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Napoleone, la rivoluzione e l’Europa
Nelle memorie dettate al conte Las Cases durante l’esilio di Sant’Elena, Napoleone sostenne di
essere stato un fedele erede della rivoluzione. Questa pretesa ha scarse probabilità di essere presa
sul serio se la compariamo con gli atti concreti da lui compiuti.
Napoleone soppresse ogni opposizione e ogni dialettica politica, consentì il rientro degli emigrati
che per anni avevano complottato contro la Francia, abrogò la costituzione civile del clero, istituì
una nobiltà imperiale, tentò di creare attraverso il matrimonio con Maria Luisa d’Asburgo una
dinastia riconosciuta dalle monarchie assolutiste d’Europa.
Napoleone e l’eredità della rivoluzione
Ma anche la lettura dell’opera di Napoleone unicamente in termini di rovesciamento sistematico
dell’opera della rivoluzione va troppo spesso contro l’evidenza dei fatti. Prendiamo il caso del
codice civile. Quello che venne chiamato ovunque “codice Napoleone” era stato in realtà redatto da
una commissione di giuristi che proseguiva e compiva un lavoro cominciato nel 1791. I princîpi
fondamentali dell’uguaglianza di fronte alla legge (la nuova nobiltà imperiale non godeva di alcun
privilegio giuridico) e dell’intangibilità della proprietà privata passarono indenni attraverso cinque
regimi diversi (la monarchia costituzionale, la repubblica giacobina, il regime termidoriano, il
consolato, l’impero) e lo stesso vale per il matrimonio civile e per il divorzio, per la libertà religiosa
dei protestanti o per l’emancipazione degli ebrei.
Nella Francia imperiale il principio rivoluzionario della sovranità nazionale si conservò invece in
maniera puramente teorica. In questo senso Napoleone può essere considerato piuttosto l’erede
dell’assolutismo illuminato del XVIII secolo, avendo egli badato più all’efficienza degli apparati
statali che alla partecipazione dei cittadini alla vita politica. Vi è un altro punto per il quale si deve
piuttosto affermare la continuità fra Napoleone e la Rivoluzione francese: l’uso e la concezione
della guerra. Per i sovrani illuminati la guerra era collegata con la politica internazionale
dell’equilibrio e andava condotta in maniera professionale, coinvolgendo la popolazione civile il
meno possibile ma anche escludendola da una partecipazione attiva e consapevole. Napoleone
ereditò invece in pieno l’idea girondina e giacobina della guerra politica e rivoluzionaria: le sue
campagne militari non produssero soltanto cambiamenti nella carta politica dell’Europa e un
allargamento dell’area d’influenza francese, ma anche trasformazioni giuridiche, sociali ed
economiche realmente rivoluzionarie.
La Francia imperiale e i nazionalismi europei
Nella buona accoglienza riservata nel 1793 e nel 1794 dai belgi ai francesi (e mal ripagata da questi
ultimi con un’occupazione militare fatta di requisizioni e saccheggi) vi è qualcosa di emblematico e
paradossale. Cacciando gli Asburgo nel 1790, i Paesi Bassi meridionali avevano provveduto a
proclamare la Confederazione degli Stati Uniti del Belgio, che doveva consentire la sopravvivenza
delle tradizioni di autonomia delle singole città e province. Dalle armate della repubblica francese i
belgi si aspettarono poi di essere liberati dalla minaccia dell’assolutismo centralizzatore asburgico,
ma questa liberazione si trasformò rapidamente nell’inserimento del paese nel sistema dei
dipartimenti francesi. Ai tempi dell’ordine napoleonico, l’annessione non fu per il Belgio priva di
concreti vantaggi economici: nel quindicennio 1800-1814 il Belgio, con l’attivazione dei suoi bacini
carbosiderurgici, fu il secondo paese europeo a realizzare una decisa rivoluzione industriale. Ancora
più importante fu il fatto che dagli anni della dominazione francese derivò un ancor più rapido
sviluppo della coscienza nazionale, che nel 1830 consentì al Belgio di rivendicare l’indipendenza
dall’Olanda, e ne fece ciò che in tutta la sua lunga storia esso non aveva mai voluto essere, uno stato
unitario.
Ciò che vale per il Belgio, vale in diversa misura anche per la Germania, l’Italia centrosettentrionale e la Polonia. Se è eccessivo dire che il dominio napoleonico creò la borghesia tedesca
e italiana, è vero invece che esso contribuì in maniera determinante a farla crescere e divenire
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consapevole di sé. I vantaggi economici e politici di un’unione territoriale che superava i
tradizionali piccoli o piccolissimi stati furono immediatamente percepiti, venendo collegati con le
idee nazionaliste elaborate da pochi scrittori, letterati e filosofi. La stessa oppressione francese
divenne, certamente senza volerlo, un motivo di ulteriore accelerazione del processo avviato dalla
creazione del regno d’Italia e della Confederazione del Reno. Anche il tributo di sangue richiesto
dalla Francia attraverso l’inserimento nella “grande armata” di truppe italiane e tedesche concorse
allo stesso esito: come era accaduto nella Francia giacobina, la partecipazione a un esercito
nazionale, seppure politicamente subordinato alle scelte dell’imperatore, ebbe l’effetto di accrescere
lo spirito patriottico, sebbene nel 1814 gli allievi fossero ancora molto indietro rispetto ai loro
maestri. L’improvviso mutamento di fronte compiuto durante la battaglia di Lipsia dai sassoni, che
rivolsero le loro armi contro gli alleati del giorno prima, mostrava come l’imperialismo francese,
così diverso da quello dei vecchi monarchi assoluti, era andato al di là dei propri intenti, dando un
primo, fondamentale contributo alla costruzione delle unificazioni nazionali degli stati europei
assoggettati.
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