MATR. N. 0000363927 ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÀ DI BOLOGNA FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA CORSO DI LAUREA IN INFERMIERISTICA AGGRESSIVITA’: SEGNO O SINTOMO? Elaborato finale in Infermieristica area critica e psichiatrica PRESENTATA DA RELATORE Domracheva Yulia Prof. Borghesi Massimo SESSIONE II ANNO ACCADEMICO 2010 – 2011 ~1~ ~2~ Donatella Di Maria (San Giovanni in Marignano(RN), 2010) “Nessuno di noi è completamente "buono", la malvagità, nel senso di aggressività, pensieri "cattivi", instintualità, è comunque parte della nostra personalità e non serve a molto tentare di soffocarla, meglio piuttosto integrarla con in resto e canalizzarla verso un fine utile e costruttivo”. (Rita Ricci) ~3~ ~4~ Introduzione……..……………………………………………………………...9 Capitolo 1. Definizione e classificazione dell’aggressività…………….11 1.1. Definizione dell’aggressività .……………………………………...........11 1.2. Classificazione, semeiotica e psicopatologia .………………………...13 1.3. Tipi di comportamento aggressivo …………………………………......15 1.3.1. Aggressivita’ Diretta …………………………..………………...15 1.3.2. Aggressivita’ Indiretta …………………………………………..16 1.3.3. Irritabilita’…………………………………………………………16 1.3.4. Negativismo……………………………………………………...17 1.3.5. Risentimento…………………………………………………...…17 1.3.6. Sospettosita’………………………………………………………17 1.3.7. Aggressivita’ Verbale ……………………………………………18 1.3.8. Colpa ……………………………………………………………...18 Capitolo 2. Psicodinamica dell’aggressività ……………………………..21 2.1. Le Teorie ……………………………………………………………………21 2.1.1. Alfred Adler: Istinto Innato o Primario …………………………22 2.1.2. Sigmund Freud: Pulsioni e loro destini ………………………..22 2.1.3. Heinz Hartman e Ernst Kris: Separazione della pulsione aggressiva dall’istinto di morte e successivo studio della sessualità (Libido) …………………………………………………………………………...24 2.1.4. Melanie Klein: Teoria d’amore e derivazione dall’istinto di morte ……………………………………………………………………………..25 2.1.5. Heinz Kohut: Aggressività come reazione ambiente OggettoSe dell’infanzia ……………………………………………………………….....26 2.1.6. Niemah: Aggressività Diretta …………………………………...28 2.1.7. Otto Kernberg: ruolo dell’ambiente …………………………….28 2.1.8. Donald W. Winnicott: distinzione di un vero Sé……………....29 2.1.9. David Shaffer: emozioni …………………………………………30 2.1.10.Jean Bergeret: istinto innato violento …………………………31 2.1.11. Stephen A. Mitchell ………………………………………….....32 ~5~ Capitolo3. Psicobiologia dell’aggressivita’……………………………….35 3.1. Aspetti Etologici. Konrad Lorenz …………………………………………35 3.2. Aspetti Comportamentali. John Dollard, Leonard Berkowitz, Albert Bandura …………………………………………………………………………..35 3.3. Aspetti Eutonologici. Henri Laborit ……………………………………….40 3.4. Aspetti Neurofisiologici. Concetto della specializzazione emisferica ...42 3.5. Aspetti Endocrini .…………………………………………………………..44 3.6. Aspetti Neurochimici. Ruolo del 5-HT (5 Hidroxytryptophane) ……….46 Capitolo 4. Clinica dell’aggressivita’ ……………………………………….55 4.1. Aggressivita’ e depressione ………………………………………………55 4.1.1. Nessi Psicologici …………………………………………………55 4.1.2. Nessi Neurofisiologici ……………………………………………56 4.1.3. Nessi Neurochimici ………………………………………………59 4.1.4. Nessi Neuroendocrini ……………………………………………61 4.1.5. Nessi Clinici ………………………………………………...…….63 4.1.6. Nessi Farmacoterapeutici ……………………………………….68 4.2.In sintesi …………………………………………………………………….71 Capitolo 5. Aggressivita’ e condotte suicidarie ………………………….75 5.1. Ipotesi Interpretative ……………………………………………………….75 5.2. Studi psicobiologici e chimici ……………………………………………..77 Capitolo 6. Aggressivita’ e violenza ………………………………………..89 6.1. Violenza e psicopatologia …………………………………………………89 6.2. Fattori predittivi della violenza ……………………………………………93 Capitolo 7. Valutazione e trattamento del paziente violento …….........97 7.1. Premessa ………………………………………………………………......97 7.2. Trattamento del paziente violento In situazioni di emergenza ……......98 7.2.1. Dove incontrare il paziente violento ……………………………99 7.2.2. Come presentarsi al paziente violento ……………………....102 7.2.3. Cosa dire o fare con un paziente violento …………………...104 7.2.4.Cosa dire o fare con un paziente che minaccia con un’arma.107 ~6~ 7.2.5. Errori emotivi e comportamentali del terapeuta con il paziente violento ………………………………………………………………………....111 Caso clinico………………………………………………………..……………113 7.3. Valutazione e trattamento del paziente violento a lungo termine…....117 7.3.1. Dati obbiettivi criminologici …………………………………….118 7.3.2. Dati obiettivi vittimologici …………………………..................120 7.3.3. Dati obiettivi anamnestici …………………………………..….124 7.3.4. Fattori statici …………………………………………………….127 7.3.5. Fattori situazionali ………………………………………….…..131 7.3.6. Fattori dinamici ……………………………………………..…..134 7.3.7. Aspetti biologici ………………………………………………...136 7.3.8. Aspetti psichiatrici …………………………………………...…142 Tabelle 1-9 ……………………………………………………………..…147-151 Capitolo 8. terapia farmacologica del paziente violento ……………...153 8.1. Intervento farmacologico in situazioni di emergenza ………………...153 8.1.1. Farmaci antipsicotici-neurolettici ……………………………..154 8.1.2. Benzodiazepine ………………………………………………...156 8.1.3. Barbiturici ………………………………………………………..157 8.2. Intervento farmacologico a lungo termine ……………………………..157 8.2.1. Farmaci antipsicotici (tipici e atipici) ………………………….158 8.2.2. Farmaci ansiolitici ……………………………………….…..….160 8.2.3. Farmaci anticonvulsivanti ……………………………….……..160 8.2.4. Farmaci b-bloccanti ……………………………………….……161 8.2.5. Litio ……………………………………………………………....162 8.2.6. Farmaci antidepressivi ………………………………………...163 8.2.7. Farmaci psicostimolanti ……………………………...………..164 Tabella 10……………………………………………………………………….165 Capitolo 9. Aspetti deontologici nel trattamento del paziente violento …………………………………………………………………………………...168 9.1. Prognosi del comportamento violento: generica, condizionale, imminente ……………………………………………………………………...168 ~7~ 9.2. Trattamento del comportamento violento: motivato, collegiale, documentato per iscritto ………………………………………………….......171 9.3. Protezione di vittime potenziali e segreto professionale …………...174 Tabella 11 ……………………………………………………………………...178 Capitolo 10. Strumenti di valutazione dell’aggressività. Scale di valutazione …………………………………………………..........................179 10.1. Valutazione dell’aggressività in generale …………………………….180 10.2. Valutazione dell’aggressività in acuto ………………………………..195 Tabella 12 …………………………………………………………………197-198 Capitolo 11. Descrizione ed elaborazione del risultato sui quesiti del questionario……………………………………………………………………199 11.1.Questionario………………………………………………………………200 11.2.Analisi dei dati. Grafici…………………………………………………...205 11.3. In sintesi……………………………………………………………….….225 Capitolo12. Conclusioni della tesi ………………………………………...227 Bibliografia …………………………………………………………………....237 Sitigrafia ……………………………………………………………………….240 Ringraziamenti ………………………………………………………………..245 Allegati………………………………………………………………………….247 ~8~ INTRODUZIONE L' aggressività è un fenomeno complesso, che rientra nelle problematiche legate al manifestarsi della violenza negli esseri umani. Le dinamiche psichiche e biologiche che conducono ai conflitti violenti tra le persone, il loro legame con gli istinti primari sono questioni che da due secoli psicologi e altri studiosi analizzano e che solo recentemente si stanno chiarendo. Dalla revisione della letteratura, l’aggressività appare a tutt’oggi non ben studiata e chiarita, anche se ultimamente l’interesse verso questo campo di studio sembra essere rinnovato. Lo scarso interesse riservato dai ricercatori e dai clinici appare poco comprensibile e anche difficilmente spiegabile. La sua natura di dimensione psicopatologica, che attraversa transnosograficamente i vari quadri psicopatologici senza configurare un quadro clinico definito, e l’assenza anche nel DSM-IV di un disturbo caratterizzato prevalentemente dall’aggressività, contribuiscono alla mancanza di studi in questo campo. D’altra parte, anche la sua notevole eterogeneicità (sotto la dizione di aggressività si comprendono fenomeni profondamente diversi), può essere motivo di un disinteresse da parte degli studiosi. La mancanza di una precisa definizione può contribuire allo scarso interesse per questo settore, infatti mentre nell’animale l’aggressività è stata ben studiata e ben definita in sottotipi precisamente identificati, nell’uomo si continua a parlare genericamente di aggressività anche per comportamenti molto diversi. Pertanto si intravede la necessità di sviluppare maggiormente gli studi clinici e psicopatologici nel campo dell’aggressività, con particolare riferimento a diversi aspetti. Prima di tutto, gli studi dovrebbero tendere ad una migliore definizione dell’aggressività nell’uomo e, specialmente, ad una più dettagliata e puntigliosa definizione dei vari tipi di aggressività, che non appaiono, almeno in ipotesi, analoghi l’uno all’altro. ~9~ Certamente, per poter sviluppare e promuovere gli studi, un aspetto che andrà particolarmente curato è quello riguardante la valutazione dell’aggressività ed, in particolare, gli strumenti per la sua valutazione. A tutt’oggi lo strumentario per la valutazione non appare sufficientemente valido per esplorare compiutamente questo tipo di fenomeno e i rapporti che questo può stabilire con altre variabili, sia biologiche, sia cliniche, sia psicologiche. ~ 10 ~ CAPITOLO 1. DEFINIZIONE E CLASSIFICAZIONE DELL’AGGRESSIVITÀ 1.1. DEFINIZIONE DELL’AGGRESSIVITA’ Il fenomeno “aggressività” si riferisce ad un’ampia gamma di comportamenti che possono svolgere funzioni diverse nell’adattamento dell’uomo alla circonda. Il termine “aggressione” può descrivere sia realtà che lo l’adattamento all’ambiente in modo attivo, creativo e disponibile, sia il comportamento negativo e distruttivo, socialmente deplorabile. In realtà l’etimologia stessa del termine “aggressività” rivela una molteplicità di significati che indicano la complessità del fenomeno. Il verbo latino “aggredior” infatti è composto di “ad” che significa “verso”, “contro”, “allo scopo di”, e “gradior” che significa “andare”, “procedere”, “avanzare”,“aggredire”. L’Oxford English Dictionary definisce l’aggressione come un atto aggressivo, come un attacco non a seguito di un’aggressione subita (ad es. aggredire fisicamente per primo in un litigio; assalire primariamente la vittima) o l’azione dell’aggredire-contrastare una persona; definisce l’aggressività come la qualità dell’essere aggressivo. Nel dizionario della lingua italiana (Zingarelli, 2004) c’è una definizione del termine “Aggressività”, che fornisce una suggestiva interpretazione psicologica del meccanismo della violenza: “Aggressività : Tendenza a manifestare un comportamento ostile, che ha per fine un aumento di potere dell'aggressore e una diminuzione di potere dell'aggredito; si presenta in genere come reazione a una reale o apparente minaccia al proprio potere”. Nella ricerca scientifica, l’interesse dei vari Autori che hanno affrontato il problema da diverse impostazioni teoriche è stato rivolto principalmente allo studio delle origini e delle cause del comportamento aggressivo, piuttosto che ad una sua precisa definizione. Quindi le definizioni esistenti riflettono le diverse concezioni del comportamento aggressivo, considerato ora come ~ 11 ~ derivato e stimolato dall’ambiente, ora come espressione di un meccanismo innato. In psicologia il termine è usato con il significato di “tendenza” o con quello di “comportamento” ostile e distruttivo. Nel linguaggio psicoanalitico di Sigmund Freud1 ed Alfred Adler, il termine aggressione è sinonimo di pulsione (drive) ed il termine aggressività indica ciò che è correlato a questa pulsione. La scuola di Yale (1973), in “Frustrazione e Aggressività”, rivedendo i concetti psicoanalitici in termini di teoria comportamentale, definisce l’aggressività come un comportamento volto a danneggiare una persona. L’intenzione di far del male è considerata come l’aspetto fondamentale per poter definire il comportamento aggressivo. In questo caso vengono, però, sottovalutate altre forme di aggressività, quali la verbale, la simbolica o la strumentale che ha, invece, uno scopo costruttivo. L’aggressività costruttiva rappresenta un comportamento finalizzato, cioè diretto a rimuovere o superare tutto ciò che costituisce una minaccia per l’integrità fisica o psicologica di un organismo vivente. In questa visione ogni forma di aggressività dovrebbe essere considerata strumentale. Se si definisce l’aggressività solo come una reazione tesa a provocare un danno in un altro essere vivente non si prende in considerazione l’intenzionalità, né si esclude il danno accidentale. Anche la nozione di aspettativa, intesa come percezione di poter arrecare danno alla vittima, non deve essere sottovalutata. Allo stato delle conoscenze attuali, tre appaiono essere gli aspetti fondamentali che consentono di classificare un atto come aggressivo: l’intento, l’azione e lo stato emotivo. L’intento rappresenta la volontà di arrecare un danno o in modo diretto, o attraverso la burla o impedendo a ___________________________________________________________ 1.Freud S. (1915) Pulsioni e loro destini. Freud contempla sia ipotesi dell’aggressività come componente dell’istinto sessuale, sia l’ipotesi dell’aggressività come pulsione indipendente. L’odio è più antico dell’amore. ~ 12 ~ qualcuno di compiere azioni piacevoli. L’intento può essere dedotto dalle dichiarazioni verbali, dall’osservazione delle azioni e dal contesto generale in cui il comportamento viene attuato. All’intenzionalità deve fare seguito l’azione tesa a provocare un danno fisico con o senza aggressività verbale. In altri casi, tuttavia, vi possono essere solo aggressività verbale ed espressioni non verbali dell’intento di aggredire. Le espressioni non verbali dell’aggressività umana, come il fissare o lo stringere i pugni, sono presenti in tutti i primati. La terza caratteristica fondamentale è lo stato emotivo. Se all’aggressività non concomita la “rabbia”, si parla di aggressività strumentale o “fredda”. Nel prototipo aggressivo, tuttavia, la rabbia dovrebbe essere sempre presente, con le variazioni autonome associate. In un atto aggressivo possono essere presenti altri tipi di emozioni che vanno, a seconda dell’intensità, dalla lieve “irritazione” alla grave “ira”. 1.2. CLASSIFICAZIONE. SEMEIOTICA E PSICOPATOLOGIA. Molti sono i modelli interpretativi riportati in letteratura. Un primo sistema categorizza l’aggressività in base all’osservazione del tipo di comportamento aggressivo, per cui atti formalmente simili fanno parte dello stesso sistema. Secondo questo approccio si distinguono una aggressività vocale, una aggressività autodiretta, una eterodiretta verso oggetti o persone. In questo sistema la descrizione e definizione non dipendono dall’organizzazione del comportamento, dalle intenzioni del soggetto e dai meccanismi fisiologici sottostanti, ma si basano solo sull’osservazione della forma dell’atto aggressivo. Questo metodo risulta valido solo per lo studio delle specie animali più semplici, non per il comportamento umano, sul quale influisce l’interazione di molti più fattori. Un secondo approccio si basa sull’osservazione sia degli avvenimenti che precedono la risposta aggressiva, sia dei meccanismi che si trovano alla loro base. Il meccanismo può essere di tipo comportamentale, come ~ 13 ~ l’attacco contro l’altro; di tipo psicologico, come le reazioni di paura; di tipo fisiologico, come l’aumento dell’epinefrina; in tutti questi casi vi è maggiore probabilità di una risposta aggressiva. Questo sistema distingue l’aggressività di tipo predatorio, quella fra maschi, quella indotta dalla paura, dall’irritabilità, quella di difesa territoriale, quella materna, quella strumentale, quella relativa al sesso. La concatenazione degli eventi potrebbe essere: frustrazione, modificazioni fisiologiche e psicologiche, aumento della risposta allo stimolo aggressivo, risposta aggressiva. Questo approccio non risulta facilmente applicabile allo studio del comportamento umano, poiché presuppone il riconoscimento dei meccanismi che sottendono un determinato atto, che sono difficilmente identificabili nell’uomo. Altrettante difficoltà s’incontrano nella classificazione dell’aggressività secondo principi quali lo sviluppo e la predisposizione genetica, o secondo categorie definibili solo intuitivamente, come quelle dell’aggressività per il predominio. Questi aspetti interagirebbero fra loro in varia combinazione determinando i diversi comportamenti. Secondo questo sistema si distinguono un’aggressività territoriale, una per il predominio, una relativa alla funzione genitoriale, una antipredatoria, una moralistica. Le difficoltà incontrate nello studio dell’aggressività sono dovute essenzialmente al fatto che i diversi Autori hanno sempre definito l’aggressività idiosincrasicamente, senza chiarire i concetti sottostanti o interpretando i contributi degli altri alla luce delle proprie concettualizzazioni. Negli studi clinici il termine aggressività è usato con significati soggettivi (ad es. come sicuro segno di psicopatologia, e attributo negativo) per cui spesso nella clinica è ritenuto un termine inutile. Anche nel DSM-IV, il termine aggressività non è specificamente definito. L’American Psychiatric Association definisce l’aggressione come un atto energico fisico, verbale o simbolico. Può essere adeguato e di autoconservazione, o inadeguato come nel comportamento ostile e ~ 14 ~ distruttivo. Può essere diretto verso l’ambiente, un’altra persona o personalità, o verso se stessi, come nella depressione. L’ostilità, invece, va definita come un atto aggressivo reale o minacciato, con intenti distruttivi. 1.3. TIPI DI COMPORTAMENTO AGGRESSIVO Nell’uomo, possono essere definiti sette tipi di comportamento aggressivo: L’aggressività diretta è la tendenza a produrre azioni volte a far del male o comunque a danneggiare gli altri e ciò senza che, in particolari momenti e condizioni, si riesca ad esercitare una qualche forma di controllo sugli impulsi che sostengono una tale tendenza. In questo stereotipo vi è la radicata convinzione che nessun torto o ingiustizia subita o supposta tale debba essere lasciata passare senza una giusta rivalsa e ciò senza eccessive considerazioni sulla dinamica che può aver dato luogo a tali eventi. Non esisterebbe, infatti, nessuna buona ragione per impedire che qualcuno possa venir aggredito o picchiato. Si è convinti che chiunque si rivolge alla propria famiglia o a se stessi in modo ritenuto ingiurioso debba indiscutibilmente cercare lo scontro fisico. Ciò è in perfetto accordo con un’altra convinzione, quella di ritenere l’oramai iconografico pugno sul naso l’unico e possibile modo per allontanare chi troppo “scoccia” senza sentire la necessità di dilungarsi nella messa a punto di condotte verbali più o meno adeguate. In questo stereotipo è completamente sconosciuta tutta quella vasta gamma di reazioni non imperniate sulla forza, come possibili attualizzazioni nella risposta a stimoli e situazioni provocatorie. Non si ha difficoltà alcuna ad ammettere la capacità di prendere a sberle qualcuno, se ci si viene a trovare nella situazione di aver perso la calma; così come anche si ammette che in tali circostanze può essere la prima persona che capita quella giusta per attaccare lite. La violenza fisica è quindi un mezzo più che valido per difendere i propri diritti e dunque non si esita affatto nel servirsene. Si sostiene di conoscere persone che in determinate situazioni conducono al punto in cui l’unica alternativa sembra essere quella di “fare a botte”. ~ 15 ~ Per aggressività indiretta si intendono gli atteggiamenti e le condotte comportamentali di chi l’aggressività la scarica mediante modalità indirette. Chi utilizza prevalentemente questo tipo di aggressività tende a denigrare, talora anche con una certa sistematicità, le persone che non rientrano nell’ambito delle simpatie. Quando si arrabbia “sbatte le porte” o “mette il muso”. Tale comportamento può in taluni casi sfociare in condotte che comprendono anche lo scagliare oggetti. Quando una persona così si abbandona allo scherzo, l’aggressività può trasparire nel non riuscire ad avere il giusto senso o la misura dell’agire e nell’utilizzare quindi “scherzi pesanti”. Abbastanza facilmente perde la calma e l’umore è frequentemente influenzato dalle difficoltà insorte nel realizzare ciò che vuole; spesso diventa “cattivo”. Più volte è presente il ricordo di situazioni in cui la rabbia era talmente tanta da rompere la prima cosa che capitava per le mani. Ma anche al di fuori di situazioni così estreme, il semplice battere i pugni sul tavolo dà ampia dimostrazione dello stato collerico vissuto. Nell’irritabilità le sequenze comportamentali stereotipate presentano specifiche peculiarità qui di seguito riportate. L’individuo irritabile è tutt’altro che animato di tolleranza e pazienza nei confronti degli altri. Ammette con una certa disinvoltura di perdere la calma, ma subito aggiunge di riuscire almeno altrettanto prontamente a recuperare il giusto equilibrio. Immediatamente viene irritato dalla convinzione di essere stato trattato ingiustamente o dalla consapevolezza di essere oggetto di scherzo o burla. Ritiene di non lasciar trasparire in modo pienamente adeguato lo stato emozionale, cosicché gli altri non ne avrebbero conoscenza. Si irrita così facilmente che anche il semplice stare a contatto con la gente può provocare insoddisfazione e vero e proprio fastidio. Talora può ben palparsi la spiacevole sensazione di essere sull’orlo di “esplodere”, cosicché la voglia di attaccare lite è spesso molto sentita. Anche le cose di poco conto possono essere causa d’irritazione e questo può indurre irrefrenabilmente a condotte sgarbate, particolarmente nella direzione di coloro che sono giudicate persone non piacevoli. Spesso è presente il ricordo di essere stati ~ 16 ~ recentemente di pessimo umore. Il negativismo si fonda su una marcata e insistente opposizione nel rapporto interattivo che da tale modalità è contrassegnato costantemente. Se si pongono regole non comprese o comunque non condivise, è possibile cogliere, nel soggetto negativista, il desiderio e la tentazione alla trasgressione. Il rifiuto di eseguire qualsiasi tipo di compito, se non chiesto con gentilezza, è un dato facilmente acquisibile. Infatti, il soggetto è fermamente animato dalla volontà di fare esattamente l’opposto di ciò che è chiesto, se chi lo chiede, è un arrogante. La prepotenza è dunque una modalità d’interazione molto poco tollerata e rappresenta anzi un’occasione per far notare la propria rabbia. Nel risentimento è possibile evidenziare come comune denominatore un certo grado di sentimenti d’ingiustizia e d’insoddisfazione. Il soggetto sostiene di non meritare affatto quello che sta accadendo, tanto più che è ben viva la convinzione che gli altri riescano sempre, in un modo o nell’altro, a ottenere ciò che vogliono. Almeno un punto di risentimento è presente anche quando la persona fa riferimento alle esperienze trascorse e talora non riesce a fare a meno di sentirsi “divorato” dalla gelosia, pur essendo convinto di non darlo a vedere. È animato da un certo grado di pessimismo e sostiene come non passi settimana senza incontrare qualcuno non di gradimento ed allo stesso modo di non conoscere persona alcuna che per un motivo o per un altro non possa essere considerata oggetto di odio. Non raramente è convinto di aver ottenuto dalla vita quanto di peggio questa potesse dare, ma al tempo stesso valuta opportuno fare in modo di lasciar capire agli altri i propri intendimenti e ciò soprattutto allo scopo di non essere giudicato come persona con cui è difficile andare d’accordo. Lo stereotipo nella sospettosità è caratterizzato dalla convinzione di essere denigrati. Coerentemente a tale convinzione il soggetto può pensare di non risultare simpatico o addirittura di essere detestato; si tende così a ~ 17 ~ mantenere una guardia serrata verso le persone animate da gentilezza, specialmente se questa va oltre le aspettative, che peraltro sono sempre abbastanza modeste. Si considera spesso invidioso il comportamento degli altri, così da giustificare in modo solido e razionale il motto “diffida sempre degli estranei”. Talora è presente anche la preoccupazione di essere oggetto di derisione e dunque l’idea che si può ben comprendere come sempre ci si chieda se non ci sia qualche secondo fine per chi si dimostra gentile. Da tempo la convinzione che la gente sia sincera è stata abbandonata così da non pensare, al di là delle affermazioni, all’esistenza di anche una sola persona considerata non animata dalla reale volontà di arrecare danno. Infine un’altra convinzione, spesso frequente, è quella di ritenere gli altri dediti alla provocazione o all’insulto. Per quanto riguarda l’aggressività verbale, il soggetto è sempre disposto a disapprovare certe azioni, anche se di amici, e a trovare il modo di farlo notare. Non riesce ad evitare la polemica con tutti quelli che non sono d’accordo e pertanto l’essere in disaccordo con gli altri è sempre più una costante. Non esita a ricorrere all’utilizzo di male parole quando, arrabbiato, vuole affermare e ribadire la pretesa al rispetto da parte degli altri. Quindi tende a manifestare ciò che pensa ad una qualsiasi persona se la ritiene inopportuna, anche se ciò può indurre a dire cose spiacevoli. È pure presente un discreto grado di sospettosità ed, infatti, è subito pronto a domandarsi cosa “possa esserci sotto” quando una persona si dimostra gentile. A parole sa, o crede di saper tener testa a chiunque; non esita ad alzare la voce per sostenere opinioni personali e talora si lascia andare a minacce che poi non intende affatto tradurre in pratica. Mai è disposto a passare sopra a qualcosa di non condiviso, non si fa scrupolo alcuno ad aprire una polemica con gli altri pur di sostenere ciò che vuole. Nella colpa per il proprio comportamento aggressivo, il soggetto è caratterizzato da una forte coscienza morale che talora lo confina nella condizione di sentire un grande rimorso, se a volte ha ingannato qualcuno. ~ 18 ~ Spesso è dotato di una notevole rigidità e può provare vergogna nel giudicare se stesso. Ha la convinzione che un discreto senso di colpa sia proprio di coloro che sul lavoro non fanno fino in fondo il proprio dovere. Talora è rattristato per non aver potuto far di più per i suoi genitori e a volte la sua mente è assalita dal pensiero di non aver vissuto rettamente. Presente è anche la preoccupazione di non sapere se si potrà ottenere il perdono dei propri peccati. Sia il fare certe cose che il non riuscirne a fare altre può provocare un senso di rimorso ed anche gli errori commessi s’inseriscono nella stessa prospettiva provocando rimorsi di coscienza che possono permanere a lungo nel tempo. ~ 19 ~ ~ 20 ~ CAPITOLO 2: PSICODINAMICA DELL’AGGRESSIVITÀ La questione principale è la seguente: noi siamo guidati dal nostro istinto verso l’odio e la crudeltà e, pertanto, la vita è una continua lotta per vincere e rinunciare a queste passioni o siamo nati innocenti e alcuni, poi, diventano aggressivi in seguito a deprivazioni e a crudeltà subite? Se l’aggressività è un fondamentale e irriducibile istinto umano, allora deve essere vista, insieme alle sue varie manifestazioni, come qualcosa che è presente necessariamente e inevitabilmente al centro della vita emozionale; il sadismo, l’odio, la sete di vendetta e tutte le più oscure passioni umane devono essere considerate come un fondamentale e inevitabile dominio del Sé. Se, invece, l’aggressività è qualcosa di reattivo o di difensivo, senza un significato dinamico, la sua spiegazione va ricondotta all’ambiente che provoca l’aggressività, alla patologia familiare e alle precoci deprivazioni. Mentre gli storici, i teologi, i filosofi hanno da sempre riconosciuto e dibattuto gli aspetti distruttivi e aggressivi dell’uomo, la psicologia scientifica paradossalmente è giunta molto tardi ad assegnare all’aggressività un posto di primaria importanza nelle teorie che riguardano la struttura psicologica dell’uomo e il suo comportamento. La psicoanalisi ha dato ad essa un posto fondamentale, anche se lo stesso Freud2 avrebbe ammesso molto tardi la sua importanza: “Perché” – egli si chiedeva nel 1932 nella sua “Introduzione alla psicoanalisi” – “ci è stato necessario tanto tempo prima di deciderci ad ammettere una pulsione aggressiva? Perché abbiamo esitato ad utilizzare, per la teoria, dei fatti che erano evidenti e familiari a chiunque?” ____________________________________________________________ 2. Freud S. (1932) Introduzione alla psicoanalisi. Le pulsioni possono essere libidiche e aggressive. I moti pulsionali risultano da un impasto tra queste due gruppi di pulsioni. ~ 21 ~ Nel 1908 Alfred Adler3 aveva avanzato per primo l’idea che l’aggressività fosse una pulsione innata o primaria. Il concetto di pulsione aggressiva è stato per Adler il punto di partenza per l’elaborazione di una nuova teoria secondo la quale tutti i modelli comportamentali sorgevano da una “protesta virile” aggressiva contro sentimenti di inferiorità, e la sessualità era ridotta al tentativo aggressivo da parte dell’uomo di dominare la donna. Il fatto di non aver tenuto conto delle scoperte dell’inconscio e della sessualità infantile ha portato Adler a un disaccordo e ad una definitiva rottura con Freud; quest’ultimo, da parte sua, non era riuscito a capire che il concetto di aggressività, come istinto innato, potesse rappresentare un elemento nuovo e importante per l’evoluzione della sua teoria. Non è corretto, però, affermare che la teoria psicoanalitica rifiutasse, prima della “svolta del 1920”, di prendere in considerazione le condotte aggressive. Infatti, sin dai suoi primi articoli, Freud descriveva spesso i pensieri e i sentimenti aggressivi che i suoi pazienti gli riferivano nel corso delle libere associazioni. Nella sua prima esposizione del complesso di Edipo, egli descrisse la gelosia aggressiva del bambino piccolo nei confronti del padre. In “Tre saggi sulla teoria sessuale” del 1905 riconosce nuovamente l’aggressività nel fenomeno del sadismo, anche se come una manifestazione perversa della libido o istinto sessuale. Nonostante la frequenza di queste osservazioni l’aggressività non trovava posto nella cosiddetta teoria topografica della struttura psichica, dove l’interesse era focalizzato quasi completamente sulla libido. Nella prima teoria delle pulsioni, alle pulsioni autoconservazione, che sessuali hanno vengono come funzione opposte il quelle mantenimento di e l’affermazione dell’esistenza individuale. La spiegazione di condotte e ____________________________________________________________ 3. Adler A. (1912) Il temperamento nervoso. Roma; Astrolabio 1950. L’aggressività è l’espressione della volontà di potenza dell’individuo, il quale tenta per questa via di compensare il troppo senso di inferiorità. ~ 22 ~ sentimenti aggressivi (sadismo, odio, ecc.) era cercata in un gioco complesso di questi due grandi tipi di pulsioni. Nel 1915, trattando il problema dell’odio in “Pulsioni e loro destino”, Freud ha elaborato l’ipotesi che l’aggressività fosse anch’essa una componente degli istinti dell’Io («i veri prototipi della relazione di odio non vengono dalla vita sessuale, ma dalla lotta dell’Io per la sua conservazione e la sua affermazione»). Con la pubblicazione di “Al di là del principio del piacere”, l’aggressività svolge un ruolo più importante diventando la manifestazione esterna di una forza più importante, l’istinto di morte. La pulsione di morte, contrapposta alla pulsione vitale rappresentata dalla libido, tenderebbe alla completa riduzione delle tensioni, cioè a ricondurre l’essere vivente allo stato inorganico. Diretta inizialmente all’interno e tesa all’autodistruzione, la pulsione di morte verrebbe secondariamente diretta all’esterno manifestandosi sotto forma di pulsione aggressiva o di distruzione. Nel tentativo di capire il fenomeno dell’aggressività rivolta contro se stessi, che si manifesta nel suicidio e nella coazione a ripetere situazioni spiacevoli o traumatiche del passato, Freud ha elaborato l’ipotesi che esistesse “[…] una necessità, intrinseca alla vita organica, di restaurare una condizione primitiva; con la morte, cioè, l’organismo torna allo stato inorganico. Il soggetto continua a vivere […]” – sostiene Freud – “[…] perché l’aggressività è rivolta verso gli oggetti esterni e perché l’istinto di morte è a sua volta combattuto dalle forze dell’Eros”. È soprattutto dopo lo studio economico del masochismo4 del 1924 che Freud comincia a parlare di pulsione aggressiva; si tratterebbe, nella concezione freudiana, di un dinamismo specifico (differente dalle altre pulsioni), elementare (una ____________________________________________________________ 4. Freud S. (1924) Il problema economico del masochismo. La relazione tra i due istinti di vita e di morte viene ancor più precisa nel gioco delle loro reciproche funzioni. ~ 23 ~ pulsione omogenea in se stessa) e globale (ossia pulsione totale); Freud considerava questo “Aggressionstrieb” come la parte centrifuga della pulsione di morte. Si è molto discusso, in seguito, fra gli psicanalisti sull’esistenza di un antagonismo primario fra la pulsione sessuale e la pulsione di aggressione, come sostenuto nel 1932 dallo stesso Freud. Nel successivo sviluppo della teoria freudiana sugli istinti di vita e di morte, alcuni, come Paul Federn (1932), Melanie Klein (1948), Karl Menninger (1938), hanno accolto l’ipotesi di Freud di un istinto di morte primario e hanno elaborato ulteriormente il concetto. Altri (Otto Fenichel (1945) e Ernest Jones(1928)) non ritenevano necessaria un’astrazione metapsicologica così spinta sostenendo che le osservazioni cliniche si possono spiegare sufficientemente con il semplice concetto di una pulsione aggressiva, senza che questo implichi che la pulsione sia eminentemente autodistruttiva o basata su caratteristiche delle cellule viventi. Si può dire, comunque, che dalla teoria freudiana di pulsione di aggressione si sono sviluppate due grandi e del tutto differenti linee di teorizzazione: la prima, sostenuta da Heinz Hartmann e Ernst Kris (nel 1939)5, si sviluppa entro la psicologia freudiana dell’Io, l’altra è nata all’interno del pensiero di M. Klein. Hartmann e Kris6 sostenevano la separazione della pulsione aggressiva dall’istinto di morte e hanno introdotto il concetto di neutralizzazione, attraverso il quale la pulsione aggressiva viene privata delle sue qualità ____________________________________________________________ 5. Hartman H. (1939) Psicologia dell’Io e problema dell’adattamento. Torino: Boringhieri, 1966. Coerentemente con l’ipotesi di un’area dell’Io libera da conflitti, viene postulato un processo di neutralizzazione delle pulsioni, sia libidiche che aggressive. Il fine è quello di adattare l’Io all’ambiente esterno. 6. Hartman H., Kris E., Loewenstein R.M. (1964) Note sulla teoria dell’aggressività, In: Scritti di psicologia psicoanalitica. Torino: Boringhieri, 1978. Viene svolto i tema della “depulsionalizzazione dell’energia aggressiva”. Questa energia neutralizzata non viene rivolta contro l’Io, anzi, l’Io anziché restarne distrutto, ottiene da essa la “forza motrice” per funzionare e agire. ~ 24 ~ primitive, e usata dall’Io, libero dai conflitti, per le sue operazioni. Tuttavia, Hartmann e Kris ritenevano che l’aspetto più importante dell’approccio di Freud all’aggressività fosse legato al successivo studio della sessualità. Essi sottolineavano le origini endogene, spontanee e propulsive dell’aggressività e il fatto che quest’ultima non deriva dalla deprivazione o dalla frustrazione della ricerca del piacere, ma è una pulsione simile alla libido. Melanie Klein (1948)7, a differenza di Hartmann e Kris aveva accolto molto seriamente l’idea di Freud che l’aggressività origina dall’istinto di morte e vedeva l’aggressività come centrale nella formazione della struttura psichica nei primi anni di vita e successivamente per tutto il corso della vita. La Klein ritiene che la distruttività non è distante dall’amore e dalla devozione; infatti, la capacità di amare presuppone lo sviluppo della credenza nella propria capacità di riparare al danno che si procura continuamente ai propri oggetti d’amore, esterni ed interni. Altre teorie ampiamente riviste da Mitchell (1993) vedono l’aggressività come una difesa o come la conseguenza di altri stimoli primitivi; ad esempio, secondo Harry Sullivan (1940), come l’aggressività opera per lo più come una difesa contro il bisogno di aiuto generato dall’esperienza di ansietà; per Ronald Fairbairn (Teoria delle relazioni oggettuali, 1952) l’aggressività è una reazione alla deprivazione e alla mancanza di gratificazione che è provocata dall’intensa dipendenza del bambino e dalla ricerca di oggetto. Secondo quest’ Autore è compito dell’analista far notare al paziente gli aspetti della libido che si trovano dietro la sua aggressività. La parola “dietro” è interessante, perché attraverso la metafora spaziale ____________________________________________________________ 7. Klein M. (1921-58) Scritti 1921-1958. Torino: Boringhieri, 1978. Per la Klein l’aggressività è una pulsione innata e primaria, espressione dell’istinto di morte. Il bambino nutre fantasie arcaiche di sadismo orale, uretrale, anale. La sua distruttività è precocissima. ~ 25 ~ consente, agli psicanalisti che non riconoscono l’aggressività come pulsione, di svalutarne il significato clinico e di sottolinearne l’aspetto di superficialità rispetto ad altre motivazioni. Il contributo di Harry Guntrip (1968) chiarisce ulteriormente quest’ aspetto: egli vede l’aggressività come una reazione e con la più superficiale e difensiva dimensione dell’esperienza umana; la parte centrale più profonda del Sé fa riferimento alla parte regressiva più ritirata dalla ricerca di oggetti e d’amore. Nella parte centrale della sua argomentazione Guntrip sostiene: “[…] nel separare la classica depressione come il livello più alto di difesa di aggressività e colpa dalla regressione come il più basso livello di difesa di fronte a timore, fuga infantile debolezza dell’Io [...] noi dobbiamo riconoscere ad esso che la sessualità patologica e le pulsioni aggressive non sono fatti primari, ma secondari al timore, all’ansia e alla fuga”. Heinz Kohut (La teoria dell’aggressività e analisi del Sé. In: La guarigione del Sé. Boringhieri, Torino,1980.8) offre una comprensione dell’aggressività molto simile considerandola come una reazione che sorge originariamente come risultato al fallimento dell’ambiente oggetto - Sé a corrispondere al bisogno del bambino di indispensabili risposte necessarie al suo sviluppo. Egli afferma che i fenomeni che hanno a che fare con l’affermazione, l’odio e la distruttività, possono essere considerati come secondari. Heinz Kohut considera inadeguata la formulazione psicoanalitica classica, secondo cui le tendenze aggressive sono profondamente radicate nell’assetto biologico dell’uomo e ritiene che una concezione di distruttività, intesa come istinto primario che mira al suo scopo e cerca uno sbocco, non aiuti l’analista che cerca di mettere in grado i suoi pazienti di padroneggiare la loro ____________________________________________________________ 8. Kohut H. (1977) La guarigione del Sé. Torino.: Boringhieri, 1980. Come per sopravvivere fisicamente il neonato ha bisogno dell’ossigeno, così per sopravvivere psicologicamente ha bisogno di un ambiente umano empatico. L’aggressività primaria fa parte di una configurazione auto affermativa non distruttiva. La rabbia distruttiva è secondaria a una ferita al Sé. ~ 26 ~ aggressività. Kohut ribadisce che non è giunto alle sue concezioni sulla natura della distruttività per via speculativa, ma che le sue formulazioni teoriche derivano da dati empirici, ottenuti attraverso lo studio delle comunicazioni dei suoi analizzandi; ed è in base allo studio delle “resistenze” e delle “traslazioni negative” dei suoi pazienti che è giunto a considerare l’aggressività non come la manifestazione di una pulsione primaria gradualmente rivelata dal processo analitico, ma come un prodotto di disintegrazione, primitivo, ma non psicologicamente primario. Afferma Kohut: “[…] il livello più profondo a cui la psicoanalisi può penetrare quando segue le tracce della distruttività non è raggiunto quando l’analizzando è divenuto cosciente del fatto che vuole (o voleva) uccidere. Questa consapevolezza è solo una tappa intermedia che porta alla “roccia basilare psicologica”: alla presa di coscienza da parte dell’analizzando della presenza di una grave ferita narcisistica9, una ferita che ha minacciato la coesione del Sé, specialmente di una ferita narcisistica inferta dall’oggetto Sé dell’infanzia […]”. In modo simile, nel suo trattato “Anatomia della distruttività umana” (Mondadori, 1975)10 , Erich Fromm sostiene che, passando in rassegna la letteratura su neuropsicologia e psicologia dell’aggressività degli animali e dell’uomo, le conclusioni che si possono trarre sono che il comportamento ____________________________________________________________ 9. Kohut H. (1972) Pensieri sul narcisismo e sulla rabbia narcisistica. In: La ricerca del Sé. Torino: Boringhieri, 1982. La carenza cronica di empatia da parte della madre e del padre provoca ferite narcisistiche nel bambino, che risponde sviluppando rabbia narcisistica. 10. Fromm E. (1973) Anatomia delle distruttività umana. Milano: Mondadori, 1975. Fromm distingue l’aggressività benigna da quella maligna. La prima è difensiva e adattativa, ha la base biologica ed è presente anche negli animali. La seconda non ha le basi biologiche dimostrate ed è esclusivamente umana. Essa può dar luogo al sadismo, che è il piacere di far soffrire un’altro essere vivente, compatibile con la vita, e alla distruttività, che mira a sopprimere ciò che è vivo e i prodotti della sua creatività. ~ 27 ~ aggressivo degli animali sia la risposta ad una minaccia alla sopravvivenza o, meglio, all’interesse vitale dell’animale sia come singolo che come appartenente alla sua specie. Quest’ aggressività filogeneticamente programmata negli animali e nell’uomo è – secondo Fromm – una reazione (biologica) adattiva e di difesa. Per Niemah l’aggressività è uno degli aspetti più importanti della clinica della depressione; essa rende ragione degli atteggiamenti di autodenigrazione e di autopunizione caratteristici della depressione grave e complica il disturbo con il pericolo di suicidio, azione nella quale l’aggressività è diretta letteralmente verso la propria persona fisica. Oltre a questo esiste un altro processo che comporta l’introiezione dell’immagine della persona verso cui l’aggressività è diretta. Il successivo attacco contro l’immagine introiettata diventa, pertanto, effettivamente un attacco contro se stessi. Per finire, il Super-Io è un fattore importante nell’incanalare una parte dell’aggressività e nel dirigerla contro se stessi, sottoforma di un giudizio su di sé. Importanti sono le posizioni prese da Otto Kernberg (1982) da un lato e da Robert Stolorow (1987) dall’altro. Il primo vede nel rifiuto della teoria dell’istinto in favore di quella del fallimento dell’ambiente un equivalente al rifiuto delle basi biologiche dello sviluppo dell’individuo. Secondo Kernberg l’aggressività non è la risposta ad una situazione, ma un ingiustificato, distorto e prestrutturato insieme di propensioni verso una situazione. L’abbandono della teoria della pulsione aggressiva conduce al fallimento nell’interpretare queste predisposizioni inducendo gli analisti, che non considerano l’aggressività una pulsione, a sbagliare e sostanzialmente a “coccolare” i pazienti in modo non analitico. Queste affermazioni sono diametralmente opposte a quelle di Stolorow, citato da Mitchell, che vede l’aggressività primitiva come una conseguenza inevitabile, non intenzionale e iatrogena di un determinato approccio ~ 28 ~ terapeutico. Il paziente, spiega l’Autore, rivive una fissazione ad uno stadio arcaico di sviluppo oppure sente il bisogno, all’interno della relazione terapeutica, di riprendere uno stadio evolutivo precedentemente fallito e l’analista interpreta questa necessità come una difesa patologica; il paziente, allora, vivrebbe questo errore d’interpretazione come un significativo fallimento nel rapporto di sintonia e di fiducia con il terapeuta e come una ferita narcisistica. Altri due importanti e originali approcci al dibattito sull’aggressività vengono da Donald W. Winnicott (1950)11 e David Shaffer (Piccin, 1998). Freud riteneva che il Sé fosse generato e strutturato attraverso la canalizzazione delle pulsioni, per Winnicott, invece lo sviluppo del Sé è condizionato dalle precoci interazioni con la madre e dall’esperienza istituzionale. Occorre ricordare che quando Winnicott parla di esperienza istituzionale questa ha poco a che fare con ciò che Freud intendeva per pulsione; in Winnicott, infatti, sembra riferirsi ad eventi corporei piuttosto che a sorgenti profonde, propulsive e motivazionali. Dobbiamo a quest’ultimo psicoanalista la distinzione di un vero Sé da uno falso; questa distinzione, che attribuisce al primo l’integrazione del mondo personale interno conscio o inconscio e al secondo le caratteristiche di superficialità, di inautenticità e orientamento verso la socialità, si basa sulle ipotesi di onnipotenza e di allucinazioni infantili. Il falso Sé si svilupperebbe, infatti, nella relazione madre-bambino quando il bambino non è integrato e la coesione di vari elementi sensomotori è ancora dipendente dalla funzione di holding della madre. Un gesto che esprime un impulso spontaneo è il vero Sé ed esso si sviluppa quando una madre abbastanza buona incontra l’onnipotenza del neonato e gli dà un senso. Se la madre non è in grado di completare l’onnipotenza del bambino ____________________________________________________________ 11. Winnicott D.W. (1950) L’aggressività ed il rapporto con lo sviluppo emozionale; Winnicott D.W. (1954), La posizione depressiva nello sviluppo emozionale normale. Entrambi i saggi sono contenuti nel volume: Winnicott D.W. (1958), Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975. ~ 29 ~ e, invece di andare incontro al gesto spontaneo e all’allucinazione sensoriale del figlio, gli restituisce un proprio gesto cui il bambino dà un senso, si costituiscono gli stadi precoci del falso Sé. Attraverso quest’ultimo, il bambino costituisce un falso insieme di relazioni e una falsa apparenza di normalità la cui funzione più importante è quella di nascondere il vero Sé, il che può avvenire in maniera anche completa. Nel ridefinire gli istinti e nel ricollocare gli eventi corporei all’interno di un contesto relazionale, Winnicott fa il possibile per trattenere e reinterpretare, in una prospettiva relazionale, cosa sia più utile per il modello pulsionale; la sua attenzione è rivolta al corpo e al potere fisiologico di sessualità e aggressività. Da un’angolatura completamente differente David Shaffer (1977) ha presentato una sostanziale e incisiva critica al tradizionale linguaggio psicoanalitico, che, secondo questo Autore, è costruito sopra una reificazione di metafore riguardanti spazi, cose, sostanze ed eventi che si trovano presumibilmente nella mente. La tendenza osservata in William Fairbairn (1952), Harry Guntrip (1968) e Heinz Kohut (1972) a vedere la mente umana come una stratificazione da un livello superficiale fino a uno profondo, rappresenta un eccellente esempio di ciò che Shaffer critica. L’applicazione dell’approccio di Shaffer alle emozioni costituisce uno dei più sorprendenti e provocanti aspetti del suo contributo. In modo opposto alla nostra tendenza che consiste nel vivere passivamente le nostre emozioni, secondo Shaffer esse sono delle vere e proprie azioni, che vengono intraprese con intenzionalità e ragionamento. Secondo questo studioso gran parte del linguaggio comune dell’esperienza deriva da esperienze corporee preverbali, infantili e con tutti gli errori e i misconoscimenti del pensiero infantile; sono proprio questi misconoscimenti che vengono alla luce attraverso i processi analitici. Il concetto di pulsione aggressiva è visto come qualcosa che nasce spontaneamente, che crea delle pressioni progressive cercando di fuoriuscire; quando ci riesce provoca la catarsi, se invece viene arginata determina una sorte di intossicazione. Shaffer critica la teorizzazione degli affetti che presenta questi ultimi come modalità ~ 30 ~ sostanziali e aprioristiche, come entità semplicemente esistenti, come dati di fatto che s’impongono ad un soggetto passivo; la rabbia costituisce un esempio di un oggetto la cui concettualizzazione è stata danneggiata dai concetti di interno ed esterno; abbiamo creato un’entità, una sostanza (come la lava in un cratere vulcanico), una quantità di energia che si comporta come se fosse una persona e noi – continua l’Autore – la descriviamo come violenta, ostile, distruttiva, che ci sconvolge e con la quale contrastiamo, che è nel Sé, ma non fa parte del Sé. Molti degli Autori che non credono all’esistenza di una pulsione aggressiva, compresi Heinz Guntrip (Teoria psicoanalitica della relazione d'oggetto, 1968), Harry Sullivan (Teoria evolutiva,1940), Heinz Kohut (La guarigione di Sé, 1977) e Erich Fromm (Anatomia della distruttività umana, (Anatomia della distruttività umana, 1973), fanno riferimento alla nozione (sostenuta dalla teoria del comportamentismo) di “lotta/fuga” in risposta a minaccia o pericolo. Questo tipo di approccio è in sintonia con le più importanti tendenze della moderna etologia, dove (eccetto Konrad Lorenz) l’aggressività tende ad essere compresa non come uno stimolo endogeno che insorge spontaneamente ma come reazione ad uno stimolo specifico. Gli studi etologici hanno permesso di evidenziare un tipo di aggressività interspecifica, legata prevalentemente all’attività di preda, di difesa, e una aggressività intraspecifica generalmente ritualizzata e gerarchizzata, volta essenzialmente alla difesa del territorio e alla conquista sessuale. Emerge così l’importanza di una distanza minima fra congeneri, al disotto della quale viene inevitabilmente evocata una condotta aggressiva Jean Bergeret (Psicologia patologica. Teoria e clinica, 2009) sostiene12 che _________________________________________________________ 12. Bergeret J. (1984) La violence fondamentale. Paris: Dunod. La violenza fondamentale è innata e non è né buona né cattiva. Non è da trattare né da prevenire. Essa costituisce l’istinto di sopravvivenza e fornisce energia alla libido, ma questa può anche sottrarre componenti quando si trasforma in oddio e aggressività. ~ 31 ~ esiste un istinto innato violento, comune all’uomo e agli animali, e che tale istinto sarebbe risvegliato nell’immaginario interattivo fra genitori e figli prima che divenga efficace il primato organizzativo edipico. Quest’ultimo, di tipo triangolare e genitale, giunge naturalmente – come spiegava Freud – a inglobare e integrare questo fondamento immaginario violento. Freud – ricorda Bergeret – ha sempre sostenuto che l’evoluzione libidica deve pervenire ad appoggiarsi positivamente sulla violenza primitiva puramente autoconservativa. Quest’ultima non può essere confusa con l’odio, né con l’aggressività, né soprattutto essere assimilata alla pulsione di morte. Si tratta semplicemente di una volontà di sopravvivere, di uno scontro violento fra due generazioni, quella dei genitori e quella dei figli, di un vissuto immaginario di impossibilità della coesistenza fra il bambino da una parte e i genitori dall’altra, sia la madre che il padre. In generale, secondo l’Autore, tutto questo si svolge molto rapidamente nell’inconscio, prima di essere recuperato dall’elaborazione libidica e creatrice; ma i primi fantasmi inconsci restano di tipo violento: parenticidio da una parte (matricidio o patricidio) e infanticidio dall’altra (sia da parte della madre che da parte del padre). La psicosi puerperale rappresenta per Bergeret solo l’apparizione cosciente di un fantasma universale e presente abitualmente in modo inconscio in tutte le madri. Secondo Stephen A. Mitchell (Speranza e timore in psicoanalisi,1993) 13 caratterizzare l’aggressività come una reazione non deve mettere in discussione le sue basi biologiche, piuttosto si può pensare che gli aspetti biologici dell’aggressività non operino come una pulsione, ma come un potenziale dell’individuo, che è evocato da circostanze percepite soggettivamente come minacciose o pericolose. Per molti pazienti, la ____________________________________________________________ 13. Mitchell S.A. (1993) Speranza e timore in psicoanalisi. Torino: Bollati Boringhieri, 1995. L’aggressività può essere intesa come assertività e in tal senso è un fenomeno vitale. L’aggressività distruttiva invece è patologica in quanto diventa un elemento organizzatore di un Sé debole che si sperimenta minacciato e minaccioso. ~ 32 ~ situazione analitica è sentita – afferma Mitchell – come estremamente pericolosa e minacciosa per l’integrità del Sé; ci sono persone per le quali l’aggressività rappresenta uno stile di vita e l’odio un modo per vitalizzare le relazioni con gli altri oltre che se stessi. Gli analizzandi arrivano alla situazione analitica non solo con buone intenzioni, ma anche con propositi cattivi e distruttivi. In una esperienza psicoanalitica profonda, l’analizzando impara a riconoscere la distruttività che è così centrale all’esperienza del Sé e che spesso è sottostante alla capacità di amare. È solo con la comprensione della propria aggressività che è possibile superarla attraverso un atteggiamento di indulgenza e di riparazione verso gli altri, verso gli oggetti interni e, infine, verso se stessi. Mitchell sostiene che il modello pulsionale dell’aggressività ha contribuito alla nostra conoscenza del significato profondo della distruttività nella motivazione umana e la sua centralità nella formazione del Sé. Gli altri modelli dell’aggressività, che non si basano sulle pulsioni, hanno accresciuto la nostra conoscenza del contesto soggettivo entro il quale originano la rabbia e la distruttività. Per Mitchell un buon psicoanalista lavora tenendo conto di tutti e due questi aspetti ed assume una propria teoria comprensiva di entrambi i modelli. Tuttavia, conclude l’Autore, la polarizzazione intorno al concetto di pulsione aggressiva ha precluso lo sviluppo di una prospettiva che riconosca all’aggressività la centralità che le è dovuta e nello stesso tempo la ponga nel suo originale contesto di un Sé in pericolo e che fa il possibile per la sua completa risoluzione analitica. Se alla teorizzazione di Freud del 1920 va riconosciuto il merito di avere indirizzato l’attenzione della psicoanalisi sul problema dell’aggressività, le successive opinioni spesso discordanti hanno allargato il dibattito sulla natura dell’aggressività in quanto pulsione primaria o derivata da un altro istinto o come modalità di risposta alle frustrazioni, sul tipo di energia che le pertiene, sulla sua neutralizzazione e sul suo sviluppo. ~ 33 ~ Uno degli aspetti che non è stato ancora sufficientemente indagato riguarda i rapporti fra l’aggressività intesa nel senso negativo di odio e distruzione e in quello positivo di autoaffermazione e di espansività. Per concludere va riportato quanto sostenuto da Philippe Jeammet (1988): “[…] La pulsione di morte mette l’accento sulla presenza, all’interno dell’organismo, di un potenziale distruttivo. In questa prospettiva la minaccia essenziale è l’autodistruzione; le condotte eteroaggressive sarebbero comunque secondarie e, in ultima istanza, comporterebbero una prognosi più favorevole in quanto sottraggono l’individuo al pericolo maggiore: il completo ripiegamento su se stesso […]”. Adottare questo punto di vista significa attribuire valore al ruolo essenzialmente vitale dell’oggetto, che obbliga il soggetto a uscire da se stesso e a indirizzare all’esterno la sua aggressività. Se la relazione comporta comunque un lato positivo e libidico, la relazione oggettuale consente allora di fondere aggressività e libido, diminuendo il potenziale distruttivo. In questo contesto le frustrazioni sono inevitabili, ma necessarie in quanto mobilitano l’aggressività e la legano agli oggetti. Il pericolo maggiore per l’individuo, ricorda Jeammet, è dato dal ripiegamento su se stesso e dalle diverse forme di autodistruttività: suicidio, condotte di scacco, malattie psicosomatiche, distruzione schizofrenica del pensiero e dell’identità. ~ 34 ~ CAPITOLO 3: PSICOBIOLOGIA DELL’AGGRESSIVITÀ 3.1. ASPETTI ETOLOGICI Un notevole apporto allo studio dell’aggressività è stato dato in particolare dall’opera di Konrad Lorenz (L'anello di Re Salomone (1949)), secondo il quale tutti i comportamenti aggressivi dell’uomo, dalle guerre alle liti personali, derivano da un istinto primario, programmato filogeneticamente ed alimentato da una fonte energetica sempre presente. Per Lorenz l’aggressività è una forza interiore che tende a scaricarsi, cercando l’occasione propizia, ed è quindi al servizio della vita servendo a garantire la sopravvivenza dell’individuo e della specie. Infatti, nonostante la spontaneità dell’impulso aggressivo e la sua pericolosità, essendo esso innato e non eliminabile, ben raramente animali di una stessa specie si uccidono tra loro. Ciò è reso possibile per l’intervento di alcuni meccanismi frenanti fra cui il “moto ri-diretto”, attività che, innescata da un oggetto che provoca contemporaneamente stimoli inibitori, viene sfogata su di un altro oggetto, e la “ritualizzazione”, che si riferisce a quei comportamenti che hanno perso la loro specifica funzione originaria e sono diventati pure cerimonie simboliche, dall’esibizione di atteggiamenti di minaccia alla lotta ritualizzata vera e propria. Questi due meccanismi hanno la funzione di dirottare l’aggressività verso canali innocui, riducendone gli effetti dannosi per la conservazione della specie. 3.2. ASPETTI COMPORTAMENTALI L’ipotesi frustrazione-aggressività è stata sviluppata nei contributi di John Dollard (Teoria dell’apprendimento sociale, 1964), Elgar Miller (Miller & Dollard (1941), ed in particolare il loro concetto di modellamento) e Robert R. Sears (1967) realizzati presso l’Università di Yale e confluiti nell’opera “Frustrazione e Aggressività”, in cui viene fatto esplicito riferimento all’opera freudiana (“Lutto e malinconia”, “Introduzione alla psicoanalisi”). Il presupposto fondamentale di questi Autori può essere sintetizzato ~ 35 ~ nell’affermazione che “[…] l’aggressività è sempre conseguenza di uno stato di frustrazione[…]” e che all’inverso “[…] l’esistenza di una frustrazione conduce a qualche forma di aggressività […]”. L’interesse è focalizzato sulla definizione delle modalità contingenti piuttosto che delle cause originarie. L’analisi proposta da questi Autori è tesa a valutare da un lato i rapporti in base ai quali variando la frustrazione varia l’aggressività, dall’altro i modi in cui l’aggressività tende ad una scarica, ovvero in cui può essere controllata o repressa. Quanto più grande è il grado di inibizione dell’atto aggressivo diretto, tanto più probabile sarà il verificarsi di atti aggressivi indiretti (“dislocati” o “sublimati”). Se invece l’aggressività può tradursi sul piano comportamentale in azioni che colpiscono l’agente frustrante o un sostituto di esso, si ha la “catarsi”, ossia un abbassamento dell’istigazione all’aggressività. La primitiva rigidità e categoricità di questa formulazione fu in seguito mitigata dagli stessi Autori con l’ammissione di forme di risposte non aggressive alla frustrazione. Robert Berkowitz (1939), che in linea di massima aderisce all’ipotesi frustrazione- aggressività, propone tuttavia una revisione sostenendo che una disposizione favorevole ad atti aggressivi è rappresentata dalla reazione emotiva (rabbia) prodotta dalla frustrazione e da abiti aggressivi acquisiti precedentemente. Questa disposizione (readiness) non si realizza con comportamenti aggressivi, se non in presenza di stimoli istigatori. L’intensità della risposta aggressiva sarà quindi una funzione del valore di “istigazione” dello stimolo combinato con il grado di “readiness” all’aggressività di cui l’organismo è in quel momento fornito. La frustrazione non è l’unica possibile spiegazione dell’aggressività; esistono atti aggressivi che non sono affatto il frutto di esperienze frustranti, ma di abiti di aggressività appresi e latenti che possono essere rievocati nel comportamento manifesto da stimoli appropriati anche non frustranti (ad es. la violenza osservata nei film). Questo però non significa che la semplice presenza di una rivoltella o l’esposizione ad un film violento debba far sì che una persona si comporti aggressivamente; significa piuttosto sottolineare il ~ 36 ~ ruolo istigatorio e facilitatorio di tali stimoli, ove sia presente un bersaglio appropriato e uno stato di eccitazione che già orienta il soggetto a comportarsi aggressivamente. Albert Bandura (Teoria dell’apprendimento sociale, 1973), principale rappresentante della teoria dell’apprendimento sociale, sostiene, in contrapposizione alla scuola di Yale, che l’aggressività è una classe di risposte che l’individuo apprende nel corso della sua esperienza per imitazione più o meno diretta di modelli. Criticando la teoria frustrazioneaggressività, l’Autore sostiene che diversi tipi di stimoli possono produrre nell’individuo uno stato di eccitamento emotivo che può condurre a svariati comportamenti; la realizzazione pratica di questi ultimi dipende da come gli individui hanno imparato a fronteggiare le situazioni stressanti: alcuni cercano aiuto e sostegno, altri mostrano rassegnazione, altri ancora aggrediscono. L’aggressività quindi non rappresenta l’inevitabile ed unica conseguenza di uno stimolo frustrante, ma può essere evocata soltanto in persone che hanno imparato ad utilizzare atteggiamenti ed azioni aggressive. Nell’ambito della teoria cognitivo-comportamentale occupa una posizione particolare l’impostazione di Arnold H.Buss (1961), il quale suggerisce innanzitutto di distinguere l’aggressione dalla rabbia e dall’ostilità. Per aggressione, sinonimo di attacco, si deve intendere “[…] la produzione di uno stimolo nocivo nell’ambito di un contesto interpersonale […]”; la rabbia è una reazione emotiva; l’ostilità è un atteggiamento negativo nei confronti di una persona. Questi tre fenomeni possono essere presenti insieme o separatamente, ma per parlare di aggressione non si deve fare riferimento a emozioni od ostilità, ma bisogna accertare l’esistenza di uno stimolo nocivo, diretto da una persona ad un’altra, sia esso fisico o verbale, diretto o indiretto, risultato di un “fare” o di un “non fare”; inoltre tale stimolo deve essere socialmente inaccettabile. Nell’analisi dell’aggressività si deve tener conto della condotta aggressiva, della sofferenza della vittima, dei vantaggi ~ 37 ~ per l’autore dell’offesa; per Buss è soprattutto l’acquisizione di vantaggi, piuttosto che la sofferenza della vittima, a scatenare l’aggressione; anzi, il dolore della vittima riduce l’aggressione stessa. Per vantaggi bisogna intendere sia l’allontanamento da noxae patogene, sia l’acquisizione di certe soddisfazioni. Per quanto riguarda il rapporto frustrazione-aggressività, Buss afferma che la frustrazione induce all’aggressione solo quando questa può permettere di superare l’ostacolo, altrimenti può provocare risposte addirittura opposte. Buss parla di frustrazione “arbitraria”, quando l’ostacolo è dovuto al “capriccio” di qualcuno; “non arbitraria”, se il blocco deriva da un evento inevitabile o indipendente dal controllo di chiunque; secondo l’Autore, la frustrazione “arbitraria” è fonte di maggiore aggressione. Comunque, in opposizione a: “più forte è la frustrazione, più intensa è l’aggressione; più forte è la paura della punizione e più intensa è l’aggressione”, spesso è l’attacco diretto portato da un altro individuo che pone il soggetto nella necessità di agire, contrattaccando a sua volta, mentre le emozioni sembrano addirittura ostacolare il comportamento aggressivo. La sua visione si differenzia quindi da quella della scuola di Yale soprattutto per la “strumentalità” dell’aggressione (superamento della noxa, acquisizione di benefici), rispetto al carattere puramente reattivo indicato da Dollard e collaboratori. Seymour Feshback (Enciclopedia delle scienze sociali, 1984) ha tentato di inserire, all’interno della concezione rigidamente comportamentale, temi propri della psicodinamica freudiana, riallacciandosi in particolare alla interpretazione data da Dollard e collaboratori. Rispetto all’impostazione behaviorista, che privilegia lo stimolo in quanto elemento oggettivo direttamente controllabile, Feshback (Uomo aggressivo, 1961) evidenzia l’importanza della risposta, non tanto in termini strumentali, ma in quanto espressione di un modo originale di porsi in rapporto con la realtà, ~ 38 ~ sottolineando quindi le componenti personali motivazionali e le differenze individuali. La risposta viene perciò considerata soprattutto come l’esito di un investimento di cariche e di energie, che trova un senso nell’economia interna e nella storia del soggetto. La condotta aggressiva deve essere analizzata in rapporto ai diversi significati soggettivi e oggettivi che essa può assumere: si può perciò distinguere in primo luogo una “aggressività accidentale” e un’“aggressività intenzionale”, in quanto è da sottolineare la differenza esistente tra un’offesa che viene arrecata preterintenzionalmente e un’offesa che è invece agita intenzionalmente. Nell’ambito dell’aggressività intenzionale si possono distinguere un’aggressività strumentale e una forma ostile. Nel primo caso l’offesa dell’altro è un mezzo per il raggiungimento di un fine che non si identifica con l’offesa; nel secondo caso l’offesa dell’altro è il fine primario ed è proprio questa forma di aggressività e le condotte che ne derivano che corrispondono alla spinta aggressiva in senso stretto (aggressive drive). Feshback non sembra voler indagare circa la natura innata o appresa di tale spinta e la sua posizione, oscillante tra l’attrazione per certe ipotesi freudiane da un lato e i vincoli di un linguaggio e un metodo di carattere inequivocabilmente comportamentista dall’altro, appare poco chiara. È innegabile che in certe situazioni la frustrazione possa produrre o intensificare sentimenti di ostilità o condotte aggressive; pur tuttavia queste ultime possono essere prodotte indipendentemente dalla presenza di una frustrazione e talora la propria ostilità e la propria condotta aggressiva possono essere occasione esse stesse di frustrazione. Secondo l’Autore occorre analizzare quali sono le condizioni legate a certi processi evolutivi e a certe esperienze di socializzazione che, insieme a particolari condotte, determinano un più o meno adeguato rapporto del soggetto con la realtà. ~ 39 ~ 3.3. ASPETTI EUTONOLOGICI Sul rapporto aggressività-malattia un originale contributo proviene dal neurobiologo-eutonologo francese Henri Laborit (1997). L’eutonologia insegna a “star bene nella propria pelle”, ossia non è altro che il mantenimento della propria struttura mediante l’azione, controllando e limitando gli effetti e le variazioni dell’ambiente. Laborit sostiene che tutte le funzioni del cervello, anche quelle che noi chiamiamo pensiero, non sono altro che il perfezionamento di questa unica primaria finalità: l’azione. A tutti i livelli, dalla molecola al comportamento, le cose cominciano a guastarsi quando un’azione efficace risulta impossibile. Laborit ipotizza due diversi meccanismi a livello dell’attività nervosa centrale: il primo ha come risultato un’attività motoria, l’altro l’inibizione di tale attività. Essi costituiscono veri e propri sistemi individuabili sul piano anatomico, neurofisiologico, biochimico e dei quali si può studiare il funzionamento in maniera sperimentale (SAA = sistema attivatore dell’azione; SIA = sistema inibitore dell’azione). L’SAA presiede quindi all’attività aggressiva intesa come avvicinamento alla noxa e lotta o fuga da essa, a seconda della situazione, o almeno evitamento di una punizione, ossia di una stimolazione nocicettiva temuta. L’SIA entra in atto solamente quando l’azione efficace risulta impossibile e le condizioni poste dall’ambiente sono tali da far prevedere una punizione inevitabile. Laborit ne fornisce una dimostrazione fondata su dati sperimentali: se a un ratto introdotto in una gabbia facciamo udire un segnale acustico a cui segue una scossa elettrica, questo impara a fuggire in tempo, prima della scarica, attraverso una porticina; chiudendo la saracinesca, l’animale si acquatta e rimane in un atteggiamento di rigidità muscolare in attesa, senza alcun tentativo di fuga, della scarica che lo farà sobbalzare. Se due ratti, ~ 40 ~ entrambi condizionati, vengono introdotti nella stessa gabbia,quando la porticina viene chiusa e si ode il segnale acustico, gli animali non si immobilizzano in un’attesa angosciosa, ma lottano fra loro, esprimendo così uno sfogo alla impossibilità di agire efficacemente contro una punizione inevitabile. L’aggressività si scatena anche quando nello stesso spazio sono presenti due o più individui che cercano di gratificarsi con gli stessi oggetti o con le stesse persone: si tratta di un’aggressività di competizione, di un’aggressività che serve ad instaurare una gerarchia. Nel contesto sociale l’inibizione dell’azione è la regola, perché l’aggressività risulta vana e l’ostacolo può essere insormontabile: l’esperienza interiore corrispondente sarà l’angoscia. Vi sono comunque dei meccanismi di difesa: la famiglia, dove il maschio conserva quella superiorità su cui è costruito l’intero edificio sociale; la sublimazione nell’impegno politico e sindacale; il possesso di beni sempre più numerosi e la possibilità di svaghi sempre più sofisticati. La teoria della “sindrome generale di adattamento” di Hans Selye (1936) spiega come l’organismo reagisca alle aggressioni e allo stress in maniera aspecifica: i glicocorticoidi, a livello centrale, attivano l’SIA, il quale a sua volta ne stimola la produzione attraverso l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Il sistema tende a mantenersi in funzione fino a quando non si ha un comportamento aggressivo. La produzione di glicocorticoidi prolungherebbe la reazione organica di “allarme” attraverso la messa in gioco dei “centri inibitori dell’azione”. Tutto ciò mantiene l’organismo in uno stato di tensione, accompagnato alla periferia da una liberazione di norepinefrina. Dal punto di vista biologico, norepinefrina e ormoni steroidei glicoattivi sono i sicari del SNC in tutte le malattie psicosomatiche. Quindi in una tale visione con Laborit si dovrebbe parlare di “malattia da inibizione comportamentale”. ~ 41 ~ 3.4. ASPETTI NEUROFISIOLOGICI La generalizzazione dei risultati della ricerca animale ha riguardato anche le sedi neuroanatomiche correlabili con il comportamento aggressivo nell’uomo, ed ha ottenuto una verifica indiretta dall’utilizzo di una serie di procedure manipolatorie sui sistemi neurali presunti responsabili: 1. la lesione chirurgica di aree cerebrali in soggetti con sindromi psicopatologiche ribelli alle comuni terapie; 2. la stimolazione elettrica diretta di aree che attivano sistemi di inibizione del comportamento aggressivo. L’amigdalectomia bilaterale determina una riduzione del comportamento violento, ed è stata proposta anche per il controllo di disturbi ossessivo-compulsivi ed epilettici. Stessi risultati sono stati ottenuti intervenendo sull’ipotalamo posteriore e su porzioni del talamo. Dalla ricerca dei substrati neurofisiologici dei vari tipi di comportamento aggressivo nell’animale risulta come siano effettivamente coinvolte varie aree cerebrali: dal sistema olfattivo e dalla corteccia prepiriforme all’amigdala, dall’ipotalamo ai nuclei del rafe, la cui individuazione è avvenuta tramite processi di ablazione chirurgica o di lesione cerebrale associata o meno al trattamento farmacologico. I comportamenti di attacco offensivo sembrano essere associati nel gatto all’ipotalamo laterale, mentre l’attacco difensivo sembra essere consequenziale alla manipolazione dell’ipotalamo mediale. La stimolazione del nucleo centrale dell’amigdala produce nel cane manifestazioni di paura e di fuga, come pure nel gatto; tuttavia è stato anche dimostrato che lesioni di quest’area in entrambi gli animali producono manifestazioni aggressive più simili alla predatoria, suggerendo l’esistenza di una funzione inibitoria del sistema difensivo su quello offensivo. Altre aree inibitorie sono state individuate tramite la stimolazione di particolari punti della testa del nucleo caudato nella scimmia. Per quanto ~ 42 ~ riguarda l’inibizione del comportamento aggressivo per mezzo della diretta stimolazione elettrica di aree cerebrali, una riduzione drastica dell’aggressività psicotica viene riportata a seguito della stimolazione dell’area settale e più recentemente dopo stimolazione continua della porzione rostrale del verme cerebellare, mentre altri studi riportavano l’effetto calmante della stimolazione della porzione ventro-mediale del lobo frontale o del lobo medio temporale. Interessante appare il concetto di specializzazione emisferica, inizialmente elaborato in termini cognitivi, in quanto un crescente numero di dati indica che l’emisfero sinistro elabora in modo più efficace del destro un’attività verbale, mentre per l’attività non verbale avverrebbe l’opposto. Parallelamente, studi neuropsicologici indicano che i due emisferi cerebrali apportano un differente contributo alle manifestazioni emozionali. L’emisfero destro sarebbe maggiormente implicato nelle esperienze emozionali, specialmente negative, nella valutazione degli stimoli ambientali, nelle condotte impulsive. Il sinistro, invece, sarebbe maggiormente chiamato in causa nelle attività cognitive, nelle condotte intenzionali, nelle decisioni razionali. L’emisfero destro pertanto dovrebbe essere particolarmente coinvolto in esperienze tipicamente affettive ed emozionali, come ad esempio la depressione, l’ansia, l’aggressività. Nell’uomo, per lo studio neuroanatomico delle strutture implicate in alcuni stati emotivi quali l’aggressività e l’abbassamento del tono dell’umore, possono essere di aiuto i dati ricavati dallo studio di soggetti con epilessia. Nella epilessia temporale destra è stata riportata una preponderanza di disturbi aggressivi e dell’umore, con un pattern aggressivo di tipo “impulsivo”, mentre in quella sinistra sono più frequenti i disturbi del pensiero e valenze aggressive di tipo “riflessivo”. Questo suggerisce un investimento emotivo degli eventi con rapida alterazione del tono dell’umore o passaggio all’azione nell’epilessia del lobo temporale destro. Mentre l’emisfero destro sarebbe coinvolto maggiormente nelle risposte di tipo affettivo-emozionale, impulsive e di vigilanza, il sinistro lo sarebbe in quelle ~ 43 ~ di tipo cognitivo, riflessivo. Queste differenze potrebbero riflettere diversità anatomiche esistenti nei due emisferi. Nell’emisfero destro le strutture limbiche avrebbero connessioni indipendenti con i sistemi sensitivi corticali e questo potrebbe essere responsabile della maggiore vigilanza verso singoli stimoli e della loro risonanza affettiva, mentre le maggiori aree di associazione sensitive presenti nell’emisfero sinistro permettono l’elaborazione degli stimoli. Pertanto, come si potrebbe ipotizzare che l’iperattività dell’emisfero destro sia il substrato neurofisiologico del vissuto depressivo, così potremmo ugualmente ipotizzarlo per il comportamento aggressivo, anche in ragione dell’aumento dell’effetto frustrante degli stimoli negativi determinato dalla loro ipervalutazione da parte dell’emisfero destro iperfunzionante. L’aggressività, tuttavia, non è stata sufficientemente studiata da questo punto di vista. Esaminando le relazioni fra aggressività e lateralizzazione emisferica mediante l’analisi automatica dell’EEG e la compilazione di questionari comportamentali, è stata evidenziata una correlazione positiva fra profilo dell’aggressività e indice di asimmetria, nel senso che tanto più il comportamento aggressivo appare inibito, tanto più vi è una prevalente attivazione sinistra in sede temporale medio-posteriore e frontale anteriore. All’opposto, ad un aumento dell’aggressività agita (sganciata cioè dalla colpa) corrisponde una minore attività a sinistra nelle stesse sedi. Le altre aree mostrano un comportamento inverso. Bisogna tuttavia considerare che il metodo di analisi tende ad evidenziare i rapporti dell’attività di alcune aree rispetto ad altre, piuttosto che il reale grado di attivazione. 3.5. ASPETTI ENDOCRINI Gli ormoni più frequentemente proposti dalla ricerca quali modulatori delle manifestazioni aggressive umane sono gli ormoni sessuali e steroidei in generale, che influenzerebbero il comportamento aggressivo agendo a diversi livelli: motivazionale, su aree specifiche del sistema nervoso ~ 44 ~ centrale; interattivo-sociale, modificando i messaggi e la sensibilità ad essi; espressivo, facendo variare l’incidenza e/o l’intensità del comportamento, ed influenzati a loro volta dalle interazioni sociali, agendo ulteriormente sulla probabilità di comparsa di un particolare comportamento agonistico. L’esposizione del feto, durante la gravidanza, ad elevate concentrazioni ormonali in caso di disturbi endocrini della gestante (ad es. sindrome adrenogenitale) o di trattamenti ormonali in rapporto a sindromi morbose (ad es. diabete, minaccia di aborto per cause varie) produrrebbe modificazioni anche comportamentali non necessariamente correlate all’aggressività, quali la preferenza per giochi mascolini e la mascolinizzazione della prole femminile. Nella popolazione adulta, i rapporti tra ormoni androgeni (classicamente associati al comportamento aggressivo) e aggressività sono stati studiati in riferimento a diversi campioni, dalla popolazione psichiatrica ospedalizzata e non, a giovani volontari sani, dai criminali comuni, a criminali di tipo sessuale, fino ai giocatori di sport giudicati aggressivi, come l’hockey. I risultati ottenuti sono molto contrastanti, soprattutto a causa dei diversi parametri di misurazione del comportamento utilizzati nei vari studi, ed approdano ad una relazione chiaramente significativa fra testosterone e aggressività solo in riferimento alla percezione della propria aggressività verbale e fisica in risposta a provocazioni o minacce (la forma che definiremmo difensiva). Del resto anche l’implicazione di ormoni diversi dagli androgeni in altre situazioni di alterazione comportamentale in senso aggressivo, quale la fase premestruale o fasi di dismetabolismo glucidico, non è stata sufficientemente documentata, e non sono stati finora prodotti risultati definitivi. A questo proposito appaiono interessanti gli studi di castrazione chirurgica o farmacologica, che determina una drastica riduzione della potenzialità aggressiva. ~ 45 ~ La terapia chirurgica produce un buon adattamento sociale. La validità di tale terapia è confermata dalla comparsa di manifestazioni aggressive nei castrati dopo terapia androgenica per varie settimane e dal ripristino di un buon adattamento comportamentale a pochi giorni dalla sospensione della terapia sostitutiva. La castrazione farmacologica con estrogeni comporta un’azione di blocco sugli androgeni surrenalici, oltre che gonadici. Tuttavia l’efficacia sul comportamento aggressivo si verifica solo se si trova associato un alterato comportamento sessuale; la stessa cosa avviene con gli agenti antiandrogeni, come il ciproterone acetato e il diidrossiprogesterone. La gonadectomia bilaterale riduce fino ad abolire l’attività aggressiva del topo maschio isolato e quella indotta da stimolazione dolorosa; i glicocorticoidi e l’ACTH, iniettati intraperitonealmente, producono un aumento dell’attacco nel topo isolato; mentre l’iniezione intraperitoneale giornaliera di 0,2 mg di cloruro di litio sopprime tale attività aggressiva. 3.6. ASPETTI NEUROCHIMICI La disponibilità di dati riguardo ai movimenti biochimici e trasmettitoriali, che stanno alla base delle condotte aggressive umane, è molto scarsa. Nell’animale metodi di indagine diretti hanno evidenziato modificazioni a carico del sistema GABAergico, che riguardano un ridotto contenuto di mediatore nei bulbi olfattivi, sia nel ratto killer che nel topo isolato, associato in quest’ultimo ad un decremento di attività della glutamico decarbossilasi. Per quanto riguarda la neurotrasmissione serotoninergica, sono state osservate alterazioni (ridotto turnover) a livello del rafe nel muricida e nel ratto pretectomizzato e in alcune aree collegate funzionalmente al sistema limbico nel topo isolato. Un’aumentata attività colino-acetil-transferasica è stata rinvenuta nell’amigdala di ratti muricidi o di ratti bulbectomizzati che divengono muricidi, così come un incrementato turnover dopaminergico nei tubercoli olfattivi, senza modificazione della concentrazione e del turnover di norepinefrina. Un aumento dell’attività dopaminergica è stato obiettivato anche nell’uomo, attraverso il rinvenimento post-mortem di bassi dosaggi ~ 46 ~ dell’enzima B-dopamina-idrossilasi nel tessuto cerebrale di schizofrenici, in particolare nelle strutture diencefaliche e nell’ipotalamo; ciò costituirebbe un fenomeno prioritario nella genesi della schizofrenia e probabilmente delle manifestazioni comportamentali che l’accompagnano; tuttavia, come per gli altri interventi che promuovono un’esacerbazione della sintomatologia psicotica attraverso un incremento della dopamina (somministrazione di levo-dopa, di inibitori della B-dopamina-idrossilasi, di amfetamine o amfetaminosimili), i risultati non mostrano relazioni dirette con il comportamento aggressivo. L’unica correlazione positiva effettiva tra aggressività e modificazioni centrali di un neuromediatore riguardano la ben documentata associazione tra comportamento suicidario e basse concentrazioni liquorali di acido 5idrossiindolacetico, metabolita della serotonina. Tale associazione non esisterebbe solo nei disturbi affettivi, dove inoltre più violento è il suicidio, più basso è il livello liquorale, ma anche in pazienti schizofrenici e nei disturbi di personalità, quindi indipendentemente dalla categoria diagnostica. Più recentemente, in soggetti colpevoli di atti di violenza impulsiva, rispetto a soggetti che hanno meditato e preparato la loro azione criminale, sono state riscontrate più basse concentrazioni liquorali di suggerisce l’importanza della trasmissione 5-HIAA, il che serotoninergica come denominatore comune di comportamenti apparentemente diversi, quali il suicidio e il mancato controllo degli impulsi. Di contro, la scoperta che tra i soggetti normali la probabilità di storia familiare positiva per disturbi affettivi è di 2,7 volte superiore in coloro che presentano un dosaggio liquorale di 5HIAA inferiore alla media allarga la sensibilità di questo marker in campo diagnostico, riducendone la specificità di indice comportamentale e ponendo l’accento sulla componente genetica dell’aggressività. ~ 47 ~ Alterazioni del sistema della 5-HT possono essere implicate nella modulazione del comportamento aggressivo, anche nel senso di una inibizione. Se la diminuzione dell’attività 5-HT è correlata con la diminuzione dell’inibizione del comportamento, potrebbe essere anche vero il contrario: potrebbe cioè l’incremento di 5-HT essere correlato ad un ipercontrollo del comportamento. Gli individui che presentano caratteristicamente un comportamento inibito in un’ampia varietà di situazioni sono individui che mostrano caratteri di timidezza, introversione o indecisione. Essi generalmente presentano una minor tendenza ad incontrare nuovi stimoli, con maggior probabilità inibiscono il loro comportamento di fronte all’incertezza e impiegano più tempo ad essere stimolati da nuove situazioni. Questa modalità di comportamento è designata inibizione comportamentale. Hanz Eisenck (The structure of Human Personality, Methuen, London, 1953). notò una relazione negativa tra livelli di inibizione comportamentale e aggressività. Descrivendo l’introverso e l’estroverso tipici egli nota: “Il tipico estroverso [...] tende a essere aggressivo e perde rapidamente la calma; in genere i suoi sentimenti non sono tenuti sotto controllo[...] Il tipico introverso tiene i suoi sentimenti sotto stretto controllo, raramente si comporta in modo aggressivo e non perde la calma facilmente”. Più recentemente Robert Cloninger (1987) ha ipotizzato che maggiori livelli di serotonina rappresentino il correlato biologico del tipo di personalità cosiddetta “Harm Avoidant”, tendente all’inibizione del comportamento. Ci sono altre ragioni che fanno pensare che timidezza (inibizione del comportamento) e aggressività possano essere i poli opposti di uno stesso spettro. Nelle scimmie Rhesus l’espressione legata allo sviluppo di ciascuna caratteristica mostra pattern opposti. In generale, il comportamento aggressivo nella tarda infanzia si manifesta a bassi livelli, poi aumenta nel periodo giovanile, raggiunge l’acme nella prima adolescenza, infine declina o è costante in età adulta. Di contro, l’inibizione del comportamento declina ~ 48 ~ con l’età. Essa si presenta ad alti livelli nella prima infanzia, poi declina fino a raggiungere il suo punto più basso a partire dall’adolescenza. Se i disturbi dell’aggressività sono legati ad un basso turnover di 5-HT nel SNC, un comportamento fortemente inibito potrebbe essere correlato ad un elevato turnover di 5-HT. Vi è qualche evidenza per questa ipotesi. Alcuni studi hanno mostrato che cambiamenti nel sistema serotoninergico possono essere paralleli ai pattern di sviluppo e alle differenze legate al sesso nei comportamenti aggressivi. Soggetti più giovani mostrano più alte concentrazioni di 5-HT o dei suoi metaboliti, e i maschi, particolarmente in popolazioni con depressione, tendono ad avere più basse concentrazioni rispetto alle femmine. Test farmacologici per studiare il ruolo della 5-HT nelle manifestazioni comportamentali della timidezza non sono stati effettuati nelle scimmie. È stato posto l’accento sul possibile meccanismo serotoninergico che sottende le manifestazioni comportamentali di inibizione, aggressività e depressione, ma altri sistemi neurotrasmettitoriali sono senza dubbio implicati. Jerome Kagan (1988) ha trovato una relazione tra attività noradrenergica e inibizione comportamentale. Similmente al modello visto nell’inibizione e nell’aggressività, vi sono evidenze che le concentrazioni dei metaboliti di 5HT tendono a mantenersi stabili nel tempo, sebbene questi studi siano stati effettuati solo negli adulti. Come per il comportamento di inibizione, la velocità del turnover della 5-HT può essere ereditaria, sebbene il tipo di ereditarietà non sia precisato. Studi sia sull’uomo che sulla scimmia indicano che l’inibizione risente della storia relativa al tipo di allevamento. Comunque, non è stato sistematicamente studiato nei primati se l’attività serotoninergica sia modificata dalle modalità di allevamento. In conclusione, le differenze legate allo sviluppo, al sesso e alle modalità di allevamento, nel sistema serotoninergico, evidenziate dalle misurazioni della concentrazione di 5-HIAA liquorale, sembrano essere ~ 49 ~ parallele alle differenze comportamentali precedentemente dimostrate, nelle valutazioni sulla timidezza e aggressività. Quando le relazioni tra comportamento e 5-HIAA sono direttamente valutate, le concentrazioni di 5HIAA liquorale sono in rapporto diretto con i valori dell’inibizione comportamentale. Inoltre l’inibizione sembra correlarsi con i livelli di disperazione osservati durante la separazione sociale. L’esame degli indici di attività serotoninergica suggerisce, quindi, una relazione tra 5-HT, timidezza e comportamenti depressivi. Mentre, in generale, la maggior parte degli studi ha indagato le relazioni tra aggressività impulsiva e altri disturbi del controllo degli impulsi e basse concentrazioni di 5-HIAA liquorale, recentemente è stato messo in evidenza anche l’altro polo dello spettro: l’attività serotoninergica del SNC può essere posta in relazione con l’inibizione complessiva del comportamento, con bassi livelli correlati con bassa inibizione, e alti livelli correlati con alta inibizione del comportamento, specificamente timidezza in giovani scimmie Rhesus. Bambini che mostrano alti livelli di timidezza possono anche essere a rischio di sviluppare una successiva patologia psichiatrica. Ciò può essere in parte correlato alla iperattività dei sistemi serotoninergici del SNC. Indagando l’attività serotinergica tramite il binding piastrinico per la 3Himipramina (3H-IMI) e il comportamento aggressivo su un campione di volontari sani, il 3H-IMI e l’aggressività diretta mostrano correlazioni positive. Prendendo in considerazione i singoli comportamenti aggressivi, i soggetti con attività serotoninergica più bassa sono anche quelli che tendono a sentirsi come un “barile di polvere” pronto ad esplodere; nonostante essi cerchino di non farlo notare spesso sono divorati dalla gelosia; il loro motto è “diffida sempre degli estranei”; a volte si arrabbiano talmente da rompere la prima cosa che viene loro a tiro. Una bassa attività serotoninergica si ~ 50 ~ legherebbe quindi ad un’aggressività non manifesta, ma mediata da comportamenti indiretti che rappresentano una reazione di rabbia che non ha alcuna direzione, quindi un atteggiamento negativo contro nessuno in particolare, ma che consiste in una reazione immediata di fronte a provocazioni o affronti con malumore, intrattabilità e irascibilità, esasperazione. Questi atteggiamenti si inseriscono su un substrato di sospettosità e risentimento, che varia dalla semplice diffidenza e circospezione a veri sentimenti di astio verso gli altri. Un altro indice, per lo studio indiretto dell’attività serotoninergica centrale, è rappresentato dagli enzimi deputati alla deaminazione ossidativa della 5HT, le monoaminossidasi (MAO). Le piastrine contengono le MAO, che posseggono una cinetica simile a quella cerebrale e che probabilmente sottostanno ad una identica regolazione. Infatti, è stata riportata una correlazione positiva fra turnover della serotonina e MAO nel cervello umano, e l’attività MAO piastrinica, in numerose ricerche, è stata trovata correlare con comportamenti normali e patologici. I soggetti con elevata attività MAO piastrinica, che sottenderebbe una bassa attività serotoninergica, manifesterebbero un’aggressività verbale con disposizione a disapprovare le azioni altrui, atteggiamenti polemici, in disaccordo con tutti e opposizione nel rapporto interattivo. È da ricordare, tuttavia, che le MAO sono contenute soltanto nei neuroni serotoninergici, ma modificazioni della loro attività si correlano anche a modificazioni dei livelli dopaminergici e di derivati metilati delle amine, ad azione dopamino-simile. È poco probabile, comunque, che un comportamento così complesso come quello aggressivo possa essere riferito esclusivamente al solo sistema serotoninergico. Sempre su volontari sani, è stata evidenziata l’importanza del bilanciamento fra sistema dopaminergico, esplorato mediante l’elettoretinogramma (ERG), e serotoninergico, esplorato mediante il binding della 3H-imipramina, nell’espressività delle valenze aggressive. ~ 51 ~ È stata sottolineata un’alta correlazione negativa fra valori della Bmax e onda “b” dell’ERG; in altre parole, all’aumentare della Bmax si ha una parallela diminuzione dell’onda “b” dell’ERG, mentre si verifica il contrario quando la Bmax diminuisce. Onda “b” dell’ERG e binding dell’3H-IMI mostrerebbero un trend di relazione con alcune caratteristiche comportamentali delle quali alcune appaiono legarsi di più all’attività DAergica, altre all’attività serotoninergica ed infine altre ancora all’azione congiunta dei due neurotrasmettitori; i soggetti con valori di onda “b” più elevati (maggiore attività dopaminergica) nei rapporti interpersonali assumono un atteggiamento oppositivo che sfocia in una aggressività attiva rivolta verso gli altri, che richiama il tipo predatorio o meglio l’hostility out. I soggetti con più bassa attività 5-HTergica sono quelli più diffidenti e con ridotta stima di sé, con una aggressività endodiretta o comunque di tipo difensivo. Infine i soggetti con la più alta attività DAergica e la più bassa 5HTergica sono quelli in cui è più evidente un umore disforico sul quale possono innescarsi comportamenti aggressivi. Nell’animale il comportamento muricida del topo pare sostenuto, dal punto di visto neurotrasmettitoriale, da un innalzamento dell’attività DAergica e da una diminuzione di quella 5-HTergica. Esisterebbe quindi una relazione lineare fra attività dopaminergica e serotoninergica centrali non solo negli animali, ma anche nell’uomo. Cloninger, in un’ampia revisione dell’argomento, ipotizza una relazione tra alcuni aspetti comportamentali e singoli sistemi neurotrasmettitoriali, proponendo un modello tridimensionale della personalità. Secondo l’Autore, i soggetti il cui comportamento è prevalentemente orientato nel senso del “novelty seeking” (ricerca della novità), che richiama il comportamento esplorativo dell’animale, avrebbero un basso livello di attività DA, quelli orientati verso l’“harm avoidance” (evitamento del danno) avrebbero un’elevata attività 5-HTergica, quelli, infine, in cui prevale la “reward dependence” (dipendenza dal premio) avrebbero una ridotta attività ~ 52 ~ del sistema NA. Probabilmente questi tratti comportamentali non vanno correlati singolarmente ai mediatori neurochimici, ma, anche nel campo dell’aggressività, occorrerebbe studiare contemporaneamente l’assetto di vari neuromediatori e correlare poi questo pattern complesso alle caratteristiche personologico-comportamentali. Il ruolo svolto dagli oppioidi nel controllo del comportamento aggressivo appare di ancor più difficile interpretazione. Il sistema dopaminergico sembra essere implicato anche nell’attività degli oppioidi endogeni ed esogeni ed in effetti gli studi neurochimici mostrano un’alta densità di recettori oppioidi ed alte concentrazioni di encefaline sia a livello del nucleo accumbens che dell’area tegumentale ventrale del tronco, punti di arrivo e partenza di neuroni dopaminergici meso-cortico-limbici. L’attività terapeutica, dimostrata in vari casi di psicosi dalla des-tyr-gammaendorfina e l’osservazione dell’uso degli oppiacei come automedicazione nei tossicodipendenti per i propri disturbi psichici, suggerirebbero che le endorfine funzionino da “neurolettici endogeni”. In effetti i dati sperimentali riportano una maggior sensibilità agli oppiacei in situazioni o disturbi mentali associati ad una disfunzione dopaminergica come nel caso di trattamento prolungato con neurolettici o nel caso di disturbi di tipo depressivo frequentemente riscontrabili nei tossicodipendenti. Tuttavia, l’osservazione che l’infusione di morfina nel nucleoaccumbens produce un incremento dell’attività motoria bloccabile con il naloxone, ma non da un antagonista dopaminergico, pone in risalto la complessità dell’interazione oppioidi-dopamina, di cui ancora non sono conosciuti i precisi meccanismi. In effetti solo una porzione dei recettori oppioidi scoperti nel nucleo accumbens è localizzata sui terminali dopaminergici e l’infusione di oppioidi nel nucleo non modifica sostanzialmente il metabolismo dopaminergico regionale. Recettori oppioidi sono presenti anche sulle terminazioni dei neuroni ~ 53 ~ GABAergici della via nigro-striatale ed è documentata un’azione soppressiva degli oppioidi esogeni e forse anche endogeni sulla liberazione del GABA; l’osservazione che una riduzione della trasmissione GABAergica o un blocco dei recettori postsinaptici causa una paralisi spastica dei muscoli scheletrici suggerirebbe un effetto modulatore sul movimento volontario da parte del sistema oppioide, agendo indirettamente sui neuroni dopaminergici attraverso l’inibizione presinaptica della via GABAergica. Anche osservazioni cliniche su soggetti tossicodipendenti sembrano confermare il ruolo importante del sistema oppioide nella modulazione dell’aggressività. ~ 54 ~ CAPITOLO 4: CLINICA DELL’AGGRESSIVITÀ 4.1. AGGRESSIVITÀ E DEPRESSIONE Aggressività e depressione, nonostante l’apparente contrasto fra la natura coartativa del vissuto depressivo e quella eccitatoria del comportamento aggressivo, sono spesso associate. Il rapporto tra aggressività e depressione appare di rilevante importanza dal punto di vista conoscitivo e riveste notevole valore euristico per le sue implicazioni di ordine prognostico e terapeutico. È ipotizzabile infatti che alcuni fattori che determinano l’evoluzione e l’esito del quadro clinico (risposta ai trattamenti farmacologici, compliance, ecc.) possano essere messi in rapporto alla entità e al tipo delle valenze aggressive. Il rapporto fra aggressività e depressione, evidente sul piano clinico, si presta ad essere interpretato da diversi punti di vista, corrispondenti ai diversi approcci conoscitivi alla patologia psichiatrica, ognuno dei quali costituisce una delle tessere, non sempre agevolmente collegabile alle altre, del complesso mosaico rappresentato dal fenomeno psichiatrico in generale e da questo in particolare. 4.1.1. Nessi psicologici Dal punto di vista psicodinamico le teorie psicoanalitiche classiche, da Freud (1856-1939) alla Klein (1882-1960) a Evan Kendell (1977), concordano tutte nel sostenere che nella depressione l’aggressività appare repressa o rimossa e rivolta verso il sé, fino a produrre sul piano comportamentale condotte suicidarie. Questa teoria è in accordo con i dati presenti in letteratura, che riportano nella depressione la presenza di valenze aggressive non espresse sul piano comportamentale come risentimento, sospettosità e irritabilità, oltre che colpa, fattori di hostility-in, nonché una riduzione dell’aggressività verbale, a testimonianza della rilevanza di valenze aggressive, ma nello stesso tempo della loro inibizione. ~ 55 ~ Tuttavia, diverse indagini cliniche hanno messo in evidenza che solo in alcuni casi l’aggressività appare primaria rispetto alla depressione, mentre più spesso le valenze aggressive sono secondarie al disturbo dell’umore. In pazienti depressi con tratti isteroidi di personalità, inoltre, l’aggressività assume il carattere di hostility-out. Dal punto di vista comportamentista, l’ipotesi frustrazione-aggressività può far ipotizzare che la depressione, in quanto aumenta la sensibilità a stimoli frustranti, può determinare una facilitazione delle risposte aggressive, che potranno essere agite verso l’esterno o rivolte verso il sé o inibite dalla colpa. Il tipo di risposta alla frustrazione, per quanto riguarda l’atteggiamento di fronte alla modalità di riparare al danno subito, è nei depressi tendenzialmente extrapunitiva in fase acuta e non punitiva in quella di remissione. La netta prevalenza di risposte “punitive”, sia extra che intra, in fase acuta, rispetto a quelle “non punitive”, testimonierebbe della ridotta soglia alla frustrazione dei pazienti depressi. 4.1.2. Nessi neurofisiologici Sul piano neurofisiologico, con particolare riferimento alla specializzazione emisferica, l’emisfero destro potrebbe essere particolarmente coinvolto in esperienze tipicamente affettive ed emozionali, come la depressione e l’aggressività. Infatti, un’iperfunzione dell’emisfero destro, assoluta o relativa rispetto al controlaterale, sembra importante nella patogenesi della depressione. L’osservazione dei pazienti con lesioni cerebrali supporta questa ipotesi: lesioni dell’emisfero destro determinano reazioni di indifferenza emotiva, senza segni clinici, psicometrici o neuroendocrini di depressione; quelle dell’emisfero sinistro sono associate a deficit del linguaggio e motori, pianto e tristezza. Ad analoghe conclusioni conducono l’iniezione intracarotidea unilaterale di ~ 56 ~ amytal sodico, che causa un’inattivazione emisferica: mentre l’anestetizzazione dell’emisfero sinistro determina una reazione depressiva, quella dell’emisfero destro è responsabile della comparsa di sintomi euforici fino alla mania. La registrazione elettroencefalografica testimonia una maggiore attività dell’area temporale e frontale destra dei depressi rispetto ai controlli, e la terapia elettroconvulsivante con elettrodi a destra è più efficace nel miglioramento del tono dell’umore, rispetto a quella di sinistra o bilaterale. Studiando stati depressivi indotti in volontari sani, è stato osservato una minore capacità di risolvere compiti immaginativi, mentre non era cambiata la capacità di risolvere tasks aritmetici. Anche nel soggetto normale quindi un lieve e transitorio stato depressivo può associarsi ad un decremento delle capacità dell’emisfero destro a risolvere i suoi compiti, analogamente a quanto è stato osservato nei pazienti con sindrome depressiva. Esaminando i pattern EEG associati alle variazioni di funzionalità emisferica durante la depressione, è stato osservato l’usuale pattern di asimmetria compito-dipendente per le regioni occipitali, mentre vi sarebbe una relativa maggiore attivazione a destra soltanto per i lobi frontali; vi sarebbe, inoltre, una maggior attivazione frontale destra durante emozioni negative. È stato postulato che l’attività del lobo frontale destro sia di natura inibitoria, con effetto soppressivo sulla capacità di analizzare le informazioni delle regioni più posteriori dell’emisfero destro. Peraltro, piuttosto che indicare un disturbo a carattere cronico, questa minor capacità dell’emisfero destro sembra essere un fenomeno transitorio collegato allo stato depressivo. Quando, in seguito a terapia, il tono dell’umore del paziente si eleva, la funzionalità dell’emisfero destro viene recuperata. L’iperfunzione dell’emisfero destro, che è deputato alla vigilanza nei confronti di stimoli negativi, si correlerebbe con ipervalutazioni negative delle situazioni e degli eventi, con effetto depressogeno, a sua volta attivante l’emisfero destro stesso, costituendosi così un circolo vizioso fra valutazione negativa, ~ 57 ~ attivazione destra e depressione. La teoria di una maggiore attività destra ben si accorda sia con le teorie cognitive della depressione (visione negativa del sé, degli avvenimenti e del futuro), sia con la prevalenza della depressione nel sesso femminile, nel quale sembra che l’emisfero destro sia iperattivo. Questa teoria spiegherebbe anche i noti rapporti fra depressione e dolore, per il quale è stata chiamata in causa l’attività dell’emisfero destro. La disregolazione interemisferica dei depressi condizionerebbe una perdita delle difese percettive, che infatti risultano ridotte in fase di malattia e si normalizzano con la remissione. Tale perdita comporterebbe una “incapacità neurofisiologica” ad adattarsi con una risposta corretta agli stimoli frustranti, quando questi si presentino. Lo studio di soggetti con epilessia ha messo in evidenza una preponderanza di disturbi aggressivi e dell’umore con un pattern aggressivo di tipo “impulsivo” nell’epilessia temporale destra, mentre in quella sinistra sono più frequenti i disturbi del pensiero e valenze aggressive di tipo “riflessivo”. Si potrebbe pertanto ipotizzare che l’iperattività dell’emisfero destro costituisca il substrato neurofisiologico sia del vissuto depressivo, sia del comportamento aggressivo del paziente depresso, forse anche in ragione dell’aumento dell’effetto frustrante degli stimoli negativi, determinato dalla loro ipervalutazione da parte dell’emisfero destro iperfunzionante. Numerosi studi, inoltre, suggeriscono che, a livello cerebrale, specifici sistemi di arousal, mediati da neurotrasmettitori, potrebbero essere lateralizzati. La concentrazione di 5-HT, nel cervello dei ratti, è asimmetrica sia nelle aree mesolimbiche che in quelle mesostriate. L’umore potrebbe essere quindi riferito alla regolazione asimmetrica della serotonina. Studi sulle concentrazioni dei metaboliti delle monoamine cerebrali nel liquido cefalorachidiano, correlate alle ~ 58 ~ misurazioni elettrofisiologiche dell’arousal corticale, evidenziano che il tono serotoninergico sarebbe particolarmente importante nella attivazione dell’emisfero destro. In un campione misto di pazienti psichiatrici, l’esame del liquor evidenziò che i livelli di acido 5-idrossindolacetico erano correlati con i potenziali evocati uditivi registrati dall’emisfero destro, ma non dal sinistro. Anche la noradrenalina sarebbe lateralizzata. Viste le proiezioni delle vie noradrenergiche alla corteccia frontale, la possibilità che l’arousal da essa mediato possa influenzare particolarmente l’emisfero destro sembra essere rilevante non solo nei risultati dell’ECT, ma anche nella scoperta che il tono dell’umore nei pazienti con disturbi affettivi è associato alla attivazione della regione precentrale dell’emisfero destro. Studi nei topi hanno suggerito che anche i sistemi dopaminergici sono lateralizzati, ma che la direzione della lateralizzazione varia da individuo a individuo. Il livello dopaminergico negli uomini sosterrebbe l’attivazione emisferica sinistra, come risulta dall’osservazione che i livelli di acido omovanillico nel liquido cefalorachidiano di pazienti psichiatrici sono correlati con i potenziali evocati uditivi dell’emisfero sinistro, ma non del destro. Pertanto la lateralizzazione di sistemi neurotrasmettitori ali notoriamente implicati nella patogenesi dei disturbi affettivi, ma anche delle condotte aggressive, può portare un contributo alla comprensione della associazione fra i due fenomeni. 4.1.3. Nessi neurochimici Dal punto di vista neurochimico, i punti di contatto tra aggressività e depressione sono molteplici: spesso i sistemi neurotrasmettitoriali chiamati in causa per i due fenomeni sono gli stessi e la conoscenza dell’uno si riverbera su quella dell’altro. Nell’uomo, una disfunzione dell’attività 5-HT è stata spesso riportata nei disturbi dell’umore. Molti studi condotti con metodiche diverse hanno confermato questa ipotesi: ~ 59 ~ dallo studio delle concentrazioni di 5-HT in diverse aree cerebrali, a quello dei metaboliti serotoninergici nel liquor, e più recentemente all’impiego di indici periferici quali l’uptake piastrinico della 5-HT e il binding piastrinico della imipramina. D’altra parte l’ipotesi 5-HTergica del comportamento aggressivo è supportata da studi sugli animali, che hanno dimostrato che la 5-HT determina una riduzione dell’aggressività indotta nel topo, risultati poi confermati da studi di manipolazione neurochimica del sistema che determina diminuzione o aumento dell’attività 5-HT centrale e, di conseguenza, aumento o diminuzione degli attacchi indotti da shock, comportamento muricida e comportamento filicida. Quasi tutti gli studi sull’uomo mostrano una correlazione tra diminuiti livelli di 5-HIAA liquorale e aggressività o irritabilità e ostilità o atti criminali. La comune base biochimica di depressione e aggressività, rappresentata dal deficit di 5-HT, è testimoniata tra l’altro dalla letteratura sui rapporti fra depressione e condotte suicidarie. Basti qui accennare che, secondo Van Praag e Korf (1971), il comportamento aggressivo, sia in pazienti che hanno commesso atti suicidari, sia in pazienti con manifestazioni aggressive eterodirette, non può essere spiegato con il concomitante stato depressivo; depressione e aggressività probabilmente si trovano spesso associate in quanto il meccanismo biochimico che è alla base è lo stesso in entrambi i fenomeni. Nell’approccio biologico è fondamentale considerare le relazioni fra i vari sistemi neurotrasmettitoriali. Il deficit di altri sistemi neurotrasmettitoriali, alterando il sistema neuronale attivante, potrebbe modificare la manifestazione dei sintomi di deficit 5-HTergico. Nei ratti con bassa 5-HT e bassa NA, infatti, c’è assenza di aggressività. Invece nei ratti maschi, in cui l’isolamento induce comportamento muricida, si osserva un aumento del turnover della NA, oltre ad una diminuzione di ~ 60 ~ quello della 5-HT. Questa osservazione potrebbe spiegare la relazione inversa,che è stata riscontrata in pazienti bipolari, tra risposta della prolattina (PRL) alla fenfluramina e anamnesi positiva per condotte suicidarie, senza manifestazioni di aggressività impulsiva. La ridotta sensibilità postsinaptica dei recettori B2 NAenergici nei pazienti depressi può tamponare il sistema comportamentale attivazione-inibizione, smussando gli stimoli, tranne in periodi di stress, come un episodio depressivo maggiore. Durante questi episodi, l’individuo può presentare un comportamento aggressivo fino ad arrivare a condotte suicidarie. Nei pazienti depressi, soprattutto negli unipolari, è stata descritta una disregolazione del sistema NA con fluttuazioni del rilascio presinaptico, a seconda delle quali potrebbe verificarsi o meno l’atto aggressivo. Si potrebbe anche ipotizzare che, a parità di bassi valori dell’attività serotoninergica, siano i diversi valori di quella dopaminergica a sostenere l’estrinsecazione o meno delle condotte aggressive. Comunque, più genericamente, potrebbe essere la bilancia serotonina-dopamina a svolgere un ruolo importante nel determinismo del comportamento aggressivo del depresso, sulla base della correlazione negativa evidenziata fra indici serotoninergici e indici dopaminergici. Cosicché la presenza e il tipo di aggressività in un quadro depressivo potrebbe rappresentare un indicatore clinico dell’assetto biologico a livello neurochimico. 4.1.4. Nessi neuroendocrini Dal punto di vista neuroendocrino, appare interessante lo studio ormonale, sia perché riflette l’attività centrale di quei neuromediatori che ne modulano la secrezione, sia perché svolgono un ruolo importante per l’estrinsecazione di alcuni comportamenti. Un ormone, che appare essere chiamato in causa sia nella patologia ~ 61 ~ depressiva che in quella aggressiva, è la prolattina (PRL). La PRL è regolata in maniera complessa da una varietà di neurotrasmettitori e neuropeptidi. In particolare la DA e la serotonina (5-HT) giocano un ruolo importante. Molti studi hanno dimostrato che la DA determina una inibizione tonica della secrezione della PRL. Studi condotti sull’uomo fanno ipotizzare un’importante funzione di stimolo della 5-HT sulla secrezione di PRL. La PRL, quindi, potrebbe essere assunta come indice indiretto dell’attività DAergica e 5-HTergica. Gli studi del dosaggio della PRL nella depressione hanno dato risultati contrastanti. La maggior parte di essi non ha evidenziato differenze fra pazienti depressi e controlli sani; alcuni Autori riportano valori maggiori nei depressi bipolari, altri risultati esattamente opposti. La discrepanza di osservazioni potrebbe dipendere dalle variazioni diurne di PRL: alcuni Autori hanno riportato un aumento della secrezione nei depressi soprattutto la sera o la notte, altri in momenti del giorno diversi. Ma esistono anche studi che hanno testimoniato una variazione del ritmo circadiano opposta alla precedente, ed altri che non hanno riscontrato alcuna variazione del pattern diurno. Probabilmente questo dipende anche dalla sensibilità della PRL allo stress e dunque dalle variazioni che possono verificarsi durante la procedura sperimentale. La PRL è stata direttamente coinvolta nel determinismo dell’aggressività: l’iniezione di PRL nell’uomo produce letargia e irritabilità, così come i sintomi disforici del periodo premestruale sarebbero dovuti ad alti valori di PRL, come dimostrato dal miglioramento ottenuto con la somministrazione di bromocriptina (un agonista energico, che inibisce la secrezione di PRL). Atti di violenza sono stati riportati più frequentemente durante il periodo premestruale rispetto alle altre fasi del ciclo. Diversi ricercatori, indagando i correlati psicologici di donne con iperprolattinemia, hanno visto che queste risultano più ostili, depresse ed ~ 62 ~ ansiose rispetto a quelle normoprolattinemiche. In esse la somministrazione di bromocriptina determina una diminuzione di queste valenze. Questi dati sono avvalorati dall’aggressività materna, che si trova in molti mammiferi nel periodo della lattazione (durante il quale c’è una iperprolattinemia), attuata per difendere la prole. Molto studiata è stata la risposta della PRL alla fenfluramina che riflette la risposta netta dell’attività pre e postsinaptica del sistema 5-HT nell’asse ipotalamo-ipofisario. Infatti, il rilascio di 5-HT dopo somministrazione i fenfluramina dipende dall’azione sia presinaptica (rilascio di 5-HT e blocco del reuptake), sia postsinaptica (attivazione dei recettori postsinaptici dopo rilascio acuto di 5-HT nel vallo sinaptico). Alcuni studi indicano una correlazione inversa fra secrezione di PRL e meta-chlorophenylpiperazina, un agonista dei recettori postsinaptici, dunque una diminuzione della secrezione PRL potrebbe riflettere una minore sensibilità dei recettori postsinaptici, anche se non si conoscono i subtipi di recettori coinvolti. Nei pazienti con disturbi affettivi e/o disturbi di personalità e nei pazienti con anamnesi positiva per condotte suicidarie, c’è una minore risposta rispetto ai controlli sani. La correlazione negativa fra aggressività impulsiva con umore irritabile nei pazienti con disturbo di personalità borderline, con storia di condotte suicidarie o con abuso di alcool, suggerisce che la correlazione sia fra attività 5-HTergica e perdita del controllo degli impulsi, come indicato anche da una alterazione neurotrasmettitoriale simile nella bulimia e nel disturbo ossessivocompulsivo. 4.1.5. Nessi clinici In ambito strettamente clinico, l’interesse per l’aggressività nella depressione è giustificato da diversi motivi: 1. crescente interesse per il sistema serotoninergico (notoriamente implicato ~ 63 ~ sia nella depressione, sia nelle condotte aggressive); 2. recente disponibilità di sostanze ad azione specifica su tale sistema; 3. costante attenzione verso le condotte suicidarie suggestivamente correlate con quelle aggressive; 4. maggiore sensibilità ai problemi della compliance e della predittività della risposta al trattamento. Sul piano clinico si pone una serie di quesiti, importanti non soltanto dal punto di vista teorico-speculativo, ma anche da quello clinico-pratico. 1. In quale misura il paziente depresso è aggressivo? 2. Qual è il profilo del comportamento aggressivo nella depressione? 3. Quale tipo di aggressività prevale (hostility-in o hostility-out; overt- hostility o covert hostility; diretta o indiretta)? 4. Esistono tipi diversi di aggressività nella depressione (in rapporto a variabili quali diagnosi, età, sesso, ecc.)? 5. Quale rapporto stabilisce l’aggressività con le componenti sintomatologiche del quadro depressivo? 6. Nelle fasi di remissione, il comportamento aggressivo rimane immodificato o si modifica quantitativamente e/o qualitativamente? 7. Quale rapporto esiste fra comportamento aggressivo e risposta al trattamento antidepressivo? 8. In che modo il trattamento farmacologico modifica il comportamento aggressivo? In pazienti affetti da depressione monopolare in trattamento, esaminati in ~ 64 ~ fase acuta di malattia, è possibile rilevare una modesta elevazione dell’aggressività nel suo complesso rispetto alla norma. I pazienti tendono ad essere più risentiti, sospettosi, irritabili e affetti da sentimenti di colpa per il proprio comportamento aggressivo, con una marcata inibizione dell’aggressività. Il rapporto fra presenza ed entità della depressione e valenze aggressive meno espresse sul piano comportamentale, quali appunto risentimento, sospettosità, irritabilità, oltre che colpa, indicate più spesso come hostility-in, è stato ampiamente documentato. La riduzione dell’aggressività verbale riportata in letteratura potrebbe, invece, non essere sempre presente. Inoltre l’entità dell’aggressività non è in rapporto lineare con l’entità dello stato depressivo. L’aggressività quindi è sì più elevata, quando è presente un disturbo depressivo, ma non proporzionalmente alla sua gravità sintomatologica. Correlati alla gravità dell’aggressività sarebbero soprattutto il risentimento e la sospettosità (aggressività inibita). L’aggressività agita non interagisce con gli aspetti depressivi ed i profili correlati appaiono essere da una parte risentimento, negativismo, colpa per il proprio comportamento aggressivo, irritabilità e dall’altra insicurezza, sensitività, colpa, umore depresso, pensieri di morte, ansia. Durante la fase di remissione di un episodio depressivo, il comportamento aggressivo tende a limitarsi sia per quanto riguarda l’aggressività nel suo insieme, sia per quanto riguarda aspetti caratteristici, quali l’irritabilità, il risentimento, l’aggressività verbale e la colpa per il proprio comportamento aggressivo. Tuttavia permane un pattern comportamentale caratterizzato da colpa, risentimento e sospettosità con scarsa espressione di valenze agite, per altro simile alla norma. Ne deriverebbe che il pattern aggressivo del depresso è più uno stato che un tratto. Si potrebbe concludere che la depressione comporta un maggior livello di aggressività, che però non è proporzionata alla gravità sintomatologica del quadro clinico (ad indicare ~ 65 ~ che l’aggressività è una componente a sé stante). L’aggressività è prevalentemente inibita, manifestandosi con atteggiamenti e sentimenti esprimenti risentimento, sospettosità, talora negativismo, talora anche irritabilità, che sono legati all’umore depresso, ma specialmente all’insicurezza depressiva e in misura minore alle idee suicidarie. Pertanto la depressione a livello comportamentale si correla con una attivazione di valenze aggressive le quali: 1. in parte vengono inibite dalla colpa, con aumento delle manifestazioni di hostility-in, di ostilità coperta, nascosta e proiettata, quale quella del risentimento e sospettosità; 2. in parte si trasferiscono in una realizzazione comportamentale attraverso una hostility-out o meglio una overt-hostility, che comunque non è tanto palesemente diretta verso gli altri, quanto indiretta o reattiva; 3. in parte potranno essere rivolte contro il sé, in condotte autolesive o più specificamente suicidarie. L’accentuazione dell’aggressività durante la fase depressiva non appare essere una regola generale. Possono, infatti, essere considerati tre stereotipi equamente distribuiti come percentuale. Il primo stereotipo non differisce dalla norma. Il secondo può essere definito ad “alta aggressività”, il terzo a “bassa aggressività”, in cui tuttavia gli aspetti dell’aggressività inibita si mantengono elevati, addirittura più che nella norma. È quindi evidente che le differenze nella entità dell’aggressività fra pazienti depressi dipendono soltanto dal diverso grado di inibizione della hostility- out: violenza, aggressività indiretta, irritabilità, negativismo e aggressività verbale sono i comportamenti che presentano il massimo della variabilità. La hostility-in, rappresentata specialmente dalla coppia risentimentosospettosità, si mantiene invece sempre elevata, insieme alla colpa, ad ~ 66 ~ indicare che essa costituisce caratteristica tipica e costante nel comportamento aggressivo del depresso in fase di malattia. Il ruolo della depressione nei confronti dell’aggressività sembra quindi essere in ogni caso quello di incrementare, forse attraverso la colpa, le manifestazioni di hostility-in, mentre, rispetto alla hostility-out, la depressione svolgerebbe in taluni un ruolo attivante, in altri un ruolo inibitorio. Quali sono i fattori che possono essere chiamati in causa nel determinare le diverse espressioni dell’aggressività del depresso? L’inibizione dell’aggressività espressa non sembra dipendere dalla colpa e neppure dalla gravità sintomatologica. Per quanto riguarda infine sesso ed età, sembrerebbe esistere una prevalenza di soggetti di sesso maschile e di età elevata nel gruppo a bassa aggressività, ad indicare che queste caratteristiche favorirebbero la inibizione dell’aggressività espressa. Sostanzialmente tuttavia il grado di inibizione dell’aggressività espressa, che distingue i tre stereotipi di pazienti depressi aggressivi, rimane tuttora da chiarire, lasciando intravedere interessanti ipotesi di ricerca, oltre che su altri piani, ad esempio quello della personalità, anche sul piano neurochimico. Potrebbe infatti essere prospettata una diversa partecipazione del sistema serotoninergico nei depressi con elevata hostility-out, oppure una diversa bilancia tra questo sistema neurotrasmettitoriale e gli altri implicati nella depressione, con particolare riferimento a quello dopaminergico. Si potrebbe infatti ipotizzare che, a parità di bassi valori dell’attività serotoninergica, siano i diversi valori di quella dopaminergica a sostenere l’estrinsecazione o meno delle condotte aggressive. Comunque, più genericamente, si potrebbe ipotizzare che sia la bilancia serotonina-dopamina a svolgere un ruolo importante nel determinismo del comportamento aggressivo del depresso, come ipotizzato per il soggetto sano. Va infine sottolineato che la variabilità del pattern aggressivo è tipica della ~ 67 ~ fase di malattia e che l’effetto è tanto disomogeneizzante, quanto omogenizzante è quello della fase di remissione. 4.1.6. Nessi farmacoterapeutici Quale è il ruolo dell’aggressività del depresso nel rapporto col terapeuta? Quale effetto hanno le terapie antidepressive sull’aggressività? Le caratteristiche di quest’ultima possono costituire un elemento di conoscenza per una migliore scelta del trattamento? L’effetto delle sostanze psicotrope sull’aggressività fornisce elementi per una più completa definizione di correlati biologici della depressione?, ecc. Studiando le variazioni dell’aggressività, in rapporto alla remissione della depressione, in pazienti affetti da depressione maggiore ricorrente, trattati con antidepressivi triciclici, a dosi comprese tra 75 e 150 mg/die, associati con basse dosi di benzodiazepine (BDZ) (ipnoinducenti), è stato possibile evidenziare come queste non siano di direzione univoca. In altre parole, per alcuni pazienti si verifica un aumento, per altri una riduzione. Inoltre, quanto più vi è scarsa aggressività, tanto più la variazione è nel senso dell’aumento, a testimonianza di un incremento dell’aggressività. Viceversa, si nota prevalentemente una riduzione dell’aggressività per coloro che mostrano, durante la fase acuta, livelli elevati. Ne risulterebbe, quindi, che la remissione della sintomatologia depressiva, ottenuta con il trattamento con antidepressivi triciclici, svolge un ruolo “normalizzatore” sulle manifestazioni aggressive del soggetto depresso, ora riducendole ora attivandole, a seconda della loro entità, elevata o modesta, in fase acuta. Questa tendenza tuttavia sembrerebbe dipendere dal tipo di trattamento antidepressivo. Infatti nei pazienti trattati con fluoxetina, alla dose singola di 20-40 mg/die, senza altri farmaci né antidepressivi né tranquillanti, è ~ 68 ~ possibile registrare una tendenza diversa delle variazioni del comportamento aggressivo; tutto il profilo dell’aggressività si riduce, non si evidenzia l’opposta direzione della variazione dell’aggressività a seconda del valore iniziale, vi è un rapporto lineare fra miglioramento del grado depressivo e variazione dell’aggressività. Sembrerebbe pertanto che il trattamento con un farmaco ad azione elettiva sul sistema serotoninergico avesse un effetto più costante sull’aggressività del depresso nel senso della sua riduzione, a conferma delle implicazioni di questo sistema neurotrasmettitoriale nel determinismo dei comportamenti aggressivi e nello stesso tempo a convalida della spiccata e specifica azione serotoninergica della sostanza. Rimane da chiarire come mai in alcune persone l’insorgenza dello stato depressivo riduce ed in altre aumenta i comportamenti aggressivi. Chi sono gli uni, chi sono gli altri? Quale è la rispettiva caratterizzazione neurochimica? Si differenziano nella risposta al trattamento? I due modelli possono assumere valore predittivo, così da guidare la scelta del farmaco? Lo studio dell’aggressività può dare informazioni predittive della risposta al trattamento. In pazienti fibromialgici, trattati con maproptilina, gli indici di aggressività sono in grado di predire non solo il miglioramento del sintomo dolore, ma anche dei parametri psicopatologici, fra i quali sono fortemente rappresentati i sintomi di ansia libera e di somatizzazione, che spesso accompagnano la depressione. Questo risultato (al di là del suo significato specifico relativo al rapporto fra aggressività, dolore, depressione e ansietà che caratterizzano i pazienti affetti da fibromialgia) pone il quesito di quanto le relazioni trovate fra aggressività e depressione siano inerenti al nucleo depressivo, o non piuttosto alle componenti ansiose, ed invitano ad estendere lo studio dell’aggressività anche ai disturbi d’ansia. L’aggressività è stata riportata anche come fattore predittivo di risposta favorevole al trattamento con amitriptilina. Questa risposta sarebbe dovuta alle modificazioni del sistema serotoninergico. ~ 69 ~ ~ 70 ~ 4.2. IN SINTESI Vi sono quindi numerosi motivi di interesse per lo studio del comportamento aggressivo nell’ambito dei disturbi depressivi: 1. disporre di un indice psicobiologico dei sistemi neurotrasmettitori ali maggiormente implicati, dato che l’aggressività, forse più di altri aspetti psicologici e psicopatologici, è espressione dei substrati biologici; 2. conseguentemente sviluppare una tipologia dei disturbi depressivi, che tenga conto anche di questa manifestazione psicopatologica, che potrebbe rivelare una significatività quanto meno pari a quella di altri aspetti più tradizionalmente considerati, come ad esempio l’ansia; 3. utilizzare l’entità e il tipo di comportamento aggressivo del depresso come predittore della compliance; infatti il numero di drop-out nei nostri studi è maggiore nel gruppo ad alta aggressività e sono i depressi con elevata aggressività che tendono a non ammettere il miglioramento della sintomatologia depressiva, determinando una discrepanza fra auto ed eterovalutazione; 4. individuare nell’aggressività un criterio, estrinseco al quadro depressivo in senso stretto, da utilizzare per indicazioni più mirate dei diversi trattamenti antidepressivi e per una predizione della risposta terapeutica. Alla luce di quanto esposto, la problematica dei rapporti fra aggressività e depressione appare riportabile a tre modalità fondamentali. In un primo modello, sostenuto dalle teorie psicodinamiche, l’aggressività precederebbe ~ 71 ~ la depressione e sarebbe la sua rimozione e repressione che, attraverso il rivolgimento contro il sé, determinerebbe il vissuto depressivo. In un secondo modello, coerente con la concezione behavioristica e con i dati neurofisiologici relativi alla lateralizzazione emisferica, la depressione precederebbe invece l’aggressività, determinando il suo incremento mediante una riduzione della soglia alla frustrazione, alla quale seguirebbe un’accentuazione delle valenze aggressive ed eventualmente delle relative risposte comportamentali. D’altra parte il non costante aumento dell’aggressività nella depressione, e l’assenza di un rapporto lineare fra entità della sintomatologia depressiva ed entità delle valenze aggressive, dà sostegno ad un terzo modello per il quale fra i due fenomeni non esisterebbe un rapporto di interdipendenza, ma essi coesisterebbero, perché sostenuti da un medesimo substrato. Quest’ultimo si tradurrebbe, sul piano dell’umore, nella fenomenica depressiva e, sul piano del controllo degli impulsi, in una riduzione del controllo inibitorio, che determinerebbe il passaggio all’azione di pulsioni distruttive, auto o eterodirette. Mentre il primo dei tre modelli, quello di ispirazione psicodinamica, appare più difficilmente conciliabile con gli altri e meno coerente con i dati sperimentali, i restanti due sembrano poter coesistere e accordarsi con i risultati della ricerca di ordine biologico, in particolare di quelli relativi al ruolo del sistema serotoninergico. Questo sistema neurotrasmettitoriale, forse in ragione della sua complessa organizzazione recettoriale in sottopopolazioni assai articolate, svolge molteplici funzioni, più o meno indipendenti fra loro, alcune delle quali si correlano con altrettanti aspetti comportamentali, in particolare, fra gli altri, il tono dell’umore, il controllo degli impulsi, la valutazione degli stimoli ambientali. Inoltre, differenziate sarebbero anche le strutture anatomiche serotoninergiche correlate ai diversi comportamenti. Infatti della regolazione dell’umore, e quindi della ~ 72 ~ depressione, sarebbero maggiormente responsabili le proiezioni dei nuclei del rafe al lobo limbico mediante il fascicolo dorsale, mentre del controllo degli impulsi, e quindi dell’aggressività, quelle dirette all’ippocampo attraverso il fascicolo mediale. Pertanto il sistema serotoninergico, in quanto implicato nella regolazione del tono affettivo, sarebbe chiamato in causa nel determinismo dell’umore depressivo: sarebbe la riduzione della sua attività basale nei disturbi depressivi, testimoniata dalla diminuzione della concentrazione di neuromediatore nei tessuti cerebrali, dei valori dei metaboliti nel liquor, dei siti di legame a livello presinaptico, a tradursi sul piano comportamentale nel disturbo dell’umore. Le stesse modificazioni del sistema serotoninergico, nel senso della riduzione della attività basale, potrebbero essere alla base di un altro aspetto comportamentale, quello relativo alle condotte suicidarie, ma in questo caso a causa del ruolo del sistema serotoninergico, non più nella regolazione dell’umore, ma in quella del controllo degli impulsi. Per l’ipofunzione serotoninergica le valenze auto lesive sarebbero liberate dal controllo inibitorio e passerebbero all’azione, specialmente a quella realizzata con modalità violente. Infine, lo stesso sistema neurotrasmettitoriale, in quanto coinvolto nella regolazione della valutazione degli stimoli negativi e della risposta comportamentale agli stessi, giustificherebbe la riduzione della soglia alla frustrazione e quindi l’aumento delle valenze aggressive. Per quest’ultimo aspetto, tuttavia, sarebbe da chiamare in causa l’aumento dei recettori 5- HT2 postsinaptici, che si determina con un meccanismo di up-regulation a causa della diminuita concentrazione intrasinaptica di neuromediatore. Questo meccanismo renderebbe quindi il sistema, ipofunzionante basalmente, ipersensitivo agli stimoli specifici. Esistono, tuttavia, dati controversi: esplorando l’ipersensibilità dei recettori serotoninergici e aggressività umana, non sono state riportate variazioni ~ 73 ~ dell’aggressività dopo somministrazione di un agonista dei recettori 5-HT postsinaptici, né un maggiore rilascio di cortisolo o prolattina nei pazienti con segni di aggressività diretta o storia di tentativi di suicidio rispetto ai controlli sani. Poiché il sistema serotoninergico sarebbe lateralizzato a destra, le modificazioni sopra riportate giustificherebbero l’iperfunzione dell’emisfero destro nella risposta agli stimoli riscontrate nella depressione. Cosicché, essendo questo emisfero responsabile della valutazione degli stimoli negativi, la sua iperfunzione condizionerebbe la ipersensibilità a tali eventi e un aumento delle risposte comportamentali rappresentato dalle condotte aggressive. I tre settori funzionali sarebbero in parte indipendenti fra loro. Pertanto, la compromissione prevalente di uno sugli altri spiegherebbe le differenze fra pazienti, tutti depressi, ma alcuni con condotte suicidarie ed altri no, alcuni con aumento delle valenze e delle condotte aggressive ed altri no. Naturalmente nel determinare le differenze cliniche e comportamentali svolgerebbero un ruolo fondamentale anche le modificazioni degli altri sistemi neurotrasmettitoriali, aggressività-depressione i rapporti necessita di dei quali ulteriore con la dinamica approfondimento. Certamente si delinea un quadro psicobiologico assai complesso del quale tuttavia iniziano a definirsi alcuni elementi significativi, che lasciano intravedere l’importanza tutt’altro che trascurabile dello studio dell’aggressività per la migliore conoscenza della depressione, delle sue basi biologiche, della sua classificazione clinica, della sua prognosi e del suo trattamento. ~ 74 ~ CAPITOLO 5: AGGRESSIVITÀ E CONDOTTE SUICIDARIE La letteratura sui rapporti fra aggressività e suicidio, sia a livello biologico sia a livello clinico, riconosce una correlazione positiva fra aggressività e suicidio, tanto da dare credito all’ipotesi che etero ed autoaggressività siano correlate fra loro. Tuttavia, i rapporti fra aggressività e suicidio, nonostante i contributi della letteratura, sia sul piano clinico e psicopatologico che su quello biologico, rimangano scarsamente definiti e indagati soprattutto in rapporto alla patologia depressiva. Essi vengono sostenuti prevalentementea due livelli: quello prettamente interpretativo-teorico dell’ottica psicoanalitica e quello sperimentale. 5.1.IPOTESI INTERPRETATIVE Per l’ottica psicoanalitica il suicidio rappresenta quasi sempre un omicidio mancato, nel quale l’Io rivolgerebbe contro di sé l’aggressività diretta primariamente verso oggetti del mondo esterno. Le condotte suicidarie rappresenterebbero, quindi, un rivolgimento contro il sé delle valenze aggressive del soggetto. Secondo Freud “[…] sappiamo da molto tempo, è vero, che nessun nevrotico nutre pensieri di suicidio che non derivino da impulsi omicidi verso gli altri che egli ha rivolto verso se stesso, ma non siamo mai stati in grado di spiegare quale insieme di fattori conduca all’attuazione di tali propositi[…]“. Cesare Lombroso (1984) e Enrico Morselli (1985), prima di Freud, ed Karl Abraham (Uomo delinquente, 1876) dopo di lui, avevano sottolineato i ~ 75 ~ legami tra aggressività, depressione e suicidio. In tempi più recenti, questi legami sono stati nuovamente focalizzati dalla scuola antropologico criminale di Genova secondo la quale “[…] il suicidio rappresenta una manifestazione di appagamento dell’aggressività che può essere inizialmente rivolta verso altri […]”. Al livello sperimentale, invece, i rapporti fra aggressività e suicidio, dato che non esistono studi diretti espressamente ad indagarli, sono prospettati soltanto in via indiretta e scaturiscono dall’osservazione che una diminuzione dell’attività serotoninergica si ritrova sia nel comportamento aggressivo che in quello suicidario. Il deficit di 5-HT è stato evidenziato in diverse aree cerebrali di suicidi. Studi più approfonditi sui recettori pre e postsinaptici hanno riportato una diminuzione della funzione 5-HT presinaptica in vittime suicide, dati non confermati in altri studi. I recettori postsinaptici, invece, sono aumentati nella corteccia frontale di suicidi. È riportata una diminuzione dei livelli di 5-HIAA liquorale nella maggior parte di studi clinici di pazienti che hanno compiuto un tentativo di suicidio. I dati della letteratura suggeriscono che la vulnerabilità agli atti suicidari correla con una ridotta attività presinaptica 5-HTergica e che esiste una correlazione fra suicidio e comportamento aggressivo. Sembrerebbe tuttavia che la ipofunzione 5-HT, dimostrata dalla diminuzione di 5-HIAA, sia inversamente correlata non tanto all’aggressività basale, quanto alla soglia della risposta aggressiva agli stimoli esterni. Infatti l’aggressività indotta dall’isolamento, nell’animale, che correla inversamente con l’attività 5-HT centrale, sarebbe rappresentata da una minore soglia della risposta aggressiva agli stimoli esterni, e non dal comportamento aggressivo spontaneo. Anche la biochimica sembra suggerire quindi l’esistenza di un legame tra i comportamenti auto ed eteroaggressivi, visto che i risultati di molte ricerche ~ 76 ~ relative al comportamento aggressivo negli animali ed al comportamento aggressivo e suicidario nell’uomo sembrano indicare nella disregolazione del sistema serotoninergico la base biochimica comune dell’etero ed autoaggressività: la riduzione dell’attività di tale sistema, con prevalenza relativa di altri sistemi neurotrasmettitoriali, sarebbe responsabile di una particolare vulnerabilità a sviluppare comportamenti aggressivi che potranno attualizzarsi indifferentemente verso se stessi o verso gli altri. La presenza di un’eventuale base biologica comune ai due fenomeni non permette però, di stabilire l’esistenza di un rapporto diretto fra essi. La riduzione dell’attività serotoninergica potrebbe essere infatti condizione indispensabile, ma non essere sufficiente, dato che non si può escludere che ciascuno dei due possa essere sotto il controllo anche di altre variabili più specifiche. 5.2. STUDI PSICOBIOLOGICI E CLINICI Anche se sono state abbastanza approfonditamente indagate le problematiche relative al suicidio, come sono state definite le caratteristiche del comportamento aggressivo del depresso, poco esplorati risultano questi due aspetti, aggressività e suicidio, nei loro rapporti reciproci. Rimane infatti: 1. da confermare l’esistenza di un rapporto fra aggressività e suicidio; 2. in caso affermativo, da stabilire l’eventuale specificità del comportamento aggressivo correlato alle condotte suicidarie rispetto a quello di altre situazioni psicopatologiche e in particolare della depressione 3. da accertare a quale tipo di aggressività il suicidio sia collegato; 4. da valutare se esiste un rapporto fra modalità di attuazione di tentativo suicidiario e condotte aggressive; 5. da individuare il ruolo dei fattori biologici, quale eventuale trait d’union fra ~ 77 ~ aggressività e spinte suicidarie (se a livello biologico aggressività e condotte suicidarie correlano con il medesimo substrato). Il profilo di aggressività in soggetti che hanno tentato il suicidio si caratterizza per una elevazione rispetto alla norma; particolarmente elevate appaiono le componenti relative all’inibizione dell’aggressività quali il risentimento, la sospettosità e la colpa per il proprio comportamento aggressivo. Tale profilo si distingue nettamente da quello dei controlli sani. I soggetti con tentativi suicidari sono, dunque, caratterizzati da un incremento delle valenze aggressive che in buona parte vengono inibite e si traducono in atteggiamenti indicativi della rimozione dell’aggressività, in parte vengono represse e si manifestano sotto forma di irritabilità. In questi soggetti aumenterebbero anche le manifestazioni di aggressività espressa sia in maniera diretta sia in maniera indiretta. Tuttavia il profilo di aggressività dei pazienti depressi si sovrappone pressoché totalmente con quello dei tentati suicidi (TS). Tale analogia sembra essere indipendente dalla elevata percentuale di pazienti depressi nell’ambito dei TS. Infatti, il confronto all’interno dei TS fra il profilo di aggressività dei depressi e dei soggetti con altre diagnosi non evidenzia differenze significative. L’aggressività indiretta è, generalmente, più elevata nei TS rispetto sia ai controlli sani, sia ai depressi. Questa stessa differenza emerge anche dal confronto fra gruppo dei depressi (senza TS) e sottogruppo dei TS con diagnosi di depressione. Pertanto, la caratterizzazione dell’aggressività nei TS sarebbe di ordine non quantitativo ma qualitativo. Nei TS, alle forme di aggressività rimossa o repressa tipiche del depresso, si aggiungerebbe una forma di aggressività comportamentalmente espressa, estrinsecata in condotte dimostrative delle valenze aggressive, le quali tuttavia non giungono a colpire l’altro, ma mirano a ferirlo in maniera indiretta. Questa osservazione appare sufficientemente coerente nei tentativi ~ 78 ~ suicidari (e non nei suicidi veri e propri), i quali in ragione della contemporanea presenza di rilevanti comportamenti espressivi di aggressività indiretta, potrebbero essere interpretati anch’essi come una condotta aggressiva che mira a colpire l’altro in maniera appunto indiretta e quindi dimostrativa. In effetti è noto come gran parte dei TS possono rappresentare, più che dei mancati suicidi, dei gesti compiuti con finalità dimostrative. In accordo con questa ipotesi stanno i dati della letteratura relativi per cui nell’ambito dei quadri depressivi l’aggressività espressa sarebbe prevalente nei depressi con tratti isteroidi di personalità, nei quali appunto è più probabile un TS con valenze dimostrative. In termini generali, potremmo ipotizzare che la condotta suicidaria, qualsivoglia sia la sua modalità attuativa, riconosca sempre una valenza aggressiva rivolta verso gli altri, anche se l’atto non assume una palese finalità dimostrativa o ricattatoria. Il valore predittivo dell’aggressività, soprattutto quella indiretta, nei confronti delle condotte suicidarie era già stato sottolineato dalla letteratura. Parametri bioumorali, come il binding per l’imipramina triziata, risulta nei suicidi significativamente inferiore a quello dei soggetti sani, confermando la riduzione dell’attività 5-HT di soggetti con valenze autolesive. Anche i depressi peraltro fanno registrare un binding significativamente inferiore ai normali. La bassa attività 5-HT dei TS potrebbe essere pertanto in rapporto all’elevata percentuale di disturbi depressivi in questi soggetti. Tale ipotesi tuttavia non risulta sostenibile, in quanto il confronto fra valore medio di Bmax dei TS depressi non differisce significativamente da quello dei TS con altre diagnosi. Sembrerebbe quindi che la ridotta attività 5-HT sia in rapporto diretto con le condotte suicidarie, e non mediata dal disturbo dell’umore. Gli aspetti dell’aggressività, che risultano più correlabili con indice di attività serotoninergica come il binding della 3H-IMI (imipramina MA0 inibitore), sono rappresentati dall’aggressività indiretta, dall’irritabilità e dalla sospettosità, nel senso che queste manifestazioni si fanno tanto più evidenti ~ 79 ~ quanto più è ridotto il tono 5-HTergico. Il dato biologico fornirebbe quindi una coerente organizzazione dei dati comportamentali, nel senso che coagulerebbe modalità parzialmente espresse dell’aggressività, e non quelle apertamente manifestate o viceversa più ampiamente rimosse. Nell’ambito di una generale riduzione dell’attività 5-HT, sarebbero queste ad essere particolarmente presenti quando tale attività si riduce a valori più bassi, mentre a valori relativamente meno bassi corrisponderebbero espressioni più dirette dell’aggressività. Infine, solo nei TS il rapporto fra comportamento aggressivo nel suo complesso e attività serotoninergica risulterebbe statisticamente significativo, mentre sia nei sani che nei depressi, nonostante che in questi ultimi si registri vuoi l’aumento delle valenze aggressive vuoi la riduzione dell’attività 5-HTergica, non viene raggiunta la significatività. L’esistenza di una relazione lineare fra aggressività e 5-HT soltanto nei TS, sembrerebbe indicare come specificamente l’aggressività rappresentata riconosca da una quella riduzione matrice biologica, dell’attività 5-HT, elettivamente nei soggetti che mettono in atto TS. Tuttavia non sarebbe il fenomeno aggressività di per sé ad essere in rapporto con il sistema 5-HT, in quanto l’aggressività è presente anche nel campione dei depressi, nei quali l’attività 5-HT è sì ridotta, ma senza un rapporto lineare con il comportamento aggressivo. Sarebbe quindi soltanto il tipo di aggressività che si trova nei TS ad essere in relazione con la disfunzione 5-HTergica. Poiché anche per il suicidio è stata suggerita una compromissione 5-HT, sembrerebbe verosimile che sia l’aggressività sia le valenze suicidarie discendessero dalla stessa modificazione dell’assetto psicobiologico. Tale modificazione è stata ipotizzata in un generico disturbo del controllo degli impulsi, che porterebbe ad un discontrollo delle pulsioni aggressive eterodirette e contemporaneamente di quelle autolesive. Infatti, in soggetti affetti da depressione maggiore, coloro che esprimono in autovalutazione soltanto desideri di morte mostrano un’aggressività ~ 80 ~ sostanzialmente normale, mentre coloro che esternano propositi autolesivi o addirittura hanno messo in atto tentativi mostrano una maggiore aggressività. Aggressività e valenze suicidarie sarebbero quindi dimensioni indipendenti, ancorché fortemente correlate fra loro, perché sarebbero regolate da una stessa dimensione, l’impulsività. Soltanto quest’ultima sarebbe sostenuta dall’abbassamento dell’attività 5-HT, che, da un lato, renderebbe evidente sul piano comportamentale le valenze aggressive ancorché in forma indiretta o represse, quali sono quelle che caratterizzano il paziente depresso, dall’altro, attiverebbe e tradurrebbe in azione desideri di morte, peraltro sostenuti dalla coartazione affettiva che caratterizza la depressione, ma che può ritrovarsi anche in ambiti nosografici diversi. Tuttavia alcune osservazioni suggeriscono una interpretazione alternativa. Infatti, mentre la depressione comporta di per sé un aumento dell’aggressività tanto che il profilo di aggressività dei soggetti depressi non si discosta sostanzialmente da quello dei TS, non tutti i depressi mettono in atto tentativi suicidari ad indicare che aggressività e condotte suicidarie non vanno di pari passo. L’indice “binding” è ridotto sia nei TS che nei pazienti depressi, tuttavia nei primi a livelli significativamente più bassi rispetto ai secondi. Sembrerebbe quindi che, ai diversi livelli della riduzione dell’attività 5-HT, corrispondessero comportamenti diversi anche se riportabili tutti ad una dimensione unitaria. Si potrebbe infatti ipotizzare che il sistema 5-HT tenesse sotto controllo valenze istintuali distruttive, cosicché ad una sua riduzione corrisponderebbe una irruzione sul piano comportamentale di tali valenze. A livelli di riduzione più modesta, le valenze distruttive si manifesterebbero conservandosi nei confronti degli altri, sotto forma di aggressività, invece l’istinto di autoconservazione. A livelli di compromissione più elevata, gli istinti distruttivi conserverebbero le estrinsecazioni eterodirette, ma arriverebbero a coinvolgere anche la distruzione del sé. Non si tratterebbe pertanto nel suicidio di un rivolgimento ~ 81 ~ contro il sé di valenze aggressive, quanto piuttosto di un maggior grado di compromissione di un sistema psicobiologico, che governerebbe la conservazione del sé e degli altri. Analogamente, non si tratterebbe neppure di un generico discontrollo degli impulsi, al quale dovrebbe seguire la perdita del controllo sia sulle valenze etero aggressive sia su quelle autoaggressive. Si tratterebbe piuttosto di un fenomeno, quello dell’aggressività, che crescerebbe entro una certa misura in intensità, al di là della quale allargherebbe il raggio di azione fino a coinvolgere la propria persona. Tuttavia, sia i tentativi violenti che quelli non violenti corrisponderebbero a bassi valori dell’attività 5-HT, più bassi comunque di quelli riscontrati nei depressi senza TS, anche se con la differenza sopra accennata fra violenti e non violenti. Il suicidio violento sembrerebbe quindi rappresentare l’espressione massima della dimensione psicobiologica ipotizzata, nella quale non soltanto viene compromesso l’istinto di autoconservazione, ma l’atto auto lesivo viene compiuto in maniera particolarmente autoaggressiva. In sintesi, pertanto, i rilievi clinici e quelli biologici emersi sembrano porre condotte aggressive eterodirette e auto dirette sulla stessa dimensione, in cui le seconde sarebbero l’evoluzione, nel senso dell’accentuazione, delle prime. Non si tratterebbe pertanto di una diversa espressione, auto ed eterodiretta, della stessa carica aggressiva, quanto piuttosto di entità diverse della pulsione aggressiva. La distruttività umana, abitualmente controllata da sistemi psicobiologici, in particolare sostenuti dall’attività serotoninergica, quando si attiva o si disinibisce, si realizza prioritariamente con comportamenti aggressivi eterodiretti. Ad una maggiore compromissione del sistema psicobiologico di controllo seguirebbe non tanto un ulteriore incremento dell’attacco diretto verso l’altro, quanto un aumento nel senso dell’estensione della valenza aggressiva, che verrebbe a coinvolgere anche il proprio sé. Il suicidio acquisterebbe quindi il significato di atto supremo nella gamma di comportamenti aggressivi, espressione massima della distruttività umana, che nei suoi quadri estremi ~ 82 ~ si estende all’annullamento della propria vita e con essa del mondo intero, come espressione di un attacco pur sempre rivolto verso gli altri, anche se in maniera indiretta. I rapporti fra aggressività e condotte suicidarie sono stati studiati soprattutto in rapporto alla patologia depressiva, dato l’alto rischio suicidario connesso con questa patologia. Una maggiore aggressività distinguerebbe i soggetti con tendenze suicidarie da quelli senza, anche nell’ambito dei depressi, con particolare riferimento alla outwarded hostility, così da suggerire l’aggressività indiretta come predittore dei tentativi di suicidio migliore rispetto al grado di depressione. Volendo esaminare i rapporti fra aggressività e suicidio dal punto di vista esclusivamente clinico psicopatologico, limitando il campo di indagine agli stati depressivi, si potrebbe considerare l’espressione delle diverse modalità di distacco dalla vita come una dimensione unitaria che si svolge dai semplici desideri di morte, ai propositi suicidari, ai tentativi di suicidio fino al compimento dell’atto stesso. La dimensione distacco dalla vita con desideri di morte può essere sintomo del vissuto depressivo e non indicare un reale rischio di passaggio all’atto. Nei propositi di suicidio l’azione autolesiva viene concepita esclusivamente a livello ideativo, nel tentativo di suicidio viene attuato un comportamento connesso al proposito, ma che non si realizza nella perdita della vita come si realizza invece nel suicidio vero e proprio. Risulta evidente pertanto che questi differenti comportamenti autolesivi si snodano lungo una dimensione che riguarda la compiutezza dell’azione: dal desiderio di morte, nell’assenza di una qualsiasi azione, all’azione pensata, all’azione inefficace, fino all’azione perfettamente compiuta. Dati i verosimili rapporti fra azione e aggressività, possiamo chiederci quale tipo di rapporto l’aggressività stabilisca con le diverse modalità di espressione del distacco dalla vita. Infatti tale rapporto potrebbe essere di ~ 83 ~ tipo lineare, per cui allo svilupparsi del passaggio all’azione corrisponde un aumento delle valenze aggressive, un rapporto quindi di ordine quantitativo. Oppure, alle diverse modalità autodistruttive potrebbe corrispondere una inversione della direzione dell’aggressività, dall’aggressività diretta verso l’esterno a quella rivolta verso il sé. Oppure, infine, le diverse modalità di distacco dalla vita potrebbero essere sottese da un diverso tipo di comportamento aggressivo, con differenze di ordine qualitativo. Naturalmente gli studi clinici non permettono la valutazione del paziente suicida, per il quale gli unici dati disponibili sono quelli condotti in studi biologici post-mortem sulle possibili alterazioni neurotrasmettitoriali. Pertanto, sul piano strettamente clinico, i rapporti tra aggressività e valenze suicidarie possono essere esplorati soltanto nell’ambito dei desideri di morte, dei propositi e dei tentativi di suicidio, sebbene debba essere segnalato come alcuni comportamenti suicidari che non portano a morte possono essere dei veri e propri suicidi mancati, più che tentativi di suicidio in senso tradizionale. D’altra parte la mancanza di criteri validi per la valutazione clinica delle reali intenzioni del soggetto rende problematica la valutazione del comportamento suicidario, essendo una valutazione più di ordine soggettivo che oggettivo. Studiando i rapporti fra aggressività e suicidio limitatamente alla depressione, il profilo di aggressività dei pazienti depressi non si discosta sostanzialmente dalla norma, se non per i più elevati valori di sospettosità e colpa per il proprio comportamento aggressivo. Anche dal punto di vista qualitativo non emergono rapporti fra entità della sintomatologia depressiva e varie modalità espressive del comportamento aggressivo. Confrontando fra loro soggetti che non hanno espresso desideri di morte, che hanno dichiarato desideri di morte, ma non propositi o tentativi di suicidio e pazienti che manifestano valenze suicidarie, è possibile evidenziare che la dimensione che va dal desiderio di morte ai propositi ~ 84 ~ autolesivi ed ai tentativi di suicidio stabilisce un rapporto lineare soltanto con la colpa, e non con i fattori che esplorano più propriamente l’aggressività. Infatti, se pazienti con propositi e tentativi suicidari sembrano avere maggiore aggressività rispetto agli altri pazienti, non altrettanto succede per chi manifesta desideri di morte rispetto a chi questi desideri non esprime, anzi chi ha desideri di morte sembrerebbe avere minore aggressività di coloro nei quali l’attaccamento alla vita è conservato. Pertanto, si potrebbe ipotizzare che la comparsa di desideri di morte si rapporti ad una diminuzione dei comportamenti aggressivi nel loro complesso, mentre propositi e tentativi di suicidio si correlano con una elevazione delle cariche aggressive. I soggetti con desideri di morte sarebbero quindi più passivi, meno inclini all’azione, mentre coloro che progettano il suicidio sarebbero quelli con maggiori cariche aggressive, oppure quelli con distacco dalla vita, nei quali si verifica un viraggio del comportamento verso l’aggressività. Vi sarebbe anche una relazione fra comportamento aggressivo nel suo complesso e pulsioni suicidarie, nel senso che queste sarebbero presenti in coloro che manifestano maggiore aggressività, specialmente nelle sue forme inibite. I profili di aggressività nella depressione, complicata da TS, possono essere ricondotti a quattro modelli: un profilo basso, un profilo medio, un profilo elevato e, infine, un’aggressività alta, ma caratterizzata prevalentemente dalle forme inibite e represse (risentimento e sospettosità). La distribuzione dei soggetti in quattro gruppi, a seconda delle diverse forme di valenze suicidarie, indica che i depressi che conservano l’attaccamento alla vita possono avere tutti i quattro tipi di aggressività; quelli con desideri di morte più spesso hanno un profilo di bassa aggressività; quelli con valenze suicidarie espresse (propositi e tentativi) sono caratterizzati da un deciso spostamento verso l’aggressività elevata. Infatti, nessuno dei pazienti con propositi o tentativi compare nel gruppo con aggressività bassa, mentre la grande maggioranza si ritrova nei gruppi ad ~ 85 ~ aggressività alta o rimossa. In sintesi, quindi, mentre non tutti i depressi con aggressività elevata esprimono propositi o mettono in atto tentativi di suicidio, certamente quelli con bassa aggressività non lo fanno. Un’alta aggressività non predirrebbe, dunque, di per sé l’attuazione di tentativi di suicidio, in quanto molti sono i depressi con elevata aggressività che non dichiarano né propositi né tentativi di suicidio. Invece, una bassa aggressività sembrerebbe rendere molto improbabile l’esistenza di tale tipo di condotta. L’aggressività quindi si porrebbe come condizione necessaria, ma non sufficiente per gli intenti suicidari. Su un piano quantitativo è interessante sottolineare la linea di tendenza verso una relazione fra bassa aggressività e desideri di morte. Effettivamente il depresso che esprime tali desideri appare porsi nei confronti della auspicata perdita della vita in maniera passiva, che ben si correla ad una diminuzione delle cariche aggressive. Questo concorda, sul piano clinico, con le parole con le quali il paziente depresso talvolta si esprime: “vorrei essere morto”, “vorrei addormentarmi e non svegliarmi più”, oppure “vorrei che qualcuno mi uccidesse”, con le quali si evidenzia il ruolo passivo del soggetto di fronte alla morte, invocata sì, ma senza che egli assuma un ruolo attivo nel ricercarla, come se venisse a mancare la spinta aggressiva necessaria per il passaggio all’azione. Il passaggio all’azione potrebbe essere legato ad un viraggio dell’aggressività, che da bassa diviene più elevata. Si potrebbe spiegare così anche il riscontro della maggior frequenza di tentativi di suicidio in corrispondenza di una certa fase del trattamento antidepressivo, attribuita tradizionalmente ad una generica disinibizione sul piano motorio operata dal farmaco, che in realtà potrebbe essere interpretata come viraggio delle valenze aggressive. Certamente non si può non riconoscere, nel determinismo delle valenze suicidarie, il ruolo dei sentimenti di colpa, cosicché le varie espressioni fenomeniche e comportamentali delle valenze suicidarie sarebbero il risultato dell’interazione tra sentimenti di colpa e cariche aggressive. ~ 86 ~ Cariche aggressive che rivestono un significato non soltanto per aspetti meramente quantitativi, ma anche qualitativi. Infatti, il distacco dalla vita si traspone più spesso in condotte autolesive quanto più concomita un’elevata aggressività, ma specialmente quando questa è inibita o rimossa, traducendosi in atteggiamenti di risentimento e sospettosità. ~ 87 ~ ~ 88 ~ CAPITOLO 6: AGGRESSIVITÀ E VIOLENZA Il concetto di pericolosità, fortemente correlato alle condotte aggressive, con la legge 180 è uscito dalle motivazioni dell’intervento psichiatrico urgente; in particolare per il ricovero in regime di TSO, la legge ha privilegiato giustamente la più generica necessità di intervento terapeutico, sottolineando nello stesso tempo la natura patologica dell’alterazione psichica e quella medica del relativo intervento. Tuttavia, di fatto, buona parte dei TSO sottintende, anche se non esplicitamente, la pericolosità del comportamento, tanto che l’attività degli SPDC, ove la degenza in TSO è spesso limitata a brevi periodi, assume più spesso di nuovo i caratteri della custodia, piuttosto che della cura, poiché è difficile pensare che in pochi giorni cessi la necessità di interventi terapeutici urgenti, mentre è più probabile che gli interventi attuati si limitino ad arginare il comportamento aggressivo e, quindi, la pericolosità. 6.1. VIOLENZA E PSICOPATOLOGIA L’aggressività, in quanto condotta apertamente diretta contro gli altri sotto forma di comportamenti violenti, si manifesta in molti disturbi psichiatrici, nei quali appare come sintomo all’interno di una più ampia costellazione psicopatologica. Pazienti schizofrenici, bipolari, dementi, alcolisti, epilettici, cerebrolesi, con abuso di sostanze, con disturbi della condotta alimentare, ecc., possono con elevata frequenza esternare un comportamento violento che pone non pochi problemi gestionali. In alcuni disturbi poi l’aggressività sembra occupare una posizione più nucleare all’interno del quadro psicopatologico, tanto da costituirne più che un sintomo l’essenza fondamentale. È particolarmente nei disturbi dell’Asse II che tale condizione si realizza: vedasi il disturbo borderline di personalità, quello antisociale, il disturbo passivo-aggressivo. In tutte queste condizioni, come anche nella piromania, e nel gioco d’azzardo patologico, sono stati ritrovati bassi livelli di 5-HIAA nel liquor, a testimonianza di un correlato ~ 89 ~ biologico comune individuabile nella ipoattività del sistema serotoninergico. Vi sono disturbi psichiatrici associati con maggiore probabilità a violenza, in cui la violenza è spesso presente e fa parte anche dei criteri diagnostici di questi disturbi. Nel disturbo esplosivo intermittente il comportamento violento può comparire senza o alla minima provocazione e ricorre senza alcuna manifestazione anticipatoria da parte del paziente. Nel disturbo esplosivo isolato spesso il comportamento violento si manifesta senza alcuna anticipazione, ma non c’è ricorrenza. Nel disturbo del controllo degli impulsi atipico compare il comportamento violento, ma non in relazione alla situazione ambientale. Nel disturbo dell’adattamento con anomalia della condotta, la violenza comportamentale è spesso legata ad un rifiuto da parte della persona amata o di un familiare. Nel disturbo antisociale di personalità i pazienti hanno dei gravi deficit affettivi e mostrano uno scarso controllo superegoico. Un disturbo della condotta che non rientra nei criteri del disturbo antisociale di personalità può comunque essere associato a violenza. In altri disturbi è probabile la presenza di violenza anche se questa non appare nei criteri diagnostici. Nel disturbo bipolare, tipo maniacale, i pazienti hanno un livello di attività tanto elevato e una così bassa tolleranza alla frustrazione che la violenza fisica non è infrequente. Nella schizofrenia, tipo catatonico, i pazienti possono essere estremamente distruttivi, specialmente dopo uno stato di arresto (stupor). ~ 90 ~ Nella schizofrenia, tipo paranoide, alcuni pazienti possono diventare violenti in seguito ad un delirio persecutorio o a voci egodistoniche che comandino loro di compiere qualcosa. Nel disturbo paranoide acuto, può manifestarsi violenza o persistente ideazione omicida diretta specificamente verso una persona o gruppo. Nel disturbo borderline di personalità, la violenza tende ad essere diretta verso se stessi (automutilazione), ma i pazienti possono diventare omicidi o violenti se sotto l’effetto di alcool o farmaci. Nel corso di un breve episodio psicotico, la violenza può essere scatenata da un vissuto di rifiuto da parte del terapeuta o di altre figure significative. Nel disturbo paranoide di personalità, durante la terapia, si può sviluppare un transfert così intenso dal quale può scaturire un comportamento omicida o violento. Nel disturbo ossessivo-compulsivo, il divieto di porre in atto il comportamento compulsivo può generare un comportamento violento. Ad esempio, un rupofobico compulsivo, che viene trattenuto fisicamente, può colpire la persona che cerca di impedirgli l’azione. Esistono infine disturbi organici, in cui è probabile la presenza di comportamento violento, ma in cui la violenza in se stessa non costituisce criterio diagnostico. Nel delirium (stato confusionale), particolarmente quello associato a fenciclidina, il comportamento dei pazienti è imprevedibile: essi possono essere calmi un minuto prima e mostrarsi gravemente agitati un minuto dopo. È possibile che questi pazienti possano provocarsi dei danni se non vengono contenuti, ma vi possono riuscire anche se contenuti. ~ 91 ~ Nella sindrome delirante organica, l’aggressività può manifestarsi in maniera indiretta contro oggetti o con atti vandalici; nella demenza, la gelosia verso il coniuge può istigare aggressività. I pazienti dementi possono divenire agitati durante la notte, quando compare una riduzione degli input sensoriali (sindrome del “calar del sole”); altri possono andare incontro a reazioni paradosse nei confronti di barbiturici e benzodiazepine. L’aura delle crisi epilettiche parziali complesse, che produce paura o rabbia intensa, e gli stati postictali raramente danno luogo a comportamenti violenti. Nell’intossicazione alcolica, i pazienti tendono ad essere violenti subito dopo l’uscita dallo stato soporoso. Pazienti con intossicazione patologica possono presentarsi violenti, anche senza essere alcolisti. I pazienti con disturbo delirante da abuso di amfetamine sono soggetti a bruschi cambiamenti e per brevi momenti possono apparire del tutto normali, ma spesso esplodono in atti di violenza. Nell’astinenza da oppiacei o da barbiturici (e altri sedativi e ipnotici simili), vi può essere violenza a causa dell’irritabilità del paziente e per l’irresistibile desiderio della droga (craving). La connessione causale fra abuso di sostanze e violenza non è chiara, nonostante essa venga segnalata in molti studi. Infatti soltanto una minoranza di persone diventa violenta dopo aver assunto alcool e il manifestarsi di un comportamento aggressivo in tale condizione dipende certamente da una varietà di fattori, fra i quali l’aspettativa con cui la sostanza viene assunta. Tuttavia, quello che è certo è che un comportamento di rabbia seguente all’uso di alcool non è mai stato riprodotto in situazioni sperimentali in popolazioni a rischio. Un discorso a parte meritano le benzodiazepine ~ 92 ~ (BDZ). Infatti è stato prospettato che elevate dosi di flunitrazepam possano portare ad esplosioni di violenza, così come alcuni studi hanno evidenziato che le BDZ determinano in alcuni soggetti reazioni paradosse di rabbia e un aumento delle tendenze ostili e aggressive. Anche in volontari con bassi livelli di ansia, le BDZ hanno mostrato un effetto pro aggressivo, come pure nei soggetti sani. Tuttavia è da notare che più abitualmente le BDZ vengono assunte da soggetti che assumono vari tipi di sostanze e spesso vengono prese in dosaggi elevati e per molto tempo. Il rapporto fra BDZ e aggressività rimane perciò poco chiaro. 6.2. FATTORI PREDITTIVI DI VIOLENZA Nella situazione di emergenza non sempre è agevole valutare le potenzialità aggressive di un paziente e calcolare le probabilità di un comportamento violento. Spesso tale valutazione si fonda su impressioni aspecifiche o su un giudizio clinico intuitivo, anche perché i primi studi in tal senso non sono apparsi incoraggianti. Tuttavia, mentre non sembrano esistere validi predittori di atti di violenza nel lungo periodo, appare più realizzabile una valutazione del rischio di violenza imminente. La revisione della letteratura sull’argomento suggerisce alcuni indici come predittivi di comportamento violento nel breve periodo. 1.Idee di violenza. Fra queste rivestirebbero la maggiore importanza come fattore di rischio quelle concernenti desideri di aggressività nei confronti di una persona specifica, mentre minore significato avrebbero quelle rivolte verso un gruppo o una categoria. Idee più aspecifiche di ostilità, o desideri di rompere oggetti, ne avrebbero ancora meno. Notevole importanza viene attribuita alle voci imperative. Tuttavia è dubbio quanto esse siano in realtà ~ 93 ~ seguite da un comportamento in una percentuale rilevante dei casi. 2. Comportamento durante il colloquio. Un crescendo progressivo dell’attività psicomotoria durante il colloquio con una prima fase di aggressività verbale, in cui il soggetto mette in dubbio l’autorità del operatore fino, in una fase successiva, a sfidarla con turpiloquio o con atteggiamenti comportamentali, frequentemente precede un atto di violenza. 3. Storia recente di violenza. Indicativi di maggior rischio sarebbero le azioni violente compiute con mezzi fisici, poi, in ordine, quelle compiute senza strumenti, ma che hanno provocato serie lesioni, e così via fino a comportamenti verso gli oggetti, che avrebbero un minore significato predittivo. 4. Storia remota di violenza. Questa è di notevole importanza nel predire comportamenti violenti a breve termine, tanto più quanto questi si saranno manifestati frequentemente nel passato. Saranno da valutare anche eventuali arresti, infrazioni nella guida, coinvolgimento in procedimenti legali, tendenza a punire i figli, o a seviziare gli animali in epoca infantile o problemi costanti con le autorità in epoca adolescenziale. 5. Sistemi di supporto. La presenza di una famiglia, di un gruppo di amici, l’inserimento in un gruppo religioso, il contatto con un servizio di igiene mentale, ecc., specialmente se valutabili come validi, è un fattore che limita il rischio di condotte violente. ~ 94 ~ 6. Compliance. L’atteggiamento non cooperativo e una storia passata di non aderenza ai trattamenti sollecitano in genere misure di sicurezza (come ad es. ricovero). 7. Storia di abuso di sostanze. L’associazione fra questo fattore e il rischio di violenza a breve termine è in realtà poco chiara, anche perché non è stata confermata nei pazienti seguiti nel periodo successivo al ricovero. Nonostante la mancanza di convalide sperimentali, l’abuso di sostanze viene tradizionalmente considerato un fattore di rischio per il comportamento violento, specialmente per gli stati di intossicazione in atto o in condizioni di astinenza, mentre l’uso occasionale, ricreativo, avrebbe un valore molto inferiore. Naturalmente il rischio dipende anche dal tipo di sostanza di abuso. 8. Anamnesi medica e neurologica. Sono in primo piano i danni neurologici, in particolar modo quelli del lobo frontale, dovuti ad un trauma, a vasculopatie cerebrali, a demenza di Alzheimer o nell’ambito di una cerebropatia infantile o di un disturbo organico di personalità. Particolare importanza è stata anche data all’epilessia del lobo temporale. A questo proposito è interessante notare che la tipologia del comportamento aggressivo, in caso di danno cerebrale, può essere specifica per la singola localizzazione. Gli studi nell’animale ed anche quelli nell’uomo hanno infatti dimostrato che la stimolazione elettrica di specifiche aree cerebrali determina specifiche risposte aggressive. Molti dei comportamenti aggressivi, che potrebbero essere giudicati di pertinenza non medica, potrebbero invece avere una giustificazione in una disfunzione dei sistemi neurofisiologici di controllo dell’aggressività. L’aggressività nei confronti della moglie, ad esempio, non viene considerata in genere organica; tuttavia studi recenti dimostrano come i danni organici cerebrali ne siano il predittore più potente. Analogamente, alcuni Autori hanno osservato ~ 95 ~ come i pazienti con lesioni orbito-frontali siano comportamentalmente simili ai sociopatici; così si è visto che i prigionieri violenti hanno anomalie elettroencefalografiche in percentuale più elevata rispetto ai controlli. Fattori che invece sono correlati negativamente con il comportamento violento sono: – un elevato numero di sintomi di depressione, – un elevato numero di sintomi di ansia, – precedenti trattamenti psichiatrici ambulatoriali, – una storia di drug addiction (in contrasto con una storia di abuso alcolico), – elevati tratti di timidezza e di emotività. ~ 96 ~ CAPITOLO 7: VALUTAZIONE E TRATTAMENTO DEL PAZIENTE VIOLENTO 7.1. PREMESSA Circa il 40% degli psichiatri è stato vittima nel corso della carriera di violenza fisica (percosse, lesioni personali, tentato omicidio, omicidio attuato, ecc.) da parte di pazienti malati di mente che aveva in cura. Negli ospedali psichiatrici a massima sicurezza è stata rilevata una percentuale di circa il 45% del personale paramedico vittima di violenza da parte dei pazienti psichiatrici. Le percentuali sopra descritte aumentano notevolmente qualora si considerino psichiatri e paramedici che operano nelle strutture di emergenza psichiatrica, dove i comportamenti violenti sono più frequenti e più gravi. L’aggressione agli psichiatri avviene, a livello generale, con armi di offesa naturale (principalmente cono pugni e calci), uso di oggetti, minacce con la pistola, minacce o lesioni col coltello e/o con armi bianche. Da segnalare inoltre che le aggressioni agli psichiatri generalmente non vengono denunciate ed i dati reali sono circa 5 volte superiori ai dati ufficiali. La sottostima del comportamento violento è stata descritta da numerosi Autori che ne hanno messo in luce le problematiche “metodologiche” che contribuiscono al fenomeno (quali la difficoltà nel trovare una definizione univoca di “comportamento violento”, uno strumento di rilevamento adeguato, intralci burocratici, ecc.) e le problematiche “personali” (quali la convinzione che il comportamento violento sia una parte integrante della malattia mentale; complessi sentimenti di colpa; timore di subire accuse di negligenza e/o inadeguata professionalità nello svolgere l’attività lavorativa; ansia legata a possibili indagini sul “come” e sul “perché” è avvenuto il comportamento aggressivo o sulle modalità della propria difesa, ecc.) Per quanto concerne il comportamento violento del malato di mente in ambito familiare, è da segnalare che, generalmente, sono gli episodi di violenza fisica che inducono i familiari a richiedere il ricovero psichiatrico. In ~ 97 ~ relazione ad una maggiore incidenza del comportamento violento nella popolazione psichiatrica rispetto alla popolazione generale, la letteratura non evidenzia una posizione univoca. Se da una parte alcuni Autori evidenziano una percentuale maggiore di “arrest rate” (inclusi gli arresti per crimini violenti) tra i pazienti psichiatrici, dall’altra numerosi Autori concordano nell’attribuire alla popolazione psichiatrica una incidenza di comportamenti violenti pressoché sovrapponibile a quella della popolazione generale. Tuttavia, la presenza di numerose problematiche legate alla definizione di “comportamento violento”, al corretto inquadramento psichiatrico, alla metodologia di studio utilizzata, alla modalità di campionamento, alla “criminalizzazione del malato di mente” (spostamento dei pazienti dal sistema sanitario al sistema giudiziario), alla “psichiatrizzazione del comportamento criminale” (spostamento di individui dal sistema giudiziario a quello sanitario psichiatrico), ecc., lasciano aperto il campo ad ulteriori studi. 7.2. TRATTAMENTO DEL PAZIENTE VIOLENTO IN SITUAZIONI DI EMERGENZA Nella valutazione e trattamento del paziente violento in situazione di emergenza saranno prese in considerazione le caratteristiche fisiche dell’ambiente ove si svolge il colloquio, le modalità di intervento verbale e comportamentale dello psichiatra, le tecniche di approccio ad un paziente che minaccia con un’arma. Infine, saranno valutati gli errori emotivi e comportamentali dell’operatore psichiatrico con il paziente violento ed i vari livelli di intervento preventivo e terapeutico in relazione al livello di introspezione. ~ 98 ~ 7.2.1. Dove incontrare il paziente violento In situazione di emergenza lo psichiatra può e deve decidere il luogo ove colloquiare col paziente che ha posto o potrebbe porre in atto comportamenti violenti. Effettuare il colloquio in un ambiente inadeguato, ad es. molto ristretto come spazio, in una zona di passaggio con numerosi altri pazienti che transitano o sono in attesa, in presenza di familiari ad alta emotività espressa, che usano un linguaggio urlato, ecc., può rappresentare la prima scelta errata dello psichiatra, che si rende facilmente responsabile, anche se solo a livello concausale, dello scatenarsi o dell’aggravarsi ulteriore di un comportamento violento e delle conseguenze di danno a cose o persone da parte del paziente. Il mancato rispetto di alcune regole basilari nell’intervistare un paziente con comportamento violento può in certe stipule di assicurazioni e in alcuni processi civili o penali, portare l’operatore o a non essere risarcito da eventuali danni che ha riportato alla propria persona, o ad essere perseguito in ragione di danno a terze persone, a termine di legge per grossolana imperizia, negligenza o imprudenza nell’esercitare la professione. Esistono diverse possibilità di scelta dell’infermiere per strutturare fisicamente nello spazio la valutazione del soggetto violento: solo col paziente in una stanza, con la porta chiusa; solo col paziente in una stanza con la porta aperta; solo col paziente in una stanza con la porta aperta e con gli infermieri che assistono all’esterno della stanza; in presenza degli infermieri con il paziente libero; presenti o assenti gli infermieri con il paziente che è in uno stato di contenzione fisica, ecc. Tutte queste possibilità hanno precise indicazioni e controindicazioni. Il principio base, che può regolare la scelta del luogo del colloquio, è legato alla sicurezza fisica dei partecipanti (Tab. 1 pag. 147). In primo luogo deve essere rispettata la sicurezza fisica dell’operatore che non deve mettersi in ~ 99 ~ situazione di essere aggredito e non deve effettuare il colloquio in uno stato di ansia o di paura. Deve altresì essere rispettata la sicurezza del paziente, che, ad esempio, non deve potere disporre di oggetti da taglio, da punta o contundenti per procurare a sé o agli altri lesioni fisiche. Ricordiamo che molto spesso etero ed autoaggressività si manifestano in breve spazio di tempo. Deve essere altresì rispettata la sicurezza fisica di altri pazienti, eventualmente presenti, della stessa équipe e di altri medici e paramedici. La situazione ideale per il rispetto di questi principi di sicurezza si basa sul fatto che lo psichiatra non deve intervistare il paziente agitato e violento da solo in una stanza chiusa. È opportuno che l’operatore possa sempre avere la possibilità, ad esempio posizionandosi fra il paziente e la porta aperta, di guadagnare l’uscita senza subire danni e di poter fruire del pronto intervento di una équipe, che osservi senza disturbare o alterare la riservatezza del colloquio. Quest’ultima avvertenza serve non solo per il pronto intervento fisico, che l’équipe può mettere in atto, ma anche per tranquillizzare, dissuadere con la presenza, discreta ma significativa di varie persone, eventuali atti aggressivi, soprattutto se questi sono di tipo manipolatorio, e cioè suscettibili alla provocazione, ma sempre sensibili al confronto con la realtà. Il piano di intervento dell’équipe deve essere già stato precedentemente messo per iscritto ed oggetto di discussione e di prove reali. Solo in tal modo le singole persone conoscono e si sono familiarizzate con i propri ruoli e sono in grado, con la dovuta padronanza, di eseguire, in condizione di emergenza, le istruzioni di un coordinatore. Sono da evitare le decisioni affrettate e confusionarie, all’insegna dell’improvvisazione, in uno stato di urgenza ove ognuno si muove individualmente e disordinatamente e si agita senza la presenza di un unico ~ 100 ~ ed esperto coordinatore, o di un preciso piano di intervento con chiara e concreta distribuzione dei ruoli. Il colloquio approfondito col paziente in stato di contenzione, e cioè trattenuto fisicamente dall’équipe, o con mezzi di contenzione parziale (quali bracciali, cavigliere, ecc.) o con mezzi di contenzione totale (fissato ed immobilizzato su un lettino), non può aver luogo che in casi estremi. In queste situazioni il colloquio è opportuno sia rimandato seppur dopo aver verbalizzato in modo adeguato al paziente (anche se presenta, al momento, difficoltà alla comprensione manifesta) che il colloquio sarà ripreso al momento in cui sarà migliorata la comunicazione. È inoltre da segnalare che il paziente non deve essere lasciato da solo, o semplicemente in compagnia dei parenti, senza la vigile presenza del personale specializzato, sia prima che durante o dopo il colloquio con lo psichiatra. In queste occasioni può fuggire, aggredire altre persone, penetrare in locali creando confusione, danni, ecc. Inoltre il paziente violento non può essere lasciato in attesa con altri pazienti psichiatrici. L’esperienza clinica insegna che è proprio nelle sale di emergenza psichiatriche che avvengono, con più frequenza, violenze fisiche coinvolgendo pazienti e personale paramedico e medico. Può, ad esempio, essere sufficiente uno sguardo, un saluto, un commento, ecc., per poter provocare in certi pazienti paranoidei un passaggio all’azione violenta con tutte le conseguenze fisiche di danno alla persona e di un trauma psichico per tutti i partecipanti e spettatori dell’evento di violenza. Il paziente violento presenta inoltre necessità di immediatezza di intervento e precedenza di attenzioni sugli altri pazienti da parte dello psichiatra. Far attendere passivamente un paziente violento non serve per calmarlo o tranquillizzarlo, ma, come insegna l’esperienza clinica, spesso l’attesa passiva aumenta lo stato di agitazione psichica e motoria e quello generico di irritabilità aggressiva, aumentando così le probabilità per il soggetto del passaggio all’azione. Egualmente l’attesa, come semplice rimando o ~ 101 ~ meccanismo psicologico di difesa e di evitamento temporaneo, non giova all’approccio psichiatrico dei medici o paramedici al paziente violento. È infine da segnalare la necessità che il paziente compia percorsi fisici, tra l’entrata e l’uscita dall’area del colloquio, che non contemplino la possibilità di trovare strutture o oggetti che permettano di arrecare danno fisico ad altri o a se stessi. Sono quindi da proscrivere: corridoi stretti ed affollati; ambienti con vetreria ed oggetti che possano essere usati come armi improprie; passaggi in presenza di apparecchiature che producano suoni, luci, ecc. 7.2.2. Come presentarsi al paziente violento In una situazione di emergenza l’operatore può presentarsi con varie modalità al colloquio col paziente violento ed agitato. Anche in questi casi vale il principio generale che l’operatore non deve mai porsi in una posizione vittimologica, e cioè essere possibile oggetto di insulti fisici (Tab. 2 pag. 147). Prima ancora di colloquiare con il paziente è opportuno che lo psichiatra sia avvertito dal personale dell’accettazione, adeguatamente sensibilizzato alla clinica del comportamento violento, della eventuale predisposizione alla violenza del nuovo venuto. È opportuno che l’infermiere mantenga una distanza non inferiore al metro e mezzo a paziente seduto o disteso e due metri a paziente in stazione eretta: così quest’ultimo avrà difficoltà a colpirlo con movimenti bruschi e improvvisi. Inutili sono poi le frequenti recriminazioni anche da parte degli psichiatri esperti “è stato improvviso, non mi aspettavo questa reazione”. Se il paziente deve essere visitato fisicamente, l’esame deve essere compiuto con precauzioni adeguate (ad es. ponendo sempre un braccio di difesa tra la testa del paziente e la testa dell’esaminatore allo scopo di evitare lesioni da “testate”, ecc.). Inoltre l’operatore deve tenere presente che avvicinandosi fisicamente al paziente entra in un suo spazio personale e può stimolare facilmente una tra le forme più primitive di aggressività ~ 102 ~ territoriale. La difesa del proprio territorio nelle persone violente ed agitate si estende per uno spazio che è circa 4 volte più ampio di quanto non lo sia in un soggetto che non è violento. Per quanto concerne specifiche psicopatologie, è da rilevare che, ad esempio, in soggetti con spunti paranoidei, non bisogna avvicinarsi alle loro spalle, dove lo spazio deve essere sempre lasciato libero anche da parte del personale dell’équipe. Non ci si deve inoltre avvicinare al paziente con modalità rapide e decise in senso frontale, poiché ciò può essere percepito come un atteggiamento di confronto, di sfida e può facilitare il passaggio all’azione aggressiva di difesa. È inoltre da evitare il contatto diretto e prolungato nello sguardo degli occhi del paziente: è spesso percepito da molti soggetti come una forma di invasività, di provocazione personale. Non deve essere usata, a paziente assiso o seduto, la posizione eretta dell’operatore che guardi e parli dall’alto al basso: nei pazienti con disturbo a sfondo paranoideo potrebbe essere percepito come un tentativo non solo di dominare, ma anche di insultare e disprezzare. Sorridere o ridere è sempre interpretato da parte dal paziente in senso aggressivo e dispregiativo. Essere “familiarmente”, “amicamente” toccato dal medico in alcuni pazienti può suscitare fantasmi di un approccio sessuale indesiderato, di dominazione o di insultante e pericolosa invasività. È inoltre da tenere presente, in caso di incontro a breve distanza, l’avvertenza di avvicinarsi al lato del paziente in posizione latero-frontale porgendo sempre il proprio emicorpo, riducendo così la quantità e la qualità fragile della persona fisica che può essere oggetto di aggressione. Inoltre, per nessun motivo, anche quando il soggetto violento è stato calmato e rasserenato, l’operatore deve voltare il dorso e soprattutto perdere il controllo visivo del paziente. Anche nel caso in cui il paziente dovesse tentare un’aggressione è sempre bene, come insegna l’esperienza, che l’infermiere arretri, senza voltarsi, perché potrebbe essere più facilmente ~ 103 ~ afferrato e colpito. È bene inoltre che il paziente non rimanga assolutamente in vicinanza di altri pazienti, parenti o accompagnatori che parlano ad alta voce o che si muovono in modo concitato o disordinato o che, in qualsiasi caso, anche solo verbalmente, interferiscano o disturbino. Si ricorda, infine, che l’infermiere in queste situazioni di emergenza non deve presentare sul proprio corpo elementi di abbigliamento che lo rendano facilmente vittima di danni fisici (orecchini, cravatte sventolanti, oggetti appuntiti o di vetro nei taschini, ecc.). Egualmente nella stanza del colloquio non devono esserci sulle scrivanie oggetti che possono rappresentare un’arma propria o impropria (tagliacarte, forbici, lampade, ecc.) o, nell’ambito della stanza, strutture o mobili che possano essere utilizzati nel corso di un passaggio all’azione (appendiabiti e portaombrelli facilmente mobilizzabili, sedie leggere, ecc.). Non è inutile che l’operatore apprenda alcune tecniche, molto elementari, ma concretamente valide, per difendersi dal contatto col paziente violento. 7.2.3. Cosa dire o fare con un paziente violento L’operatore che valuta un paziente agitato e violento deve effettuare una diagnosi rapida per decidere se dover procedere ad un colloquio oppure (dopo aver assunto alcune informazioni essenziali) privilegiare con urgenza un approccio farmacologico o tecnico di contenzione. Il razionale alla base di questa scelta è che esistono pazienti con i quali il colloquio, in quel momento, è difficile e il medico (pur non rinunciando in linea di principio al dialogo e ad un approccio integrato) deve agire prioritariamente a livelli diversi (farmacologico, di contenzione fisica). In questa rapida diagnosi l’operatore può tener presente che in alcuni danni organici cerebrali, in alcune psicosi, ecc., l’approccio esclusivo “a parole” col ~ 104 ~ paziente estremamente agitato, a livello di intervento concreto immediato, non è utilizzabile nella situazione di emergenza. Uno stato di demenza con confusione ed agitazione motoria ed aggressività, uno scompenso maniacale con passaggi ripetuti all’azione violenta, ecc., non possono che richiedere un trattamento farmacologico immediato ed eventualmente una contenzione fisica. Peraltro in molte altre situazioni di crisi (da lutto, da perdita, da separazione, ecc.) lo psichiatra può tentare attraverso il colloquio, ed adeguate tecniche psicoterapiche d’urgenza, un controllo comportamentale del paziente anche in stato di agitazione psichica e motoria. La apparente rigidità della decisione dicotomica dello psichiatra, “parlare” o “agire” (inteso in senso farmacologico o contentivo) non può che essere adeguatamente sfumata e trovare mediazioni nella complessa realtà clinica della emergenza psichiatrica, pur non perdendo in nessun caso la sua concreta utilità di approccio (Tab. 3 pag. 148). Un intervento prevalentemente gestito a livello verbale nelle situazioni di emergenza deve rispettare alcune regole fondamentali (Tab. 4 pag. 148). Lo psichiatra deve presentarsi calmo, tranquillo ed accogliente nell’aspetto mimico e motorio; parlare lentamente ed a basso volume con frasi molto chiare e corte, esprimendo concetti semplici e concreti; deve lasciare il più ampio spazio di tempo possibile al paziente perché possa esprimere e descrivere i sentimenti; il paziente non deve essere interrotto soprattutto in modo autoritario e minaccioso utilizzando la mano, il dito puntato, alzando il volume della voce, avvicinandosi sino a sfiorarlo fisicamente. L’infermiere, inoltre, deve sempre mostrare profonda empatia alle verbalizzazioni del paziente; evitare di esprimersi in modo provocatorio, emettere giudizi, fornire interpretazioni precoci anche se corrette sotto il profilo dinamico. Non debbono essere formulate al paziente promesse che poi non possono essere mantenute, come quella di evitare il ricovero, di non ~ 105 ~ somministrargli farmaci o di rimandarlo a casa nell’immediatezza. Il paziente, inoltre, al primo contatto con lo psichiatra non può essere apostrofato con un “tu” familiare e paternalistico, che può essere percepito come dominante ed irrispettoso. Nelle fasi iniziali del colloquio il paziente può essere stimolato a verbalizzare i suoi stati d’animo con domande apparentemente “banali”, ma tecnicamente “neutre ed ampie” (chiedendogli, ad esempio, di spiegare che cosa sta succedendo; per quale motivo è all’ospedale, ecc.). È adeguato inoltre che sia mantenuto dall’operatore un atteggiamento equilibrato, che permetta al paziente di liberare le sue fantasie, ma non giustifichi un aumento incontrollabile della montata dell’ansia e dei suoi passaggi all’azione violenta. Ad esempio, l’infermiere può precisare in modo empatico ma con modalità cortesi e ferme che il paziente può parlare di tutto ciò che lo mette a disagio, che lo contraria, infastidisce, ecc., stimolandolo ad esprimere tutti i suoi sentimenti, ma che non è tollerato in quell’ospedale tentare di procurare danni fisici alle persone. Si può inoltre chiedere al paziente se ritiene di essere in grado di parlare tranquillamente dei suoi problemi con lo psichiatra senza mettere in atto dei comportamenti violenti o se preferisce che vi sia qualcuno, ad esempio, degli infermieri, che possano essere garanti ed aiutarlo a mantenere l’incolumità fisica delle persone che partecipano al colloquio. Questa richiesta, se formulata con un autentico rispetto ed empatia per il paziente e soprattutto se accompagnata da un accettante e benevolo linguaggio non verbale attraverso il viso ed il corpo del terapeuta, permette al paziente, in non pochi casi, di padroneggiare meglio la situazione emotiva, sentendosi valorizzato ed allontanando fantasmi di violenza nei propri confronti e verso terze persone. È spesso necessaria la precisazione al paziente, anche se questo è psicotico, quando se ne ravvisi una benché minima capacità di comprensione, che se il paziente sceglie la via della violenza per dialogare ~ 106 ~ con le persone sarà ritenuto responsabile di tutti i suoi agiti. Anche questa informazione è da comunicare al paziente, solo quando vi è l’indicazione, tenendo conto che è soprattutto nel contesto del dialogo instaurato e nell’ambito delle modalità espressive dello psichiatra, che il messaggio può essere percepito rassicurante o provocatorio. Questa precisazione in tema di responsabilità personale, indipendentemente dalla presenza di una psicosi, è uno dei più importanti mezzi terapeutici che sono oggetto di dialogo tra psichiatra e paziente nei reparti di trattamento specialistici per pazienti violenti. Si ricorda che il concetto di responsabilizzazione (nel senso dell’opportunità terapeutica di considerare il paziente responsabile dei propri atti di violenza); la ventilazione dei sentimenti aggressivi (lo sviluppo della capacità di riconoscere e gestire l’aggressività attraverso il dialogo e la verbalizzazione dei sentimenti) e la riparazione del danno (il riconoscimento empatico dei danni provocati alla vittima attraverso un agire riparatorio) sono parti integranti nell’approccio costruttivo e terapeutico con il paziente violento. Si tratta di provvedimenti terapeutici che, a livello psichiatrico, debbono iniziare sin dai primi contatti, sono da integrare con la specifica psicopatologia di cui soffre il paziente e possono accompagnarsi a concomitanti e spesso prioritari interventi, in emergenza, a livello farmacologico e contentivo. 7.2.4. Cosa dire o fare con un paziente che minaccia con un’arma Non è un caso infrequente che all’operatore si possa presentare un paziente, non necessariamente psicotico, che esibisce un’arma, come ad esempio un fucile, una pistola, un coltello o un altro mezzo di offesa. Questa eventualità, ad esempio, è frequente al’infermiere che presta opera nelle carceri ove spesso il detenuto può presentarsi armato di coltelli rudimentali, lamette da barba, ecc., con le quali minaccia di tagliarsi, di ingerirle e di ferire quante persone cerchino di avvicinarsi. In questi casi, e cioè quando un paziente minacci concretamente un comportamento violento etero o ~ 107 ~ autoaggressivo o ambedue con un’arma, possono essere presi in considerazione alcuni principi di comportamento (Tab. 5 pag. 149 ). Uno tra i primi provvedimenti da adottare è di allontanare tutti gli altri possibili pazienti, detenuti, medici, infermieri, ecc., in modo da ridurre il numero delle persone che possano correre dei rischi o che possano stimolare il passaggio all’azione del paziente con la loro gestualità e con le loro parole. In secondo luogo, è necessario far parlare il paziente e stabilire una costante comunicazione verbale il più possibile calma e distesa. Questo colloquio può cominciare da parte dell’operatore anche con le osservazioni apparentemente più ovvie: “Vedo che ha un fucile in mano, che intenzioni ha?” “Mi sembra di vedere una lametta fra le sue dita, mi spieghi...”, ecc. Nel corso del colloquio possono poi usarsi specifiche modalità di approccio allo scopo di evitare che le minacce si trasformino in agito. Tra queste tecniche si segnala lo sfruttamento del narcisismo, la riduzione della tensione attraverso il garante, l’aggancio emotivo, l’effetto umanizzante della familiarizzazione, la creazione di un nemico esterno comune, la dissociazione fra il linguaggio verbale ed il messaggio emotivo, il rispetto del significato di sicurezza dell’arma, l’ubbidienza uniforme, ecc. Il soggetto che pone in atto un agito di violenza, soprattutto se presenti tratti paranoidei di onnipotenza, si dimostra molto sensibile alla frustrazione che le proprie azioni si perdano nell’anonimato e non riscuotano plausi e ammirazione. Questo aspetto narcisistico può essere sfruttato deviando l’aggressività da una persona ad un problema più generale: “Non credo che lei voglia aggredire un semplice medico, ho avuto l’impressione che il problema di cui parlava fosse più importante”. Altre volte il paziente può essere tranquillizzato da una persona (il garante) di cui ha fiducia e la cui presenza serve a diluire la montata di ansia e di aggressività. Il paziente può essere così stimolato a coinvolgere altre persone con le quali ha un buon rapporto di accettazione (“Perché non utilizzare la presenza di una persona che sia di sua fiducia?”). ~ 108 ~ L’aggancio emotivo al paziente che minaccia può avvenire attraverso persone importanti e significative della propria vita (la madre, la moglie, i figli, ecc.), che hanno lo scopo di porre sotto forma di dialogo e verbalizzazioni i problemi emotivi che potrebbero trasformarsi, per le difficoltà di neutralizzarli, in agiti auto ed eteroaggressivi. Quando le minacce sono costanti, durano per molte ore e sono proferite sempre con l’utilizzo di un’arma, è utile mettere in atto, quando possibile, la familiarizzazione col paziente (offrire una sigaretta, prepararsi un caffè, dividere e consumare del cibo, trovare interessi che uniscono, isolare comunanze di gusti, aver vissuto uguali esperienze di vita, ecc.). Fare in modo di essere individualizzati può permettere al soggetto, attraverso sentimenti comuni di provare quell’empatia, che può essere freno inibitorio almeno ad un tipo di violenza indiscriminata che colpisce persone senza volto e senza legami affettivi personalizzati. Un’ulteriore tecnica di approccio al paziente può consistere nel prestare attenzione gratificante a quanto di adeguato è proposto e richiesto dal paziente che minaccia: poter riavere i propri figli, essere reintegrato nel lavoro, riparare un’ingiustizia subita, ecc. Questo atteggiamento empatico accettante può portare l’operatore ad assumere un ruolo utile tra le progettualità attualmente verbalizzate e manifestate dal paziente. Emotivamente il paziente può percepire l’infermiere come un aiuto benevolo e saggio contro difficoltà comuni poste dalle rigidità delle leggi, dalle ingiustizie sociali, dalle difficoltà delle comunicazioni emotive interpersonali, ecc. Se l’infermiere è sotto la minaccia continua di un’arma che viene costantemente puntata contro di lui, attraverso la tecnica della dissociazione tra messaggi verbali e messaggi emotivi, può bloccare e fungere da contenitore dell’aggressività del paziente. La confessione, ad esempio, dell’operatore del proprio timore per le armi, proferita con molta calma e tranquillità, non seguita da preghiere o richieste, ha la duplice azione di evitare dinamiche di confronto (viene riconosciuta la supremazia di chi ~ 109 ~ possiede l’arma ed è pubblicamente ammessa la propria paura) e di trasmettere a livello emotivo (la sicurezza, la calma e la tranquillità che si dimostra nel gestirsi come vittima) una capacità di contenimento dell’ansia che concerne ambedue i protagonisti dell’evento. È inoltre da segnalare che la persona che minaccia con un’arma non lo fa solo per terrorizzare e per spaventare gli altri, ma lo fa anche perché è terrorizzata e spaventata. L’arma rappresenta una forma di sicurezza che chi minaccia e si sente minacciato non può lasciare, almeno nelle immediatezze di tempo, in mano agli altri. Sono così da proscrivere ordini autoritari e ricattatori di consegnare l’arma, avvicinarsi al paziente armato con gesti eroici inconsulti e minacciosi. Egualmente è sconsigliabile cercare di impadronirsi in modo furtivo o callido dell’arma senza il consenso del paziente. Può essere richiesto al paziente di riporre l’arma vicino alla propria persona. In questo modo si riduce il rischio immediato, l’ansia è diluita col dialogo ed il paziente non si sente privato dell’oggetto transazionale che gli procura fiducia e sicurezza. Solo in un secondo tempo si può richiedere al paziente di deporre l’arma (sempre opportunamente maneggiata, afferrata lontano dal grilletto e con la canna rivolta al suolo e scaricata dalle munizioni) lontano dalle persone o prenderla in consegna. Ad esempio, nelle emergenze psichiatriche in ambito carcerario, al paziente può essere gentilmente richiesto dall’operatore di deporre la lametta o il coltello vicino a sé o sul tavolo, sulla sedia, ecc., senza obbligarlo, inizialmente, a consegnare l’arma. Si ricorda che spesso in carcere accanto ad una prima lametta o coltello, che possono essere consegnati, ne esistono altri celati nel corpo o negli indumenti. Il paziente o il detenuto, se si ritiene tradito nelle sue aspettative, non esiterebbe ad afferrare e ad usare contro di sé e contro gli altri queste seconde armi che spesso “compaiono come per magia” dopo la consegna delle prime. ~ 110 ~ L’atteggiamento che deve essere inoltre adottato, quando il paziente minaccia con l’arma, è di eseguire con immediatezza e con movimenti dolci e con voce calma quanto il paziente richiede. Deve essere evitata qualsiasi intimidazione, controminaccia, confronto, discussione, critica o interpretazione. Deve essere inoltre evitata da parte del minacciato qualsiasi manifestazione di perdita di controllo emotivo e motorio. Si ricorda che la persona che minaccia con un’arma è anche lei ansiosa e timorosa di perdere il controllo; non è in grado generalmente di assistere ad una persona che si mette a piangere, ad agitarsi, ad invocare pietà, ad urlare disperata. Chi minaccia perde facilmente il controllo, soprattutto quando si innescano pericolose identificazioni di sofferenze e di umiliazioni ed impotenza con la vittima, che portano raramente, come insegna l’esperienza, ad identificazioni empatiche e riparatorie, ma piuttosto stimolano meccanismi di identificazione all’aggressore e di negazione che facilitano agiti distruttivi. Nel caso l’operatore sia minacciato con altre persone, il gruppo delle vittime deve cercare di mantenere un comportamento uniforme e costante. In queste situazioni è spesso chi si differenzia dal gruppo, per qualsiasi motivo, che viene aggredito ed ucciso per primo. I desideri di aggredire fisicamente, di neutralizzare il paziente, soprattutto se armato,rientrano più sovente in un sentimento rivendicativo e di onnipotenza reattiva di quanto non siano applicabili in situazioni reali. Si ricorda, quale regola generale, tra le variabili più utili per risolvere queste situazioni (un paziente armato che minaccia la vittima), la capacità di stabilire una continua comunicazione col soggetto e far trascorrere molto tempo, parlando, discutendo e familiarizzando. 7.2.5. Errori emotivi e comportamentali del terapeuta con il paziente violento Nel valutare e gestire il soggetto violento, l’infermiere può commettere grossolani errori di comportamento ai fini diagnostici e terapeutici dovuti alla ~ 111 ~ paura, rabbia, aggressività, frustrazione, ecc., suscitate dal contatto col paziente. Questi errori controtransferali (controtransfert in senso psichiatrico criminologico e non restrittivo psicoanalitico) sono numerosi e per lo più dipendono dai problemi personali e dal tipo di personalità dell’operatore. Possono essere evitati in primo luogo gli errori controtransferali che si basano sul sentimento di onnipotenza dell’operatore. Non è adeguato alla realtà che il terapeuta ritenga di avere tanti e tali poteri da essere in grado da solo ed esclusivamente con le parole, di sedare, tranquillizzare, tutti i pazienti agitati e pericolosi. Pensare di poter tranquillizzare da soli e con l’esclusivo uso delle parole, ad esempio, un soggetto che sta vivendo una crisi maniacale è in linea di principio errato. Un altro atteggiamento controtransferale da evitare da parte dell’operatore è quello seduttivo. L’infermiere che si pone a sostenere acriticamente ed in modo irrealistico le ragioni del paziente, permettendo a quest’ultimo, concretamente, seppure con linguaggio non verbale, di spaccare oggetti, minacciare persone, non responsabilizzarlo sulle azioni aggressive, non ponendo interdizioni, mette in atto un atteggiamento non terapeutico. Questo agire è infatti estremamente diseducativo nei confronti del paziente che avrà imparato ed avrà rinforzato un suo modo di dialogare attraverso la violenza, senza essere confrontato con la sua responsabilizzazione e cioè con le conseguenze precise e specifiche del proprio agire. Inoltre il comportamento seduttivo aumenta l’ansia del paziente violento, alimentando i suoi fantasmi di perdita di controllo e di impossibilità di essere accudito e contenuto nelle sue manifestazioni. Sono poi da evitare tutti quei comportamenti dell’operatore legati alla formazione reattiva. L’infermiere può reagire alla sua paura (nel confronto col paziente violento) ed assumere un comportamento reattivamente stenico e coraggioso, sino ad essere disposto, quando non necessario, ad affrontare anche fisicamente il paziente. Questa tipologia di operatori, così ~ 112 ~ disposti ad una difesa attiva anche sul piano fisico, entrano nella percentuale degli specialisti che, nella realtà clinica, sono i più aggrediti dai pazienti. È da sottolineare che il paziente violento è estremamente sensibile e si scompensa facilmente passando all’atto tanto di fronte ad un operatore che fa trasparire in modo inadeguato la sua paura, la sua ansia, quanto di fronte ad un infermiere che esasperando un suo aspetto di ostentata sicurezza può assumere atteggiamenti provocatori, di confrontazione, di intrusione e sfida. Nel trattare il paziente violento sono altresì da evitare tutti i meccanismi di razionalizzazione e negazione soprattutto su base narcisistica. L’operatore può essere indotto a minimizzare e negare la pericolosità nel paziente attraverso ad esempio la razionalizzazione che l’evento di essere aggredito da un paziente non possa accadere alla propria persona, in quanto troppo abile, accorto ed esperto come clinico. Quando individui appartenenti a questa tipologia sono vittime di violenza, soprattutto in reparto, in presenza di altri pazienti, altri medici e paramedici, non sono poi in grado di ventilare in modo adeguato i loro sentimenti ed i vissuti dell’équipe. Spesso la loro ferita narcisistica, come insegna l’esperienza clinica, trova inadeguati meccanismi di difesa, quali ad esempio spunti persecutori nei confronti dei pazienti, medici e paramedici, come nel caso che segue. Caso clinico. In un reparto psichiatrico, un paziente aggredisce e ferisce gravemente un’infermiera. Lo psichiatra responsabile del reparto non commenta l’accaduto e non mostra empatia alla vittima. Alcuni giorni dopo lo stesso paziente aggredisce lo psichiatra responsabile del reparto. Gli infermieri “stranamente” giungono “in ritardo” a liberare e difendere lo psichiatra che, a sua volta, è contuso e ferito. Nei giorni seguenti lo psichiatra verbalizzerà sentimenti di persecuzione e nocumento da parte dei pazienti e degli ~ 113 ~ infermieri. “I pazienti sono sempre pericolosi e imprevedibili...”; “gli infermieri non sono preparati professionalmente e volontariamente non desiderano proteggere l’autorità medica che li obbliga a lavorare”. Nell’ambito poi del trattamento del paziente violento, non è solo da valutare la compliance del paziente al farmaco, ma anche quella dello psichiatra alla terapia farmacologica. Lo psichiatra che presenta problemi nei confronti della somministrazione dei farmaci andrà più incontro di altri, soprattutto in relazione al paziente violento, a fenomeni di proiezione. Se lo psichiatra infatti ritiene che i farmaci che somministra servano solo o soprattutto a violentare la volontà del paziente, “annullare l’individuo” o come “un veleno” siano solo e sempre “responsabili di gravi effetti collaterali”, molto facilmente riterrà, attribuendo proiettivamente le sue paure al paziente, che quest’ultimo, così “violentato”, “annullato”, “avvelenato” vorrà vendicarsi su di lui. Questi psichiatri valuteranno quindi i pazienti molto più violenti di quanto non lo siano in realtà e non saranno in grado di applicare una adeguata farmacoterapia. Di fronte poi all’ansia e frustrazione nell’approccio con un paziente aggressivo recidivante lo psichiatra può essere indotto ad utilizzare in modo prevalente il meccanismo della scissione: il paziente non è più un malato da curare (compito dello psichiatra), ma un delinquente da neutralizzare (compito non dello psichiatra, ma della polizia, dei giudici, ecc.). Questa trasformazione del “malato” in “delinquente” può avvenire non solo in modo brusco (“mad” “bad”), ma attraverso una sorta di “danza diagnostica”. All’inizio cioè il paziente è ricoverato con attenzione prioritaria alla sua ansia, depressione, ecc., nei ricoveri successivi, perdurando il comportamento violento, la diagnosi è modificata con attenzione prioritaria per l’aspetto tossicofilico, manipolatore, ecc. Infine, al continuare del comportamento violento e deviante, è formulata la diagnosi di personalità antisociale, non come psicopatologia terapeuticamente affrontabile o comorbilità, ma come etichetta di disimpegno, impotenza, ed usura del ~ 114 ~ personale trattante. Il meccanismo psicologico di difesa della scissione di fronte all’ansia ed alla frustrazione col paziente violento può essere anche usato tra medici diversi a contatto con lo stesso aspetto violento che formulano inconciliabili progetti terapeutici (scissione orizzontale) o tra terapeuti a livelli gerarchici differenti, ad esempio specialisti e medici di famiglia (scissione verticale) o essere variamente concatenato (scissione incrociata). In altre occasioni, lo psichiatra tende, oltre la misura empatica terapeutica, ad assumere come propri i pensieri, i sentimenti e le azioni del paziente violento che in questo modo non solo è “capito” (azione terapeutica), ma è acriticamente “valorizzato”, “giustificato”, “difeso nell’espressione del suo linguaggio emotivo” (meccanismo di difesa dell’identificazione all’aggressore). In alcuni di questi casi il terapeuta si comporta come se il paziente avesse il coraggio di fare quello che il “terapeuta desidera fare, ma non ne ha il coraggio”. Sono da ricordare a questo proposito non solo i casi in cui il terapeuta può far gestire la propria aggressività al paziente, ma anche i casi in cui il terapeuta depresso può delegare i propri passaggi all’azione anticonservativa e suicidaria al paziente. È sempre preoccupazione prioritaria di uno psichiatra, responsabile di un reparto di pazienti violenti, che non vi siano elementi del personale medico e paramedico che si servano dei pazienti per liberarsi di dinamiche etero ed autoaggressive. L’identificazione dello psichiatra invece di essere diretta al paziente può essere deviata alle vittime della violenza. Il terapeuta è così incapace, a causa di sentimenti di sdegno, rabbia, e vendicatività (identificazione alla vittima), ad un approccio equilibrato e sereno al paziente violento. Quando poi la violenza del paziente si accompagna ad una vivace ed eclatante patologia mentale, lo psichiatra, nel tentativo empatico di ~ 115 ~ comprendere il paziente, può andare incontro al sentimento fortemente ansiogeno “di essere io stesso ad impazzire o a commettere qualche atto criminale” (identificazione destrutturante). È da segnalare che questo breve accenno alle reazioni emotive e comportamentali di fronte ad un paziente violento concerne non solo lo psichiatra in prima persona, ma anche tutta l’équipe di trattamento, spesso in modo più manifesto, profondo e meno cosciente. È indispensabile quindi per lo psichiatra non solo la coscienza ed il controllo sulle proprie reazioni emotive, ma anche la capacità di sensibilizzare e formare terapeuticamente l’équipe, sia in condizioni di emergenza che di trattamento a lungo termine del paziente violento. Nell’operatore psichiatrico, infatti, può essere presente un differente livello di introspezione alle proprie reazioni emotive e comportamentali con il paziente violento. Questa introspezione può variare da un adeguato riconoscimento, un’accettazione critica creativa ed un funzionale utilizzo terapeutico della propria emotività sino, nei casi con ridotta o assente introspezione, a condurre l’operatore psichiatrico a porre in atto passaggi all’azione controaggressivi non solo sul paziente, ma anche sul personale trattante. Nel caso di ridotta o assente introspezione, è d’uopo che l’operatore psichiatrico sia oggetto di attenzione terapeutica da parte dello psichiatra responsabile. L’intervento terapeutico, pur essendo individualizzato e variamente integrato, può variare della ventilazione dei vissuti personali in tema di violenza nell’ambito della terapia di gruppo o, nei casi più gravi, essere affiancato e corroborato con terapie individuali gestite dal supervisore dei gruppi della stessa unità di trattamento o, in casi di incompatibilità, con terapeuti non appartenenti alla stessa unità ~ 116 ~ 7.3. VALUTAZIONE E TRATTAMENTO DEL PAZIENTE VIOLENTO A LUNGO TERMINE Nell’ambito della valutazione e trattamento del paziente violento a lungo termine sarà presa in considerazione una “griglia di analisi” (Tab. 6 pag. 149) allo scopo di esaminare la multifattorialità che è alla base dell’agito di violenza. Questa “griglia” permette di acquisire i dati obiettivi sull’anatomia. Livello di introspezione (dell’operatore psichiatrico): Introspezione presente ed adeguata (delle proprie reazioni emotive e comportamentali); Introspezione ridotta ed ansia (con vivaci sentimenti di paura, collera, frustrazione, ecc.); Introspezione ridotta ed impiego stereotipato dei meccanismi di difesa dell’ansia (negazione, proiezione, scissione, identificazione, ecc.); Introspezione assente e passaggio all’azione contro aggressiva sul paziente e sul personale (sentimenti di colpa, bassa autostima, ecc.); Livello di intervento (sull’operatore psichiatrico): Nessun intervento (riconoscimento, accettazione, utilizzazione terapeutica della propria emotività); Terapia di gruppo (con il gruppo dei colleghi e del personale); Terapia individuale (con il supervisore delle terapie di gruppo dell’unità di trattamento); Terapia individuale (con un terapeuta non necessariamente della stessa unità di trattamento) dell’agito violento, sulle caratteristiche cliniche dell’incontro vittimologico, sulla ricostruzione della violenza passata, sui fattori statici, situazionali e dinamici del passaggio all’azione e sugli aspetti ~ 117 ~ più squisitamente biologici e psichiatrici del protagonista dell’atto di violenza. 7.3.1. Dati obbiettivi criminologici L’esperienza clinica mette in luce che spesso è difficile per l’operatore poter disporre di dati obiettivi sul comportamento violento e cioè una serie di informazioni veritiere che permettano la ricostruzione di ciò che è realmente accaduto. Per queste ragioni è utile che il fatto di violenza venga ricostruito attraverso diverse fonti. In primo luogo sono da raccogliere e valutare le verbalizzazioni del paziente. Quest’ultimo deve essere stimolato a raccontare l’accaduto con domande dapprima di tipo aperto e vago ed in seguito con richieste di informazioni sempre più specifiche e chiuse. È utile indagare nel colloquio con il paziente, non solo la realtà oggettiva del fatto di violenza, ma il percepito soggettivo del fatto. L’infermiere deve aver cura di mantenere separate le due verbalizzazioni: quella che il paziente ritiene obiettiva e la personale interpretazione dell’evento di violenza. Il clinico dovrebbe ricostruire una sorta di “drammatic script” del comportamento violento nel quale sono riportate tutte le verbalizzazioni fornite dal paziente: il tempo, il luogo in cui è avvenuto, le circostanze, gli eventi precedenti, le minacce, le provocazioni, i pensieri, una accurata descrizione dell’accaduto e delle conseguenze sulla vittima. Un’attenta esplorazione del passaggio all’azione comporta altresì la conoscenza di quelli che per il paziente, nel suo percepito, sono stati gli obiettivi, gli eventi precipitanti, il contesto sociale, i sentimenti presenti prima, dopo, durante il fatto, le gratificazioni o i vantaggi legati al comportamento violento. In quest’opera di rilevazione dei dati, alcuni pazienti forniscono informazioni apparentemente chiare e sincere, altri pazienti invece risultano apparentemente incoerenti e le motivazioni all’origine del fatto di violenza paiono incomprensibili. ~ 118 ~ In entrambi i casi le informazioni raccolte dal paziente devono essere riportate ed attentamente valutate. Non è infrequente che informazioni apparentemente chiare e sincere omettano, coscientemente o meno, significative variabili motivazionali, mentre verbalizzazioni che paiono ad un esame iniziale ed affrettato incoerenti ed apparentemente incomprensibili, possono contenere importanti elementi per la valutazione del fatto ed il trattamento. In secondo luogo, l’esame del fatto di violenza non deve arrestarsi alle notizie raccolte dal paziente, ma avvalersi delle informazioni provenienti da numerose fonti. I familiari, i colleghi di lavoro, gli insegnanti, le vittime, la polizia, i carabinieri, ecc., possono fornire dati obiettivi importanti ai fini diagnostici e terapeutici, dati che rimarrebbero inaccessibili alla diagnosi e terapia, se la raccolta si limitasse alle verbalizzazioni del solo paziente. Procedere ad una corretta identificazione del passaggio all’azione violenta comporta inoltre una chiara distinzione tra fantasmi, minacce ed agiti. Spesso lo scenario del comportamento violento è popolato da fantasmi che il paziente richiama dal proprio “contenitore” di psicopatologia. Ad esempio in alcuni casi di recidiva di omicidio compiuto da schizofrenici, il paziente ha ripresentato deliri a contenuto persecutorio, che avevano accompagnato il primo passaggio all’atto omicidario. In altri casi è il terapeuta ad introdurre nello scenario i propri fantasmi, frutto di reazioni controtransferali non adeguatamente riconosciute e valutate. Ad un livello più superficiale di interpretazione, lo psichiatra può presentare anche pregiudizi non adeguatamente criticati. Per quanto concerne le minacce è da segnalare che non sempre rappresentano la tappa di una progressiva ed ineluttabile marcia verso il comportamento violento. Le minacce, in particolare quelle prevalentemente verbali, possono assumere differenti significati: un tentativo di risolvere il problema (“[…] con le minacce io provoco spavento e timore, così ottengo ~ 119 ~ quanto desidero”); una richiesta di aiuto (“[…] minaccio, così le persone mi impediranno di commettere un atto irreparabile”); un meccanismo di rinforzo della volontà del passaggio all’azione (“[...] ho espresso delle minacce davanti a tutti, ora non mi resta che agire”) ecc. Inoltre, (soprattutto per i soggetti schizofrenici) è opportuno non trascurare il significato simbolico che i pazienti possono attribuire alle minacce, come alle preghiere, alle maledizioni, alle invocazioni, ecc., nel loro significato magico e paleologico dell’interpretazione della realtà. Non è possibile non considerare il valore predittivo, mediato dal simbolismo, che le minacce possono assumere. Una corretta valutazione e decodificazione delle minacce che il paziente verbalizza non può prescindere inoltre da una diagnosi tra le “minacce fredde”, cioè le minacce prive di un investimento emotivo, che devono essere indagate e approfondite nel colloquio clinico (attraverso le tecniche di “talk up”) e le “minacce calde”, cioè impregnate dell’affettività del paziente in un crescendo di ostilità, rabbia, esplosività, che debbono essere prontamente interrotte e neutralizzate nel corso del colloquio con adeguate tecniche di intervento (“talk down”). Per quanto concerne l’agito, è importante definire, come già sottolineato, la reale ampiezza ed anatomia del comportamento violento, attraverso varie fonti, descrivendone aspetti quantitativi e qualitativi in modo dettagliato, come realtà clinica che permetterà di isolare psicopatologie e modalità di intervento farmacologico e psicoterapico. 7.3.2. Dati obiettivi vittimologici Ritenere che la vittima di un incontro di violenza sia sempre del tutto “innocente” e “sana di mente”, e che solo l’autore della violenza sia sempre ed esclusivamente il solo “colpevole” ed il solo “malato di mente” è una valutazione che, pur veritiera in alcuni casi clinici, è semplicistica e non ~ 120 ~ rappresenta la complessa dinamica tra autori e vittime di fatti di violenza. In primo luogo, debbono essere indagati i rapporti autore vittima in relazione a specifiche presenze di psicosi. Si ricorda le possibilità di complementarietà psicotiche tra autori e vittime. A questo proposito, sono da segnalare, ad esempio, i casi di omicidio-suicidio per “patto di sangue”. Si tratta frequentemente di soggetti schizofrenici paranoidi, che hanno ucciso vittime affette da grave depressione maggiore che avevano già tentato il suicidio più volte. Tra il soggetto schizofrenico paranoide (che si sente perseguitato ed in pericolo di vita) e la vittima (depressa, che verbalizza idee suicidarie) si stabilisce e si potenzia, con mutua accettazione, il programma di uccidersi insieme. In genere, però, lo schizofrenico uccide la persona depressa per poi ferirsi gravemente, e non si uccide, né nell’immediatezza del fatto né a distanza di anni. Egualmente i casi di induzione psicotica come nel caso di “folie à deux”, “à trois”, “à quatre”, ecc., debbono essere oggetto di un attento studio vittimologico. Inoltre, sono sempre da esaminare i casi di semplice interpretazione tra specifiche psicopatologie non psicotiche che fra loro sono “scatenanti”, “detonanti”, ecc. un comportamento violento. Si ricorda certi comportamenti masochistici della vittima in relazione ad un carattere narcisistico, violento, sadico- impositivo da parte dell’altro protagonista dell’evento di violenza. In secondo luogo, utilizzando lo schema di spettro della malattia, debbono essere prese in considerazione le varie dinamiche psicologiche alla base dell’incontro vittima-autore della violenza. Anche nel caso di un autore di comportamento violento, affetto da psicosi, non possono essere ignorate le sue relazioni dinamiche con la vittima, che non sempre o esclusivamente sono legate a sintomi psicotici. Ad esempio, un soggetto schizofrenico paranoide, quando commette un omicidio, molto raramente passa all’atto scegliendo una vittima “a caso”, in modo del tutto fortuito. Anche ad un ~ 121 ~ esame superficiale, nella maggior parte dei casi la vittima ha partecipato in qualche modo alla dinamica di violenza. Si ricorda a questo proposito alcune tipologie cliniche: 1. La “vittima provocatrice” ha stimolato in modo obiettivo e grave, in più occasioni, l’aggressività del soggetto schizofrenico. Ad esempio, i padri violenti ed autoritari che percuotono con oggetti o minacciano con armi il figlio schizofrenico (in preda a vistosa sintomatologia negativa ed a ritiro autistico), perché “non vuole lavorare” e non “si comporta bene socialmente”. 2. La dinamica della “vittima innescata” si verifica quando lo schizofrenico, in un primo tempo, stimola la reattività aggressiva di numerose possibili vittime ed in un secondo tempo uccide solo il soggetto che ha reagito con violenza. Ad esempio uno schizofrenico schizoaffettivo che, provvisto di arma ed in stato di esaltamento affettivo, si comporta in modo agitato, invadente ed irrispettoso in un locale pubblico. La vittima molto spesso è l’individuo che irritato dal comportamento del paziente apostrofa il soggetto schizofrenico in modo brutale, arrogante e a sua volta lo minaccia fisicamente. 3. La “vittima recidiva” concerne la tendenza, di certi soggetti, ad una stereotipata tendenza a ripetere il passato, ponendosi costantemente in situazioni di pericolosità fisica. Si ricorda ad esempio la frequenza, nei casi di uxoricidio, del comportamento vittimologico “precipitante l’omicidio” messo in atto da chi verrà ucciso (victim precipitated homicide): il marito, ad esempio, che, nel caso di un violento litigio familiare, pone in mano alla moglie il coltello, la minaccia fisicamente avvicinandosi e poi la stimola e la provoca a reagire e ad aggredirlo (“Prova ad usare il coltello se hai il coraggio...”). ~ 122 ~ Sempre nell’ambito dell’approccio vittimologico non può essere ignorato il fatto che non raramente, nel caso di psicotici protagonisti di atti di violenza, questi possono essere oggetto di stimolazioni omicidarie da parte di una terza persona che interviene come un “abile animatore di marionette”, guidando i fili del rapporto apparentemente diadico tra protagonista attivo e passivo dell’atto violento. In questo senso, per fornire un ulteriore esempio clinico, sono da considerare alcune aggressioni ai medici da parte dei pazienti psicotici. In questi casi devono essere considerati i ruoli di terze persone quali: altri medici, infermieri, pazienti, familiari, ecc., che possono aver, in modo più o meno celato ed informale, stimolato l’agito di violenza. L’infermiere che, ad esempio, prospetta al paziente che è ordine tassativo del medico che debba restare in camera di isolamento e che “purtroppo nessuno può discutere gli ordini dei medici, anche se sono ingiusti o sbagliati”. Questa comunicazione verbale può essere altresì accompagnata da messaggi non verbali di disapporvazione e di disitima verso l’autorità medica come intrusiva, irrispettosa, ed al contempo sono lanciati messaggi di empatia e complicità con le richieste del soggetto. Questi messaggi, chiamati “esplodi- paziente” possono facilmente sollevare l’ostilità ed il passaggio all’azione del paziente contro lo psichiatra. Egualmente, non pochi episodi di parricidio rappresentano da parte dell’omicida la realizzazione di messaggi di violenza che provenivano dall’intero nucleo familiare che era frustrato, umiliato, in ragione di comportamenti arroganti, provocatori e violenti della vittima. Si ricorda che l’immagine di questi abili “animatori di marionette”, che si interpongono fra chi agisce la violenza e chi la subisce, possono operare indipendentemente dalla presenza o assenza di psicosi nei protagonisti attivi e passivi dell’episodio più manifesto di violenza. ~ 123 ~ 7.3.3. Dati obiettivi anamnestici La storia del comportamento violento passato riveste un ruolo fondamentale nell’ambito della valutazione clinica. Frequentemente il comportamento violento attuale non rappresenta l’episodio unico dell’anamnesi del paziente. Spesso numerosi episodi di violenza hanno preceduto l’attuale e si sono ripetuti nel tempo. Conoscere i precedenti comportamenti violenti permette di individuare: 1. eventuali settori privilegiati di violenza; 2. possibili ripetizioni dinamiche; 3. indizi che possono precedere l’agito violento. I settori privilegiati di violenza costituiscono le aree di vulnerabilità soggettiva per cui specifici stimoli possono indurre in un particolare soggetto un comportamento violento. Alcuni soggetti, ad esempio, possono mostrarsi particolarmente vulnerabili e manifestare una grossolana reattività aggressiva nei confronti di problemi legati alla loro sessualità. Altri soggetti sono particolarmente sensibili a problemi di acquisizione economica. Altri soggetti ancora reagiscono con violenza solo se è intaccato in modo prioritario e grave il loro prestigio sociale. Inoltre, questi settori privilegiati possono essere limitati o estesi. Ad esempio, un soggetto può adottare un agito di violenza solo nel caso debba difendere la vita e l’integrità fisica dei propri familiari. Altri soggetti presentano un settore di violenza molto più ampio e possono, essendo ad esempio in uno stato di aggressività irritabile a causa di loro specifiche psicopatologie, passare all’azione violenta nei confronti di stimolazioni talvolta aspecifiche come un apprezzamento irrispettoso, un motteggio di spirito, uno sguardo persistente da parte della vittima. ~ 124 ~ Si ricorda infine il ruolo di alcune motivazioni culturali acquisite dall’individuo attraverso meccanismi di introiezioni che, in particolari culture, rappresentano un settore privilegiato di violenza. Ad esempio, nell’ambito dell’omicidio per vendetta, in Barbagia (Sardegna), il soggetto ha il dirittodovere sotto culturale di uccidere solo in particolari circostanze ed in conseguenza di un tipo di offese chiaramente codificate e riconosciute da tutta la popolazione. Rubare e “sgarrettare” (tagliare i tendini degli arti) le pecore delle greggi può implicare una vendetta omicidaria essendo azione considerata offesa grave. L’adulterio invece non rientra, se non accompagnato da specifiche aggravanti, nei comportamenti che richiedono a livello sottoculturale una vendetta di sangue e cioè un omicidio. Al contrario di quanto precede, l’omicidio della compagna perché adultera è alla base dei molti delitti in culture in cui è valorizzato ed erotizzato il rapporto di coppia “onore-pudore”. Egualmente nell’ambito delle sottoculture criminali esistono specifici comportamenti che possono stimolare agiti violenti, quali, ad esempio, la chiamata di correo, il tradimento, il vilipendio di leadership, ecc. Per quanto concerne la ripetizione di dinamiche violente, e cioè di stessi schemi di comportamento violento, sono da considerare almeno due possibili livelli di raccolta dei dati. In primo luogo, i dati più manifesti e concreti comportamentali. Ad esempio, vi sono soggetti che usano esclusivamente violenza fisica in rapporto a “dinamiche abbandoniche”. Questi soggetti mettono in atto una violenta aggressione distruttiva (“viraggio amore-odio”) nei confronti delle donne amate che li abbandonano. Altri soggetti reagiscono con particolare sensibilità in relazione a dinamiche di “accettazione e rigetto dell’autorità” e quindi indirizzano sempre la loro aggressività verso persone che istituzionalmente incarnano figure di comando e di potere. Accanto a questa prima e grossolana ma indispensabile raccolta di schemi ripetitivi, è doverosa una diagnosi più approfondita basata sui meccanismi psicologici ~ 125 ~ di difesa, sullo spettro di malattia o su veri e propri sintomi psicotici. Nel primo caso si ricorda l’importanza dei meccanismi psicologici di difesa nel determinare comportamenti violenti spesso ripetitivi. L’identificazione di schemi d’agito ricorrenti nella progressiva scalata del comportamento violento risulta utile, oltre che sul piano diagnostico, anche su quello terapeutico e preventivo. Paolo Lion (1972) sottolinea l’importanza di particolari sintomi o segni nell’anamnesi, definiti “indizi neurologici”, quali la presenza di cefalea, alterazioni dello stato di coscienza, cambiamenti dei tratti di personalità e delle abitudini sessuali, implicazioni in attività particolarmente rischiose (come ad es. un’abitudine recente a condurre pericolosamente l’automobile ad alta velocità), ecc. Essere in possesso di un’informazione clinica, ad esempio che un comportamento violento intrafamiliare è preceduto dall’assunzione di alcolici, da richieste sessuali inadeguate da parte del marito o, per citare un altro caso, dal rilevamento e la verbalizzazione delle disabilità del coniuge da parte della moglie in uno stato di aggressività irritabile, ecc., consente all’operatore di isolare variabili utili non solo alla comprensione della psicopatologia del caso, ma sfruttabili anche nell’approccio farmacoterapico. Inoltre, questi indizi presentano le caratteristiche di essere indispensabili in tema di predittività e di prevenzione. Si ricorda, infatti, a livello di terapia, che è doverosa ed indispensabile una psicoeducazione dei protagonisti, soprattutto se recidivi, a cogliere, isolare, neutralizzare, disinnescare, anche attraverso una autosomministrazione farmacologica, tutti quegli indizi che possono essere poi seguiti, a prescindere dal tipo di dinamica o dalla presenza di psicosi, da un comportamento violento. ~ 126 ~ 7.3.4. Fattori statici Nell’ambito dei fattori statici, sono presi in considerazione i dati biosociologici del soggetto (età, sesso, razza, stato civile, attività lavorativa, scolarità, ecc.) oltre gli elementi della storia longitudinale riguardanti l’anamnesi familiare, psichiatrica, medico-chirurgica, i precedenti giudiziari. In particolare, per quanto concerne l’anamnesi familiare, oltre le informazioni psichiatriche, particolare importanza riveste la raccolta di informazioni su situazioni che possono essere legate al comportamento violento. A livello psichiatrico, debbono essere messe in luce la presenza di psicopatologie che possono essere legate a comportamenti violenti (disturbi di personalità antisociali, disturbi di personalità borderline, ecc.). Sotto il profilo criminologico è da segnalare che spesso individui violenti provengono da situazioni familiari “caotiche”, in cui i genitori affetti da gravi psicopatologie, con problematiche coniugali conflittuali, adottanti agiti devianti, sono incapaci di fornire e gestire adeguati modelli di comportamento ai figli. Anche a livello psicosociale sono utili da rilevare i valori culturali della famiglia e le norme ed i valori concernenti l’espressione, l’accettazione e le sanzioni legate al comportamento violento. Fattori poi da indagare, oltre il contesto familiare, sono l’“esposizione alla violenza” e la “violenza subita”. E’ da segnalare che soggetti che hanno posto in atto comportamenti violenti presentano non raramente, nella loro anamnesi, esposizione a fatti di violenza, e cioè hanno assistito, in qualità di spettatori, a comportamenti aggressivi fisici gravi su persone. Questi “scenari” di violenza possono essere stati reali: ad esempio, l’aggressione fisica messa in atto dal padre in stato di ebbrezza alcolica sulla madre inerme ed indifesa, che è violentemente percossa e ferita con gravi danni alla propria integrità fisica; oppure l’esposizione alla violenza può essere stata tale solo nel percepito del soggetto: la visione ad esempio della “scena ~ 127 ~ primaria”, e cioè di un rapporto sessuale tra uomo e donna, può essere percepita in soggetti molto giovani, in alcuni psicotici, in pazienti con specifici problemi emotivi, ecc., non come una scena sessuale, ma come una scena di violenza fisica sul registro di controllo sadico e distruttivo della vittima. Nell’ambito dell’approfondimento dell’esposizione alla violenza non possono non essere esaminati i gradi di implicazione emotiva del soggetto al fatto e la sua capacità di apprendimento attraverso l’imitazione di schemi comportamentali d’approccio al reale e di relazioni interpersonali. Nell’ambito poi della raccolta dei dati in tema di “violenza subita” è da tenere presente, anche in questo caso, la frequente osservazione che soggetti autori di violenza sono stati essi stessi vittime in precedenza ed a livello reale fisico di danni e violenze alla propria integrità fisica. Il tipo di violenza fisica, soprattutto se in giovane età, può essere stato muscolare, con armi di offesa naturale (calci, pugni, ecc.), non naturale (bastoni, cinghie, ecc.), oppure una violenza non muscolare. Tra queste ultime sono da segnalare le grossolane violenze psicologiche, i casi gravi di negligenza e trascuratezza, gli abusi sessuali anche se non fisicamente violenti, e numerosi altri generi di violenza, che caratterizzano ad esempio la “sindrome del bimbo maltrattato”, ecc. Non possono non essere valutate anche altre forme più sofisticate di esposizione alla violenza. Ad esempio, l’influsso criminogenetico sul figlio da parte delle “madri amanti”. Si tratta di madri cioè che accarezzano troppo intimamente o si fanno accarezzare in modo voluttuoso e inadeguato dal figlio, raccontano o si fanno raccontare dettagli morbosi di esperienze sessuali, manifestano sentimenti di disistima nei confronti dell’altra figura genitoriale, additandola con linguaggio verbale o non verbale come esempio di impotenza maschile, di nullità sociale, ecc., mentre valorizzano il figlio esaltandone le caratteristiche di figura maschile “forte, valida sessualmente, ~ 128 ~ egoista ed affascinante”. Queste donne non solo esasperano il rapporto seduttivo ed erotico sessuale col figlio, ma anche distruggono in lui, disprezzando e ridicolizzando il padre, l’immagine dell’autorità e dell’interdizione. Questa loro educazione tende a creare, nella vittima, dinamiche aggressive caratterizzate da gravi turbe nel rapporto di implicazione sessuale eterosessuale con fantasmi di essere traditi, manipolati, ecc. e continue ribellioni stereotipate e fisicamente violente ad ogni forma di autorità. Le conseguenze che derivano da una esposizione alla violenza o da essere stato vittima di violenze sono molteplici e sono condizionate da numerose variabili concernenti non solo l’età del soggetto e la durata dell’esposizione, ma anche differenti meccanismi psicologici di difesa intervenuti. Sebbene non sia possibile una rigida relazione tra l’esposizione alla violenza e la violenza subita con la successiva riproduzione attiva del comportamento violento, è da sottolineare tuttavia la possibilità che una serie di schemi comportamentali possano, a distanza di tempo, stimolare un ruolo attivo di comportamento violento nel soggetto. Accanto a meccanismi psicologici di difesa (quali la formazione reattiva, la sublimazione, la riparazione, ecc.), che tendono a ridurre la possibilità di un passaggio all’azione violenta, vi sono altri meccanismi psicologici di difesa (quali l’identificazione all’aggressore, l’identificazione alla vittima, la doppia identificazione alla vittima e all’aggressore, ecc.) che possono, a distanza di tempo, stimolare un comportamento violento. Inoltre è da sottolineare il ruolo dell’apprendimento per imitazione ed il ruolo dell’accettazione del comportamento violento per introiezione di valori culturali e sottoculturali. Questi schemi di violenza possono o meno accompagnarsi ed integrarsi con disturbi dello spettro di malattia o con vere e proprie psicosi. ~ 129 ~ L’anamnesi psichiatrica e medico-chirurgica fornisce indicazioni utili sulla presenza di eventuali patologie e sul ruolo che queste possono avere nell’eziologia del comportamento violento e saranno approfondite nei fattori biologici. Per quanto concerne l’anamnesi sul curriculum giudiziario, è da segnalare che tra le variabili più importanti, legate alla previsione di un comportamento violento in futuro, ha priorità significativa la presenza di un comportamento violento passato, soprattutto se “frequente”, “ingravescente” e “ravvicinato nel tempo”. Lo psichiatra, tuttavia, non può porre fiducia esclusiva nel curriculum giudiziario fornito dal casellario giudiziario e nella verbalizzazione del soggetto o nelle informazioni fornite dai familiari. Si ricorda che il curriculum giudiziario riporta la criminalità ufficiale che spesso non è che una minima parte, come quantità e come qualità, di quella ufficiosa, e cioè da quella realmente messa in atto dal soggetto. La violenza passata verbalizzata dal paziente può essere volontariamente nascosta, involontariamente dimenticata e spesso travisata nella sua realtà e nelle sue dinamiche. Gli stessi familiari sono spesso attendibili in modo molto differenziato. Risulta non raramente che le madri dei soggetti schizofrenici (oggetto non solo di lesioni gravi, ma anche di tentati omidici) non hanno verbalizzato allo psichiatra la violenza messa in atto dal figlio (“Avevo timore che lo rinchiudeste nuovamente nel reparto di psichiatria”; “Non volevo che fosse punito e rinchiuso in carcere”; “Mio figlio non voleva farmi del male, era solo nervoso..., ma è molto dolce e bravo”). Le mogli invece dei soggetti schizofrenici e violenti tendono in genere a segnalare allo psichiatra con molta più attenzione e drammaticità i comportamenti aggressivi (“Non è solo matto, ma è anche molto cattivo e violento”; “Temo per la mia vita”; “È imprevedibile e può uccidere una persona da un momento all’altro”, ecc.). Indispensabile quindi per lo psichiatra un’anamnesi, attraverso varie fonti, che fornisca il più possibile un quadro reale dell’anamnesi di violenza del soggetto. ~ 130 ~ 7.3.5. Fattori situazionali Poter isolare una sola causa eziologica del comportamento violento (biochimica, organica, psicologica, psichiatrica, ecc.) allo stato attuale delle conoscenze scientifiche non è possibile. Per questo motivo il modello di approccio alle dinamiche di violenza nella loro globalità non è basato su di un “unico nesso causale”, ma sulla ricerca di una “costellazione di fattori” che variamente interagendo tra loro possono dare origine ad un comportamento violento. Questa visione eziologica attuale ed operativa del comportamento violento porta a riconsiderare con attenzione il ruolo della causalità nell’ambito del comportamento violento in relazione, in particolare, a specifici fattori situazionali. A livello clinico concreto non può essere ignorata la “teoria della catastrofe” che mette in luce, in certe dinamiche di violenza, l’importanza di tutta una serie di variabili che da sole non sono in grado di agire, ma sommandosi l’una all’altra hanno un valore determinante: “le gocce che fanno traboccare il vaso”. Queste variabili concernono tanto la struttura psichica del soggetto quanto i fattori situazionali. Si ricorda che “il violento non si agita solo ed esclusivamente nel vuoto della sua patologia psichica”, ma è sempre in contatto, seppur ridotto o distorto, con la realtà del mondo. Tra i fattori situazionali si possano ricordare, in primo luogo, tutte quelle variabili cliniche che accentuano, esasperano, sintomatologie di tipo psicotico o di disturbo della personalità, e che possono essere legate ad agiti violenti. Per comprendere alcuni comportamenti violenti intrafamiliari messi in atto da soggetti schizofrenici, è importante invocare l’alta emotività espressa di alcuni nuclei familiari. La stimolazione ipercritica, continua ed esasperata a mobilizzarsi nel sociale, nei confronti di un soggetto schizofrenico con sintomatologia negativa, depresso, autistico, ecc., non può che provocare una violenta risposta di quest’ultimo sulla base della vivace aggressività reattiva di difesa e profonda angoscia di affrontare le ~ 131 ~ relazioni interpersonali. Egualmente, citando un altro esempio, le azioni iperprotettive della madre possono essere percepite come soffocanti, intrusive e destrutturanti da parte del figlio schizofrenico e possono portare quest’ultimo a stati di “panico fusionale” con possibilità di esitare in matricidio. Inoltre, in certi soggetti schizofrenici paranoidi la massiva ostilità verbalizzata e agita dal microambiente, come risposta a loro contenuti persecutori e paranoidei, può innescare un volano di aggressività e violenza fisica e reciproco sospetto e rivendicazione quasi in un meccanismo di “paure e profezie autoalimentate”. Tra i fattori situazionali sono altresì da annoverare tutte le variabili che possono cristallizzare il malessere dei pazienti in una psicosi o disturbo della personalità. Hanno questo significato, ad esempio, numerose dinamiche legate al sentimento di perdita che sono stimolate e suscitate da fattori situazionali. La perdita, ad esempio, della propria compagna, di un’attività di lavoro, della propria abitazione, della libertà per un imprigionamento o per un ricovero, ecc., possono, attraverso dinamiche complesse, non necessariamente elaborate solo su un piano depressivo, assumere il significato di variabile scatenante agiti violenti. Questi comportamenti violenti, legati al sentimento di perdita, nel solo aspetto più esteriore, superficiale e manifesto possono apparire in relazione ed in modo esclusivo a motivazioni psicosociali (aggressività di difesa, di territorio, di maternità, di leadership) o a motivazioni squisitamente psichiatriche (deliri a contenuti persecutori, rapide oscillazioni dello stato affettivo, stati ipomaniacali o maniacali). È utile segnalare, per poter formulare un’adeguata diagnosi differenziale, che non tutti i deliri persecutori, le variazioni dell’umore e gli esaltamenti affettivi si accompagnano ad agiti violenti sulla persona: l’operatore non può esimersi dal ricercare motivazioni più specifiche legate al comportamento violento. ~ 132 ~ Oltre la valutazione dei fattori situazionali scatenanti, è altresì da considerare il “grado di socializzazione del comportamento aggressivo. Si ricorda che ogni individuo, psicotico e non psicotico, organizza la propria esistenza tra le altre persone, e cioè in un contesto sociale, col quale vi è un profondo e complesso, continuo intrecciarsi di interazioni. Il tessuto sociale, se da un lato è causa di aggressività interpersonale, d’altro canto permette anche di scaricare, canalizzare e spesso neutralizzare cariche e tendenze aggressive senza necessariamente ricorrere a comportamenti violenti fisici su persone, animali od oggetti, socialmente riprovati o non tollerati. Queste constatazioni sono di primaria importanza per la scelta delle terapie nel comportamento violento. Non è infatti possibile, in linea generale, eliminare dalla vita del paziente ogni forma di frustrazione ed aggressività che ne deriva, ma è possibile aumentare nel soggetto la soglia di tolleranza della frustrazione e permettere di manifestare l’aggressività in forme socialmente più adeguate ed accettabili. Accanto a questi provvedimenti squisitamente psicoterapici non possono non essere adottati gli adeguati provvedimenti specifici farmacoterapici. Si ricorda, ad esempio, la necessità assoluta e costante di un intervento farmacologico in pazienti schizofrenici paranoidi con delirio a contenuto persecutorio, vivaci movimenti affettivi, presenza di “minacce calde” che tendono ad aumentare di intensità, ecc. Si tratta di pazienti in cui la soglia di tolleranza alla frustrazione è assai ridotta e la presenza di un continuo stato di aggressività irritabile e aspecifico non può che essere sedato, abbassato e neutralizzato con un’adeguata terapia farmacologica. Per quanto concerne l’insufficiente socializzazione che può stimolare il comportamento violento, si ricorda che questa può essere dovuta a molteplici cause. Tra le cause organiche si ricorda, ad esempio, un pregresso traumatismo cerebrale, che può impedire una corretta e adeguata lettura della realtà ed ~ 133 ~ al contempo può accompagnarsi ad un’abnorme tendenza al passaggio all’azione con l’impossibilità di gestire e di mentalizzare i sentimenti, soprattutto quelli ansiogeni. Tra le cause psicosociali si segnala, ad esempio, in alcuni delinquenti sessuali violenti, non necessariamente psicotici, gravi disabilità sociali (carenze del “know how”). Un gran numero di questi soggetti violenti per cause primariamente situazionali mancano della capacità tecnica di corteggiare e sedurre persone di sesso differente e di mantenere relazioni sociali che richiedono una certa destrezza ed abilità sociale (ad es. la capacità di mentire, la disimplicazione emotiva, la falsa accettazione formale, ecc.). Si tratta di soggetti ad adattabilità sociale assai debole con un comportamento deviante ad alta visibilità e riprovazione sociale, nella cui psicoterapia, sostitutiva di una socialità carente prevalentemente per fattori situazionali, non possono essere ignorate le tecniche riabilitative di apprendimento di abilità interpersonali più sviluppate, adeguate al reale ed a specifiche funzioni sociali. I fattori situazionali, talvolta indispensabili per un quadro completo delle genesi del comportamento violento e della sua terapia e prevenzione, non autorizzano lo specialista ad indebite “sociologizzazioni” o “psicologizzazioni” di comportamenti che trovano eziologia primaria in specifiche psicopatologie di ordine psichiatrico, seppur sfumate in spettri di malattia o integrate in specifiche comorbilità. 7.3.6. Fattori dinamici Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche non è possibile tracciare una obiettiva ed esauriente patofisiologia di struttura e di funzione del comportamento violento. In attesa di ridurre questa lacuna, è tuttavia possibile, sotto il profilo clinico prendere atto di specifiche dinamiche che si rivelano utili anche sotto il profilo farmaco e psicoterapico. Queste dinamiche possono, in primo luogo, essere legate nella modulazione del ~ 134 ~ passaggio all’atto violento, ad una patologia mentale di tipo francamente e specificatamente psicotico. Ricordiamo ad esempio l’“omicidio per condensazione” ad opera del soggetto schizofrenico (Nivoli,1975). Si tratta di quei casi in cui il soggetto uccide due vittime pur essendo sua intenzione omicidaria verbalizzata uccidere una sola persona. Il paziente non ricorda di avere ucciso la seconda vittima e non riesce a motivare percepiti o realtà che possono giustificare l’altro omicidio. Solo dopo approfonditi colloqui clinici è possibile mettere in luce che la seconda vittima è stata inglobata attraverso il meccanismo della condensazione (come agisce nel sogno) con la prima vittima, con la quale presentava nel vissuto del paziente specifiche comunanze. Sempre nel soggetto schizofrenico che compie un omicidio, può essere messo in luce il fenomeno della “concretizzazione del persecutore” (Nivoli, 1975). Il paziente da uno stato generico vago ed inquietante di “mutamento pauroso” della percezione della realtà nei confronti di tutte le persone, può bloccare e localizzare specifici contenuti persecutori su una sola persona, che diventerà la vittima prescelta. Si verifica (come nell’arte letteraria) una “concretizzazione” di uno stato d’animo caratterizzato da vivace sofferenza su di un oggetto o su di una persona (“Tutto il destino e la vita sono contro di me”, “Tu che sei il mio vicino di casa sei contro di me e sei l’unica causa dei miei guai”). Questi fattori dinamici (condensazione, concretizzazione, ecc.) non solo permettono di aumentare le conoscenze dell’agire violento del soggetto schizofrenico (sarebbe troppo semplicistico e non rispettoso del reale per lo psichiatra fermarsi a constatare che lo schizofrenico è sempre del tutto “imprevedibile” ed “incomprensibile” nel suo agire violento), ma anche forniscono punti di repere, anche se non esaurienti e non appartenenti al registro di causalità, per ipotesi di comprensione e provvedimenti pratici, per ~ 135 ~ la prevenzione e la terapia del comportamento violento su di un registro squisitamente psicotico. Nei disturbi di personalità, egualmente, sono note dinamiche specifiche di violenza; ad esempio nelle personalità borderline in cui le relazioni interpersonali sono spesso in bilico tra fusione e fuga, la presenza dell’“angoscia simbiotica” può essere una tra le dinamiche prioritarie sulle quali si instaura il comportamento violento. Alcuni soggetti maschili borderline se fortemente stimolati da una compagna, il cui approccio sociale è di tipo non solo esigente e dipendente, ma di tipo divorante- abbandonico, possono scompensarsi e passare all’atto distruttivo e violento sulla compagna percepita così pericolosamente destrutturante. I fattori dinamici spaziano quindi a livello più manifesto clinico dal campo squisitamente psicotico a quello più squisitamente socio-culturale. I variabili psichiatriche e psicosociali sono supporti che modulano il passaggio all’azione violenta, ma che non possono avere prioritarie ed esclusive pretese di causalità in senso stretto. 7.3.7. Aspetti biologici (segni) Nell’ambito di una valutazione del comportamento violento, notevole importanza acquista l’esame di fattori biologici a causa delle implicazioni che “l’organicità” ha nell’eziologia, nel trattamento, nella prognosi del comportamento violento. L’esame dei fattori biologici si differenzia per tempi e modalità. In situazioni di emergenza in presenza di un paziente violento (di cui verosimilmente non si conosce la storia clinica), l’apparenza generale, la postura, l’andatura, il linguaggio, gli odori, le pupille, la respirazione, la lacrimazione, le condizioni della pelle, ecc., sono elementi da osservare direttamente al primo contatto. I segni vitali devono essere immediatamente rilevati, subito dopo l’ammissione e monitorizzati successivamente, considerato che un primo ~ 136 ~ esame risulta necessariamente incompleto (a causa delle problematiche legate alla sicurezza, alla scarsa collaborazione del paziente, alla scarsa disponibilità di tempo) e che le condizioni del paziente possono subire delle rapide modificazioni. Inoltre, particolare attenzione deve essere posta alla eventuale presenza di segni che testimoniano la presenza di una sindrome mentale organica (intossicazione, astinenza, delirium, allucinazioni, ecc.). I segni clinici di una intossicazione ad esempio comprendono disartria (nell’intossicazione da alcool, barbiturici, fenciclidina), incoordinazione ed instabilità nell’andatura (nell’intossicazione da alcool, barbiturici e allucinogeni), nistagmo (nell’intossicazione da alcool, barbiturici, fenciclidina), dilatazione delle pupille (nell’intossicazione da amfetamine, cocaina, allucinogeni), sudorazione (nell’intossicazione da amfetamine, cocaine, allucinogeni), tachicardia (nell’intossicazione da amfetamine, cocaina, allucinogeni, anticolinergici), ecc. La valutazione dei fattori biologici riveste un duplice significato: da una parte fornisce delle utili informazioni sulle eventuali cause del comportamento violento; dall’altra fornisce indicazioni sulle misure terapeutiche utilizzabili in termini di sicurezza per il paziente. In situazioni di non emergenza, quando si intraprende un processo diagnostico in funzione di una piano di trattamento mirato, la valutazione dei fattori biologici procede anche con l’ausilio di esami di laboratorio, strumentali e psicometrici. Le condizioni organiche associate ad un comportamento violento sono numerose: uso di specifici farmaci (Tab. 7 pag. 150), abuso di sostanze, patologie del SNC (Tab. 8 pag. 150) e patologie sistemiche (Tab. 9 pag. 151) (con secondaria compromissione del SNC). La relazione tra abuso di sostanze (alcool, droghe, ecc.) e comportamento violento è condizionata da numerose e complesse dinamiche, alcune ad “impronta” strettamente organica (quali fenomeni legati all’intossicazione ~ 137 ~ idiosincrasica, alla sindrome di astinenza, alle patologie correlate, ecc.), altre più specificamente legate ad elementi socioculturali (ad es. i comportamenti tossicodipendenti). violenti In legati alla sottocultura particolare, per quanto deviante concerne dei l’alcool, l’intossicazione può essere associata ad un comportamento violento come risultato, soprattutto nella fase iniziale, della disinibizione associata alla labilità emotiva ed alla diminuita capacità di critica. Un comportamento violento può verificarsi anche in individui che hanno introdotto minime quantità di alcool come risultato di una intossicazione idiosincrasica. Infine un comportamento violento può verificarsi nella sindrome di astinenza (associato a numerosi sintomi organici) come risultato di una grave disorganizzazione del comportamento o in risposta ad allucinazioni minacciose. La cocaina, introdotta per via nasale, inizialmente produce un effetto euforizzante. Un uso prolungato, per via endovenosa o inalatoria (fumata come crack), produce un viraggio dell’euforia in un sentimento di grandiosità, con agitazione psicomotoria, sospettosità e frequentemente violenza. Successivamente, l’uso prolungato “trasforma” la sospettosità in ideazione paranoidea e quindi in attività delirante. Il comportamento violento può essere correlato ad attività delirante associata alla iperstimolazione della cocaina. L’astinenza da cocaina è più frequentemente associata ad una fase depressiva piuttosto che ad un comportamento violento; tuttavia, dopo un uso prolungato, quando vi è una grave compromissione del contenuto del pensiero, un comportamento violento può essere il risultato di una ideazione paranoidea, associata all’irritabilità ed alla agitazione psicomotoria causate dalla cocaina. Un intenso e prolungato uso di amfetamine può produrre, oltre un sentimento di benessere, alterazioni del contenuto e della forma del pensiero (ideazione paranoidea, disorganizzazione ed incoerenza del ~ 138 ~ pensiero) ed agitazione psicomotoria. Il comportamento violento può essere strettamente correlato a tali condizioni. Anche la sindrome di astinenza da amfetamine è spesso associata a depressione ed insonnia, sebbene la presenza di agitazione psicomotoria ed ideazione paranoidea possano produrre un comportamento violento. Gli allucinogeni quali LSD, DMT, mescalina possono stimolare ideazione delirante, alterazioni depersonalizzazione, della percezione derealizzazione, (quali illusioni sentimenti ed di allucinazioni prevalentemente visive) ed ansia marcata. Un comportamento violento può essere correlato a tale sintomatologia e manifestarsi durante la fase di intossicazione sebbene non sia frequente. Nel corso di intossicazione da fenciclidina (PCP), invece, il comportamento violento, associato ad impulsività e marcata compromissione della capacità di critica è molto più frequente e può manifestarsi nell’arco di un’ora dall’assunzione orale (nell’arco di cinque minuti se l’assunzione avviene per via inalatoria, attraverso il fumo, o endovenosa). Dopo un uso prolungato di allucinogeni, possono persistere elementi di psicopatologia residuali, che possono associarsi a comportamenti violenti. L’intossicazione da sostanze inalanti (collanti, vernici, ecc.) può essere caratterizzata da diminuzione della capacità critica e comportamento violento. Per quanto concerne i farmaci, è importante valutare qualsiasi modifica, interruzione, inizio di terapia psicofarmacologica. La regolare assunzione deve essere confortata dalla testimonianza dei familiari o del personale addetto alla somministrazione. Sono notevoli le implicazioni, in termini di trattamento e prevenzione del comportamento violento, che comporta una adeguata valutazione della “compliance” del paziente (nei confronti della terapia) e del rapporto medico-paziente. Il vissuto del paziente nei confronti della terapia farmacologica (“un veleno che uccide” ovvero “un farmaco ~ 139 ~ miracoloso”) consente di decodificare le ansie, le paure, le aspettative che il paziente ha nei confronti della terapia e permette mirati adeguamenti farmacologici. Inoltre eventuali effetti collaterali e/o avversioni, sindromi di astinenza, reazioni idiosincrasiche, interazioni farmacologiche dei farmaci (psicofarmaci e non) devono essere presi in considerazione come possibili fattori eziologici di un disturbo mentale organico (intossicazione, delirium, delirio, ecc.) strettamente correlato ad un comportamento violento. In particolare, alcuni farmaci quali gli steroidi e gli anticolinergici (a causa di intossicazione o di effetti collaterali) possono stimolare un comportamento violento. È da segnalare infine che l’acatisia da neurolettici può essere interpretata come “agitazione” e trattata con una dose aggiuntiva di neurolettico favorendo la comparsa di un comportamento violento e l’instaurazione di un circolo vizioso. L’intossicazione da sedativi o ansiolitici può stimolare un comportamento violento, attraverso un meccanismo di disinibizione associato a labilità emotiva e diminuzione della capacità di critica. La sindrome da astinenza da ansiolitici e sedativi (soprattutto quando vi è una brusca sospensione dopo una prolungata assunzione di alte dosi di farmaci) può essere associata ad un comportamento violento a causa della notevole irritabilità ed agitazione psicomotoria che seguono alla sospensione. Da segnalare il possibile “effetto paradosso” delle benzodiazepine nello scatenare comportamenti disinibiti e dissociali. Le patologie primarie del SNC associate ad un comportamento violento sono numerose (Tab. 8 pag. 154). Epilessia, traumi cranici, infezioni intracraniche, lesioni occupanti spazio, disturbi cerebrovascolari, malattie degenerative, malattia di Wilson, sclerosi multipla, AIDS, ecc. possono costituire l’elemento eziologico di una condizione psichiatrica (delirium, demenza, ritardo mentale, allucinosi, disturbo organico di personalità, ~ 140 ~ disturbo organico delirante, disturbo organico dell’affettività, ecc.) associata al comportamento violento. Nell’ambito delle patologie del SNC l’epilessia merita una particolare menzione. In un soggetto epilettico il comportamento violento può verificarsi nella fase critica, postcritica, intercritica. Un comportamento violento nella fase critica (ad es. come risultato di un automatismo nell’ambito di una epilessia parziale complessa) è possibile, sebbene raro e di tipo omissivopassivo. Un comportamento violento nella fase critica delle altre forme di epilessia è decisamente molto raro (in uno studio vengono segnalati 5 casi su un totale di 5.400 pazienti)]. Nella fase postcritica il comportamento violento può costituire parte di un prolungamento dello stato confusionale. Un comportamento violento durante la fase intercritica in pazienti con epilessia del lobo temporale è possibile. Il concetto, tuttavia, di “personalità epilettica esplosiva” della fase intercritica con aumentata tendenza al passaggio all’azione violenta rimane controverso (Balis, Monopolis, 1986), sebbene pazienti con epilessia parziale complessa e focus di irritazione nel lobo temporale presentino un maggior rischio di discontrollo degli impulsi associato ad irritabilità ed esplosività. Le malattie sistemiche (che comportano una compromissione secondaria del SNC) associate ad un comportamento violento sono numerose (Tab. 9 pag. 151). Tali patologie includono squilibri elettrolitici, ipossia, malattie epatiche, malattie renali, deficienze vitaminiche (soprattutto vitamina B12, folati e tiamina), infezioni sistemiche, ipoglicemia, morbo di Cushing, ipertiroidismo, ipotiroidismo, lupus eritematoso sistemico, porfiria, avvelenamento da metalli pesanti, insetticidi o altre sostanze, ecc. (Balis 1983; Tardiff, 1989). L’abuso di sostanze, le patologie del SNC, le patologie sistemiche (con compromissione secondaria del SNC) possono costituire la base eziologica ~ 141 ~ di un disturbo mentale organico con sintomi quali delirium, demenza, allucinazioni, alterazioni dello stato di coscienza, ecc., che possono essere in stretta relazione ad un comportamento violento. In presenza di un paziente violento l’esame clinico (confortato da esami strumentali e di laboratorio, screening di rilevamento sostanze, ecc.) deve primariamente escludere la presenza di una patologia organica correlata al comportamento violento e solo successivamente può essere presa in considerazione l’esistenza di una patologia psichiatrica. 7.3.8. Aspetti psichiatrici Il comportamento violento, come il comportamento suicidario,allo stato attuale delle conoscenze, non trova un’unica causa eziologica in problemi psichiatrici. Le persone che uccidono, si suicidano, aggrediscono fisicamente altri, non presentano tutte malattie di interesse psichiatrico obiettivamente documentate e precise indicazioni a terapie farmacologiche. Per questa ragione è indispensabile che lo specialista consideri la “diagnosi” e la “terapia psichiatrica” come un aspetto del capitolo più importante che è la “valutazione” e “trattamento” (o “gestione”) del comportamento violento. Nella valutazione e trattamento del comportamento violento deve essere considerata la presenza, o meno, di una diagnosi psichiatrica e la sua terapia, ma anche devono essere valutati gli aspetti biologici, psicosociali, vittimologici e criminologici del soggetto violento per poterne effettuare una valutazione globale più completa ed un trattamento, a livello di neutralizzazione e di prevenzione, adeguato alla realtà. Nell’ambito, tuttavia, della diagnosi e terapia psichiatrica, a causa delle loro relazioni col comportamento violento, sono in particolare da considerare la schizofrenia, il disturbo paranoide di personalità, la paranoia, la mania, la depressione, il ritardo mentale, i disturbi di personalità. ~ 142 ~ Nell’ambito della schizofrenia, è da sottolineare l’importanza dei deliri, soprattutto a contenuto persecutorio e di influenzamento, delle allucinazioni imperative, delle allucinazioni uditive a contenuti umilianti, dell’aggressività irritabile, nel corso di scompenso con agitazione psicomotoria o di acatisia, ecc. È da rilevare che nessuno di questi sintomi da solo è responsabile del comportamento violento. Tuttavia, se il sintomo psichiatrico, ad esempio un delirio di persecuzione, non è “isolato” ma si trova “associato” ad altre psicopatologie (vivace stato di agitazione psicomotoria, insonnia nei giorni precedenti, passaggi all’atto con tentativi suicidari, sentimenti di “mutamento pauroso” della realtà, ecc.), il suo valore concausale nello scatenare il comportamento violento deve essere valutato con molta più attenzione e specificità. È da segnalare, inoltre, la necessità di considerare nell’ambito della schizofrenia, non solo la psicosi conclamata ma anche gli spettri fenotipici della psicopatologia schizofrenica, tra cui ad esempio tutti i fenomeni legati all’inquietante estraneità, al mutamento pauroso del mondo, ai fenomeni di depersonalizzazione e di derealizzazione, ecc. È da rilevare, inoltre, che anche nel caso della diagnosi psichiatrica di una grave schizofrenia deve essere sempre considerato il modello tipico della “diatesis stress”, in cui esiste cioè nel soggetto, indipendentemente dal tipo e dalla presenza di psicosi, uno specifico substrato costituito da una costellazione di fattori biologici, ambientali e culturali, in cui il soggetto ha appreso ed accettato modalità di comportamento violento come risoluzione dei conflitti (Silverton, 1988). Nell’ambito dei disturbi paranoidi e di personalità paranoide, paranoicali, sono da considerare, in particolare, i contenuti rivendicatori, persecutori, di grandezza, di gelosia, in particolare, quando si accompagnano a comorbilità ~ 143 ~ con disturbi dell’umore a carattere ciclico ed in particolare ipomaniacale. Nell’ambito del paziente maniacale, è da considerare la presenza dell’agitazione psicomotoria, dell’aggressività irritabile, della incontrollata iperattività, dell’intolleranza ai limiti sociali, di attività deliranti a contenuti persecutori e di grandezza. In genere si tratta di comportamenti violenti posti in essere senza premeditazione e senza obiettivi specifici. La depressione riveste una grande importanza nello scatenare comportamenti violenti. La depressione (a livello più manifesto di psicosi: sentimento di perdita di speranza, di impossibilità di ricevere aiuto, di temporalità bloccate, ecc.) può accompagnarsi a comportamenti omicidari e suicidari. Infine, si pone in luce l’effetto dell’esposizione alla violenza per quanto concerne uno schema di apprendimento e di “modeling” di passaggi all’azione violenti. La depressione non psicotica, spesso non facilmente diagnosticabile, non raramente è alla base di numerose dinamiche di violenza (in particolare legate al concetto di “perdita” e di “separazione” e di “dinamiche abbandoniche” reali o fantasmatiche). Nel ritardo mentale, il comportamento violento può essere legato a dinamiche di risentimento, invidia, acquisitive, ecc., che si accompagnano a scarsa capacità di gestire abilità sociali nei rapporti interpersonali e disturbi cognitivi di comprensione della realtà. Possono coesistere comorbilità per spunti paranoidei rivendicativi (esasperazioni di dettagli oligofrenici di propri diritti, ricerca di un capro espiatorio alle frustrazioni, ecc.); stati dissociativi (alterazioni degli istinti, dell’igiene corporale, della nutrizione, vagabondaggio, richieste assurde sotto il profilo economico e sessuale, ecc.); disturbi dell’umore (stati ipomaniacali o ciclici, tendenze alla dromomania, ecc.). ~ 144 ~ Nei deficit dell’intelligenza, legati a traumatismi cranici, è spesso presente una vistosa aggressività irritabile e deviazioni degli istinti, in particolare dell’istinto sessuale. I disturbi di personalità possono essere legati al comportamento violento, in particolare il disturbo esplosivo intermittente (violenza episodica sproporzionata allo stimolo frustrante, presenza di rimorso, presenza di sentimento di colpa, ecc.); il disturbo di personalità antisociale (violenza frequente e costante, assenza a livello manifesto del sentimento di colpa e di rimorso, ecc.); il disturbo di personalità borderline (violenza di tipo impulsivo, frequente, non specifica, intramezzata a problemi più squisitamente psichiatrici con disturbi all’identità, manipolazione affettiva del microambiente, ecc.). I comportamenti violenti nei disturbi di personalità possono presentare numerose variabili individuali e devono essere valutati dall’operatore anche in relazione a specifici schemi di comportamento violento che possono essere stati appresi dai pazienti che hanno avuto contatto con istituzioni carcerarie, organizzazioni criminali, sottoculture della violenza (per quanto concerne l’apprendimento di modelli nella gestione dei rapporti interpersonali). Livelli di indagine questi ultimi, psichiatrico e criminologico, che non escludono nei vari disturbi di personalità l’esame di un terzo livello e cioè di quella psicopatologia trasversale, presente in numerosi psicotici, in disturbi di personalità ed in soggetti anche non malati di mente (ad es. il panico omosessuale o pseudo-omosessuale; l’incapacità di mentalizzare sentimenti con necessità di passare all’azione, ecc.), che rappresentano elementi di particolare e specifico interesse nello scatenare il comportamento violento. È inoltre da rilevare che i disturbi di personalità possono associarsi a psicosi e possono essere variamente embricati tra di loro. ~ 145 ~ Per quanto concerne la patologia psichiatrica dell’adulto, è da segnalare l’utilità nell’anamnesi psichiatrica di patologie preesistenti in età giovanile. La presenza infatti nell’adolescenza di disturbi della condotta, deficit dell’attenzione con iperattività, comportamenti oppositivi, ecc. può meglio chiarire diagnosi e prognosi del comportamento violento nell’adulto. Ad esempio un disturbo della condotta in età adolescenziale può poi configurare il quadro clinico di un disturbo di personalità antisociale nell’età adulta, ove i comportamenti violenti si sono stabilizzati o modellati in specifici ambienti criminogenetici. ~ 146 ~ Tab.1 - Struttura dell’ambiente fisico per il colloquio con il paziente violento Ambiente fisico con doppia uscita Posizione dello psichiatra tra il paziente e la porta d’uscita Presenza di un dispositivo d’allarme nascosto ed accessibile Assenza di oggetti utilizzabili come armi Reperibilità di oggetti soffici da difesa Controllo visivo da parte del personale Presenza costante di un responsabile del piano di intervento d’urgenza Tab. 2 - Modalità di prevenzione della violenza nel colloquio psichiatrico in emergenza. • Segnalazione allo psichiatra dal personale d’accettazione delle caratteristiche cliniche del paziente • Assenza di abbigliamento vittimogeno sullo psichiatra • Mantenimento della distanza di sicurezza tra psichiatra e paziente • Controllo visivo costante, diretto o indiretto, dei movimenti del paziente • Impiego delle adeguate tecniche di avvicinamento ed allontanamento dal corpo e dal territorio del paziente • Apprendimento delle più semplici tecniche di difesa dal contatto involontario e violento con il paziente ~ 147 ~ Tab. 3 - Fattori che riducono il numero, il tempo e le recidive della contenzione e dell’isolamento del paziente violento. • Adeguate tecniche di ascolto e di comunicazione col paziente • Riconoscimento dei segni premonitori di violenza e la loro neutralizzazione • Introspezione e verbalizzazione in gruppo dei sentimenti controtransferali legati alla violenza • Tipo, dose, modalità di somministrazione del farmaco adeguato ai sintomi psichiatrici • Monitoraggio fisico e psichico continuo del paziente in contenzione ed isolamento • Ventilazione di gruppo frequente e periodica dei vissuti soggettivi legati al progetto terapeutico del paziente • Riabilitazione specifica del paziente mirata al comportamento violento Tab. 4 - Intervento verbale in emergenza. • Mantenere un aspetto mimico e posturale di calma • Offrire il massimo di visibilità ai movimenti • Parlare lentamente ed a basso volume • Pronunciare frasi chiare, corte, semplici, neutre e concrete • Facilitare l’espressione verbale del paziente • Ascoltare mostrando sempre attenzione e rispetto • Non mantenere a lungo lo sguardo diretto negli occhi del paziente • Non assumere atteggiamenti verbali, mimici o posturali, intimidatori, provocatori, ironici • Non esprimere interpretazioni, giudizi o promesse non mantenibili ~ 148 ~ Tab. 5 - Intervento sul paziente che minaccia con un’arma. • Esposizione del minimo numero di persone al rischio • Uniformità di comportamento di calma accettante • Stimolazione del dialogo e del rapporto personale • Dilazione temporale empatica e giustificata delle richieste inadeguate • Applicazione di specifiche tecniche di neutralizzazione: 1. utilizzazione del narcisismo e dilazione dell’agire 2. implicazione del garante e riduzione dell’ansia 3. aggancio emotivo e valorizzazione del dialogo 4. effetto umanizzante ed inibizione dell’agito 5. creazione del nemico esterno comune ed empatia 6. accettazione del significato di difesa dell’arma 7. dissociazione dei linguaggi ed effetto contenitore 8. evitamento di indentificazioni dolorose del paziente alla vittima o all’aggressore Tab. 6 - Griglia di analisi per la valutazione ed il trattamento a lungo termine del paziente violento. • Dati obiettivi criminologici • Dati obiettivi vittimologici • Dati obiettivi anamnestici • Fattori statici • Fattori situazionali • Fattori dinamici • Aspetti biologici • Aspetti psichiatrici ~ 149 ~ Tab. 7 - Sostanze (uso ed abuso) correlate al comportamento violento. Alcool Intossicazione ed astinenza Cocaina Intossicazione ed astinenza Amfetamine Intossicazione Allucinogeni Intossicazione (fenciclidina) Inalanti Intossicazione Sedativi ed ansiolitici Intossicazione ed astinenza Altri farmaci Intossicazione (ad es. steroidi) Tab. 8 - Patologie del SNC associate al comportamento violento. • AIDS • Alterazioni elettroencefalografiche subcliniche • Corea di Huntington • Epilessia • Idrocefalo • Infezioni (encefaliti virali, meningite da TBC, sifilide, ecc.) • Malattia di Alzheimer • Malattia di Parkinson • Malattia di Pick • Malattia di Wilson • Malattia multinfartuale • Patologie cerebrovascolari • Sclerosi multipla • Stati post-anossici e post-ipoglicemici • Trauma cranico • Tumori ~ 150 ~ Tab. 9 - Condizioni sistemiche associate al comportamento violento. • Deficienze vitaminiche (B12, folati, tiamina) • Infezioni sistemiche • Iper o ipotiroidismo • Ipoglicemia • Ipossia • Lupus eritematoso sistemico • Metalli pesanti, insetticidi, ecc. • Morbo di Cushing • Patologie epatiche • Patologie renali • Porfiria • Squilibri elettrolitici ~ 151 ~ ~ 152 ~ CAPITOLO 8: TERAPIA FARMACOLOGICA DEL PAZIENTE VIOLENTO Nell’ambito di una eziologia spesso multifattoriale del comportamento violento, l’intervento farmacologico rappresenta una parte della complessa strategia di gestione. Pur non essendovi allo stato attuale nessun farmaco riconosciuto dalla Food and Drug Administration come specifico (Maier, 1993; Carrigan et al., 1993) per il comportamento violento, tuttavia nella pratica clinica numerosi Autori sono concordi nel distinguere due modalità e due tempi di intervento differenti (Tardiff, 1989; Tupin, 1987). Una prima modalità di intervento comprende la valutazione e la gestione del comportamento violento nell’ambito di una situazione di emergenza (“shortterm management”), quale può essere quella che si incontra nelle “emergency rooms”, nei reparti di ammissione, ecc., quando cioè l’operatore deve gestire un paziente di cui, molto spesso, non conosce la storia clinica, medica e psichiatrica. In tale situazione il farmaco rientra in una strategia di intervento che ha come obiettivo la sedazione del paziente. Una seconda modalità di intervento comprende la valutazione e la gestione a lungo termine (“long term management”) del comportamento violento. In tale situazione è essenziale formulare una accurata diagnosi ed è indispensabile conoscere la costellazione dei fattori che intervengono nella etiologia del comportamento violento. In tale situazione il farmaco acquista una più specifica valenza terapeutica e preventiva. 8.1. INTERVENTO FARMACOLOGICO IN SITUAZIONI DI EMERGENZA Quando si è in presenza di un paziente, di cui non si conosce la storia clinica, che sta mettendo in atto un comportamento violento e/o delle verbalizzazioni seriamente minacciose per la sicurezza del personale trattante o di altri pazienti, è indicato un trattamento farmacologico di ~ 153 ~ urgenza (Tab. 10 pag.165). In tale situazione il primo obiettivo non è tanto quello di formulare una diagnosi psichiatrica,quanto piuttosto indurre nel paziente una sedazione farmacologica. Pertanto, i farmaci utilizzabili in una situazione di emergenza devono consentire, oltre ad una pronta sedazione, una facile somministrazione e la possibilità di un monitoraggio di tutti gli effetti (terapeutici e collaterali). I farmaci che rispondono in maniera soddisfacente ai criteri precedentemente illustrati sono raggruppati principalmente in tre classi: • farmaci antipsicotici, • farmaci ansiolitici, • farmaci sedativi. Ciascun farmaco presenta vantaggi e svantaggi, nessuno può essere indicato come il farmaco “antiviolento” per eccellenza e tutti hanno, in breve tempo, un benefico effetto sull’agitazione e l’eccitamento. Qualunque sia il farmaco utilizzato, risulta indispensabile, al fine di garantire la massima efficacia terapeutica ed il minimo rischio di effetti collaterali, far precedere l’intervento da un accurato esame clinico ed associare un continuo monitoraggio delle funzioni vitali. 8.1.1. Farmaci antipsicotici-neurolettici: I farmaci antipsicotici- neurolettici risultano efficaci nel controllo, a breve termine, di numerosi comportamenti aggressivi, anche non specificatamente psicotici. La “neurolettizzazione rapida” è una strategia basata su una ripetuta somministrazione di neurolettico sino al raggiungimento del livello di sedazione desiderato. La “neurolettizzazione rapida” presenta due modalità a seconda del farmaco prescelto; inoltre ciascuna modalità presenta due varianti in base alle dosi di farmaco utilizzate. ~ 154 ~ 1. Neurolettizzazione rapida ad alta potenza farmacologica (in cui vengono utilizzati dei neurolettici ad alta potenza, quali aloperidolo, trifluoperazina, flufenazina, tiotixene). La variante a basse dosi prevede l’uso di aloperidolo (farmaco di prima scelta) alla dose di 5 mg intramuscolo ogni 4-8 ore, sino a raggiungere una dose massima giornaliera di 15-30 mg. La variante ad alte dosi prevede l’uso di 10 mg di aloperidolo intramuscolo ogni 30 minuti, sino ad una dose massima giornaliera di 45-100 mg. La neurolettizzazione rapida ad alta potenza farmacologica richiede particolare attenzione alla pressione arteriosa (in particolare ortostatica) ed alla comparsa di sintomi extrapiramidali; qualora questi ultimi siano particolarmente imponenti, viene consigliato l’utilizzo della neurolettizzazione rapida a bassa potenza farmacologica. È da tenere presente che malattie organiche di base favoriscono la comparsa di effetti extrapiramidali e di ipotensione ortostatica. La neurolettizzazione rapida ad alta potenza farmacologica è controindicata nei pazienti con delirium e/o altre patologie psicorganiche in quanto l’effetto sedativo e anticolinergico può esacerbare la condizione di base. È ugualmente controindicata nei pazienti con intossicazione da alcool o da altri farmaci sedativi, in quanto i neurolettici possono ridurre ulteriormente il livello di coscienza. Inoltre è da sottolineare che la comparsa di sintomi extrapiramidali, quali acatisia, può indurre un effetto paradosso con incremento della agitazione e del comportamento violento. 2. Neurolettizzazione rapida a bassa potenza farmacologica (in cui vengono utilizzati neurolettici a bassa potenza farmacologica, quali clorpromazina, tioridazina, mesoridazina). La neurolettizzazione rapida a bassa potenza farmacologica a basse dosi prevede l’uso di 25 mg intramuscolo di clorpromazina ogni 4 ore sino ad una dose giornaliera di 150 mg. La neurolettizzazione rapida a bassa potenza farmacologica ad alte dosi prevede l’utilizzo di 75 mg di clorpromazina intramuscolo ogni 4 ore sino ad ~ 155 ~ una dose massima giornaliera di 400 mg intramuscolo. Per quanto concerne le precauzioni, è opportuno provvedere ad un monitoraggio continuo dei segni vitali (respirazione, polso e pressione arteriosa)]. 8.1.2. Benzodiazepine: L’uso sistematico delle benzodiazepine nel trattamento acuto del paziente violento è controverso in termini di efficacia ed effetti collaterali. Per quanto concerne l’efficacia, l’esperienza clinica ha dimostrato che in alcuni casi, seppur utilizzate a dosi adeguate, non inducono l’effetto terapeutico desiderato in ragione di una estrema variabilità soggettiva nel metabolismo. Inoltre alcuni Autori sono particolarmente critici sull’uso delle benzodiazepine, a causa della possibile comparsa di effetti paradossi (discontrollo, agitazione, aggressività). Infine, a causa della loro possibile interazione con sostanze additive (ad es. alcool) e/o con altri farmaci sedativi possono incrementare la depressione del SNC (Tupin, 1987). Tuttavia, un uso accurato permette un utilizzo nel trattamento acuto del paziente violento con soddisfacenti risultati. Il farmaco di prima scelta è il lorazepam, in ragione di alcune caratteristiche quali l’assorbimento, la rapidità di azione, l’efficacia, l’emivita. La via di somministrazione preferita è quella intramuscolare. L’assorbimento, dopo somministrazione intramuscolare, è rapido e sicuro; l’effetto sedativo compare entro un’ora e permane a lungo, l’emivita (circa 12 ore) non crea problematiche di accumulo. Una dose tra i 2-4 mg intramuscolo di lorazepam (ripetibile ogni 4-6 ore) è spesso sufficiente per un controllo dell’aggressività nella fase acuta. Dopo la fase acuta, è consigliato un dosaggio più basso (in associazione o no ai neurolettici) non superiore ai 10 mg/die suddiviso in tre somministrazioni. ~ 156 ~ 8.1.3. Barbiturici: I barbiturici possono essere utilizzati nel trattamento di emergenza del paziente violento, in funzione del loro sicuro effetto sedativo, della rapidità di azione, della possibilità di somministrazione (orale, intramuscolo, endovenosa). Tuttavia l’esistenza di un margine molto ristretto tra l’effetto sedativo e la depressione respiratoria ne limita l’utilizzo a casi eccezionali. L’effetto collaterale principale è costituito dalla depressione del SNC e dalle possibili interazioni con altri farmaci depressogeni del SNC (Tupin, 1987). Il farmaco di prima scelta è il sodio amobarbital. La via di somministrazione preferita, in funzione della sicurezza, è quella intramuscolare. Una dose tra i 150-300 mg risulta normalmente efficace nella maggioranza dei casi. Numerosi Autori tuttavia relegano l’utilizzo del sodio amobarbital ai soli casi di estrema urgenza, comunemente viene preferito l’uso del lorazepam in associazione ai neurolettici. 8.2. INTERVENTO FARMACOLOGICO A LUNGO TERMINE L’intervento farmacologico a lungo termine ha come base un’accurata diagnosi e come obiettivo il trattamento delle condizioni mediche e psichiatriche che sottendono il comportamento violento. La semplice induzione di sedazione (strategia basilare dell’intervento farmacologico in situazioni di emergenza) e/o soppressione di un sintomo, senza una adeguata diagnosi, generalmente non è indicata per un trattamento a lungo termine e non risulta efficace. Il trattamento farmacologico a lungo termine si avvale di una molteplicità di farmaci in considerazione delle differenti patologie che si trovano in relazione al comportamento violento, delle differenti modalità di somministrazione, degli effetti collaterali a breve e lungo termine (Tab. 10 pag.165) ~ 157 ~ 8.2.1. Farmaci antipsicotici (tipici e atipici): I farmaci antipsicotici tipici (neurolettici) vengono comunemente usati nel trattamento a lungo termine dei pazienti violenti, la cui aggressività è direttamente legata a disturbi della ideazione e/o della percezione (delirio, allucinazioni). In particolare l’uso dei neurolettici risulta efficace nel trattamento del comportamento violento degli schizofrenici paranoidi (Link, Stuve, 1994). Vengono inoltre usati in altre patologie psichiatriche (mania, disturbi della personalità, disturbi della condotta negli adolescenti, demenza, ecc.), laddove elementi quali l’agitazione psicomotoria, l’ostilità, l’instabilità emotiva, l’eretismo psichico sono in stretta relazione con il comportamento violento. L’uso dei neurolettici nel trattamento del paziente violento con ritardo mentale è controverso: l’utilizzo a lungo termine dei neurolettici in tali pazienti aumenta il rischio di comparsa di effetti collaterali, quali la discinesia tardiva, pertanto l’indicazione rimane per i soli casi in cui una sintomatologia psicotica faccia parte del quadro clinico. I farmaci di prima scelta sono l’aloperidolo e la flufenazina in ragione della loro facilità di somministrazione, della efficacia terapeutica, della sicurezza in termini di effetti collaterali. Inoltre, ove compaiono problemi di compliance (evento non raro in una terapia a lungo termine), è possibile ricorrere alle forme depot. Una terapia a lungo termine con neurolettici può avvalersi di dosi di aloperidolo tra 0,5-2 mg (per sintomi moderati) e 3-5 mg (per sintomi imponenti) ogni 8-12 ore sino ad un massimo di 15 mg/die; la dose di mantenimento generalmente non supera gli 8 mg/die; nei casi di cronicità della malattia, possono essere necessarie dosi superiori (dose di mantenimento di 20 mg/die). ~ 158 ~ Per quanto concerne l’utilizzo dell’aloperidolo in forma depot (nei casi in cui le condizioni cliniche lo consentano) viene utilizzata una dose iniziale 10-15 volte l’equivalente della dose giornaliera utilizzata, incrementabile, se necessario, sino ad un massimo di 100 mg. Generalmente una somministrazione ad intervalli mensili risulta efficace, suscettibile tuttavia di variazioni (di frequenza e di dose) in base alle necessità cliniche. Per quanto concerne la flufenazina, vengono utilizzate dosi iniziali di 2,5-10 mg/die, per passare successivamente, quando la sintomatologia è sotto controllo, a dosi di 1-5 mg/die. La preparazione depot è somministrata alla dose iniziale di 12,5 mg, e successivamente 25 mg ogni 2-3 settimane. La dose massima di mantenimento non dovrebbe superare i 100 mg ogni 2-3 settimane. Qualora la presenza di una eccessiva sedazione o di effetti collaterali renda problematica la prosecuzione della terapia, la scelta può ricadere sui neurolettici a bassa potenza farmacologica, in particolar modo la clorpromazina, alla dose di 25-100 mg ogni 4 ore (dose media di 300-800 mg/die) risulta efficace in numerosi casi. Per quanto concerne i farmaci antipsicotici atipici, numerosi studi hanno sottolineato l’efficacia della clozapina nel trattamento del comportamento violento in pazienti schizofrenici (Wilson, 1992; Ratey et al., 1993; Volavka, 1995). In particolare Volavka (1995) ha rilevato l’efficacia della clozapina nel controllo dell’ostilità e dell’aggressività in pazienti schizofrenici resistenti al trattamento con neurolettici. La dose media giornaliera consigliata è di 300mg/die, raggiungibile nell’arco di tre settimane, a partire da una dose giornaliera di 25 mg. Il trattamento farmacologico a lungo termine con farmaci antipsicotici (tipici ed atipici) è causa di numerosi effetti collaterali di cui si deve tener conto ~ 159 ~ per poter garantire al paziente una sufficiente qualità di vita, oltre che una sicurezza in termini di controllo sintomatologico. Si rimanda all’ampia letteratura ed alle linee guida internazionali, per quanto concerne la specifica diagnosi, prevenzione e terapia degli effetti collaterali. Tuttavia pare utile segnalare che la sedazione, oltre che costituire un effetto collaterale, è spesso un effetto desiderato, in particolare modo nel trattamento del paziente violento. Tuttavia, una sedazione prolungata nel tempo, oltre che diminuire la qualità di vita del paziente (posizionandolo in una sorta di “contenzione farmacologica”), può influenzare negativamente la compliance del paziente, aumentando il rischio di “drop-out”. Tale inconveniente può, in parte, essere ovviato con l’utilizzo di una singola dose serale che ha il vantaggio di diminuire il tempo diurno di sedazione e consentire una qualità di vita accettabile. 8.2.2. Farmaci ansiolitici: Nella pratica clinica, le benzodiazepine, pur trovando una valida applicazione nel trattamento delle situazioni di emergenza,non hanno una larga applicazione nel trattamento a lungo termine del paziente violento, in ragione della possibile comparsa di fenomeni, quali abuso, dipendenza, tolleranza, astinenza. Sono stati descritti inoltre casi di incremento dell’aggressività (in pazienti trattati a lungo termine con benzodiazepine) che ne limitano ulteriormente l’utilizzo. 8.2.3. Farmaci anticonvulsivanti: Numerosi studi indicano l’efficacia di alcuni farmaci anticonvulsivanti nel trattamento a lungo termine di pazienti psichiatrici con comportamento violento. Tale efficacia inoltre non pare limitata ai soli casi con alterazioni EEG cliniche e subcliniche, ma pare coinvolgere una più ampia varietà di pazienti. ~ 160 ~ In particolare per quanto concerne la carbamazepina, studi clinici condotti su pazienti con comportamento violento e diagnosi di schizofrenia, disturbi della condotta, disturbi di personalità, disturbo mentale organico (Luchins, 1984; Neppe, 1981) hanno dimostrato un decremento del comportamento violento durante il trattamento. La dose giornaliera consigliata oscilla tra i 600- 1.200 mg, suddivisa in tre somministrazioni. Per quanto concerne gli effetti collaterali, durante il trattamento con carbamazepina, vengono riportate alterazioni della crasi ematica e della funzionalità epatica, pertanto tali parametri vanno controllati e monitorizzati prima e durante il trattamento. Effetti collaterali di tipo extrapiramidale (distonia, discinesia, ecc.) sono rari e scompaiono con l’interruzione o la diminuzione del dosaggio. Altri anticonvulsivanti sono stati utilizzati nel trattamento del paziente violento. La difenilidantoina è risultata efficace nel trattamento dell’aggressività di differenti tipi di pazienti (bambini con grave ritardo mentale, adulti non epilettici, ma con anomalie EEG, pazienti con “episodic discontrol syndrome”). L’acido valproico (Maier, 1993) si è dimostrato efficace nel controllo del comportamento violento di pazienti con disturbo bipolare o schizoaffettivo, la dose giornaliera è di 750-3.000 mg. 8.2.4. Farmaci B-bloccanti: Per quanto concerne l’utilizzo dei farmaci B-bloccanti nel trattamento del comportamento aggressivo, numerosi Autori riportano i risultati di alcuni studi sull’efficacia del propanololo in pazienti dal comportamento violento con grossolane alterazioni organiche cerebrali (secondarie a trauma cranico, tumori, alcolismo, encefalite, corea di Huntington, demenza, morbo di Wilson, psicosi di Korsakoff, ritardo mentale) (Silver, Yudofsky, 1985). Tali studi hanno riguardato, in prevalenza, pazienti che non hanno risposto a precedenti terapie con altri farmaci anticonvulsivanti, litio). ~ 161 ~ (neurolettici, ansiolitici, In altri studi viene segnalata l’efficacia del propanololo, utilizzato in associazione ai neurolettici, nel trattamento di pazienti schizofrenici con comportamento violento. La dose suggerita è di 20 mg/tre volte al giorno, con incremento fino a 60 mg/tre volte al giorno. L’effetto terapeutico non è immediato e compare dopo alcuni giorni; è necessario un trattamento di almeno 8 settimane prima di rilevare una non-risposta al farmaco. Se il paziente riceve una contemporanea terapia a base di neurolettici, è opportuno un monitoraggio costante dei livelli ematici di questi ultimi, in quanto il propanololo ne causa un incremento. La sospensione deve rispettare una gradualità con decremento di 20 mg al giorno. Gli effetti collaterali includono ipotensione e bradicardia, tuttavia vengono riportati anche casi di depressione del tono dell’umore e sedazione. L’inizio della terapia deve essere preceduto da un esame clinico che escluda la presenza di controindicazioni al trattamento (malattie ostruttive polmonari, asma bronchiale, ecc.). Altri B-bloccanti utilizzati sono il nadololo, alla dose di 80-160 mg/die, in pazienti schizofrenici aggressivi (schizofrenia paranoide), ed il metoprololo alla dose di 200-300 mg/die in pazienti aggressivi con lesioni organiche cerebrali. 8.2.5. Litio: Una terapia a lungo termine con litio trova la principale indicazione nella prevenzione del comportamento violento associato agli episodi maniacali nelle sindromi bipolari. Tuttavia, l’uso del litio si è dimostrato efficace anche nel trattamento del comportamento violento associato ad altre condizioni psichiatriche (ritardo mentale, sindromi organiche cerebrali, traumi cranici, schizofrenia, disturbi di personalità, disturbi della condotta) (Volavka, 1995). Infine, numerosi studi sottolineano l’efficacia del litio nel trattamento del comportamento violento di individui non psicotici in stato di detenzione. ~ 162 ~ La terapia con litio deve essere preceduta da un esame medico- clinico (confortato dagli esami di laboratorio) con particolare attenzione alle patologie renali, tiroidee, paratiroidee, cardiache, metaboliche. Il livello plasmatico terapeutico per un controllo del comportamento violento è compreso tra 0,7 e 1,0 mEq/litro. La dose iniziale è di 300 mg due volte al giorno di carbonato di litio, incrementabile a 300 mg tre o quattro volte al giorno. Il livello plasmatico è controllabile dopo 12 ore dall’ultima somministrazione. Una volta stabilizzatosi il controllo va ripetuto una volta al mese per i primi sei mesi di trattamento e successivamente ogni due o tre mesi. Rimandando alla letteratura per quanto concerne la complessità degli effetti collaterali e dei sintomi di intossicazione, pare opportuno segnalare che un trattamento a lungo termine con litio deve prendere in considerazione la possibilità di danni renali e, sebbene raramente, deficit neurologici persistenti. Inoltre, un trattamento concomitante con neurolettici richiede un monitoraggio dei livelli ematici di questi ultimi. 8.2.6. Farmaci antidepressivi: L’uso degli antidepressivi trova particolare indicazione nelle forme di aggressività legata a cambiamenti dell’umore. Paradossalmente infatti alcuni pazienti depressi (oltre che presentare una auto aggressività con rischio suicidario) presentano un’aggressività “esplosiva” legata all’irritabilità. Inoltre il crescente interesse per gli antidepressivi nel trattamento del comportamento violento si basa sul ruolo che il sistema serotoninergico gioca nella modulazione dell’impulsività e del comportamento aggressivo (Coccaro, 1989). In particolare, tra gli antidepressivi utilizzati nel trattamento del comportamento violento, l’amitriptilina ed il trazodone si sono dimostrati ~ 163 ~ efficaci nel trattamento di pazienti con danno organico cerebrale e comportamento violento. Tuttavia, alcuni studi segnalano anche la comparsa di ostilità ed aggressività, dopo trattamento con triciclici, in pazienti con diagnosi di depressione e disturbo borderline di personalità. La fluoxetina si è dimostrata efficace, in termini di decremento del comportamento violento, in pazienti con disturbo di personalità ed in pazienti con depressione unipolare. Un trattamento a lungo termine con antidepressivi, in particolar modo con triciclici, richiede un monitoraggio continuo per la possibile comparsa di effetti collaterali (cardiovascolari, anticolinergici, ecc.). 8.2.7. Farmaci psicostimolanti: L’uso di psicostimolanti nel trattamento del paziente con comportamento violento è allo stato attuale controverso: infatti se da una parte alcuni studi riportano l’efficacia dell’utilizzo di psicostimolanti (amfetamina) nel trattamento del comportamento violento in alcuni tipi di pazienti (con diagnosi di disturbo da iperattività e disturbo di personalità), altri ne evidenziano il grave rischio, nello stesso tipo di pazienti, dell’instaurarsi di fenomeni di abuso, come risultato di ciò, labilità emotiva, iperattività, agitazione psicomotoria, aggressività, attività delirante. ~ 164 ~ Tab. 10 - Terapia farmacologica del paziente violento. 1. Neurolettizzazione rapida 2. Benzodiazepine 3. Barbiturici 1. Neurolettici (tipici, atipici, depot) 2. Anticonvulsivanti 3. B-bloccanti 4. Litio 5. Antidepressivi ~ 165 ~ ~ 166 ~ CAPITOLO 9: ASPETTI DEONTOLOGICI NEL TRATTAMENTO DEL PAZIENTE VIOLENTO Nella valutazione e gestione del paziente violento, lo specialista non può ignorare la possibilità di poter essere chiamato a rispondere del proprio operato nei confronti di principi deontologici e medico-legali che devono regolare la professionalità del suo agire. Ignorare questi principi non solo può esporre l’operatore a procedimenti disciplinari oppure più francamente a procedimenti giudiziari civili o penali per negligenza, imperizia o imprudenza, ma anche attraverso ingombranti fantasmi di impotenza (“la legge, la deontologia, ecc. mi impediscono di agire”), di onnipotenza (“sono libero di agire come meglio credo e nessuno può accusarmi”), alterare il rapporto psichiatrico di diagnosi e terapia o più globale di valutazione e gestione del paziente violento. In ragione soprattutto di un corretto ed adeguato rapporto clinico professionale col paziente violento, saranno prese in considerazione alcune osservazioni deontologiche di importanza medico-legale. In primo luogo, la prognosi del comportamento violento non è funzionale se gestita in termini dicotomici ed apodittici di positività o negatività (“questo paziente commetterà atti violenti”; “quest’altro paziente non commetterà atti violenti”), ma deve essere modulata sulla estrema variabilità e non facile prevedibilità di ogni singolo caso clinico, tenendo altresì conto della multifattorialità che conduce al comportamento violento (prognosi differenziate, sotto l’aspetto clinico e di responsabilità civile e penale, quali ad es. la generica, condizionale o imminente) . Egualmente e non solo sul piano giuridico per tutelare la propria professionalità, ma anche per una migliore penetranza clinica ed una maggiore incidenza terapeutica del caso clinico di violenza, è utile che le decisioni operative sul piano medico e sociale del operatore siano oggetto di motivazioni adeguate obiettivamente giustificabili, espresse in modo ~ 167 ~ anche collegiale e siano documentate per iscritto. Infine, è da sottolineare la necessità per lo psichiatra anche sotto il profilo etico e professionale, non solo di rispettare, quanto possibile, il segreto professionale, ma anche di rinvenire ed utilizzare modalità tecniche e cliniche per salvaguardare contemporaneamente potenziali vittime del paziente in terapia (Tab. 11 pag. 178). 9.1. PROGNOSI DEL COMPORTAMENTO VIOLENTO. GENERICA, CONDIZIONALE, IMMINENTE Allo stato attuale non esistono criteri (statistici, clinici, biochimici, ecc.) obiettivi e validi per una prognosi certa del comportamento violento nell’ambito della malattia mentale. È tuttavia compito dello specialista cercare di identificare il paziente che potrà commettere agiti di violenza e mettere in atto misure di prevenzione o di neutralizzazione adeguate sia di ordine farmacologico che psicoterapico. La prognosi psichiatrica del comportamento violento può essere generica, condizionale o imminente. Si tratta di prognosi generica quando il paziente presenta sintomi psichiatrici aspecifici di un probabile comportamento violento non ancora iniziato in modo concreto. Questa sintomatologia a livello statistico non ha valore significativo per una obiettiva previsione futura. Ad esempio un soggetto schizofrenico con delirio strutturato a contenuto persecutorio può in linea di principio passare all’azione con comportamenti violenti verso i supposti persecutori. Tuttavia, l’esperienza clinica dimostra che sono statisticamente assai limitati i soggetti schizofrenici con deliri a contenuto persecutorio che in realtà passano all’azione violenta su persone. Nel caso di prognosi generica, la capacità di previsione dello psichiatra è assai limitata e soggetta a molti errori con “falsi positivi” (previsioni di azioni violente che in realtà non avverranno) e “falsi negativi” (mancata previsione di fatti violenti avvenuti in realtà). Tuttavia, anche nel caso di prognosi ~ 168 ~ generica, non possono essere tralasciati importanti provvedimenti farmacologici e psicoterapici (ad es. ridurre l’attività delirante con farmaci deliriolitici, ecc.). Nel caso di prognosi condizionale, il comportamento violento, non ancora iniziato in modo concreto, può essere, sotto il profilo clinico e statistico, significativamente legato ad uno specifico “sintomo” o a specifiche “costellazioni di sintomi” scatenanti. Ad esempio un soggetto con un disturbo dipendente di personalità può, in stato di ebbrezza da abuso di bevande alcoliche, presentare comportamenti violenti in persona di figure di autorità. Altre volte la prognosi condizionale non è legata ad uno specifico “sintomo” ma ad una specifica “costellazione di sintomi” scatenanti. Può essere considerato significativamente probabile un comportamento violento se ad esempio un soggetto schizofrenico con delirio a contenuto persecutorio presenta unitamente a questo sintomo (osservabile): 1. uno stato di agitazione psicomotoria, 2. oltre due notti trascorse insonni ed in stato eretistico, 3. “minacce calde”, 4. chiaramente identificata una vittima, 5. precedenti di aggressione sulle persone per percepiti soggettivi e contesti sociali analoghi all’attuale. Non si tratta in questo casi di “sintomi” isolati, ma di specifiche “costellazioni di sintomi”, che nella pratica clinica, criminologica e forense si sono rivelate statisticamente significative nell’ambito della schizofrenia con la commissione di passaggi all’atto violento. Nella prognosi condizionale lo psichiatra è in grado, con maggior precisione della prognosi generica, di isolare sotto il profilo psichiatrico e diagnostico, ~ 169 ~ di segnalare a chi di competenza, e di agire in prima persona a livello preventivo,su specifici sintomi o su specifiche costellazioni di sintomi scatenanti il comportamento violento. Infine, nella prognosi imminente, il comportamento violento del paziente è già iniziato in modo concreto ed è richiesto allo psichiatra un intervento rapido in termini di neutralizzazione di dinamiche di agiti violenti. Prognosi imminente di comportamento violento può essere formulata in persona di un soggetto affetto da psicosi maniacale che, in stato di violenta agitazione psicomotoria, inizia a percuotere la porta del servizio di psichiatria, esprimendosi ad alta voce, con minacce adeguate e calde in crescendo, richiedendo di essere prontamente dimesso dal reparto ove è stato ricoverato contro la propria volontà. La prognosi imminente si riferisce anche a casi meno manifesti del precedente, che possono presentare difficoltà diagnostiche. Ad esempio, la prima fase dell’“omicidio passionale da separazione” è costituita da un profondo stato depressivo con tendenze suicidarie che caratterizza il soggetto abbandonato dal compagno o dalla compagna. In questa fase lo psichiatra può diagnosticare uno stato depressivo reattivo e mettere in atto strategie terapeutiche per evitare il suicidio del paziente. Nella realtà clinica, a questa prima fase in cui il soggetto abbandonato dirige l’aggressività fisica verso se stesso, segue in breve spazio di tempo, e spesso con carattere improvviso, la seconda fase e cioè la direzione dell’aggressività verso il compagno o la compagna che l’hanno abbandonato. La mancata conoscenza da parte dello psichiatra di queste due fasi cliniche (prima auto aggressività suicidaria e poi eteroaggressività omicidaria), la fuorviante depressione con tendenze anticonservative ecc. possono essere d’ostacolo allo psichiatra nell’adottare interventi farmacologici e psicosociali adeguati alla protezione non solo del paziente, ma anche delle potenziali vittime. ~ 170 ~ Nell’ambito della prognosi imminente del comportamento violento, lo psichiatra presenta maggiori capacità di prevedere agiti di violenza rispetto alla prognosi generica e condizionale e può quindi disporre, soprattutto in stato di necessità, con maggiore giustificazione, non solo etica, ma anche medico-legale, di provvedimenti di tipo restrittivo (della libertà personale), intrusivo (con farmaci) e psicosociale (di interdizioni e divieti) nei confronti del paziente. La necessità di porre una prognosi del comportamento suddivisa in generica, condizionata ed imminente, non solo rispetta la realtà clinica, molto più complessa di una prognosi dicotomica del comportamento violento, ma anche permette di agire con valutazioni, diagnosi e provvedimenti più specifici, incivisi ed adeguati, e di declinare od assumere responsabilità professionali, etiche e medico-legali più differenziate in relazione allo specifico caso clinico. 9.2. TRATTAMENTO DEL COMPORTAMENTO VIOLENTO: MOTIVATO, COLLEGIALE, DOCUMENTATO PER ISCRITTO L’operatore, quando entra in contatto col paziente violento, non può esimersi dal mettere in atto numerose decisioni operative. Tra queste ultime si ricorda il trattamento sanitario obbligatorio, la contenzione totale o parziale, l’isolamento, la somministrazione non accettata di farmaci, la dimissione o l’ospedalizzazione prolungata del paziente con un comportamento violento nell’anamnesi, ecc. A prescindere da specifiche indicazioni a termine di legge, per alcune di queste decisioni operative (ad es. il Trattamento Sanitario Obbligatorio, il giudizio di pericolosità in ambito di perizia legale, ecc.) sono da considerare almeno tre regole fondamentali per un operare clinico corretto: la motivazione adeguata delle decisioni, la collegialità e condivisione del processo decisionale con altri operatori nel campo della salute mentale e la documentazione di quanto precede per iscritto. ~ 171 ~ In primo luogo, le decisioni dello psichiatra per avere valore di prudenza, diligenza e perizia, debbono essere, per ogni singolo caso specifico, adeguatamente motivate. Ad esempio nel caso di una decisione di contenzione fisica di un paziente, devono essere precisati: • la necessità dell’intervento; • il metodo usato; • le avvertenze cliniche per una adeguata applicazione del metodo di contenzione. Debbono inoltre essere segnalate le attenzioni professionali specifiche ad ogni singolo caso clinico per la valutazione dei rischi legati alla contenzione sia di natura fisica (ad es. monitoraggio del paziente per evitare piaghe da ostacolo alla circolazione, rigurgiti da posizioni supine coatte prolungate, disturbi alla termoregolazione per inadeguatezza di ventilazione dell’ambiente, ecc.), che psichici (ad es. disumanizzazione del rapporto col paziente, uso punitivo della contenzione, innesco di dinamiche sadiche di controllo tra paziente e curanti, creazione di un circolo vizioso di aggressione-contenzione-aggressione, evitamento di profezie autoalimentantesi, ecc.) In particolare, poi, debbono essere motivate le decisioni dello psichiatra alla base di un giudizio prognostico di probabile comportamento violento futuro. In questi casi deve essere in primo luogo precisato e giustificato il tipo di prognosi (generica, condizionale o imminente). In secondo luogo debbono essere considerati, come una griglia di analisi, i dati obiettivi, criminologici, vittimologici e anamnestici; i fattori statici situazionali e dinamici; gli aspetti psichiatrici e biologici del paziente. ~ 172 ~ Per soddisfare un minimo di esigenze di corretta pratica professionale in tema di prognosi del comportamento violento, non possono non essere oggetto specifico di valutazione: 1. le caratteristiche cliniche della violenza attuale; 2. l’obiettivo della violenza attuale; 3. la adeguatezza delle minacce di violenza attuali; 4. la qualità e quantità della violenza passata con particolare riferimento ai contesti psicosociali scatenanti; 5. i sintomi psichiatrici legati al passaggio all’azione violenta. In secondo luogo, le decisioni psichiatriche in tema di comportamento violento è utile sano assunte con modalità collegiali attraverso il parere di più persone non necessariamente tutte appartenenti al settore specifico della psichiatria. Ad esempio la dimissione di un paziente, che ha una lunga anamnesi di violenza sulle persone, può essere giustificata non solo dal parere del medico responsabile ma anche da altri medici che operano nella stessa unità o nello stesso ospedale. A questa condivisione di pareri motivati possono altresì partecipare, per quanto concerne le loro specifiche competenze, altri operatori nel campo della salute mentale. Possono essere infatti allegati rapporti psicosociali sul microcosmo sociale del paziente, sulle dinamiche psicologiche familiari, sulle attività riabilitative cognitivo-comportamentali specifiche in tema di comportamento violento, sulla disponibilità ed aderenza al trattamento farmacologico, ecc. La funzione di operare con decisioni collegiali, oltre al vantaggio di una eventuale diluizione delle responsabilità sia in termini etici e di procedimenti civili o penali in tema di risarcimento del danno, sia di visibilità vittimologia ~ 173 ~ dello psichiatra in relazione a pazienti vendicativi e persecutori in cerca un unico capro espiatorio, offre anche il primario vantaggio di una valutazione clinica del paziente più completa di informazioni obiettive e più critica a distorsioni soggettive di natura controtransferale. Infine è da rilevare (in relazione alla necessità di ricostruzione di fatti per motivi giudiziari, assicurativi, assistenziali, scientifici, didattici, ecc.) la necessità di una documentazione scritta il più possibile esauriente del caso clinico (non solo in termini tutelativi della professionalità dello psichiatra). 9.3. PROTEZIONE DI VITTIME POTENZIALI E SEGRETO PROFESSIONALE Non raramente lo specialista che ha in terapia un paziente violento ritiene di trovarsi nel dilemma di dover effettuare una scelta difficile ed in ogni caso frustrante: tradire il segreto professionale ed avvertire la vittima potenziale delle segrete intenzioni violente del paziente, oppure non tradire il segreto professionale e permettere così che un innocente sia oggetto di violenza anche omicidaria da parte del paziente. Il dilemma così presentato (ed ancora oggetto di controversie etiche e giuridiche) non sempre è realistico. Nella concretezza dell’agire clinico quotidiano, sono presenti numerose altre possibilità per proteggere le potenziali vittime e nel contempo non tradire il segreto professionale, tanto nei suoi risvolti giuridici quanto in quelli terapeutici della relazione medico-paziente. Sarà fatto un breve cenno a queste tecniche di intervento. 1. Contratto terapeutico specifico. L’operatore che tratta col paziente violento sin dall’inizio del rapporto non può non precisare al suo assistito che ha il dovere di mantenere il segreto professionale (ad eccezione di specifici casi quali ad es. il colloquio in corso di perizia psichiatrica, ecc.), ma che ha altresì il dovere di proteggere da danni fisici oltre al paziente stesso, anche altre vittime potenziali. ~ 174 ~ Questa precisazione iniziale è indispensabile non tanto a livello giuridico quanto a livello terapeutico, per poter mantenere un rapporto non solo chiaro, ma responsabilizzante concernente sia il paziente che lo psichiatra in tema di eventuali provvedimenti preventivi per agiti potenziali di violenza. 2. Separazione spaziale dei protagonisti. Un eventuale atto di violenza nei confronti di una vittima specifica può essere, almeno a breve termine, evitato attraverso la separazione spaziale dei protagonisti aggressore e vittima. La dimissione del paziente ad esempio può essere ritardata: vi sarà così più tempo per una terapia farmacologica e psicoterapica, per sensibilizzare i familiari, ecc. Può essere, qualora corrisponda ai principi attuali di legge, invocato (per ragioni psichiatriche e non per ragioni di controllo sociale) un trattamento sanitario obbligatorio che può essere a sua volta prolungato con adeguata giustificazione nel tempo. Se si tratta di protagonisti di probabili atti di violenza istituzionalizzati possono essere adottate, in stato di emergenza, misure di isolamento, contentive totali o parziali, trasferimento in altre unità, ecc. Nel caso di protagonisti in ambiente libero, vere e proprie separazioni spaziali anche con lunghe distanze chilometriche o residenze non conosciute, possono rivelarsi, nel breve termine, di particolare utilità in stati di emergenza. Si tratta di decisioni operative che hanno lo scopo di evitare atti di violenza a brevissimo e breve termine ma che altresì possono permettere l’inizio ed un eventuale perfezionamento di più valide azioni preventive o neutralizzanti le dinamiche di violenza. 3. Prevenzione. È possibile mettere in atto una prevenzione di tipo a breve e a lungo termine. Le prevenzioni a breve termine consistono nell’individuare alcuni passaggi obbligati della possibile dinamica di violenza ed interromperli (ad es. il paziente può essere privato di armi che gli vengono ritirate e nascoste, può essere accompagnato da una persona di riferimento in grado di ~ 175 ~ neutralizzare i suoi eventuali agiti aggressivi, può essere sottoposto ad un più adeguato intervento farmacologico per sedare stati di agitazione psichica e motoria o vivacità disturbanti di contenuti deliranti, ecc.). La prevenzione strutturata nel tempo richiede specifiche tecniche terapeutiche che possono essere messe in atto da personale specializzato e con un paziente collaborante (autocoscienza della propria violenza, autoidentificazione dei passaggi all’agire violento, richiesta volontaria di aiuto psicologico, chiarificazione del legame con la vittima potenziale, ecc.). 4. Sensibilizzazione dei familiari. Il colloquio con i familiari del paziente può essere annoverato tra i compiti del equipe curante. Nel corso del colloquio l’operatore senza ricorrere ad affermazioni in contrasto col segreto professionale (“il paziente mi ha riferito che...”) ma utilizzando timori, paure, fantasmi, ecc. espresse ed elaborati dagli stessi familiari in tema di possibilità di atti violenti può effettuare una adeguata messa a conoscenza dei presenti, non solo a livello razionale, ma anche emotivo della reale capacità di agiti violenti da parte del paziente (“il suo timore che il paziente torni a casa e possa compiere atti aggressivi, gravi, è una possibilità molto realistica che deve essere considerata seriamente... potrebbe essere utile come lei accennava a protezione di eventuali vittime...”). In non pochi casi è possibile per l’operatore nel corso del suo compito funzionale di raccolta di informazioni e di intervento terapeutico stabilire contatti anche con la famiglia della vittima. In questo caso la strutturazione adeguata di un colloquio può portare, senza violazione del segreto professionale, a risultati terapeutici specificamente mirati alla prevenzione della violenza anche su di una vittima specifica. 5. Sensibilizzazione della vittima. Non è compito impossibile,come insegna l’esperienza clinica in corso di trattamento di soggetti malati di mente violenti,ottenere dal paziente l’autorizzazione a parlare con la potenziale vittima. ~ 176 ~ Richieste dello psichiatra opportunamente calibrate sulla psicopatologia del paziente possono permettere un colloquio a due (operatore-vittima potenziale) o un colloquio a tre (operatore-paziente-vittima potenziale). Nel corso di questi colloqui la vittima può essere adeguatamente sensibilizzata sia a livello di informazione, sia a livello più profondo di emotività personale del tipo di percepito che il paziente può nutrire nei suoi confronti. Egualmente nel corso di questi colloqui possono essere valutate e poste in atto misure di tipo preventivo a possibili agiti di violenza. ~ 177 ~ Tab. 11 - Aspetti deontologici nel trattamento del paziente violento. Chiarificazione della qualità della prognosi del comportamento violento Giustificazione del trattamento del comportamento violento Protezione di vittime potenziali: Generica Condizionale Imminente Motivata Collegiale Scritta Contratto terapeutico specifico Separazione spaziale dei protagonisti Prevenzione a breve e a lungo termine Sensibilizzazione dei familiari Sensibilizzazione della vittima ~ 178 ~ CAPITOLO 10: STRUMENTI DI VALUTAZIONE DELL’AGGRESSIVITÀ La valutazione dell’aggressività risulta particolarmente aleatoria quando si basa su quanto il soggetto riferisce, come si verifica con gli strumenti di autovalutazione o con le scale compilate dall’osservatore sulla base dei dati ricavati dal colloquio. Più attendibile dovrebbe essere la valutazione del comportamento da parte di un osservatore esterno anche se, in realtà, anche l’osservazione pone alcuni problemi, primo fra tutti quello più strettamente legato alla natura stessa dell’aggressività che, generalmente, è un comportamento episodico, piuttosto che una condizione stabile o un comportamento abituale o frequente. Di solito, nel caso dei comportamenti episodici, la valutazione può essere effettuata sulla base dell’osservazione(segni) di un "frammento" del comportamento in questione, in quanto esso sarà, con buona probabilità, rappresentativo della condizione abituale del soggetto. Nel caso dell’aggressività, tuttavia, la normale osservazione clinica offre difficilmente l’opportunità di coglierne direttamente anche solo dei "frammenti"; spesso, solo un’osservazione del soggetto nel suo setting naturale e per un periodo sufficientemente protratto, può consentire di cogliere eventuali manifestazioni aggressive, anche se sporadiche. Si potrebbe pensare, in alternativa, ad una valutazione dell’aggressività in un setting sperimentale in cui, controllando e modificando la situazione e gli stimoli, il comportamento aggressivo possa essere in qualche modo provocato e quindi misurato. Esperienze in questo senso sono state fatte, ma restano limitate al campo della ricerca ed avrebbe poco senso (né sarebbe comunque agevole) trasferirle a quello clinico. Nonostante queste difficoltà e questi limiti, l’aggressività può essere indagata e valutata con risultati soddisfacenti, non soltanto mediante i classici questionari di personalità, ma anche attraverso questionari specifici; ~ 179 ~ inoltre, utilizzando le tecniche proiettive, l’aggressività può essere studiata anche quando non è espressa, quando investe i livelli più profondi. Poiché i soggetti con deficit intellettivi o disfunzioni organiche cerebrali possono manifestare, con buona frequenza, comportamenti aggressivi, nella valutazione dell’aggressività di questi soggetti può essere indicato l’uso di test di efficienza, come la Wechsler Adult Intelligence Scale WAIS (Wechsler, 1974) o il Bender Visual Motor Gestalt Test (Bender, 1938), anche se, naturalmente, i risultati migliori si ottengono impiegando i test, i questionari, le RS che indagano in maniera più mirata l’aggressività, sia essa espressa in maniera diretta o indiretta. Sono stati distinti gli strumenti: (Tab. 12 pag. 197-198) a). gli strumenti che valutano comportamentale o temperamentale); l’aggressività in generale (tratto b). gli strumenti che valutano l’aggressività in acuto, (aggressività agita); c). gli strumenti che valutano il rischio di violenza; d). gli strumenti che valutano l’aggressività in particolari categorie di soggetti ed in particolare nei bambini/adolescenti e nell’anziano. 10.1. VALUTAZIONE DELL’AGGRESSIVITÀ IN GENERALE Fra le scale per la valutazione dell’aggressività, quelle per l’aggressività in generale, quella intesa, cioè, come tratto temperamentale, sono senz’altro le più numerose (Tab. 12 pag. 197-198). 1. Uno dei primi strumenti formulati a questo scopo è certamente l’Hostility Scale — HoSca (Cook e Medley, 1954), una scala di autovalutazione costituita da 50 item, messa a punto originariamente per valutare le capacità degli insegnanti di interagire con gli studenti. Si trattava, in realtà, di un adattamento empirico del Minnesota Teacher Attitude Inventory, ~ 180 ~ effettuato allo scopo di amplificare la discriminazione fra i punteggi bassi e quelli elevati. Gli studi di validità di questa scala hanno dimostrato che le componenti primarie da essa misurate sono il cinismo e la sfiducia, anche se alcuni item sembrano misurare tendenze comportamentali opposte ed altri ancora sono indicativi di caratteristiche temperamentali diverse dall’ostilità. 2. Il Buss Durkee Hostility Inventory - BDHI (Buss e Durkee, 1957) è, probabilmente, uno dei questionari più conosciuti e più ampiamente utilizzati per la valutazione dell’aggressività. Lo strumento indaga non solo il tipo di aggressività, ma anche la modalità con cui viene manifestata, secondo l’ottica comportamentista. Gli atteggiamenti ed i comportamenti considerati, sono specifici e le situazioni che li provocano "universali" e gli item vengono espressi in modo tale da evitare che il dover ammettere un comportamento socialmente indesiderabile possa bloccare l’individuo. Lo strumento può essere impiegato per valutare tanto il comportamento attuale, quanto caratteristiche di tratto, e può valutare sia le valenze aggressive espresse sul piano comportamentale, sia quelle ostili non agite sul piano comportamentale. Gli item, dicotomi (Vero/Falso), definiscono sette tipi di condotte aggressive (Aggressività Diretta, Indiretta e Aggressività Verbale, Irritabilità, Negativismo, Risentimento e Sospettosità), la Colpa, l’Aggressività totale ed un Indice di inibizione/ disinibizione dell’aggressività, che è il risultato del rapporto fra aggressività totale e colpa. 3. Castrogiovanni e collaboratori hanno curato la traduzione e la validazione italiana dello strumento (noto in Italia col nome di Questionario per la Tipizzazione del comportamento Aggressivo - QTA (Castrogiovanni et al., 1982). Sulla base del concetto psicodinamico dell’ostilità come entità unitaria diretta all’interno (intrapunitiva) o all’esterno (extrapunitiva), è stato messo a punto l’Hostility and Direction of Hostility Questionnaire HDHQ (Caine et al., 1967). ~ 181 ~ Gli item, tutti derivati dall’MMPI, vanno a costituire 5 scale, tre extrapunitive (psicopatica, paranoide e isteroide) e due intrapunitive, (colpa e autocritica). La capacità delle 5 scale di differenziare diverse categorie diagnostiche, è una solida prova della validità e dell’attendibilità dell’HDHQ. Tutte le sottoscale correlano tra loro suggerendo la possibile esistenza di un generico fattore di ostilità. 4. La Novaco Anger Arousal Scale - NAAS (Novaco, 1975) è una scala composta da 80 item che descrivono situazioni potenzialmente capaci di provocare ansia ed il soggetto è chiamato a dire, per ciascuna di esse, in che misura egli ritiene che ciascuna situazione possa essere per lui provocante o lo porti ad arrabbiarsi. Poiché l’applicazione di una scala siffatta richiedeva molto tempo, ne è stata successivamente proposta una versione ridotta, di 30 item. 5. La Scala di Lagos (Lagos et al., 1977) propone 4 categorie di comportamenti violenti: verso le persone, verso gli oggetti, tentativi di violenza verso le persone ed aggressività verbale contro le persone. Per ogni categoria, la valutazione si articola su tre livelli di comportamento di violenza crescente: • nessuna violenza; • comportamenti che provocano paura (aggressioni verbali, tentativi di attacchi, aggressioni verso oggetti); • violenze verso le persone. 6. Informazioni sul comportamento aggressivo a lungo termine (partendo, addirittura, dall’infanzia), vengono fornite dal Brown-Goodwin Questionnaire - BGQ (Brown et al., 1979 e 1992). Mediante l’anamnesi medica e psichiatrica e l’osservazione del paziente, il BGQ definisce 9 categorie legate alla storia del comportamento aggressivo ~ 182 ~ individuale. Ognuna delle 9 categorie è valutata su una scala da 0 (non occorrenza) a 4 (eventi multipli). La scala, che presenta elevata validità, sembra utile nella valutazione di caratteristiche aggressive di tratto piuttosto che di stato. 7. Il Questionario Irritabilità-Ruminazione/Dissipazione - QI-R (Caprara, 1991) è la sintesi di due scale, la Scala di Irritabilità e la Scala di Ruminazione/Dissipazione, per la valutazione specifica di queste due condotte aggressive. La Scala di Irritabilità (Caprara, 1983) nasce da un tentativo di validazione sulla popolazione italiana del BDHI (Buss e Durkee, 1957). Misura la disposizione dell’individuo a reagire impulsivamente, polemicamente, offensivamente, alla minima provocazione ed alla minima contrarietà. Essa mira, quindi, a cogliere soprattutto la componente impulsiva della condotta aggressiva (ad es., "se sono irritato/a, non ammetto discussioni"; "a volte mi viene da gridare e dare pugni e calci per sfogarmi"; "ci vuole poco perché mi salti la mosca al naso"). Diversi studi ne hanno confermato la validità per la valutazione di quelle forme di aggressività indicate come "impulsive", caratterizzate sia dall’elevata eccitazione, sia dallo scarso controllo cognitivo sulla condotta e sulle sue conseguenze. La Scala di Ruminazione/Dissipazione misura la propensione dell’individuo a superare con maggiore o minore rapidità i sentimenti di rancore ed i desideri di ritorsione connessi alle offese subite (o che l’individuo crede di aver subito). Essa mira soprattutto a cogliere le componenti connesse all’elaborazione cognitiva che sottende la condotta aggressiva (ad es., "ricorderò sempre le ingiustizie subite"; "solo dopo anni non riesco a provare più rancore"; "quando mi fanno un torto me la lego al dito"; "ricordo i torti subiti anche dopo anni"). La scala si propone, quindi, come una valutazione della prospettiva temporale delle condotte aggressive. Studi successivi ne hanno confermato la validità per la valutazione di quelle forme di ~ 183 ~ aggressività nelle quali risulta dominante il ruolo della memoria, dell’intenzionalità, dei processi di valutazione, attribuzione e decisione, cioè di tutte le componenti connesse con l’elaborazione cognitiva. Il QI-R è costituito, come è stato detto, dalle due scale originali in versione ridotta. Per mantenere sotto controllo, per "contenere", se non proprio per evitare, i fenomeni dovuti al "response set" (risposte in serie), la tendenza, cioè, ad uniformare la propria modalità di risposta, che si manifesta quando si opera con questionari che vertono su dimensioni molto omogenee, sono stati inseriti in ciascuna scala 5 item di controllo. La Scala di Irritabilità ridotta è costituita da 15 voci delle quali 10 effettive e 5 di controllo. I 5 item di controllo sono: "non sono capace di mettere nessuno al suo posto, neanche quando sarebbe necessario", "non credo che esistano mai buone ragioni per ricorrere alla violenza", "raramente reagisco picchiando, anche quando qualcuno mi picchia per primo", "non mi piace fare scherzi di mano", "generalmente, se qualcuno mi manca di rispetto, sono portato/a a lasciar correre". La Scala di Ruminazione/Dissipazione ridotta è costituita anch’essa da 15 voci delle quali 10 effettive e 5 di controllo. I 5 item di controllo sono: "trovo facilità nell’instaurare buoni rapporti con gli altri", "mi capita di mangiarmi le unghie", "mi importa relativamente dei giudizi degli altri", "mi piace la gente che sa stare allo scherzo", "mi piace la gente spensierata". Ogni item viene valutato su una scala a 7 punti. Le alternative di risposta ed i relativi punteggi sono: "completamente VERO per me" = 7; "in buona misura VERO per me" = 6; "in una certa misura VERO per me" = 5; "in una certa misura FALSO per me" = 3; "in buona misura FALSO per me" = 2; "completamente FALSO per me" = 1. Le Scale di Irritabilità e di Ruminazione/Dissipazione possono essere utilizzate in vari ambiti. Il loro impiego nel settore della ricerca è confermato ~ 184 ~ da numerosi studi (Caprara e Pastorelli, 1989). Possono essere usate come strumenti di misura per la valutazione di determinanti della condotta aggressiva. Tali scale, per quanto non esauriscano la complessa fenomenologia aggressiva, ne colgono alcuni aspetti e cioè la tendenza a reagire impulsivamente e quella a nutrire sentimenti di rancore e di ritorsione. La Scala di Irritabilità risulta predittiva della condotta aggressiva in numerose situazioni sperimentali riconducibili al paradigma di Buss e correlata in diversi studi con varie dimensioni come l’Assalto, l’Aggressività Indiretta, l’Irritabilità, il Negativismo, l’Aggressività Verbale, l’Ansia Manifesta e quella Occulta (Caprara & Pastorelli, 1989). Anche la Scala di Ruminazione risulta predittiva della condotta aggressiva in situazioni sperimentali in cui, ad esempio, il soggetto viene offeso e in seguito gli è data la possibilità di rivalersi sul provocatore. La scala è risultata correlata con vari strumenti per la valutazione delle condotte aggressive e con il numero di arresti per crimini diretti contro le persone e contro la proprietà. 8. Un questionario di indubbia utilità nella documentazione e nella misurazione di specifici aspetti del comportamento aggressivo è l’Overt Aggression Scale - OAS (Yudofsky, 1986). È una scala basata sull’osservazione del soggetto durante un episodio aggressivo: l’osservatore, oltre a registrare i diversi comportamenti, deve prendere nota degli interventi effettuati in risposta all’episodio aggressivo. Se, tuttavia, il comportamento aggressivo ha delle fluttuazioni o se, come spesso accade, tende a diluirsi nel tempo, può essere difficile trovare le giuste risposte alla scala. Il personale paramedico che dovrebbe compilare l’OAS, inoltre, potrebbe non essere in grado di farlo nel corso dell’episodio. La scala si articola in quattro sezioni: Aggressività Verbale, Aggressività Fisica contro Oggetti, Aggressività Fisica Autodiretta e Aggressività Fisica ~ 185 ~ Eterodiretta; ogni sezione comprende 4 voci ognuna valutata in base alla gravità (mai; qualche volta; spesso; di solito; sempre). Dell’OAS sono state sviluppate numerose versioni modificate. 9. La Modified OAS - MOAS (Kay, 1988) fornisce una valutazione settimanale dell’aggressività, piuttosto che descrivere l’incidente critico di per sé. La MOAS parte da una lista di controllo comportamentale per arrivare ad un sistema di stima in 5 punti che rappresenta crescenti livelli di gravità. Include forme importanti di aggressività, come il tentato suicidio e l’intimidazione. Fornisce, inoltre, un punteggio totale che riflette la gravità globale dell’aggressività. 10. A differenza della OAS, non registra gli interventi effettuati. Un altro strumento di valutazione ricavato dalla OAS è la Retrospective Overt Aggression Scale - ROAS (Sorgi et al.,1991), uno strumento di eterovalutazione diretto a parenti o conoscenti del paziente ed allo staff che valuta il paziente. La ROAS è stata modificata sulla base della Nurse’s Observation Scale for Inpatient Evaluation - NOSIE (Honigfeld et al., 1966); le 16 classi o tipi di comportamento aggressivo sono state trasformate in una scala a 16 voci. La frequenza del verificarsi delle condizioni descritte da queste voci è valutata su una scala a 5 punti (da 0 a 4). Vengono registrate, inoltre, informazioni sul numero di volte (variabili da 0 a più di 10 volte) che si verifica un determinato comportamento aggressivo. La ROAS è strutturata per essere usata retrospettivamente ed impiegata come misura dell’aggressività, sia rispetto all’individuazione di determinate condotte aggressive, sia rispetto alla frequenza e gravità dei comportamenti aggressivi verificatisi nella settimana precedente e fornisce informazioni che ~ 186 ~ consentono di comprendere meglio i tratti di aggressività, di prevedere il comportamento aggressivo e di sviluppare modalità efficaci di trattamento. 11. La Staff OAS - SOAS (Palmstierna e Wistedt, 1987) valuta il grado e la frequenza dei comportamenti violenti e degli assalti in pazienti psichiatrici e psicogeriatrici. Sviluppata, come l’OAS, per un uso da parte dello staff ospedaliero, differisce da quella perché, invece che una lista di item, è un continuum a 4 punteggi articolato in 3 categorie (media, scopo e risultato) lungo il quale lo staff classifica tutti gli atti di aggressività. Il punteggio totale delle tre categorie definisce la gravità totale dell’evento aggressivo ed è a sua volta diviso in tre livelli: medio (2-5), moderato (6-8), e grave (9-12). La SOAS fornisce anche l’indice di "frequenza di aggressività individuale" che è determinato calcolando il numero totale di eventi aggressivi diviso il numero dei giorni di osservazione. 12. Il Cohen-Mansfield Agitation Inventory - CMAI (Cohen-Mansfield e Billing, 1986; Cohen-Mansfield, 1988) è stato originariamente proposto per la valutazione dell’agitazione dei pazienti anziani ricoverati. È composto da 29 item, valutati su di una scala a 7 punti (da "mai" a "diverse volte all’ora"), che vanno a costituire tre fattori, il comportamento aggressivo (ferire, percuotere, strattonare), il comportamento fisicamente non aggressivo (camminare avanti e indietro, manierismi ripetitivi, tentativi di allontanarsi) ed il comportamento verbalmente agitato (lamentele, urla, richieste costanti di attenzione). Da questa scala ne è stata ricavata una abbreviata di 14 item valutati su di una scala a 5 punti. L’uso del punteggio totale è sconsigliato essendo preferibile utilizzare i punteggi nei fattori. Il periodo preso in considerazione è rappresentato dalle ultime due settimane. La caratteristica principale del CMAI è il fatto di prendere in considerazione i comportamenti osservabili, escludendo ogni interpretazione degli stati ~ 187 ~ emozionali ed ogni riferimento causale. Lo strumento si è dimostrato molto affidabile in questa popolazione. 13. Creato allo scopo di definire la natura multidimensionale della collera, il Multidimensional Anger Inventory - MAI (Siegel, 1986) include item che riflettono particolari "dimensioni" della rabbia, come la frequenza, la durata, l’intensità, la modalità di espressione, l’atteggiamento ostile, il range delle situazioni scatenanti la reazione collerica. La dimensione "modalità di espressione" della rabbia contiene, a sua volta, forme diverse di collera: una definita "interna" ed una "esterna", l’aspetto "colpa", il "litigio" o "alterco" (cioè la discussione con rabbia). Il MAI è composto da 38 item, in parte originali ed in parte ripresi e adattati da strumenti preesistenti. Le dimensioni della rabbia sono: • frequenza (ad es.: "tendo ad arrabbiarmi più frequentemente degli altri"; "mi sorprendo di quanto spesso mi arrabbio"); • durata (ad es.: "quando mi arrabbio, resto arrabbiato per ore"); • intensità (ad es.: "alcune persone sembrano arrabbiarsi più di me nelle stesse circostanze"; "a volte mi sento più arrabbiato di quanto dovrei"); • modalità di espressione, suddivisa in 4 sottodimensioni: a) rabbia interna (ad es.: "covo rancore senza dirlo a nessuno"); b) rabbia esterna (ad es.: "quando sono arrabbiato con qualcuno glielo lascio capire"); c) ripensamento o "rimuginazione" (ad es.: "anche dopo avere espresso la mia rabbia ho delle difficoltà a dimenticare"); ~ 188 ~ d) colpa (ad es.: "mi sento in colpa ad esprimere la mia rabbia"); • atteggiamento ostile (ad es.: "la gente sparla di me alle mie spalle"; "la gente mi può dare fastidio solo standomi intorno"; "sto in guardia con le persone che sono più amichevoli di quanto mi aspettassi"); • range di situazioni scatenanti, che corrisponde all’item 38, articolato a sua volta in 9 voci: (ad es.: mi arrabbio quando... "...qualcuno mi abbandona", ..."la gente è sleale", ..."qualcosa blocca i miei piani", eccetera); due voci sono correlate con un’altra dimensione della collera, l’atteggiamento ostile e cioè "mi arrabbio quando devo prendere ordini da qualcuno meno capace di me" e "mi arrabbio quando devo lavorare con persone incompetenti". A ciascuna delle 38 affermazioni è attribuito un punteggio crescente (da "decisamente falso" = 1 fino a "molto vero" = 5) in base a quanto tale affermazione è descrittiva del soggetto cui il MAI è somministrato. 14. Lo State-Trait Anger Expression Inventory - STAXI (Spielberger, 1988) è una scala di autovalutazione che fornisce misure sintetiche, rappresentative dell’esperienza e dell’espressione della rabbia. È stato sviluppato con due scopi principali: 1 - disporre di un metodo per valutare le componenti della rabbia, che potesse essere usato nella diagnosi particolareggiata di personalità normali e non normali; 2 - disporre di uno strumento per misurarne le varie componenti, dato che la rabbia figura spesso tra le caratteristiche personologiche dei soggetti con disturbi quali l’ipertensione, l’infarto, il cancro. Nel concetto di esperienza di rabbia, come misurata dallo STAXI, sono comprese due principali componenti: la rabbia di stato e di tratto. ~ 189 ~ La rabbia di stato è definita come uno stato emotivo caratterizzato da sentimenti soggettivi di diversa intensità, che vanno da un moderato senso di fastidio o d’irritazione ad uno stato di furia e di rabbia, generalmente accompagnato da tensione muscolare e da attivazione del sistema nervoso autonomo. L’intensità varia in funzione di come si percepisce, per esempio, un’ingiustizia subita, o una minaccia, o un attacco da parte di altri, ed in funzione del grado di frustrazione che interviene per non aver raggiunto lo scopo verso cui si era diretti. La rabbia di tratto è, invece, la disposizione a percepire un gran numero di situazioni come fastidiose o frustranti, e la tendenza a rispondere a tali situazioni con più frequenti manifestazioni della rabbia di stato. Gli individui con alto grado di rabbia di tratto hanno esperienza di rabbia di stato più spesso e con maggiore intensità rispetto agli individui con basso grado di rabbia di tratto. Il concetto di espressione della rabbia comprende tre componenti principali: • l’espressione della rabbia verso altre persone o oggetti dell’ambiente (Rabbia-Out); • la rabbia rivolta all’interno, cioè la rabbia trattenuta o soppressa (RabbiaIn); • le differenze individuali con cui si tenta di controllare la propria espressione della rabbia (Controllo della Rabbia). Nelle sezioni della scala che esplorano la rabbia tratto, il soggetto è invitato ad indicare come si sente "generalmente", in quelle che valutano l’ansia di stato deve dire, invece, come si sente "nel momento attuale" . ~ 190 ~ Lo STAXI è composto da 44 item, che formano sei scale e due subscale: • Rabbia di Stato (S-Rabbia): 10 item che misurano l’intensità dei sentimenti di rabbia in un dato momento; • Rabbia di Tratto (T-Rabbia): 10 item che misurano le differenze individuali nell’essere disposti a provare rabbia; si articola in 2 subscale: - Temperamento portato alla rabbia (T-Rabbia/T): 4 item che misurano una predisposizione generale a provare o ad esprimere sentimenti di rabbia senza una specifica ragione; - Reazione di rabbia (T-Rabbia/R): 4 item che misurano le differenze individuali nell’essere portati ad esprimere rabbia quando si viene criticati o minacciati ingiustamente dagli altri; • Rabbia rivolta all’interno: Rabbia-In (AX/In): una scala di espressione della rabbia composta da 8 item che misurano la frequenza con cui i sentimenti di rabbia sono trattenuti o soppressi; • Rabbia rivolta all’esterno: Rabbia-Out (AX/Out): una scala di 8 item che misurano la frequenza con cui un individuo esprime rabbia verso altre persone o verso gli oggetti dell’ambiente; • Controllo della rabbia (AX/Con): una scala di 8 item che misurano la frequenza con cui un individuo tenta di controllare l’espressione della propria rabbia; • Espressione della rabbia (AX/EX): una scala ricavata dai 24 item delle scale AX/In, AX/Out, e AX/Con che fornisce un indice generale della frequenza con cui la rabbia viene espressa, senza tener conto di come venga espletata. ~ 191 ~ Nel rispondere ad ognuno dei 44 item, gli individui classificano i propri sentimenti di rabbia su scale a 4 punti che valutano sia l’intensità che la frequenza con cui se ne fa esperienza, vengono espressi, nascosti, e controllati (Comunian, 1992). Lo STAXI è stato ampiamente testato ed ha mostrato ottime caratteristiche psicometriche. 15. La Social Dysfunction and Aggression Scale - SDAS (Wistedt et al., 1990) è una scala di osservazione per l’aggressività simile alla scala di Hamilton per la depressione (HAM-D). Si compone di 11 item graduati da 0 a 4 (0 = assente, 1 = dubbio o molto lieve, 2 = da medio a moderato, 3 = grave, 4 = molto grave), 9 dei quali riguardano l’aggressività eterodiretta e 2 quella autodiretta. Gli stessi Autori fanno riferimento ad una precedente Global Aggression Scale - GAS, una scala composta da 11 item che esplorano il disadattamento sociale e l’aggressività su di un’ampia scala a 11 intervalli, dove 0 = assenza di aggressività, 2-4 = aggressività media, 5-7 = aggressività moderata e 8-10 = aggressività grave. Successivamente la GAS è stata integrata da due brevi scale (3 item) che esplorano l’aggressività eterodiretta (Three-items Outward Aggression Scale - TOAS) e quella autodiretta (Three-items Inward Aggression Scale - TIAS), attraverso il comportamento, il linguaggio e gli aspetti secondari dell’aggressività. 16. Il Questionario per gli Attacchi di Rabbia - QAR (Fava, 1991) è uno strumento di autovalutazione che indaga sulla presenza o assenza, nei mesi precedenti la valutazione, di attacchi di rabbia, definiti come inappropriati alla situazione, accompagnati da irritabilità, da sensazione di perdere il controllo, e da sintomi neurovegetativi, come tachicardia, sudorazione e vampate di calore. La presenza di attacchi di rabbia è definita dalla presenza, nei 6 mesi precedenti, dei quattro criteri seguenti: irritabilità, ~ 192 ~ iperreattività, attacchi di rabbia (di cui uno almeno nell’ultimo mese) e presenza di almeno 4 sintomi neurovegetativi. 17. L’Aggression Inventory - AI (Gladue, 1991) è uno strumento di autovalutazione che si propone di valutare il comportamento aggressivo in quanto caratteristica (o tratto) del soggetto. È composto da 30 item valutati su di una scala a 5 punti (da "1 = per niente, affatto" a "5 = è proprio così"). L’AI si articola in quattro subscale: • Aggressività fisica (PA), composta da 4 item; • Aggressività verbale (VA), composta da 7 item; • Impulsività/Impazienza (II), composta da 7 item, • Evitamento (Avoid), composta da 2 item. I punteggi dei maschi e delle femmine devono essere considerati separatamente a causa delle possibili differenze, tra i due sessi, di molti aspetti dell’aggressività (la scala ha dimostrato, all’analisi fattoriale una validità di gruppo differenziandosi significativamente gli uomini dalle donne in tutte e tre le subscale ed in 24 dei 36 item). 18. L’Aggression Questionnaire - AQ (Buss e Perry, 1992) può essere considerato un completamento del BDHI che Buss aveva messo a punto oltre trent’anni prima assieme a Durkee (Buss e Durkee, 1957). Composto da 29 item, indaga quattro aspetti dell’aggressività, quella fisica (PA, 9 item), quella verbale (VA, 5 item), la rabbia (A,7 item) e l’ostilità (H, 8 item). Lo strumento consente di valutare, non solo quanto un individuo è aggressivo, grazie al punteggio totale, ma anche, attraverso le subscale, come questa aggressività si manifesta. Il punteggio totale può variare da 29 a 145, quello delle subscale è espresso dalla somma dei punteggi degli item ~ 193 ~ che le compongono. Anche con l’AQ le differenze fra sessi risultano rilevanti. 19. La Brief Agitation Rating Scale - BARS (Finkel, 1993) è una scala di 10 item ricavata dalla CMAI, come versione più breve e di più rapida somministrazione. Ogni item è definito e misurato su di una scala da 1 a 7 e si riferisce al comportamento nelle due settimane precedenti al ricovero (o alla valutazione); dalla scala si ricavano gli stessi fattori della CMAI (aggressività verbale, aggressività fisica, comportamenti agitati non aggressivi). 20. La Life History of Aggression - LHA (Coccaro, 1997) fornisce tre sottopunteggi: • Aggressività, di 5 item, che quantifica le manifestazioni aperte di aggressività; • Comportamento Antisociale/Conseguenze, di 4 item, che valuta il numero di volte che il soggetto esperisce conseguenze sociali significative legate ai comportamenti aggressivi e/o il numero di volte in cui ha messo in atto comportamenti antisociali; • Aggressività Autodiretta, di 2 item, che quantifica i comportamenti aggressivi autodiretti. Per aumentare la variabilità intersoggettiva, gli item della LHA sono valutati secondo una scala a 5 punti basata sul numero totale di eventi dall’età di 13 anni (0 = nessun evento; 1 = 1 evento; 2 = 2 o 3 eventi; 3 = 4 o 9 eventi; 4 = 10 o più eventi; 5 = più eventi di quanti possano essere contati). Il punteggio totale della LHA è calcolato sommando i tre sottopunteggi. 21. A questi strumenti si puo’ aggiungere anche la Barratt Impulsiveness Scale, Version 11 - BIS-11 (Barratt e Stanford, 1995), uno strumento che, ~ 194 ~ valutando "l’agire senza pensare", come può essere definita l’impulsività, può essere considerato come indice indiretto dell’aggressività la quale è caratterizzata generalmente dalla riduzione o dalla perdita del controllo degli impulsi. È una scala di autovalutazione, di rapida e facile compilazione, ampiamente usata sia per valutare il ruolo dell’impulsività nel contesto della psicopatologia, sia per lo studio dell’impulsività nei soggetti non psichiatrici. 10.2. VALUTAZIONE DELL’AGGRESSIVITÀ IN ACUTO Alcuni Autori hanno messo a punto degli strumenti di misurazione e di descrizione degli episodi acuti di aggressività (Tab. 12 pag.197). Questo tipo di valutazione ha avuto un certo spazio fino a che l’assistenza psichiatrica era prevalentemente di tipo ospedaliero, con ricoveri di lunga durata, e questo offriva l’opportunità di osservare con una certa frequenza questi comportamenti; oggi, che l’assistenza psichiatrica si svolge in larghissima misura nel territorio, questi comportamenti sono di più rara osservazione diretta e questi strumenti hanno perso gran parte del loro valore. Bunney e Hamburg (1963) sono stati probabilmente i primi ad occuparsi dell’argomento sviluppando una scala di 24 item per l’osservazione sistematica del comportamento emotivo, dalla quale emergono quattro aree di comportamenti affettivi: depressione, rabbia, ansia e comportamento psicotico. Hargreaves (1968) ha proposto la Nursing Rating Scale - NRS, composta da 24 item che coprono sia le dimensioni affettive della scala di Bunney e Hamburg, sia altre dimensioni, quali i disturbi del pensiero, i comportamenti interpersonali, il livello di attività ed il funzionamento globale. L’analisi fattoriale isola quattro fattori distinti: rabbia, disturbi del pensiero, ansia e depressione. ~ 195 ~ Sulla base della scala di Bunney e Hamburg e di quella di Hargreaves, Green ha costruito l’Inpatient Behavioral Rating Scale - IBRS (Green,1977) per la valutazione, mediante 26 item, del comportamento di pazienti schizofrenici disturbati acutamente. Sebbene diversi studi abbiano documentato l’utilità di questa scala nella valutazione in acuto del comportamento di pazienti psichiatrici, la sua struttura fattoriale è ancora dubbia. Squier ha proposto recentemente un adattamento della IBRS, l’Acute Psychiatric Rating Scale - APRS (Squier, 1995), composta dai 26 item originali (lievemente modificati) e da due item aggiuntivi, relativi al comportamento autolesivo ed alle lamentele fisiche. L’analisi fattoriale dell’APRS isola 7 dimensioni: neuroticismo, aggressività, deterioramento cognitivo, schizofrenia, ipomania, autolesionismo e ritiro emotivo. Fra questi strumenti si potrebbe collocare anche l’Overt Aggression Scale OAS, che è stato descritto fra le scale generali, in quanto la sua versione originale è basata sull’osservazione del soggetto durante un episodio aggressivo, del quale l’osservatore registra i diversi comportamenti prendendo nota degli interventi effettuati in risposta all’episodio aggressivo stesso. ~ 196 ~ TAB. 12 PRINCIPALI SCALE PER LA VALUTAZIONE DELL’AGGRESSIVITÀ IN GENERALE Hostility Scale - HoSca (Cook e Medley, 1954) Buss Durkee Hostility Inventory - BDHI (Buss e Durkee, 1957) Hostility and Direction of Hostility Questionnaire - HDHQ (Caine et al., 1967) Novaco Anger Arousal Scale - NAAS (Novaco, 1975) Scala di Lagos (Lagos et al., 1977) Brown-Goodwin Questionnaire - BGQ (Brown et al., 1979, 1992) Questionario Irritabilità-Ruminazione/Dissipazione - QI-R (Caprara et al., 1991) - Scala di Irritabilità (Caprara, 1983) - Scala di Ruminazione/Dissipazione (Caprara et al., 1985a) Overt Aggression Scale - OAS (Yudofsky et al., 1986) - Modified OAS (Kay et al., 1988) - Retrospective Overt Aggression Scale - ROAS (Sorgi et al., 1991) - Staff OAS - SOAS (Palmstierna e Wistedt, 1987) Cohen-Mansfield Agitation Inventory - CMAI (Cohen-Mansfield e Billing, 1986) Multidimensional Anger Inventory - MAI (Siegel, 1986) ~ 197 ~ State-Trait Anger Expression Inventory - STAXI (Spielberger, 1988) Social Dysfunction and Aggression Scale - SDAS (Wistedt et al., 1990) Global Aggression Scale - GAS (Wistedt et al., 1990) Questionario per gli Attacchi di Rabbia - QAR (Fava et al., 1991) Aggression Inventory - AI (Gladue, 1991) Aggression Questionnaire - AQ (Buss e Perry, 1992) Brief Agitation Rating Scale - BARS (Finkel et al., 1993) Life History of Aggression - LHA (Coccaro et al., 1997) Barratt Impulsiveness Scale, Version 11 - BIS-11 (Barratt e Stanford, 1995) ~ 198 ~ CAPITOLO 11. DESCRIZIONE ED ELABORAZIONE DEL RISULTATO SUI QUESITI DEL QUESTIONARIO Introduzione: La comunicazione interpersonale tra sanitario e utente dei ospedalieri rappresenta la via maestra per mettere in atto servizi azioni di promozione della salute. L’infermiere professionale, ogni giorno di più, sta assumendo responsabilità crescenti nel rapporto con l’utente dei servizi sanitari. Negli ultimi anni il rapporto tra sanitari e utenti si è molto modificato. I cittadini hanno acquisito una sempre maggior cognizione dei propri diritti in ambito sanitario ed hanno imparato a rivendicarli nelle forme dovute. Tuttavia sono aumentate anche le reazioni aggressive dei cittadini verso i sanitari. Gli infermieri, più frequentemente degli altri sanitari, sono oggetto dell’aggressività dell’utente. Per questo motivo è stato deciso di proporre un questionario rivolto agli infermieri dei servizi ospedalieri e degli ambulatori territoriali che svolgono il lavoro nell’area critica. Nella mia ricerca ho dedicato molto spazio alla gestione dell’aggressività e mi piacerebbe con il Vostro prezioso aiuto poter approfondire la mia ricerca. Vi invito a compilare un questionario contenente 22 domande ringrazio infinitamente per la collaborazione. ~ 199 ~ e Vi 11.1. QUESTIONARIO 1. Sbarrare il quadratino corrispondente all’età compiuta: □ 20-29 anni □ 40-49 anni □ 30-39 anni □ 50-59 anni 2. Da quanto tempo lavora in reparto psichiatrico? □ da 3 ai 5 anni □ dai 6 ai 10 anni □ dai 11 ai 15 anni □ dai 16 ai 20 anni □ oltre i 20 anni … … 3. Quanto è d’accordo con queste affermazioni: 1= forte disaccordo, 2= poco d’accordo, 3= parzialmente d’accordo, 4= d’accordo, 5= fortemente d’accordo a) L’aggressività è una sindrome spesso non diagnosticata 1 □ b) 2 □ □ 3 L’aggressività 4 □ 5 □ è una manifestazione frequente del paziente degente in un reparto psichiatrico 1 □ 2 □ 3 □ 4 □ 5 □ c) L’aggressività è un problema che richiede interventi precoci 1 □ 2 □ 3 □ 4 □ 5 □ d) L’aggressività del paziente aumenta il carico di assistenza infermieristica 1 □ 2 □ 3 □ 4 ~ 200 ~ □ 5 □ e) In alcuni casi l’aggressività è prevenibile 1 □ 2 □ 3 □ 4 □ 5 4. E’ mai stato testimone o vittima di episodi aggressivi □ agiti da pazienti psichiatrici? SI □ NO □ 5. Il paziente aveva motivazioni validi che incedessero alla violenza? SI □ NO □ 6. Pensa che gli adolescenti siano tendenzialmente aggressivi? SI □ NO □ 7. Pensa che le persone vittime di violenza nella infanzia diventino tendenzialmente più aggressive? SI □ NO □ 8. Pensa che gli extracomunitari siano tendenzialmente più aggressivi? SI □ NO □ 9. Pensi che i pazienti psichiatrici siano tendenzialmente più aggressivi? SI □ NO □ 10. Pensi che i comportamenti aggressivi siano indicativi in malattia mentale? SI □ NO □ 11. Quali sono secondo Lei le situazioni a rischio: □ Affollamento in reparto □ Pazienti con diagnosi di disturbo borderline □ Pazienti caratteriali □ Pazienti con anamnesi di comportamenti violenti ~ 201 ~ □ Pazienti con acatisia □ Pazienti con storia di abuso di sostanze stupefacenti □ Pazienti stranieri con difficoltà di comprensione della lingua italiana □ Pazienti in TSO non sufficientemente informati riguardo le modalità di ricovero 12. Quali sono secondo Lei i fattori di rischio: □ Fattori biologici (genetica) □ Fattori relazionali (rapporti interpersonali) □ Fattori sociali (stato civile, stato economico, stato occupazionale, ecc) □ Fattori psichici (depressione, alcolismo, schizofrenia, tossicodipendenza, vari disturbi psichiatrici,ecc) □ Fattori inabilitanti (malattie gravi con esito infausto, incidenti gravi invalidanti) 13. L’ambiente ha avuto un ruolo nell’evento aggressivo? SI □ NO □ Se SI, quale? ____________________________________________________________ 14. L’organizzazione del Suo lavoro ha avuto un ruolo nell’evento aggressivo? SI □ NO □ Se SI, quale? ____________________________________________________________ 15. A fronte di un evento aggressivo, quali sono state le azioni intraprese? □ farmacoterapia □ ricovero □ contenzione □ dialogo □ riorganizzazione del lavoro □ audit ~ 202 ~ 16. Nella Sua U.O. vengono abitualmente utilizzate strumenti di valutazione del rischio aggressivo? Per esempio, la scala MOAS (Scala modificata dell’aggressività manifesta) SI □ NO □ Se SI, quando? □ all’ingresso □ alla dimissione □ quotidianamente altro___________________________________________________ Se SI, quali? ____________________________________________________________ 17. Il tema di aggressività è oggetto frequente di dibattito all’interno della Sua U.O.? SI □ NO □ 18. Ha letto in ultimi 3 anni un saggio sulla aggressività? SI □ NO □ Se SI, quale? ____________________________________________________________ 19. Ha frequentato un corso di aggiornamento sul tema di aggressività negli ultimi 3 anni? SI □ NO □ Se SI, quali? ____________________________________________________________ 20. Considerando i vari aspetti della Sua attività professionale, si ritiene: □ molto soddisfatto □ soddisfatto □ abbastanza soddisfatto ~ 203 ~ □ poco soddisfatto □ per niente soddisfatto 21. Quali proposte farebbe per migliorare la gestione degli eventi aggressivi? a)__________________________________________________________ b)___________________________________________________________ c)___________________________________________________________ 22. Eventuali commenti: ____________________________________________________________ ____________________________________________________________ ____________________________________________________________ Unita operativa:________________________________________________ Data: ______________________________________________________ GRAZIE PER LA COLLABORAZIONE!!! ~ 204 ~ 11.2. ANALISI DEI DATI: Il questionario di ricerca è composto da 136 iter compilati da infermieri che svolgono attività lavorativa presso unità operative di area critica dei presidi di Rimini e Riccione e che volontariamente hanno partecipato alla mia indagine. Obbiettivo: Descrivere gli studi di valutazione di un semplice questionario messo a punto per valutare l’opinione dei operatori sanitari (infermieri) con le seguenti caratteristiche: - facile, di rapida compilazione; - accettabile; - autocompilato. Risultato d’indagine: Indagati 136 operatori, 72 hanno risposto al questionario (52,94% del totale) e 62 operatori no hanno partecipato. Unita operative coinvolte: Presidio di Rimini: 118 Romagna Soccorso – 30 operatori; SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) – 17 operatori; Dipendenze patologiche (Ser.T) - 11 operatori; Centro di riabilitazione psichiatrica “Il Glicine” (Bellaria-Igea Marina) – 4 operatori; Presidio di Riccione: 118 – 7 operatori, Dipendenze patologiche (Ser.T) - 3 operatori ~ 205 ~ Grafico 1. Età compiuta 45,00% 41,66% 40,00% 35,00% 30,55% 30,00% 25,00% 20,00% 18,05% 15,00% 10,00% 9,72% 5,00% 0,00% 20-29 30-39 40-49 50 e oltre Grafico1. L’età media del campione è tra 30 e 45 anni. Grafico 2. Da quanto tempo lavora in reparto psichiatrico? 40,00% 36,11% 35,00% 30,00% 25,00% 20,83% 20,00% 15,00% 13,88% 13,88% 18,05% 10,00% 5,55% 5,00% 0,00% da 3 a 5 da 6 a 10 da 11 a anni anni 15 anni da 16 a 20 anni oltre i 20 non anni risposto In Grafico 2 si può vedere che il 13,88% degli intervistati svolgono il servizio nell’area critica psichiatrica da oltre 20 anni, nonostante la percentuale alta di persone che non hanno risposto (36,11%) alla domanda. Questo dato può essere spiegato dal fatto che la maggior parte degli intervistati non lavorano nel reparto appartenente al ~ 206 ~ servizio psichiatrico, come U.O. di 118, ma abbiano a che fare nella loro attività lavorativa con i pazienti con problemi psichiatrici. Grafico 3. L’aggressività è una sindrome spesso non diagnosticata? 35,00% 30,55% 30,00% 25,00% 31,94% poco d'accordo 20,83% 20,00% 15,00% 10,00% forte disaccordo parzialmente d'accordo 9,72% d'accordo 6,94% fortemente d'accordo 5,00% 0,00% Grafico 3. Per spiegare l’opinione che riguarda la diagnostica dell’aggressività è necessario osservare il Grafico 3 riportato in seguito in quale si evidenziano i seguenti aspetti: la percentuale più alta di indagati (31,94%) è d’accordo e parzialmente d’accordo (30,55%) con l’affermazione che l’aggressività non va diagnosticata. Questo può far pensare che più della metà degli infermieri (del campione) prestano un attenzione particolarmente focalizzata sul problema. ~ 207 ~ Grafico 4. L’aggressività è una manifestazione frequente del paziente degente in reparto psichiatrico? forte disaccordo 8,33% 16% poco d'accordo 19,44% 27,70% 29,16% parzialmente d'accordo d'accordo fortemente d'accordo Nel Grafico 4 sono riassunti alcuni punti importanti della situazione che riguarda il paziente ricoverato nell’UO psichiatrica. Il 29,16%, 27,70% e 16% (62,86% del campione) affermano che l’opinione sul paziente degente nel reparto psichiatrico è tendenzialmente positiva. Il motivo di questa risposta può essere determinato dall’osservazione, dall’esperienza lavorativa, dalla statistica delle U.O. sugli atti aggressivi volti verso operatori sanitari da parte dei pazienti degenti. Grafico 5. L’aggressività è un problema che richiede interventi precoci? 8,33% forte d'accordo 11,11% poco d'accordo 29,16% parzialmente d'accordo 38,88% d'accordo 12,50% ~ 208 ~ fortemente d'accordo Grafico 5. Alla domanda “L’aggressività è un problema che richiede interventi precoci?” ben 55 persone, il 76,37% del campione, hanno risposto positivamente. Questi dati sono importanti per comprendere il significato notevole dell’assistenza, prevenzione e cura del paziente aggressivo. Il Grafico 6 illustra nel dettaglio, l’opinione degli operatori sull’assistenza al paziente aggressivo. Hanno particolare importanza le voci “fortemente d’accordo” e “ d’accordo”. Questi voci sono tra le più interessanti. L’84,71% del campione riferisce che il carico dell’assistenza infermieristica aumenta notevolmente con le manifestazioni aggressive dei pazienti e che sono i problemi principali del campione. Grafico 6. L’aggressività del paziente aumenta il carico di assistenza infermieristica? 60,00% 54,16% forte disaccordo 50,00% poco d'accordo 40,00% 30,55% 30,00% parzialmente d'accordo 20,00% d'accordo 10,00% 5,55% 1,38% 0,00% 1 2 8,33% 3 4 5 fortemente d'accordo Grafico 7 . Riprendendo i dati del Grafico 5 si possano osservare i dati del Grafico 7. In questo grafico, una percentuale delle persone (44,44%) afferma che l'aggressività è prevenibile e soltanto 4,16% approvano un forte disaccordo. Confrontando questo grafico con il precedente Grafico 5 si potrebbe dedurre che il problema della ~ 209 ~ prevenzione è molto importante nell’ambito delle U.O. psichiatriche e altre aree critiche. Grafico 7. In alcuni casi l’aggressività è prevenibile? 72 indagati non risposto 1,38% 20,83% fortemente d'accordo d'accordo 18,05% parzialmente d'accordo poco d'accordo forte disaccordo 44,44% 11,11% 4,16% Grafico 8. E’ mai stato testimone o vittima di episodi aggressivi agiti da pazienti psichiatrici? 25,05% si no 83,34% Nel seguente Grafico 8 le percentuali dei “Si” sono piuttosto alte. Nel corso dell’attività lavorativa il campione (83,34%) ha subito o ha assistito agli atti aggressivi agiti dai pazienti psichiatrici. Questo risultato fa pensare che gli atti aggressivi sono molto frequenti negli O.U. dell’area critica ~ 210 ~ Grafico 9. Il paziente aveva motivazioni validi che incedessero alla violenza? 9,72% non risposto 47,22% no 43,05% si 0,00% 10,00% 20,00% 30,00% 40,00% 50,00% Nel Grafico 9 si può confrontare le risposte che riguardano le motivazioni del paziente. E’ da notare che la percentuale è quasi la stessa, in effetti il 43,05% delle persone hanno risposto positivamente ed il 47,22% hanno risposto negativamente. In questo caso si può osservare l’incertezza delle opinioni degli operatori sui motivi del paziente. Grafico 10. Pensa che gli adolescenti siano tendenzialmente aggressivi? 120,00% 100,00% 80,00% 16,66% no 60,00% si 40,00% 83,33% 20,00% 0,00% 0 0 ~ 211 ~ 0 Grafico 10. La maggior parte degli infermieri pensano positivamente (il 83,33% del campione) e descrive il fenomeno proprio come problema di natura, ma un’altra parte il 16,66% non lo approva. Grafico 11.Nel grafico successivo si possano vedere quali fossero i problemi dell’infanzia. Come illustrato già dal Grafico 10 , si osserva la stessa tendenza nel Grafico 11, cioè ad attribuire l’aggressività anche alle persone le quali hanno subito l’atto aggressivo nell’infanzia. Ben 94,44% pensano positivamente e soltanto una piccola parte non è d’accordo (il 5,55% del campione). Grafico 11. Pensa che le persone vittime di violenza nell’infanzia diventino tendenzialmente più aggressive? 100% 5,55% no si 95% 94,44% 90% ~ 212 ~ Grafico 12. Pensa che gi extracomunitari siano tendenzialmente aggressivi? 90,00% 80,55% 80,00% 70,00% 60,00% si 50,00% 40,00% 30,00% 20,00% 10,00% 0,00% no 19,44% non risposto 0% Grafico 12.Per quanto riguarda questo grafico, i dati raccolti possono fornire l’opinione degli infermieri sui pazienti stranieri. Un’attenzione particolare merita la questione delle idee negative a prescindere verso i pazienti extracomunitari (il 80,55% del campione pensa che il paziente straniero è tendenzialmente aggressivo) Grafico 13. Pensa che i pazienti psichiatrici siano tendenzialmente più aggressivi? no; 12,50% si; 87,50% ~ 213 ~ Grafico 13. In base ai dati di questo grafico, si puo’ vedere che l’87,50% attribuisce l’aggressività al paziente psichiatrico. Grafico 14. Per quanto riguarda i comportamenti aggressivi e malattia mentale, la maggioranza degli opinioni afferma che la malattia mentale incide sull’aggressività (il 80,55% del campione). Grafico 14. Pensa che i comportamenti aggressivi siano indicativi in malattia mentale? 100% 90% 80% 70% 60% 50% 40% 30% 20% 10% 0% 19,44% no 80,55% ~ 214 ~ si Grafico15. Fattori di rischio. Fattori di rischio Fattori inabilitanti (malattie gravi con esito infausto, incidenti gravi invalidanti) 13,88% 80,55% 34,72% Fattori psichici (depressione, alcolismo, schizofrenia, tossicodipendenza, vari disturbi psichiatrici, ecc) Fattori sociali (stato civile, sato economico, stato occupazionale, ecc) Fattori relazionali (rapporti interpersonali) 51,38% Fattori biologici (genetica) 19,44% 0,00% 50,00% 100,00% Grafico 15. I dati contenuti in questo grafico sono relativi ai fattori di rischio che incidono sull’aggressività. Si può vedere come i “Fattori psichici” siano stati percepiti da una percentuale piuttosto alta del campione, l’80,55%. Da notare che la percentuale è notevolmente alta anche nella voce “Fattori relazionali” (il 51,38% del campione). Il valore di 34,72% corrisponde a “Fattori sociali” Invece “Fattori biologici” e “Fattori inabilitanti” rimangono sotto il 20%. ~ 215 ~ Grafico 16. Situazioni a rischio. Affolamento in reparto 60,00% 54,16% 54,16% Pazienti con diagnosi di disturbo borderline 50,00% 47,22% Pazienti caratteriali 40,27% 40,00% 38,88% 38,88% Pazienti con anamnesi di comportamenti violenti 30,00% Pazienti con acatisia 20,00% 10,00% 16,66% 6,94% Pazienti con storia di abuso di sostanze stupefacenti Pazienti stranieri con difficoltà di compressione della lingua italiana Pazienti in TSO non sufficientemente informati riguardo le modalità di ricovero 0,00% 100,00% Come si può vedere nel Grafico 16 è stato riscontrato che una situazione a ~ 216 ~ rischio può provocare l’aggressività : 1) una percentuale piccola del campione (il 6,94% del totale) pensa che i pazienti con l’acatisia possano creare una situazione a rischio; 2) una percentuale di 16,66% vedono i pazienti stranieri nella potenziale situazione di rischio; 3) le voci “Affollamento nel reparto” e “Pazienti in TSO non sufficientemente informati riguardo le modalità di ricovero” rappresentano i valori notevoli nel grafico (il 38,88%); 4) il 40,27% è attribuito a “Pazienti con disturbi borderline”; 5) la voce successiva, invece, descrive “Pazienti caratteriali” dove si può osservare la percentuale alta (il 47,22%) di affermazioni; 6) infine, per quanto riguarda “Pazienti con anamnesi di comportamenti violenti” e “Pazienti con storia di abuso di sostanze stupefacenti” condivide lo stesso valore (il 54,16%). Questo dato fa pensare che questi sono i problemi principali del campione. Grafico 17. L’ambiente ha avuto il ruolo nell’evento aggressivo? 2,77% 43,05% 54,16% si no non risposto Se Si, quale? - Affollamento del reparto; - Situazione famigliare; - Ambiente di lavoro ostile; - Ambiente chiuso; - Presenza nel reparto dei pazienti tendenzialmente aggressivi; ~ 217 ~ - Comportamenti non empatici da parte del personale; - Poca disponibilità all’ascolto; - Divisa sanitaria degli operatori (spaventa) Grafico 17. I dati contenuti in questo grafico sono fondamentali per comprendere il ruolo dell’ambiente nell’evento aggressivo. E’ importante notare che delle restanti persone del campione, 31, cioè il 43,05%, hanno risposto negativamente alla domanda. Questo dato, la quasi parità delle opinioni, fa pensare che l’ambiente è una parte significativa nell’evento aggressivo, ma nello stesso tempo non conduce il paziente all’aggressività. Grafico 18. L’organizzazione del Suo lavoro ha avuto ruolo nell’evento aggressivo? 4,16% 75% no non risposto 20,83% 0,00% si 50,00% 100,00% Se Si, quale? - Poco tempo per ascolto e risposta; - Incapacità di valutare il paziente; - Dialogo; - Relazionarsi con il paziente ha contenuto lo stato di agitazione Dal Grafico 18 Si può dedurre che, nonostante la percentuale alta (75%) di persone intervistate, il 20,83% pensa che l’organizzazione del proprio lavoro non è congruo. ~ 218 ~ Grafico 19. A fronte di un evento aggressivo, quali sono state le azioni intraprese? farmacoterapia 70,00% ricovero 16,66% 62,50% 60,00% contenzione 50% 50,00% dialogo 44,44% 40,00% riorganizzazione del lavoro 9,72% 30,00% audit 20,00% niente 4,16% 18,05% niente 10,00% 0,00% dialogo farmacoterapia Grafico 19. Il 62,50% del campione ha risposto dando la priorità a farmacoterapia; Il 50% delle persone hanno optato per il dialogo; Il 44,44% di operatori ritengono che la contenzione sia la soluzione migliore; Il 16,66% sono favorevoli per il ricovero; E soltanto la voce “riorganizzazione del lavoro” ha avuto 9,72% di tutto l’iter. Questo dato può essere spiegato dal grafico precedente. ~ 219 ~ Grafico 20. Vanno utilizzati gli strumenti di valutazione nella Sua UO? 4,16% 29,16% si no non risposto 66,66% Se Si, quali? - All’ingresso - 4 - Alla dimissione – 5 - Quotidianamente - 5 (Modificata durante il ricovero) - All’evento OAS ARS -5 – Glicine Grafico 20. Come si può vedere dal Grafico 20 è stato rilevata una percentuale piuttosto alta di risposte negative (66,66%), ciò fa pensare che nei reparti di area critica vanno utilizzati raramente gli strumenti di valutazione del evento aggressivo. Grafico 21. Da notare che la percentuale è la stessa, in effetti il 47,22% delle persone hanno risposto in maniera identica, sia positivamente che negativamente. Questo spiega il fatto di tanti dibattiti, di tanti dubbi, di tante domande all’interno delle U.O. dell’area critica. ~ 220 ~ Grafico 21. Il tema di aggressività è l’oggetto frequente del dibattito all’interno della sua UO? 50,00% 47,22% 47,22% 40,00% si 30,00% no non risposto 20,00% 5,55% non risposto 10,00% no si 0,00% Grafico 22. Ha letto negli ultimi 3 anni un saggio sull’aggressività? 100% 12,51% non ricordo il titolo 80% 60% no 40% 20% 86,11% 0% Se SI, quale? si 0 0 0 1,38% 0 “Aggressività”, K.Lorenz, 1981 Grafico 22. Soltanto 1,38% (una persona) ha risposto alla domanda positivamente. Nonostante questo valore, si può vedere che altri operatori (il 12,51% del campione) hanno utilizzato la letteratura dedicata al tema di aggressività. ~ 221 ~ Grafico 23. Nel grafico successivo si può confrontare le risposte che riguardano l’opinione sulla formazione professionale specifica. Il 75% del campione ha risposto negativamente ciò fa pensare all’assenza di competenza in questo campo di lavoro. Grafico 23. Ha frequentato un corso di aggiornamento sul tema di aggressività negli ultimi 3 anni? 4,16% 100,00% 80,00% non risposto 75% 60,00% no si 40,00% 20,00% 20,83% 0,00% Se Si, quale? - Nell’ambito di un corso specifico di laurea (SSES-UNIBO); - Comportamento da adottare e la difesa; - Gestione dell’aggressività nel paziente psichiatrico; - Come gestire l’aggressività; - Corso interno; - Non ricordo il titolo; - Solo in audit; Grafico 24. L’ultimo grafico descrive l’opinione sull’attività professionale. La maggior parte degli operatori ritiene l’attività professionale abbastanza soddisfacente (il 43,05% del campione) e soltanto il 2,77% la ritiene per niente soddisfacente. Questi dati sono tra i più interessanti, visto che il campione preso in esame è ~ 222 ~ composto da personale che svolge la sua attività lavorativa nell’area critica. Grafico 24. Considerando i vari aspetti della Sua attività professionale, si ritiene: 2,77% 4,16% 6,94% molto soddisfatto 15,27% soddisfatto 27,77% abbastanza soddisfatto poco soddisfatto per nieinte soddisfatto 43,05% non risposto Quali proposte farebbe per migliorare la gestione degli eventi aggressivi? - Corsi di aggiornamento e formazione professionale specifici; - Risorse a disposizione. Potenziare i servizi sociali, anche con più fondi e figure professionali; - Disposizioni legali; - Audit; - Presenza costante del medico; - Uso frequente degli strumenti di valutazione; - Immediata interpretazione di situazioni a rischio; - Riduzione dei posti letto; - Riduzione degli stimoli che inducono all’aggressività; - Interventi precoci ai primi segnali di aggressività; - Lavoro di gruppo con i pazienti e specialista; - Presenza di forze dell’ordine sul luogo; - Gestione dello stress dell’operatore. ~ 223 ~ ~ 224 ~ 11.3.IN SINTESI: Questo lavoro ha voluto essere un’analisi del fenomeno “aggressività” dal punto di vista di una studentessa, quindi non pretende certo di essere completo di tutti gli elementi che ruotano intorno al tema dell’aggressività nell’area critica. Il questionario è stato un utile strumento per ricavare preziosi informazioni sull’aggressività e come la vedono gli operatori sanitari. In molti grafici è stato dimostrato che l’aggressività è frequente e, soprattutto, molti operatori considerano l’evento aggressivo come fattore estrinseco: appartenenza ad un’altra nazione (l’80,55% del campione ha risposto positivamente attribuendo molta importanza a questo fatto), ad un’altra cultura, agli abusi fisici e psicologici in infanzia (il 94,44% del campione pensano che l’abuso subito nell’infanzia possa portare ad essere aggressivi in adolescenza e in seguito in età adulta), al ruolo dell’ambiente, uso di sostanze stupefacenti, alla trascuratezza di interventi precoci sull’atto aggressivo, assenza di una diagnosi precoce, ecc…. Bisogna fare una considerazione, da notare l’importanza di formazione professionale (corsi specifici di formazione e autoformazione) e l’uso dei strumenti di valutazione dell’aggressività nelle U.O. dell’area critica del paziente psichiatrico, che in questa descrizione risulta una parte mancante per comprendere meglio il comportamento aggressivo. L’importante sottolineare subito che i comportamenti aggressivi delle persone con le malattie psichiatriche sono in genere di numero inferiori a quelli della popolazione generale. Più frequente è invece il rischio in ambiente psichiatrico ed è lo staff infermieristico l’obiettivo più frequente delle aggressioni. Il numero degli infermieri che hanno subito una violenza da parte dei pazienti psichiatrici (l’83,34% del campione) porta a riflettere! Gli episodi di aggressività si possono considerare come un problema molto importante per le ricadute, soprattutto psicologiche, che possano avere sugli operatori (burn aut) e sui degenti (compromissione delle relazioni terapeutiche), nella convinzione che gli incidenti violenti non sono degli eventi inevitabili ma che sia possibile e doveroso prevederli e prevenirli. ~ 225 ~ Appare evidente come l’impostazione di corrette procedure di accoglienza, di accessibilità dell’utente e dei parenti al personale medico ed infermieristico, di gestione di tempo, dei colloqui, organizzazione del lavoro, ruolo dell’ambiente, delle uscite programmate possa notevolmente ridurre il rischio di comportamenti l’importanza di strutture violenti. La architettoniche letteratura adeguate evidenzia al inoltre contenimento dell’aggressività, anche nel utilizzo di diversi mezzi di contenimento fisico. Di grande importanza anche la disponibilità di procedure farmacologiche (il 62,50% del campione ha dato la priorità alla farmacoterapia), sebbene si evidenzi come non si possano stabilire chiare relazioni di efficacia tra la scelta di un farmaco od un’altro in determinati episodi di aggressività, se non in pochi casi molto specifici. Lo spazio è indispensabile, per diminuire i fattori di rischio correlati all’agitazione psicomotoria, fattori tra i quali si ricordano: l’ambiente percepito come minaccioso, la mancanza di privacy, la convivenza forzata, il misto di patologie diverse che convivono contemporaneamente nello stesso ambito. Posso affermare che questo lavoro mi è stato molto utile, oltre che per l’approfondimento teorico di quella che è la realtà dell’aggressività, anche per aver arricchito il mio bagaglio esperienziale attraverso il tirocinio clinico svolto in U.O. di Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (presidio di Rimini), e, soprattutto, per avermi fornito spunti interessanti di riflessione sui quali interrogarmi. Quindi che cose’è l’aggressività, un segno o un sintomo? Come si può evidenziare, nessuno del’item del questionario risulta, infatti, in grado di soddisfare la risposta quindi, non possono né debbono essere considerate niente di più che strumenti di osservazione sull’aggressività. Queste scelte sono il prodotto non solo dell'esperienza, ma anche di un lungo e faticoso lavoro di ricerca, di osservazione, di raccolta e di valutazione dell’utente nelle U.O. dell’area critica. ~ 226 ~ CAPITOLO 12. CONCLUSIONI DELLA TESI Questo lavoro non ha le finalità di essere esaustivo, poiché si basa essenzialmente su ricerche teoriche, ma vuole fornire , in un contesto in forte evoluzione e in presenza di ricerche e statistiche dettagliate, un quadro sull’aspetto del argomento, che è il punto di riferimento ideale per la valutazione. Nel corso di questa tesi il mio obiettivo era realizzare un lavoro rivolto a chi si occupa dello studio, e non è strettamente uno specialista della psichiatria. Per questo motivo ho riservato particolare attenzione ai vari aspetti dell’aggressività, dalla definizione del comportamento aggressivo, della violenza, condotte suicidarie, aspetti clinici, ruolo del ambiente, genetica, età, sesso, al trattamento farmacologico. Tuttavia, quando è stato possibile, ho inserito elementi di carattere tecnico (schede di valutazione e questionario), tratti dalla mia (purtroppo poca) esperienza del tirocinio clinico svolto presso Servizio Psichiatrico Di Diagnosi e Cura dell’AUSL di Rimini, utile per una corretta comprensione dell’argomento. La gran parte della tesi è dedicata all’argomento e alle varie teorie tratte da autori di fama mondiale come i più famosi Z.Freud, K.Lorenz, Skinner, Bandura, M.Klein, Berkowitz, H.Kohut, O.Kernberg. Mi sembra opportuno sottolineare che il tema dell’aggressività è stato affrontato anche da molti altri autori che non sono menzionati in questa sintesi. Nel definire se l’aggressività è un segno oppure un sintomo ci aiuta innanzitutto il significato dei termini. Si parla quindi di sintomo come un qualche cosa di soggettivo, percepito dal paziente attraverso l’uso dei sensi e al segno come un’anormalità oggettivamente interpretata dallo specialista. I sintomi sono esperienze soggettive di varia natura descritte dal paziente, come la depressione dell'umore e la riduzione dell'energia, espressi talvolta come lamentela, al quale può corrispondere o no un segno rilevabile obiettivamente. Il sintomo è sentito; qualunque modificazione percettibile ~ 227 ~ nell’organismo o nelle sue funzioni che indica una malattia oppure il tipo o la fase di una malattia. Per proseguire nella ricerca necessita anche la distinzione tra il concetto di sintomo e malattia: Per quanto riguarda i sintomi psicosomatici, essi, pur non organizzandosi in vere e proprie malattie, si esprimono attraverso il corpo, coinvolgono il sistema nervoso autonomo e forniscono una risposta vegetativa a situazioni di disagio psichico o di stress. Il sintomo è indizio di uno stato morboso. Nell'ambito dei disturbi psichiatrici il problema del sintomo è più complesso. Gli psichiatri sviluppano la capacità di individuare le malattie mentali delle persone per diverse ragioni: fare diagnosi accurate; determinare trattamenti efficaci per i pazienti; offrire una prognosi affidabile; analizzare nel miglior modo possibile i problemi psichiatrici e comunicare efficacemente con gli altri medici. Per poter raggiungere questi obbiettivi, devono conoscere adeguatamente il linguaggio psichiatrico; devono imparare a riconoscere e definire i segni e i sintomi comportamentali ed emozionali e devono essere in grado di osservare rigorosamente e descrivere in modo articolato i fenomeni mentali della psichiatria. La maggior parte dei segni e dei sintomi psichiatrici si ricollega al comportamento fondamentalmente normale e corrisponde ai diversi punti dello spettro del comportamento, che va dal normale al patologico. Come manifestazione di un processo sottostante, il sintomo è comprensibile soltanto in una logica causale all'interno della quale, come scrive K. Jaspers, “[…] si distinguono, a seconda della i sintomi fondamentali (primari,assiali) prossimità della causa, dai sintomi accessori (secondari, marginali). Pur mantenendosi sempre in una logica causale, in ambito psicopatologico il sintomo assume significati diversi a seconda dei quadri teorici di riferimento all'interno dei quali avviene la lettura del disturbo psichico. In ambito fenomenologico si contesta la possibilità di impiegare la ~ 228 ~ nozione di sintomo a proposito delle malattie mentali, perché il sintomo rinvia a una causa che non si dà se non presupponendola a partire da una teoria […]”. In questo senso K. Schneider scrive che “[…] occorre abbandonare il significato medico del termine "sintomo", perché una formazione psicopatologica di stato o di decorso non è una malattia che può produrre sintomi […]”. In medicina vige la distinzione tra il segno, che è un fenomeno oggettivo che l'esaminatore assume come indice di un processo patologico, e il sintomo, che è un fenomeno soggettivo avvertito dal paziente e che va poi decodificato. I segni sono più o meno evidenti, in contrasto con le sensazioni soggettive del paziente. Il segno è osservato ed è documentabile: alterazione emotiva, cognitiva o comportamentale rilevabile obiettivamente mediante l’esame clinico o strumentale e al quale può corrispondere o no un disagio soggettivo. I segni sono reperti obbiettivi osservati dal medico, quali, ad esempio, l'affettività limitata e il rallentamento ideomotorio. E’ necessario quindi capire come si presenta l’aggressività. E’ possibile attribuirla ai sintomi che percepisce una persona? Cosa può avvertire una persona che si sente aggressiva? Quali sono i sintomi? E’ possibile classificarli in sintomi aggressivi? L’aggressività è cosciente oppure no? E’ misurabile l’aggressività? E’ valutabile? E’ osservabile? Rispondere a queste domande ci sono in aiuto gli strumenti come Le scale di valutazione, con i Test e Questionari specifici. La parola stessa “valutazione” porta a dedurre che l’aggressività è una cosa piuttosto osservabile ed entra nella definizione dei segni. Tornando alla fase teorica. La scelta degli autori selezionati per questo lavoro è stata altamente arbitraria, e non è possibile neppure citare coloro ~ 229 ~ che sono stati omessi perché il rischio di trascurarne altri semplicemente aumenterebbe. Dalla esamina delle varie teorie appare evidente che il fenomeno dell’aggressività va considerato come segno. Basti prendere in esempio la teoria del Sigmund Freud. Secondo la nota teoria duale degli istinti di S. Freud nell’essere umano sarebbero attivi fin dalla nascita due tipi di istinti: l’istinto di vita, Eros, che guida la persona alla ricerca del piacere al soddisfacimento dei propri desideri e l’istinto di morte, Thanatos, che dirigerebbe l’individuo verso l’autodistruzione. La lotta antagonista tra Eros e Thanatos è causa di conflitti intrapsichici che possono essere “risolti” spostando la forza distruttiva verso un’altra persona. L’aggressione sarebbe quindi una caratteristica ineliminabile della natura umana e non sarebbe completamente controllabile dalla persona. Si può dedurre quindi che la considerazione dell’aggressività come l’istinto, incapacità dell’Io conduce ad osservare questo fenomeno e quindi a rilevare i segni che lo rappresentano. La teoria di Skinner nei suoi studi sull’apprendimento, poi definito “Apprendimento Operante” (Skinner, 1969), ha studiato le “Forme di condizionamento del comportamento” formulando in particolare la concezione del rinforzo sia positivo sia negativo. Skinner vede due tipi di aggressività a partire dagli effetti che essa crea sull’altro: una filogenetica ed una ontogenetica. L’aggressività filogenetica è istintuale e funzionale alla specie dal momento che essa rappresenterebbe, attraverso la lotta con unghie e denti, l’archetipo della selezione naturale e ad essa viene attribuita una qualità morale buona, dal momento che non porta automaticamente ad una aggressività finalizzata a fare del male. Diversamente, l’aggressività ontogenetica rappresenta l’agito orientato a “fare del male”, che si genera in quanto previsto dalla società, spesso rinforzato dalla stessa ed efficace al punto da strutturarlo nel carattere collettivo e soggettivo. Sentimenti positivi vengono vissuti dall’aggressore come segnali di vittoria e quindi come rinforzo positivo che sostiene l’aggressività stessa. Utile la sublimazione dei ~ 230 ~ istinti più aggressivi in altre attività come ad esempio lo sport. Cosa si può evidenziare da questa teoria? L’istinto di sopravvivenza della specie come i rinforzi della società che vengono vissuti in maniera inconscia senz’altro sono i segni che si possono osservare e quindi non possono essere riferiti dalla persona stessa. Sempre negli stessi anni di Skinner, John Dollard arriva a sostenere che l’aggressività è sempre la conseguenza di una frustrazione e che una condizione frustrante conduce sempre ad agiti aggressivi ( Dollard e al., 1939). Egli sottolinea che l’aggressività è difficilmente controllabile sul piano on/off, mentre lo è di più su un piano di palesità o non palesità. Come dire che l’aggressività non può essere più di tanto inibita, mentre per timore di punizioni, può non essere visibile, non palese (Dollard, 1939) ovvero, ogni atto aggressivo inibito costituisce una nuova frustrazione e quindi un aumento dell'istigazione all'aggressività e inversamente "il manifestarsi” di un qualsiasi atto aggressivo riduce l'istigazione all'aggressività stessa. Tutto questo dimostra l’appartenenza prevalente della teoria ai segni che possano essere interpretati in uno o in un altro modo. Più vicino ai giorni nostri è invece il grande lavoro condotto da Stanley Milgram, in particolar modo sui temi del conformismo, del condizionamento sociale e dell’obbedienza. Proprio dallo studio dell’obbedienza derivano i contributi più importanti che l’autore dà al tema aggressività (Milgram, 1963). Milgram parte dal domandarsi quanto una persona che per valori e principi è contraria a fare del male, sotto pressione di un comando sia disposta ad essere aggressiva e violenta. Da questo quesito egli arriva a definire con grande chiarezza quanto un ambiente percepito come autorevole e la possibilità dell’aggressore a deresponsabilizzarsi contribuiscano fortemente a generare agiti violenti ed aggressivi, anche in soggetti naturalmente non portati a compiere tali atti. In questo modo egli evidenzia che l’aggressività si ottiene da situazioni ambientali e su qualsiasi persona. Questo è possibile se si riesce a generare conflittualità e ~ 231 ~ disequilibri emozionali nei soggetti, i quali, non riuscendo a fuggire o a ribellarsi (anche in assenza di punizioni), risolvono tale situazione attraverso il “controantropomorfismo” (Milgram, 1963), cioè deumanizzando i propri agiti, deresponsabilizzandosi, come se l’azione aggressiva sia opera di una “anima” diversa da quella del diretto aggressore. Questo, secondo Milgram, avviene attraverso uno scarico di responsabilità del diretto aggressore sull’autorità e/o sull’istituzione, che - in sintesi - porta l’autore ad affermare che “anche se le persone non sono motivate ad essere aggressive, possono da un momento all’altro partecipare a comportamenti aggressivi e distruttivi” (Milgram, 1963, 1974). In questa teoria si può essere sicuri di attribuire l’aggressività ad un segno dove una persona deresponsabilizzandosi e scaricando sui terzi le sue azioni non si rende conto e non riesce definire con certezza i sintomi che prova. Un ulteriore autore che si è occupato di aggressività sul versante sperimentalista è Albert Bandura, si occupa di aggressività dal punto di vista dell’apprendimento, dell’Apprendimento all’interno Sociale della (Bandura, sua 1973). più Egli ampia sostiene teoria che l’aggressività sia un fatto sociale e non biologico, dato dai modelli aggressivi rappresentati dalla società e dalla capacità latente della persona di apprendere dagli stessi modelli (modeling) (Bandura, 1973). In questo senso Bandura ritiene che il comportamento aggressivo non sia l’effetto di una frustrazione, né di una pulsione, ma l’effetto della possibilità di imparare da modelli aggressivi (modeling), specie se questi sono percepiti come socialmente accettati, efficaci e premiati. Vengono quindi sottolineati altri aspetti che intervengono nelle dinamiche aggressive, come la capacità di apprendere per sola esposizione (esperimento di bambola Bobo), ma soprattutto come - a prescindere da condizioni mentali soggettive l’aggressività possa esserci unicamente a partire da come la persona pensa sia il giudizio sociale su una data azione e quindi dal potersi prefigurare in anticipo conseguenze premianti o punenti il proprio agito. In questa teoria ci fa ritornare a definire di nuovo il fenomeno di aggressività come un segno. ~ 232 ~ Secondo l’etologo K.Lorenz, l’organismo accumula continuamente energia aggressiva che verrà liberata in funzione di quanta ne è stata accumulata e dello stimolo che la eccita (la vista o l’odore di un predatore). Il comportamento aggressivo sarebbe quindi un istinto funzionale alla sopravvivenza della specie favorendo il membro più forte e maggiormente adattato all’ambiente. Lorenz sostiene che non si può eliminare l’aggressività, ma che si può incanalarla verso forme di scarica non pericolose come attività sportive, artistiche, ecc. Chiaramente dal concetto di carica innata, di lotta come istinto primario per garantire la sopravvivenza si deduce appartenenza di questa teoria ai segni. Di peso diverso e di più ampia portata è invece il contributo dato alla psicologia da Melanie Klein (Klein, 1932, 1957), la quale attribuisce all’aggressività una dimensione istintuale-originaria, già presente alla nascita e coinvolta da subito nella generazione di strutture psichiche come l’Io Infantile e il Super-Io. Per lei l’aggressività ha una dimensione fantasmatica, che si origina dalla matrice del trauma della nascita (Freud, 1920; Rank, 1924), che da subito conduce il bambino ad avere fantasie di distruttività verso sé e verso l’esterno di Sé. Questa teoria (istintualeoriginaria) dimostra una impossibilità di parlare dei sintomi. Di grande interesse è anche il lavoro svolto di Donald W. Winnicott, il quale, partendo dagli studi di Melanine Klein arriva a dare un notevole contributo a tutta la “Psicologia delle Relazioni Oggettuali”, grazie agli approfondimenti svolti sul rapporto persona - “oggetto” (Winnicott, 1941, 1971). Il suo contributo alla conoscenza dell’aggressività parte proprio dallo studio del rapporto che si ha con gli oggetti che incontriamo nella nostra esperienza e “dell’uso” che ne facciamo. In una sua affermazione, che racchiude lo spirito che da all’aggressività, sostiene che omicidio e suicidio sono la stessa cosa (Winnicott, 1967) e che i rischi di eccesso di aggressività per una società dipendono direttamente da quanto essa è rimossa negli individui; ovvero dall’impossibilità di riconoscerla e poterla agire con i sentimenti appropriati. ~ 233 ~ L’aggressività è qui vista come una funzione mentale parziale, che precede la costituzione di una personalità e che serve al neonato per esprimere amore, amore aggressivo (ad esempio l’erotismo orale che ha in se elementi aggressivi) (Winnicott, 1941, 1971), possibile anche perché il neonato non riesce a preoccuparsi degli effetti delle sue azioni. Attraverso il passaggio e la maturazione del sentimento di preoccupazione (cosa genero nell’atro attraverso la mia aggressività) e attraverso l’elaborazione della rabbia (derivante dalle frustrazioni di una normale esperienza), il bambino si difenderà scindendo il suo amore aggressivo in due parti distinte e separate: l’amore e l’odio. Questa scissione perdurerà ed aiuterà a consolidare gli aspetti amorosi dentro di sé e a riconoscere e a tenere fuori di sé quelli aggressivi e di odio. Qui l’aggressività è ritenuta una parte della pulsione dell’Es (e non una pulsione dell’Es) , quella della sua componente distruttiva (ma non intenzionale) che, attraverso un sviluppo basato sulla relazione con l’ambiente capace di integrare ed organizzare l’Io, verrà trasformata in un’aggressività riconosciuta e gestibile. Il soggetto proverà rabbia ed odio, ma temendo le conseguenze dei suoi stessi sentimenti sarà portato a gestire tutto questo. Se le cose invece andassero diversamente, cioè vi fosse una cattiva esperienza con il mondo esterno, l’individuo sviluppa un maggior bisogno di vivere nel Non Me anziché nel Me (cioè essere più concentrato su aspetti dell’esperienza che vede solo come esterni da sé frustrante) (Winnicott, 1965), dando adito all’attivazione di comportamenti aggressivi, che per sussistere necessitano di essere provocati. (siccome lui mi vuole fare male allora io l’aggredisco). Pertanto, in questo impianto teorico abbastanza articolato, l’aggressività è innata e precede la fase integrativa e costituente la personalità ed il carattere partecipando allo sviluppo complessivo della mente. Fondamentale però diviene anche il contesto ambientale, che qui ha un ruolo ben specifico rispetto all’aggressività, poiché deve dare la possibilità di vivere esperienze sufficientemente frustranti, capaci cioè di far riconoscere la rabbia e l’odio e di integrarle nello stesso tempo con le altre parti di sé. Quindi un ambiente ~ 234 ~ né troppo protettivo, né eccessivamente. In questa teoria si intravede il discorso dei sintomi, l’individuo interagisce con l’ambiente, riconosce e gestisce l’aggressività quindi è capace riferire i sentimenti che prova, ma l’aspetto dell’aggressività innata, dall’impossibilità di riconoscerla e poterla agire con i sentimenti appropriati fa ritornare a pensare che l’aggressività è un segno. Soltanto osservando si può definirla. Altrettanto articolata è poi la teoria sviluppata da Otto Kernberg (Kernberg, 1982, 1992), il quale ha il pregio di aver rivisitato la teoria delle pulsioni tenendo insieme le teorie degli affetti con quella delle relazioni oggettuali. Egli ha sviluppato a fondo le dinamiche dell’aggressività e propone una concezione dell’aggressività innatista e pulsionale-affettvia nello stesso tempo. Per l’autore l’aggressività è presente negli affetti, ovvero nella primordiale capacità di distinguere ciò che ci piace (nutrirsi, riscaldarsi…) da ciò che non ci piace (sentire fame, sentire dolore fisico…). Attraverso le prime esperienze con il mondo e grazie ad altre due proprietà innate, fantasticare e memorizzare, sviluppiamo inconsciamente una pulsione di vita e una pulsione di morte. L’aggressività è l’espressione della pulsione di morte (Kernberg, 1992). Entrambe le pulsioni partecipano allo sviluppo di una rappresentazione di sé e dell’oggetto e successivamente questa sottostruttura si consoliderà in una struttura tripartita (es, io e super-io). Nel suo lavoro Kernberg non svela un’aggressività o una dinamica aggressiva particolarmente nuova rispetto agli autori che lo hanno preceduto, però ha il merito di riuscire a tenere insieme apparenti sincrasie presenti tra due impianti teorici che tentano di spiegare le stesse cose: la teoria delle pulsioni e la teoria delle relazioni oggettuali. Questo avviene principalmente attraverso la possibilità di collocare la matrice dell’aggressività negli affetti già intrauterini, ovvero nell’innata capacità di poter soffrire (ed anche godere…) e dalla relativa primordiale esperienza che possiamo fare di questa nostra capacità, che ~ 235 ~ solo così potrà strutturarsi in pulsione. La teoria di Kernberg ci dimostra un’altra volta appartenenza di aggressività ai segni. Aggressività: è un segno o un sintomo? Come si può definire il fenomeno cosi complesso con una sola parola? Storr (1968) ha scritto che l’aggressività può essere considerata una "parola valigia“, poiché porta con se significati molto diversi tra loro: una emozione aggressiva ingiustificata oppure anche giustificata, una competizione legittima nel luogo di lavoro, un atteggiamento mentale, un confitto tra nazioni, e così via. Uno dei problemi nasce dal fatto che il termine aggressività può alludere simultaneamente al correlato comportamentale di un’ emozione (agitazione, tachicardia, rossore in volto, ecc.) e a uno stato psicologico, cioè una qualità astratta, un atteggiamento mentale o una propensione interna che possono anche non manifestarsi a livello comportamentale. La parola stessa nella sua radice etimologica, ha in sé un’ambiguità di significati, che chiaramente non è causale, ma è invece significativa della complessità del fenomeno aggressività, che può svolgere funzioni diverse nell’adattamento della persona alla realtà. In conclusione, Aggressività = segno-sintomo. ~ 236 ~ BIBLIOGRAFIA. 1. Abraham Karl.: Alle radici della teoria analitica. Roma, Armando, 2002. 2. Adler A.: Conoscenza dell’uomo. Mondadori, Milano, 1970. 3. Allen R.P., Safer D., Covi L.: Effects of psychostimulants on aggression. Journal of Nervous and Mental Diseases, 1975. 4. Bandura A.: Aggression: a social learning analysis. Prentice Hall, Englewood Cliffs, 1973. 5. Bergeret J.: Clinica, teoria e tecnica. Cortina, Milano, 1990. 6. Bergeret J.: Psicologia patologica. Teoria e clinica. 2009 7. Berkowitz L.: Aggression: a social psychological analysis. Mc Graw Hill, New York, 1962. 8. Beskow J., Gottfries C.G. et al.: Determination of monoamine and monoamine matabolites in the human brain: post mortem studies in a group of suicides and in a control group. Acta Psychiatrica Scandinavica, 1976. 9. Brown G.L., Ebert M.H. et al.: Aggression, suicide and serotonin: relationship to CSF amine metabolites. 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Di conseguenza, un primo enorme ringraziamento va al mio relatore, il Prof. Massimo Borghesi, che ha avuto la fiducia (o l'incoscienza) di scegliermi per stesura della presente tesi. Se mi trovo a scrivere queste righe oggi il merito è principalmente suo: spero che in qualche modo possa essere fiero di questo lavoro oltre che per non aver dubitato delle mie capacità. Allo stesso modo vorrei ringraziare il medico del Pronto Soccorso di Riccione(RN) Paolo Brici, che sebbene non sia stato il mio diretto responsabile per questo percorso è stato comunque una figura di riferimento. Infine, l'ultimo grazie va alle persone che mi sono state vicine e hanno creduto in me per tutto questo tempo, che mi hanno sopportato - e tuttora mi sopportano - soprattutto per quanto riguarda questi ultimi mesi, il loro lavoro di supporto (non troppo) silenzioso nei miei confronti ha fatto sì che tutto questo sembrasse più semplice, ovvero alle mie bambine Marta ed Elisa, al mio meraviglioso compagno Roberto a Lara e ai miei pochi ma cari amici. Condensare in qualche riga tutto quello che ho ricevuto da voi in questi anni non è umanamente possibile e sarebbe riduttivo ed ingiusto, mi limiterò a dire che avete continuato a crederci anche quando non ci credevo più nemmeno io e di questo non vi sarò mai abbastanza grata. GRAZIE!!! ~ 245 ~ ~ 246 ~ ALLEGATI ~ 247 ~ ~ 248 ~ SELEZIONE DI SCALE PER LA VALUTAZIONE DELL'AGGRESSIVITÀ ~ 249 ~ ~ 250 ~ Principali scale di valutazione dell’aggressività in acuto. Il rischio di violenza e dell’aggressività in categorie particolari Valutazione dell'aggressività in Nursing Rating Scale – NRS acuto (Hargreaves, 1968) lnpatient Behavioral Rating Scale IBRS (Green et al., 1977) Overt Aggression Scale - GAS (Yudofsky et al., 1986) Acute Psychiatric Rating Scale – APRS (Squier, 1995) Valutazione del rischio di Aggression Risk Profil Scale – violenza ARP (Kay et al., 1988) Scale of Profile of Feelings and Acts of Violence – PFAV (Plutchik e van Praag, 1990) Suicide and Aggression Survey – SAS (Korn et al., 1992) Valutazione dell'aggressività nei Aggressive Scale of the Child bambini e negli adolescenti Behavior Checklist - CBCL (Achenbach, 1978) Revised Teacher Rating Scale rTRS (Goyette et al., 1978) Self-Report Delinquency scale SRD (Elliot et al., 1983) Pfeffer’s Spectrum of Assaultive Behavior Scale (Pfefferetal.,1983) Lewi’s Scale - LS (Inamdar et al., 1986) Revised Behavior Problem Checklist - RBPC (Quay e Peterson, 1987) Missouri Peer Relation lnventory MPRl (Borduin et al.,1989) Valutazione dell’aggressività Cohen-Mansfield Agiation negli anziani Inventory – CMAI (Cohen Mansfield e Billing, 1986) Rating Scale for Aggressive Behavior in the Elderly – RAGE (Patel e Hope, 1992) ~ 251 ~ Principali scale per la valutazione dell’aggressività in generale Hostility Scale – HoSca (Cook e Medley, 1954) Buss Durkee Hostility Inventory – BDHI (Buss e Durkee, 1967) Hostility and Direction of Hostility Questionnaire – HDHQ (Caine et at., 1967) Novaco Anger Arousal Scale – NAAS (Novaco, 1975) Scala di Lagos (Lagos et at., 1977 Brown-Goodwin Questionnaire – BGQ (Brown et at., 1979, 1992) Questionario Irritabilità-Ruminazione/Dissipazione – QI-R (Caprara et at., 1991) - Scala di Irritabilità (Caprara, 1983) - Scala di Ruminazione/Dissipazione (Caprara et at., 1985a) Over Aggression Scale – OAS (Yudofsky et at., 1986) - Modified OAS (Kay et at., 1988) - Retrospective Overt Aggression Scale – ROAS (Sorgi et at., 1991) - Staff OAS – SOAS (Palmstierna e Wistedt, 1987) Cohen-Mansfield Agitation Inventory – CMAI (Cohen-Mansfield e Billing, 1986) Multidimensional Anger Inventory – MAI (Siegel, 1986) State-Trait Anger Expression Inventory – STAXI (Spielberger, 1988) Social Dysfunction and Aggression Scale – SDAS (Wistedt et at., 1990) Global Aggression Scale – GAS (Wistedt et at., 1990) Questionario per gli Attacchi di Rabbia – QAR (Fava et at., 1991) Aggression Inventory – AI (Gladue, 1991) Aggression Questionnaire – AQ (Buss e Perry, 1992) Brief Agitation Rating Scale – BARS (Finkel et at., 1993) Life History of Aggression – LHA (Coccaro et at., 1997) Barratt Impulsiveness Scale, Version 11- BIS-11 (Barratt e Stanford, 1995) ~ 252 ~ INVENTORY FOR ASSESSING DIFFERENT KINDS OF HOSTILITY (BDHI) Autori: A H Buss, A Durkee, 1957. Descrizione e particolarità di impiego Il BDHI (Buss Durkee Hostitity Inventory) è uno strumento atto ad indagare, secondo l'ottica comportamentista, non solo il tipo di aggressività, ma anche la modalità con cui questa viene manifestata, e questo sia per il comportamento aggressivo in rapporto ad una condizione patologica, sia per quello che fa parte dei comportamenti quotidiani che si possono osservare, anche se espressi in maniera meno scoperta, nei soggetti "normali". Gli Autori sono partiti dal presupposto che una valutazione globale dell'aggressività contiene una notevole ambiguità, potendo essere attribuito lo stesso punteggio, ad esempio, ad un soggetto aggressivo, ma non sospettoso e ad uno sospettoso, ma non aggressivo. Hanno ritenuto importante, perciò, distinguere le manifestazioni di aggressività aperte da quelle nascoste e, basandosi sull'osservazione clinica, hanno individuato 7 tipi di comportamento ostile-aggressivo, al quale hanno aggiunto, poi, un'ottava dimensione, la colpa, definita come sentimento di essere cattivo, di aver compiuto azioni riprovevoli, di provare rimorso. Gli item della scala sono stati scelti secondo alcuni principi di base: • ogni item doveva essere in grado di riferirsi ad una sola sottocIasse per essere discriminativo; • i comportamenti e gli atteggiamenti considerati dovevano essere specifici e le situazioni che li provocavano dovevano essere "universali" (nell'item "mi sento ribollire il sangue quando la gente mi prende in giro", ad esempio, il "ribollire il sangue" è un comportamento specifico ed il "prendere in giro" è una situazione universale); • l'item doveva essere espresso in modo che l'ammettere comportamento socialmente indesiderabile non bloccasse l'individuo. ~ 253 ~ un Questo è stato realizzato attraverso le seguenti tre tecniche: a) il comportamento viene presentato come già esistente ed al soggetto viene chiesto solo come sarebbe la sua reazione fisica, minimizzando così il giudizio relativo all'atteggiamento aggressivo ("a volte mostro la mia collera battendo i pugni sul tavolo"); b) viene fornita una giustificazione al comportamento aggressivo ("chiunque insulta me o la mia famiglia cerca la rissa"), ossia una spiegazione che riduce le difese e i sentimenti di colpa del soggetto; c) vengono utilizzate frasi idiomatiche frequentemente usate nel linguaggio di tutti i giorni ("quando sono arrabbiato metto il muso"). Lo strumento indaga anche le valenze aggressive espresse sul piano comportamentale con condotte dirette all'esterno e tese a proteggere I'incolumità dell'individuo, specialmente se minacciata da uno stimolo nocicettivo. Periodo valutato Il questionario può essere usato come strumento per la valutazione sia del comportamento attuale, sia come rilevazione di una caratteristica di stato del soggetto. Indicazioni Il BDHI in quanto valuta anche quelle valenze di ostilità che non vengono agite sul piano comportamentale, può essere somministrato sia a soggetti sani, sia a pazienti psichiatrici che presentino o meno comportamenti aggressivi manifesti. Impiego per valutazioni ripetute Lo strumento può essere usato come metro di valutazione del cambiamento di un comportamento in seguito ad un trattamento. Quando è impiegato ripetutamente a questo scopo, al soggetto deve essere posta la richiesta di fare riferimento, nel dare le risposte, al periodo attuale. Struttura Il BDHI è costituito da 75 item. Lo strumento, oltre a fornire un indice globale di aggressività, indicato dal punteggio totale, consente di tracciare ~ 254 ~ un profilo del comportamento aggressivo articolato in sette tipi di condotte aggressive differenziate: Aggressività Diretta, Aggressività Indiretta, Irritabilità, Negativismo, Risentimento, Sospettosità e Aggressività Verbale. Un'ottava dimensione esplora la Colpa. Il rapporto fra il punteggio totale e la Colpa permette di avere un indice dell'inibizione dell'aggressività. Le dimensioni del BDHI sono: • aggressività diretta: è il comportamento teso a far del male o danneggiare gli altri senza riuscire a controllare gli impulsi aggressivi. In questo stereotipo è completamente sconosciuta tutta quella vasta gamma di reazioni non imperniate sulla forza, come possibili attualizzazioni nella risposta a stimoli e situazioni provocatorie; • aggressività indiretta: si tratta degli atteggiamenti e delle condotte comportamentali di chi scarica l'aggressività mediante modalità indirette come denigrare, "sbattere le porte", "mettere il muso", "scagliare oggetti" o fare "scherzi pesanti"; • irritabilità: è caratterizzata dalla mancanza di tolleranza e pazienza nei confronti degli altri, con facile perdita della calma, accompagnata dalla spiacevole sensazione di essere sull' orlo di "esplodere"; • negativismo: è espresso da un comportamento oppositivo nei confronti degli altri con la trasgressione, il rifiuto di eseguire qualsiasi tipo di compito, o di fare esattamente l'opposto di ciò che viene chiesto; • risentimento: è caratterizzato dalla frequente sensazione di aver subito ingiustizie e di insoddisfazione rispetto al presente ed al passato; • sospettosità: esprime la convinzione di essere denigrati ed un atteggiamento di diffidenza nei confronti degli altri, vissuti come poco sinceri o provocatori; • aggressività verbale: è la costante disposizione alla disapprovazione ed alla polemica con tutti quelli che non sono d'accordo senza evitare di dire cose spiacevoli ed alzare la voce; ~ 255 ~ • colpa: sostenuta da una forte coscienza morale, da una notevole rigidità e da un forte senso del dovere, svolge un ruolo modulatore importante sul comportamento aggressivo. Punteggio Ciascun item prevede una risposta dicotoma, vero/falso. Affidabilità e validità La scala è stata ampiamente testata e vali data su numerosi campioni con risultati ampiamente soddisfacenti. Castrogiovanni e collaboratori ne hanno curato la standardizzazione e la validazione della versione italiana (Castrogiovanni e coll., 1982). Traduzione P.Castrogiovanni, I.Maremmani, MF.Andreani (con la denominazione di Questionario per la Tipizzazione del Comportamento Aggressivo - OTA). Codice di identificazione della RS: # 750 BIBLIOGRAFIA Buss AH, Durkee: An Inventory for Assessing Different Kinds of Hostility. J Consult Psychol, 21 :343,1957. Castrogiovanni P, Andreani MF et al.: Per una valutazione del! 'aggressività nel! 'uomo: contributo alla validazione di un questionario per la tipizzazione del comportamento aggressivo. Rivista di Psichiatria, 17:276, 1982. Castrogiovanni P, Maremmani I, Andreani MF: Questionario per la Tipizzazione dell'Aggressività (Q. TA.). Traduzione ed adattamento italiano del!' "Inventory for Assessing Different Kinds of Hostility" di Buss e Durkee. Istituto di Clinica Psichiatrica, Università di Pisa 1982. ~ 256 ~ INVENTORY FOR ASSESSING DIFFERENT KINDS OF HOSTILITY - BDHI O QTA - # 750 Cognome e Nome--------------------------------Data di nascita-----------Codice Paziente------------Valutatore----------Data valutazione-------ISTRUZIONI A fianco di ogni affermazione troverà scritto Vero Falso. Per ogni affermazione dovrà fare una crocetta sulla risposta (Vero o Falso) che meglio rispecchia la sua opinione o la sua esperienza personale. Risponda sinceramente a tutte le domande. Le informazioni che lei fornirà sono coperte dal segreto professionale. 01. Anche quando vengo provocato, reagisco raramente con la forza---------------------------------------------------------------------------------02. A volte sparlo delle persone che non mi piacciono ----------------03. Non faccio ciò che mi si chiede se non me lo si chiede gentilmente -----------------------------------------------------------------------04. Perdo le staffe facilmente, ma mi calmo con rapidità -------------05. Non mi sembra di meritare quello che mi sta accadendo -------06. So che la gente tende a sparlare di me dietro le mie spalle ----07. Se disapprovo le azioni dei miei amici, trovo il modo di farglielo notare-------------------------------------------------------------------------------08. Le poche volte che ho ingannato ho provato poi un grande sentimento di rimorso ----------------------------------------------------------09. A volte non riesco proprio a controllare l'impulso di far del male agli altri-----------------------------------------------------------------------------10. Non mi arrabbio mai al punto di scagliare oggetti -----------------11. A volte la gente mi infastidisce anche solo standomi attorno ---12. Se qualcuno pone una regola che non mi piace sono tentato di trasgredirla-------------------------------------------------------------------------13. Mi sembra che gli altri ottengano sempre quello che vogliono -14. Sto in guardia con quelle persone che si dimostrano più gentili di quanto pensavo --------------------------------------------------------------15. Spesso sono in disaccordo con la gente -----------------------------16. A volte ho dei cattivi pensieri che mi fanno vergognare di me stesso ------------------------------------------------------------------------------17. Credo che non vi siano buone ragioni per picchiare qualcuno -18. Se sono arrabbiato a volte metto il muso ----------------------------19. Se qualcuno si mostra arrogante con me, faccio il contrario di quello che mi chiede -----------------------------------------------------------20. Mi irrito molto di più di quello che la gente pensa ------------------21. Non conosco persone che possa dire di odiare veramente -----22. Molta gente sembra detestarmi ----------------------------------------23. Non posso evitare di entrare in polemica con chi non è d'accordo con me----------------------------------------------------------------- ~ 257 ~ Vero Vero Falso Falso Vero Vero Vero Vero Falso Falso Falso Falso Vero Falso Vero Falso Vero Vero Vero Falso Falso Falso Vero Vero Falso Falso Vero Vero Falso Falso Vero Vero Vero Falso Falso Falso Vero Vero Vero Vero Falso Falso Falso Falso Vero Falso 24. Chi lavora senza fare il proprio dovere si deve sentire molto in colpa -------------------------------------------------------------------------------25. Se qualcuno mi fa un torto, non gliela faccio passare liscia ----26. Quando sono arrabbiato mi capita di sbattere le porte -----------27. Sono sempre paziente con gli altri -------------------------------------28. Talvolta se sono arrabbiato con qualcuno non gli rivolgo più la parola-------------------------------------------------------------------------------29. Se penso al mio passato non posso fare a meno di provare un po' di risentimento ----------------------------------------------------------------30. Molte persone sembrano invidiose di me ----------------------------31. Pretendo che la gente rispetti i miei diritti ----------------------------32. Mi rende triste non aver fatto di più per i miei genitori ------------33. Chiunque insulta me o la mia famiglia cerca la rissa -------------34. Non faccio mai scherzi pesanti a nessuno --------------------------35. Se qualcuno si prende gioco di me mi ribolle subito il sangue -36. Se qualcuno si mostra prepotente, non perdo l'occasione per farglielo notare -------------------------------------------------------------------37. Quasi ogni settimana incontro qualcuno che non mi piace -----38. A volte ho la sensazione che gli altri stiano ridendo di me ------39. Anche quando sono arrabbiato non ricorro a male parole ------40. Mi preoccupa il non sapere se potrò ottenere il perdono per i miei peccati-----------------------------------------------------------------------41. La gente che continuamente mi scoccia si merita un pugno sul naso --------------------------------------------------------------------------------42. A volte, se non riesco a realizzare quello che voglio, divento di cattivo umore ---------------------------------------------------------------------43. Se qualcuno mi scoccia, gli dico subito cosa penso di lui -------44. Spesso mi sento un barile di polvere pronto ad esplodere ------45. Anche se non lo do a vedere, a volte sono divorato dalla gelosia------------------------------------------------------------------------------46. Questo è il mio motto: diffida sempre degli estranei --------------47. Se qualcuno alza la voce con me io la alzo più di lui -------------48. Faccio molte cose di cui poi provo rimorso---------------------------49. Quando perdo la calma sono capace di prendere a sberle qualcuno ---------------------------------------------------------------------------50. Non perdo le staffe dall' età di dieci anni -----------------------------51. Quando mi arrabbio dico cose spiacevoli ----------------------------52. A volte ho voglia di litigare -----------------------------------------------53. Se lasciassi capire agli altri come la penso, mi giudicherebbero uno con cui è difficile andare d' accordo ----------------------------------54. Se una persona si mostra gentile con me, mi chiedo se non ci sia sotto qual cos a ------------------------------------------------------------55. Non riesco a tener testa a nessuno a parole, anche quando è necessario ------------------------------------------------------------------------56. Il non riuscire a fare qualcosa genera in me un senso di rimorso------------------------------------------------------------------------------57. Spesso attacco briga con la prima persona che mi capita ------- ~ 258 ~ Vero Vero Vero Vero Falso Falso Falso Falso Vero Falso Vero Vero Vero Vero Vero Vero Vero Falso Falso Falso Falso Falso Falso Falso Vero Vero Vero Vero Falso Falso Falso Falso Vero Falso Vero Falso Vero Vero Vero Falso Falso Falso Vero Vero Vero Vero Falso Falso Falso Falso Vero Vero Vero Vero Falso Falso Falso Falso Vero Falso Vero Falso Vero Falso Vero Vero Falso Falso 58. Ricordo di essermi talmente arrabbiato da rompere la prima cosa che mi è venuta a tiro ---------------------------------------------------59. Spesso faccio minacce che in effetti non intendo mantenere --60. Non posso fare a meno di essere sgarbato con chi non mi piace --------------------------------------------------------------------------------61. A volte credo di avere quanto di peggio ci si possa aspettare dalla vita ---------------------------------------------------------------------------62. Prima pensavo che la maggior parte della gente dicesse la verità, ma ora so che non è çosì --------------------------------------------63. Di solito non lascio trasparire la cattiva opinione che ho degli altri ----------------------------------------------------------------------------------64. Se sbaglio, la coscienza mi rimorde per molto tempo ------------65. Per difendere i miei diritti non esito a ricorrere anche alla violenza fisica---------------------------------------------------------------------66. Se qualcuno mi tratta ingiustamente, il fatto non mi irrita -------67. Non ho nemici che desiderino realmente danneggiarmi ---------68. Quando discuto tendo ad alzare la voce -----------------------------69. A volte penso di non aver vissuto rettamente -----------------------70. Ho conosciuto delle persone che mi hanno portato al punto di fare a botte------------------------------------------------------------------------71. Non mi lascio irritare da una serie di cose di poco conto --------72. Penso di rado che la gente stia cercando di provocarmi o di insultarmi --------------------------------------------------------------------------73. Recentemente sono stato di pessimo umore -----------------------74. Piuttosto che entrare in polemica preferisco lasciar perdere----75. A volte mostro la mia collera battendo i pugni sul tavolo --------- ~ 259 ~ Vero Vero Falso Falso Vero Falso Vero Falso Vero Falso Vero Vero Falso Falso Vero Vero Vero Vero Vero Falso Falso Falso Falso Falso Vero Vero Falso Falso Vero Vero Vero Vero Falso Falso Falso Falso ~ 260 ~ AGGRESSION QUESTIONNAlRE (AQ) Autori: AH Buss, M Perry, 1992. Descrizione e particolarità di impiego L'Aggression Questionnaire è nato dall' osservazione di una certa inconsistenza dell' analisi fattoriale del BDHI, lo strumento che lo stesso Buss aveva messo a punto assieme a Durkee (Buss e Durkee, 1957). È una scala composta da 29 item da cui derivano 4 fattori: Aggressività Fisica, Aggressività Verbale, Rabbia e Ostilità. Dall'analisi delle correlazioni tra i fattori emerge che la Rabbia è una manifestazione aggressiva intermedia tra Aggressività Fisica e Verbale e Ostilità. Inoltre, i 4 fattori correlano con diversi tratti di personalità, dato rilevante per la valutazione dei rapporti tra aggressività e altre variabili che il QTA (o BDHI) non permette di indagare. L'AQ è derivato dall'analisi delle componenti principali effettuata su un iniziale pool di 52 item, parte dei quali ricavati direttamente dal BDHI. Lo strumento consente di valutare, non solo l'entità dell'aggressività, ma anche (in base ai punteggi delle subscale) come tale aggressività si manifesta. Periodo valutato Il questionario, può essere usato come strumento per la valutazione sia del comportamento attuale, sia come rilevazione di una caratteristica di tratto del soggetto. Indicazioni L'AQ, in quanto valuta anche quelle valenze di ostilità che non vengono agite sul piano comportamentale, può essere somministrato sia a soggetti sani, sia a pazienti psichiatrici che presentino o meno comportamenti aggressivi manifesti. Impiego per valutazioni ripetute Lo strumento può essere usato come metro di valutazione del cambiamento di un comportamento in seguito ad un trattamento. Quando è impiegato ripetutamente a questo scopo, al soggetto deve essere posta la richiesta di fare riferimento, nel dare le risposte, al periodo attuale. ~ 261 ~ Struttura La scala è composta da 29 item dai quali derivano quattro fattori: • Aggressività fisica (physical aggression - PA): composto da 9 item (1, 5, 9, 13, 17, 21, 24, 26, 28); • Aggressività verbale (verbal aggression - VA): composto da 5 item (2, 6, 10, 14, 18); • Rabbia (anger - A): composto da 7 item (3, 7, 11, 15, 19, 22, 29); • Ostilità (hostility - H): composto da 8 item (4, 8, 12, 16, 20, 23, 25, 27). Punteggio Il punteggiò degli item è assegnato in base ad una scala a 5 punti che esprime la misura in cui il comportamento esplorato da ciascun item "è caratteristico" per il soggetto (da l = per niente, a 5 = pienamente). Gli item 24 e 29 hanno il punteggio invertito rispetto agli altri. Il punteggio totale (il risultato della somma di tutti gli item) può variare fra 29 e 145; il punteggio dei fattori è dato dalla somma dei punteggi degli item che li compongono. I punteggi più alti esprimono una maggiore aggressività. Affidabilità e validità Le caratteristiche psicometriche (consistenza interna, affidabilità, validità al test-retest) sono risultate di ottimo livello ha dimostrato di possedere una buona affidabilità ed un'elevata correlazione con altre misure della personalità borderline. Alcune ricerche hanno evidenziato che la scala misura anche sintomi dei disturbi schizotipici e misti di personalità. Traduzione L.Conti per questo Repertorio Codice di identificazione della RS: # 753 BIBLIOGRAFIA Buss AH, Perry M: The Aggression Questionnaire. J Personal Soc Psychol, 63:452, 1992. ~ 262 ~ AGGRESSION QUESTIONNAIRE – AQ - # 753 ~ 263 ~ È molto poco caratteristico È poco caratteristico È alquanto caratteristico È proprio caratteristico 1. Di tanto in tanto non riesco a controllare la spinta a picchiare qualcuno .......................................................... 2. Quando non sono d'accordo con i miei amici io gliela dico apertamente ………………………………………… 3. Mi arrabbio facilmente, ma mi calmo in fretta ............. 4. Talvolta sono divorato dalla gelosia ………………….. 5. Se sono provocato, posso picchiare qualcuno ........... 6. Spesso mi trovo in disaccordo con gli altri ................. 7. Quando rimango deluso, lascio trasparire la mia irritazione ........................................................................ 8. Talvolta mi sembra che la vita mi abbia trattato ingiustamente ................................................................. 9. Se qualcuno mi picchia, io gliele rendo ………………. 10. Quando le persone mi importunano, io posso dirgli ciò che penso di loro....................................................... 11. Spesso mi sento come un barile di polvere pronto ad esplodere ................................................................... 12. Mi sembra che agli altri capitino sempre delle opportunità…………….... ............................................... 13. Attacco briga un po' più spesso degli altri ................ 14. Non posso evitare di entrare in polemica con chi non è d'accordo con me ………………………………….. 15. Secondo i miei amici sono una testa calda ............... 16. Mi chiedo perché talvolta mi sento così amareggiato per qualcosa ............................................. Non è per niente caratteristico Cognome e Nome-------------------------------- Data di nascita-----------------------Codice Paziente----------Valutatore--------------- Data valutazione----------------ISTRUZIONI Valuti in che misura il comportamento indicato nelle espressioni seguenti è caratteristico del suo comportamento. Per me questo comportamento … 1 2 3 4 5 1 1 1 1 1 2 2 2 2 2 3 3 3 3 3 4 4 4 4 4 5 5 5 5 5 1 2 3 4 5 1 1 2 2 3 3 4 4 5 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 1 2 2 3 3 4 4 5 5 1 1 2 2 3 3 4 4 5 5 1 2 3 4 5 17. Non esito a ricorrere alla violenza per difendere i miei diritti ........................................................................ 18. I miei amici dicono che io sono piuttosto polemico…………………………...................................... 19. A volte perdo le staffe per cose di poco conto .......... 20. So che "gli amici" parlano di me alle mie spalle ……. 21. Ci sono delle persone che mi hanno portato al punto di venire alle mani ........................................................... 22. Ho difficoltà a controllare la mia collera …………….. 23. Non mi fido degli sconosciuti che si comportano in maniera eccessivamente amichevole …………………... 24. Credo che non esistano buone ragioni per picchiare qualcuno.......................................................................... 25. A volte penso che la gente rida di me alle mie spalle 26. Ho minacciato persone che conosco……………….. 27. Se una persona si mostra particolarmente gentile con me, mi chiedo che cosa c'è sotto............................. 28. Sono uscito dai gangheri al punto da spaccare gli oggetti ............................................................................ 29. Sono una persona di carattere mite …………………. ~ 264 ~ 1 2 3 4 5 1 1 1 2 2 2 3 3 3 4 4 4 5 5 5 1 1 2 2 3 3 4 4 5 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 2 3 4 5 1 1 2 2 3 3 4 4 5 5 OVERT AGGRESSION SCALE (OAS) Autori: SC Yudofsky, JM Silver, W.Jackson, J.Endicott, 1986 Descrizione e particolarità di impiego L'OAS è un questionario di indubbia utilità nella documentazione e nella misurazione di specifici aspetti del comportamento aggressivo. È basato sull'osservazione del soggetto da parte di un valutatore che registra tutti i comportamenti che si manifestano nel corso di un episodio aggressivo, e che prende nota, altresì, dei diversi interventi terapeutici utilizzati in risposta all'episodio aggressivo stesso. L'impiego dell'OAS è particolarmente importante per documentare e valutare i pattern individuali di aggressività, come l'aggressività fisica o verbale, le fluttuazioni temporali dei comportamenti aggressivi ed i tipi di interventi utilizzati nel controllo di tali comportamenti. Pur essendo un valido strumento di registrazione dell'episodio aggressivo, ha alcune limitazioni: ad esempio, se il comportamento aggressivo, come spesso accade, si diluisce nel tempo o presenta delle fluttuazioni, può essere difficile compilare l'OAS, senza contare che il personale paramedico spesso non ha il tempo per compilare la scala tutte le volte che il comportamento aggressivo si manifesta e mentre è in corso. Sono state sviluppate diverse versioni modificate dello strumento: • Modified OAS - MOAS (Kay et al., 1988) fornisce una valutazione settimanale dell'aggressività; parte da una lista di controllo comportamentale per arrivare ad un sistema di stima in 5 punti che rappresenta crescenti livelli di gravità. Include forme importanti di aggressività, come il tentato suicidio e l'intimidazione. Fornisce un punteggio totale che riflette la gravità globale dell'aggressività; non registra gli interventi effettuati. • Retrospective Overt Aggression Scale - ROAS (Sorgi et al., 1991), uno strumento di eterovalutazione diretto a parenti o conoscenti del paziente ed allo staff che valuta il paziente. ~ 265 ~ Le 16 classi o tipi di comportamento aggressivo sono state trasformate in una scala a 16 voci; la frequenza del verificarsi delle condizioni è valutata su una scala a 5 punti (da 0 a 4). Sono registrate informazioni sul numero di volte (variabili da 0 fino a più di 10 volte) che si verifica un determinato comportamento aggressivo. Può essere usata retrospettivamente ed impiegata come misura dell'aggressività, sia rispetto all'individuazione di determinate condotte aggressive, sia rispetto alla frequenza ed alla gravità dei comportamenti aggressivi verificatisi nella settimana precedente e fornisce informazioni che consentono di comprendere meglio i tratti di aggressività, di prevedere il comportamento aggressivo e di sviluppare modalità efficaci di trattamento . • Staff OAS - SOAS (Palmstierna e Wistedt, 1987) valuta il grado e la frequenza dei comportamenti violenti e degli assalti in pazienti psichiatrici e psicogeriatrici. Sviluppata, come l'OAS, per un uso da parte dello staff ospedaliero, differisce da quella perché, invece che una lista di item, è un continuum a 4 punteggi articolato in 3 categorie (media, scopo e risultato) lungo il quale lo staff classifica tutti gli atti di aggressività. Il punteggio totale delle tre categorie definisce la gravità totale dell' evento aggressivo ed è a sua volta diviso in tre livelli: medio (2-5), moderato ( 6-8), e grave (9-12); fornisce anche l'indice di "frequenza di aggressività individuale", che è determinato calcolando il numero totale di eventi aggressivi diviso il numero dei giorni di osservazione. Periodo valutato Il questionario è basato sull' osservazione diretta del soggetto ed il periodo valutato è, perciò, quello dell' episodio aggressivo attuale. Indicazioni L'OAS è un valido strumento descrittivo delle modalità di espressione dell'aggressività ed è perciò indicata per lo studio di questo comportamento nei soggetti ricoverati. ~ 266 ~ Impiego per valutazioni ripetute La scala è specificamente indicata per essere applicata ogni volta che si presentano episodi di aggressività, ma non ha indicazioni per un'applicazione seriata com'è quella che caratterizza la ricerca. Struttura La scala fornisce un punteggio globale della gravità del comportamento aggressivo ed una classificazione dei comportamenti aggressivi in 16 diversi tipi. Si compone di 4 sezioni: Aggressività Verbale; Aggressività Fisica contro Oggetti; Aggressività Fisica Autodiretta; Aggressività Fisica Eterodiretta. Ogni sezione comprende 4 voci, per un totale di 16 voci. Punteggio I comportamenti aggressivi descritti dalle 4 voci di ogni sezione sono graduati, a seconda della gravità, in: mai, qualche volta, spesso, di solito, sempre. Affidabilità e validità Non abbiamo trovato studi relativi alle caratteristiche psicometriche della scala. Traduzione A Di Muro, L.Luccarelli e P.Castrogiovanni per questo Repertorio. Codice di identificazione della RS: # 755 BIBLIOGRAFIA Kay SR, Wolkenfeld F, Murril LM: Profiles of aggression among psychiatric patients. I.Nature and prevalence. J Nerv Ment Dis, 176:539, 1988. Palmstiema T, Wistedt B: Staff observation aggression scale, SOAS: presentation and evaluation. Acta Psychiat Scand, 76:657, 1987. Sorgi P, Ratey J et al.: Rating aggression in the clinical setting. A retrospective adaptation of the Overt Aggression Scale: preliminary results. J Clin Neurosci, 3:52, 1991. Yudofsky SC, Silver JM et al.: The Overt Aggression Scale for the objective rating of verbal and physical aggressions. Am J Psychiatry, 143:35, 1986. ~ 267 ~ ~ 268 ~ OVERT AGGRESSION SCALE – OAS # 755 Cognome e Nome …………………………..Data di nascita ………………….. Codice Paziente................... Valutatore................... Data valutazione …….. Turno: ○ Notte ○ Giorno ○ Sera ○ Segnare qui se durante il turno non si sono verificati comportamenti aggressivi (verbali o fisici) contro se stesso, gli altri o gli oggetti. COMPORTAMENTO AGGRESSIVO (SEGNARE TUTTO CIÒ CHE È PERTINENTE) AGGRESSIVITÀ VERBALE AGGRESSIVITÀ FISICA AUTODIRETTA o Fa grandi schiamazzi, grida o Si gratta o si sgraffia, si picchia, si in modo irato strappa i capelli (senza o solo con o Grida insulti personali lievi minime lesioni) (per es., "Sei stupido!") o Sbatte la testa, colpisce gli oggetti o Impreca in maniera rabbiosa, con i pugni, si butta per terra o nella rabbia usa un contro gli oggetti (si ferisce senza linguaggio osceno, fa gravi danni) minacce non particolarmente o Piccoli tagli o ammaccature, lievi serie verso gli altri o se bruciature stesso o Si provoca mutilazioni, si fa tagli o Fa serie minacce di violenza profondi, si morde a sangue, si verso gli altri ("Ti uccido!"), o provoca danni interni, fratture, chiede di essere aiutato a perdita di coscienza, perdita di denti controllarsi AGGRESSIVITÀ FISICA CONTRO AGGRESSIVITÀ FISICA CONTRO GLI OGGETTI LE ALTRE PERSONE o Sbatte la porta, butta all'aria i o Fa gesti minacciosi, agita i pugni vestiti,crea disordine verso gli altri, agguanta gli altri per i o Getta a terra gli oggetti, vestiti prende a calci i mobili senza o Percuote, tira calci, spintona, tira i romperli, sporca il muro capelli (senza fare danni) o Rompe gli oggetti, manda in o Aggredisce gli altri provocando loro frantumi le finestre danni fisici moderato/lievi o Appicca il fuoco, scaglia (ammaccature, distorsioni, lividi) oggetti in modo pericoloso o Aggredisce gli altri causando loro gravi danni fisici (fratture, ferite profonde, lesioni interne L'episodio è iniziato alle ore __ . __ AMIPM ed è durato __ , __ (h/min) INTERVENTI (SEGNARE TUTTO CIÒ CHE È PERTINENTE) o Nessuno o Parlato con i familiari o Stretta sorveglianza o Tenere fermo il paziente o Terapia immediata per os o Terapia immediata im/iv o Separazione senza rinchiudere il p. (durata) ~ 269 ~ o Uso di contenzione o Le lesioni richiedono una terapia immediata per il p. o Le lesioni richiedono una terapia immediata per altre persone ~ 270 ~ BARRATT IMPULSIVENESS SCALE, Version 11 (BIS-11) . Autori: ES Barratt, MS Stanford, 1995. Descrizione e particolarità di impiego La scala è stata messa a punto per la valutazione dell'impulsività intesa come "agire senza pensare", come mancanza di controllo sui pensieri e sui comportamenti. La BIS-11 prende in considerazione tre tipi di impulsività, l'Impulsività Motoria, l'Impulsività senza Pianificazione e l'Impulsività Attentiva. Probabilmente è lo strumento più noto e più usato per la valutazione dell'impulsività in ambito di ricerca, mentre meno indicato è il suo impiego in ambito clinico. La scala è in grado di discriminare fra soggetti impulsivi e non impulsivi, ma non, almeno significativamente, fra i tre tipi di impulsività. Periodo valutato La scala valuta dei tratti di personalità ed il periodo esplorato è pertanto la vita intera. Indicazioni La BIS-11 è indicata per la ricerca, per lo studio dei rapporti fra impulsività e patologia psichiatrica, meno per le applicazioni cliniche . Impiego per valutazioni ripetute Per quanto la scala non sia specificamente adatta agli impieghi clinici, è abbastanza usata in questo contesto ed è usata anche per valutare i cambiamenti de1la componente impulsiva del quadro clinico sotto trattamento. Struttura La scala, di autovalutazione, è composta da 30 item; l'analisi fattoriale ha isolato i già citati tre tipi di impulsività motoria senza pianificazione e attentiva. Punteggio Gli item sono valutati su una scala a 4 punti, da 1 = raramente o mai a 4 = quasi sempre/ sempre. Il punteggio totale può andare da 30 a 120; ~ 271 ~ il punteggio medio va da 63,8 (±10,2) nei controlli, a 69,3 (±10,3) in soggetti con comportamenti di abuso, a 71,4 (±12,6) in pazienti psichiatrici ed a 76,3 (±11 ,9) in reclusi maschi. Affidabilità e validità La consistenza è risultata ottima, la correlazione con altre scale di valutazione dell'impulsività, dell'ostilità e della collera è risultata buona. Traduzione L.Conti per questo Repertorio. Codice di identificazione della RS: # 758 BIBLIOGRAFIA Barratt ES, Stanford MS: Impulsiveness. In: Costello CG (Ed.) "Personality Characteristics of the Personality Disordered Client ", Wiley, New York, 1995. ~ 272 ~ BARRAT IMPULSIVENESS SCALE, Version 11 BIS – 11 # 758 Cognome e Nome……………………….. Data di nascità…………………….. Codice Paziente…………… Valutatore……….. Data valutazione………….. ~ 273 ~ Spesso Quasi ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ sempre/Sempre Occasionalmente Le persone agiscono e pensano in maniera diversa nelle diverse situazione. Questo è un test per valutare alcuni modi in cui lei agisce e pensa. Legga attentamente ciascuna affermazione ed annerisca il quadratino che corrisponde alla risposta che più si adatta a lei. Risponda rapidamente e sinceramente. 1. lo programmo accuratamente le attività………….. 2. Faccio le cose senza pensare……………………. 3. Decido con molta rapidità…………………………. 4. Prendo il mondo come viene……………………… 5. Non presto attenzione…………………………….. 6. I miei pensieri, "corrono"………………………….. 7. Programmo i miei viaggi con molto anticipo…… 8. Sono padrone di me……………………………….. 9. Mi concentro facilmente…………………………… 10. lo risparmio con regolarità……………………… 11. Sto sulle spine al teatro o alle conferenze……... 12. Sono uno che pensa accuratamente…………… 13. Faccio piani per un investimento per il futuro….. 14. Dico le cose senza pensare……………………… 15. Mi piace pensare a problemi complessi………… 16. Cambio spesso lavoro……………………………. 17. lo agisco d'impulso………………………………... 18. Mi annoio facilmente quando affronto ragionamenti complessi………………………………. 19. Agisco sotto l'impulso del momento…………….. 20. Sono uno che pensa con serietà………………... 21. Cambio spesso abitazione……………………….. 22. Compro le cose impulsivamente………………… 23. Posso pensare solo ad un problema alla volta… 24. Cambio spesso i miei hobby…………………….. 25. Spendo o addebito sul mio conto più di quello che guadagno………………………………………….. 26. Quando penso ho pensieri estranei, parassitari. 27. So più interessato al presente che al futuro…… 28. Sono irrequieto alle conferenze o ai discorsi….. 29. Mi piacciono i puzzle …………………………….. 30. Faccio progetti per il futuro ……………………… Raramente/Mai ISTRUZIONI SERVIZIO SANITARlO MO.03.0RN.DSM.PDC Rev.02 REGIONALE Emissione il SCHEDA EMILlA·ROMAGNA 06.08.2010 MONITORAGGIO Azienda Unita Sanitaria Pagina 1 di 1 ATTI AGGRESSIVI ¹ Locale di Rimini servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura 1. Il paziente nato/a…………………………………………….. il ……………………………….. ricoverato iI con diagnosi di: ………………………………………………………………………. il giorno……………………………………. alte ore ………………………………………………. 9. ALT BD DOS NL HA COMPIUTO IL SEGUENTE GESTO AGGRESSIVO ………………………………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………………………………… 2. mezzo/i usato/i dal paziente per aggredire ………………………………………………… 3. specificare le persone coinvolte ……………………………………………………………. 4. specificare se l'aggredito/a è medico. infermiere. oss. austliario/a …………………….. 5. specificare se rottura di oggetti …………………………………………………………….. 6. specificare le conseguenze per le persone coinvolte …………………………………… 7. specificare il motivo che ha scatenato l'atto aggressivo………………………………….. 8. il paziente in terapia con specificare se sono intervenute le Forze dell'Ordine o se hanno rifiutato l'intervento……………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………………………..… …………………………………………………………………………………………………. NOTE VARIE ………………………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………………………… DATA……………………………………. MEDICO…………………………………. INFERMIERE…………………………… ~ 274 ~ SERVIZIO SANITARlO REGIONALE EMILlA·ROMAGNA Azienda Unita Sanitaria Locale di Rimini servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura MODULO Scala di valutazione del rischio comportamentale auto/etero diretto o sistemico M/P08/ORN.DSM.PDC ² Nome…………………………………………........................... Rev.00 Emissione il 01.03.2010 Pagina 1 di 4 Etichetta del paziente Cognome ……………………………………………………….. ISTRUZIONI PER LA COMPILAZIONE La scala di valutazione deve essere compilata per ogni paziente al momento dell'ingresso dal medico e dall'infermiere che gestisce il momento del ricovero. Le motivazioni del rischio assegnato ad ogni paziente vanno specificate ogni volta che si compila la scheda. La rivalutazione del paziente deve essere effettuata almeno ogni giorno preferibilmente al momento del briefing; la scala dovrà essere compilata solo in caso di eventuali variazioni delle condizioni cliniche del paziente. Il grado di rischio verrà riportato ad ogni turno nel diario infermieristico. Il rischio comportamentale auto ed etero diretto e sistemico presentano 4 livelli di intensità: Rischio comportamentale auto diretto 1 Basso 2 Moderato 3 Elevato 4 Non valutabile es. assenza di tematiche autolesive manifestate e/o riportate da conoscenti; assenza in anamnesi di comportamenti autolesivi; in caso di presenza di pregressi gesti autolesivi unicamente in anamnesi, fase clinica attuale con elevazione del tono dell'umore. . es. Iarvate tematiche autolesive espresse c riportate con scarsa convinzione; pregressi in anamnesi per episodi non gravi, tematiche non deliranti di colpa e/o ipocondriache, astinenza da psicostimolanti, deflessione del tono dell'umore senza aspetti espressivi di sofferenza estrema e/o marcata agitazione es. tematiche auto lesive manifeste, anamnesi per TS di una certa gravità, famigliarità per suicidio, tematiche deliranti di colpa e/o di rovina, elevato stato di agitazione, fasi bipolari miste, espressione particolarmente cupa, elevato livello di introversione. In corso di valutazione ~ 275 ~ Rischio comportamentale etero diretto 1 Basso 2 Moderato 3 Elevato 4 Non valutabile es. non manifesta atteggiamenti fisici e/o verbali di aggressione, non dà segni di particolare insofferenza, aspetto sufficientemente sereno e comunque non cupo, anamnesi negativa per pregressi episodi di impegno in conflitti fisici, non minaccioso, assenza di manifestazioni confuso/agitate. es. insofferenza nei confronti dell'ambiente, oppositività al ricovero in assenza di minacce espresse. Anamnesi positiva per episodi di aggressività non gravi e non frequenti, tematiche persecutori e soprattutto se incentrate nei confronti dell'istituzione (CSM, SPDC). es. minacce francamente espresse, atteggiamento e postura aggressiva; anamnesi positiva per conflitti fisici; elevata quota di insofferenza nei confronti dell'ambiente, franca oppositività; intossicazione (accertata o presunta) da psicostimolanti; aspetto cupo; tematiche paranoidee. In corso di valutazione Rischio sistemico Compilare il campo "rischio sistemico" 1 (basso) 2 (moderato) a 3 (grave) quando viene riscontrato (obbligatoriamente nel caso di pazienti dementi e/o anziani). Cardiovascolare Ortopedico Gastroenterologico Neurologico Geriatrico Ginecologico Endocrinologico Altro (specificare) (es.lipotimie) (es. protesi, rischio di fratture) (es. occlusione, epatopatie) (es. stati confuso/agitati; sincopi; crisi epilettiche) (es. aritmie cardiache, fragilità ossea, stati confusionali) (es. gravidanza) (es. tireotossicosi) ~ 276 ~ SERVIZIO SANITARlO REGIONALE EMILlA·ROMAGNA Azienda Unita Sanitaria Locale di Rimini servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura MODULO Scala di valutazione del rischio comportamentale auto/etera diretto o sistemico M/P08/DRN.DSM.PDC ³ Rev.02 Emissione il 06.08.2010 Pagina 2 di 4 VALUTAZIONE ALL'INGRESSO Livello Motivazione Rischio auto diretto Rischio etero diretto Rischio sistemico Firma Medico……………………………. Data…………………………………… Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………... VALUTAZIONE DURANTE IL RICOVERO Livello Motivazione Rischio auto diretto Rischio etero diretto Rischio sistemico Firma Medico……………………………. Data…………………………………… Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………... VALUTAZIONE DURANTE IL RICOVERO Livello Motivazione Rischio auto diretto Rischio etero diretto Rischio sistemico Firma Medico……………………………. Data…………………………………… Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………... ~ 277 ~ SERVIZIO SANITARlO REGIONALE EMILlA·ROMAGNA Azienda Unita Sanitaria Locale di Rimini servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura MODULO Scala di valutazione del rischio comportamentale auto/etera diretto o sistemico M/P08/DRN.DSM.PDC ³ Rev.02 Emissione il 06.08.2010 Pagina 3 di 4 VALUTAZIONE DURANTE IL RICOVERO Livello Motivazione Rischio auto diretto Rischio etero diretto Rischio sistemico Firma Medico……………………………. Data…………………………………… Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………... VALUTAZIONE DURANTE IL RICOVERO Livello Motivazione Rischio auto diretto Rischio etero diretto Rischio sistemico Firma Medico……………………………. Data…………………………………… Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………... VALUTAZIONE DURANTE IL RICOVERO Livello Motivazione Rischio auto diretto Rischio etero diretto Rischio sistemico Firma Medico……………………………. Data…………………………………… Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………... ~ 278 ~ SERVIZIO SANITARlO REGIONALE EMILlA·ROMAGNA Azienda Unita Sanitaria Locale di Rimini servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura MODULO Scala di valutazione del rischio comportamentale auto/etera diretto o sistemico M/P08/DRN.DSM.PDC ³ Rev.02 Emissione il 06.08.2010 Pagina 4 di 4 VALUTAZIONE DURANTE IL RICOVERO Livello Motivazione Rischio auto diretto Rischio etero diretto Rischio sistemico Firma Medico……………………………. Data…………………………………… Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………... VALUTAZIONE DURANTE IL RICOVERO Livello Motivazione Rischio auto diretto Rischio etero diretto Rischio sistemico Firma Medico……………………………. Data…………………………………… Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………... VALUTAZIONE ALLA DIMISSIONE Livello Motivazione Rischio auto diretto Rischio etero diretto Rischio sistemico Firma Medico……………………………. Data…………………………………… Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………... ~ 279 ~ ~ 280 ~ SERVIZIO SANITARlO REGIONALE EMILlA·ROMAGNA Azienda Unita Sanitaria Locale di Rimini servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura Dati relativi all'Unità Operativa e all'operatore all'Unità Operativa e all'operatore Dati relativi al paziente Gestione del rischio clinico. SCHEDA DI SEGNALAZIONE SPONTANEA DEGLI EVENTI MO.01. 4 PG.47.DIR.SAN.OOO AGENZIA SANITARIA REGIONALE Scheda generale rev.2 Azienda/Casa di Cura Unità Operativa Nome e Cognome dell'operatore "(facoltativo) ○ Medico Qualifica ○ Infermiere/caposala ○ Altro specificare Nome e Cognome del paziente (facoltativo) N° di scheda-nosologica Circostanze dell'evento Tipo di prestazione Anno di nascita/Età Luogo in cui si è verificato l'evento (es, bagno camera. ecc.). Data ……………….e ora ………in cui si è verificato l'evento ○ Ricovero ordinario ○ Ricovero DH ○ prestazione ambulatoriale ○ Intervento chirurgico Descrizione dell'evento (Che cosa è successo?) ~ 281 ~ ○ Prestazione domiciliare ○ Altro _______ Fattori che possono aver contribuito all’evento (è possibile Indicare più' di una Fattori legati al personale Condizioni generali o precarie/fragilità/infer mità ○ Staff inadeguato/insufficiente ○ ○ Non cosciente/ scarsamente orientato ○ Insufficiente addestramento/inserimento Gruppo nuovo/inesperto Elevato turn-over; ○ Scarsa continuità assistenziale ○ Protocollo/procedura inesistente/ambigua ○ Insuccesso nel far rispettare protoc. /procedure Mancato coordinamento ○ Mancata/inadeguata comunicazione Mancanza/inadeguatezza attrezzature Mancata/inadeguata manutenzione attrezzature Mancanza/inadeguatezza materiale di consumo Ambiente inadeguato ○ ○ Poca/mancata autonomia Barriere linguistiche/ culturali ○ Mancata adesione al progetto terapeutico ○ Difficoltà nel seguire istruzioni/procedure Inadeguate conoscenze/inesperie nza ○ Fatica/stress ○ ○ Presa scorciatoia/ regola non seguita Mancata/inesatta lettura documentaz. /etichetta Mancata supervisione Scarso lavoro di gruppo Mancata verifica preventiva apparecch. Altri fattori (specificare) Fattori legati al sistema Fattori legati al paziente risposta) ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ ○ Fattori che possono aver ridotto l'esito ○ Individuazione precoce ○ Buona pianificazione/protocollo ○ Fortuna ○ Buona assistenza ○ Altro (specificare) A seguito dell'evento è stato necessario eseguire ulteriori indagini o prestazioni sanitarie? Indagini di laboratorio ○ Indagini radiologiche ○ ECG ○ Altre indagini ○ Visita medica ○ Consulenza ○ specialistica Medicazioni ○ intervento chirurgico ○ Ricovero ordinario ○ ~ 282 ~ Ricovero in TI ○ Trasferimento ○ Altro ○ Come si poteva prevenire l'evento? (es.: verifica delle attrezzature prima dell’uso, migliore comunicazione scritta, sistema di monitoraggio/allarme, ecc.). Specificare comunicazione scritta, sistema di monitoraggio/allarme, ecc.). Specificare L'evento è documentato in Il paziente è stato informato dell'evento? cartella clinica? Si ○ No ○ Si ○ No ○ I dati contenuti nel campi colorati In grigio non saranno registrati nel database Da questo punto in poi compilazione a cura del Responsabile medico dell'lncident reporting Esito dell' evento Evento potenziale Evento effettivo Situazione pericolosa/danno potenziale/evento non occorso (es: personale insufficiente/ pavimento sdrucciolevole coperto dove non sono avvenute cadute) Situazione pericolosa/danno potenziale/evento occorso, ma intercettato (es: preparazione di un farmaco sbagliato, ma mai somministrato/farmaco prescritto per un paziente allergico allo stesso, ma non dispensato o somministrato) NESSUN ESITO - evento in fase conclusiva/nessun danno occorso (es: farmaco innocuo li somministrato erroneamente al paziente) ESITO MINORE - osservazioni o monitoraggi extra/ulteriore visita del medico/nessun danno occorso o danni minori che non richiedono un trattamento ESITO MODERATO - osservazioni o monitoraggi extra/ulteriore visita del medico/indagini diagnostiche minori (es: esame del sangue o delle urine)/trattamenti minori (es: bendaggi analgesici) ESITO TRA MODERATO E SIGNIFICATIVO- osservazioni o monitoraggi extra/ulteriore visita del medico/indagini diagnostiche(es: procedure radiologiche/necessità di trattamenti con altri farmaci/intervento chirurgico/cancellazione o posticipazione del trattamento/ trasferimento ad altra U.O. che non richieda il prolungamento della degenza ESITO SIGNIFICATIVO - ammissione in ospedale o prolungamento della degenza/condizioni che permangono alla dimissione ESITO SEVERO - disabilità permanente/contributo al decesso Livello.1 Livello 2 Livello 3 Livello 4 Livello 5 Livello 6 Livello 7 Livello 8 Valutazione del rischio futuro Possibilità di Frequente (più di 1evento/anno) riaccadimento di eventi Raro (meno di 1 evento/anno) analoghi Possibile esito di un Esito minore.(fino al livello 4) evento analogo Esito maggiore (livellò pari o superiore a 5) Sono stati intrapresi accorgimenti a seguito dell'evento? Si ○ Quali? ~ 283 ~ ○ ○ ○ ○ No ○ L'evento risulta incrementare i costi, la durata della degenza o il consumo di risorse? Si ○ No In che modo? L'evento ha determinato problemi di tipo organizzativo? (es, ritardi, ecc.) Si ○ No Quali? C'è una lezione significativa da trarre dall'evento? Si ○ No Se si, quale? (proporre azioni per evitare il riaccadimento) Nell'evento sono stati coinvolti altri servizi/reparti? Si ○ No Commentare. ○ ○ ○ ○ Responsabile medico dell’incident reporting ……………Firma……………Data………. 1. La presente scheda vuole essere uno strumento per identificare i problemi, e le cause ad essi connesse, che possono insorgere durante le attività clinico-assistenziali. Le informazioni che si otterranno saranno utilizzate esclusivamente per sviluppare strategie corretti ve per prevenire in futuro problemi similari. Per questo, in caso di altri obblighi derivanti da legge, è necessario effettuare con procedure ordinarie le segnalazioni alle autorità competenti. 2. La scheda può essere riconsegnata al Responsabile di Unità Operativa, anche in forma anonima. 3. Dopo l'acquisizione delle informazioni necessarie all'analisi dell'evento, la scheda verrà deidentificata per quanto riguarda i dati relativi all'operatore ed al paziente. 4. Dopo la compilazione della parte a cura del responsabile inviare la scheda a:……………………………………………………………………………………………………… ………………………………………………………………………………………………………… ~ 284 ~ SCHEDA UNICA DI SEGNALAZIONE DI SOSPETIA REAZIONE AVVERSA (ADR) da compilarsi a cura dei medico o degli altri operatori sanitari e da inviare al 5 Responsabile di fatmacovigilanza della struttura sanitaria di appartenenza ) 1.INIZIALI 2.DATA 3.SESSO 4.DATA 5.ORIGINE CODICE DEL DI ………….. INSORGENZA ETNICA SEGNALAZIONE PAZIENTE NASCITA REAZIONE …………….. …………………… …. …. ………….. ……………….. 6.DESCRIZONE DELLA REAZIONE ED EVENTUALE 7.GRAVITA' DELLA DIAGNOSI • se il segnalatore è un medico REAZIONE: o grave o decesso o ospedalizzazione o prolungamento osped. o invalidità grave o permanente o ha messo in pericolo di vita o anomalie congenite/ o deficit nel neonato non grave 8.ESAMI DI LABORATORIO RlLEVANTl PER ADR: 9.ESITO : riportare i risultati e date in cui gli accertamenti sono o risoluzione completa stati eseguiti ADR il _'_'_ o risoluzione con postumi o miglioramento o reazione invariata o peggiorata o decesso il _'_'_ 10.AZIONI INTRAPRESE: specificare. o dovuto alla reazione In caso di sospensione compilare i campi da 16 a 19 avversa o il farmaco può avere contribuito o non dovuto al farmaco o causa sconosciuta o non disponibile INFORMAZIONI SUL FARMACO 11. FARMACO(I) SOSPETTO(I) (il nome della specialità medicinale)* A)…………………………………….12. LOTTO……….. 13. DOSAGGIO/DIE…………………. 14. VIA DI SOMMINISTRAZIONE…………….. 15. DURATA DELL 'USO: DAL…… AL……. B)…………………………… ………12. LOTTO………..13. DOSAGGIO/DIE…………………. 14. VIA DI SOMMINISTRAZIONE………………15.DURATA DELL'USO: DAL……. AL…….. C)……………………………………12. LOTTO………...13. DOSAGGlO/DIE…………………. 14 .\/IA DI SOMMINISTRAZIONE ……………...15.DURATA DELL’USO: DAL .…....AL……. Nel caso di vaccini specificare anche il numero di dosi e/o di richiamo e l’ora di somministrazione 16. IL FARMACO E' STATO SOSPESO: A: sì/no B: si/no C: si/no 17. LA REAZIONE E' MIGLIORATA DOPO LA SOSPENSIONE: 18. FARMACO E’ STATO RIPRESO? A:sì/no B:sì/no C:Sì/no A:si/ no B:sì/no C:Sì/no ~ 285 ~ 19. SONO RlCOMPARSI I SINTOMI DOPO LA SOMMNISTRAZIONE? A: sì/no B:sì/no C:Sì/no 20.INDICAZIONI O ALTRO MOTIVO PER CUI IL FARMACO È STATO USATO: 21.FARMACO (I) CONCOMITANTE(I), DOSAGGIO, VIA DI SOMMNISTRAZIONE, DURATA DEL TRATTAMENTO 21.USO CONCOMITANTE DI ALTRI PRODOTTI A BASE DI PIANTE OFFICINALI, OMEOPATlCl, INTEGRATORI ALIMENTARI, ECC. (specificare) 22.CONDIZIONI CONCOMlTANTl PREDlSPONENTl (se il farmaco sospetto è un vaccino riportare l'anamnesi ed eventuali vaccini somministrati nelle 4 settimane precedenti alla somministrazione) 23.INFORMAZIONI SULLA SEGNALAZIONE 24.QUALIFICA DEL SEGNALATORE 25.DATI DELL SEGNALATORE ○ NOME COGNOME MEDICO DI MEDICINA GENERALE ○ PEDIATRA DI LIBERA SCELTA ○ MEDICO ○ FARMACISTA INDIRIZZO ○ e-mail OSPEDALIERO ○ SPECIALISTA 26.DATA DI COMPILAZIONE ALTRO FAX 27.FIRMA DEL RESPONSABILE DI FARMACOVIGILANZA 28.CODICE ASL 1-5 29.FIRMA DEL SEGNALATORE Fonte: Schede di valutazione in uso in U.O. SPDC Rimini (RN) ~ 286 ~ ~ 287 ~