell’inutilità di una regolamentazione da parte degli
ordinamenti statuali, vista l’esistenza dell’Autodisciplina
Pubblicitaria.
Dopo 4 anni di continue trasformazioni e revisioni, si giungerà,
nel 1978, alla Proposta di Direttiva, revisionata e sottoposta in
via definitiva nel 1979 al Consiglio delle Comunità, in una
versione che trovava sostanzialmente concordi tanto le
organizzazioni dei consumatori facenti capo al Bureau
Européen des Unions de Consommateurs (B.E.U.C.) quanto gli
operatori della pubblicità rappresentati dalla European
Advertising Tripartite che riunisce utenti, mezzi ed agenzie.
Sembra fatta, eppure trascorreranno ancora 5 anni tra dubbi,
discussioni, indugi e rinvii, finché, il 10 Settembre 1984
31
nascerà la Direttiva relativa al riavvicinamento delle
disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli
stati membri in materia di pubblicità ingannevole.
La Direttiva 84/450 è tanto semplice quanto generica in quanto
si limita ad indicare gli strumenti ai quali (alternativamente e a
loro scelta) gli stati membri possono ricorrere per lottare contro
la pubblicità ingannevole nell’interesse sia dei consumatori che
dei concorrenti e del pubblico in generale. Tale Direttiva lascia
comunque arbitri gli stati membri di decidere se l’organo
competente a conoscere delle azioni considerabili ingannevoli
debba essere di natura amministrativa o giudiziaria. Inoltre
viene espressamente fatta salva l’attività degli organismi
autodisciplinari.
Prendiamo adesso in considerazione la definizione di
pubblicità ingannevole riportata in questa Direttiva:
(…) qualsiasi pubblicità che in qualsiasi modo, compresa la
sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le
persone alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, dato il
suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il
comportamento economico di dette persone o che, per questo
motivo, leda o possa ledere un concorrente.
In effetti, l’ingannevolezza di cui parla questa norma sembra
non toccare in alcun modo l’applicazione della tecnica di
Product Placement. Il termine “inganno” viene qui considerato
nella sua connotazione più stretta, quella di “menzogna”, e non
nel senso più ampio di “assenza di trasparenza” (che riguarda,
appunto, il nostro ambito di ricerca). Lo stesso iter formativo
della Direttiva dimostra che essa ha subito, tra una revisione e
l’altra, un progressivo impoverimento delle disposizioni
comunitarie rispetto a quelle originariamente progettate. Infatti:
- nonostante si concentri inizialmente sia sulla pubblicità
ingannevole che su quella scorretta, la Direttiva
sceglierà di combattere esclusivamente la prima;
32
-
verrà eliminato qualsiasi riferimento precedentemente
inserito in materia di pubblicità comparativa;
- verrà eliminata la norma che dichiarava tout court
ingannevole la pubblicità priva di qualsiasi contenuto
informativo;
- verranno eliminati i riferimenti al danno che la
pubblicità ingannevole può determinare, e di cui le
precedenti versioni prevedevano si dovesse tener conto
nella determinazione delle sanzioni;
- scomparirà il riferimento alla necessità che gli
ordinamenti dei singoli stati prevedano “agevolazioni
efficaci e non dispendiose” a favore di chi voglia
promuovere l’azione;
e, fondamentale nella nostra ricerca,
- verrà eliminata la disposizione secondo cui,
indipendentemente dal suo contenuto, doveva ritenersi
ingannevole la pubblicità presentata in modo tale da
non essere riconoscibile come pubblicità.
E allora perché parlare della Direttiva 84/450 in una tesi del
genere?
Come ho già detto in precedenza, l’importanza di questa
Direttiva risiede nel fatto che la sua comparsa determinerà in
Italia la nascita del Decreto Legislativo 25 Gennaio 1992 n. 74,
attuazione della Direttiva n. 84/450/CEE in materia di
pubblicità ingannevole. In essa però vi sarà una differenza
sostanziale rispetto alla Direttiva Europea: il concetto di
ingannevolezza assumerà una connotazione più ampia che
porterà a considerare anche l’applicazione del Product
Placement come forma di pubblicità ingannevole7.
La scelta del sistema giuridico italiano di considerare
ingannevole anche la pubblicità “non riconoscibile come tale”,
anche se, a prima vista, possa apparire divergente rispetto alla
33
Direttiva Europea, in realtà, è in piena conformità con essa. A
confermare ciò ci pensa l’articolo 7:
La presente Direttiva non si oppone al mantenimento o
all’adozione da parte degli Stati membri di disposizioni che
abbiano lo scopo di garantire una più ampia tutela dei
consumatori, delle persone che esercitano un’attività
commerciale, industriale, artigianale o professionale, nonché
del pubblico in generale.
Ma esiste anche un altro contributo europeo alla nascita del
Decreto 74/92, forse meno incisivo, ma sicuramente degno di
citazione in questa tesi, dato il suo stretto legame con l’art. 4
del suddetto decreto, nonché col concetto di trasparenza: si
tratta della Direttiva del Consiglio del 3 Ottobre 1989 relativa
al coordinamento di determinate disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative degli stati membri concernenti
l’esercizio delle attività televisive (89/552/CEE).
L’articolo 1 c) della direttiva, anche se non parla di Product
Placement, ne presenta le caratteristiche catalogandola
all’interno della “famiglia” delle pubblicità clandestine.
per « pubblicità clandestina » si intende la presentazione orale
o visiva di beni, di servizi, del nome, del marchio o delle
attività di un produttore di beni o di un fornitore di servizi in
un programma, qualora tale presentazione sia fatta
intenzionalmente dall'emittente per perseguire scopi
pubblicitari e possa ingannare il pubblico circa la sua natura;
si considera intenzionale una presentazione quando è fatta
dietro compenso o altro pagamento.
Interessante per la nostra ricostruzione è anche l’articolo 10,
specie per i diversi punti in comune con l’articolo 4 del
Decreto 74/92:
34
1. La pubblicità televisiva deve essere chiaramente
riconoscibile come tale ed essere nettamente distinti dal resto
del programma con mezzi ottici e/o acustici.
2. Gli spot pubblicitari isolati devono costituire eccezione.
3. La pubblicità non deve utilizzare tecniche subliminali.
4. La pubblicità clandestina è vietata.
2. Dagli anni ’90 al 2004.
2.1. La repressione della pubblicità ingannevole in Italia.
L’ultimo decennio del nostro secolo si è caratterizzato sin
dall’inizio per un’intensa attività del legislatore italiano su
questo argomento. Il panorama legislativo sonnacchioso e
restio a tali innovazioni si è improvvisamente animato, materie
tradizionalmente non regolamentate si sono trovate
improvvisamente ad essere oggetto di minuziose e severe
normative, e la stessa Autodisciplina Pubblicitaria – per 25
anni assolutamente ignorata dall’ordinamento statuale – si è
vista inserita, come parte del sistema, nel meccanismo
predisposto della legge dello stato a tutela di concorrenti e
consumatori contro gli effetti pregiudizievoli della pubblicità
menzognera ed ingannevole.
Gli anni ’90 sono gli anni della “Legge Mammì”, della legge
sulle sponsorizzazioni radiotelevisive, di quella sulla pubblicità
audiovisiva di tabacco e alcolici, ma, soprattutto – nel nostro
caso – sono gli anni del Decreto Legislativo 25 Gennaio 1992
n. 74 sulla pubblicità ingannevole.
Come abbiamo avuto modo di vedere, gli aspetti più
“primitivi” della pubblicità ingannevole in Italia sono
riconducibili all’art. 2598 del Codice Civile e alla Direttiva
84/450/CEE.
Ma cosa succede, dal punto di vista normativo, in Italia tra la
Direttiva europea e il Decreto 74/92?
35
Sembra incredibile, ma, proprio in Italia, all’indomani
dell’approvazione della Direttiva, il nostro Ministro
dell’Industria, Commercio e Artigianato presenta al Senato
della Repubblica un Disegno di Decreto Legge che tale
direttiva recepiva (D.D.L. 22 Ottobre 1984 n. 995 – Disciplina
della pubblicità ingannevole e istituzione dell’osservatorio dei
prezzi). L’intenzione era indubbiamente ottima, ma non
altrettanto soddisfacente si rivelava il contenuto del
documento, profondamente criticabile a livello giuridico. Poco
dopo, una “proposta di legge sulla disciplina della pubblicità”
veniva presentata alla camera dall’opposizione. La proposta,
nota come Proposta Rodotà dal nome di uno dei presentatori,
pur riecheggiando nelle norme di contenuto sostanziale, sia la
direttiva sia soprattutto il disegno di legge governativo, se ne
differenziava per il particolare rilievo dato al problema della
trasparenza della pubblicità, con particolare attenzione
all’informazione giornalistica e televisiva e, nelle norme
processuali, per il ricorso esclusivamente al rito civile,
mediante un procedimento di tipo sommario, da applicarsi
anche nelle azioni di concorrenza sleale.
Tutte le proposte successive seguiranno questa falsariga: in
parte mutueranno dalla Direttiva europea e, in parte,
introdurranno disposizioni a rigore estranee alla materia
dell’inganno pubblicitario e non presenti nella direttiva:
- la liberalizzazione, entro certi limiti, della pubblicità
comparativa;
- il divieto dell’uso improprio del termine “garanzia”;
- la regolamentazione della pubblicità per prodotti
pericolosi;
- la tutela dei minori;
- la riconoscibilità della pubblicità come tale (principio
di trasparenza)8.
36
A partire dal 1989 l’aspetto civilistico delle norme sulla
pubblicità ingannevole lascia spazio a quello amministrativopenale: non verranno puniti gli artefici dell’advertising o
indennizzate le “vittime”, ma (sempre sul modello
dell’Autodisciplina Pubblicitaria) si farà cessare la pubblicità
ingannevole e eliminarne gli effetti, attraverso l’intervento di
un organo amministrativo. Questo organo verrà istituito poco
dopo con la Legge 10 Ottobre 1990 n. 287 (o “Legge
Antitrust”): si tratta dell’Autorità Garante della Concorrenza e
del Mercato.
Alla fine del 1990 il Parlamento, con la legge 29 Dicembre
1990 n. 428 (la “Legge Comunitaria per il 1990”), delega il
governo ad emanare entro un anno i decreti legislativi
occorrenti per l’adeguamento della legislazione italiana ad una
numerosa serie di direttive comunitarie, inclusa la Direttiva
84/450. Tra i diversi criteri di delega per il suo recepimento,
sono importanti nel nostro caso:
- la previsione della competenza di un’Autorità Garante
sia per la sospensione che per il divieto della pubblicità
ingannevole che per l’adozione dei provvedimenti
necessari per l’eliminazione degli effetti;
- la valorizzazione degli organismi volontari e autonomi
di autodisciplina e la loro funzione preventiva
prevedendo la sospensione della procedura avanti
l’autorità per un periodo non superiore a trenta giorni,
in caso di ricorso avanti l’organo di autodisciplina;
- il salvataggio della giurisdizione del giudice ordinario
in materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell’art.
2598 del Codice Civile9.
A seguito della legge delega, già all’inizio del 1991 il
Ministero dell’Industria editava una prima bozza di progetto di
legge delegata. La bozza subirà diverse revisioni e modifiche,
fino all’approvazione definitiva in data 25 Gennaio 1992.
37
2.2. Il Decreto 74/92, articolo 4: La trasparenza della
pubblicità.
Concentriamoci adesso sull’articolo 4 del decreto 74/92, quello
dedicato alla trasparenza della pubblicità. In particolare, il
nostro interesse si orienta sul I° e III° comma10:
Comma 1.
La pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale
(…)
Comma 3.
È vietata ogni forma di pubblicità subliminale.
Una prima osservazione può essere fatta a proposito
dell’intero articolo; le tre disposizioni in esso contenute,
quanto meno nella formulazione letterale, sembrano
sostanzialmente avulse dalla materia regolata dal Decreto
74/92. Il testo normativo palesa la finalità di disciplinare solo
ed esclusivamente la pubblicità ingannevole. Tanto è vero che
nel trattare i casi riguardanti l’advertising dei prodotti
pericolosi e la tutela di bambini e adolescenti, il legislatore si
è preoccupato di equipararle formalmente, ai fini della legge,
alla pubblicità ingannevole. Ciò permette all’Autorità Garante
di intervenire secondo quanto espresso nell’art. 7.2 dello
stesso decreto:
I concorrenti, i consumatori, le loro associazioni ed
organizzazioni, il Ministro dell’Industria, del Commercio e
dell’Artigianato, nonché ogni altra pubblica amministrazione
che ne abbia interesse in relazione ai propri compiti
istituzionali, anche su denuncia del pubblico, possono chiedere
all’Autorità Garante che siano inibiti gli atti di pubblicità
ingannevole o la loro continuazione e che ne siano eliminati
gli effetti.
Per le tre forme di illecito pubblicitario prese in
considerazione all’art. 4 il decreto non formula invece alcuna
38
equiparazione con la pubblicità ingannevole. Sorge quindi
spontaneo chiedersi:
Ma l’Autorità Garante può intervenire ai sensi dell’art. 4?
Questa lacuna normativa viene in qualche modo colmata
dall’interpretazione ampia che si dà al termine “ingannevole”:
tutte le fattispecie nella norma hanno in comune il non riferirsi
necessariamente a forme pubblicitarie che tendono ad attirare
il consumatore prospettandogli caratteristiche o pregi diversi
da quelli realmente posseduti dal prodotto pubblicizzato, ma
piuttosto a forme di promozione attuate in modo clandestino.
Ne consegue che un messaggio può essere di contenuto
veritiero, e tuttavia contrastante con il decreto, in quanto
l’idoneità ad indurre in errore il consumatore deriva dalla sua
non riconoscibilità.
Quindi, al di fuori di questa piccola imprecisione normativa, è
lecito pensare che l’Autorità Garante possa intervenire anche
ai sensi dell’art. 4.
Analizziamo adesso, brevemente, ciascun comma.
Il I° comma – la riconoscibilità della pubblicità – non deriva,
come abbiamo avuto modo di vedere, dalla Direttiva 84/450,
ma ritrova le sue origini:
- nell’articolo 7 del Codice di Autodisciplina
Pubblicitaria;
- nell’articolo 10.1 della Direttiva 89/552/CEE;
- nell’articolo 8.2 della Legge 6 Agosto 1990 n. 223,
Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e
privato – o Legge Mammì11.
La pubblicità che non si presenta o non è riconoscibile come
tale è quindi maggiormente insidiosa, sia perché aggira molte
delle naturali difese che il destinatario è invece pronto a porre
in essere quando sia fatto oggetto di una pressione
pubblicitaria scoperta, sia perché è più autorevole e
39
attendibile, sia infine perché fa almeno in parte venir meno
quelle condizioni ambientali che obiettivamente indeboliscono
l’efficacia del messaggio.
L’articolo 4.1 è un importante esempio di sostanziale
coincidenza di principi, precetti e intenti fra la nuova
normativa statuale e il Codice di Autodisciplina pubblicitaria.
Anche per il III° comma – la pubblicità subliminale – le origini
sono, più o meno le stesse:
- l’articolo 10.3 della Direttiva 89/552/CEE;
- l’articolo 15.9 della Legge 6 Agosto 1990 n. 223.
Anche in questo caso, la Direttiva 84/450 non ne fa menzione,
ma il legislatore italiano ha ritenuto idoneo inserirla come
forma di “pubblicità non trasparente”.
La pubblicità subliminale è un tipo di comunicazione che
dovrebbe stimolare un messaggio all’insaputa del soggetto,
inducendolo quindi a compiere l’atto economico per riflesso
condizionato12.
2.3. L’art. 4 e il Product Placement.
In base a quanto riportato nel paragrafo precedente, appare
chiaro che l’uso di una tecnica come quella del Product
Placement diventi, a partire dal 1992, punibile ai sensi dell’art.
4.1. del decreto 74/92, in quanto considerabile come una forma
di “pubblicità non trasparente”, “non riconoscibile come tale”.
La pubblicità scaturente da accordi di Product Placement pone,
però, delle difficoltà non indifferenti, appartenenti a versanti
diversi. Innanzitutto il suo trattamento attraverso gli strumenti
forniti dal decreto sulla pubblicità ingannevole può avvenire
solo mediante uno sforzo di adattamento. Problematica si
presenta, inoltre, l’individuazione stessa della pubblicità
indiretta. La produzione di un film che ambienta la propria
storia in città, non può esimersi dalle inquadrature di cartelloni
pubblicitari, negozi di alta moda, manifesti, autobus, e con essi,
40
tante altre forme di pubblicità, difficili, nell’immediato, da
definire “volute” o “involontarie”.
Le difficoltà che vengono incontrate dall’ordinamento statuale
(l’Autorità Garante) e da quello autodisciplinare (il Giurì)
possono, tuttavia, ridursi tramite l’individuazione dei soggetti
cui debba essere attribuita la qualifica di operatore
pubblicitario13. Si rende quindi necessaria una verifica delle
figure di committente e autore del messaggio pubblicitario.
Nei casi di Product Placement cinematografico il committente
del messaggio è certamente l’impresa i cui prodotti sono stati
fatti oggetto della pubblicità, in maniera occulta. Più complessa
la definizione dell’autore. Immaginando l’attuazione del
Product Placement vedremo in esso coinvolti, a vario titolo,
una serie eterogenea di soggetti. Innanzitutto, coloro che
contribuiscono, da un punto di vista creativo, alla realizzazione
dell’opera all’interno della quale il messaggio pubblicitario è
stato occultato. Nel campo cinematografico parliamo, quindi,
del regista, dello scenografo, dello sceneggiatore e anche degli
stessi attori. Bisogna però considerare che, se procedere contro
queste figure ai sensi dell’art. 4 del Decreto 74/92 appare
pressoché corretto dal punto di vista della legittimazione
passiva (in quanto contribuiscono alla creazione dell’opera in
maniera diretta, e con essa, all’inserimento della pubblicità),
non lo è altrettanto sul piano pratico, e, inoltre, difficilmente
giustificabile sotto il profilo sistematico: vediamo il perché.
Il principale elemento che porta tendenzialmente a escludere, di
fatto, la partecipazione dell’agenzia di pubblicità – in qualità di
autore – nel procedimento avviato ai sensi dell’art. 3 del
Decreto 74/92 è la presunta mancanza, in capo a tale soggetto,
da un lato della disponibilità giuridica del messaggio
pubblicitario, dall’altro dell’interesse alla diffusione dello
stesso.
41
Analoghe considerazioni possono valere per i soggetti che
hanno contribuito alla creazione materiale dell’opera
cinematografica ospite della pubblicità clandestina. In relazione
al Product Placement cinematografico, da una parte, si amplia
la nozione di committente e, dall’altra parte, si esclude il
coinvolgimento di soggetti pur astrattamente definibili quali
autori del messaggio pubblicitario. Riteniamo, quindi, che si
possa condurre all’attribuzione della qualifica di operatore
pubblicitario e di “autore” del messaggio, a un soggetto diverso
e non necessariamente coincidente con quelli prima elencati, e
cioè al produttore dell’opera cinematografica.
Perché l’individuazione del produttore come operatore
pubblicitario dovrebbe agevolare l’azione dell’Autorità Garante
e/o del Giurì?
Semplicemente perché permette loro di agire secondo un
criterio di valutazione quasi assoluto, il quale permette di
verificare la volontarietà o meno dell’immagine (o delle
immagini) indagate: l’individuazione di un rapporto di
collaborazione tra impresa e responsabili della produzione
dell’opera (cinematografica o televisiva che sia).
Prendiamo in considerazione un esempio di intervento sia
dell’Autorità Garante che del Giurì della pubblicità: si tratta
dell’interessante vicenda del serial televisivo Un Commissario
a Roma, co-prodotto dalla RAI e dall’Editoriale “La
Repubblica”. Nel serial il protagonista, ma anche alcuni
personaggi marginali, esibivano in diverse occasioni copie del
quotidiano “La Repubblica”, con la testata in bella evidenza. In
alcune scene girate in interni, poi, si intravedeva attraverso una
finestra una scritta luminosa recante il titolo del medesimo
quotidiano.
L’impostazione adottata dall’ordinamento statuale e da quello
autodisciplinare è stato lo stesso; quanto alla decisione,
42
l’Autorità si è espressa in senso più rigoroso. Entrambi
d’accordo sul fatto che non fosse nel loro potere reprimere
forme di comunicazione funzionali al regolare svolgimento
narrativo dell’opera, hanno di conseguenza provato a
individuare in che misura le scene incriminate potessero essere
considerate a tale stregua. Il Giurì ha così ritenuto che l’unico
elemento da considerarsi privo di qualunque giustificazione
nell’ambito della narrazione fosse l’esibizione della scritta
luminosa. L’Autorità ha invece considerato come aventi natura
prettamente promozionale anche le numerose altre esibizioni
del giornale. Ha ritenuto, tra l’altro, che indizio dell’esistenza
di un rapporto di Product Placement fosse da riscontrarsi
proprio nella presenza dell’editore tra i produttori della serie.
2.4. Il post-Decreto 74/92.
Da questo momento, a livello giudiziario, e di riflesso, a livello
autodisciplinare, si assisterà ad un’ampia attività degli
organismi di controllo sul tema della pubblicità ingannevole e,
nello specifico, sul tema della trasparenza14.
Ma, a parte l’azione dell’Autorità Garante e del Giurì, cosa
succede in Italia su questo tema, a livello normativo, tra il
Decreto 74/92 e il “Decreto Urbani”?
Innanzitutto, si assiste alla definitiva concretizzazione del ruolo
dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato con il
D.P.R. 10 Ottobre 1996, n. 627 – Regolamento recante norme
sulle procedure istruttorie dell’Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato in materia di pubblicità
ingannevole.
Da una ricostruzione parallela si può notare come le modalità
d’azione dell’Autorità Garante e quelle del Giurì siano molto
simili15. Vediamo la tabella16:
43
Giurì
Richiesta di
intervento
Procedimento
Autorità Garante
Chiunque ritenga di
subire pregiudizio da
attività pubblicitarie
contrarie al Codice di
Autodisciplina può
richiedere l’intervento del
Giurì nei confronti di chi
(…) abbia commesso le
attività ritenuto
pregiudizievoli. La parte
interessata deve
presentare un’istanza
scritta indicando la
pubblicità che intende
sottoporre all’esame del
Giurì, esponendo le
proprie ragioni, allegando
la relativa
documentazione e i
previsti diritti di istanza
(Titolo IV, art. 36).
I concorrenti, i
consumatori, le loro
associazioni e
organizzazioni, il Ministro
dell’Industria, del
Commercio e
dell’Artigianato, nonché
ogni altra pubblica
amministrazione che ne
abbia interesse in
relazione ai propri compiti
istituzionali, che intendano
richiedere l’intervento
dell’Autorità al fine di
ottenere l’inibizione degli
atti di pubblicità
ingannevoli o della loro
continuazione o
l’eliminazione degli effetti
ne fanno richiesta per
iscritto all’Autorità. (Art.
2.1.).
Ricevuta l’istanza, la
Il responsabile del
presidenza del Giurì
procedimento, verificate la
nomina fra i membri del
regolarità e la completezza
Giurì un relatore, dispone della richiesta, comunica
la comunicazione degli
l’avvio del procedimento,
atti delle parti interessate ai sensi dell’art. 7 comma
assegnando loro un
3, del decreto, al
termine, non inferiore agli committente del messaggio
otto e non superiore ai
pubblicitario e, se
dodici giorni lavorativi,
conosciuto, al suo autore,
per il deposito delle
nonché al richiedente.
rispettive deduzioni e di
Quando il committente non
eventuali documenti e le
è conosciuto, il
convoca avanti al Giurì
responsabile del
entro il termine più breve procedimento fissa un
possibile per la
termine al proprietario del
discussione orale che
mezzo perché fornisca ogni
44
dovrà vertere soprattutto
sugli aspetti della
controversia che non sia
stato possibile trattare per
iscritto (Art. 37).
Procedimento
Decisione
Il Giurì, al termine della
discussione, emette la sua
decisione il cui dispositivo
viene
immediatamente
comunicato alle parti.
Quando la decisione
stabilisce
che
la
pubblicità esaminata non
è conforme alle norme del
Codice di Autodisciplina
Pubblicitaria, il Giurì
dispone che le parti
interessate desistano dalla
stessa, nei termini indicati
dall’apposito
Regolamento
autodisciplinare (Art. 38)
informazione idonea a
identificarlo (Art. 5.1.).
Il responsabile del
procedimento, ove ciò sia
necessario ai fini della
raccolta o della
valutazione degli elementi
istruttori, o venga richiesto
da almeno una delle parti,
può disporre che le parti
siano sentite in apposite
audizioni nel rispetto del
principio del
contraddittorio, fissando
un termine inderogabile
per il loro svolgimento
(Art. 8.1.).
Il responsabile del
procedimento comunica
alle parti il provvedimento
finale dell’Autorità, che è
altresì pubblicato, entro 20
giorni dalla sua adozione,
nel bollettino di cui all’art.
26 della l. 10 Ottobre
1990, n. 287 (Art. 16.1.).
Il provvedimento finale
dell’Autorità deve altresì
contenere l’indicazione del
termine e l’autorità cui è
possibile ricorrere (Art.
16.2.).
Ricordiamo, comunque, che si tratta pur sempre di due sistemi
differenti, e che esistono delle differenze sostanziali fra i due:
45
Giurì
Effetto
vincolante
I mezzi pubblici
che direttamente
o tramite le
proprie
associazioni
hanno accettato il
Codice di
Autodisciplina
Pubblicitaria,
ancorché non
siano stati parte
nel procedimento
avanti al Giurì,
sono tenuti ad
osservarne le
decisioni (Art. 41)
Le decisioni
del Giurì non
Collaborazione sono mai
con organismi condizionate o
prese in
“esterni”.
collaborazione
con altri
organismi
“esterni”.
Autorità Garante
La D.P.R. 10 Ottobre 1996, n.
627 non riporta alcun
riferimento legato ad un
effetto vincolante della
decisione finale dell’Autorità
Garante.
Il responsabile del procedimento,
nei casi in cui all’art. 7, comma 5,
del decreto, prima
dell’adempimento di cui al comma
1, richiede il parere al Garante17, al
quale trasmette gli atti del
procedimento. Il Garante comunica
il proprio parere entro 30 giorni
dal ricevimento della richiesta (Art.
13.2.).
Inoltre, l’art. 14.1. della D.P.R. 10 Ottobre 1996, n. 627
sottolinea la possibilità di poter richiedere la sospensione
dell’azione dell’Autorità Garante solo qualora esistesse già un
procedimento di fronte all’organismo di autodisciplina:
I soggetti che, ai sensi dell’art. 8 comma 3 del decreto,
richiedono la sospensione del procedimento dinanzi
all’Autorità, devono inoltrare apposita istanza, fornendo prova
dell’esistenza del procedimento dinanzi all’organismo di
46
autodisciplina, con le indicazioni idonee a individuare tale
organismo e l’oggetto del procedimento stesso.
Il tema della riconoscibilità della pubblicità viene ripreso inoltre
dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni che il 26
Luglio 2001 delibera il Regolamento in materia di pubblicità
radiotelevisiva e televendite (Deliberazione n. 538/01/CSP). Il
regolamento è diviso in 2 sezioni: la prima presenta le
disposizioni generali, e la seconda si concentra sui messaggi
pubblicitari e le televendite all’interno dei programmi.
Ai fini della nostra tesi, è importante:
l’art. 1 – Definizioni – punto g):
Ai fini del presente regolamento si intende:
(…)
g) per pubblicità clandestina: la presentazione orale o visiva di
beni, di servizi, del nome, del marchio o delle attività di un
produttore di beni o di un fornitore di servizi in un
programma,
qualora
tale
presentazione
sia
fatta
intenzionalmente dall’emittente per perseguire fini pubblicitari
e possa ingannare il pubblico circa la sua natura; si considera
intenzionale una presentazione quando è fatta dietro
pagamento o altro compenso.
l’art. 3 – Riconoscibilità del messaggio pubblicitario rispetto al
testo del programma – comma 1:
La pubblicità e le televendite devono essere chiaramente
riconoscibili come tali e distinguersi nettamente dal resto della
programmazione attraverso l’uso di mezzi di evidente
percezione, ottici nei programmi televisivi, o acustici nei
programmi radiofonici, inseriti all’inizio e alla fine della
pubblicità o della televendita.
47
l’art. 3, comma 7:
È vietata la pubblicità clandestina e che comunque utilizzi
tecniche subliminali18.
2.5. L’Autorità Garante e il Giurì in azione…
2.5.1. L’Autorità Garante.
Quali sono i fattori tenuti in considerazione dall’Autorità
Garante quando questa interviene ai sensi dell’art. 4.1. del
decreto 74/92?
Questi fattori potrebbe essere in qualche modo ricavati dal
D.P.R. 10 Ottobre 1996, n. 627 – Regolamento recante norme
sulle procedure istruttorie dell’Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato in materia di pubblicità
ingannevole.
Tuttavia ritengo che sia molto più interessante soffermarsi su
un caso pratico e dedurre da esso il comportamento
dell’Autorità Garante in azione19. Consultando il sito
www.agcm.it ho avuto modo di trovare diversi provvedimenti
ai sensi dell’art. 4.1. Ho deciso di concentrarmi, in particolare,
sul provvedimento 5945 (30/04/1998), relativo al film Fuochi
d’Artificio, di e con Leonardo Pieraccioni. Ecco l’incipit del
provvedimento:
Un consumatore ha denunciato come pubblicità non trasparente l'immagine
della autovettura marca Mercedes, modello “classe A”, apparsa nel film
Fuochi d'Artificio, di e con Leonardo Pieraccioni. Nella scena in questione,
in un primo tempo viene inquadrata la protagonista mentre esce e si
allontana da un'autovettura per poi dirigersi verso l'attore. Nella stessa
inquadratura è possibile scorgere, in margine allo schermo, il marchio
Mercedes-Benz. Successivamente, nella stessa scena, si può cogliere, alle
spalle del primo piano dell'attrice, l'immagine sfocata dell'autovettura.
48
Dopo aver ascoltato le parti in causa, l’Autorità Garante si è
espressa in questi termini:
Alla luce dei fatti e delle verifiche svolte, il Garante ha considerato che,
sebbene la circostanza che sia stata utilizzata un'autovettura non ancora
commercializzata al momento in cui veniva girato il film deponesse a
favore dell'intenzionalità pubblicitaria, alcuni elementi importanti non
potevano essere trascurati:
- l'auto è stata inquadrata nel corso di un'unica scena;
- il marchio commerciale non è stato messo in particolare evidenza;
- l'inquadratura non risulta ravvicinata, prolungata, priva di
naturalità e artificiosa, ovvero avulsa dal contesto narrativo.
In conclusione, il Garante, in questo caso, non ha ritenuto il fatto punibile ai
sensi dell’4.1. del Decreto 74/92.
Da questo provvedimento possiamo dedurre che:
 Il Garante tiene in seria considerazione il rapporto
esistente tra l’uscita del film nelle sale e il lancio del
prodotto – pubblicizzato nel film – nel mercato.
 Tiene in considerazione il tempo di esposizione del
pubblico al prodotto.
 Tiene in considerazione la centralità del prodotto nella
scena e, in generale, in tutto il film.
 Tiene inoltre in considerazione il rapporto esistente tra
l’attore e il brand in questione, sia all’interno del
lungometraggio (il ruolo positivo o negativo dell’attore
nel film) che al suo esterno (l’essere o meno testimonial
di quel brand).
E’ possibile, inoltre, individuare altri fattori tenuti in serie
considerazione dall’Autorità Garante20:
 L’Autorità Garante tiene in considerazione anche la
pubblicizzazione del prodotto che si verifica all’esterno
del contesto cinematografico, al fine di rintracciarne
eventuali legami;
49





Tiene in considerazione il rapporto esistente tra il
produttore del film e quello del prodotto;
Tiene in considerazione la possibile esistenza di un
legame inscindibile tra un prodotto e un personaggio (il
legame tra James Bond e l’Aston Martin o la BMW
esiste a prescindere dai possibili accordi esistenti fra le
parti);
Tiene in considerazione l’effettiva esposizione dello
spettatore verso il prodotto “indagato”;
Tiene in considerazione la “funzione narrativa” che un
prodotto può avere nel film.
Tiene in considerazione anche del parere di altri
organismi di controllo (ad esempio il Garante per la
Radiodiffusione e l’Editoria).
2.5.2. Il Giurì.
Sin dall’inizio (e fino al 200221) il Giurì intervenne nei casi
“considerabili” di Product Placement solo due volte nella sua
storia. La possibilità di intervenire da parte del Giurì ai sensi
dell’art. 7 CAP nei casi di Product Placement e la scarsa mole
di
interventi
effettuati
sono
entrambi
desumibili
dall’introduzione di una di queste pronunce, la 62/1993/I (il
caso del serial Un Commissario a Roma, di cui abbiamo
parlato nel par. 3.3.):
L’art. 7 CAP si riferisce sia alla pubblicità redazionale che al product
placement, che consiste nella promozione di un prodotto o di un servizio,
mediante uno spettacolo cinematografico o televisivo, in cui il prodotto o il
servizio appaiono come naturalmente presenti nella vicenda narrativa e
come prescelti dal protagonista in funzione della loro superiorità, sulla base
di un accordo che coinvolge tutti i soggetti che concorrono a diverso titolo
nella realizzazione dell’opera cinematografica o televisiva.
Gli autori e gli attori di un’opera cinematografica concretante un’ipotesi di
product placement non assumono alcun obbligo autodisciplinare, ma al
contempo non hanno alcun diritto di opporsi all’attuazione del regolamento
50
autodisciplinare, che può avere conseguenze solo indirette sull’integrità
dell’opera cinematografica e sulla sua diffusione, e precisamente
conseguenze nel rapporto interno fra produttore vincolato all’Autodisciplina
e autori e attori che non lo siano: onde la partecipazione di questi ultimi al
giudizio autodisciplinare non è necessaria.
L’inserzionista e il produttore di un film realizzante un product placement
debbono entrambi interloquire di fronte alla contestazione della violazione
dell’art. 7 CAP, anche se uno solo di essi sia in ipotesi negozialmente
vincolato a rispettare questa regola: onde iniziato il giudizio
autodisciplinare contro i soli coproduttori dell’opera cinematografica
vincolati al Codice di Autodisciplina, deve essere disposta l’integrazione del
contraddittorio anche nei confronti del coproduttore a essa non legato per
consentirgli comunque di esprimere la propria opinione.
Definire il concetto di Product Placement e sottolineare quali
soggetti devono rispondere alle decisioni del Giurì dimostra
come, prima del 1993, l’art. 7 CAP non fosse mai stato
applicato al di fuori della pubblicità redazionale.
Tralasciando la pronuncia 62/1993/I, poiché già affrontata in
precedenza, passiamo all’altro caso di intervento del Giurì.
Si tratta della pronuncia 2/1997, un caso in cui il Comitato di
Controllo chiese l’intervento del Giurì nei confronti di Ford
Italia e Publitalia ’80 per un potenziale Product Placement
televisivo avvenuto durante il programma “Non dimenticare lo
spazzolino da denti”, condotto da Ambra Angiolini. Il prodotto
in questione era una Ford “Ka”. Il provvedimento inizia subito
con una nota abbastanza determinante:
Non si è in presenza di una comunicazione pubblicitaria o di una forma di
product placement qualora un’autovettura, acquistata presso un
concessionario all’insaputa della casa produttrice e senza altra
collaborazione da parte di quest’ultima, venga presentata, priva di marchi di
fabbrica, come premio nel corso di una trasmissione televisiva; né
espressioni elogiative della vettura presentata come premio e la
riconoscibilità del modello costituiscono elementi presuntivi, idonei a
supplire alla mancanza della prova storica del rapporto di committenza.
51
Questo caso dimostra che l’affermazione dell’assenza di un
contratto tra la Ford Italia e la Mediaset, unita alla serie di
accorgimenti esercitati sul prodotto al fine di eliminare
qualsiasi presunzione di natura pubblicitaria, sono stati fattori
sufficienti, agli occhi del Giurì, per ritenere il caso non
imputabile ai sensi dell’art. 7 CAP.
Chiediamoci nuovamente, perché così pochi interventi in casi
di Product Placement da parte del Giurì?
In realtà la risposta è estremamente semplice: il Product
Placement non è pubblicità, e tanto meno pubblicità occulta:
essa possiede dignità e caratteristiche proprie al pari della
publicity e dell’advertising.
Non la pensa diversamente Gerardo Corti, Presidente della
JMN & DY, e tra i principali fautori del Product Placement in
Italia22:
Secondo te perché ho scritto un libro intitolato Occulta sarà tua sorella?
Non è un caso. Perché tutti parlano di pubblicità occulta, compreso il
legislatore, senza sapere di cosa stanno parlando. Quando è arrivato il
Product Placement hanno detto a tutti “bisognerà farlo convergere nelle
norme di Autodisciplina Pubblicitaria”... ma come nelle norme di
Autodisciplina Pubblicitaria? Non si tratta di pubblicità! E’ come giocare a
baseball con le regole del calcio!23
3. Dal “Decreto Urbani” ad oggi.
3.1. La fattibilità del Product Placement.
Come abbiamo avuto modo di verificare nei paragrafi
precedenti, il Product Placement nel contesto italiano ha
attraversato un decennio di monitoraggio da parte del Giurì e
dell’Autorità Garante. Ciò che risulta essere giuridicamente
rilevante è che nei casi di Product Placement lo spettatore non
sa di poter valutare il prodotto in base all’offerta. Questo ci
52
porta, innanzitutto a fare una distinzione di base: quella tra
Product Placement e Sponsorizzazione.
In passato queste due forme di pubblicizazzione venivano
spesso confuse e addirittura ritenute coincidenti. E in effetti,
esistono degli elementi assimilabili:
- come avviene nella sponsorizzazione, il Product
Placement contempla un accordo tra l’impresa cui è
ascrivibile il prodotto e il produttore del film o del
programma televisivo;
- come nella sponsorizzazione, oggetto dell’operazione è
altresì l’affidamento della promozione di un prodotto ad
un testimonial, cioè ad un personaggio, estraneo al
mondo pubblicitario, ma noto e gradito alla
maggioranza del pubblico;
Ma i fattori determinanti sono quelli che distinguono le due
tecniche pubblicitarie:
- mentre la sponsorizzazione “colpisce” l’intera
programmazione, il Product Placement può concentrarsi
solo su una singola scena;
- inoltre il Product Placement si distingue dalla
sponsorizzazione sul piano del risultato finale, perché la
sua efficacia poggia proprio sulla mancata
esplicitazione dell’accordo tra il committente e i
responsabili del programma finanziato24.
Il confronto tra sponsorizzazione e Product Placement ha senso
solo se si considerano entrambi quali forme di finanziamento di
iniziative pubblicitarie. Non bisogna invece confondere
sponsorizzazione e pubblicità indiretta, perché le due nozioni
operano su piani diversi.
Al di fuori di queste osservazioni di natura tecnica, la
confusione che si poteva creare tra il concetto di
sponsorizzazione e quello di Product Placement è stato
53
sicuramente connesso al fatto che, dal punto di vista normativo,
non esisteva niente che parlasse di questa forma di pubblicità
indiretta in maniera esplicita25. Al contrario, le
regolamentazioni in materia di sponsorizzazioni trovavano un
riflesso normativo nella l. 223/90, art. 8, comma 13°, 14°, 15° Legge Mammì (modificata poi dalla legge 17 Dicembre 1992,
n. 483).
Oggi, però, le cose sono cambiate. Il sistema normativo
nazionale si è mosso anche su questo frangente, e i risultati
arrivano a partire dal 2004. La spinta propulsiva in direzione
del Product Placement passa attraverso una riqualificazione del
“tipo” di consumatore preso a modello dalla legislazione, ma
anche dalla giurisprudenza in materia. È un dato di fatto che la
credulità del pubblico nei confronti della pubblicità non è più la
stessa che poteva presumersi esistente fino a non molti anni fa:
il consumatore è più smaliziato e la maggioranza delle persone
ha sentito parlare e sa valutare quei casi di “piazzamento di
prodotti” in cui si imbatte.
Furono queste considerazioni che portarono nel 2004 Giuliano
Urbani, allora Ministro per i Beni e le Attività Culturali, ha
condurre a termine un progetto di riforma della legislazione in
materia di cinema, concretizzandolo in un decreto legislativo: il
Decreto 22 Gennaio 2004, n. 28 – Decreto Urbani.
All’art. 9.3. si legge:
Fatte salve le disposizioni contenute nella legge 10 Aprile
1962, n. 165, per i film che contengono inquadrature di marchi
e prodotti comunque coerenti con il contesto narrativo, è
previsto un idoneo avviso che renda nota la partecipazione
delle ditte produttrici di detti marchi e prodotti ai costi di
produzione del film. Con decreto ministeriale, sentito il
Ministero per le Attività produttive, sono stabilite le relative
modalità tecniche di attuazione.
54
Si può senz’altro dire che un passo in avanti è stato fatto per
risolvere quelli che abbiamo chiarito essere i “limiti normativi”
incontrati in materia, ma è altrettanto certo che molto resta
ancora da fare. Si pensi per esempio alla coerenza del
posizionamento nel contesto narrativo, o si pensi al problema
dell’idoneo avviso26.
Resta comunque da sottolineare un elemento fondamentale: da
questo momento in poi il posizionamento del marchio nello
spettacolo filmico, avvenuto come conseguenza di accordi tra
impresa commerciale e casa di produzione, non verrà più
considerato una forma di “pubblicità ingannevole”, “non
trasparente”.
3.2. Le conseguenze dell’art. 9.3.
Riportiamo per intero la conseguenza più importante avvenuta
dalla promulgazione dell’art. 9.3. del Decreto 22 Gennaio 2004,
n. 28: il Decreto attuativo 30 Luglio 2004.
Modalità tecniche di attuazione del collocamento pianificato
di marchi e prodotti nelle scene di un’opera cinematografica
“product placement”.
IL MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITA’ CULTURALI
Visto il decreto legislativo 22 Gennaio 2004, n. 28, di riforma
della disciplina in materia di attività cinematografiche;
visto l’art. 9, comma 3, del citato decreto legislativo, che
prevede che, con decreto ministeriale, siano dettate, per i film
che contengono inquadrature di marchi e prodotti, le modalità
tecniche di attuazione del relativo avviso;
visto l’art. 27, comma 8, del citato decreto legislativo, come
modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 22 Marzo
2004, n. 72, convertito, con modificazioni, dalla legge 21
Maggio 2004, n.128;
sentito il Ministero delle attività produttive;
Adotta
55
il seguente decreto:
Art. 1
Ammissibilità del collocamento pianificato
di marchi e prodotti
1. Ai sensi dell’art. 9 del decreto legislativo 22 Gennaio 2004,
n. 28, è ammesso il collocamento pianificato di marchi e
prodotti nelle scene di un’opera cinematografica “product
placement” con le modalità tecniche previste dal presente
decreto.
2. Le forme di collocamento pianificato di cui al comma 1
sono rimesse alla contrattazione tra le parti, nel rispetto dei
limiti di cui all’art. 2.
Art. 2
Requisiti e limiti di applicazione
1. La presenza di marchi e prodotti è palese, veritiera e
corretta , secondo i criteri individuati nell’articoli 3, 3 bis e 6
del decreto legislativo 25 Gennaio 1992, n. 74. Essa deve
integrarsi nello sviluppo dell’azione , senza costituire
interruzione del contesto narrativo.
2. Ai fini della riconoscibilità delle forme di collocamento
pianificato di cui all’art. 1, l’opera cinematografica deve
contenere un avviso nei titoli di coda che informi il pubblico
della presenza dei marchi e prodotti all’interno del film, con la
specifica indicazione delle ditte inserzioniste.
3. Alle forme di collocamento di marchi e prodotti di cui
all’art. 1 si applicano i divieti e le limitazioni di cui alla legge
10 Aprile 1962, n. 165, all’art. 8, comma 5, della legge 6
Agosto 1990, n. 223, e all’art. 2 del decreto ministeriale 30
Novembre 1991, n. 425. Si applicano, altresì, le disposizioni
in materia di tutela amministrativa e giurisdizionale di cui
all’art. 7 del decreto legislativo 25 Gennaio 1992, n. 74.
Il presente decreto sarà sottoposto ai competenti organi di controllo e sarà
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.
Roma, 30 Luglio 2004
Il Ministro: Urbani
56
4. Alcune riflessioni.
Per concludere questo capitolo ritengo sia importante riportare
una serie di considerazioni sull’evoluzione normativa del
Product Placement in Italia. Quello che è direttamente
osservabile è che, dalle origini al 2004, il comportamento del
legislatore è sempre stato eccessivamente cauto, quasi
timoroso; un timore che risale alla paura del sistema normativo
italiano a rendere legale ciò che non si conosce a tutti gli
effetti. E, più in generale, una considerazione sempre e
comunque negativa della pubblicità, che fino a qualche tempo
fa, negava la nazionalità italiana, e, quindi, una considerazione
altrettanto negativa di quelli che possiamo definire “i suoi
derivati”.
Il percorso da me ricostruito dimostra infatti come esista in
Italia una tendenza a “vietare ciò che non si conosce” piuttosto
che “conoscerlo e agire di conseguenza”. Si pensi, per esempio
al Decreto 74/92 sulla pubblicità ingannevole; non solo nasce
nel giro di poco tempo a partire dalla Direttiva 84/450 –
assimilandone la maggior parte dei divieti – ma vi include
anche il principio di trasparenza con l’art. 4, nonostante la
direttiva non ne facesse alcun riferimento. A rendere illecito il
Product Placement è bastato quindi un decreto... a renderlo
lecito, invece, uno non è ancora sufficiente. Infatti, se con l’art.
9.3. del Decreto 28/2004 viene raggiunto il primo traguardo
della legalizzazione del posizionamento cinematografico del
brand, tale traguardo riguarda, appunto, il solo sistema
cinematografico, e non quello televisivo, dove il
posizionamento del brand è ancora vietato. Si tratta di un vero
e proprio paradosso: non tanto per il fatto che l’art. 9.3. non
abbia incluso il sistema televisivo27, quanto piuttosto perché è
proprio la programmazione televisiva, fatta di fiction e di
reality show, il vero punto di forza dell’intrattenimento
57
audiovisivo italiano. Le aziende stesse, quindi, orientate ad un
investimento sicuro, dimostrerebbero maggior fiducia nel
Product Placement televisivo piuttosto che nell’attuale Product
Placement cinematografico28.
Quanto detto sinora non si distacca affatto dal pensiero di
Michele Lo Foco, presidente di Cinecittà Diritti, che ho avuto
modo di intervistare recentemente29. Ecco come l’avvocato Lo
Foco si esprime sulla “non liberalizzazione” del Product
Placement televisivo:
L’aver ufficializzato il Product Placement cinematografico e il non essersi
interessati ancora delle altre forme di Product Placement (televisivo su tutti)
rappresenta una delle infinite contraddizioni della società italiana. Il
Decreto, come sappiamo, riguarda la cinematografia, e non poteva essere
diversamente, dato che il Ministero fautore del decreto era il Ministero dei
Beni e delle Attività Culturali; la televisione invece è sotto un altro
ministero. Dove nasce la contraddizione assurda? La televisione,
trasmettendo film (che abbiano o meno la nazionalità italiana) ed essendo
ormai questa forma di pubblicità “lecita”, non può discriminare il contenuto
di un film. Ma nel momento in cui questo meccanismo viene applicato
anche nelle produzioni televisive, improvvisamente viene fuori il discorso
puramente televisivo. La Rai sancisce che nelle programmazioni che la
riguardano non può essere utilizzata la leva pubblicitaria poiché essa la
riserva solo a se stessa, con inserimenti e trattative fatte da lei stessa. Ciò
ovviamente non vale per le produzioni straniere. Ed ecco appunto questa
assurda contraddizione. Che poi è quello che succedeva prima con i film del
grande schermo passati poi in televisione. Perché mentre la televisione
italiana poteva trasmettere e ha trasmesso tranquillamente “Il Maggiolino
tutto matto” – pubblicizzando la Wolkswagen – la legge italiana non
consentiva di fare altrettanto con le produzioni italiane.
Quando capita di assistere a casi di posizionamento riferito a serie televisive
italiane, salvo che si tratti di una casualità, le trattative pubblicitarie
dovrebbero essere state condotte da Sipra; non si parla comunque di Product
Placement bensì di “comodato d’uso”.
Certo, il mio obiettivo in questo momento non è quello di
trovare il nuovo anello debole di un sistema che ha cominciato
a muoversi nella giusta direzione. Ma se abbiamo scelto di
58
salire sul ring è combattere sullo stesso terreno di professionisti
– come il sistema americano – allora non è sufficiente saper
tirare pugni, bisogna imparare a boxare. Perché per quanto
possa sembrare forte e al di sopra delle nostre potenzialità,
ricordiamoci che gran parte della forza che il nostro avversario
vanta siamo stati proprio noi a dargliela. Il sistema italiano ha,
infatti, “la colpa” di aver vissuto per troppo tempo una sorta di
“sudditanza psicologica” nei confronti del sistema
cinematografico americano, tanto da avergli garantito alcuni
privilegi che hanno contribuito ad aumentare il suo potere di
controllo. A tal proposito l’avv. Michele Lo Foco si esprime in
termini anche molto “duri” nei confronti del contesto italiano:
I privilegi che la cinematografia americana ha avuto e ha nel contesto
nazionale italiano sono infiniti, inenarrabili. E i privilegi di cui ha goduto la
cinematografia americana non si limitano a questo. Ad esempio da sempre
viene tollerato che le majors americane presenti in Italia, pur essendo
società americane, distribuiscano i prodotti americani del proprio listino ad
una provvigione molto bassa (9-10%), consentendo così alle major
americane italiane di mandare fuori tutto il resto di quello che viene
fatturato. Quindi non c’è nessuna norma che abbia vincolato le aziende
americane, quantomeno a spendere sul territorio nazionale un po’ di più.
Tutti sanno infatti che per compiere il ciclo distributivo si dovrebbe minimo
raggiungere una percentuale del 18-19%, mentre per le majors americane
viene tollerato il tetto del 9-10%
E questo vale per i film, i telefilm, il Product Placement, ... Noi siamo una
terra di conquista, una terra che è quasi Africa, e quindi gli americani, che
dalla loro hanno una grande, diciamo, pratica di questi meccanismi,
risultano essere più facilitati nelle loro azioni. E nel frattempo noi li
abbiamo sempre guardati con grande rispetto, ammirazione, timore, e non
abbiamo mai fatto nulla per placare questo divario. E, al contrario, loro si
dimostrano sempre implacabili nella difesa del proprio territorio.
Il Decreto Urbani rappresenta sicuramente un notevole passo
avanti per l’industria cinematografica italiana, così come per le
agenzie di comunicazione e per le imprese commerciali; ma
non può e non deve rimanere un caso isolato. Esso dovrà essere
59
ricordato negli anni come l’incipit e la spinta a un processo di
rinnovamento che conferisca dignità alla pubblicità come
forma di espressione culturale e la avvicini a un sistema come
quello cinematografico, con il quale per troppo tempo ha avuto
un rapporto di negazione e inconciliabilità.
1
S tratta di una delle più importanti agenzie di Product Placement italiana
di cui parleremo meglio in seguito.
2
Acciaio di Walter Ruttmann non è altro che – nonostante lo scarso
successo al botteghino – “il posizionamento cinematografico dell’Acciaieria
di Terni”.
3
Dove con “eccezionali” intendo, come al solito, “inusuali”.
4
La pubblicità redazionale non parla esplicitamente di un prodotto, ma ne
esalta caratteristiche e potenzialità attraverso l’uso di una figura autorevole
e neutrale che ne parla in maniera del tutto oggettiva.
5
Concetto proveniente dal Diritto Romano secondo il quale non ogni
dichiarazione che i contraenti si scambiano nel corso del procedimento che
conduce alla stipula dell'accordo ha rilevanza rispetto alle determinazioni
dei paciscenti.
6
Libera citazione tratta dal libro di Fusi e Testa, La pubblicità ingannevole,
1993.
7
Approfondiremo meglio questo argomento nel prossimo paragrafo.
60
8
Ognuna di queste disposizioni trova corrispondenze nelle norme del
Codice di Autodisciplina Pubblicitaria.
9
Il valore che i primi due punti hanno nell’ambito di questa tesi verrà
chiarito nei prossimi paragrafi; il terzo punto, invece, non è altro che la
conferma di quanto detto nel par. 1.1. di questo capitolo).
10
Escludiamo da questa analisi il II° comma (legato all’uso improprio del
termine “garanzia”) in quanto appartiene a un contesto, diciamo, “più
tecnico” della costruzione del messaggio, a differenza del I° e III° comma
che si collocano invece su un piano “più percettivo”.
11
Che, tra l’altro, deriva dalla Direttiva 84/450/CEE.
12
Bisogna però dire che, poiché l’applicazione della pubblicità subliminale
si è rivelata pressoché nulla in ambito pubblicitario, questo divieto, per
quanto encomiabile, appare per lo più inutile.
13
Il concetto di operatore pubblicitario si ritrova nella stessa legge 74/92,
art. 3.
14
Avremo modo di analizzare qualche caso di intervento dell’Autorità
Garante e del Giurì nel par. 2.5.
15
Ciò dimostra, come abbiamo detto anche in precedenza, l’avvicinamento
verificatosi tra la normativa autodisciplinare e quella statuale a partire
proprio dagli anni ’90.
16
Gli articoli riportati sulla colonna del “Giurì” provengono dal Codice di
Autodisciplina Pubblicitaria, mentre quelli riportati sulla colonna della
“Autorità Garante” dal D.P.R. 10 Ottobre 1996, n. 627.
17
Con Garante si intende, in questo caso, il Garante per la Radiodiffusione
e l’Editoria.
18
È chiaro il riferimento di questi art. alla Direttiva 89/552/CEE (vedi par.
1.2.).
19
Il caso trattato per l’Autorità Garante – così come per il Giurì – è stato
semplicemente accennato in questa tesi. E’ possibile comunque consultarli
nella loro versione integrale attraverso il cd-rom allegato alla tesi.
20
Le prime quattro considerazioni sull’Autorità Garante sono state da me
ricavate in seguito alla supervisione del Provvedimento n. 6388 – Il domani
non muore mai – del 04/09/1998; le ultime due invece provengono dalla
supervisione del Provvedimento n. 5326 – Linda e il Brigadiere – del
18/09/1997.
21
Il cd-rom della Rassegna completa delle decisioni del Giurì da me
consultato non va oltre questa data.
22
Nel terzo capitolo si trovano ulteriori informazioni su Gerardo Corti (più
un’intervista) e sulla JMN & DY.
61
L’osservazione di Gerardo Corti viene da un’intervista da me svolta e
consultabile dal cd-rom allegato alla tesi.
24
Si combinano così i vantaggi del ricorso a un testimonial, con il quale lo
spettatore tende a identificarsi, e quelli della comunicazione non
dichiaratamente pubblicitaria.
25
Come abbiamo avuto modo di vedere sinora, nelle varie norme analizzate
non si parla mai di Product Placement, ma si ritiene possibile applicare tali
norme a tal tecnica.
26
Questo, in particolare, è un problema risolvibile attraverso il “Product
Placement Dinamico”, di cui parleremo nel prossimo capitolo.
27
Non poteva essere incluso proprio perché la riforma partiva dal Ministero
per i Beni e le Attività Culturali, mentre una riforma simile in campo
televisivo dovrebbe partire dal Ministero per le
28
Che sta dimostrando comunque un notevole successo, soprattutto
nell’arco dell’ultimo anno.
29
L’intervista completa all’avv. Michele Lo Foco è consultabile dal cd-rom
allegato alla tesi.
23
62
63
Premessa.
Siamo giunti al capitolo conclusivo della mia tesi. Adesso
cercherò di mostrare come il contesto cinematografico italiano
sia stato effettivamente influenzato alla luce del “Decreto
Urbani”. Parlerò innanzitutto dell’impatto immediato che il
decreto ha avuto nel panorama cinematografico italiano, il
quale si è tradotto in una serie di incontri, convegni e
conferenze di grande rilevanza. Ma mi concentrerò anche sui
tre sistemi che giocano un ruolo determinante nell’applicazione
della tecnica del Product Placement:
- la casa di produzione cinematografica;
- l’agenzia di comunicazione e Product Placement;
- l’impresa commerciale.
Concluderò il capitolo con una riflessione sulle ultime tendenze
e le novità che continuano a farsi largo nel campo del
posizionamento cinematografico del brand.
64
1. Una tecnica che suscita interesse...
Qual è stata la reazione immediata degli “addetti ai lavori” in
seguito alla promulgazione del “Decreto Urbani”?
Non esistendo una vera e propria “teoria del placement” – fatta
eccezione per il lavoro di alcuni “profeti” del posizionamento
cinematografico – il primo obiettivo dei diretti interessati era
quello di conoscere appieno questa tecnica, attraverso studi e
confronti. L’organizzazione di convegni, conferenze, incontri e
tavole rotonde sul tema del Product Placement ha colpito in
maniera abbastanza continua il territorio nazionale.
Potrei parlare di decine di incontri sul Product Placement
avvenuti nell’ultimo biennio, ma mi limiterò a tre casi, che
considero tra i più importanti proprio perché dimostrano anche
un’evoluzione avvenuta in questo campo negli ultimi due anni.
Workshop on Product Placement (18 Maggio 2004).
Primo importante incontro sul Product Placement in Italia,
Workshop on Product Placement rappresenta quello che,
possiamo chiamare, annuncio della legalizzazione del
posizionamento cinematografico in Italia. L’incontro,
organizzato nell'ambito del Festival di Cannes 2004 da
Cinecittà Holding e tenutosi al Pavillon Italien, inizia con
l’intervento di Alessandro Usai, Direttore Generale di Cinecittà
Holding e membro dell'equipe che ha redatto il Decreto Urbani,
il quale illustra le possibilità di utilizzo di prodotti e marchi nei
film previste dalla nuova legge.
Il passo immediatamente successivo è stato l’analisi degli
aspetti legali e contrattuali dell'applicazione del Product
Placement, attraverso il confronto della nuova norma vigente in
Italia con le legislazioni che sulla stessa materia sono in vigore
in altri paesi europei. In questa fase dell’incontro, quindi, i
65
protagonisti sono stati l’avv. Bruno della Ragione, dello Studio
della Ragione Garofalo, per l’Italia, Pedro Callol dello studio
Allen & Overy per la Spagna, Sarah Miccichè della Hammonds
& Hussman per la Francia e Wolfgang Brehm della Brehm & v.
Moers per la Germania.
Infine l’incontro ha visto protagoniste autorevoli aziende, che
hanno testimoniato i benefici offerti dai nuovi canali di
comunicazione pubblicitaria all'industria cinematografica.
In particolare, sono intervenuti Lapo Elkann, Direttore
Marketing Straegico di Fiat Group:
Noi dobbiamo adesso provare a mostrare l’essenza del contenuto del mezzo
che stiamo vendendo nel film attraverso il posizionamento della macchina.
Clement Vachon, Direttore Marketing Internazionale di S.
Pellegrino:
La gente non beveva la nostra acqua solo perché era italiana, ma soprattutto
perché nella bottiglia loro “trovavano” l’Italia, la bellezza, il piacere.
Elegante, preziosa, chic, come Sofia Loren, come Giorgio Armani, e tutto
questo in una bottiglia d’acqua, ed è questa la cosa incredibile!
e Joerg E. Schweizer, Manager per il Product Placement e AV
Media del BMW Group:
La BMW ha una grande tradizione nel fare Product Placement. Noi
abbiamo iniziato nel 1934 ed è diventato per noi un fattore strategico negli
anni ’60. C’è sempre stata una persona nel gruppo BMW incaricata di fare
Product Placement.
Metti un prodotto sul grande schermo. Il Product Placement
nel cinema tra marketing e comunicazione (15 Luglio 2004).
Il convegno Metti il prodotto sul grande schermo è stato
organizzato in occasione dell’Ischia Global Film&Music
Festival. Diversi sono stati i partecipanti al convegno,
66
appartenenti sia al mondo cinematografico che a quello
d’impresa:
Michele lo Foco, avvocato e presidente di Cinecittà Diritti:
Finalmente l'Italia è in linea con gli altri Paesi (...) Occorre ora instaurare un
dialogo tra produttori, pubblicitari e registi.
Gianni Massaro, presidente ANICA Italia:
(...) bisogna adesso essere capaci di introdurre bene la pubblicità nelle storie
cinematografiche, senza che queste perdano la loro valenza narrativa.
Fabio Fabbi, Direttore marketing strategico e comunicazione
Cinecittà Holding:
Il territorio del Product Placement è un territorio che non invade solo ed
esclusivamente il contenuto ma anche quello che sta attorno al contenuto.
Parliamo di merchandising, di affissioni, di tutto ciò che forse risulta essere
più facilmente percepibile dal mondo della pubblicità che oggi in Italia non
è ancora abituata a una valorizzazione di un ritorno di investimenti
contestualizzata in un’operazione di branding nel contesto cinematografico.
Alessandro d’Alatri, regista:
Quando ho saputo dell’arrivo di questa legge, ho salutato questa cosa come
il primo colpo di piccone contro un muro che negava tante libertà al cinema
italiano. (...) Finalmente si assiste al riavvicinamento di due mondi che fino
a poco tempo fa si guardavano in cagnesco (quello del cinema e quello della
pubblicità).
Francesco Moneta, presidente Egg:
Vi consiglio di distinguere dichiaratamente il Product Placement dalla
pubblicità. Le aziende guarderanno con attenzione solo se capiranno che
non stiamo parlando di spot pubblicitario, proprio perché, in quanto tale
verrebbe percepito dal pubblico come pubblicità “pagata”, commerciale.
Nel momento in cui il prodotto viene contestualizzato alla storia esso
acquisisce importanza, autorevolezza e, soprattutto, due fattori ritenuti
determinanti dalle aziende: distintività e memorabilità.
67
Oltre a questi, erano presenti al convegno Pascal Vicedomini
(fondatore dell’Ischia Global Film&Music Festival), Ilaria
Borrelli (regista), Jack Gilardi (agente USA), Armando
Branchini (segretario generale ALTAGAMMA Italia), Mick
Davis (regista), Fulvio Lucisano (produttore), Gerard Butler
(attore).
Product Placement: cinema e brand si incontrano (6 e 11
Ottobre 2005).
Molto probabilmente si tratta di uno dei convegni più
interessanti tenutisi per ora in Italia sul tema del Product
Placement. Suddiviso in due giornate (6 e 11 Ottobre 2005) e
in due città (il primo incontro alla Casa del Cinema a Roma e
il secondo alla Terrazza Martini a Milano), il convegno
affronta il tema del Product Placement rendendo partecipi tutti
i diretti interessati di questa forma di comunicazione: le case di
produzione, le imprese commerciali e le agenzie.
L’incontro del 6 Ottobre alla Casa del Cinema di Roma aveva
come sottotitolo Il brand incontra il cinema; infatti oltre 200
tra produttori e professionisti del cinema hanno ascoltato alcuni
tra i più importanti rappresentanti del mondo della pubblicità e
non del calibro di Michael Göttsche, Presidente e Direttore
Creativo Göttsche:
(Il Product Placement è) un'opportunità da cogliere assolutamente per
superare il problema dell'affollamento pubblicitario che rende meno
performanti le forme classiche di advertising, cui si aggiungono le
aggravanti dovute agli strumenti tecnologici che stanno modificando le
abitudini degli spettatori.
Fabio d'Angeloantonio, Direttore Marketing Luxottica Group:
68
(...) un esercizio estenuante ma di grande risultato per la costruzione della
marca. (...) un matrimonio tra creatività artistica e creatività di marketing,
applicato in 1000 film l'anno
o Paola Manfroni, Direttore Creativo Esecutivo McCann
Erickson Roma:
(...) una pratica che non disturba perché un mondo senza marchi non è un
mondo reale.
Presenti
a
Roma
anche
Kellie
Belle
(Direttore Bellwood Media Ltd), Sergio Giorcelli (Partner
Studio Avvocati Bruno Della Ragione), Aaron Lenzini (Vice
Presidente William Morris Consulting), Patrick Russo
(Presidente The Salter Group). E’ stato inoltre possibile
rivolgergli diverse domande grazie alla tavola rotonda
moderata da Fabio Fabbi.
L’incontro dell’11 Ottobre alla Terrazza Martini di Milano
aveva, invece, il sottotitolo Il cinema incontra i brand. Durante
il convegno sono intervenuti Luca Lucini, regista de L’uomo
perfetto (nel quale compare il posizionamento del brand Coca
Cola Light):
(...) un buon placement è frutto di integrazioni semplici e contestuali, in
pieno accordo con il marketing dell'azienda sponsor.
Mark Workman, Presidente della First Fireworks:
(...) Solamente in alcuni film e per pochi momenti è possibile rendere un
brand memorabile attraverso un legame emotivo con la storia e i personaggi
del film.
Aaron Lenzini, intervenuto anche a Roma, che si dimostra
d’accordo con le opinioni di Workman e aggiunge diversi
commenti sul rapporto ormai esistente tra brand, film e
celebrità.
69
Anche in questo incontro, comunque, saranno diversi i soggetti
a intervenire: Michele Lo Foco (presidente Cinecittà Diritti),
Emidio Mansi (Direttore Commerciale Pasta Garofalo),
Roberto Nepoti (critico cinematografico di Repubblica e
docente di Filmologia all’Università di Trieste), Enrico
Pacciani (Responsabile Product Placement di Cattleya),
Maurizio Totti (Presidente Colorado Film) e Alessandro Usai
(Direttore Generale Cinecittà Holding). E sempre in questo
incontro, a Fabio Fabbi il dovere di gestire la tavola rotonda.
L’interesse nei confronti del Product Placement c’è; e, a quanto
pare, anche la partecipazione degli addetti ai lavori.
Gli argomenti affrontati nei vari convegni, per quanto possano
essere determinanti, risultano essere propri di un sistema alle
prime armi, che si sta organizzando e che è pronto a partire, ma
che si trova pur sempre all’inizio. E’ vero che, esiste una
differenza sostanziale tra gli incontri del 2004 e quello del
2005, caratterizzata dal fatto che i primi 2 rappresentano più
una sorta di “comitato di ben venuto” promosso in onore del
Decreto Urbani, mentre il doppio incontro del 2005 chiama in
causa l’effettivo lavoro portato a termine in seguito alle novità
normative del 2004 (L’uomo perfetto, Quo vadis, Baby?, ...).
Ma è anche vero che gli incontri del 2005, attraverso la
presenza di personaggi come Lenzini e Workman, creano
termini di paragone tra il Product Placement all’italiana e il
Product Placement made in USA, paragone che sottolinea il
gap ancora oggi esistente tra i due sistemi. Si tratta di un gap
ovvio, dovuto ai diversi tempi di attuazione del placement nei
due paesi, ma sicuramente non si tratta di una distanza
incolmabile o così ampia come si possa pensare: se questi due
sistemi cinematografici sono così lontani, che ci fa Gabriele
Muccino a Hollywood a girare un film con Will Smith? E che
cosa ci faceva Monica Bellucci in Matrix Reloaded?
70
Abbiamo ancora tanto da imparare, è vero, ma non è detto che
non possiamo riuscirci in meno tempo del previsto; ci vuole
volontà e perseveranza. Gli incontri finora organizzati le
dimostrano entrambe. Ma parlarne va bene fino a un certo
punto; adesso volontà e perseveranza devono essere dimostrate
dagli addetti ai lavori.
2. Le case di produzione cinematografica.
Passiamo ora all’analisi dei tre settori interessati nel processo
di attuazione del Product Placement cinematografico; e
partiamo, in particolare, dalle case di produzione. Che
l’avvento del Product Placement in Italia abbia modificato
fortemente il modus operandi di molte case di produzione, è
una realtà non solo verificabile, ma anche facilmente intuibile a
partire dalle caratteristiche del cinema italiano: un cinema che,
a livello contenutistico, è sempre stato particolarmente
predisposto alla realizzazione di film d’autore, in cui il
posizionamento di un brand appariva quasi come una sorta di
negazione dell’artisticità dell’opera – un’idea direttamente
derivante dalla considerazione della pubblicità come un
sistema che nega la nazionalità italiana (Michele Lo Foco); un
cinema che difficilmente scavalcava il panorama nazionale per
affermarsi in quello estero (tranne alcuni casi come La vita è
bella, la cui la campagna promozionale, tra l’altro, fu affidata a
un’impresa americana, la Miramax); un cinema il cui star
system è sempre stato considerato inferiore se paragonato a
quello americano, e quindi, di conseguenza, ritenuto incapace
di aumentare la forza del film al quale partecipa.
Il Decreto Urbani sembra aver avuto un effetto positivo su
questo sistema; la sua promulgazione infatti ha cominciato a
spazzare via molte di queste considerazioni ed oggi, diverse
sono le case di produzione che agiscono alla luce del sole,
ricercando brand da poter inserire nei propri film in cambio di
71
finanziamenti. Il cinema italiano ha finalmente deciso di aprirsi
al mercato, e di farlo alla luce del sole, senza sotterfugi o
espedienti di cui si è sempre sentito parlare ma sui quali non si
è mai veramente intervenuto (avremo modo di vedere qualcosa
più avanti). In Italia, tra le prime case di produzione che hanno
aperto le proprie porte al mondo del Product Placement
ricordiamo la Cattleya e la Colorado Film.
La Cattleya, nel 2005, ha prodotto il film L’uomo Perfetto,
all’interno del quale si ritrova il posizionamento della Coca
Cola Light. E non si tratta di un caso unico e solo,
considerando che per il 2006, questa casa di produzione ha
previsto di trattare altri 8 casi di posizionamento. Il forte
interesse della Cattleya per l’applicazione del placement è stato
ampiamente dimostrato da Enrico Pacciani, Responsabile
Product Placement, durante il convegno di Milano dell’11
Ottobre 2005. Durante il convegno, Pacciani espone il proprio
punto di vista sul Product Placement ideale da applicare
all’interno di un film, sottolineando principalmente le
caratteristiche del prodotto, ossia il suo brand name:
Penso che ci siano prodotti e brand che non hanno bisogno di una
rappresentazione esplicita per svolgere comunque un ruolo determinante
nella storia. (...) E tutti i prodotti di consumo preferiscono un inserimento di
questo tipo (riferendosi al film L’uomo Perfetto), che non è troppo evidente.
(...) Preferisco questo piuttosto che il contrario.
Anche gli studi di psicologia negli Usa dimostrano che funziona una
rappresentazione del prodotto non troppo esplicita... a meno che non si tratti
di prodotti di lusso... se vogliamo fare un Product Placement sulla Ferrari
non possiamo nascondere che di Ferrari si tratta!
Come è stato detto anche nel primo capitolo, la presenza di
determinati brand all’interno di un film può essere individuata
con immediatezza proprio grazie a caratteristiche quali il logo o
la struttura del pack. Ritengo però, che l’osservazione di
Pacciani sia per lo più legata al fatto che il Product Placement
72
in Italia sia ancora una realtà troppo recente, ed è quindi giusto
cominciare dall’inizio, ossia dalla forma di posizionamento più
semplice, basata sulla semplice visibilità del prodotto. Ciò non
toglie che esistono altre forme di posizionamento, molto più
complesse e articolate, ma altrettanto efficaci, come il Product
Integration o il Brand Entertaiment (che avremo modo di
vedere meglio in seguito), tecniche già ampiamente utilizzate
in America, possibili prospettive future nel campo Italiano.
Pacciani, nonostante ciò, sottolinea come esistano dei vantaggi
che il sistema cinematografico italiano ha rispetto a quello
americano: si tratta dei diversi tempi di inserimento del brand
nei film italiani e in quelli anglosassoni. Mentre in America,
infatti, il periodo di uscita del film, così come il
posizionamento di un brand al suo interno, devono essere
dichiarati moltissimo tempo prima – generalmente l’uscita del
“blockbuster” di fine maggio viene deciso già un anno prima –
in Italia i tempi sono molto più stretti, dai pochi mesi alle
poche settimane dall’uscita. Per il caso La cura del gorilla –
prodotto dalla Colorado Film – la Pasta Garofalo è riuscito a
inserire il proprio brand quando la scena in questione era già
stata parzialmente girata... ciò potrebbe apparire come una fase
di attuale disorganizzazione del sistema, ma, all’atto pratico,
essa garantisce a qualsiasi impresa commerciale la possibilità
di decidere, anche all’ultimo momento, di partecipare ad una
qualsiasi operazione di Product Placement.
Molto interessante anche il caso della Colorado Film che, nel
2005, ha prodotto il film Quo vadis Baby? che ha visto la
partecipazione del brand TIM, e, nel 2006, ha realizzato La
cura del gorilla all’interno del quale è stato posizionato il
brand Pasta Garofalo. Maurizio Totti, produttore
cinematografico, presidente della Colorado Film, dell’agenzia
di talenti Moviement, e della società di spot Colorado
Commercial, durante il convegno di Milano, dimostra anche
73
con le parole, e non solo coi fatti, il proprio sostegno alla
liberalizzazione del Product Placement:
Finalmente posso agire alla luce del sole e posso anche ottenere da un
ipotetico ricavo derivante da Product Placememt una fonte di
sostentamento.
Anche lui sostenitore del principio “è impossibile concepire un
mondo senza marchi”, Totti racconta come fosse difficile
prima del Decreto Urbani, per una casa di produzione come la
Colorado, muoversi tra esigenze artistico-contenutistiche e
limiti normativo-commerciali. In particolare racconta che
durante la realizzazione del film Nirvana, Gabriele Salvatores
aveva deciso di lasciar vedere, in quell’ipotetico futuro – col
solo scopo di dare maggiore credibilità alla storia – il marchio
della Sony su diversi apparecchi. La reazione di Cecchi Gori,
co-produttore del film, fu negativa a tale richiesta, tanto che
Salvatores fu costretto ha mutare il nome del brand in Zony.
Incredibilmente, la non applicabilità del Product Placement
tutelava l’artisticità dell’opera ma contribuiva a distruggerne la
verosimiglianza...!
Maurizio Totti si dimostra talmente a favore del Product
Placement, da individuare in esso anche delle caratteristiche
funzionali alla realizzazione del film:
L’altro tipo di pubblicità, quella ornamentale diciamo, ha anche una
funzione... per esempio quando giri di notte, al direttore della fotografia una
fonte di luce proveniente da un insegna gli fa molto più gioco che una luce
artificiale...!
Ma la figura di Maurizio Totti sul tema del Product Placement
assume un significato maggiore nel momento in cui si parla
dello star system italiano, e del contributo che questo può
offrire tanto per il successo del film quanto per il successo del
placement. Egli infatti sottolinea l’importanza della star come
74
testimonial del film e, di conseguenza, testimonial del prodotto
in esso rappresentato. Nonostante ciò, Totti non si dimostra del
tutto audace su questo tema: egli infatti sottolinea come sia
difficile, anche per il prossimo futuro, pensare di poter agire
allo stesso livello dello star system americano, senza però
escludere la possibilità di ottenere notevoli successi in merito,
garantiti in qualche modo dalla presenza all’interno del nostro
star system di personaggi di grande presa a livello nazionale e
internazionale come Monica Bellucci, Stefania Rocca, Gabriele
Muccino, e tanti altri. Anche lo stesso Enrico Pacciani si
dimostra fiducioso nei confronti del nostro star system
sottolineando lo star power di un personaggio come Stefano
Accorsi, che solo per la sua presenza nel film, attira
automaticamente una fetta di pubblico nelle sale. L’uso della
star italiana come potenziamento dell’effetto di placement nel
film appare, anche se entro certi limiti, fattibile.
Cattleya e Colorado sono solo due delle moltissime case di
produzione che negli ultimi tempi hanno cominciato a
dimostrare fiducia verso questa tecnica di marketing.
Personalmente però ritengo che la presenza di troppe agenzie
di comunicazione e Product Placement nel territorio nazionale,
comparse improvvisamente negli ultimi tempi, rappresenti un
elemento di ostacolo e di confusione per tutte quelle case di
produzione che ancora si dimostrano incerte sull’utilizzazione
del Product Placement come ulteriore fonte di finanziamento.
Affronteremo comunque questo tema più nello specifico nel
prossimo paragrafo, quando parleremo dettagliatamente delle
agenzie di Product Placement.
75
3. Le agenzie di comunicazione e Product
Placement.
Prima di iniziare a raccogliere informazioni, quando ancora
non avevo le idee chiare su dove, questa tesi, mi avrebbe
portato, avevo commesso un errore di valutazione. Ritenevo
che le agenzie alle quali mi sarei dovuto rivolgere per avere
notizie sul Product Placement fossero agenzie di pubblicità.
L’errore nel quale sono caduto io non è molto dissimile da
quello che è stato commesso dall’intero assetto legislativo
italiano su questo tema: ossia l’errore di considerare il Product
Placement come una forma di pubblicità (occulta, clandestina,
camuffata). Come ho già detto nel capitolo precedente, il
Product Placement è una tecnica a sé stante, e poco c’entra con
la pubblicità. Quindi, i “mediatori-creatori” che avrei dovuto
cercare non li avrei mai trovati in un’agenzia pubblicitaria,
bensì in un’agenzia altamente specializzata, di comunicazione
e Product Placement.
Inserendo quindi su Google le parole chiave”agenzia Product
Placement Italia” ho trovato quello che stavo cercando: la JMN
& DY, una delle prime agenzie di Product Placement nate in
Italia. Il suo presidente, Gerardo Corti, è uno dei principali
fautori del posizionamento del brand nel film già da molti anni.
Laureato in Economia e Commercio, nel 1997 ha partecipato
alla fondazione dell’Associazione per il Product Placement,
il cui scopo era quello di far conoscere questo strumento di
comunicazione auspicandone la liberalizzazione in Italia:
obiettivo raggiunto, direi!
Per avere un quadro completo delle agenzie di Product
Placement in Italia ho pensato di intervistare proprio Gerardo
Corti, il quale mi ha dato totale disponibilità. Dalla
conversazione che abbiamo avuto ho potuto trarre una serie di
conclusioni sull’attuale situazione delle agenzie di Product
76
Placement e sulla loro genesi. Innanzitutto, siamo in un
contesto che trabocca di agenzie di Product Placement, italiane
e straniere: JMN & DY, Popvision, Camelot, Goettsche,
Bellwood, ... troppe agenzie per un sistema cinematografico
come quello italiano. E’ la chiara dimostrazione della minaccia
che le agenzie pubblicitarie hanno subito percepito con la
comparsa del Product Placement in Italia. Una tendenza che le
ha portate ad operare strategie di integrazione della novità,
assimilando ciò che era percepito come “nuovo” per non
rischiare di restare indietro; una condizione che, a mio parere,
condurrà ben presto alla saturazione del mercato. Non ci vorrà
molto prima che molte agenzie vedano “troppa gente a spartirsi
la torta”, e decidano di abbandonare il campo, dedicandosi a
qualcos’altro, chissà, magari all’ultima novità, lasciando il
campo libero a poche agenzie, ma tutte altamente specializzate,
con capacità e competenze indiscusse. Gerardo Corti pensa che
non saranno più di 4... per me è stato anche troppo fiducioso.
Comunque, sempre meglio questa condizione che quella
vissuta fino a qualche anno fa, prima della promulgazione del
Decreto Urbani. Un periodo che ha visto agenzie di Product
Placement nascere ancor prima che il decreto fosse passato, per
farsi trovare pronte, ma che in effetti non avevano niente da
offrire (e non solo perché non potevano, ma soprattutto perché
non sapevano come farlo); agenzie che Corti definisce di
catering, il cui scopo era quello di procurare alle case di
produzione determinati prodotti, richiedendo il compenso
anche qualora non fossero riuscite a portare in porto l’affare;
accordi tra case di produzione e imprese, senza figure
intermediarie, dove si richiedeva il prodotto in cambio di uno
spazio nel film, senza però offrire alcuna garanzia dell’effettivo
posizionamento... si aveva a che fare con una vera e propria
anarchia del placement. Oggi, la liberalizzazione del
placement cinematografico ha permesso alle agenzie di
77
riorganizzarsi, di rivedere le proprie priorità, e, soprattutto, di
ragionare non solo in termini di “che cosa si può fare”, ma
anche in termini di “che cosa si potrebbe anche fare”.
Molti, tra i quali la stessa JMN & DY, stanno spingendo già da
diverso tempo al fine di ottenere la legalizzazione del Product
Placement nel sistema televisivo, che garantirebbe ulteriori
margini di profitto dato il successo indiscusso di spettacoli
italiani del piccolo schermo come la fiction o il reality show.
E mentre nel campo televisivo aspettano (e, alla luce delle
ultime novità in campo internazionale, l’attesa non sarà poi
così lunga), molte agenzie si danno da fare negli altri settori in
cui il placement è una realtà fattibile, come i videogiochi, la
letteratura o i video musicali. La JMN & DY, ad esempio, ha
aperto da poco i settori videoclip e videogame, vedendo in essi
delle ottime opportunità di posizionamento. Il problema, però,
legato a questi nuovi spazi del placement risiede nel fatto che
le imprese commerciali non dimostrano ancora abbastanza
fiducia in questi strumenti alternativi. Come avremo modo di
chiarire nel prossimo paragrafo, il problema del
posizionamento, in base alla situazione attuale, non riguarda
tanto le agenzie – più che ben disposte ad agire in maniera
mirata e innovativa – quanto le imprese commerciali, che –
secondo Corti – percepiscono la crisi economica che sta
attraversando il nostro paese e corrono ai ripari attraverso
l’eliminazione di ciò che, ai loro occhi, rappresenta spese senza
garanzie.
In conclusione ritengo che, superata questa fase di
assestamento, di placement delle agenzie nel mercato
nazionale, si potrà contare sull’indiscussa professionalità delle
poche rimaste, o della “sola” agenzia rimasta, dato che Gerardo
Corti, sul futuro delle agenzie di Product Placement italiane,
cita ironicamente Highlander: ne resterà solo uno!
78
4. Le imprese commerciali.
“E' giusto che guardiate ai numeri, ma qualche volta occorre un pizzico di
coraggio. Perché non investire sui giovani autori, che oggi si fanno
conoscere all'estero, come Saverio Costanzo candidato italiano
all'Oscar?”.
Questa domanda è stata posta da Gaetano Blandini durante il
convegno di Roma Product Placement: cinema e brand si
incontrano. E francamente questa domanda l’avrei voluta porre
anch’io alle aziende. Non perché mi consideri un “giovane
autore”, sia chiaro, ma perché, in tutto il lavoro da me svolto,
mi sono reso conto del fatto che il contatto con l’impresa
commerciale è stato il punto debole della mia tesi. Sono
diverse le imprese che ho contattato, chiedendo loro un breve
colloquio che mi permettesse di approfondire ulteriormente il
discorso del Product Placement all’italiana, ma le risposte
sono sempre state negative... anzi, sono sempre state nulle!
Solo una mi ha risposto, la Bacardi, dicendomi però che la loro
azienda non si interessa di operazioni di Product Placement.
Riporto la risposta della Bacardi perché su di essa è possibile
fare un’osservazione: il Product Placement, uno strumento
dalle grandissime potenzialità, nonostante sia stato liberalizzato
ormai da due anni, per molte aziende italiane non rappresenta
ancora una strategia di comunicazione completamente
affidabile.
Mi viene quindi da pensare che se molte imprese non mi hanno
nemmeno risposto (fatta eccezione per la Bacardi, che
approfitto per ringraziare, comunque, per la cortesia
dimostrata), il motivo di base è rappresentato dal fatto che,
effettivamente, non avessero poi così tanto da dirmi... E alla
luce di quanto mi è stato detto da Gerardo Corti, l’ipotesi non è
poi così azzardata.
79
Il problema del rapporto tra imprese commerciali e Product
Placement sono riuscito comunque a risolverlo grazie a un
articolo del giornale Boxoffice nel quale sono riportate le
opinioni dei responsabili di diverse imprese commerciali sul
tema del Product Placement. Ecco le diverse citazioni.
Emidio Manzi, Responsabile Commerciale
Italia di Pasta Garofalo.
La scelta di iniziare ad utilizzare il Product placement nasce dalla
convinzione che oggi la pubblicità, molto più diversificata che non
in passato, sia diventata dispersiva e meno efficace di prima,
praticamente non offre più risultati soddisfacenti e costa sempre di
più. Invece il Product Placement è uno strumento che, se usato
bene, valorizza il prodotto e lo fa muovere in un contesto reale.
Quindi crediamo che il futuro di questo strumento in Italia possa
essere plurivalente, proprio perché aggancia brand e prodotti ad un
mondo molto caro agli italiani, cioè al loro cinema. Abbiamo
dunque ideato un progetto organico biennale di Product Placement
attivando la collaborazione con due tra le principali case di
produzione operative nel nostro Paese: Cattleya e Colorado. Il
piano, ideato a inizio 2005, finora ha portato alla partecipazione di
Garofalo in 4 pellicole: La cura del gorilla di Carlo A. Sigon di
produzione Colorado e uscito lo scorso 3 febbraio; Lezioni di volo
di Francesca Archibugi e N. di Paolo Virzì, entrambi prodotti da
Cattleya, di prossima uscita ed infine Notturno bus di produzione
EDM. Ma la previsione è, per la fine del 2007, di collocare il
nostro prodotto in almeno 8 pellicole in totale.
Selezioniamo i film a cui proporci tra i vari progetti di produzione
nazionale che scopriamo attraverso diversi canali di informazione;
tra questi cerchiamo di scegliere quelli che per le loro
caratteristiche meglio si avvicinano al nostro target. L’incontro con
i produttori avviene di solito attraverso un’agenzia di pubblicità,
nel nostro caso Camelot, i cui esperti hanno già letto le
sceneggiature ipotizzando varie forme di placement. Una volta che
anche il regista è d’accordo, si sigla il contratto di collocamento. I
nostri placement hanno finora coperto per ciascun film dal 5 al
10% del budget di produzione ma sono certo si possa crescere. I
produttori italiani dovrebbero essere più attenti a questa risorsa, sia
80
quelli di film fortemente “di cassetta” che quelli specializzati in
opere di qualità. In quest’ultimo caso un Product Placement ben
fatto è una riserva in più.
Lorenzo Sironi, Brand Manager di Coca Cola Light.
Riteniamo che questo strumento di comunicazione, assolutamente
non convenzionale, sia altamente innovativo e valorizzante per il
marchio o il prodotto in quanto riesce a costruire nell’immaginario
del consumatore un’associazione molto forte tra le sequenze del
film e il marchio/prodotto che vi si muove. Fare product placement
implica un investimento sensibilmente meno oneroso di uno spot
televisivo e per questo conviene. Accanto a L’uomo perfetto,
abbiamo collocato il nostro brand in Natale a Miami di Filmauro.
Tuttavia nutriamo ancora qualche riserva: in Italia non esistono
ancora strumenti di misurazione parametrati, per questo è ancora
difficile impostare pianificazioni o comportamenti commerciali
particolari sul suo utilizzo.
Anna Laura Giorgio, Ufficio Stampa di Melting Pot.
Siamo molto attenti al settore cinematografico ma per quanto
attiene al Product Placement non lo abbiamo mai applicato
attraverso una ricerca pianificata e soprattutto con scambio in
denaro. Questo perché in Italia non ci sono ancora regole ben
definite. Il nostro prodotto è rientrato e rientra in diversi film, ma
questo essenzialmente perché nasce dalla richiesta dei costumisti
delle varie produzioni che si rivolgono a noi. Può in tal caso
scattare la risorsa dello sponsor. Se applicato in maniera adeguata,
secondo appunto la definizione che include il denaro e non lo
scambio merci, il Product Placement potrebbe diventare uno
strumento molto utile anche perché darebbe la possibilità a diversi
competitor dello stesso settore di comparire contemporaneamente
nel medesimo film.
Luca Pacitto, Responsabile Comunicazione di Fastweb.
Per ora non facciamo Product Placement perché riteniamo che i
tempi in Italia non siano ancora maturi, almeno relativamente ad
una azienda come la nostra che non offre un bene di largo consumo
81
da posizionare in modo ben visibile in un film, bensì i benefici di
un servizio di comunicazione integrata. E questo, chiaramente,
implica uno studio assolutamente attento e sottile perché si possa
integrare in un film senza apparire pubblicità smaccata. È chiaro
che nel momento in cui lo strumento sarà dotato di adeguati
monitoraggi, e le condizioni saranno mature e favorevoli, anche
noi rivaluteremo la nostra posizione attuale e probabilmente ci
doteremo di una pianificazione che comprenda anche il Product
Placement.
Sabina Rivetti, Responsabile Comunicazione
della CP Company.
In Italia i registi si prestano difficilmente ad un intervento di
questo tipo all’interno delle loro opere. Probabilmente i tempi non
sono maturi, ma forse si tratta proprio di un tratto caratteristico del
cinema italiano, almeno di quello autoriale a cui noi
prevalentemente guardiamo. Il Product Placement viene accusato
come una limitazione espressiva ed un’invadenza di campo. Forse
andrebbe usato diversamente, ma i passi da compiere sono
comunque ancora molti. Da parte nostra, preferiamo investire nel
cinema utilizzando altri canali promozionali, come la
sponsorizzazione di varie situazioni legate al festival di Locarno e
il coinvolgimento in fase di lancio e distribuzione di film di qualità
italiani ed europei.
Dal grandissimo entusiasmo all’estrema cautela, le imprese
dimostrano comunque di conoscere il fenomeno e di tenerlo
nelle dovute considerazioni. Il volerlo applicare in Italia, a
quanto pare, è una realtà, per imprese come Pasta Garofalo, o
una prospettiva futura, per imprese come la CP Company.
Molto più scettiche nei confronti del cinema italiano appaiono
invece imprese come la Mercedes – Smart che non ha mai
utilizzato Product Placement in un’opera di nostra nazionalità,
poiché difficilmente supera i nostri confini.
82
5. Product Placement tra presente e futuro.
Qual è la situazione del Product Placement in Italia oggi?
Oggi il Product Placement è considerato una tecnica di
marketing a tutti gli effetti, così come lo sono l’advertising o la
publicity. L’importanza acquisita da questa tecnica viene
ampiamente dimostrata da Cinecittà, all’interno della quale è
stato formato un gruppo di lavoro che ha il compito di
raccogliere dati e informazioni utili allo sviluppo del Product
Placement in Italia: il Product Placement Lab. Il suo obiettivo
finale è quello di sensibilizzare le produzioni italiane e i grandi
marchi commerciali sulle potenzialità di questo strumento.
La fiducia affidata a questa tecnica le ha permesso di
svilupparsi ulteriormente, all’interno di un sistema sempre più
complesso e articolato. Lo stesso Product Placement si ritrova
infatti a rientrare all’interno di strategie molto più ampie, il più
delle volte volute e ricercate dalle stesse aziende, che scelgono
di legarsi ad uno specifico progetto anche per mezzo di
interventi collaterali. I sistemi sono molteplici e dipendono dal
livello di investimento che l’azienda intende dedicare: ad
esempio legare direttamente film e prodotto (come nel caso
dell’Happy Meal di McDonald per il film Alla ricerca di
Nemo) oppure avviare una campagna pubblicitaria ad hoc
studiata prima dell’uscita del film (come nel caso della Mini
per The Italian Job). Questa operazione collaterale viene
definita cross promotion; essa permette all’azienda di associare
il proprio marchio o il proprio nome al film o al personaggio
anche fuori dalla pellicola stessa e, nello stesso tempo, il film
viene sponsorizzato.
L’importanza di queste operazioni collaterali è molto alta; un
film che presenta al suo interno casi di Product Placement ha
bisogno di rendere noto tutto ciò proprio per garantire il
successo dell’operazione. Rendere noto un Product Placement
83
cinematografico attraverso cross promotion, ma anche grazie a
comunicati stampa, articoli di giornale, promo, trailer, il tutto
legato a fattori quali l’importanza del film o il livello di
coinvolgimento, viene oggi definito come Product Placement
dinamico. Paradossalmente, per aumentare i margini di
successo di un’operazione di Product Placement, è necessario
rendere nota la pubblicità occulta.
Ma quali sono le principali forme di posizionamento oggi
esistenti?
Non esiste una vera e propria classifica dei livelli di
complessità del posizionamento del brand. Nonostante tutto è
possibile individuare l’esistenza di una sorta di “gerarchia del
placement” che, anche se di natura generica, può essere molto
utile a livello rappresentativo.
Questa gerarchia è stata esposta al pubblico da Mark
Workman, presidente della First Fireworks, durante il secondo
appuntamento del convegno Product Placement: cinema e
brand si incontrano, tenutosi a Milano l’11 Ottobre 2005.
Brand Entertaiment
Il prodotto diventa protagonista.
Product
Integration
Product Placement
Vengono messi in evidenza
elementi caratterizzanti del prodotto.
Semplice presenza del prodotto.
Il primo livello, quello del Product Placement, è anche il più
comune e si basa sulla semplice presenza del brand o del
prodotto all’interno della scena (ad esempio un cartellone
84
pubblicitario o una lattina di una bibita appoggiata sul bancone
di un bar).
Il secondo livello – Product Integration – prende in
considerazione caratteristiche peculiari del prodotto e li rende
parte integrante della storia (ad esempio i personaggi di Man in
Black non sono contraddistinti solo dall’abito nero, ma anche
da riconoscibilissimi occhiali Rayban).
Il terzo livello – Branded Entertaiment – consiste nella
trasformazione del prodotto stesso nella star, il protagonista
della storia (uno degli esempi migliori è sicuramente Toy Story
in cui tutti i personaggi sono giocattoli della Playskool e della
Mattel).
Durante il convegno, Workman ha sottolineato che, mentre in
America ci si ritrova oggi ad applicare un posizionamento
appartenente al terzo livello, in Italia la sua applicazione è
ancora ferma al primo stadio. L’intenzione di fare di più, di
superare i propri confini, comunque, esiste, è viva e forte tra i
diversi addetti ai lavori. Ad esempio già nel maggio del 2005 si
parlava della possibilità di realizzare quello che in America
viene chiamato Product Tie-In per un film prodotto dalla
Really Good Productions di Valerio Zanoli. Il film in questione
è The Minis, la storia di nani che giocano a basket, e riguardo
all’applicazione di questa forma di Product Placement Zanoli si
esprime in questi termini:
Negli Stati Uniti il valore del Product Placement è dato dalle molteplici
operazioni di promozione legate al film. E per questo ho pensato di
esportare lo stesso format anche in Italia. Ed è proprio seguendo la filosofia
del cross promotion che svilupperemo le nostre partnership: Blockbuster
realizzerà una promozione ad hoc in occasione dell’uscita del film,
Autogrill e Spizzico daranno vita ad un “Mini Menu”, così come i
supermercati Sma, utilizzando le immagini e i contenuti legati alla pellicola
per una raccolta punti. E anche Tim sarà presente in tre scene per
promuovere un servizio di telefonia mobile. (...) E c'è ancora spazio per
altre operazioni commerciali dentro e fuori la sceneggiatura di The Minis. I
85
nani sono dei testimonial perfetti per molti marchi. (...) Di solito un buon
Product Placement può arrivare a coprire il 5%-10% dei costi di produzione.
Con The Minis, nonostante manchi ancora del tempo all'inizio delle riprese,
sono molti i nomi di aziende già sponsor del film e il loro investimento
contribuisce per il 30% al costo totale per la realizzazione della pellicola.
Una performance alla Steven Spielberg.
E’ vero che questa iniziativa ancora non è partita – nonostante
il lancio del film fosse stato previsto per Gennaio 2006 – ma
sicuramente si tratta di un chiarissimo esempio dello sforzo
dimostrato dagli esperti del settore italiani nell’applicazione di
questa tecnica e delle sue forme più avanzate. Uno sforzo che
ha avuto anche le sue concretizzazioni nella realizzazione di un
Brand Entertaiment da parte dell’impresa Lavazza, con la
realizzazione, su Italia 1, di minifilm ispirati a Carosello. Dopo
30 anni infatti Lavazza ripropone Carmencita e Caballero, in
chiave attualizzata, sotto forma di sit-com “ultracorta” (2
minuti e mezzo), a partire dal 14 ottobre 2005, ogni venerdì
alle 19,15. Si tratta di una grande dimostrazione dello spirito di
iniziative che regna negli ultimi anni su questo tema,
considerando anche che, mentre in America l’applicazione di
questa tecnica avviene ormai da decenni, in Italia la sua
“legalizzazione” è avvenuta solo a partire dal 2004.
Per quanto possa apparire come un sistema arretrato,
l’utilizzazione del Product Placement all’interno del contesto
nazionale italiano ha riscosso e riscuote tuttora un notevole
successo, come è dimostrato da film come L’uomo perfetto,
Melissa P., Il mio miglior nemico o La cura del gorilla.
86
Conclusioni.
Siamo giunti alla fine di questa tesi. Abbiamo analizzato un
fenomeno complesso e articolato come il Product Placement e
il suo processo di integrazione all’interno del contesto
commerciale e cinematografico italiano. E solo adesso è
possibile riportare alcune importanti considerazioni su questo
fenomeno. L’impatto che questa tecnica ha avuto sul sistema
italiano è stato senza dubbio molto forte; un impatto che ha
prodotto effetti in più settori.
E’ vero che l’art. 9.3. del Decreto Urbani ha trasformato – e in
alcuni casi agevolato – il modus operandi di imprese
commerciali, case di produzione e agenzie di comunicazione,
ma è anche vero che i sui effetti non si riducono al solo
ambiente commerciale. Si pensi per esempio all’assetto
normativo e a come la liberalizzazione del Product Placement
abbia permesso di abbattere definitivamente un antico tabù che
vedeva la pubblicità come un fattore che negava la nazionalità
italiana. Si tratta quindi di una norma che ha modificato col
suo avvento non solo il modo di agire, ma anche un modo di
pensare e di rapportarsi ad un specifico fenomeno come,
appunto, quello pubblicitario.
Si tratta comunque di una trasformazione che non poteva
tardare ancora ad arrivare; gli ultimi 50 anni, infatti, hanno
visto l’evoluzione di un nuovo modo di concepire il contenuto
dello spettacolo al quale il pubblico sceglie di esporsi, un
evoluzione basata sull’appagamento, da parte dello spettatore,
non solo di interessi puramente ludici (oserei dire quasi
spirituali...) ma anche interessi, diciamo, “sociali”, basati sulla
conoscenza dei fattori che caratterizzano la propria società, tra i
quali la merce; si pensi per esempio a Carosello, e alla sua
capacità di integrare al divertimento del “pezzo”
l’informazione del “codino”. Ovviamente Carosello in questo
87
frangente non risponde completamente a questa trasformazione
ma ne rappresenta semplicemente il punto di partenza in Italia.
Con la comparsa dello spot pubblicitario negli anni ’70 e
l’esplosione creativa degli anni ’80 la tendenza di integrare
informazione sul prodotto e “storia” verrà da una parte
appagata del tutto, ma provocherà, dall’altra, una saturazione
del flusso disponibile, e la nascita di un sensazione di fastidio
nei confronti della presenza pubblicitaria. Questi due elementi
diventeranno il cruccio dei creativi a partire dagli anni ’90:
come veicolare l’immagine pubblicitaria verso il grande
pubblico in maniera efficace e alternativa, senza però arrecare
fastidio?
Un problema che, sì, ha riguardato l’Italia, ma si è esteso anche
oltre i nostri confini e all’interno delle tecnologie della
comunicazione più disparate. Si pensi per esempio
all’evoluzione della struttura di internet, che negli ultimi anni
ha assunto la dimensione del portale, all’interno del quale
informazione richiesta e pubblicità si integrano perfettamente.
Il Product Placement in Italia è, possiamo dire, figlio di questa
necessità: mostrare al pubblico un prodotto attraverso le scene
di un film integra perfettamente informazione e contenuto,
senza per questo provocare fastidio nello spettatore, poiché si
inserisce all’interno di un flusso continuo.
Oggi, a due anni dalla promulgazione del Decreto Urbani,
molti passi avanti sono stati fatti e molte barriere sono state
abbattute; ma è anche vero che siamo ancora agli inizi.
E’ vero, infatti, che case di produzione cinematografica come
la Cattleya e la Colorado Film hanno dimostrato un’apertura
pressoché immediata a questa tecnica, riscontrando in essa una
possibile fonte di finanziamento alternativa, ma e anche vero
che si tratta ancora di casi sin troppo isolati per poter essere
giudicati come rappresentativi di un sistema in rapida ascesa.
Quello che serve nell’immediato è una maggiore apertura nei
88
confronti di questa tecnica, una maggiore predisposizione nei
suoi confronti, una maggiore capacità di osare.
E se dal lato delle case di produzione esiste ancora una leggera
diffidenza, sul versante delle agenzie di comunicazione
l’interesse nei confronti del Product Placement appare sin
troppo eccessivo. Troppe agenzie, infatti, con competenze o
meno, inserite nel settore o aspiranti tali, hanno deciso di
lanciarsi in questo business, generando anche una forma di
confusione
sul
mercato.
Dal
punto
di
vista
cinematografico/italiano la presenza di decine di agenzie di
comunicazione e Product Placement appare piuttosto eccessiva;
sarebbe più auspicabile pensare ad un assetto organizzativo su
questo frangente caratterizzato da poche agenzie che si
dividono il lavoro su quei pochi film che nell’arco dell’anno
vengono annunciati come pellicole di sicuro successo al
botteghino.
Per quanto riguarda le imprese commerciali, invece, ritengo
che esse rappresentino, più degli altri due settori, l’effettivo
ago della bilancio tra il successo e il fallimento del Product
Placement cinematografico italiano. E’ vero che esistono oggi
imprese come Pasta Garofalo o Luxottica che hanno investito
parte del proprio budget in comunicazione proprio
sull’applicazione del posizionamento cinematografico del
brand, ma è anche vero che esiste una profonda sfiducia del
settore più strettamente commerciale nei confronti della
cinematografia all’italiana. Ancora troppe sono le imprese che
si dimostrano diffidenti nei confronti di questa tecnica di
marketing, e non semplicemente per il fatto di non rintracciare
in essa alcuna potenzialità pubblicitaria, ma più nello specifico
perché non vedono nel cinema italiano uno strumento
sufficientemente forte da poter offrire un’immagine del proprio
prodotto altrettanto forte. E come ulteriore riprova di ciò basta
dare un’occhiata al cinema americano: a Hollywood ben 7 film
89
su 10 mostrano prodotti e marchi made in Italy. Secondo uno
studio operato da Eta Meta Research, in un caso su tre si tratta
di Product Placement, mentre due volte su tre a scegliere i
marchi italiani è la produzione, che al contrario paga per
l'utilizzo del prodotto – come è avvenuto, per esempio per il
caso The Aviator in cui lo stesso Martin Scorsese ha chiesto a
Giorgio Armani di creare gli occhiali da sole per i protagonisti
del suo film ispirandosi alla “Golden Age” americana degli
anni '30 ed allo stile di Howard Hughes, il miliardario-aviatoreproduttore interpretato da Leonardo Di Caprio. Un caso,
questo, che dimostra, oltre a quanto detto sulla maggior fiducia
delle imprese commerciali italiane nei confronti del cinema
americano rispetto a quello italiano, anche lo spirito di
iniziativa delle case di produzione nei confronti del Product
Placement che dovrebbe rappresentare un modello per tutti gli
altri paesi. Dare maggior fiducia alla cinematografia italiana è
inoltre un elemento utile al fine di eliminare problemi
interpretativi come quelli che si sono verificati per il film
L’uomo perfetto nel quale compare in una scena un pacco di
patatine San Carlo, impresa con la quale non esisteva alcun
accordo di Product Placement ma che ne garantì comunque
tutti i vantaggi del caso. Secondo Enrico Pacciani, questi casi
anomali saranno risolvibili solo in futuro, quando, appunto,
molte più imprese decideranno di dare fiducia al Product
Placement (italiano) permettendo così di effettuare maggiori
selezioni.
La promulgazione del Decreto Urbani sta quindi modificando
in maniera piuttosto evidente il panorama cinematografico
italiano ed ha rappresentato, e sta rappresentando tuttora, un
ottimo esempio di rinnovamento. Tuttavia ritengo che il
successo del Product Placement in Italia, in tempi non troppo
lontani, non interesserà tanto il mercato cinematografico
quanto piuttosto quello televisivo. Si pensi che in America nel
90
2005, vi è stato un aumento degli investimenti in modalità
Product Placement pari al 23% (arrivando così a una cifra pari
a 4,24 miliardi di dollari) di cui la metà proveniente dal
Product Placement televisivo. E, alla luce di questi dati, e
considerato inoltre il grande successo che negli ultimi anni ha
caratterizzato in Italia la produzione di fiction televisiva, non si
può non prendere in seria considerazione l’idea di uno sviluppo
di questa forma di Product Placement anche nel nostro paese.
Come abbiamo più volte sottolineato in questa tesi – e come è
possibile rintracciare anche negli allegati – il Product
Placement televisivo in Italia è ancora vietato; ma è anche vero
che qualcosa ha cominciato ha muoversi verso la sua
liberalizzazione: il 13 dicembre 2005 la Commissione Europea
ha approvato uno schema di aggiornamento per la direttiva
sulla “Tv senza frontiere” del 1989 che tiene conto dei
progressi fatti in questi anni sui linguaggi e sulle tecnologie
televisive e che, cosa più importante per questa tesi, intende
legittimare il Product Placement nei programmi televisivi a
eccezione dei programmi per bambini e di quelli informativi.
La direttiva proposta dal Commissario lussemburghese Viviane
Reding deve passare all’esame dell’Europarlamento e del
Consiglio dei ministri.
Liberalizzare il Product Placement televisivo in Italia
permetterebbe alle imprese commerciali, inoltre, di esorcizzare
la paura proveniente dall’arrivo in Italia del cosiddetto
dispositivo Tivo, il videoregistratore con funzione di kill spot,
ossia capace di eliminare la pubblicità sia dalla regolare
programmazione che dall’eventuale registrazione del
programma.
Le vere fonti di guadagno provenienti dal Product Placement
applicato in Italia potrebbero arrivare quindi non dal settore
inizialmente liberalizzato (quello cinematografico, appunto),
ma dai settori in via di liberalizzazione (quello televisivo). E
91
anche da un altro settore, nel quale l’applicazione delle
tecniche di Product Placement è notevolmente aumentato negli
ultimi tempi: il settore dei videogiochi. Gli investimenti in
Product Placement nel settore dei videogiochi è proiettato a
una crescita maggiore rispetto ad altri settori. E’ prevista una
crescita del 22.2%, corrispondente a un fatturato di 40,4
milioni di dollari nel 2005. Il settore videogiochi rappresenta
oggi il 10.1% del totale Product Placement.
Per quanto riguarda infine le forme di placement applicabili in
Italia, la considerazione di Workman secondo la quale il nostro
paese si ritrovi a fare ancora Product Placement basato sulla
semplice presenza del brand, a differenza del sistema
americano che ragiona nei termini di Brand Entertaiment, è un
osservazione che oggi deve assolutamente essere rivista. Il
sistema italiano, infatti, da questo punto di vista ha già
dimostrato interesse (si pensi al convegno del 29 e 30
Novembre 2005 tenutosi a Milano sul rapporto esistente tra
Brand Entertaiment e Media Digitali, la Digital Entertaiment
Conference 2005, durante il quale si è affrontato il tema delle
nuove strategie di valorizzazione dei marchi all'interno di film
e all'interno di trasposizioni di film), propensioni all’azione (si
pensi al Product Tie-In previsto per The Minis) e risultati
effettivi (il Brand Entertaiment realizzato da Lavazza su Italia
1).
In conclusione, ritengo che il Product Placement si presenti, dal
punto di vista cinematografico, come un mezzo capace di
offrire grossi margini di crescita a un sistema così altalenante
negli ultimi anni, mentre, dal punto di vista non
cinematografico – e televisivo in particolare – si presenta come
un sistema molto forte, di enormi potenzialità, e margini di
crescita non indifferenti... una vera e propria opportunità
economica per il nostro paese.
92
Appendice
Il marketing cinematografico.
Introduzione.
Partiamo innanzitutto da una definizione-standard: quella di
marketing1.
Il marketing è un processo di pianificazione e realizzazione
delle attività di concepimento, attribuzione del prezzo,
promozione e distribuzione di idee, beni e servizi destinati a
creare scambi allo scopo di soddisfare obiettivi degli individui
e delle organizzazioni.
Facendo, quindi, riferimento alle 4 P del marketing-mix
(Product, Price, Place e Promotion – Prodotto, Prezzo,
Distribuzione e Promozione) la nuova definizione considera
“prodotto da vendere” non più il solo prodotto “tangibile”, ma
anche un comportamento o un’attività di un’istituzione.
“Prodotto da vendere” diventa, a questo punto, anche un film;
quindi, per quanto possa apparire banale,
il marketing cinematografico non è altro che l’applicazione di
appropriati strumenti di marketing all’interno del contesto
cinematografico.
Il cinema, oggi, è un’impresa che compete sul mercato con altri
beni e servizi, i quali hanno come scopo principale quello di
accaparrarsi il tempo libero della popolazione. E la
La definizione è del 1985 e nasce sotto la spinta dell’American Marketing
Association come alternativa alla definizione ufficiale del 1960 – il
marketing si identifica con lo svolgimento di tutte le attività aziendali che
servono a far muovere il flusso dei beni e dei servizi dal produttore al
consumatore o utilizzatore.
1
93
competizione non è soltanto esterna al settore, ma anche
interna: l’ultimo film della casa di produzione A deve fare i
conti, contemporaneamente, con programmi televisivi,
videogiochi, libri, spettacoli teatrali, ed altro – concorrenza
esterna – ma anche con i film in uscita nello stesso periodo
realizzati dalle case di produzione B, C, D, e così via –
concorrenza interna.
Inoltre, il prodotto cinematografico è un cosiddetto benesperanza, un prodotto la cui utilità agli occhi del consumatore
si palesa solo dopo il consumo. Il potenziale consumatore ha
bisogno quindi di essere rassicurato sul prodotto che desidera
acquistare attraverso molteplici informazioni provenienti dai
canali più disparati: ed è qui che entra in gioco il marketing
cinematografico.
Gli elementi riportati sinora dimostrano quanto sia importante
il continuo riferimento allo spettatore cinematografico lungo
l’intero processo gestionale del film, dalla produzione alla
distribuzione all’esercizio, e giustifica l’applicazione di
determinati strumenti capaci di agevolare il processo di vendita
di uno specifico prodotto (filmico).
Analisi del nuovo spettatore cinematografico.
Perché si parla oggi dell’esistenza di un nuovo spettatore
cinematografico?
Il motivo principale risiede nello spostamento del polo di
attrazione che il pubblico percepisce nei confronti del cinema.
Quando i Lumiere offrirono al pubblico L’arrivo del treno alla
stazione di Ciotat, l’elemento centrale era la cosiddetta
“mirabilia tecnologica”, l’esaltazione della capacità di uno
strumento come il cinematografo di proiettare sullo schermo
un’immagine in movimento, talmente “reale” da terrorizzare il
“giovane” spettatore cinematografico.
94
La spettacolarità tecnica del grande schermo ha subito una
battuta d’arresto nel momento in cui il cosiddetto “cinema
paesaggista2” non è stato più sufficiente a catturare l’interesse
del pubblico. Lo spettatore non si accontenta più del semplice
movimento delle onde del mare, ma cerca una storia, un
racconto, una proiezione che non “mostri” semplicemente, ma
“comunichi”.
L’altalena tra il cinema/spettacolo tecnico e il cinema/racconto
si è protratta negli anni fino ad arrivare alla condizione attuale,
in cui sia la storia che l’effetto speciale rendono lo spettacolo
cinematografico degno di essere visto in sala3.
Oggi, in particolare, lo spettatore cinematografico è divenuto
uno dei fattori determinanti che il marketing cinematografico
tiene in considerazione, proprio perché la crescita dell’interesse
per il contenuto filmico ha portato alla nascita del sistema dei
generi, e, di conseguenza, alla segmentazione del pubblico
cinematografico – in cui, appunto, ciascun individuo, attratto
da un particolare genere, ne diventa “suo pubblico”.
“Promuovere” un film non basta, bisogna “venderlo” ad un
target specifico. Per questo motivo conoscere lo spettatore
cinematografico di oggi diventa determinante.
2
La proiezione su grande schermo di specifici paesaggi come ad esempio il
mare.
3
Il tutto unito all’evoluzione della sala stessa e alla nascita del cosiddetto
“multisala”, in cui la visione del film si unisce a tutta una serie di altre
attività legate al tempo libero.
95
La personalizzazione del consumo di cinema.
Come abbiamo accennato in precedenza, l’utente
cinematografico non è più “omogeneo”, “indifferenziato”,
bensì è caratterizzato da parametri socioeconomici alti, il cui
comportamento di acquisto risulta fortemente diversificato e
connotato sul piano personale.
Da un lato il consumatore è maturato rispetto al passato,
acquisendo maggiore indipendenza, e, dall’altro, i mercati si
sono trasformati, diventando micro-mercati, nei quali si
ritrovano prodotti destinati a micro-universi differenziati tra di
loro.
Il cinema degli esordi era il medium e la forma di spettacolo
più diffusa. La televisione, poi, ha sostituito il cinema in questo
suo ruolo sociale, e recarsi nella sala cinematografica per
vedere un film è diventata una scelta mirata, precisa e
consapevole.
Lo spettatore non vede più il cinema come “la scelta” bensì
come “una possibile scelta”.
Dal “consumatore cinematografico” al “consumatore
filmico”.
Fino alla fine degli anni ’40, negli USA, e fino alla prima metà
degli anni ’60, in Europa, la domanda di cinema era di tipo
“passivo”; la sala rappresentava un luogo di aggregazione e la
visione dello spettacolo costituiva un modo estremamente
economico di impiegare il tempo libero.
In questa fase lo spettatore voleva semplicemente vedere un
film al cinema: esso era quindi un consumatore
cinematografico.
Con il cambiamento delle condizioni di vita generali,
l’incremento del reddito, la nascita di attività di tempo libero
alternative, e anche la nascita della televisione, lo spettatore
diventa consumatore filmico, interessato a vedere un film,
96
anche in un contesto diverso da quello della sala
cinematografica.
Consumo “aperto” e consumo “mirato”.
Il consumo “mirato” rappresenta il consumo di un servizio a
pagamento i seguito all’acquisto di supporto tecnologico
necessario. In questo caso, il consumatore sarà un piccolo
gruppo o addirittura un solo individuo. Questa forma di
consumo si stacca completamente dalla sala cinematografica.
Al consumo mirato si contrappone quella fruizione aperta,
tipica delle televisioni generaliste. In questo caso, anche se la
natura generalista di queste televisioni provoca una
segmentazione del pubblico, il consumatore sarà comunque un
numero particolarmente elevato di individui.
97
Il brand.
Brand’s Attack!
Quando io mi sveglio la mattina la prima cosa che faccio è
quella di staccare la sveglia del mio Motorola. Subito dopo mi
alzo e vado in bagno, mi faccio una doccia mi lavo i capelli col
Fructis e il corpo con l’Axe. Poi mi lavo i denti col mio AZ
mentre in cucina è quasi pronto il Lavazza.
Dove voglio arrivare?
Non è sicuramente mia intenzione volervi raccontare nel
dettaglio tutta la mia giornata-tipo momento per momento...
Quello che voglio fare è dimostrarvi che un uomo medio come
me, ancor prima di uscire di casa la mattina, si ritrova ad essere
al centro di un vero e proprio attacco mirato da parte di
molteplici marche e prodotti. Sono in piedi da mezz’ora, non
mi sono nemmeno vestito, e sono già stato “colpito” da cinque
brand!
E l’attacco diventa ancora più incisivo e incessante quando
accendiamo la televisione, quando ci colleghiamo in rete, o
quando, semplicemente, usciamo di casa per andare a scuola,
all’università, al lavoro, ovunque.
Sembrerebbe un estremismo, eppure un brand, oggi, e parte
integrante della nostra vita così come lo è un parente o un
amico. Si tratta di una situazione inevitabile; immaginate un
mondo privo di marchi: non avremmo forse a che fare con un
mondo piatto, monocromatico, asettico... alla Matrix?
Accettare l’attacco del brand al quale siamo sottoposti vuol
dire accettare una parte della nostra vita fatta di oggetti con un
nome, un’identità (psicologica e fisica), una forza e un valore
con i quali noi tutti cresciamo, interagiamo e, soprattutto,
scegliamo di interagire. Ha proprio ragione la recente
98
campagna pubblicitaria che su tutte le reti offre al pubblico lo
slogan Le tue marche, la tua storia.
Il brand come stimolo pubblicitario.
I brand fanno quindi parte della nostra vita, e fin qui ci siamo.
Ma, come la differenza che esiste tra un amico e un conoscente,
così anche i brand non hanno tutti la stessa importanza nella
nostra vita. Io stesso la mattina uso l’AZ come dentifricio e non
il Colgate... questo perché il valore che do al primo è diverso
da quello che do al secondo.
Ma come fa una marca ad affermarsi rispetto alle altre nella
mente del consumatore?
Il brand, così come qualsiasi altro stimolo pubblicitario, segue
un itinerario che prevede 6 passaggi:
1. Attraverso l’azione dei mass media volta a superare le
difficoltà ambientali (“rumori” fisici e semantici) e
quelle soggettive del pubblico, il messaggio è esposto al
soggetto prescelto. La percezione dell’azione dei mass
media rappresenta già di per sé un primo esempio di
successo dato l’affollamento di brand nel nostro tempo.
2. All’esposizione segue l’elaborazione: un altro effetto
molto dipendente dal soggetto e dalla categoria
strategica adottata dalla marca. Si tratta di una fase in
cui, all’effetto del brand si uniscono tutte le altre
politiche aziendali, quelle del marketing mix, e
parallelamente continuano le influenze di tutta la
restante industria culturale e della soggettività
dell’individuo.
3. All’elaborazione segue l’apprendimento, di cui la
pubblicità può essere da sola la maggiore responsabile.
Il soggetto apprende, si costruisce una sua immagine
99
del prodotto/marca, acquisisce una certa conoscenza e
percepisce una certa forza della marca (band power).
4. Alla struttura di un’immagine segue l’effetto azione, un
atto preparatorio alla scelta e poi l’acquisto vero e
proprio.
5. L’insieme di queste azioni costituisce l’effetto delle
vendite di marca (sell out) che ci permette di
raggiungere il livello finale…
6. …, ossia il profitto da parte dell’impresa.
Dato che il tema centrale in questo momento è rappresentato
dal brand, la fase sulla quale risulta più interessante soffermarsi
è quella dell’apprendimento. Subito dopo essere stati esposti al
brand, e averlo elaborato, inizia, quindi il processo di
apprendimento, il quale parte dalla brand awareness (o
conoscenza della marca) fino a giungere alla brand equity (o
valore della marca).
Brand Awareness.
La conoscenza della marca rappresenta la base stessa
dell’apprendimento. Se dire Just do it è sufficiente per capire di
che cosa stiamo parlando, vuol dire che la conoscenza che noi
abbiamo della Nike è particolarmente forte. Esistono
comunque diversi livelli che danno la dimensione di quanto
una marca sia riuscita a farsi conoscere, dalla pubblicità
classica ad altre forme di comunicazione (sponsorizzazioni,
promozioni, ... product placement), dalla distribuzione al
packaging.
Tra tutte, però la misura più selettiva è quella della brand
saliency, ossia se e quanto una marca supera le concorrenti nel
venire in mente spontaneamente. La prima marca che viene
citata parlando di una determinata categoria è detta top of mind.
L’insieme delle citazioni rappresenta la conoscenza spontanea
totale della marca in questione. Non bisogna trascurare però
100
che non tutte le marche vengono sempre in mente
spontaneamente, ma, a volte, hanno bisogno di uno stimolo.
Alcune invece vengono ricordate solo perché il consumatore
entra in contatto con esse in prossimità dell’acquisto(in questo
caso non si parla proprio di ricordo ma di riconoscimento).
L’insieme di tutte le marche citate rappresentano infine la
notorietà totale, o Global Brand Awareness.
Global Brand Awareness
Riconoscimento
Ricordo Aiutato
Ricordo Spontaneo
Top of mind
seconda, terza, …
Brand Identity.
L’identità di marca è un vero e proprio processo di costruzione
e di messa a punto del brand che avviene ad opera del
management. E’ soltanto grazie all’identità che la marca prende
forma, s’investe di un contenuto, si rende concreta, vitale ed
afferrabile. Esiste uno schema che può aiutarci a capire quali
siano gli elementi caratterizzanti di un’identità di marca: il
modello di Kapferer.
2) La marca come luogo fisico. Un insieme di
caratteristiche oggettive significative, caratteristiche che
vengono subito alla mente o che restano latenti,
sommerse, ma ugualmente importanti (l’uomo Moretti,
il Blu per la Barilla, la mela della Apple, …).
3) La marca e la sua personalità. Da quando inizia a
comunicare la marca acquista un carattere (Marlboro è
serena, Telecom è simpatica, …).
101
4) La marca come universo culturale. Deve possedere un
sistema di valori profondo (si pensi al Power to the
people della Apple, ispirato alla cultura est della
California). Troppo spesso, però la pubblicità si
concentra più sulla personalità che sul suo universo
culturale, essenziale invece nell’istituire la relazione
prodotto/marca e nel legittimare il comportamento della
marca stessa (Adidas incarna la cultura dello sport
serio, sofferto, di squadra, mentre Nike quella dello
sport spettacolare, popolare, individualista). Il paese
d’origine può essere una buona riserva per la cultura di
marca (il made in Italy della Barilla come gioia di
vivere, piacere e creatività).
5) La marca come relazione. (Barilla aggrega la famiglia,
Apple comunica unione e intesa, IBM assicura ordine).
6) La marca come riflesso. In questo caso si tratta
dell’immagine esteriore che il brand dà del proprio
utilizzatore ideale (Mercedes riflette un passeggero con
autista, BMW una persona direttamente alla guida).
7) La
marca
come rappresentazione
mentale.
Rappresentazione di una relazione interiore tra il
consumatore e se stesso (l’acquirente della Porsche che
vuole provare a se stesso di “potercela fare”).
Brand Image.
La costruzione di una marca di successo passa attraverso la
costruzione dell’immagine di marca, una successione molto
precisa di percezioni del consumatore, la prima delle quali è
rappresentata dalla Diversità. Diversità, ossia distinzione di
una marca da tutte le altre; essa rappresenta quello che
possiamo definire il motore della marca. A seconda dei
punteggi rilevati in Diversità distinguiamo le marche in due
grandi categorie. Da una parte le up and coming brands,
marche che si caratterizzano per un alto livello di Diversità;
102
dall’altra le marche mature che mostrano un punteggio
piuttosto basso in Diversità: è il caso delle cosiddette marche
commodity, di uso quotidiano.
Dopo la Diversità viene la Rilevanza, ossia l’adattabilità della
marca alle esigenze personali dei consumatori. Se una marca
non è di reale beneficio ai consumatori, non è corrispondente ai
loro bisogni, difficilmente riuscirà ad attrarli, e tanto meno a
mantenerli, o almeno non in gran numero.
La combinazione tra Diversità e Rilevanza rappresenta la
Vitalità di una marca, il suo potenziale di crescita nel futuro.
La Diversità permette alla marca di nascere, la Rilevanza
determina la sua misura dell’espansione.
Il terzo indicatore rappresentato dalla Stima; essa cresce nei
consumatori nel momento in cui gli sforzi affrontati per
costruire una diversità rilevante hanno successo. Quando questi
sforzi raggiungono il culmine, si assiste al passaggio al quarto
e ultimo indicatore: la Familiarità. Essa non significa soltanto
conoscere la marca, ma anche comprendere pienamente quello
che la marca rappresenta, fino a considerarla parte integrante
del proprio ambiente.
La combinazione tra stima e familiarità dà la Statura della
marca, la sua attuale grandezza.
La brand image del prodotto è rappresentata dalla
combinazione finale tra Vitalità e Statura, che viene indicata
col termine di Power Grid.
Brand Equity.
La brand equity rappresenta una visione estesa della brand
image; indica il valore effettivo della marca. Quindi non solo
quello legato alle percezioni del consumatore, ma anche il suo
valore finanziario. Sembra un gioco di parole, ma la marca ha
valore quando introietta e trasmette forti valori. La marca ha
valore se, e in quanto, riesce a sedimentarsi con un’identità
chiara, distintiva e coinvolgente nella mente del consumatore.
103
Il concetto di customer oriented brand equity (COBE) parte
proprio da questo assunto. La forza della marca, la sua capacità
di produrre ricchezza, la sua equity si basa in realtà su ciò che
il consumatore ha appreso, visto, sentito, percepito,
sperimentato personalmente nel tempo. La COBE si attiva
quando il consumatore elabora un elevato livello di conoscenza
e familiarità con la marca che riesce a sedimentare nella sua
mente un ricco patrimonio di associazioni positive in maniera
consistente e duratura.
La brand equity è la struttura latente e la risultante di una
catena sillogistica che prende avvio dalla percezione della
marca da parte dei consumatori (come cioè la marca vive nella
mente del consumatore), che ne influenza la soddisfazione in
funzione dei comportamenti di consumo, che a sua volta genera
la fedeltà ed è capace di trasformarli in alto-consumanti e ad
elevato tasso di frequentazione della marca, attraendo anche i
consumatori più Floaters.
Tangibile
Attributi
percepiti
Intangibile
Heavy buyers
Customer
satisfaction
Fedeltà
Valore
della marca
Floaters
La fedeltà è quindi rapportabile alla soddisfazione del
consumatore che, a sua volta, è funzione del plesso di attributi
associati alla marca e percepiti dal suo pubblico. Si crea così
una catena causale che, oltre a determinare la fedeltà, influisce
su gli Heavy buyers e riesce a intercettare i Floaters.
104
Un esempio di brand equiy: la Coca Cola.
La Coca Cola è un prodotto che firma una banale soft drink.
Metà del suo nome (Cola) è un nome generico di cui tutti
possono impossessarsi, l’altra metà è vagamente inquietante ed
allude a un lontano passato in cui l’estratto delle foglie di coca
c’era realmente. Eppure è divenuta in tutto il mondo una marca
di culto. Ed è riuscita persino a contrastare grandi trend socioculturali che altrimenti ne avrebbero decretato un pressoché
certo declino.
La forza del marchio è ben sintetizzata dalle vicende che
accompagnano gli esordi della New Coke. Nel 1985, il
management della Coca Cola, dopo una serie di test sul
gradimento del pubblico che avevano rilevato la netta
preferenza per una variante di gusto optò per lo storico cambio
di formula. Facendo oggetto di una massiccia comunicazione il
nuovo prodotto, ribattezzato New Coke, e ritirando quello
originario dal mercato, ai vertici della Coca Cola-Company
erano sicuri di riuscire ad arginare il calo delle quote di
mercato e di accontentare il pubblico, con un gusto nuovo e
superiore. Invece, quando fu dato l’annuncio ufficiale, le
reazioni furono così drammaticamente negative da indurre
l’azienda a reintrodurre precipitosamente la vecchia versione
con il nome di Coca Cola Classic. Eppure i test condotti dalla
Coca Cola erano assolutamente inequivoci: la nuova
formulazione non solo risultava decisamente preferibile
rispetto a quella commercializzata, ma si era dimostrata anche
del tutto superiore rispetto alla sua grande concorrente, la
Pepsi. Il gusto più gradevole era stato immediatamente
declassato in quanto percepito come attentato all’integrità della
marca, al suo statuto costitutivo. Reintroducendo la
tradizionale Coca Cola e ammettendo quello che nei manuali
viene definito come “il più grande errore di marketing di tutti i
105
tempi”, Donald Keough, chief operating manager di Coca
Cola, si espresse in questi termini:
La passione per l’originale Coca Cola – questa è la parola giusta, passione
– ci ha davvero colti di sorpresa. E’ stato meraviglioso. E’ un meraviglioso
mistero tutto americano, un enigma americano che non si può misurare
come non si può misurare l’amore, l’orgoglio e il patriottismo.
106
Provvedimento n. 5945. Fuochi d’Artificio
(30/04/1998).
Un consumatore ha denunciato come pubblicità non trasparente l'immagine
della autovettura marca Mercedes, modello “classe A”, apparsa nel film
Fuochi d'Artificio, di e con Leonardo Pieraccioni. Nella scena in questione,
in un primo tempo viene inquadrata la protagonista mentre esce e si
allontana da un'autovettura per poi dirigersi verso l'attore. Nella stessa
inquadratura è possibile scorgere, in margine allo schermo, il marchio
Mercedes-Benz. Successivamente, nella stessa scena, si può cogliere, alle
spalle del primo piano dell'attrice, l'immagine sfocata dell'autovettura. Al
fine di acquisire specifici elementi di valutazione, l’Autorità Garante ha
richiesto alla Mercedes Benz Italia Spa, in qualità di presunto committente e
a Cecchi Gori Group Fin. Ma. Vi. Srl, quale presunto coautore, di fornire
una documentazione relativa ad eventuali accordi, stipulati tra le due
società, connessi all'utilizzo dell’autovettura nel film. L’Autorità ha
richiesto, inoltre, di acquisire una copia della sceneggiatura del film e una
copia degli storyboard utilizzati nella predisposizione della sequenza in
questione.
Vediamo ora le osservazioni fondamentali esposte dalla Mercedes Benz
Italia Spa in propria difesa:
- la Mercedes-Benz Italia ha consegnato la vettura alla Cecchi Gori
Group non per conseguire finalità pubblicitarie, ma nell'ambito di
un puro e semplice rapporto di cortesia, esistendo tra le due società
buone relazioni commerciali, dal momento che la Mercedes-Benz
Italia investe in spazi pubblicitari, evidentemente non in esclusiva;
- la Mercedes-Benz Italia non ha fatto ricorso a pubblicità occulta al
fine di lanciare una vettura che non era ancora stata
commercializzata al momento della realizzazione del film. Infatti,
al momento della proiezione, “la classe A” era già nota al pubblico
grazie a un'ampia campagna promozionale operata da MercedesBenz Italia;
- non è obiettivamente sostenibile che la Mercedes-Benz Italia abbia
fatto ricorso a un “frame” di pochi secondi per lanciare il suo
prodotto, dopo aver pianificato una campagna pubblicitaria
all'insegna dello slogan "Contatto diretto", che aveva interessato la
stampa periodica e quotidiana, televisione, radio, circuiti
cinematografici, affissioni e volantinaggio, per un investimento di
circa tredici miliardi di lire.
107
Con riferimento all'inquadratura contestata, la Mercedes-Benz Italia
Spa sostiene che la stessa non risulta mai artificiosa e innaturale,
essendo occasionale e determinata da esigenze tecnico-narrative:
- la vettura è inquadrata solo per pochi secondi, il tempo
strettamente necessario alla narrazione, e occupa un posto
secondario nella scena, come dimostrato dalla circostanza che
la macchina da presa non indugia né sulle caratteristiche
esterne né su quelle interne;
- il marchio compare solo per frazioni di secondo e neppure in
primo piano, così da rendere impossibile all'osservatore
soffermarsi su di esso;
- durante il colloquio tra i due attori, la vettura si intravede sullo
sfondo, cosicché l'immagine della “Classe A” è sfocata e non
consente di apprezzarne alcuna caratteristica; inoltre, la vettura
risulta coperta dal primo piano dell'attrice;
- al termine della sequenza la macchina da presa non indugia
sulla protagonista, che si allontana presumibilmente a bordo
della vettura in questione, ma si sofferma sul volto dell'attore;
- l'attrice, nel contesto del film, è un soggetto connotato
negativamente e pertanto da ritenersi palesemente inidoneo ad
accreditare positivamente il marchio e la vettura, in modo tale
da escluderne l'attitudine promozionale.
Secondo la Cecchi Gori Group Fin. Ma. Vi. Srl non esiste alcun accordo di
Product Placement con la Mercedes-Benz Spa e osserva, inoltre, che la
scena oggetto del procedimento non può essere qualificata come pubblicità
non essendo funzionale a promuovere la vendita della vettura, in quanto:
- la scena in questione non è affatto nitida, è al contrario una scena
notturna e risulta pertanto buia;
- il modello dell'autovettura è difficilmente individuabile, se non con
attentissimo studio da parte di un esperto;
- l'utilizzo di una vettura nuova è previsto dalla sceneggiatura ed è
funzionale alle caratteristiche narrative del film;
- per la scena in questione è stata utilizzata una vettura di cui vi era
disponibilità, e, se si fosse utilizzata una vettura di un'altra marca,
si sarebbe potuta contestare la pubblicità occulta di quella marca.
Alla luce dei fatti e delle verifiche svolte, il Garante ha considerato che,
sebbene la circostanza che sia stata utilizzata un'autovettura non ancora
commercializzata al momento in cui veniva girato il film deponesse a
favore dell'intenzionalità pubblicitaria, alcuni elementi importanti non
potevano essere trascurati:
108
-
l'auto è stata inquadrata nel corso di un'unica scena;
il marchio commerciale non è stato messo in particolare evidenza;
l'inquadratura non risulta ravvicinata, prolungata, priva di
naturalità e artificiosa, ovvero avulsa dal contesto narrativo.
In conclusione, il Garante, in questo caso, non ha ritenuto il fatto punibile ai
sensi dell’4.1. del Decreto 74/92.
109
GIURI’ – 21 Gennaio 1997 – Pres.
BALDASSARRE – Est FLORIDIA – Comitato di
Controllo c. Ford Italia S.p.a. (avv. Imperiali) e
Publitalia ’80 S.p.a.
Non si è in presenza di una comunicazione pubblicitaria o di una forma di
product placement qualora un’autovettura, acquistata presso un
concessionario all’insaputa della casa produttrice e senza altra
collaborazione da parte di quest’ultima, venga presentata, priva di marchi di
fabbrica, come premio nel corso di una trasmissione televisiva; né
espressioni elogiative della vettura presentata come premio e la
riconoscibilità del modello costituiscono elementi presuntivi, idonei a
supplire alla mancanza della prova storica del rapporto di committenza.
1. Con istanza in data 20/12/1996, il Comitato di Controllo ha chiesto al
Giurì di pronunciarsi nei confronti della Ford Italia S.p.a. e di Publitalia ’80
imputando loro di aver trasmesso sulla rete televisiva Italia 1 di Mediaset,
l’1/12/1996, un programma di intrattenimento intitolato “Non dimenticare
lo spazzolino da denti”, nel quale – secondo l’opinione del Comitato – è
collocata la pubblicità dell’automobile Ford “Ka” senza che tale pubblicità
sia distinta per mezzo di idonei accorgimenti dal contenuto del programma
di intrattenimento. Per questa ragione il Comitato ritiene che vi sia stata una
violazione dell’art. 7 CAP.
Descrivendo più in dettaglio la fattispecie dedotta, il Comitato rileva che la
nota conduttrice Ambra Angiolini invita una signora del pubblico a
partecipare a un gioco consistente nel trovare il telecomando che possa
aprire e quindi vincere l’automobile nuova che viene mostrata: appunto una
Ford “Ka”. Il gioco prevede anche la distruzione pezzo per pezzo della
vecchia auto della signora fino a quando quest’ultima non abbia trovato il
telecomando giusto per aprire la nuova auto. All’interno dello spazio
dedicato a questo gioco l’automobile Ford “Ka” viene inquadrata più volte e
la conduttrice si riferisce ad essa con chiare espressioni di contenuto
pubblicitario e promozionale.
Secondo il Comitato di Controllo si tratta di pubblicità camuffata perché
non riconoscibile come tale e perciò viene chiesto che sia dichiarata in
contrasto con l’art. 7 del Codice e che ne sia ordinata l’immediata
cessazione.
E’ pervenuta memoria illustrativa della Ford Italia S.p.a. in data 13/1/1997,
con la quale viene richiamata l’attenzione del Giurì sul fatto che la casa
110
automobilistica è stata non soltanto totalmente estranea alla preparazione
della trasmissione ma anche del tutto all’oscuro del contenuto dei giochi
effettuati nel corso della trasmissione stessa. La Ford prosegue
sottolineando di non aver ricevuto alcuna proposta riguardante la
trasmissione in questione e di non aver effettato televendite in nessuno dei
programmi delle reti Mediaset nel corso del 1996, e probabilmente, anche
nel corso degli anni precedenti.
Avendo presa visione del filmato la Ford ha notato che il suo marchio, posto
sul cofano della “Ka” è stato coperto con materiale dello stesso colore della
carrozzeria nell’esemplare utilizzato per la trasmissione: dal che la Ford
deduce che la Mediaset non avesse alcuna intenzione di pubblicizzare la
vettura, il cui aspetto, peraltro, all’epoca della trasmissione non era certo
ancora familiare al pubblico dei consumatori, trattandosi di un modello
nuovo e appena lanciato sul mercato.
La Ford ha sottolineato infine che la vettura è stata acquistata ai fini della
trasmissione dalla società Videotime presso la concessionaria Dama S.r.l.
con sede in Cologno Monzese ed è stata pagata al prezzo di mercato.
La Ford ha allegato alla sua memoria una dichiarazione della Ogilvy &
Mather S.p.a. la quale conferma che per tutto il 1996 non sono state
proposte, acquistate e pagate nell’interesse della Ford televendite in nessuno
dei programmi delle reti Mediaset e che l’attività svolta dall’agenzia
nell’interesse della Ford tramite la concessionaria Publitalia ’80 è consentita
unicamente nell’utilizzo di spazi pubblicitari “tabellari” normalmente
inseriti nei break e acquistate alle normali tariffe di mercato. La Ford ha
allegato alla sua memoria anche una dichiarazione di Sabina Gregoretti
produttore esecutivo della Rti fatta pervenire a Vincenzo Ponterlo di
Publitalia ’80 che chiedeva spiegazioni in ordine alla trasmissione televisiva
oggetto della vertenza. Sabina Gregoretti ha confermato che l’automobile
Ford “Ka” messa in palio nel gioco televisivo è stata regolarmente
acquistata e fatturata dal concessionario, che il premio è stato assoggettato
al normale trattamento tributario, che il nome e il marchio dell’automobile
non sono stati visualizzati nel corso della trasmissione che il prezzo pagato
è stato quello di mercato.
E’ pervenuta memoria difensiva di Publitalia ’80 in data 13/1/1997 con la
quale è stato chiesto al Giurì di riconoscere che la comunicazione
denunciata non è qualificabile come pubblicità e perciò non viola alcuna
norma del Codice di Autodisciplina. Ciò in quanto:
- sia Publitalia che Ford Italia S.p.a. sono completamente estranee
alla comunicazione oggetto dell’istanza;
111
-
nessun rapporto di commissione è inoltre intervenuto nemmeno tra
Rti, cioè l’editore proprietario del mezzo e la Ford;
- la visualizzazione dell’auto è avvenuta per libera, autonoma e
unilaterale scelta della società responsabile del programma,
motivata unicamente da esigenze editoriali rientranti nella sfera di
libertà di espressione dell’editore;
- l’analisi degli elementi formali e sostanziali della comunicazione
rivela una serie continua di avvertenze e di strumenti
comunicazionali orali e visivi perfettamente coerenti con la natura
non pubblicitaria della comunicazione stessa.
Alla memoria di Publitalia ’80 sono allegate le dichiarazioni dei sigg.
Massimo Gervasio della Rti e Giovanni Gatti della Videotime che
confermano che l’automobile oggetto della trasmissione è stata
regolarmente acquistata dalla concessionaria.
2. Nella seduta all’uopo appositamente convocata del giorno 21/1/1997
sono comparsi: per il Comitato di Controllo il prof. avv. Giorgio Ferrari; per
la società Ford Italia S.p.a. l’avv. Andrea Imperiali; per Publitalia ’80 il dr.
Alessandro Morselli, la dr. Valeria Tosi e il dr. Davide Cacciatore; per Rti
Videotime il dr. Massimo Gervasio e il dr. Stefano Longhin.
La discussione orale ha avuto inizio con l’intervento del prof. Ferrari per il
Comitato di Controllo, il quale ha esordito affermando che, per ritenere
violato il divieto pubblicità camuffata, non è necessario che sia stato
concretamente concluso un pactum sceleris fra Publitalia e Ford, e cioè un
patto preordinato consapevolmente al camuffamento della pubblicità, ma è
sufficiente che l’operazione posta in essere, per come programmata e
realizzata, sia tale da fare luogo oggettivamente a un effetto promozionale a
beneficio di un prodotto che, appunto per ciò, può ben dirsi pubblicizzato. Il
camuffamento della pubblicità infatti non consiste soltanto nel redigere un
messaggio in forme redazionali ma anche nel porre in essere il cosiddetto
product placement, collocando il prodotto in un programma a fini
promozionali. In questo senso – secondo l’oratore – si è pronunciato il
Garante della concorrenze e del mercato con il provvedimento n. 3304. Con
questo provvedimento il Garante ha ravvisato la violazione dell’art. 4 del
decreto legislativo contro la pubblicità ingannevole (norma parallela all’art.
7 del Codice di Autodisciplina) nel caso di un servizio televisivo dedicato
alla nuova vettura Fiat denominata “Barchetta”: servizio trasmesso nel
corso di una trasmissione intitolata “Videosapere”. In questo servizio
compaiono dapprima alcune scene del film di Dino Risi Il sorpasso nelle
quali la protagonista è una vettura spider degli anni ’60 e subito dopo vi
sono le inquadrature della nuova spider Fiat “Barchetta”. La società Fiat ha
112
negato che si trattasse di una pubblicità camuffata osservando che
l’argomento della trasmissione era il design industriale e che, proprio in
funzione di questo argomento, nel contesto della trasmissione è comparsa
l’automobile “Barchetta” come la prima spider italiana di serie prodotta
dopo la “Duetto”, famosissima spider degli anni ’60. La società Fiat negato
che si fosse trattato di pubblicità camuffata osservando altresì che questo
illecito postula un rapporto di committenza tra l’inserzionista e il medium
che nelle specie non era in alcun modo sussistente. Avuto riguardo a questo
caso, il prof. Ferrari ha evocato il principio teorizzato nell’occasione dal
Garante secondo il quale “l’affermazione della reale natura promozionale di
una pubblicazione può prescindere dall’effettivo accertamento
dell’esistenza di un rapporto di committenza fra impresa e proprietario del
mezzo di diffusione, quando lo scopo promozionale, possa desumersi anche
da altri elementi presuntivi, purché questi siano gravi, precisi e
concordanti”. Il prof. Ferrari ha sottolineato infine che, secondo il Garante,
la natura pubblicitaria del servizio può essere desunta dal vantaggio
reciproco che le parti traggono dall’utilizzazione e diffusione del materiale
filmato predisposto in quell’occasione dalla società Fiat: quest’ultima infatti
diffonde il materiale pubblicitario e ne riceve un vantaggio indiretto
promuovendo attraverso una trasmissione ad ampia diffusione l’immagine
della propria autovettura; la Rai, a sua volta, ottiene un risparmio nella
realizzazione di programmi dedicati all’informazione e alla cultura in
genere, in quanto occupa gli spazi di una trasmissione “contenitore”
utilizzando del materiale filmato già predisposto da altri. In questo senso è
stata ritenuta dal Garante irrilevante l’argomentazione dedotta dalla Rai,
secondo la quale il servizio in questione sarebbe stato dedicato al disegno
industriale italiano considerato come punta di diamante della creatività
italiana nel mondo, dal momento che in ordine al tema del design il servizio
non forniva alcuna informazione di carattere generale, trattando solo ed
esclusivamente della nuova vettura.
Replicando alle argomentazioni contenute nelle difese di controparte, il
prof. Ferrari osserva che, per escludere la fondatezza dell’istanza, non rileva
affatto che la Ford non faccia televendite sui canali Mediaset ma rileva che
faccia investimenti pubblicitari su queste reti per importi molto consistenti.
L’oratore ha citato la testimonianza di Mirella Pallotti, secondo la quale la
giornalista non ha alcuna libertà nello svolgimento della sua attività
professionale perché le viene imposto di esaudire i desideri degli
inserzionisti. Il programma per cui è causa è un programma a premio e
quando esso è polarizzato su di un premio costituito da un prodotto, per
questa sola ragione può essere considerato un programma pubblicitario. Il
113
fatto che sulla vettura della Ford presentata come premio nel programma in
questione il marchio posto sul davanti sia stato coperto non basta a
escludere la natura pubblicitaria della comunicazione stessa: perché anzi
questa copertura acuisce la curiosità dello spettatore e quindi l’effetto
promozionale che si voleva perseguire. La vettura è pienamente
riconoscibile anche se appena uscita sul mercato, dato che un servizio su di
essa era apparso sulla rivista specializzata “Quattroruote”: e questo dato
rivela l’effetto sinergico della recente apparizione sul mercato e
dell’adozione della vettura come premio nella trasmissione a fini,
naturalmente, promozionali.
La discussione orale è proseguita con l’intervento dell’avv. Imperiali
nell’interesse della Ford.
Anche il product placement – secondo Imperiali – postula la conoscenza del
fenomeno che si vuole realizzare da parte del produttore, mentre nel caso di
specie Ford non ha mai saputo nulla della trasmissione oggetto dell’istanza
fino a quando questa non è stata realizzata. E’ vero che il rapporto di
commissione può essere provato mediante presunzioni, ma queste devono
essere gravi, precise e concordanti. Nel caso di specie non vi sono
presunzioni di questo genere:
- la macchina non è affatto inquadrata con insistenza nel corso della
trasmissione;
- essa non era nota, poiché la notorietà di una vettura postula che ve
ne siano in circolazione almeno 35.000;
- l’utilizzazione di frasi come “bella macchina” non ha alcun
significato al fine di accertare la natura pubblicitaria della
trasmissione, proprio in quanto si tratta di frasi molto generiche e
che non descrivono nulla;
- il meccanismo competitivo posto in essere dalla trasmissione che
presenta una vecchia macchina da demolire per la sostituzione con
la nuova macchina Ford potrebbe far pensare a una pubblicità
comparativa se non fosse che si tratterebbe di una comparazione
impensabile fra due veicoli completamente eterogenei, perché uno
di essi è superato mentre l’altro è appena uscito sul mercato.
L’avv. Imperiali ha concluso il suo intervento sottolineando che la Ford non
avrebbe mai scelto di pubblicizzare la sua vettura con una tale trasmissione,
dal momento che il concetto promozionale seguito dalla Ford per la vettura
“Ka” è antitetico a quello che emerge dalla trasmissione, trattandosi di una
vettura che viene presentata essenzialmente come seconda macchina e non
come macchina per la famiglia.
114
La discussione orale è proseguita con l’intervento del dr. Morselli, che si è
riportato alla lunga memoria e che ha ribadito che nella specie non solo
mancano presunzioni gravi, precise e concordanti per affermare la natura
pubblicitaria della comunicazione ma esistono semmai presunzioni
contrarie alla tesi della pubblicità camuffata. L’oratore ha proseguito
ribadendo che la vettura è utilizzata nella trasmissione come premio e viene
presentata positivamente proprio in questa sua funzione di regalo.
Dopo le repliche le parti si sono ritirate per consentire al Giurì di deliberare.
3. Nel panorama delle fattispecie riconducibili fenomenologicamente
all’applicazione dell’art. 7 CAP quella che oggi viene sottoposta all’esame
del Giurì si caratterizza come una forma nuova di product placement: nel
senso che il prodotto compare nel corso di una trasmissione televisiva di
intrattenimento con una funzione diversa rispetto a quella di oggetto di
promozione pubblicitaria, vi compare cioè come premio che viene vinto dal
partecipante al gioco ricorrendo le condizioni previste la cui attuazione
anima il gioco stesso e realizza l’intrattenimento televisivo. Nell’affrontare
la disamini della fattispecie per come dedotta nell’istanza, Publitalia si
duole innanzitutto, molto insistentemente, di quella che chiama “tautologia
distorsiva” nella quale incorrerebbe il Comitato di Controllo, che parte dal
presupposto che la comunicazione costituisca pubblicità per poi giungere
alla conclusione che costituisce pubblicità con un ragionamento circolare e
chiuso, perché si conclude appunto con l’esatta ripetizione di ciò che era
stato dato per scontato sin dall’inizio: sicché alla fine, risultato e premessa
combaciano perfettamente e rimangono indimostrati in quanto indimostrati
e apodittici lo erano sin dall’inizio.
Sembra al Giurì che questa censura metodologica non sia condivisibile,
perché in realtà il Comitato di Controllo individua il fondamento
dell’istanza nel fatto che, all’interno della comunicazione, vi sono frasi
aventi un contenuto oggettivamente promozionali, le quali vengono
pronunciate in ambito di forte ambiguità comunicazionale, perché sospese
fra l’apparente anonimato della vettura adottata come premio e la
funzionalità rispetto alla conduzione del gioco. In altri termini nell’istanza
la comunicazione viene accusata di costruire un abile camuffamento della
sua natura promozionale mediante il meccanismo del gioco e
l’intrattenimento televisivo. Per contro nella discussione orale il Comitato di
Controllo, per bocca del prof. Ferrari, ha posto il fondamento dell’istanza in
un concetto alquanto diverso tratto dalla pronuncia 3304 del Garante della
concorrenza e del mercato emessa nel caso “Barchetta” Fiat secondo la
quale la natura pubblicitaria di una comunicazione può ben risultare dal
115
vantaggio reciproco dell’impresa il cui prodotto viene presentato nella
comunicazione stessa e del gestore del mezzo televisivo.
Queste, essendo le alternative giustificazioni che sono state addotte dal
Comitato nell’istanza e nella discussione orale per ottenere la censura del
Giurì, di esse occorrerà farsi carico nella motivazione che segue superando
l’asserita vacuità di una tautologia distorsiva che nella specie non sembra
appunto ravvisabile.
Sempre sul piano metodologico Publitalia ’80 si duole che non sia stata
convenuta nella presente vertenza la società Rti che pure è la società editrice
del programma dedotto come pubblicità camuffata: lacuna questa che ha
una rilevanza non soltanto formale ma soprattutto sostanziale, perché lede i
diritti della difesa nei confronti di un soggetto che pure fa parte del sistema
di autodisciplina pubblicitaria e la cui presenza è pienamente giustificata per
ciò solo che è in gioco la sua stessa programmazione televisiva. Non
evocando nel giudizio autodisciplinare la società Rti, il Comitato di
Controllo – secondo Publitalia – mostra di non ammettere alcun dubbio
circa il fatto che le immagini televisive “incriminate” siano state trasmesse
in uno spazio venduto da Publitalia e Ford e che per giunta questa vendita
sia stata fatta con la collaborazione necessariamente consapevole
dell’editore, senza che allo stesso venga dato modo di interloquire.
Nonostante questo rilievo sia sicuramente fondato, Publitalia ’80 non ha
chiesto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di Rti ritenendo di
poter svolgere adeguatamente la sua difesa anche senza l’intervento della
casa di produzione televisiva: ciò di cui il Giurì si limita a prendere atto.
Venendo alle ragioni addotte dal Comitato di Controllo per sostenere
l’applicabilità nel caso di specie dell’art. 7 del Codice, e in particolare alla
presenza nella comunicazione televisiva di espressioni elogiative della
vettura presentata come premio, reputa il Giurì che esse non siano
sufficienti per integrare gli estremi di una presunzione grave e precisa di
preordinazione pubblicitaria della comunicazione stessa.
Non sussistono innanzitutto elementi da cui desumere che la vettura Ford
sia stata offerta dalla casa automobilistica come premio per il partecipante
al gioco che abbia trovato il telecomando capace di aprire l’automobile. Al
contrario è stata allegata una dichiarazione di Massimo Gervasio, produttore
responsabile di Rti, secondo la quale la scelta della vettura è stata fatta
autonomamente dalla redazione e senza alcuno stimolo esterno. Inoltre, e
soprattutto, è stata data la prova documentale che la vettura è stata
acquistata presso un concessionario Ford ed è stata regolarmente pagata:
elemento questo certamente non risolutivo rispetto all’ipotesi di una
preordinazione dolosa spinta fino al punto di creare tutte le apparenze
116
necessarie per evitare l’accusa di camuffamento della pubblicità, ma tuttavia
non per questo priva di significato se quella ipotesi venga scartata in quanto
oggetto di un puro e semplice sospetto. Le espressioni elogiative adoperate
nel corso delle comunicazioni televisive sono proporzionate rispetto
all’obiettivo della valorizzazione del premio, dal momento che non si può
pretendere che un gioco a premi venga condotto senza incentivare
l’interesse dei partecipanti medianti valutazioni positive del premio che può
essere conseguito. La vettura che forma oggetto del premio viene mostrata
ma non indicata con la menzione del suo marchio di fabbrica e addirittura
dopo che il marchio è stato soppresso dalla parte anteriore: elemento anche
questo di per sé non decisivo ma solo a condizione di trasformare in realtà il
semplice sospetto di un accordo di camuffamento organizzato anche nei
minimi dettagli.
Ben diversa la seconda ragione addotta dal Comitato per sostenere
l’applicabilità nella specie dell’art. 7 CAP in sede di discussione orale. Qui
infatti è stato invocato il precedente del Garante nel caso della Fiat
“Barchetta” e in particolare il principio in questa occasione enunciato
secondo il quale “la mancanza di prova circa un accordo di committenza
formalizzato tra le parti non esclude che la natura oggettivamente
promozionale del servizio giornalistico possa desumersi dal vantaggio
reciproco che le parti hanno dall’utilizzazione e diffusione del materiale
filmato distribuito dalla società Fiat. A nessuno sfugge tuttavia che questo
precedente si riferisce a una fattispecie caratterizzata dal fatto che le
immagini filmiche utilizzate per mostrare la vettura della Fiat sono state
fornite dalla stessa casa automobilistica, la quale pertanto ha attivamente
partecipato alla realizzazione del servizio televisivo proprio in quanto ha
fornito tutte le immagini concernenti la vettura di sua fabbricazione. Questa
attiva partecipazione della casa automobilistica ha consentito al Garante di
ravvisare nella fattispecie un concorso in senso tecnico fra l’editore
televisivo e il fabbricante del prodotto, i cui comportamenti hanno
consentito a entrambi i soggetti di ricavare reciproco vantaggio. Come si è
ricordato, nella motivazione del Garante, il vantaggio della casa
automobilistica è stato quello di promuovere l’immagine della propria
autovettura, mentre il vantaggio dell’editore televisivo è stato quello di
occupare gli spazi di una trasmissione utilizzando del materiale filmato già
predisposto dalla casa automobilistica.
Non altrettanto può dirsi nel caso di specie, perché quivi nessun apporto, e
tantomeno l’apporto del materiale filmato, è stato dato dalla casa Ford, la
quale infatti può legittimamente sostenere senza essere smentita di non
avere saputo nulla della trasmissione televisiva nella quale è stata utilizzata
117
la vettura di sua fabbricazione come premio del gioco. Questa differenza
concernente gli elementi di fatto assume dunque un ruolo determinante ai
fini della decisione e comporta la necessità di escludere la presenza di
elementi presuntivi idonei a supplire alla mancanza della prova storica del
rapporto di committenza.
In altri termini e per concludere, tutti gli elementi di fatto concorrono a
configurare una situazione nella quale l’editore televisivo, agendo in modo
del tutto autonomo, ha scelto un prodotto inserendolo in una trasmissione di
intrattenimento e di gioco come premio e, per giunta, prendendo qualche
precauzione per ridurre nei limiti del possibile l’effetto promozionale che la
presenza del prodotto nella trasmissione inevitabilmente comporta. In
questa situazione il sospetto del Comitato di Controllo di una
preordinazione dolosa della trasmissione televisiva a fini promozionali non
può che rimanere tale e l’istanza che su di esso è fondata non può che essere
rigettata.
118
Il Product Placement come tecnica.
L’esordio del brand.
Come avviene l’integrazione di un brand o di un prodotto
all’interno di una sceneggiatura cinematografica?
Durante il III Convegno Internazionale “Le Tendenze del
Marketing”, tenutosi nel 2003, Daniele Dalli, professore
ordinario di Marketing presso l’Università di Pisa e Dottore di
Ricerca in Economia Aziendale ha risposto a domande del
genere.
Nel suo documento di presentazione intitolato “Product
Placement: oltre la pubblicità?” egli sottolinea l’esistenza di
almeno tre modalità di inserimento:
1) visuale – screen placement.
Il prodotto viene rappresentato visivamente (screen) in primo
piano, pienamente visibile dallo spettatore garantendo la
massima esposizione della marca. Può anche essere inserito
sullo sfondo, sia in interni che in esterni, come parte della
scenografia. In questo caso però è più difficile riconoscere il
prodotto4. Inoltre, nell’ambito dell’intero programma è
possibile combinare diverse modalità di inserimento, per
ottenere effetti più o meno intensi sullo spettatore.
2) verbale – script placement.
Meno frequente e meno evidente di quella visiva, la modalità
verbale consiste nel far parlare del prodotto dai personaggi del
programma o del film. Anche in questo caso i livelli di
esposizione sono differenti: il prodotto può essere l’oggetto di
una discussione tra i protagonisti, uno frazione casuale di
conversazione tra due passanti, un break pubblicitario di una
Problema risolvibile attraverso l’elevata frequenza o con la lunghezza del
periodo di esposizione. Ma anche in base alle caratteristiche del prodotto,
quali logo o packaging.
4
119
trasmissione radiofonica. Vale anche in questo caso la regola
della ripetizione. Bisogna comunque precisare che il solo
inserimento verbale è raro: esso viene spesso associato a quello
visuale.
3) integrato – plot placement.
Esso consiste nel costruire la sceneggiatura in modo tale da
attribuire al prodotto un ruolo sostanziale nello sviluppo della
storia; in alcuni casi il prodotto può arrivare ad essere
addirittura il protagonista5.
Commerciale, Culturale o Casuale?
Alla luce di quanto visto sinora, il Product Placement inteso
come posizionamento del brand o del prodotto in un contesto
non proprio ha radici molto profonde nel tempo, ben più
lontane del concetto stesso di Product Placement dal punto di
vista commerciale.
D’altra parte è sempre stato difficile costruire una determinato
racconto scindendo il fatto stesso dalla moltitudine di prodotti e
marchi che popolano la vita di tutti i giorni; raccontare una
storia in cui una ragazza ordina al bar una “bevanda gassata”
non apparirebbe veritiera come quella della stessa ragazza che
ordina una “Coca”.
Quindi, se da una parte il posizionamento del brand o del
prodotto può essere legato ad accordi tra imprese e case di
produzione, dall’altra parte la presenza di quei brand o di quei
prodotti può essere legata a una semplice casualità, oppure
avere un valore di natura simbolica, ma priva di alcun fine
commerciale.
Escludendo il cosiddetto Product Placement Commerciale –
del quale abbiamo parlato sinora – possiamo precisare che il
posizionamento del brand nel film può avere altre due nature:
a) Intenzionale.
5
Un esempio è Harbie, il maggiolino tutto matto del 1968.
120
Si parla in questo caso di Product Placement Culturale poiché
registi e sceneggiatori decidono di utilizzare consapevolmente
prodotti e marchi, talvolta in modo positivo, altre volte in modo
neutro, altre volte in modo negativo o critico, e ciò perché
questi oggetti costituiscono importanti vettori di significato, per
via della loro diffusione tra il pubblico, al pari di altri simboli
più tradizionali. Per questo motivo, per esempio, Nanni Moretti
in Caro Diario gira per Roma – città-simbolo della tradizione
nel mondo – proprio con una Vespa – mezzo-simbolo della
tradizione automobilistica italiana6.
b) Casuale.
Si parla di Product Placement Casuale quando la comparsa di
quel particolare brand o prodotto durante la scena non era stata
prevista, ma viene comunque mantenuta. Ad esempio, il bus
che passa dietro all’attore nel momento in cui attraversa la
strada mostra una pubblicità non voluta, non prevista, appunto,
casuale.
Un interessante caso di Product Placement: Fight Club.
Applichiamo adesso quanto visto nei paragrafi precedenti al
film Fight Club, un interessante caso cinematografico che
descrive una vicenda personale piuttosto intricata e intrigante
(lo sdoppiamento di personalità del protagonista combattuto tra
il grigio impiegato Jack e l’esuberante aspirante terrorista
Tyler) abbinata a una lettura critica della moderna società
americana.
Vediamo adesso alcuni dei placement presenti nel film:
6
Non sono da escludere comunque i casi in cui Product Placement
Commerciale e Culturale coincidono.
121
Esterno, sullo
sfondo. Jack insegue
Tyler per tutti gli Stati
Uniti e in questa
panoramica si riconosce
il logo American
Airlines sulla coda di un
aereo.
Interno, sullo
sfondo. Jack è al
ristorante con Marla,
dove scopre nuovi adepti
della setta di Tyler: sulla
macchina del caffè e a
destra, su un tavolo, si
notano vari barattoli di
Pepsi.
Interno, in primo
piano. Jack insegue
Tyler e, nel corridoio, fa
bella mostra di sé un
distributore di Pepsi in
posizione strategica.
Interno, in
primissimo piano. Il
bicchiere di Starbucks
scorre a destra e sinistra
sul piano mobile di una
fotocopiatrice.
122
Nelle mani di un
protagonista. Jack e
Tyler bevono Bud dopo
essersi presi a cazzotti
Nelle mani di un
personaggio
minore. Il compagno
di terapia di gruppo di
Jack, anche lui assoldato
da Tyler ha in mano una
scatola di ciambelle
Krispy Kreme.
Ognuno di questi rappresenta esempi di Product Placement
Commerciale. Bisogna però precisare che:
1) I prodotti o i marchi del gruppo Anheuser Busch (Budweiser
e Busch) appaiono 7 volte, al pari di Pepsi, ma questa non
viene mai collegata ai protagonisti che, invece, in due
occasioni bevono Bud e in una Busch. 2) Non esistono
concorrenti di categoria: non compare altra birra che non sia
Bud (salvo alla fine, ma si tratta di Busch, che appartiene allo
stesso gruppo) e neppure una lattina di Coca Cola, il che non
sembra propriamente in linea con l’esigenza di realismo spesso
citata a supporto della necessità del Product Placement7.
Ma il film presenta anche casi interessanti di Product
Placement Culturale. Vediamone alcuni.
7
Sul piano commerciale, il ruolo di questi inserimenti si giustifica in
funzione della loro efficacia sulla notorietà e sull’atteggiamento, ma la
trama e le singole scene non sarebbero diverse se al loro posto fossero
inseriti prodotti di altre marche.
123
Attacco al consumismo.
Tyler spiega a Jack che il vero problema è il consumismo:
Tyler: “siamo consumatori, siamo sottoprodotti di uno stile di vita che ci
ossessiona, …, quello che mi spaventa sono le celebrità sulle riviste, la
televisione con 500 canali, il nome di un tizio sulle mie mutande, i farmaci
per capelli, il viagra”.
Jack: “Martha Stewart”.
Tyler: “A quel paese Martha Stewart. Martha sta lucidando le maniglie sul
Titanic, va tutto a fondo, bello. Perciò a quel paese anche te e il tuo
divanetto a strisce. … Le cose che possiedi, alla fine ti possiedono. Fa’
come vuoi, bello!”
L’astio di Tyler è rivolto verso il sistema e verso gli effetti che
esso ha sugli individui, ma per metterlo in discussione servono
elementi concreti che vengono identificati nel consumismo,
nella comunicazione di massa e in beni di consumo ben precisi
(il divano).
I love Ford.
Jack e Tyler cominciano a mettere in pratica atti di vandalismo
sempre più efferati, ma con le auto manifestano un
atteggiamento selettivo: la prima è una Bmw e la prendono a
mazzate, la seconda è una Ford e la risparmiano, mentre la
terza (un nuovo maggiolino Volkswagen) viene preso di mira.
E’ improbabile che ci sia un messaggio nazionalista o
protezionista dietro all’accanimento nei confronti delle auto
tedesche (Bmw e Vw), mentre è più verosimile l’associazione
delle auto straniere (di grande marca o alla moda) allo stile
iperconsumistico che Jack e Tyler odiano, mentre la cara
vecchia Ford viene risparmiata in quanto rappresentante del
ceto medio americano. In molti altri film questo brand viene
rappresentato come espressione di valori medi, quando non
mediocri, e associato a persone di buon carattere e ben disposte
verso gli altri. Comunque appartenenti a una classe sociale
124
piccolo borghese che non ha grilli per la testa, né soldi da
buttare per una macchina di grido8.
La moda.
Sul bus Jack e Tyler sogghignano davanti alla pubblicità di
Gucci. Jack fa dell’ironia sul modello della fotografia “così
dovrebbe essere un uomo?” e Tyler inveisce contro Calvin
Klein e Tommy Hillfiger. La moda è uno dei settori messo in
discussione esplicitamente: è uno dei canali di comunicazione
più importanti tra il mondo dei consumi e la cultura di massa e
ha effetti significativi sui comportamenti individuali. Gli autori
non possono risparmiarlo e si concentrano su tre nomi di
grande prestigio che vengono considerati alla stregua di
corruttori di coscienze.
8
Ecco un caso in cui un prodotto assume un significato particolare
all’interno del film alla luce della sua brand identity.
125
Oltre il Product Placement cinematografico.
Fino ad ora abbiamo parlato di Product Placement riferendoci
sempre e comunque allo stretto ambito cinematografico. Ma,
nella
definizione
di
Product
Placement
riportata
nell’introduzione del primo capitolo si parlava di
“posizionamento del brand/prodotto all’interno di contesti
apparentemente inusuali”; ciò vuol dire che questo discorso
vale sì per il cinema, ma non solo. Riportiamo una breve
rassegna che mostri tutti i casi di Product Placement non
cinematografico9.
Product Placement e fiction.
In Italia il Product Placement nelle fiction è considerato ancora
illegale e avviene tramite il cambio-merce, o “comodato d’uso
gratuito”, cosa che, però, non fornisce garanzie alle aziende
coinvolte e a volte può comportare un posizionamento
dannoso. La televisione non è mai stata a guardare, è, anche se
al momento è più orientata alla pubblicità vera e propria, si
cominciano a vedere i primi casi di Product Placement anche in
alcune serie TV. La TV italiana non potrà sottrarsi ancora per
molto, quindi, all’applicazione di tecniche di Product
Placement attraverso accordi economici tra imprese
commerciali e case di produzione.
Product Placement e telefilm.
Sta assumendo proporzioni dilaganti negli USA e non solo. Da
24 a C.S.I., da Buffy ad Alias, da Ally McBeal a Will & Grace...
in ognuno di essi si ritrovano posizionamenti da manuale.
Riportiamo un esempio. Nella prima serie di 24 tutti i buoni
usavano computer Apple mentre i cattivi usavano Dell. Le cose
Sulla legalità o meno di questi posizionamenti, si veda l’intervista all’avv.
Michele Lo Foco, capitolo II.
9
126
però cambiarono leggermente nella seconda e terza serie, anche
perché, spiegato questo trucco, sarebbe stato inevitabile
scoprire immediatamente i doppioghiochisti rovinando così
gran parte delle sorprese.
Product Placement e show televisivi.
Anche questa è una tecnica molto sfruttata negli USA; sono
molti infatti gli studi televisivi che espongono cartelloni
pubblicitari, oppure talk show durante i quali vengono offerte
note marche di whisky. In Italia questa tecnica è sottoposta a
divieto, anche se non mancano numerosi casi ambigui. Un caso
molto interessante riguarda il reality show di Italia 1 Campioni,
il sogno. I protagonisti sono calciatori che giocano per la
squadra del Cervia, continuamente ripresi dalle telecamere,
dentro e fuori dal terreno di gioco.
Come tutte le squadre di calcio, anche il Cervia aveva i suoi
sponsor. Ma in questo caso se ne sono visti in maniera
esagerata. Per il Cervia – una squadra di Eccellenza – si sono
mossi Vodafone, Adidas, Seat, Grana Padano, Technogym,
Beretta, Pringles, e così via. Non si trattava in questo caso di
semplice sponsorizzazione sportiva, proprio perché esisteva un
elemento differenziale rappresentato dalla presenza televisiva.
In questo caso, la presenza di grosse aziende a sostegno di un
contesto “inconsueto” rispetto ai propri canoni d’azione – ossia
la categoria di Eccellenza – non è legato al settore sportivo ma
al reality show: la semplice sponsorizzazione diventa così
Product Placement.
Product Placement e cartoni animati.
La citazione di marche all’interno dei cartoni animati avviene
soprattutto in Oriente, negli anime per adulti, ma anche in
cartoon per bambini come ad esempio la saga cinese del
maialino McDuffy, piena di sponsor disegnati a tutto schermo.
Ma l’Italia non resta a guardare: “Yo-Rhad, un amico dallo
127
spazio” è il primo lungometraggio d'animazione italiano a
contenere product placement. Il cartoon di Camillo Teti e
Victor Rambaldi, con personaggi e scenografie del celebre
Carlo Rambaldi e le musiche di Lucio Dalla, uscito nelle sale
italiane il 14 Aprile 2006, ospita una scena animata contenente
il videotelefono di Telecom Italia e gli occhiali Luxottica.
Product Placement e fumetti.
In questo caso molti band servono per caratterizzare i
personaggi, altri compaiono in alcuni fumetti più o meno
regolarmente. Bisogna però sottolineare che non sempre si
tratta di veri e propri Product Placement Culturali, ma, a volte,
abbiamo a che fare con pure e semplici “licenze artistiche”.
Product Placement e software.
I brand possono essere presenti in molti software, ma il primato
di questo genere di posizionamento spetta sicuramente ai
videogiochi. In questi casi si assiste, per esempio, alla
sponsorizzazione dei propri atleti virtuali da parte delle marche
tradizionali, altre volte, invece, vengono inseriti cartelli o
oggetti che possono servire al protagonista del gioco nel corso
della sua avventura. In Italia la FIAT ha deciso di investire
nell’in-game advertising così come ha già fatto la
DaimlerChrysler e tra le operazioni per lanciare la grande
Punto si prevede il suo inserimento nel videogioco più famoso
del mondo: Need for Speed.
Ma l’ultima frontiera nel campo dei videogiochi con pubblicità
è stata varcata in Internet con la nascita degli advergames. Si
tratta di giochi estremamente semplici nella struttura che
nascono essenzialmente come spazio pubblicitario. Qualsiasi
azienda quindi può rendere il proprio prodotto o il proprio
brand protagonista di un’avventura in rete.
128
Product Placement e video musicali.
Molti critici considerano il video musicale come una sorta di
cortometraggio. Appare quindi ovvia la possibilità di sfruttare
questi spazi come spazi pubblicitari; senza contare che il video
offre un vantaggio in più rispetto al film o al normale
cortometraggio: la reiteratività della trasmissione.
Il video musicale può inoltre “ospitare” un prodotto e agire da
cross promotion contemporaneamente; e non in modalità
imitativa, bensì in maniera del tutto originale. Una delle ultime
tendenze in questo campo è quella di inserire nel video scene
del film e, insieme ad esse, anche delle scene del tutto inedite,
create appositamente, coi cantanti nella parte degli attori,
quindi, coinvolti nelle vicende. Un ottimo esempio lo hanno
dato sia Larry Mullen & Adam Clayton che i Limp Bizkit
rispettivamente per le colonne sonore di Mission Impossible e
Missione Impossible 2.
Product Placement e pubblicità.
Si tratta più che altro di un’evoluzione della normale
pubblicità, fatta di vere e proprie marche inserite e mostrate in
tutta la loro bellezza all’interno di prodotti completamente
diversi. Un esempio rappresentato dallo spot del panno
Sweefer all’interno del quale viene inserito anche il promo del
film, da poco uscito nelle sale allora, Le cronache di Narnia. In
questa categoria potremmo inserire anche la cosiddetta
“pubblicità comparativa”. Si pensi a Tele2 che nella propria
pubblicità paragona le proprie tariffe quelle di Infostrada e
Telecom. Anche se è vero che in questo caso la pubblicità di
cui usufruisce la concorrenza è negativa, come qualcuno è
solito dire oggi: non è importante che se ne parli bene o se ne
parli male... l’importante è che se ne parli!
129
Product Placement e arte.
Il Product Placement nell’arte è molto simile alla
sponsorizzazione visto che molte multinazionali finanziano, di
tanto in tanto, il lavoro degli artisti: il prodotto viene
rappresentato all’interno dell’opera o addirittura serve per
costruire l’opera, quando non è lui stesso l’opera. Vediamo due
esempi.
Nel 1997 il padiglione giapponese della Biennale di Venezia
ospitò l’opera Megadeath, dell’artista Tatsuo Miyajima, che
attraverso 2400 contatori digitali rappresentava la vita:
l’accensione dei contatori cresceva a poco a poco, finché questi
scoppiavano fino a spegnersi completamente, in una sorta di
uccisione di massa. Poi si ricominciava da un singolo contatore
seguito dalla lenta riaccensione degli altri. Un’opera di sicuro
effetto visivo fatta anche grazie al contributo della Casio, il cui
logo appariva all’entrata.
Al Pac di Milano, nell’estate del 2001, è invece comparsa
un’opera dell’artista svizzera Sylvie Fleury, consistente in una
stanza completamente buia, le cui pareti erano coperte da
enormi lamette da barba fosforescenti e sul fondo veniva
trasmesso un filmato in cui tre top model, con tute della
Mercedes, gioivano di un’ipotetica vittoria, inondandosi con
bottiglie di Moet e Chandon.
Nel primo caso il marchio esterno, per evidenziare la sua
collaborazione nella costruzione dell’opera, serviva per
dimostrare l’estrema precisione e la potenzialità delle
attrezzature Casio, nel secondo i due marchi all’interno
dell’opera della Fleury rappresentavano, insieme alle top
model, l’oggetto del desiderio, il massimo che si possa
raggiungere, la cui strada è però disseminata dalle enormi
difficoltà rappresentate dalle lamette.
Product Placement e fotografia.
130
Si tratta di una tecnica abbondantemente diffusa. Perde molte
caratteristiche del Product Placement tradizionale, ma
l’attenzione dello spettatore è comunque garantita. Di solito si
utilizzano riviste specializzate, da quelle di arredamento, per
poter piazzare televisori, stereo, bicchieri, soprammobili e
tovaglie, fino a quelle come “Playboy”, dove si può far posare
una playmate mentre scende nuda da una macchina di lusso, o
più semplicemente mettendo ai suoi piedi una bottiglietta di
Coca Cola come è stato fatto per Barbara Moore nel paginone
centrale di “Playboy” del dicembre 1992.
Product Placement e letteratura.
Si tratta di un caso piuttosto arduo da interpretare. Non è
semplice infatti capire quando il posizionamento è frutto di
accordi oppure è una semplice libertà artistica dell’autore.
I libri maggiormente sottoposti al Product Placement sono i
bestseller gialli, horror e spy, visto l’ampio consumo.
Si potrebbe segnalare un favoloso caso di Product Placement
letterario perfino nell’Ulisse di James Joyce. Neanche in questo
caso è possibile stabilire quanto lo scrittore irlandese fosse
influenzato dalla Guinness, ma il fatto che scriva, nel quinto
capitolo, che se i preti potessero scegliere metterebbero la
Guinness nel calice al posto del vino risulta uno dei più
azzardati casi di Product Placement della letteratura.
Il caso recente più importante è sicuramente The Bulgari
Connection (2002), che comincia appunto all’interno del
Bulgari di Londra, dove affascinanti ragazze vendono al
miliardario Barley Salt uno splendido gioiello del valore di 18
mila sterline.
Product Placement e spettacoli teatrali.
Anche il palcoscenico si offre come un ottimo mezzo per
veicolare brand e prodotti. I piazzamenti vanno studiati a
seconda della sceneggiatura e i prodotti possono essere
131
all’interno della scenografia (ad esempio l’enorme freezer della
Coca Cola sul palco del The Rocky Horror Show), citati o
addirittura offerti agli spettatori.
Product Placement e celebrità.
Il Celebrity Endorsement è un fenomeno che vive nel mondo
dell'alta moda da sempre. I fattori di successo di una campagna
di Celebrity Endorsement partono dalla scelta del testimonial,
che deve avere caratteristiche affini al brand e al prodotto da
associare. Secondo una recente ricerca, il numero di campagne
che utilizzano celebrità sono raddoppiate negli ultimi 10 anni.
L'incremento è forte soprattutto nel settore del lusso, che
comprende anche gioielleria, automobili, motocicli, liquori e
soprattutto alta moda. Ad esempio, Versace prima e
Dolce&Gabbana poi hanno utilizzato la cantante Madonna per
anni.
132
Intervista a Michele Lo Foco.
Quali sono state le conseguenze in Italia in seguito alla
promulgazione del “Decreto Urbani”?
Le conseguenze principali sono state due: innanzitutto un
divieto, che prima esisteva, viene meno. Mentre in passato la
normativa riteneva il Product Placement – e in generale la
pubblicità stessa – come un rimedio ostativo al riconoscimento
della nazionalità italiana, dal 2004 questo non è più vero.
Inoltre l’introduzione di questa forma di libertà economica si
presenta come un nuovo fattore di produzione.
Il Decreto Urbani non solo quindi rende lecito ciò che fino ad
allora era considerato illecito, ma gli attribuisce anche una
nobiltà. Discorso pubblicitario e fattori di produzione
acquisiscono egual valore. Il decreto 28/2004 nella sua
semplicità introduce due concetti, quello di garbo e quello di
trasparenza.
Prima del 2004 una pubblicità ufficiale all’interno di uno
spettacolo cinematografico avrebbe reso impossibile ottenere la
nazionalità italiana del film. Per questo veniva fatta in maniera
clandestina, in modo da poter guadagnare qualcosa senza
incorrere nel divieto. Questa mentalità della pubblicità occulta
(o clandestina) ha permeato talmente tanto l’industria
cinematografica nazionale da rendere molto difficile il
passaggio da “clandestino” a “ufficiale”. Noi abbiamo molti
operatori clandestini che riescono a ragionare in termini di
clandestinità e pochi che riescano a farlo in termini ufficiali.
Questo perché l’attitudine, l’uso di voler fare le cose di
nascosto in realtà ha creato una forma di imprenditore occulto
che si è inevitabilmente diffusa. Nel momento in cui il P.P. è
stato ufficializzato è diventato indispensabile avere delle
professionalità adeguate che in Italia ancora non c’erano.
133
Perché nel campo del Product Placement televisivo non sono
state ancora realizzate norme simili al “Decreto Urbani”?
L’aver ufficializzato il Product Placement cinematografico e il
non essersi interessati ancora delle altre forme di Product
Placement (televisivo su tutti) rappresenta una delle infinite
contraddizioni della società italiana. Il Decreto, come
sappiamo, riguarda la cinematografia, e non poteva essere
diversamente, dato che il Ministero fautore del decreto era il
Ministero dei Beni e delle Attività Culturali; la televisione
invece è sotto un altro ministero. Dove nasce la contraddizione
assurda? La televisione, trasmettendo film (che abbiano o
meno la nazionalità italiana) ed essendo ormai questa forma di
pubblicità “lecita”, non può discriminare il contenuto di un
film. Ma nel momento in cui questo meccanismo viene
applicato anche nelle produzioni televisive, improvvisamente
viene fuori il discorso puramente televisivo. La Rai sancisce
che nelle programmazioni che la riguardano non può essere
utilizzata la leva pubblicitaria poiché essa la riserva solo a se
stessa, con inserimenti e trattative fatte da lei stessa. Ciò
ovviamente non vale per le produzioni straniere. Ed ecco
appunto questa assurda contraddizione. Che poi è quello che
succedeva prima con i film del grande schermo passati poi in
televisione. Perché mentre la televisione italiana poteva
trasmettere e ha trasmesso tranquillamente “Il Maggiolino tutto
matto” – pubblicizzando la Wolksvagen(?) – la legge italiana
non consentiva di fare altrettanto con le produzioni italiane.
Quando capita di assistere a casi di posizionamento riferito a
serie televisive italiane, salvo che si tratti di una casualità, le
trattative pubblicitarie dovrebbero essere state condotte da
Sipra; non si parla comunque di Product Placement bensì di
“comodato d’uso”.
134
Esistono delle norme che vietano l’applicazione di altri casi
di Product Placement non cinematografico (escludendo
quindi il caso della televisione)?
Non esiste niente a livello normativo che vieti o autorizzi
l’applicazione di Product Placement non cinematografico,
proprio perché non se ne è mai percepita – fino ad oggi – la
presenza. Noi viviamo in una società di consumo e quindi
utilizziamo ogni minuto-secondo un qualcosa che abbia un
marchio. Utilizzare in una produzione un prodotto, un brand,
ecc... in realtà non è altro che un ulteriore adeguamento alla
realtà in cui viviamo. Dovremmo avere la reazione contraria
nel non vedere marchi... sarebbe tutto asettico, finto. Ormai
oggi viviamo in un mondo fortemente brandizzato e non ci si
può sottrarre a questo. Poi possiamo pure parlare di Product
Placement nei reality o nella fotografia, ma, insomma, non
sarebbe niente di nuovo rispetto a quanto già accadeva nel
passato; gli esempi eclatanti sono molti. E per gli americani è
sempre stato molto normale farlo. Il nostro problema è quello
di avere non tanto una fobia verso i marchi, ma piuttosto
un’ipocrisia verso i soldi. L’Italia ha queste norme e ha questo
tipo di imbarazzo perché il pensiero dominante e sempre quello
dietrologico del c’è qualcuno che sta guadagnando di
nascosto; quello che per gli americani è molto lecito, cioè
guadagnare seguendo anche l’andamento della società, a noi
crea sempre molto imbarazzo, perciò pensiamo che sia sempre
più opportuno vietare, eliminando così qualsiasi pensiero
malvagio. A questo si aggiunge poi il discorso, molto famoso
in Italia, della cultura, come se la pubblicità di per sé fosse
anticulturale. Avendo quindi noi avuto una legge che
finanziava i film, che si chiamava Fondo di Garanzia, dal ’94
al 2004, questo concetto del “culturale” è diventato talmente
prevalente da assumere una posizione primaria nella mentalità
comune. Quindi direi che è questo il problema principale, un
135
problema di mentalità. Oggi credo che chiunque, superato lo
shock che si può fare cultura anche utilizzando mezzi
pubblicitari, abbia imparato ad accettare il Product Placement –
e comunque può imparare a farlo – come una possibilità per
ottenere ricavi. Purtroppo non esiste ancora un mercato o un
meccanismo tale da rendere certo questo ricavo; ma, comunque
si va per tentativi, anche perché, ritorno a dire, si viene da una
mentalità clandestina. Per cui le aziende americane, ma anche
francesi, abituate a fare P.P. erano poco inclini a farlo in Italia
perché era sempre sembrato difficile riuscirci. Oggi le cose
funzionano un po’ meglio; esistono diverse aziende nazionali
che cominciano a lavorare professionalmente. Insomma, è un
punto di partenza, direi che qualcosa ha iniziato a muoversi.
Esistono dei limiti precisi, specifici, legati all’applicabilità del
Product Placement nel film italiano? Ossia, quali sono le
regole che gli addetti ai lavori devono seguire affinché il
posizionamento sia completamente legale?
Non esistono limiti all’applicabilità del Product Placement,
fatta eccezione per la coerenza col contesto narrativo; d’altra
parte gli americani ci insegnano che si può affogare nel Product
Placement senza che questo venga minimamente avvertito
dagli spettatori. Questo perché noi spettatori, non solo in Italia
ma nel mondo, siamo talmente abituati ai marchi da non
provare alcun fastidio nei loro confronti. Anche la stessa
campagna promozionale sui marchi (Le tue marche, la tua
storia) rappresenta un osservazione sul fatto che noi nel corso
della nostra vita ci portiamo dietro delle immagini
pubblicitarie, sin da quando siamo nati, una dimostrazione del
fatto che esse diventano quasi elemento di memoria. Tutti
infatti ci ricordiamo delle pubblicità di tanti anni prima, di
prodotti che esistono da 20 o 30’anni e che ancora oggi
utilizziamo. Io credo che oggi si sia passati da una logica del
136
marchio a una logica del messaggio; per cui direi che è
diventato anche meno spigoloso il messaggio pubblicitario, il
quale tende più a regolare dei comportamenti e meno ad
aumentare la memorizzazione del marchio. E questo ha reso
anche più fluida la trasmissione pubblicitaria.
Quindi è ammessa anche la realizzazione di pubblicità
comparativa all’interno della narrazione? Ad esempio, la
Coca Cola può chiedere un posizionamento in un film
chiedendo inoltre che il proprio prodotto venga esaltato
rispetto alla Pepsi?
No. E’ permesso a imprese appartenenti allo stesso mercato di
apparire all’interno del medesimo contesto narrativo, ma
sempre che entrambe siano d’accordo – anche perché altrimenti
non ci sarebbe Product Placement. Nell’esempio che fai tu,
solo una ditta – e non tutte e due – decide di fare un’attività
pubblicitaria all’interno di un film esponendosi direttamente,
ma anche mettendo in negativo una controparte. Questo espone
il film, e in particolare il produttore, a delle azioni legali ad
opera della ditta non coinvolta; infatti, è vero che è possibile la
pubblicità comparativa, però essa è possibile solo su dati esatti
e non in un contesto narrativo, ma in un contesto pubblicitario.
Se io utilizzo il contesto narrativo per procurare nocumento a
una ditta mia concorrente, ovviamente essa potrà agire per vie
legali.
Perché, tra il 1992 e il 2004 esisteva un diverso modo di agire,
sia a livello giuridico che a livello autodisciplinare, nei
confronti del film italiano rispetto a quello americano?
I privilegi che la cinematografia americana ha avuto e ha nel
contesto nazionale italiano sono infiniti, inenarrabili. E i
privilegi di cui ha goduto la cinematografia americana non si
137
limitano a questo. Ad esempio da sempre viene tollerato che le
majors americane presenti in Italia, pur essendo società
americane, distribuiscano i prodotti americani del proprio
listino ad una provvigione molto bassa (9-10%), consentendo
così alle major americane italiane di mandare fuori tutto il resto
di quello che viene fatturato. Quindi non c’è nessuna norma
che abbia vincolato le aziende americane, quantomeno a
spendere sul territorio nazionale un po’ di più. Tutti sanno
infatti che per compiere il ciclo distributivo si dovrebbe
minimo raggiungere una percentuale del 18-19%, mentre per le
majors americane viene tollerato il tetto del 9-10%
E questo vale per i film, i telefilm, il Product Placement, ... Noi
siamo una terra di conquista, una terra che è quasi Africa, e
quindi gli americani, che dalla loro hanno una grande, diciamo,
pratica di questi meccanismi, risultano essere più facilitati
nelle loro azioni. E nel frattempo noi li abbiamo sempre
guardati con grande rispetto, ammirazione, timore, e non
abbiamo mai fatto nulla per placare questo divario. E, al
contrario, loro si dimostrano sempre implacabili nella difesa
del proprio territorio.
138
Intervista a Gerardo Corti.
Quali sono le conseguenze che vivono oggi le agenzie
pubblicitarie in seguito alla promulgazione del Decreto
Urbani?
Le agenzie pubblicitarie si sono ritrovate con una bella gatta da
pelare. Si sono ritrovate davanti a uno strumento nuovo,
destinato a sfondare... in America si vede quello che sta
succedendo: il 30% del budget per una produzione
cinematografica arriva spesso da accordi di Product Placement.
Molte agenzie italiane hanno cercato di correre ai ripari, ma
non sono per niente pronte, visto che essere agenzie
pubblicitarie non vuol dire diventare facilmente agenzie di
Product Placement. Infatti in Italia tutte quelle che si sono
convertite – concessionarie, centrimedia, agenzie di pubblicità,
runner, ... – tutte quante si sono inventate che potevano fare
Product Placement; devi nascere Product Placement, proprio
perché sono necessarie delle competenze di cinema che non si
inventano dall’oggi al domani... va bene le competenze di
target, pubblicità, ... ma non hai le competenze di cinema
necessarie per affrontare produttori, registi, ecc... E quindi oggi
in molti stanno cercando di farsi largo in un mercato che alla
fine lascerà spazio a 3-4 agenzie, massimo... Alla fin fine
parliamo pur sempre del mercato italiano, quante agenzie vuoi
che abbia?! Vedrai, ne resterà solo uno!10
Perché molte grandi imprese italiane appaiono diffidenti nei
confronti del Product Placement?
Possiamo dire che i motivi principali sono tre:
10
Commento ironico riferito al film Highlander.
139
In generale, c’è diffidenza nei confronti di un mercato in cui
sono presenti troppe agenzie e poche con competenze adeguate.
In secondo luogo, ricordiamoci che siamo in crisi economica, e
la prima cosa che ti insegnano a Economia e Commercio è
quella di tagliare la pubblicità quando si è in crisi economica; e
delle cose che tagli, tagli quello che non conosci...!
Infine devo dire che c’è una mancanza di fiducia nel cinema
italiano. Riguardo a quest’ultimo punto comunque qualcosa sta
cambiando, ho dei grandi produttori che mi hanno contattato
dandomi ragione, dicendomi che il Product Placement si può e
si deve fare, e non solo Product Placement.
Senza contare che molti dei film prodotti dal nostro cinema non
sono predisposti al posizionamento; che cosa volevi
posizionare in un film come “La bestia nel cuore”? La Barilla
accanto all’incesto?
Al momento i film italiani maggiormente predisposti al
posizionamento sono quelli di Natale.
Ma il film contemporaneo è predisposto al posizionamento.
Facciamo tanta fiction sulla polizia, perché non concentrarsi
lì?
E ti risulta che sia legale farlo?
No. E partendo da questo posso chiederle, ma perché la
liberalizzazione del P.P. ha toccato solo il cinema e non la
televisione, visto che un punto di forza della produzione
audiovisiva italiana è proprio la fiction?
Perché non c’è stato ancora nessuno che ha fatto pressione su
questo (e in realtà c’è!11). Io infatti ho fatto pressione per una
riforma sul cinema, e anche le mie pressioni hanno portato a
11
Riferendosi a se stesso.
140
dei risultati nel 2004. E la stessa cosa sto facendo adesso per
quanto riguarda la televisione.
Anche perché, parliamoci chiaro, il Product Placement è
sempre esisto, ma non esistevano garanzie... ed è per questo
che adesso c’è diffidenza. Molte imprese mi hanno confessato
di soldi dati per prodotti che poi non sono mai comparsi in
pellicola. Per rendere l’idea, mettiamo che un’impresa abbia
pagato per televisori al plasma, cellulari, ecc... e poi i film era
ambientato nel Medioevo...! Eravamo a questi livelli. Ho
contattato anche grandi imprese, filiali italiane di aziende
internazionali, e prima non avevano intenzione di fare niente...
ad un certo punto, e comunque molto recentemente, tre o
quattro si sono svegliate, e sono state loro a chiamare me. E
dopo aver fatto i primi briefing, dopo essere entrati un po’ più
in confidenza, parlando con i responsabili, loro mi hanno
confessato che la decisione di voler fare Product Placement
veniva direttamente dalle sedi centrali delle majors. Ad
esempio c’era il responsabile in Germania della BMW – che tra
le tante azioni pubblicitarie si è occupato anche degli accordi
per 007 – che inviava direttive a tutte le altre filiali
internazionali chiedendo loro di non fare accordi di Product
Placement se prima non fossero passati sotto la sua visione.
Quando viene commissionato un lavoro a un’agenzia come la
vostra, cosa vi viene chiesto esattamente? E qual è il vostro
modo di agire?
Dipende. Ci sono aziende che possono chiederci operazioni di
crosso promotion, e quindi creare dei legami con un
determinato film in uscita. Altre aziende possono chiederci
esplicitamente il posizionamento nel cinema americano. Per
ogni richiesta esiste un modo di agire unico...
141
Secondo lei per quale motivo il sistema italiano ha
“liberalizzato” il Product Placement così tanto in ritardo
rispetto al sistema americano?
Ma non c’era neanche l’intenzione di liberalizzare il Product
Placement, perché non si sapeva nemmeno che cosa fosse. E
poi sono arrivato io...! Il mio sostenere che fosse “illegale che
il Product Placement fosse illegale” – insieme a molti altri miei
lavori in materia – ha dato una spinta non indifferente. Ed era
giusto così, perché si è capito che nell’era della globalizzazione
era inutile lasciare una legge che gli remava contro.
Comunque fino al 2004 era possibile intervenire nei casi
ritenuti di P.P. hai sensi dell’art. 4.1. del decreto 74/92.
Si, ma in quel decreto c’è una bellissima riga che fa scuola, che
dice E’ vietata la pubblicità subliminale, punto. Che cos’è la
pubblicità subliminale? Boh! Nessuno lo sapeva. Secondo te
perché ho scritto un libro intitolato Occulta sarà tua sorella?
Non è un caso. Perché tutti parlano di pubblicità occulta,
compreso il legislatore, senza sapere di cosa stanno parlando.
Quando è arrivato il Product Placement hanno detto a tutti
“bisognerà farlo convergere nelle norme di Autodisciplina
Pubblicitaria”... ma come nelle norme di Autodisciplina
Pubblicitaria? Non si tratta di pubblicità! E’ come giocare a
baseball con le regole del calcio!
Anche se la liberalizzazione del Product Placement è
avvenuta solo di recente, i casi di placement, anche di
prodotti italiani in pellicole italiane, riscontrabili prima del
2004 sono moltissimi. Esisteva anche un intervento delle
agenzie in questi casi, oppure veniva sempre fatto tutto
direttamente da impresa commerciale e casa di produzione?
142
Per quello che so io, quando questo accadeva, il tutto veniva
organizzato dalle case di produzione. Qualche agenzia è nata
come esperta in Product Placement prima del 2004, sapendo
che di lì a poco sarebbe arrivata la legge; ma prima del 2004
non ha mai operato. La cosa imbarazzante è che esistevano
delle agenzie, che ancora tentano di riciclarsi, di copertura
materiale. Ossia venivano pagate per trovare determinate cose,
e venivano pagate all’infuori del fatto che avessero successo o
meno. Ma quelle non erano agenzie di placement... erano come
agenzie di catering, ambigue, che non davano sicurezza né alle
aziende né alle case di produzione. In questo momento le
aziende pagano il film, allora le case di produzione pagavano le
agenzie che a loro volta cercavano le aziende.
La JMN & DY si occupa anche di Product Placement non
cinematografico. Su che cosa si concentra in particolare? E
qual è il suo modo di agire in questi casi? Quale fra questi,
secondo lei, offre maggiori potenzialità e vantaggi per tutte le
parti in causa?
Nonostante abbia dei difetti maggiori rispetto a quello
cinematografico, la maggior parte delle aziende italiane
interessate al Product Placement preferirebbero di più la
fiction. Il problema è che ancora non si può fare. Noi
comunque per adesso siamo aperti a tutti i tipi di Product
Placement, abbiamo attivato il settore videoclip, il settore
videogioco; solo che le aziende al momento non si sono ancora
esposte a tutti i tipi di Product Placement. Prima è meglio che
si regolino sul Product Placement più conosciuto, quello
cinematografico, poi vedremo. Poi, quello che fa Klaus David,
il suo P.P. sui personaggi famosi, potrebbe essere interessante,
però anche lì la situazione lascia un po’ il tempo che trova. Il
fatto che la Fiat gli abbia concesso un’auto da dare a 20
personaggi famosi non esclude il problema che poi il
143
personaggio che gira con la sua Fiat devi trovarlo... vallo a
cercare...!
Per quanto riguarda i videogiochi il mercato è molto
interessante; ma i problemi non mancano. E il problema non è
mio, o del settore videogiochi, il problema è delle aziende.
Mentre col cinema si sono fatti notevoli passi avanti, coi
videogiochi siamo ancora agli inizi; e questo perché le aziende
non hanno ancora capito le grandi potenzialità del mezzo –
oppure non le vogliono capire. E questo finché non prendono le
batoste.
E riguardo agli advergames12?
Anche quello è Product Placement. In Italia, per esempio, io so
che la Ferrero è una di quelle imprese che offre ogni tanto un
videogames – e a volte anche veri e propri cartoni animati – in
cui protagonista è un personaggio che si trova nelle stesse
confezioni. In questo caso però non è Product Placement
perché il gadget e il cd rom si trovano nella stessa confezione,
provengono dallo stesso prodotto. Nel caso degli advergames,
quelli li trovi su internet, quindi quello è Product Placement.
Io so che lei ha fondato un’associazione, l’Associazione per il
Product Placement, il cui scopo era quello di far conoscere e
apprezzare questa tecnica anche in Italia. Quale è stato il
modus operandi di questa associazione?
Giornali, web-zine, conferenze radio... è stato un lavoro lungo.
E la speranza era che, a furia di parlarne, si creasse una legge
ad hoc, e ci siamo riusciti. Nella mia tesi A Sud di Band Aid, io
lo avevo già previsto, avevo previsto che avrei aperto
12
Informazioni più specifiche sugli advergames al paragrafo 3.6.
144
un’agenzia. E questo perché mi sono ritrovato a marciare su un
terreno nuovo e inesplorato. E’ stato bellissimo!
I casi di placement attualmente realizzati in Italia si possono
definire idonei, o abbiamo ancora molto da imparare?
Abbiamo ancora molto da imparare! Anzi, gli altri hanno
ancora tanto da apprendere!
Lei crede che dovremo aspettare molto per poter parlare
anche in Italia di Branded Entertaiment?
Se io domani trovo il produttore giusto, l’azienda giusta, tutto
giusto... io te lo faccio dopodomani il Branded Entertaiment!
Di che cosa si è occupata recentemente la JMN & DY?
Non posso dirti troppe cose. Ma ti dico, in anteprima, che a
Venezia ci sarà il nuovo film di Fabio Volo, Uno su due, che
avrà quattro casi di Product Placement marchiati JMN & DY,
placement assolutamente fuori dagli schemi, talmente tanto che
se io te li dicessi adesso, domani i miei concorrenti
chiamerebbero i loro clienti per dirgli “Abbiamo avuto una
grande idea!”. Non è una bibita, non è abbigliamento, non è
auto, non è moto, non è televisione, non è cellulare, ... è un
qualcosa che non penseresti mai che si possa pubblicizzare.
145
Bibliografia.
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Codice della Pubblicità, 1958.
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Codice della pubblicità: leggi italiane e direttive CE, Milano, Giuffrè,
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G. Fabris e L. Minestroni,
Valore e valori della marca. Come costruire e gestire una marca di
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M. Lombardi,
Il nuovo manuale di tecniche pubblicitarie, Franco Angeli Editore, Roma,
2004.
G. Corti,
Occulta sarà tua sorella! Pubblicità, product placement, persuasione:
dalla psicologia subliminale ai nuovi media, Castelvecchi, Roma, 2004.
146
Articoli, tesi e altro...
Convegno – 25 anni di autodisciplina pubblicitaria, 1991.
R. Angelini,
“L’operatore pubblicitario” nel decreto legislativo n. 74/92, Riv. dir. Ind.
2000, 6, 185.
M. Mazzeo,
La pubblicità occulta, relatore Stefano Rodotà, correlatore Guido Alpa,
Università La Sapienza, Roma, 2002-2003.
A. M. Pasetti,
Product Placement? Qualcosa si muove, in “Boxoffice”, 30 Aprile 2006.
Workshop on Product Placement, cd-rom contente il video dell’intera
conferenza (18/05/2004).
Metti un prodotto sul grande schermo, cd-rom contente il video dell’intero
convegno (15/07/2004).
Product Placement: Cinema e Brand si incontrano, cd-rom contenenti i
video delle conferenze di Roma e di Milano (6 e 11/10/2005).
La giurisprudenza completa dell’Autodisciplina Pubblicitaria, cd-rom
contenente la raccolta integrale delle decisioni autodisciplinari.
Webgrafia.
www.agcm.it
Sito Ufficiale dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, dal
quale ho potuto consultare i diversi provvedimenti citati nella tesi.
http://marketing.cinecitta.com
Sito di Cinecittà Holding nel quale è presente uno spazio interamente
dedicato al Product Placement. Di seguito riporto le pagine web
appartenenti a questi sito da me consultate:
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=6ù
Workshop al Festival del cinema di Cannes (27/05/2004).
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=14
147
Il product placement sbarca a Ischia 2004 (16/07/2004).
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=18
I decreti attuativi del Product Placement (06/10/2004).
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=22
Nasce il Product Placement Lab (13/12/2004).
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=36
Product Tie-In - Una nuova generazione di Product Placement
(11/05/2005).
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=49
Cinema e brand si incontrano (03/09/2005).
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=59
Product Placement nell'Entertainment Marketing tra videogames e
cinema (08/09/2005).
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=58
A Hollywood 7 film su 10 mostrano prodotti e marchi made in Italy
(15/09/2005). (conclusioni)
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=91
Product Placement - Cinema e Brand si incontrano (12/10/2005).
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=93
Lavazza fa brand entertainment su Italia1 (14/10/2005).
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=95
La Commissione Europea approverà presto l'uso del product placement in
tv (10/11/2005).
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=100
A Milano il branded entertainment sui media digitali (17/11/2005).
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=110
Product placement: prevista per il 2005 una crescita del 23%
(28/11/2005).
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=115
La Commissione Europea approva il product placement televisivo
(15/12/2005).
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=113
Nel 2004 il product placement in tv è cresciuto del 46% (19/12/2005).
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=125
Il product placement nei videogiochi sta crescendo velocemente
(09/01/2006).
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=147
Telecom Italia e Luxottica in un film d'animazione italiano (14/04/2006).
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=142
Il Product Placement decolla anche in tv (19/04/2006).
148
http://marketing.cinecitta.com/dettaglio.asp?tipo=4&id=156
Luxury Brands & Celebrities (16/05/2006).
http://www.cinema.beniculturali.it
Sito dal quale ho preso il Decreto Attuativo 30 Luglio 2004.
http://www.jmnanddy.com
Sito ufficiale della JMN & DY di Lecco che mi ha permesso, insieme
all’intervista al presidente Gerardo Corti, di ricostruire le caratteristiche
dell’agenzia.
http://www.escp-eap.net/conferences/marketing/pdf_2003/it/dalli.pdf
Relazione del Prof. Daniele Dalli dell’Università di Pisa, tenuta al
Congresso Internazionale Le Tendenze del Marketing, dal titolo Il Product
Placement cinematografico: oltre la pubblicità?
http://www.dyschronicles.com/global.pdf
Global Product Placement, prodotto dalla JMN & DY. Fonte di diverse
immagini e osservazioni sulle prospettive future per il Product Placement in
Italia.
149