MATR. N. 0000363927
ALMA MATER STUDIORUM
UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA
CORSO DI LAUREA IN INFERMIERISTICA
AGGRESSIVITA’:
SEGNO O SINTOMO?
Elaborato finale in Infermieristica area critica e psichiatrica
PRESENTATA DA
RELATORE
Domracheva Yulia
Prof. Borghesi Massimo
SESSIONE II
ANNO ACCADEMICO 2010 – 2011
~1~
~2~
Donatella Di Maria (San Giovanni in Marignano(RN), 2010)
“Nessuno di noi è completamente "buono", la malvagità, nel senso di
aggressività, pensieri "cattivi", instintualità, è comunque parte della nostra
personalità e non serve a molto tentare di soffocarla, meglio piuttosto
integrarla con in resto e canalizzarla verso un fine utile e costruttivo”.
(Rita Ricci)
~3~
~4~
Introduzione……..……………………………………………………………...9
Capitolo 1. Definizione e classificazione dell’aggressività…………….11
1.1. Definizione dell’aggressività .……………………………………...........11
1.2. Classificazione, semeiotica e psicopatologia .………………………...13
1.3. Tipi di comportamento aggressivo …………………………………......15
1.3.1. Aggressivita’ Diretta …………………………..………………...15
1.3.2. Aggressivita’ Indiretta …………………………………………..16
1.3.3. Irritabilita’…………………………………………………………16
1.3.4. Negativismo……………………………………………………...17
1.3.5. Risentimento…………………………………………………...…17
1.3.6. Sospettosita’………………………………………………………17
1.3.7. Aggressivita’ Verbale ……………………………………………18
1.3.8. Colpa ……………………………………………………………...18
Capitolo 2. Psicodinamica dell’aggressività ……………………………..21
2.1. Le Teorie ……………………………………………………………………21
2.1.1. Alfred Adler: Istinto Innato o Primario …………………………22
2.1.2. Sigmund Freud: Pulsioni e loro destini ………………………..22
2.1.3. Heinz Hartman e Ernst Kris: Separazione della pulsione
aggressiva dall’istinto di morte e successivo studio della sessualità
(Libido) …………………………………………………………………………...24
2.1.4. Melanie Klein: Teoria d’amore e derivazione dall’istinto di
morte ……………………………………………………………………………..25
2.1.5. Heinz Kohut: Aggressività come reazione ambiente OggettoSe dell’infanzia ……………………………………………………………….....26
2.1.6. Niemah: Aggressività Diretta …………………………………...28
2.1.7. Otto Kernberg: ruolo dell’ambiente …………………………….28
2.1.8. Donald W. Winnicott: distinzione di un vero Sé……………....29
2.1.9. David Shaffer: emozioni …………………………………………30
2.1.10.Jean Bergeret: istinto innato violento …………………………31
2.1.11. Stephen A. Mitchell ………………………………………….....32
~5~
Capitolo3. Psicobiologia dell’aggressivita’……………………………….35
3.1. Aspetti Etologici. Konrad Lorenz …………………………………………35
3.2. Aspetti Comportamentali. John Dollard, Leonard Berkowitz, Albert
Bandura …………………………………………………………………………..35
3.3. Aspetti Eutonologici. Henri Laborit ……………………………………….40
3.4. Aspetti Neurofisiologici. Concetto della specializzazione emisferica ...42
3.5. Aspetti Endocrini .…………………………………………………………..44
3.6. Aspetti Neurochimici. Ruolo del 5-HT (5 Hidroxytryptophane) ……….46
Capitolo 4. Clinica dell’aggressivita’ ……………………………………….55
4.1. Aggressivita’ e depressione ………………………………………………55
4.1.1. Nessi Psicologici …………………………………………………55
4.1.2. Nessi Neurofisiologici ……………………………………………56
4.1.3. Nessi Neurochimici ………………………………………………59
4.1.4. Nessi Neuroendocrini ……………………………………………61
4.1.5. Nessi Clinici ………………………………………………...…….63
4.1.6. Nessi Farmacoterapeutici ……………………………………….68
4.2.In sintesi …………………………………………………………………….71
Capitolo 5. Aggressivita’ e condotte suicidarie ………………………….75
5.1. Ipotesi Interpretative ……………………………………………………….75
5.2. Studi psicobiologici e chimici ……………………………………………..77
Capitolo 6. Aggressivita’ e violenza ………………………………………..89
6.1. Violenza e psicopatologia …………………………………………………89
6.2. Fattori predittivi della violenza ……………………………………………93
Capitolo 7. Valutazione e trattamento del paziente violento …….........97
7.1. Premessa ………………………………………………………………......97
7.2. Trattamento del paziente violento In situazioni di emergenza ……......98
7.2.1. Dove incontrare il paziente violento ……………………………99
7.2.2. Come presentarsi al paziente violento ……………………....102
7.2.3. Cosa dire o fare con un paziente violento …………………...104
7.2.4.Cosa dire o fare con un paziente che minaccia con un’arma.107
~6~
7.2.5. Errori emotivi e comportamentali del terapeuta con il paziente
violento ………………………………………………………………………....111
Caso clinico………………………………………………………..……………113
7.3. Valutazione e trattamento del paziente violento a lungo termine…....117
7.3.1. Dati obbiettivi criminologici …………………………………….118
7.3.2. Dati obiettivi vittimologici …………………………..................120
7.3.3. Dati obiettivi anamnestici …………………………………..….124
7.3.4. Fattori statici …………………………………………………….127
7.3.5. Fattori situazionali ………………………………………….…..131
7.3.6. Fattori dinamici ……………………………………………..…..134
7.3.7. Aspetti biologici ………………………………………………...136
7.3.8. Aspetti psichiatrici …………………………………………...…142
Tabelle 1-9 ……………………………………………………………..…147-151
Capitolo 8. terapia farmacologica del paziente violento ……………...153
8.1. Intervento farmacologico in situazioni di emergenza ………………...153
8.1.1. Farmaci antipsicotici-neurolettici ……………………………..154
8.1.2. Benzodiazepine ………………………………………………...156
8.1.3. Barbiturici ………………………………………………………..157
8.2. Intervento farmacologico a lungo termine ……………………………..157
8.2.1. Farmaci antipsicotici (tipici e atipici) ………………………….158
8.2.2. Farmaci ansiolitici ……………………………………….…..….160
8.2.3. Farmaci anticonvulsivanti ……………………………….……..160
8.2.4. Farmaci b-bloccanti ……………………………………….……161
8.2.5. Litio ……………………………………………………………....162
8.2.6. Farmaci antidepressivi ………………………………………...163
8.2.7. Farmaci psicostimolanti ……………………………...………..164
Tabella 10……………………………………………………………………….165
Capitolo 9. Aspetti deontologici nel trattamento del paziente violento
…………………………………………………………………………………...168
9.1. Prognosi del comportamento violento: generica, condizionale,
imminente ……………………………………………………………………...168
~7~
9.2. Trattamento del comportamento violento: motivato, collegiale,
documentato per iscritto ………………………………………………….......171
9.3. Protezione di vittime potenziali e segreto professionale …………...174
Tabella 11 ……………………………………………………………………...178
Capitolo 10. Strumenti di valutazione dell’aggressività. Scale di
valutazione …………………………………………………..........................179
10.1. Valutazione dell’aggressività in generale …………………………….180
10.2. Valutazione dell’aggressività in acuto ………………………………..195
Tabella 12 …………………………………………………………………197-198
Capitolo 11. Descrizione ed elaborazione del risultato sui quesiti del
questionario……………………………………………………………………199
11.1.Questionario………………………………………………………………200
11.2.Analisi dei dati. Grafici…………………………………………………...205
11.3. In sintesi……………………………………………………………….….225
Capitolo12. Conclusioni della tesi ………………………………………...227
Bibliografia …………………………………………………………………....237
Sitigrafia ……………………………………………………………………….240
Ringraziamenti ………………………………………………………………..245
Allegati………………………………………………………………………….247
~8~
INTRODUZIONE
L' aggressività è un fenomeno complesso, che rientra nelle problematiche
legate
al
manifestarsi
della violenza negli
esseri
umani.
Le
dinamiche psichiche e biologiche che conducono ai conflitti violenti tra le
persone, il loro legame con gli istinti primari sono questioni che da due
secoli psicologi e altri studiosi analizzano e che solo recentemente si stanno
chiarendo.
Dalla revisione della letteratura, l’aggressività appare a tutt’oggi non ben
studiata e chiarita, anche se ultimamente l’interesse verso questo campo di
studio sembra essere rinnovato. Lo scarso interesse riservato dai ricercatori
e dai clinici appare poco comprensibile e anche difficilmente spiegabile. La
sua
natura
di
dimensione
psicopatologica,
che
attraversa
transnosograficamente i vari quadri psicopatologici senza configurare un
quadro clinico definito, e l’assenza anche nel DSM-IV di un disturbo
caratterizzato
prevalentemente
dall’aggressività,
contribuiscono
alla
mancanza di studi in questo campo. D’altra parte, anche la sua notevole
eterogeneicità (sotto la dizione di aggressività si comprendono fenomeni
profondamente diversi), può essere motivo di un disinteresse da parte degli
studiosi. La mancanza di una precisa definizione può contribuire allo scarso
interesse per questo settore, infatti mentre nell’animale l’aggressività è stata
ben studiata e ben definita in sottotipi precisamente identificati, nell’uomo si
continua a parlare genericamente di aggressività anche per comportamenti
molto diversi.
Pertanto si intravede la necessità di sviluppare maggiormente gli studi clinici
e psicopatologici nel campo dell’aggressività, con particolare riferimento a
diversi aspetti. Prima di tutto, gli studi dovrebbero tendere ad una migliore
definizione dell’aggressività nell’uomo e, specialmente, ad una più
dettagliata e puntigliosa definizione dei vari tipi di aggressività, che non
appaiono, almeno in ipotesi, analoghi l’uno all’altro.
~9~
Certamente, per poter sviluppare e promuovere gli studi, un aspetto che
andrà
particolarmente
curato
è
quello
riguardante
la
valutazione
dell’aggressività ed, in particolare, gli strumenti per la sua valutazione. A
tutt’oggi lo strumentario per la valutazione non appare sufficientemente
valido per esplorare compiutamente questo tipo di fenomeno e i rapporti che
questo può stabilire con altre variabili, sia biologiche, sia cliniche, sia
psicologiche.
~ 10 ~
CAPITOLO 1. DEFINIZIONE E CLASSIFICAZIONE
DELL’AGGRESSIVITÀ
1.1.
DEFINIZIONE DELL’AGGRESSIVITA’
Il fenomeno “aggressività” si riferisce ad un’ampia gamma di comportamenti
che
possono svolgere funzioni diverse nell’adattamento dell’uomo alla
circonda. Il termine “aggressione” può descrivere sia
realtà che lo
l’adattamento all’ambiente in modo attivo, creativo e disponibile, sia il
comportamento negativo e distruttivo, socialmente deplorabile. In realtà
l’etimologia stessa del termine “aggressività” rivela una molteplicità di
significati che indicano la complessità del fenomeno. Il verbo latino
“aggredior” infatti è composto di “ad” che significa “verso”, “contro”, “allo
scopo
di”,
e
“gradior”
che
significa
“andare”,
“procedere”,
“avanzare”,“aggredire”.
L’Oxford
English
Dictionary
definisce
l’aggressione
come
un
atto
aggressivo, come un attacco non a seguito di un’aggressione subita (ad es.
aggredire fisicamente per primo in un litigio; assalire primariamente la
vittima) o l’azione dell’aggredire-contrastare una persona; definisce
l’aggressività come la qualità dell’essere aggressivo. Nel dizionario della
lingua
italiana
(Zingarelli,
2004)
c’è
una
definizione
del
termine
“Aggressività”, che fornisce una suggestiva interpretazione psicologica del
meccanismo della violenza: “Aggressività : Tendenza a manifestare un
comportamento ostile, che ha per fine un aumento di potere dell'aggressore
e una diminuzione di potere dell'aggredito; si presenta in genere come
reazione a una reale o apparente minaccia al proprio potere”.
Nella ricerca scientifica, l’interesse dei vari Autori che hanno affrontato il
problema da diverse impostazioni teoriche è stato rivolto principalmente allo
studio delle origini e delle cause del comportamento aggressivo, piuttosto
che ad una sua precisa definizione. Quindi le definizioni esistenti riflettono le
diverse concezioni del comportamento aggressivo, considerato ora come
~ 11 ~
derivato e stimolato dall’ambiente, ora come espressione di un meccanismo
innato. In psicologia il termine è usato con il significato di “tendenza” o con
quello di “comportamento” ostile e distruttivo.
Nel linguaggio psicoanalitico di Sigmund Freud1 ed Alfred Adler, il termine
aggressione è sinonimo di pulsione (drive) ed il termine aggressività indica
ciò che è correlato a questa pulsione. La scuola di Yale (1973), in
“Frustrazione e Aggressività”, rivedendo i concetti psicoanalitici in termini di
teoria comportamentale, definisce l’aggressività come un comportamento
volto a danneggiare una persona. L’intenzione di far del male è considerata
come
l’aspetto
fondamentale
per
poter
definire
il
comportamento
aggressivo. In questo caso vengono, però, sottovalutate altre forme di
aggressività, quali la verbale, la simbolica o la strumentale che ha, invece,
uno
scopo
costruttivo.
L’aggressività
costruttiva
rappresenta
un
comportamento finalizzato, cioè diretto a rimuovere o superare tutto ciò che
costituisce una minaccia per l’integrità fisica o psicologica di un organismo
vivente. In questa visione ogni forma di aggressività dovrebbe essere
considerata strumentale. Se si definisce l’aggressività solo come una
reazione tesa a provocare un danno in un altro essere vivente non si prende
in considerazione l’intenzionalità, né si esclude il danno accidentale. Anche
la nozione di aspettativa, intesa come percezione di poter arrecare danno
alla vittima, non deve essere sottovalutata.
Allo stato delle conoscenze attuali, tre appaiono essere gli aspetti
fondamentali che consentono di classificare un atto come aggressivo:
l’intento, l’azione e lo stato emotivo. L’intento rappresenta la volontà di
arrecare un danno o in modo diretto, o attraverso la burla o impedendo a
___________________________________________________________
1.Freud S. (1915) Pulsioni e loro destini. Freud contempla sia ipotesi dell’aggressività come
componente dell’istinto sessuale, sia l’ipotesi dell’aggressività come pulsione indipendente. L’odio è
più antico dell’amore.
~ 12 ~
qualcuno di compiere azioni piacevoli. L’intento può essere dedotto dalle
dichiarazioni verbali, dall’osservazione delle azioni e dal contesto generale
in cui il comportamento viene attuato. All’intenzionalità deve fare seguito
l’azione tesa a provocare un danno fisico con o senza aggressività verbale.
In altri casi, tuttavia, vi possono essere solo aggressività verbale ed
espressioni non verbali dell’intento di aggredire. Le espressioni non verbali
dell’aggressività umana, come il fissare o lo stringere i pugni, sono presenti
in tutti i primati. La terza caratteristica fondamentale è lo stato emotivo. Se
all’aggressività non concomita la “rabbia”, si parla di aggressività
strumentale o “fredda”. Nel prototipo aggressivo, tuttavia, la rabbia
dovrebbe essere sempre presente, con le variazioni autonome associate. In
un atto aggressivo possono essere presenti altri tipi di emozioni che vanno,
a seconda dell’intensità, dalla lieve “irritazione” alla grave “ira”.
1.2.
CLASSIFICAZIONE. SEMEIOTICA E PSICOPATOLOGIA.
Molti sono i modelli interpretativi riportati in letteratura. Un primo sistema
categorizza
l’aggressività
in
base
all’osservazione
del
tipo
di
comportamento aggressivo, per cui atti formalmente simili fanno parte dello
stesso sistema. Secondo questo approccio si distinguono una aggressività
vocale, una aggressività autodiretta, una eterodiretta verso oggetti o
persone. In questo sistema la descrizione e definizione non dipendono
dall’organizzazione del comportamento, dalle intenzioni del soggetto e dai
meccanismi fisiologici sottostanti, ma si basano solo sull’osservazione della
forma dell’atto aggressivo. Questo metodo risulta valido solo per lo studio
delle specie animali più semplici, non per il comportamento umano, sul
quale influisce l’interazione di molti più fattori.
Un secondo approccio si basa sull’osservazione sia degli avvenimenti che
precedono la risposta aggressiva, sia dei meccanismi che si trovano alla
loro base. Il meccanismo può essere di tipo comportamentale, come
~ 13 ~
l’attacco contro l’altro; di tipo psicologico, come le reazioni di paura; di tipo
fisiologico, come l’aumento dell’epinefrina; in tutti questi casi vi è maggiore
probabilità
di
una
risposta
aggressiva.
Questo
sistema
distingue
l’aggressività di tipo predatorio, quella fra maschi, quella indotta dalla paura,
dall’irritabilità,
quella
di
difesa
territoriale,
quella
materna,
quella
strumentale, quella relativa al sesso. La concatenazione degli eventi
potrebbe essere: frustrazione, modificazioni fisiologiche e psicologiche,
aumento della risposta allo stimolo aggressivo, risposta aggressiva. Questo
approccio non risulta facilmente applicabile allo studio del comportamento
umano, poiché presuppone il riconoscimento dei meccanismi che
sottendono un determinato atto, che sono difficilmente identificabili
nell’uomo.
Altrettante difficoltà s’incontrano nella classificazione dell’aggressività
secondo principi quali lo sviluppo e la predisposizione genetica, o secondo
categorie definibili solo intuitivamente, come quelle dell’aggressività per il
predominio. Questi aspetti interagirebbero fra loro in varia combinazione
determinando i diversi comportamenti. Secondo questo sistema si
distinguono un’aggressività territoriale, una per il predominio, una relativa
alla funzione genitoriale, una antipredatoria, una moralistica. Le difficoltà
incontrate nello studio dell’aggressività sono dovute essenzialmente al fatto
che i diversi Autori hanno sempre definito l’aggressività idiosincrasicamente,
senza chiarire i concetti sottostanti o interpretando i contributi degli altri alla
luce delle proprie concettualizzazioni. Negli studi clinici il termine
aggressività è usato con significati soggettivi (ad es. come sicuro segno di
psicopatologia, e attributo negativo) per cui spesso nella clinica è ritenuto
un termine inutile. Anche nel DSM-IV, il termine aggressività non è
specificamente definito.
L’American Psychiatric Association definisce l’aggressione come un atto
energico fisico, verbale o simbolico. Può essere adeguato e di
autoconservazione, o inadeguato come nel comportamento ostile e
~ 14 ~
distruttivo. Può essere diretto verso l’ambiente, un’altra persona o
personalità, o verso se stessi, come nella depressione. L’ostilità, invece, va
definita come un atto aggressivo reale o minacciato, con intenti distruttivi.
1.3.
TIPI DI COMPORTAMENTO AGGRESSIVO
Nell’uomo, possono essere definiti sette tipi di comportamento aggressivo:
L’aggressività diretta è la tendenza a produrre azioni volte a far del male o
comunque a danneggiare gli altri e ciò senza che, in particolari momenti e
condizioni, si riesca ad esercitare una qualche forma di controllo sugli
impulsi che sostengono una tale tendenza. In questo stereotipo vi è la
radicata convinzione che nessun torto o ingiustizia subita o supposta tale
debba essere lasciata passare senza una giusta rivalsa e ciò senza
eccessive considerazioni sulla dinamica che può aver dato luogo a tali
eventi. Non esisterebbe, infatti, nessuna buona ragione per impedire che
qualcuno possa venir aggredito o picchiato. Si è convinti che chiunque si
rivolge alla propria famiglia o a se stessi in modo ritenuto ingiurioso debba
indiscutibilmente cercare lo scontro fisico. Ciò è in perfetto accordo con
un’altra convinzione, quella di ritenere l’oramai iconografico pugno sul naso
l’unico e possibile modo per allontanare chi troppo “scoccia” senza sentire
la necessità di dilungarsi nella messa a punto di condotte verbali più o meno
adeguate. In questo stereotipo è completamente sconosciuta tutta quella
vasta gamma di reazioni non imperniate sulla forza, come possibili
attualizzazioni nella risposta a stimoli e situazioni provocatorie. Non si ha
difficoltà alcuna ad ammettere la capacità di prendere a sberle qualcuno, se
ci si viene a trovare nella situazione di aver perso la calma; così come
anche si ammette che in tali circostanze può essere la prima persona che
capita quella giusta per attaccare lite. La violenza fisica è quindi un mezzo
più che valido per difendere i propri diritti e dunque non si esita affatto nel
servirsene. Si sostiene di conoscere persone che in determinate situazioni
conducono al punto in cui l’unica alternativa sembra essere quella di “fare a
botte”.
~ 15 ~
Per aggressività indiretta si intendono gli atteggiamenti e le condotte
comportamentali di chi l’aggressività la scarica mediante modalità indirette.
Chi utilizza prevalentemente questo tipo di aggressività tende a denigrare,
talora anche con una certa sistematicità, le persone che non rientrano
nell’ambito delle simpatie. Quando si arrabbia “sbatte le porte” o “mette il
muso”. Tale comportamento può in taluni casi sfociare in condotte che
comprendono anche lo scagliare oggetti. Quando una persona così si
abbandona allo scherzo, l’aggressività può trasparire nel non riuscire ad
avere il giusto senso o la misura dell’agire e nell’utilizzare quindi “scherzi
pesanti”. Abbastanza facilmente perde la calma e l’umore è frequentemente
influenzato dalle difficoltà insorte nel realizzare ciò che vuole; spesso
diventa “cattivo”. Più volte è presente il ricordo di situazioni in cui la rabbia
era talmente tanta da rompere la prima cosa che capitava per le mani. Ma
anche al di fuori di situazioni così estreme, il semplice battere i pugni sul
tavolo dà ampia dimostrazione dello stato collerico vissuto.
Nell’irritabilità
le
sequenze
comportamentali
stereotipate
presentano
specifiche peculiarità qui di seguito riportate. L’individuo irritabile è tutt’altro
che animato di tolleranza e pazienza nei confronti degli altri. Ammette con
una certa disinvoltura di perdere la calma, ma subito aggiunge di riuscire
almeno
altrettanto
prontamente
a
recuperare
il
giusto
equilibrio.
Immediatamente viene irritato dalla convinzione di essere stato trattato
ingiustamente o dalla consapevolezza di essere oggetto di scherzo o burla.
Ritiene di non lasciar trasparire in modo pienamente adeguato lo stato
emozionale, cosicché gli altri non ne avrebbero conoscenza. Si irrita così
facilmente che anche il semplice stare a contatto con la gente può
provocare insoddisfazione e vero e proprio fastidio. Talora può ben palparsi
la spiacevole sensazione di essere sull’orlo di “esplodere”, cosicché la
voglia di attaccare lite è spesso molto sentita. Anche le cose di poco conto
possono essere causa d’irritazione e questo può indurre irrefrenabilmente a
condotte sgarbate, particolarmente nella direzione di coloro che sono
giudicate persone non piacevoli. Spesso è presente il ricordo di essere stati
~ 16 ~
recentemente di pessimo umore.
Il negativismo si fonda su una marcata e insistente opposizione nel rapporto
interattivo che da tale modalità è contrassegnato costantemente. Se si
pongono regole non comprese o comunque non condivise, è possibile
cogliere, nel soggetto negativista, il desiderio e la tentazione alla
trasgressione. Il rifiuto di eseguire qualsiasi tipo di compito, se non chiesto
con gentilezza, è un dato facilmente acquisibile. Infatti, il soggetto è
fermamente animato dalla volontà di fare esattamente l’opposto di ciò che è
chiesto, se chi lo chiede, è un arrogante. La prepotenza è dunque una
modalità d’interazione molto poco tollerata e rappresenta anzi un’occasione
per far notare la propria rabbia.
Nel risentimento è possibile evidenziare come comune denominatore un
certo grado di sentimenti d’ingiustizia e d’insoddisfazione. Il soggetto
sostiene di non meritare affatto quello che sta accadendo, tanto più che è
ben viva la convinzione che gli altri riescano sempre, in un modo o nell’altro,
a ottenere ciò che vogliono. Almeno un punto di risentimento è presente
anche quando la persona fa riferimento alle esperienze trascorse e talora
non riesce a fare a meno di sentirsi “divorato” dalla gelosia, pur essendo
convinto di non darlo a vedere. È animato da un certo grado di pessimismo
e sostiene come non passi settimana senza incontrare qualcuno non di
gradimento ed allo stesso modo di non conoscere persona alcuna che per
un motivo o per un altro non possa essere considerata oggetto di odio. Non
raramente è convinto di aver ottenuto dalla vita quanto di peggio questa
potesse dare, ma al tempo stesso valuta opportuno fare in modo di lasciar
capire agli altri i propri intendimenti e ciò soprattutto allo scopo di non
essere giudicato come persona con cui è difficile andare d’accordo.
Lo stereotipo nella sospettosità è caratterizzato dalla convinzione di essere
denigrati. Coerentemente a tale convinzione il soggetto può pensare di non
risultare simpatico o addirittura di essere detestato; si tende così a
~ 17 ~
mantenere una guardia serrata verso le persone animate da gentilezza,
specialmente se questa va oltre le aspettative, che peraltro sono sempre
abbastanza modeste. Si considera spesso invidioso il comportamento degli
altri, così da giustificare in modo solido e razionale il motto “diffida sempre
degli estranei”. Talora è presente anche la preoccupazione di essere
oggetto di derisione e dunque l’idea che si può ben comprendere come
sempre ci si chieda se non ci sia qualche secondo fine per chi si dimostra
gentile. Da tempo la convinzione che la gente sia sincera è stata
abbandonata così da non pensare, al di là delle affermazioni, all’esistenza
di anche una sola persona considerata non animata dalla reale volontà di
arrecare danno. Infine un’altra convinzione, spesso frequente, è quella di
ritenere gli altri dediti alla provocazione o all’insulto.
Per quanto riguarda l’aggressività verbale, il soggetto è sempre disposto a
disapprovare certe azioni, anche se di amici, e a trovare il modo di farlo
notare. Non riesce ad evitare la polemica con tutti quelli che non sono
d’accordo e pertanto l’essere in disaccordo con gli altri è sempre più una
costante. Non esita a ricorrere all’utilizzo di male parole quando, arrabbiato,
vuole affermare e ribadire la pretesa al rispetto da parte degli altri. Quindi
tende a manifestare ciò che pensa ad una qualsiasi persona se la ritiene
inopportuna, anche se ciò può indurre a dire cose spiacevoli. È pure
presente un discreto grado di sospettosità ed, infatti, è subito pronto a
domandarsi cosa “possa esserci sotto” quando una persona si dimostra
gentile. A parole sa, o crede di saper tener testa a chiunque; non esita ad
alzare la voce per sostenere opinioni personali e talora si lascia andare a
minacce che poi non intende affatto tradurre in pratica. Mai è disposto a
passare sopra a qualcosa di non condiviso, non si fa scrupolo alcuno ad
aprire una polemica con gli altri pur di sostenere ciò che vuole.
Nella colpa per il proprio comportamento aggressivo, il soggetto è
caratterizzato da una forte coscienza morale che talora lo confina nella
condizione di sentire un grande rimorso, se a volte ha ingannato qualcuno.
~ 18 ~
Spesso è dotato di una notevole rigidità e può provare vergogna nel
giudicare se stesso. Ha la convinzione che un discreto senso di colpa sia
proprio di coloro che sul lavoro non fanno fino in fondo il proprio dovere.
Talora è rattristato per non aver potuto far di più per i suoi genitori e a volte
la sua mente è assalita dal pensiero di non aver vissuto rettamente.
Presente è anche la preoccupazione di non sapere se si potrà ottenere il
perdono dei propri peccati. Sia il fare certe cose che il non riuscirne a fare
altre può provocare un senso di rimorso ed anche gli errori commessi
s’inseriscono nella stessa prospettiva provocando rimorsi di coscienza che
possono permanere a lungo nel tempo.
~ 19 ~
~ 20 ~
CAPITOLO 2: PSICODINAMICA DELL’AGGRESSIVITÀ
La questione principale è la seguente: noi siamo guidati dal nostro istinto
verso l’odio e la crudeltà e, pertanto, la vita è una continua lotta per vincere
e rinunciare a queste passioni o siamo nati innocenti e alcuni, poi, diventano
aggressivi in seguito a deprivazioni e a crudeltà subite? Se l’aggressività è
un fondamentale e irriducibile istinto umano, allora deve essere vista,
insieme alle sue varie manifestazioni, come qualcosa che è presente
necessariamente e inevitabilmente al centro della vita emozionale; il
sadismo, l’odio, la sete di vendetta e tutte le più oscure passioni umane
devono essere considerate come un fondamentale e inevitabile dominio del
Sé. Se, invece, l’aggressività è qualcosa di reattivo o di difensivo, senza un
significato dinamico, la sua spiegazione va ricondotta all’ambiente che
provoca l’aggressività, alla patologia familiare e alle precoci deprivazioni.
Mentre gli storici, i teologi, i filosofi hanno da sempre riconosciuto e
dibattuto gli aspetti distruttivi e aggressivi dell’uomo, la psicologia scientifica
paradossalmente è giunta molto tardi ad assegnare all’aggressività un posto
di primaria importanza nelle teorie che riguardano la struttura psicologica
dell’uomo e il suo comportamento. La psicoanalisi ha dato ad essa un posto
fondamentale, anche se lo stesso Freud2 avrebbe ammesso molto tardi la
sua importanza: “Perché” – egli si chiedeva nel 1932 nella sua “Introduzione
alla psicoanalisi” – “ci è stato necessario tanto tempo prima di deciderci ad
ammettere una pulsione aggressiva? Perché abbiamo esitato ad utilizzare,
per la teoria, dei fatti che erano evidenti e familiari a chiunque?”
____________________________________________________________
2. Freud S. (1932) Introduzione alla psicoanalisi. Le pulsioni possono essere libidiche e
aggressive. I moti pulsionali risultano da un impasto tra queste due gruppi di pulsioni.
~ 21 ~
Nel 1908 Alfred Adler3 aveva avanzato per primo l’idea che l’aggressività
fosse una pulsione innata o primaria. Il concetto di pulsione aggressiva è
stato per Adler il punto di partenza per l’elaborazione di una nuova teoria
secondo la quale tutti i modelli comportamentali sorgevano da una “protesta
virile” aggressiva contro sentimenti di inferiorità, e la sessualità era ridotta al
tentativo aggressivo da parte dell’uomo di dominare la donna. Il fatto di non
aver tenuto conto delle scoperte dell’inconscio e della sessualità infantile ha
portato Adler a un disaccordo e ad una definitiva rottura con Freud;
quest’ultimo, da parte sua, non era riuscito a capire che il concetto di
aggressività, come istinto innato, potesse rappresentare un elemento nuovo
e importante per l’evoluzione della sua teoria. Non è corretto, però,
affermare che la teoria psicoanalitica rifiutasse, prima della “svolta del
1920”, di prendere in considerazione le condotte aggressive. Infatti, sin dai
suoi primi articoli, Freud descriveva spesso i pensieri e i sentimenti
aggressivi che i suoi pazienti gli riferivano nel corso delle libere
associazioni. Nella sua prima esposizione del complesso di Edipo, egli
descrisse la gelosia aggressiva del bambino piccolo nei confronti del padre.
In “Tre saggi sulla teoria sessuale” del 1905 riconosce nuovamente
l’aggressività
nel
fenomeno
del
sadismo,
anche
se
come
una
manifestazione perversa della libido o istinto sessuale. Nonostante la
frequenza di queste osservazioni l’aggressività non trovava posto nella
cosiddetta teoria topografica della struttura psichica, dove l’interesse era
focalizzato quasi completamente sulla libido. Nella prima teoria delle
pulsioni,
alle
pulsioni
autoconservazione,
che
sessuali
hanno
vengono
come
funzione
opposte
il
quelle
mantenimento
di
e
l’affermazione dell’esistenza individuale. La spiegazione di condotte e
____________________________________________________________
3. Adler A. (1912) Il temperamento nervoso. Roma; Astrolabio 1950. L’aggressività è
l’espressione della volontà di potenza dell’individuo, il quale tenta per questa via di compensare il
troppo senso di inferiorità.
~ 22 ~
sentimenti aggressivi (sadismo, odio, ecc.) era cercata in un gioco
complesso di questi due grandi tipi di pulsioni.
Nel 1915, trattando il problema dell’odio in “Pulsioni e loro destino”, Freud
ha elaborato l’ipotesi che l’aggressività fosse anch’essa una componente
degli istinti dell’Io («i veri prototipi della relazione di odio non vengono dalla
vita sessuale, ma dalla lotta dell’Io per la sua conservazione e la sua
affermazione»). Con la pubblicazione di “Al di là del principio del piacere”,
l’aggressività svolge un ruolo più importante diventando la manifestazione
esterna di una forza più importante, l’istinto di morte. La pulsione di morte,
contrapposta alla pulsione vitale rappresentata dalla libido, tenderebbe alla
completa riduzione delle tensioni, cioè a ricondurre l’essere vivente allo
stato inorganico. Diretta inizialmente all’interno e tesa all’autodistruzione, la
pulsione
di
morte
verrebbe
secondariamente
diretta
all’esterno
manifestandosi sotto forma di pulsione aggressiva o di distruzione. Nel
tentativo di capire il fenomeno dell’aggressività rivolta contro se stessi, che
si manifesta nel suicidio e nella coazione a ripetere situazioni spiacevoli o
traumatiche del passato, Freud ha elaborato l’ipotesi che esistesse “[…] una
necessità, intrinseca alla vita organica, di restaurare una condizione
primitiva; con la morte, cioè, l’organismo torna allo stato inorganico. Il
soggetto continua a vivere […]” – sostiene Freud – “[…] perché
l’aggressività è rivolta verso gli oggetti esterni e perché l’istinto di morte è a
sua volta combattuto dalle forze dell’Eros”. È soprattutto dopo lo studio
economico del masochismo4 del 1924 che Freud comincia a parlare di
pulsione aggressiva; si tratterebbe, nella concezione freudiana, di un
dinamismo specifico (differente dalle altre pulsioni), elementare (una
____________________________________________________________
4. Freud S. (1924) Il problema economico del masochismo. La relazione tra i due istinti di vita e di
morte viene ancor più precisa nel gioco delle loro reciproche funzioni.
~ 23 ~
pulsione omogenea in se stessa) e globale (ossia pulsione totale); Freud
considerava questo “Aggressionstrieb” come la parte centrifuga della
pulsione di morte. Si è molto discusso, in seguito, fra gli psicanalisti
sull’esistenza di un antagonismo primario fra la pulsione sessuale e la
pulsione di aggressione, come sostenuto nel 1932 dallo stesso Freud.
Nel successivo sviluppo della teoria freudiana sugli istinti di vita e di morte,
alcuni, come Paul Federn (1932), Melanie Klein (1948), Karl Menninger
(1938), hanno accolto l’ipotesi di Freud di un istinto di morte primario e
hanno elaborato ulteriormente il concetto. Altri (Otto Fenichel (1945) e
Ernest
Jones(1928))
non
ritenevano
necessaria
un’astrazione
metapsicologica così spinta sostenendo che le osservazioni cliniche si
possono spiegare sufficientemente con il semplice concetto di una pulsione
aggressiva, senza che questo implichi che la pulsione sia eminentemente
autodistruttiva o basata su caratteristiche delle cellule viventi. Si può dire,
comunque, che dalla teoria freudiana di pulsione di aggressione si sono
sviluppate due grandi e del tutto differenti linee di teorizzazione: la prima,
sostenuta da Heinz Hartmann e Ernst Kris (nel 1939)5, si sviluppa entro la
psicologia freudiana dell’Io, l’altra è nata all’interno del pensiero di M. Klein.
Hartmann e Kris6 sostenevano la separazione della pulsione aggressiva
dall’istinto di morte e hanno introdotto il concetto di neutralizzazione,
attraverso il quale la pulsione aggressiva viene privata delle sue qualità
____________________________________________________________
5. Hartman H. (1939) Psicologia dell’Io e problema dell’adattamento. Torino: Boringhieri, 1966.
Coerentemente con l’ipotesi di un’area dell’Io libera da conflitti, viene postulato un processo di
neutralizzazione delle pulsioni, sia libidiche che aggressive. Il fine è quello di adattare l’Io all’ambiente
esterno.
6. Hartman H., Kris E., Loewenstein R.M. (1964) Note sulla teoria dell’aggressività, In: Scritti di
psicologia
psicoanalitica.
Torino:
Boringhieri,
1978.
Viene
svolto
i
tema
della
“depulsionalizzazione dell’energia aggressiva”. Questa energia neutralizzata non viene rivolta contro
l’Io, anzi, l’Io anziché restarne distrutto, ottiene da essa la “forza motrice” per funzionare e agire.
~ 24 ~
primitive, e usata dall’Io, libero dai conflitti, per le sue operazioni. Tuttavia,
Hartmann e Kris ritenevano che l’aspetto più importante dell’approccio di
Freud all’aggressività fosse legato al successivo studio della sessualità.
Essi
sottolineavano
le
origini
endogene,
spontanee
e
propulsive
dell’aggressività e il fatto che quest’ultima non deriva dalla deprivazione o
dalla frustrazione della ricerca del piacere, ma è una pulsione simile alla
libido.
Melanie Klein (1948)7, a differenza di Hartmann e Kris aveva accolto molto
seriamente l’idea di Freud che l’aggressività origina dall’istinto di morte e
vedeva l’aggressività come centrale nella formazione della struttura psichica
nei primi anni di vita e successivamente per tutto il corso della vita. La Klein
ritiene che la distruttività non è distante dall’amore e dalla devozione; infatti,
la capacità di amare presuppone lo sviluppo della credenza nella propria
capacità di riparare al danno che si procura continuamente ai propri oggetti
d’amore, esterni ed interni.
Altre teorie ampiamente riviste da Mitchell (1993) vedono l’aggressività
come una difesa o come la conseguenza di altri stimoli primitivi; ad
esempio, secondo Harry Sullivan (1940), come l’aggressività opera per lo
più come una difesa contro il bisogno di aiuto generato dall’esperienza di
ansietà; per Ronald Fairbairn (Teoria delle relazioni oggettuali, 1952)
l’aggressività è una reazione alla deprivazione e alla mancanza di
gratificazione che è provocata dall’intensa dipendenza del bambino e dalla
ricerca di oggetto. Secondo quest’ Autore è compito dell’analista far notare
al paziente gli aspetti della libido che si trovano dietro la sua aggressività.
La parola “dietro” è interessante, perché attraverso la metafora spaziale
____________________________________________________________
7. Klein M. (1921-58) Scritti 1921-1958. Torino: Boringhieri, 1978. Per la Klein l’aggressività è una
pulsione innata e primaria, espressione dell’istinto di morte. Il bambino nutre fantasie arcaiche di
sadismo orale, uretrale, anale. La sua distruttività è precocissima.
~ 25 ~
consente, agli psicanalisti che non riconoscono l’aggressività come
pulsione, di svalutarne il significato clinico e di sottolinearne l’aspetto di
superficialità rispetto ad altre motivazioni.
Il contributo di Harry Guntrip (1968) chiarisce ulteriormente quest’ aspetto:
egli vede l’aggressività come una reazione e con la più superficiale e
difensiva dimensione dell’esperienza umana; la parte centrale più profonda
del Sé fa riferimento alla parte regressiva più ritirata dalla ricerca di oggetti e
d’amore. Nella parte centrale della sua argomentazione Guntrip sostiene:
“[…] nel separare la classica depressione come il livello più alto di difesa di
aggressività e colpa dalla regressione come il più basso livello di difesa di
fronte a timore, fuga infantile debolezza dell’Io [...] noi dobbiamo
riconoscere ad esso che la sessualità patologica e le pulsioni aggressive
non sono fatti primari, ma secondari al timore, all’ansia e alla fuga”.
Heinz Kohut (La teoria dell’aggressività e analisi del Sé. In: La guarigione
del Sé. Boringhieri, Torino,1980.8) offre una comprensione dell’aggressività
molto simile considerandola come una reazione che sorge originariamente
come risultato al fallimento dell’ambiente oggetto - Sé a corrispondere al
bisogno del bambino di indispensabili risposte necessarie al suo sviluppo.
Egli afferma che i fenomeni che hanno a che fare con l’affermazione, l’odio
e la distruttività, possono essere considerati come secondari. Heinz Kohut
considera inadeguata la formulazione psicoanalitica classica, secondo cui le
tendenze aggressive sono profondamente radicate nell’assetto biologico
dell’uomo e ritiene che una concezione di distruttività, intesa come istinto
primario che mira al suo scopo e cerca uno sbocco, non aiuti l’analista che
cerca di mettere in grado i suoi pazienti di padroneggiare la loro
____________________________________________________________
8. Kohut H. (1977) La guarigione del Sé. Torino.: Boringhieri, 1980. Come per sopravvivere
fisicamente il neonato ha bisogno dell’ossigeno, così per sopravvivere psicologicamente ha bisogno
di un ambiente umano empatico. L’aggressività primaria fa parte di una configurazione auto
affermativa non distruttiva. La rabbia distruttiva è secondaria a una ferita al Sé.
~ 26 ~
aggressività. Kohut ribadisce che non è giunto alle sue concezioni sulla
natura della distruttività per via speculativa, ma che le sue formulazioni
teoriche derivano da dati empirici, ottenuti attraverso lo studio delle
comunicazioni dei suoi analizzandi; ed è in base allo studio delle
“resistenze” e delle “traslazioni negative” dei suoi pazienti che è giunto a
considerare l’aggressività non come la manifestazione di una pulsione
primaria gradualmente rivelata dal processo analitico, ma come un prodotto
di disintegrazione, primitivo, ma non psicologicamente primario. Afferma
Kohut: “[…] il livello più profondo a cui la psicoanalisi può penetrare quando
segue le tracce della distruttività non è raggiunto quando l’analizzando è
divenuto cosciente del fatto che vuole (o voleva) uccidere. Questa
consapevolezza è solo una tappa intermedia che porta alla “roccia basilare
psicologica”: alla presa di coscienza da parte dell’analizzando della
presenza di una grave ferita narcisistica9, una ferita che ha minacciato la
coesione del Sé, specialmente di una ferita narcisistica inferta dall’oggetto Sé dell’infanzia […]”.
In modo simile, nel suo trattato “Anatomia della distruttività umana”
(Mondadori, 1975)10 , Erich Fromm sostiene che, passando in rassegna la
letteratura su neuropsicologia e psicologia dell’aggressività degli animali e
dell’uomo, le conclusioni che si possono trarre sono che il comportamento
____________________________________________________________
9. Kohut H. (1972) Pensieri sul narcisismo e sulla rabbia narcisistica. In: La ricerca del Sé.
Torino: Boringhieri, 1982. La carenza cronica di empatia da parte della madre e del padre provoca
ferite narcisistiche nel bambino, che risponde sviluppando rabbia narcisistica.
10. Fromm E. (1973) Anatomia delle distruttività umana. Milano: Mondadori, 1975. Fromm
distingue l’aggressività benigna da quella maligna. La prima è difensiva e adattativa, ha la base
biologica ed è presente anche negli animali. La seconda non ha le basi biologiche dimostrate ed è
esclusivamente umana. Essa può dar luogo al sadismo, che è il piacere di far soffrire un’altro essere
vivente, compatibile con la vita, e alla distruttività, che mira a sopprimere ciò che è vivo e i prodotti
della sua creatività.
~ 27 ~
aggressivo degli animali sia la risposta ad una minaccia alla sopravvivenza
o, meglio, all’interesse vitale dell’animale sia come singolo che come
appartenente alla sua specie. Quest’ aggressività filogeneticamente
programmata negli animali e nell’uomo è – secondo Fromm – una reazione
(biologica) adattiva e di difesa.
Per Niemah l’aggressività è uno degli aspetti più importanti della clinica
della
depressione;
essa
rende
ragione
degli
atteggiamenti
di
autodenigrazione e di autopunizione caratteristici della depressione grave e
complica il disturbo con il pericolo di suicidio, azione nella quale
l’aggressività è diretta letteralmente verso la propria persona fisica. Oltre a
questo esiste un altro processo che comporta l’introiezione dell’immagine
della persona verso cui l’aggressività è diretta. Il successivo attacco contro
l’immagine introiettata diventa, pertanto, effettivamente un attacco contro se
stessi.
Per finire, il Super-Io è un fattore importante nell’incanalare una parte
dell’aggressività e nel dirigerla contro se stessi, sottoforma di un giudizio su
di sé. Importanti sono le posizioni prese da Otto Kernberg (1982) da un lato
e da Robert Stolorow (1987) dall’altro. Il primo vede nel rifiuto della teoria
dell’istinto in favore di quella del fallimento dell’ambiente un equivalente al
rifiuto delle basi biologiche dello sviluppo dell’individuo.
Secondo Kernberg l’aggressività non è la risposta ad una situazione, ma un
ingiustificato, distorto e prestrutturato insieme di propensioni verso una
situazione. L’abbandono della teoria della pulsione aggressiva conduce al
fallimento nell’interpretare queste predisposizioni inducendo gli analisti, che
non considerano l’aggressività una pulsione, a sbagliare e sostanzialmente
a “coccolare” i pazienti in modo non analitico.
Queste affermazioni sono diametralmente opposte a quelle di Stolorow,
citato da Mitchell, che vede l’aggressività primitiva come una conseguenza
inevitabile, non intenzionale e iatrogena di un determinato approccio
~ 28 ~
terapeutico. Il paziente, spiega l’Autore, rivive una fissazione ad uno stadio
arcaico di sviluppo oppure sente il bisogno, all’interno della relazione
terapeutica, di riprendere uno stadio evolutivo precedentemente fallito e
l’analista interpreta questa necessità come una difesa patologica; il
paziente, allora, vivrebbe questo errore d’interpretazione come un
significativo fallimento nel rapporto di sintonia e di fiducia con il terapeuta e
come una ferita narcisistica.
Altri due importanti e originali approcci al dibattito sull’aggressività vengono
da Donald W. Winnicott (1950)11 e David Shaffer (Piccin, 1998). Freud
riteneva che il Sé fosse generato e strutturato attraverso la canalizzazione
delle pulsioni, per Winnicott, invece lo sviluppo del Sé è condizionato dalle
precoci interazioni con la madre e dall’esperienza istituzionale. Occorre
ricordare che quando Winnicott parla di esperienza istituzionale questa ha
poco a che fare con ciò che Freud intendeva per pulsione; in Winnicott,
infatti, sembra riferirsi ad eventi corporei piuttosto che a sorgenti profonde,
propulsive e motivazionali. Dobbiamo a quest’ultimo psicoanalista la
distinzione di un vero Sé da uno falso; questa distinzione, che attribuisce al
primo l’integrazione del mondo personale interno conscio o inconscio e al
secondo le caratteristiche di superficialità, di inautenticità e orientamento
verso la socialità, si basa sulle ipotesi di onnipotenza e di allucinazioni
infantili. Il falso Sé si svilupperebbe, infatti, nella relazione madre-bambino
quando il bambino non è integrato e la coesione di vari elementi sensomotori è ancora dipendente dalla funzione di holding della madre. Un gesto
che esprime un impulso spontaneo è il vero Sé ed esso si sviluppa quando
una madre abbastanza buona incontra l’onnipotenza del neonato e gli dà un
senso. Se la madre non è in grado di completare l’onnipotenza del bambino
____________________________________________________________
11. Winnicott D.W. (1950) L’aggressività ed il rapporto con lo sviluppo emozionale; Winnicott
D.W. (1954), La posizione depressiva nello sviluppo emozionale normale. Entrambi i saggi sono
contenuti nel volume: Winnicott D.W. (1958), Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze,
1975.
~ 29 ~
e, invece di andare incontro al gesto spontaneo e all’allucinazione
sensoriale del figlio, gli restituisce un proprio gesto cui il bambino dà un
senso, si costituiscono gli stadi precoci del falso Sé. Attraverso quest’ultimo,
il bambino costituisce un falso insieme di relazioni e una falsa apparenza di
normalità la cui funzione più importante è quella di nascondere il vero Sé, il
che può avvenire in maniera anche completa. Nel ridefinire gli istinti e nel
ricollocare gli eventi corporei all’interno di un contesto relazionale, Winnicott
fa il possibile per trattenere e reinterpretare, in una prospettiva relazionale,
cosa sia più utile per il modello pulsionale; la sua attenzione è rivolta al
corpo e al potere fisiologico di sessualità e aggressività.
Da un’angolatura completamente differente David Shaffer (1977) ha
presentato una sostanziale e incisiva critica al tradizionale linguaggio
psicoanalitico, che, secondo questo Autore, è costruito sopra una
reificazione di metafore riguardanti spazi, cose, sostanze ed eventi che si
trovano presumibilmente nella mente. La tendenza osservata in William
Fairbairn (1952), Harry Guntrip (1968) e Heinz Kohut (1972) a vedere la
mente umana come una stratificazione da un livello superficiale fino a uno
profondo, rappresenta un eccellente esempio di ciò che Shaffer critica.
L’applicazione dell’approccio di Shaffer alle emozioni costituisce uno dei più
sorprendenti e provocanti aspetti del suo contributo. In modo opposto alla
nostra tendenza che consiste nel vivere passivamente le nostre emozioni,
secondo Shaffer esse sono delle vere e proprie azioni, che vengono
intraprese con intenzionalità e ragionamento. Secondo questo studioso gran
parte del linguaggio comune dell’esperienza deriva da esperienze corporee
preverbali, infantili e con tutti gli errori e i misconoscimenti del pensiero
infantile; sono proprio questi misconoscimenti che vengono alla luce
attraverso i processi analitici. Il concetto di pulsione aggressiva è visto come
qualcosa che nasce spontaneamente, che crea delle pressioni progressive
cercando di fuoriuscire; quando ci riesce provoca la catarsi, se invece viene
arginata determina una sorte di intossicazione. Shaffer critica la
teorizzazione degli affetti che presenta questi ultimi come modalità
~ 30 ~
sostanziali e aprioristiche, come entità semplicemente esistenti, come dati
di fatto che s’impongono ad un soggetto passivo; la rabbia costituisce un
esempio di un oggetto la cui concettualizzazione è stata danneggiata dai
concetti di interno ed esterno; abbiamo creato un’entità, una sostanza
(come la lava in un cratere vulcanico), una quantità di energia che si
comporta come se fosse una persona e noi – continua l’Autore – la
descriviamo come violenta, ostile, distruttiva, che ci sconvolge e con la
quale contrastiamo, che è nel Sé, ma non fa parte del Sé.
Molti degli Autori che non credono all’esistenza di una pulsione aggressiva,
compresi Heinz Guntrip (Teoria psicoanalitica della relazione d'oggetto,
1968), Harry Sullivan (Teoria evolutiva,1940), Heinz Kohut (La guarigione di
Sé, 1977) e Erich Fromm (Anatomia della distruttività umana, (Anatomia
della distruttività umana, 1973), fanno riferimento alla nozione (sostenuta
dalla teoria del comportamentismo) di “lotta/fuga” in risposta a minaccia o
pericolo. Questo tipo di approccio è in sintonia con le più importanti
tendenze
della
moderna
etologia,
dove
(eccetto
Konrad
Lorenz)
l’aggressività tende ad essere compresa non come uno stimolo endogeno
che insorge spontaneamente ma come reazione ad uno stimolo specifico.
Gli studi etologici hanno permesso di evidenziare un tipo di aggressività
interspecifica, legata prevalentemente all’attività di preda, di difesa, e una
aggressività intraspecifica generalmente ritualizzata e gerarchizzata, volta
essenzialmente alla difesa del territorio e alla conquista sessuale.
Emerge così l’importanza di una distanza minima fra congeneri, al disotto
della quale viene inevitabilmente evocata una condotta aggressiva Jean
Bergeret (Psicologia patologica. Teoria e clinica, 2009) sostiene12 che
_________________________________________________________
12. Bergeret J. (1984) La violence fondamentale. Paris: Dunod. La violenza fondamentale è
innata e non è né buona né cattiva. Non è da trattare né da prevenire. Essa costituisce l’istinto di
sopravvivenza e fornisce energia alla libido, ma questa può anche sottrarre componenti quando si
trasforma in oddio e aggressività.
~ 31 ~
esiste un istinto innato violento, comune all’uomo e agli animali, e che tale
istinto sarebbe risvegliato nell’immaginario interattivo fra genitori e figli
prima che divenga efficace il primato organizzativo edipico. Quest’ultimo, di
tipo triangolare e genitale, giunge naturalmente – come spiegava Freud – a
inglobare e integrare questo fondamento immaginario violento. Freud –
ricorda Bergeret – ha sempre sostenuto che l’evoluzione libidica deve
pervenire ad appoggiarsi positivamente sulla violenza primitiva puramente
autoconservativa. Quest’ultima non può essere confusa con l’odio, né con
l’aggressività, né soprattutto essere assimilata alla pulsione di morte. Si
tratta semplicemente di una volontà di sopravvivere, di uno scontro violento
fra due generazioni, quella dei genitori e quella dei figli, di un vissuto
immaginario di impossibilità della coesistenza fra il bambino da una parte e i
genitori dall’altra, sia la madre che il padre. In generale, secondo l’Autore,
tutto questo si svolge molto rapidamente nell’inconscio, prima di essere
recuperato dall’elaborazione libidica e creatrice; ma i primi fantasmi inconsci
restano di tipo violento: parenticidio da una parte (matricidio o patricidio) e
infanticidio dall’altra (sia da parte della madre che da parte del padre). La
psicosi puerperale rappresenta per Bergeret solo l’apparizione cosciente di
un fantasma universale e presente abitualmente in modo inconscio in tutte
le madri.
Secondo Stephen A. Mitchell (Speranza e timore in psicoanalisi,1993)
13
caratterizzare l’aggressività come una reazione non deve mettere in
discussione le sue basi biologiche, piuttosto si può pensare che gli aspetti
biologici dell’aggressività non operino come una pulsione, ma come un
potenziale
dell’individuo,
che
è
evocato
da
circostanze
percepite
soggettivamente come minacciose o pericolose. Per molti pazienti, la
____________________________________________________________
13. Mitchell S.A. (1993) Speranza e timore in psicoanalisi. Torino: Bollati Boringhieri, 1995.
L’aggressività può essere intesa come assertività e in tal senso è un fenomeno vitale. L’aggressività
distruttiva invece è patologica in quanto diventa un elemento organizzatore di un Sé debole che si
sperimenta minacciato e minaccioso.
~ 32 ~
situazione analitica è sentita – afferma Mitchell – come estremamente
pericolosa e minacciosa per l’integrità del Sé; ci sono persone per le quali
l’aggressività rappresenta uno stile di vita e l’odio un modo per vitalizzare le
relazioni con gli altri oltre che se stessi. Gli analizzandi arrivano alla
situazione analitica non solo con buone intenzioni, ma anche con propositi
cattivi e distruttivi. In una esperienza psicoanalitica profonda, l’analizzando
impara a riconoscere la distruttività che è così centrale all’esperienza del Sé
e che spesso è sottostante alla capacità di amare. È solo con la
comprensione della propria aggressività che è possibile superarla attraverso
un atteggiamento di indulgenza e di riparazione verso gli altri, verso gli
oggetti interni e, infine, verso se stessi.
Mitchell sostiene che il modello pulsionale dell’aggressività ha contribuito
alla nostra conoscenza del significato profondo della distruttività nella
motivazione umana e la sua centralità nella formazione del Sé. Gli altri
modelli dell’aggressività, che non si basano sulle pulsioni, hanno
accresciuto la nostra conoscenza del contesto soggettivo entro il quale
originano la rabbia e la distruttività. Per Mitchell un buon psicoanalista
lavora tenendo conto di tutti e due questi aspetti ed assume una propria
teoria comprensiva di entrambi i modelli.
Tuttavia, conclude l’Autore, la polarizzazione intorno al concetto di pulsione
aggressiva ha precluso lo sviluppo di una prospettiva che riconosca
all’aggressività la centralità che le è dovuta e nello stesso tempo la ponga
nel suo originale contesto di un Sé in pericolo e che fa il possibile per la sua
completa risoluzione analitica. Se alla teorizzazione di Freud del 1920 va
riconosciuto il merito di avere indirizzato l’attenzione della psicoanalisi sul
problema dell’aggressività, le successive opinioni spesso discordanti hanno
allargato il dibattito sulla natura dell’aggressività in quanto pulsione primaria
o derivata da un altro istinto o come modalità di risposta alle frustrazioni, sul
tipo di energia che le pertiene, sulla sua neutralizzazione e sul suo sviluppo.
~ 33 ~
Uno degli aspetti che non è stato ancora sufficientemente indagato riguarda
i rapporti fra l’aggressività intesa nel senso negativo di odio e distruzione e
in quello positivo di autoaffermazione e di espansività.
Per concludere va riportato quanto sostenuto da Philippe Jeammet (1988):
“[…] La pulsione di morte mette l’accento sulla presenza, all’interno
dell’organismo, di un potenziale distruttivo. In questa prospettiva la minaccia
essenziale è l’autodistruzione; le condotte eteroaggressive sarebbero
comunque secondarie e, in ultima istanza, comporterebbero una prognosi
più favorevole in quanto sottraggono l’individuo al pericolo maggiore: il
completo ripiegamento su se stesso […]”. Adottare questo punto di vista
significa attribuire valore al ruolo essenzialmente vitale dell’oggetto, che
obbliga il soggetto a uscire da se stesso e a indirizzare all’esterno la sua
aggressività. Se la relazione comporta comunque un lato positivo e libidico,
la relazione oggettuale consente allora di fondere aggressività e libido,
diminuendo il potenziale distruttivo. In questo contesto le frustrazioni sono
inevitabili, ma necessarie in quanto mobilitano l’aggressività e la legano agli
oggetti. Il pericolo maggiore per l’individuo, ricorda Jeammet, è dato dal
ripiegamento su se stesso e dalle diverse forme di autodistruttività: suicidio,
condotte di scacco, malattie psicosomatiche, distruzione schizofrenica del
pensiero e dell’identità.
~ 34 ~
CAPITOLO 3: PSICOBIOLOGIA DELL’AGGRESSIVITÀ
3.1.
ASPETTI ETOLOGICI
Un notevole apporto allo studio dell’aggressività è stato dato in particolare
dall’opera di Konrad Lorenz (L'anello di Re Salomone (1949)), secondo
il quale tutti i comportamenti aggressivi dell’uomo, dalle guerre alle liti
personali, derivano da un istinto primario, programmato filogeneticamente
ed alimentato da una fonte energetica sempre presente. Per Lorenz
l’aggressività è una forza interiore che tende a scaricarsi, cercando
l’occasione propizia, ed è quindi al servizio della vita servendo a garantire la
sopravvivenza
dell’individuo
e
della
specie.
Infatti,
nonostante
la
spontaneità dell’impulso aggressivo e la sua pericolosità, essendo esso
innato e non eliminabile, ben raramente animali di una stessa specie si
uccidono tra loro. Ciò è reso possibile per l’intervento di alcuni meccanismi
frenanti fra cui il “moto ri-diretto”, attività che, innescata da un oggetto che
provoca contemporaneamente stimoli inibitori, viene sfogata su di un altro
oggetto, e la “ritualizzazione”, che si riferisce a quei comportamenti che
hanno perso la loro specifica funzione originaria e sono diventati pure
cerimonie simboliche, dall’esibizione di atteggiamenti di minaccia alla lotta
ritualizzata vera e propria. Questi due meccanismi hanno la funzione di
dirottare l’aggressività verso canali innocui, riducendone gli effetti dannosi
per la conservazione della specie.
3.2.
ASPETTI COMPORTAMENTALI
L’ipotesi frustrazione-aggressività è stata sviluppata nei contributi di John
Dollard (Teoria dell’apprendimento sociale, 1964), Elgar Miller (Miller &
Dollard (1941), ed in particolare il loro concetto di modellamento) e Robert
R. Sears (1967) realizzati presso l’Università di Yale e confluiti nell’opera
“Frustrazione e Aggressività”, in cui viene fatto esplicito riferimento all’opera
freudiana (“Lutto e malinconia”, “Introduzione alla psicoanalisi”). Il
presupposto fondamentale di questi Autori può essere sintetizzato
~ 35 ~
nell’affermazione che “[…] l’aggressività è sempre conseguenza di uno
stato di frustrazione[…]” e che all’inverso “[…] l’esistenza di una frustrazione
conduce a qualche forma di aggressività […]”. L’interesse è focalizzato sulla
definizione delle modalità contingenti piuttosto che delle cause originarie.
L’analisi proposta da questi Autori è tesa a valutare da un lato i rapporti in
base ai quali variando la frustrazione varia l’aggressività, dall’altro i modi in
cui l’aggressività tende ad una scarica, ovvero in cui può essere controllata
o repressa. Quanto più grande è il grado di inibizione dell’atto aggressivo
diretto, tanto più probabile sarà il verificarsi di atti aggressivi indiretti
(“dislocati” o “sublimati”). Se invece l’aggressività può tradursi sul piano
comportamentale in azioni che colpiscono l’agente frustrante o un sostituto
di esso, si ha la “catarsi”, ossia un abbassamento dell’istigazione
all’aggressività. La primitiva rigidità e categoricità di questa formulazione fu
in seguito mitigata dagli stessi Autori con l’ammissione di forme di risposte
non aggressive alla frustrazione.
Robert Berkowitz (1939), che in linea di massima aderisce all’ipotesi
frustrazione- aggressività, propone tuttavia una revisione sostenendo che
una disposizione favorevole ad atti aggressivi è rappresentata dalla
reazione emotiva (rabbia) prodotta dalla frustrazione e da abiti aggressivi
acquisiti precedentemente. Questa disposizione (readiness) non si realizza
con comportamenti aggressivi, se non in presenza di stimoli istigatori.
L’intensità della risposta aggressiva sarà quindi una funzione del valore di
“istigazione”
dello
stimolo
combinato
con
il
grado
di
“readiness”
all’aggressività di cui l’organismo è in quel momento fornito. La frustrazione
non è l’unica possibile spiegazione dell’aggressività; esistono atti aggressivi
che non sono affatto il frutto di esperienze frustranti, ma di abiti di
aggressività
appresi
e
latenti
che
possono
essere
rievocati
nel
comportamento manifesto da stimoli appropriati anche non frustranti (ad es.
la violenza osservata nei film). Questo però non significa che la semplice
presenza di una rivoltella o l’esposizione ad un film violento debba far sì che
una persona si comporti aggressivamente; significa piuttosto sottolineare il
~ 36 ~
ruolo istigatorio e facilitatorio di tali stimoli, ove sia presente un bersaglio
appropriato e uno stato di eccitazione che già orienta il soggetto a
comportarsi aggressivamente.
Albert Bandura (Teoria dell’apprendimento sociale, 1973), principale
rappresentante della teoria dell’apprendimento sociale, sostiene, in
contrapposizione alla scuola di Yale, che l’aggressività è una classe di
risposte che l’individuo apprende nel corso della sua esperienza per
imitazione più o meno diretta di modelli. Criticando la teoria frustrazioneaggressività, l’Autore sostiene che diversi tipi di stimoli possono produrre
nell’individuo uno stato di eccitamento emotivo che può condurre a svariati
comportamenti; la realizzazione pratica di questi ultimi dipende da come gli
individui hanno imparato a fronteggiare le situazioni stressanti: alcuni
cercano aiuto e sostegno, altri mostrano rassegnazione, altri ancora
aggrediscono. L’aggressività quindi non rappresenta l’inevitabile ed unica
conseguenza di uno stimolo frustrante, ma può essere evocata soltanto in
persone che hanno imparato ad utilizzare atteggiamenti ed azioni
aggressive.
Nell’ambito della teoria cognitivo-comportamentale occupa una posizione
particolare l’impostazione di Arnold H.Buss (1961), il quale suggerisce
innanzitutto di distinguere l’aggressione dalla rabbia e dall’ostilità. Per
aggressione, sinonimo di attacco, si deve intendere “[…] la produzione di
uno stimolo nocivo nell’ambito di un contesto interpersonale […]”; la rabbia
è una reazione emotiva; l’ostilità è un atteggiamento negativo nei confronti
di una persona. Questi tre fenomeni possono essere presenti insieme o
separatamente, ma per parlare di aggressione non si deve fare riferimento a
emozioni od ostilità, ma bisogna accertare l’esistenza di uno stimolo nocivo,
diretto da una persona ad un’altra, sia esso fisico o verbale, diretto o
indiretto, risultato di un “fare” o di un “non fare”; inoltre tale stimolo deve
essere socialmente inaccettabile. Nell’analisi dell’aggressività si deve tener
conto della condotta aggressiva, della sofferenza della vittima, dei vantaggi
~ 37 ~
per l’autore dell’offesa; per Buss è soprattutto l’acquisizione di vantaggi,
piuttosto che la sofferenza della vittima, a scatenare l’aggressione; anzi, il
dolore della vittima riduce l’aggressione stessa. Per vantaggi bisogna
intendere sia l’allontanamento da noxae patogene, sia l’acquisizione di certe
soddisfazioni.
Per quanto riguarda il rapporto frustrazione-aggressività, Buss afferma che
la frustrazione induce all’aggressione solo quando questa può permettere di
superare l’ostacolo, altrimenti può provocare risposte addirittura opposte.
Buss parla di frustrazione “arbitraria”, quando l’ostacolo è dovuto al
“capriccio” di qualcuno; “non arbitraria”, se il blocco deriva da un evento
inevitabile o indipendente dal controllo di chiunque; secondo l’Autore, la
frustrazione “arbitraria” è fonte di maggiore aggressione. Comunque, in
opposizione a: “più forte è la frustrazione, più intensa è l’aggressione; più
forte è la paura della punizione e più intensa è l’aggressione”, spesso è
l’attacco diretto portato da un altro individuo che pone il soggetto nella
necessità di agire, contrattaccando a sua volta, mentre le emozioni
sembrano addirittura ostacolare il comportamento aggressivo.
La sua visione si differenzia quindi da quella della scuola di Yale soprattutto
per
la
“strumentalità”
dell’aggressione
(superamento
della
noxa,
acquisizione di benefici), rispetto al carattere puramente reattivo indicato da
Dollard e collaboratori.
Seymour Feshback (Enciclopedia delle scienze sociali, 1984) ha tentato di
inserire, all’interno della concezione rigidamente comportamentale, temi
propri della psicodinamica freudiana, riallacciandosi in particolare alla
interpretazione data da Dollard e collaboratori. Rispetto all’impostazione
behaviorista, che privilegia lo stimolo in quanto elemento oggettivo
direttamente controllabile, Feshback (Uomo aggressivo, 1961) evidenzia
l’importanza della risposta, non tanto in termini strumentali, ma in quanto
espressione di un modo originale di porsi in rapporto con la realtà,
~ 38 ~
sottolineando quindi le componenti personali motivazionali e le differenze
individuali. La risposta viene perciò considerata soprattutto come l’esito di
un investimento di cariche e di energie, che trova un senso nell’economia
interna e nella storia del soggetto.
La condotta aggressiva deve essere analizzata in rapporto ai diversi
significati soggettivi e oggettivi che essa può assumere: si può perciò
distinguere in primo luogo una “aggressività accidentale” e un’“aggressività
intenzionale”, in quanto è da sottolineare la differenza esistente tra
un’offesa che viene arrecata preterintenzionalmente e un’offesa che è
invece agita intenzionalmente. Nell’ambito dell’aggressività intenzionale si
possono distinguere un’aggressività strumentale e una forma ostile.
Nel primo caso l’offesa dell’altro è un mezzo per il raggiungimento di un fine
che non si identifica con l’offesa; nel secondo caso l’offesa dell’altro è il fine
primario ed è proprio questa forma di aggressività e le condotte che ne
derivano che corrispondono alla spinta aggressiva in senso stretto
(aggressive drive). Feshback non sembra voler indagare circa la natura
innata o appresa di tale spinta e la sua posizione, oscillante tra l’attrazione
per certe ipotesi freudiane da un lato e i vincoli di un linguaggio e un metodo
di carattere inequivocabilmente comportamentista dall’altro, appare poco
chiara. È innegabile che in certe situazioni la frustrazione possa produrre o
intensificare sentimenti di ostilità o condotte aggressive; pur tuttavia queste
ultime possono essere prodotte indipendentemente dalla presenza di una
frustrazione e talora la propria ostilità e la propria condotta aggressiva
possono essere occasione esse stesse di frustrazione. Secondo l’Autore
occorre analizzare quali sono le condizioni legate a certi processi evolutivi e
a certe esperienze di socializzazione che, insieme a particolari condotte,
determinano un più o meno adeguato rapporto del soggetto con la realtà.
~ 39 ~
3.3.
ASPETTI EUTONOLOGICI
Sul rapporto aggressività-malattia un originale contributo proviene dal
neurobiologo-eutonologo francese Henri Laborit (1997). L’eutonologia
insegna a “star bene nella propria pelle”, ossia non è altro che il
mantenimento della propria struttura mediante l’azione, controllando e
limitando gli effetti e le variazioni dell’ambiente. Laborit sostiene che tutte le
funzioni del cervello, anche quelle che noi chiamiamo pensiero, non sono
altro che il perfezionamento di questa unica primaria finalità: l’azione. A tutti
i livelli, dalla molecola al comportamento, le cose cominciano a guastarsi
quando un’azione efficace risulta impossibile.
Laborit ipotizza due diversi meccanismi a livello dell’attività nervosa
centrale: il primo ha come risultato un’attività motoria, l’altro l’inibizione di
tale attività. Essi costituiscono veri e propri sistemi individuabili sul piano
anatomico, neurofisiologico, biochimico e dei quali si può studiare il
funzionamento in maniera sperimentale (SAA = sistema attivatore
dell’azione; SIA = sistema inibitore dell’azione).
L’SAA presiede quindi all’attività aggressiva intesa come avvicinamento alla
noxa e lotta o fuga da essa, a seconda della situazione, o almeno
evitamento di una punizione, ossia di una stimolazione nocicettiva temuta.
L’SIA entra in atto solamente quando l’azione efficace risulta impossibile e
le condizioni poste dall’ambiente sono tali da far prevedere una punizione
inevitabile.
Laborit ne fornisce una dimostrazione fondata su dati sperimentali: se a un
ratto introdotto in una gabbia facciamo udire un segnale acustico a cui
segue una scossa elettrica, questo impara a fuggire in tempo, prima della
scarica, attraverso una porticina; chiudendo la saracinesca, l’animale si
acquatta e rimane in un atteggiamento di rigidità muscolare in attesa, senza
alcun tentativo di fuga, della scarica che lo farà sobbalzare. Se due ratti,
~ 40 ~
entrambi condizionati, vengono introdotti nella stessa gabbia,quando la
porticina viene chiusa e si ode il segnale acustico, gli animali non si
immobilizzano in un’attesa angosciosa, ma lottano fra loro, esprimendo così
uno sfogo alla impossibilità di agire efficacemente contro una punizione
inevitabile. L’aggressività si scatena anche quando nello stesso spazio sono
presenti due o più individui che cercano di gratificarsi con gli stessi oggetti o
con le stesse persone: si tratta di un’aggressività di competizione, di
un’aggressività che serve ad instaurare una gerarchia.
Nel contesto sociale l’inibizione dell’azione è la regola, perché l’aggressività
risulta vana e l’ostacolo può essere insormontabile: l’esperienza interiore
corrispondente sarà l’angoscia. Vi sono comunque dei meccanismi di
difesa: la famiglia, dove il maschio conserva quella superiorità su cui è
costruito l’intero edificio sociale; la sublimazione nell’impegno politico e
sindacale; il possesso di beni sempre più numerosi e la possibilità di svaghi
sempre più sofisticati.
La teoria della “sindrome generale di adattamento” di Hans Selye (1936)
spiega come l’organismo reagisca alle aggressioni e allo stress in maniera
aspecifica: i glicocorticoidi, a livello centrale, attivano l’SIA, il quale a sua
volta ne stimola la produzione attraverso l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Il
sistema tende a mantenersi in funzione fino a quando non si ha un
comportamento aggressivo. La produzione di glicocorticoidi prolungherebbe
la reazione organica di “allarme” attraverso la messa in gioco dei “centri
inibitori dell’azione”. Tutto ciò mantiene l’organismo in uno stato di tensione,
accompagnato alla periferia da una liberazione di norepinefrina. Dal punto
di vista biologico, norepinefrina e ormoni steroidei glicoattivi sono i sicari del
SNC in tutte le malattie psicosomatiche. Quindi in una tale visione con
Laborit si dovrebbe parlare di “malattia da inibizione comportamentale”.
~ 41 ~
3.4.
ASPETTI NEUROFISIOLOGICI
La generalizzazione dei risultati della ricerca animale ha riguardato anche le
sedi
neuroanatomiche
correlabili
con
il
comportamento
aggressivo
nell’uomo, ed ha ottenuto una verifica indiretta dall’utilizzo di una serie di
procedure manipolatorie sui sistemi neurali presunti responsabili:
1. la lesione chirurgica di aree cerebrali in soggetti con sindromi
psicopatologiche ribelli alle comuni terapie;
2. la stimolazione elettrica diretta di aree che attivano sistemi di inibizione
del comportamento aggressivo. L’amigdalectomia bilaterale determina una
riduzione del comportamento violento, ed è stata proposta anche per il
controllo di disturbi ossessivo-compulsivi ed epilettici. Stessi risultati sono
stati ottenuti intervenendo sull’ipotalamo posteriore e su porzioni del talamo.
Dalla ricerca dei substrati neurofisiologici dei vari tipi di comportamento
aggressivo nell’animale risulta come siano effettivamente coinvolte varie
aree cerebrali: dal sistema olfattivo e dalla corteccia prepiriforme
all’amigdala, dall’ipotalamo ai nuclei del rafe, la cui individuazione è
avvenuta tramite processi di ablazione chirurgica o di lesione cerebrale
associata o meno al trattamento farmacologico. I comportamenti di attacco
offensivo sembrano essere associati nel gatto all’ipotalamo laterale, mentre
l’attacco difensivo sembra essere consequenziale alla manipolazione
dell’ipotalamo mediale. La stimolazione del nucleo centrale dell’amigdala
produce nel cane manifestazioni di paura e di fuga, come pure nel gatto;
tuttavia è stato anche dimostrato che lesioni di quest’area in entrambi gli
animali producono manifestazioni aggressive più simili alla predatoria,
suggerendo l’esistenza di una funzione inibitoria del sistema difensivo su
quello offensivo.
Altre aree inibitorie sono state individuate tramite la stimolazione di
particolari punti della testa del nucleo caudato nella scimmia. Per quanto
~ 42 ~
riguarda l’inibizione del comportamento aggressivo per mezzo della diretta
stimolazione
elettrica
di
aree
cerebrali,
una
riduzione
drastica
dell’aggressività psicotica viene riportata a seguito della stimolazione
dell’area settale e più recentemente dopo stimolazione continua della
porzione rostrale del verme cerebellare, mentre altri studi riportavano
l’effetto calmante della stimolazione della porzione ventro-mediale del lobo
frontale o del lobo medio temporale. Interessante appare il concetto di
specializzazione emisferica, inizialmente elaborato in termini cognitivi, in
quanto un crescente numero di dati indica che l’emisfero sinistro elabora in
modo più efficace del destro un’attività verbale, mentre per l’attività non
verbale avverrebbe l’opposto. Parallelamente, studi neuropsicologici
indicano che i due emisferi cerebrali apportano un differente contributo alle
manifestazioni emozionali. L’emisfero destro sarebbe maggiormente
implicato nelle esperienze emozionali, specialmente negative, nella
valutazione degli stimoli ambientali, nelle condotte impulsive. Il sinistro,
invece, sarebbe maggiormente chiamato in causa nelle attività cognitive,
nelle condotte intenzionali, nelle decisioni razionali. L’emisfero destro
pertanto
dovrebbe
essere
particolarmente
coinvolto
in
esperienze
tipicamente affettive ed emozionali, come ad esempio la depressione,
l’ansia, l’aggressività.
Nell’uomo, per lo studio neuroanatomico delle strutture implicate in alcuni
stati emotivi quali l’aggressività e l’abbassamento del tono dell’umore,
possono essere di aiuto i dati ricavati dallo studio di soggetti con epilessia.
Nella epilessia temporale destra è stata riportata una preponderanza di
disturbi aggressivi e dell’umore, con un pattern aggressivo di tipo
“impulsivo”, mentre in quella sinistra sono più frequenti i disturbi del
pensiero e valenze aggressive di tipo “riflessivo”. Questo suggerisce un
investimento emotivo degli eventi con rapida alterazione del tono dell’umore
o passaggio all’azione nell’epilessia del lobo temporale destro. Mentre
l’emisfero destro sarebbe coinvolto maggiormente nelle risposte di tipo
affettivo-emozionale, impulsive e di vigilanza, il sinistro lo sarebbe in quelle
~ 43 ~
di tipo cognitivo, riflessivo. Queste differenze potrebbero riflettere diversità
anatomiche esistenti nei due emisferi. Nell’emisfero destro le strutture
limbiche avrebbero connessioni indipendenti con i sistemi sensitivi corticali
e questo potrebbe essere responsabile della maggiore vigilanza verso
singoli stimoli e della loro risonanza affettiva, mentre le maggiori aree di
associazione
sensitive
presenti
nell’emisfero
sinistro
permettono
l’elaborazione degli stimoli.
Pertanto, come si potrebbe ipotizzare che l’iperattività dell’emisfero destro
sia il substrato neurofisiologico del vissuto depressivo, così potremmo
ugualmente ipotizzarlo per il comportamento aggressivo, anche in ragione
dell’aumento dell’effetto frustrante degli stimoli negativi determinato dalla
loro ipervalutazione da parte dell’emisfero destro iperfunzionante.
L’aggressività, tuttavia, non è stata sufficientemente studiata da questo
punto di vista. Esaminando le relazioni fra aggressività e lateralizzazione
emisferica mediante l’analisi automatica dell’EEG e la compilazione di
questionari comportamentali, è stata evidenziata una correlazione positiva
fra profilo dell’aggressività e indice di asimmetria, nel senso che tanto più il
comportamento aggressivo appare inibito, tanto più vi è una prevalente
attivazione sinistra in sede temporale medio-posteriore e frontale anteriore.
All’opposto, ad un aumento dell’aggressività agita (sganciata cioè dalla
colpa) corrisponde una minore attività a sinistra nelle stesse sedi. Le altre
aree mostrano un comportamento inverso. Bisogna tuttavia considerare che
il metodo di analisi tende ad evidenziare i rapporti dell’attività di alcune aree
rispetto ad altre, piuttosto che il reale grado di attivazione.
3.5.
ASPETTI ENDOCRINI
Gli ormoni più frequentemente proposti dalla ricerca quali modulatori delle
manifestazioni aggressive umane sono gli ormoni sessuali e steroidei in
generale, che influenzerebbero il comportamento aggressivo agendo a
diversi livelli: motivazionale, su aree specifiche del sistema nervoso
~ 44 ~
centrale; interattivo-sociale, modificando i messaggi e la sensibilità ad essi;
espressivo, facendo variare l’incidenza e/o l’intensità del comportamento,
ed influenzati a loro volta dalle interazioni sociali, agendo ulteriormente sulla
probabilità di comparsa di un particolare comportamento agonistico.
L’esposizione del feto, durante la gravidanza, ad elevate concentrazioni
ormonali in caso di disturbi endocrini della gestante (ad es. sindrome
adrenogenitale) o di trattamenti ormonali in rapporto a sindromi morbose
(ad es. diabete, minaccia di aborto per cause varie) produrrebbe
modificazioni anche comportamentali non necessariamente correlate
all’aggressività,
quali
la
preferenza
per
giochi
mascolini
e
la
mascolinizzazione della prole femminile.
Nella popolazione adulta, i rapporti tra ormoni androgeni (classicamente
associati al comportamento aggressivo) e aggressività sono stati studiati in
riferimento a diversi campioni, dalla popolazione psichiatrica ospedalizzata
e non, a giovani volontari sani, dai criminali comuni, a criminali di tipo
sessuale, fino ai giocatori di sport giudicati aggressivi, come l’hockey.
I risultati ottenuti sono molto contrastanti, soprattutto a causa dei diversi
parametri di misurazione del comportamento utilizzati nei vari studi, ed
approdano ad una relazione chiaramente significativa fra testosterone e
aggressività solo in riferimento alla percezione della propria aggressività
verbale e fisica in risposta a provocazioni o minacce (la forma che
definiremmo difensiva).
Del resto anche l’implicazione di ormoni diversi dagli androgeni in altre
situazioni di alterazione comportamentale in senso aggressivo, quale la fase
premestruale
o
fasi
di
dismetabolismo
glucidico,
non
è
stata
sufficientemente documentata, e non sono stati finora prodotti risultati
definitivi. A questo proposito appaiono interessanti gli studi di castrazione
chirurgica o farmacologica, che determina una drastica riduzione della
potenzialità aggressiva.
~ 45 ~
La terapia chirurgica produce un buon adattamento sociale. La validità di
tale terapia è confermata dalla comparsa di manifestazioni aggressive nei
castrati dopo terapia androgenica per varie settimane e dal ripristino di un
buon adattamento comportamentale a pochi giorni dalla sospensione della
terapia sostitutiva. La castrazione farmacologica con estrogeni comporta
un’azione di blocco sugli androgeni surrenalici, oltre che gonadici. Tuttavia
l’efficacia sul comportamento aggressivo si verifica solo se si trova
associato un alterato comportamento sessuale; la stessa cosa avviene con
gli
agenti
antiandrogeni,
come
il
ciproterone
acetato
e
il
diidrossiprogesterone. La gonadectomia bilaterale riduce fino ad abolire
l’attività aggressiva del topo maschio isolato e quella indotta da stimolazione
dolorosa; i glicocorticoidi e l’ACTH, iniettati intraperitonealmente, producono
un aumento dell’attacco nel topo isolato; mentre l’iniezione intraperitoneale
giornaliera di 0,2 mg di cloruro di litio sopprime tale attività aggressiva.
3.6.
ASPETTI NEUROCHIMICI
La disponibilità di dati riguardo ai movimenti biochimici e trasmettitoriali, che
stanno alla base delle condotte aggressive umane, è molto scarsa.
Nell’animale metodi di indagine diretti hanno evidenziato modificazioni a
carico del sistema GABAergico, che riguardano un ridotto contenuto di
mediatore nei bulbi olfattivi, sia nel ratto killer che nel topo isolato, associato
in quest’ultimo ad un decremento di attività della glutamico decarbossilasi.
Per quanto riguarda la neurotrasmissione serotoninergica, sono state
osservate alterazioni (ridotto turnover) a livello del rafe nel muricida e nel
ratto pretectomizzato e in alcune aree collegate funzionalmente al sistema
limbico nel topo isolato. Un’aumentata attività colino-acetil-transferasica è
stata rinvenuta nell’amigdala di ratti muricidi o di ratti bulbectomizzati che
divengono muricidi, così come un incrementato turnover dopaminergico nei
tubercoli olfattivi, senza modificazione della concentrazione e del turnover di
norepinefrina. Un aumento dell’attività dopaminergica è stato obiettivato
anche nell’uomo, attraverso il rinvenimento post-mortem di bassi dosaggi
~ 46 ~
dell’enzima B-dopamina-idrossilasi nel tessuto cerebrale di schizofrenici, in
particolare nelle strutture diencefaliche e nell’ipotalamo; ciò costituirebbe un
fenomeno prioritario nella genesi della schizofrenia e probabilmente delle
manifestazioni comportamentali che l’accompagnano; tuttavia, come per gli
altri interventi che promuovono un’esacerbazione della sintomatologia
psicotica attraverso un incremento della dopamina (somministrazione di
levo-dopa, di inibitori della B-dopamina-idrossilasi, di amfetamine o
amfetaminosimili), i risultati non mostrano relazioni dirette con il
comportamento aggressivo.
L’unica correlazione positiva effettiva tra aggressività e modificazioni
centrali di un neuromediatore riguardano la ben documentata associazione
tra comportamento suicidario e basse concentrazioni liquorali di acido 5idrossiindolacetico, metabolita della serotonina. Tale associazione non
esisterebbe solo nei disturbi affettivi, dove inoltre più violento è il suicidio,
più basso è il livello liquorale, ma anche in pazienti schizofrenici e nei
disturbi
di
personalità,
quindi
indipendentemente
dalla
categoria
diagnostica.
Più recentemente, in soggetti colpevoli di atti di violenza impulsiva, rispetto
a soggetti che hanno meditato e preparato la loro azione criminale, sono
state riscontrate più basse concentrazioni liquorali di
suggerisce
l’importanza
della
trasmissione
5-HIAA, il che
serotoninergica
come
denominatore comune di comportamenti apparentemente diversi, quali il
suicidio e il mancato controllo degli impulsi. Di contro, la scoperta che tra i
soggetti normali la probabilità di storia familiare positiva per disturbi affettivi
è di 2,7 volte superiore in coloro che presentano un dosaggio liquorale di 5HIAA inferiore alla media allarga la sensibilità di questo marker in campo
diagnostico, riducendone la specificità di indice comportamentale e
ponendo l’accento sulla componente genetica dell’aggressività.
~ 47 ~
Alterazioni del sistema della 5-HT possono essere implicate nella
modulazione del comportamento aggressivo, anche nel senso di una
inibizione. Se la diminuzione dell’attività 5-HT è correlata con la diminuzione
dell’inibizione del comportamento, potrebbe essere anche vero il contrario:
potrebbe cioè l’incremento di 5-HT essere correlato ad un ipercontrollo del
comportamento. Gli individui che presentano caratteristicamente un
comportamento inibito in un’ampia varietà di situazioni sono individui che
mostrano
caratteri
di
timidezza,
introversione
o
indecisione.
Essi
generalmente presentano una minor tendenza ad incontrare nuovi stimoli,
con maggior probabilità inibiscono il loro comportamento di fronte
all’incertezza e impiegano più tempo ad essere stimolati da nuove
situazioni. Questa modalità di comportamento è designata inibizione
comportamentale.
Hanz Eisenck (The structure of Human Personality, Methuen, London,
1953). notò una relazione negativa tra livelli di inibizione comportamentale e
aggressività. Descrivendo l’introverso e l’estroverso tipici egli nota: “Il tipico
estroverso [...] tende a essere aggressivo e perde rapidamente la calma; in
genere i suoi sentimenti non sono tenuti sotto controllo[...] Il tipico introverso
tiene i suoi sentimenti sotto stretto controllo, raramente si comporta in modo
aggressivo e non perde la calma facilmente”.
Più recentemente Robert Cloninger (1987) ha ipotizzato che maggiori livelli
di serotonina rappresentino il correlato biologico del tipo di personalità
cosiddetta “Harm Avoidant”, tendente all’inibizione del comportamento. Ci
sono altre ragioni che fanno pensare che timidezza (inibizione del
comportamento) e aggressività possano essere i poli opposti di uno stesso
spettro. Nelle scimmie Rhesus l’espressione legata allo sviluppo di ciascuna
caratteristica mostra pattern opposti. In generale, il comportamento
aggressivo nella tarda infanzia si manifesta a bassi livelli, poi aumenta nel
periodo giovanile, raggiunge l’acme nella prima adolescenza, infine declina
o è costante in età adulta. Di contro, l’inibizione del comportamento declina
~ 48 ~
con l’età. Essa si presenta ad alti livelli nella prima infanzia, poi declina fino
a raggiungere il suo punto più basso a partire dall’adolescenza. Se i disturbi
dell’aggressività sono legati ad un basso turnover di 5-HT nel SNC, un
comportamento fortemente inibito potrebbe essere correlato ad un elevato
turnover di 5-HT. Vi è qualche evidenza per questa ipotesi.
Alcuni studi hanno mostrato che cambiamenti nel sistema serotoninergico
possono essere paralleli ai pattern di sviluppo e alle differenze legate al
sesso nei comportamenti aggressivi. Soggetti più giovani mostrano più alte
concentrazioni di 5-HT o dei suoi metaboliti, e i maschi, particolarmente in
popolazioni con depressione, tendono ad avere più basse concentrazioni
rispetto alle femmine. Test farmacologici per studiare il ruolo della 5-HT
nelle manifestazioni comportamentali della timidezza non sono stati
effettuati nelle scimmie. È stato posto l’accento sul possibile meccanismo
serotoninergico
che
sottende
le
manifestazioni
comportamentali
di
inibizione, aggressività e depressione, ma altri sistemi neurotrasmettitoriali
sono senza dubbio implicati.
Jerome Kagan (1988) ha trovato una relazione tra attività noradrenergica e
inibizione comportamentale. Similmente al modello visto nell’inibizione e
nell’aggressività, vi sono evidenze che le concentrazioni dei metaboliti di 5HT tendono a mantenersi stabili nel tempo, sebbene questi studi siano stati
effettuati solo negli adulti.
Come per il comportamento di inibizione, la velocità del turnover della 5-HT
può essere ereditaria, sebbene il tipo di ereditarietà non sia precisato. Studi
sia sull’uomo che sulla scimmia indicano che l’inibizione risente della storia
relativa al tipo di allevamento. Comunque, non è stato sistematicamente
studiato nei primati se l’attività serotoninergica sia modificata dalle modalità
di allevamento. In conclusione, le differenze legate allo sviluppo, al sesso e
alle modalità di allevamento, nel sistema serotoninergico, evidenziate dalle
misurazioni della concentrazione di
5-HIAA liquorale, sembrano essere
~ 49 ~
parallele alle differenze comportamentali precedentemente dimostrate, nelle
valutazioni sulla timidezza e aggressività. Quando le relazioni tra
comportamento e 5-HIAA sono direttamente valutate, le concentrazioni di 5HIAA liquorale sono in rapporto diretto con i valori dell’inibizione
comportamentale. Inoltre l’inibizione sembra correlarsi con i livelli di
disperazione osservati durante la separazione sociale. L’esame degli indici
di attività serotoninergica suggerisce, quindi, una relazione tra 5-HT,
timidezza e comportamenti depressivi.
Mentre, in generale, la maggior parte degli studi ha indagato le relazioni tra
aggressività impulsiva e altri disturbi del controllo degli impulsi e basse
concentrazioni di 5-HIAA liquorale, recentemente è stato messo in evidenza
anche l’altro polo dello spettro: l’attività serotoninergica del SNC può essere
posta in relazione con l’inibizione complessiva del comportamento, con
bassi livelli correlati con bassa inibizione, e alti livelli correlati con alta
inibizione del comportamento, specificamente timidezza in giovani scimmie
Rhesus.
Bambini che mostrano alti livelli di timidezza possono anche essere a
rischio di sviluppare una successiva patologia psichiatrica. Ciò può essere
in parte correlato alla iperattività dei sistemi serotoninergici del SNC.
Indagando l’attività serotinergica tramite il binding piastrinico per la 3Himipramina (3H-IMI) e il comportamento aggressivo su un campione di
volontari sani, il 3H-IMI e l’aggressività diretta mostrano correlazioni
positive.
Prendendo in considerazione i singoli comportamenti aggressivi, i soggetti
con attività serotoninergica più bassa sono anche quelli che tendono a
sentirsi come un “barile di polvere” pronto ad esplodere; nonostante essi
cerchino di non farlo notare spesso sono divorati dalla gelosia; il loro motto
è “diffida sempre degli estranei”; a volte si arrabbiano talmente da rompere
la prima cosa che viene loro a tiro. Una bassa attività serotoninergica si
~ 50 ~
legherebbe quindi ad un’aggressività non manifesta, ma mediata da
comportamenti indiretti che rappresentano una reazione di rabbia che non
ha alcuna direzione, quindi un atteggiamento negativo contro nessuno in
particolare, ma che consiste in una reazione immediata di fronte a
provocazioni
o
affronti
con
malumore,
intrattabilità
e
irascibilità,
esasperazione. Questi atteggiamenti si inseriscono su un substrato di
sospettosità e risentimento, che varia dalla semplice diffidenza e
circospezione a veri sentimenti di astio verso gli altri.
Un altro indice, per lo studio indiretto dell’attività serotoninergica centrale, è
rappresentato dagli enzimi deputati alla deaminazione ossidativa della 5HT, le monoaminossidasi (MAO). Le piastrine contengono le MAO, che
posseggono una cinetica simile a quella cerebrale e che probabilmente
sottostanno ad una identica regolazione. Infatti, è stata riportata una
correlazione positiva fra turnover della serotonina e MAO nel cervello
umano, e l’attività MAO piastrinica, in numerose ricerche, è stata trovata
correlare con comportamenti normali e patologici. I soggetti con elevata
attività
MAO
piastrinica,
che
sottenderebbe
una
bassa
attività
serotoninergica, manifesterebbero un’aggressività verbale con disposizione
a disapprovare le azioni altrui, atteggiamenti polemici, in disaccordo con tutti
e opposizione nel rapporto interattivo. È da ricordare, tuttavia, che le MAO
sono contenute soltanto nei neuroni serotoninergici, ma modificazioni della
loro attività si correlano anche a modificazioni dei livelli dopaminergici e di
derivati metilati delle amine, ad azione dopamino-simile.
È poco probabile, comunque, che un comportamento così complesso come
quello aggressivo possa essere riferito esclusivamente al solo sistema
serotoninergico. Sempre su volontari sani, è stata evidenziata l’importanza
del
bilanciamento
fra
sistema
dopaminergico,
esplorato
mediante
l’elettoretinogramma (ERG), e serotoninergico, esplorato mediante il binding
della 3H-imipramina, nell’espressività delle valenze aggressive.
~ 51 ~
È stata sottolineata un’alta correlazione negativa fra valori della Bmax e
onda “b” dell’ERG; in altre parole, all’aumentare della Bmax si ha una
parallela diminuzione dell’onda “b” dell’ERG, mentre si verifica il contrario
quando la Bmax diminuisce. Onda “b” dell’ERG e binding dell’3H-IMI
mostrerebbero
un
trend
di
relazione
con
alcune
caratteristiche
comportamentali delle quali alcune appaiono legarsi di più all’attività
DAergica, altre all’attività serotoninergica ed infine altre ancora all’azione
congiunta dei due neurotrasmettitori; i soggetti con valori di onda “b” più
elevati (maggiore attività dopaminergica) nei rapporti interpersonali
assumono un atteggiamento oppositivo che sfocia in una aggressività attiva
rivolta verso gli altri, che richiama il tipo predatorio o meglio l’hostility out. I
soggetti con più bassa attività 5-HTergica sono quelli più diffidenti e con
ridotta stima di sé, con una aggressività endodiretta o comunque di tipo
difensivo. Infine i soggetti con la più alta attività DAergica e la più bassa 5HTergica sono quelli in cui è più evidente un umore disforico sul quale
possono
innescarsi
comportamenti
aggressivi.
Nell’animale
il
comportamento muricida del topo pare sostenuto, dal punto di visto
neurotrasmettitoriale, da un innalzamento dell’attività DAergica e da una
diminuzione di quella 5-HTergica.
Esisterebbe quindi una relazione lineare fra attività dopaminergica e
serotoninergica centrali non solo negli animali, ma anche nell’uomo.
Cloninger, in un’ampia revisione dell’argomento, ipotizza una relazione tra
alcuni aspetti comportamentali e singoli sistemi neurotrasmettitoriali,
proponendo un modello tridimensionale della personalità.
Secondo l’Autore, i soggetti il cui comportamento è prevalentemente
orientato nel senso del “novelty seeking” (ricerca della novità), che richiama
il comportamento esplorativo dell’animale, avrebbero un basso livello di
attività DA, quelli orientati verso l’“harm avoidance” (evitamento del danno)
avrebbero un’elevata attività 5-HTergica, quelli, infine, in cui prevale la
“reward dependence” (dipendenza dal premio) avrebbero una ridotta attività
~ 52 ~
del sistema NA. Probabilmente questi tratti comportamentali non vanno
correlati singolarmente ai mediatori neurochimici, ma, anche nel campo
dell’aggressività, occorrerebbe studiare contemporaneamente l’assetto di
vari neuromediatori e correlare poi questo pattern complesso alle
caratteristiche personologico-comportamentali.
Il ruolo svolto dagli oppioidi nel controllo del comportamento aggressivo
appare di ancor più difficile interpretazione. Il sistema dopaminergico
sembra essere implicato anche nell’attività degli oppioidi endogeni ed
esogeni ed in effetti gli studi neurochimici mostrano un’alta densità di
recettori oppioidi ed alte concentrazioni di encefaline sia a livello del nucleo
accumbens che dell’area tegumentale ventrale del tronco, punti di arrivo e
partenza di neuroni dopaminergici meso-cortico-limbici.
L’attività terapeutica, dimostrata in vari casi di psicosi dalla des-tyr-gammaendorfina e l’osservazione dell’uso degli oppiacei come automedicazione
nei tossicodipendenti per i propri disturbi psichici, suggerirebbero che le
endorfine funzionino da “neurolettici endogeni”. In effetti i dati sperimentali
riportano una maggior sensibilità agli oppiacei in situazioni o disturbi mentali
associati ad una disfunzione dopaminergica come nel caso di trattamento
prolungato con neurolettici o nel caso di disturbi di tipo depressivo
frequentemente riscontrabili nei tossicodipendenti.
Tuttavia, l’osservazione che l’infusione di morfina nel nucleoaccumbens
produce un incremento dell’attività motoria bloccabile con il naloxone, ma
non da un antagonista dopaminergico, pone in risalto la complessità
dell’interazione oppioidi-dopamina, di cui ancora non sono conosciuti i
precisi meccanismi. In effetti solo una porzione dei recettori oppioidi scoperti
nel nucleo accumbens è localizzata sui terminali dopaminergici e l’infusione
di oppioidi nel nucleo non modifica sostanzialmente il metabolismo
dopaminergico regionale.
Recettori oppioidi sono presenti anche sulle terminazioni dei neuroni
~ 53 ~
GABAergici
della
via
nigro-striatale
ed
è
documentata
un’azione
soppressiva degli oppioidi esogeni e forse anche endogeni sulla liberazione
del GABA; l’osservazione che una riduzione della trasmissione GABAergica
o un blocco dei recettori postsinaptici causa una paralisi spastica dei
muscoli scheletrici suggerirebbe un effetto modulatore sul movimento
volontario da parte del sistema oppioide, agendo indirettamente sui neuroni
dopaminergici attraverso l’inibizione presinaptica della via GABAergica.
Anche osservazioni cliniche su soggetti tossicodipendenti sembrano
confermare il ruolo importante del sistema oppioide nella modulazione
dell’aggressività.
~ 54 ~
CAPITOLO 4: CLINICA DELL’AGGRESSIVITÀ
4.1. AGGRESSIVITÀ E DEPRESSIONE
Aggressività e depressione, nonostante l’apparente contrasto fra la natura
coartativa del vissuto depressivo e quella eccitatoria del comportamento
aggressivo, sono spesso associate. Il rapporto tra aggressività e
depressione appare di rilevante importanza dal punto di vista conoscitivo e
riveste notevole valore euristico per le sue implicazioni di ordine prognostico
e terapeutico. È ipotizzabile infatti che alcuni fattori che determinano
l’evoluzione e l’esito del quadro clinico (risposta ai trattamenti farmacologici,
compliance, ecc.) possano essere messi in rapporto alla entità e al tipo
delle valenze aggressive. Il rapporto fra aggressività e depressione,
evidente sul piano clinico, si presta ad essere interpretato da diversi punti di
vista,
corrispondenti
ai
diversi
approcci
conoscitivi
alla
patologia
psichiatrica, ognuno dei quali costituisce una delle tessere, non sempre
agevolmente collegabile alle altre, del complesso mosaico rappresentato
dal fenomeno psichiatrico in generale e da questo in particolare.
4.1.1. Nessi psicologici
Dal punto di vista psicodinamico le teorie psicoanalitiche classiche, da
Freud (1856-1939) alla Klein (1882-1960) a Evan Kendell (1977),
concordano tutte nel sostenere che nella depressione l’aggressività appare
repressa o rimossa e rivolta verso il sé, fino a produrre sul piano
comportamentale condotte suicidarie. Questa teoria è in accordo con i dati
presenti in letteratura, che riportano nella depressione la presenza di
valenze aggressive non espresse sul piano comportamentale come
risentimento, sospettosità e irritabilità, oltre che colpa, fattori di hostility-in,
nonché una riduzione dell’aggressività verbale, a testimonianza della
rilevanza di valenze aggressive, ma nello stesso tempo della loro inibizione.
~ 55 ~
Tuttavia, diverse indagini cliniche hanno messo in evidenza che solo in
alcuni casi l’aggressività appare primaria rispetto alla depressione, mentre
più spesso le valenze aggressive sono secondarie al disturbo dell’umore. In
pazienti depressi con tratti isteroidi di personalità, inoltre, l’aggressività
assume il carattere di hostility-out.
Dal punto di vista comportamentista, l’ipotesi frustrazione-aggressività può
far ipotizzare che la depressione, in quanto aumenta la sensibilità a stimoli
frustranti, può determinare una facilitazione delle risposte aggressive, che
potranno essere agite verso l’esterno o rivolte verso il sé o inibite dalla
colpa.
Il
tipo
di
risposta
alla
frustrazione,
per
quanto
riguarda
l’atteggiamento di fronte alla modalità di riparare al danno subito, è nei
depressi tendenzialmente extrapunitiva in fase acuta e non punitiva in
quella di remissione. La netta prevalenza di risposte “punitive”, sia extra che
intra, in fase acuta, rispetto a quelle “non punitive”, testimonierebbe della
ridotta soglia alla frustrazione dei pazienti depressi.
4.1.2. Nessi neurofisiologici
Sul piano neurofisiologico, con particolare riferimento alla specializzazione
emisferica, l’emisfero destro potrebbe essere particolarmente coinvolto in
esperienze tipicamente affettive ed emozionali, come la depressione e
l’aggressività. Infatti, un’iperfunzione dell’emisfero destro, assoluta o relativa
rispetto al controlaterale, sembra importante nella patogenesi della
depressione. L’osservazione dei pazienti con lesioni cerebrali supporta
questa ipotesi: lesioni dell’emisfero destro determinano reazioni di
indifferenza emotiva, senza segni clinici, psicometrici o neuroendocrini di
depressione; quelle dell’emisfero sinistro sono associate a deficit del
linguaggio e motori, pianto e tristezza.
Ad analoghe conclusioni conducono l’iniezione intracarotidea unilaterale di
~ 56 ~
amytal
sodico,
che
causa
un’inattivazione
emisferica:
mentre
l’anestetizzazione dell’emisfero sinistro determina una reazione depressiva,
quella dell’emisfero destro è responsabile della comparsa di sintomi euforici
fino alla mania. La registrazione elettroencefalografica testimonia una
maggiore attività dell’area temporale e frontale destra dei depressi rispetto
ai controlli, e la terapia elettroconvulsivante con elettrodi a destra è più
efficace nel miglioramento del tono dell’umore, rispetto a quella di sinistra o
bilaterale.
Studiando stati depressivi indotti in volontari sani, è stato osservato una
minore capacità di risolvere compiti immaginativi, mentre non era cambiata
la capacità di risolvere tasks aritmetici. Anche nel soggetto normale quindi
un lieve e transitorio stato depressivo può associarsi ad un decremento
delle capacità dell’emisfero destro a risolvere i suoi compiti, analogamente a
quanto è stato osservato nei pazienti con sindrome depressiva.
Esaminando i pattern EEG associati alle variazioni di funzionalità emisferica
durante la depressione, è stato osservato l’usuale pattern di asimmetria
compito-dipendente per le regioni occipitali, mentre vi sarebbe una relativa
maggiore attivazione a destra soltanto per i lobi frontali; vi sarebbe, inoltre,
una maggior attivazione frontale destra durante emozioni negative. È stato
postulato che l’attività del lobo frontale destro sia di natura inibitoria, con
effetto soppressivo sulla capacità di analizzare le informazioni delle regioni
più posteriori dell’emisfero destro. Peraltro, piuttosto che indicare un
disturbo a carattere cronico, questa minor capacità dell’emisfero destro
sembra essere un fenomeno transitorio collegato allo stato depressivo.
Quando, in seguito a terapia, il tono dell’umore del paziente si eleva, la
funzionalità
dell’emisfero
destro
viene
recuperata.
L’iperfunzione
dell’emisfero destro, che è deputato alla vigilanza nei confronti di stimoli
negativi, si correlerebbe con ipervalutazioni negative delle situazioni e degli
eventi, con effetto depressogeno, a sua volta attivante l’emisfero destro
stesso, costituendosi così un circolo vizioso fra valutazione negativa,
~ 57 ~
attivazione destra e depressione.
La teoria di una maggiore attività destra ben si accorda sia con le teorie
cognitive della depressione (visione negativa del sé, degli avvenimenti e del
futuro), sia con la prevalenza della depressione nel sesso femminile, nel
quale sembra che l’emisfero destro sia iperattivo.
Questa teoria spiegherebbe anche i noti rapporti fra depressione e dolore,
per il quale è stata chiamata in causa l’attività dell’emisfero destro. La
disregolazione interemisferica dei depressi condizionerebbe una perdita
delle difese percettive, che infatti risultano ridotte in fase di malattia e si
normalizzano con la remissione. Tale perdita comporterebbe una
“incapacità neurofisiologica” ad adattarsi con una risposta corretta agli
stimoli frustranti, quando questi si presentino.
Lo studio di soggetti con epilessia ha messo in evidenza una
preponderanza di disturbi aggressivi e dell’umore con un pattern aggressivo
di tipo “impulsivo” nell’epilessia temporale destra, mentre in quella sinistra
sono più frequenti i disturbi del pensiero e valenze aggressive di tipo
“riflessivo”. Si potrebbe pertanto ipotizzare che l’iperattività dell’emisfero
destro costituisca il substrato neurofisiologico sia del vissuto depressivo, sia
del comportamento aggressivo del paziente depresso, forse anche in
ragione dell’aumento dell’effetto frustrante degli stimoli negativi, determinato
dalla loro ipervalutazione da parte dell’emisfero destro iperfunzionante.
Numerosi studi, inoltre, suggeriscono che, a livello cerebrale, specifici
sistemi di arousal, mediati da neurotrasmettitori, potrebbero essere
lateralizzati. La concentrazione di 5-HT, nel cervello dei ratti, è asimmetrica
sia nelle aree mesolimbiche che in quelle mesostriate. L’umore potrebbe
essere quindi riferito alla regolazione asimmetrica della serotonina.
Studi sulle concentrazioni dei metaboliti delle monoamine cerebrali nel
liquido
cefalorachidiano,
correlate
alle
~ 58 ~
misurazioni
elettrofisiologiche
dell’arousal corticale, evidenziano che il tono serotoninergico sarebbe
particolarmente importante nella attivazione dell’emisfero destro. In un
campione misto di pazienti psichiatrici, l’esame del liquor evidenziò che i
livelli di acido 5-idrossindolacetico erano correlati con i potenziali evocati
uditivi registrati dall’emisfero destro, ma non dal sinistro.
Anche la noradrenalina sarebbe lateralizzata. Viste le proiezioni delle vie
noradrenergiche alla corteccia frontale, la possibilità che l’arousal da essa
mediato possa influenzare particolarmente l’emisfero destro sembra essere
rilevante non solo nei risultati dell’ECT, ma anche nella scoperta che il tono
dell’umore nei pazienti con disturbi affettivi è associato alla attivazione della
regione precentrale dell’emisfero destro.
Studi nei topi hanno suggerito che anche i sistemi dopaminergici sono
lateralizzati, ma che la direzione della lateralizzazione varia da individuo a
individuo. Il livello dopaminergico negli uomini sosterrebbe l’attivazione
emisferica sinistra, come risulta dall’osservazione che i livelli di acido
omovanillico nel liquido cefalorachidiano di pazienti psichiatrici sono
correlati con i potenziali evocati uditivi dell’emisfero sinistro, ma non del
destro. Pertanto la lateralizzazione di sistemi neurotrasmettitori ali
notoriamente implicati nella patogenesi dei disturbi affettivi, ma anche delle
condotte aggressive, può portare un contributo alla comprensione della
associazione fra i due fenomeni.
4.1.3. Nessi neurochimici
Dal punto di vista neurochimico, i punti di contatto tra aggressività e
depressione sono molteplici: spesso i sistemi neurotrasmettitoriali chiamati
in causa per i due fenomeni sono gli stessi e la conoscenza dell’uno si
riverbera su quella dell’altro. Nell’uomo, una disfunzione dell’attività 5-HT è
stata spesso riportata nei disturbi dell’umore.
Molti studi condotti con metodiche diverse hanno confermato questa ipotesi:
~ 59 ~
dallo studio delle concentrazioni di 5-HT in diverse aree cerebrali, a quello
dei metaboliti serotoninergici nel liquor, e più recentemente all’impiego di
indici periferici quali l’uptake piastrinico della 5-HT e il binding piastrinico
della imipramina.
D’altra parte l’ipotesi 5-HTergica del comportamento aggressivo è
supportata da studi sugli animali, che hanno dimostrato che la 5-HT
determina una riduzione dell’aggressività indotta nel topo, risultati poi
confermati da studi di manipolazione neurochimica del sistema che
determina diminuzione o aumento dell’attività 5-HT centrale e, di
conseguenza, aumento o diminuzione degli attacchi indotti da shock,
comportamento muricida e comportamento filicida.
Quasi tutti gli studi sull’uomo mostrano una correlazione tra diminuiti livelli di
5-HIAA liquorale e aggressività o irritabilità e ostilità o atti criminali. La
comune base biochimica di depressione e aggressività, rappresentata dal
deficit di 5-HT, è testimoniata tra l’altro dalla letteratura sui rapporti fra
depressione e condotte suicidarie.
Basti qui accennare che, secondo Van Praag e Korf (1971), il
comportamento aggressivo, sia in pazienti che hanno commesso atti
suicidari, sia in pazienti con manifestazioni aggressive eterodirette, non può
essere spiegato con il concomitante stato depressivo; depressione e
aggressività probabilmente si trovano spesso associate in quanto il
meccanismo biochimico che è alla base è lo stesso in entrambi i fenomeni.
Nell’approccio biologico è fondamentale considerare le relazioni fra i vari
sistemi neurotrasmettitoriali. Il deficit di altri sistemi neurotrasmettitoriali,
alterando
il
sistema
neuronale
attivante,
potrebbe
modificare
la
manifestazione dei sintomi di deficit 5-HTergico.
Nei ratti con bassa 5-HT e bassa NA, infatti, c’è assenza di aggressività.
Invece nei ratti maschi, in cui l’isolamento induce comportamento muricida,
si osserva un aumento del turnover della NA, oltre ad una diminuzione di
~ 60 ~
quello della 5-HT.
Questa osservazione potrebbe spiegare la relazione inversa,che è stata
riscontrata in pazienti bipolari, tra risposta della prolattina (PRL) alla
fenfluramina
e
anamnesi
positiva
per
condotte
suicidarie,
senza
manifestazioni di aggressività impulsiva. La ridotta sensibilità postsinaptica
dei recettori B2 NAenergici nei pazienti depressi può tamponare il sistema
comportamentale attivazione-inibizione, smussando gli stimoli, tranne in
periodi di stress, come un episodio depressivo maggiore. Durante questi
episodi, l’individuo può presentare un comportamento aggressivo fino ad
arrivare a condotte suicidarie.
Nei pazienti depressi, soprattutto negli unipolari, è stata descritta una
disregolazione del sistema NA con fluttuazioni del rilascio presinaptico, a
seconda delle quali potrebbe verificarsi o meno l’atto aggressivo. Si
potrebbe anche ipotizzare che, a parità di bassi valori dell’attività
serotoninergica, siano i diversi valori di quella dopaminergica a sostenere
l’estrinsecazione o meno delle condotte aggressive. Comunque, più
genericamente, potrebbe essere la bilancia serotonina-dopamina a svolgere
un ruolo importante nel determinismo del comportamento aggressivo del
depresso, sulla base della correlazione negativa evidenziata fra indici
serotoninergici e indici dopaminergici. Cosicché la presenza e il tipo di
aggressività in un quadro depressivo potrebbe rappresentare un indicatore
clinico dell’assetto biologico a livello neurochimico.
4.1.4. Nessi neuroendocrini
Dal punto di vista neuroendocrino, appare interessante lo studio ormonale,
sia perché riflette l’attività centrale di quei neuromediatori che ne modulano
la secrezione, sia perché svolgono un ruolo importante per l’estrinsecazione
di alcuni comportamenti.
Un ormone, che appare essere chiamato in causa sia nella patologia
~ 61 ~
depressiva che in quella aggressiva, è la prolattina (PRL). La PRL è
regolata in maniera complessa da una varietà di neurotrasmettitori e
neuropeptidi. In particolare la DA e la serotonina (5-HT) giocano un ruolo
importante. Molti studi hanno dimostrato che la DA determina una inibizione
tonica della secrezione della PRL. Studi condotti sull’uomo fanno ipotizzare
un’importante funzione di stimolo della 5-HT sulla secrezione di PRL. La
PRL, quindi, potrebbe essere assunta come indice indiretto dell’attività
DAergica e 5-HTergica.
Gli studi del dosaggio della PRL nella depressione hanno dato risultati
contrastanti. La maggior parte di essi non ha evidenziato differenze fra
pazienti depressi e controlli sani; alcuni Autori riportano valori maggiori nei
depressi bipolari, altri risultati esattamente opposti.
La discrepanza di osservazioni potrebbe dipendere dalle variazioni diurne di
PRL: alcuni Autori hanno riportato un aumento della secrezione nei depressi
soprattutto la sera o la notte, altri in momenti del giorno diversi.
Ma esistono anche studi che hanno testimoniato una variazione del ritmo
circadiano opposta alla precedente, ed altri che non hanno riscontrato
alcuna variazione del pattern diurno. Probabilmente questo dipende anche
dalla sensibilità della PRL allo stress e dunque dalle variazioni che possono
verificarsi durante la procedura sperimentale. La PRL è stata direttamente
coinvolta nel determinismo dell’aggressività: l’iniezione di PRL nell’uomo
produce letargia e irritabilità, così come i sintomi disforici del periodo
premestruale sarebbero dovuti ad alti valori di PRL, come dimostrato dal
miglioramento ottenuto con la somministrazione di bromocriptina (un
agonista energico, che inibisce la secrezione di PRL).
Atti di violenza sono stati riportati più frequentemente durante il periodo
premestruale rispetto alle altre fasi del ciclo. Diversi ricercatori, indagando i
correlati psicologici di donne con iperprolattinemia, hanno visto che queste
risultano
più
ostili,
depresse
ed
~ 62 ~
ansiose
rispetto
a
quelle
normoprolattinemiche. In esse la somministrazione di bromocriptina
determina una diminuzione di queste valenze.
Questi dati sono avvalorati dall’aggressività materna, che si trova in molti
mammiferi nel periodo della lattazione (durante il quale c’è una
iperprolattinemia), attuata per difendere la prole. Molto studiata è stata la
risposta della PRL alla fenfluramina che riflette la risposta netta dell’attività
pre e postsinaptica del sistema 5-HT nell’asse ipotalamo-ipofisario. Infatti, il
rilascio di 5-HT dopo somministrazione i fenfluramina dipende dall’azione
sia presinaptica (rilascio di 5-HT e blocco del reuptake), sia postsinaptica
(attivazione dei recettori postsinaptici dopo rilascio acuto di 5-HT nel vallo
sinaptico).
Alcuni studi indicano una correlazione inversa fra secrezione di PRL e
meta-chlorophenylpiperazina, un agonista dei recettori postsinaptici, dunque
una diminuzione della secrezione PRL potrebbe riflettere una minore
sensibilità dei recettori postsinaptici, anche se non si conoscono i subtipi di
recettori coinvolti. Nei pazienti con disturbi affettivi e/o disturbi di personalità
e nei pazienti con anamnesi positiva per condotte suicidarie, c’è una minore
risposta rispetto ai controlli sani. La correlazione negativa fra aggressività
impulsiva con umore irritabile nei pazienti con disturbo di personalità
borderline, con storia di condotte suicidarie o con abuso di alcool,
suggerisce che la correlazione sia fra attività 5-HTergica e perdita del
controllo
degli
impulsi,
come
indicato
anche
da
una
alterazione
neurotrasmettitoriale simile nella bulimia e nel disturbo ossessivocompulsivo.
4.1.5. Nessi clinici
In
ambito
strettamente
clinico,
l’interesse
per
l’aggressività
nella
depressione è giustificato da diversi motivi:
1. crescente interesse per il sistema serotoninergico (notoriamente implicato
~ 63 ~
sia nella depressione, sia nelle condotte aggressive);
2. recente disponibilità di sostanze ad azione specifica su tale sistema;
3. costante attenzione verso le condotte suicidarie suggestivamente
correlate con quelle aggressive;
4. maggiore sensibilità ai problemi della compliance e della predittività della
risposta al trattamento.
Sul piano clinico si pone una serie di quesiti, importanti non soltanto dal
punto di vista teorico-speculativo, ma anche da quello clinico-pratico.
1. In quale misura il paziente depresso è aggressivo?
2. Qual è il profilo del comportamento aggressivo nella depressione?
3. Quale tipo di aggressività prevale (hostility-in o hostility-out;
overt-
hostility o covert hostility; diretta o indiretta)?
4. Esistono tipi diversi di aggressività nella depressione (in rapporto a
variabili quali diagnosi, età, sesso, ecc.)?
5.
Quale
rapporto
stabilisce
l’aggressività
con
le
componenti
sintomatologiche del quadro depressivo?
6. Nelle fasi di remissione, il comportamento aggressivo rimane
immodificato o si modifica quantitativamente e/o qualitativamente?
7. Quale rapporto esiste fra comportamento aggressivo e risposta al
trattamento antidepressivo?
8. In che modo il trattamento farmacologico modifica il comportamento
aggressivo?
In pazienti affetti da depressione monopolare in trattamento, esaminati in
~ 64 ~
fase acuta di malattia, è possibile rilevare una modesta elevazione
dell’aggressività nel suo complesso rispetto alla norma. I pazienti tendono
ad essere più risentiti, sospettosi, irritabili e affetti da sentimenti di colpa per
il
proprio
comportamento
aggressivo,
con
una
marcata
inibizione
dell’aggressività. Il rapporto fra presenza ed entità della depressione e
valenze aggressive meno espresse sul piano comportamentale, quali
appunto risentimento, sospettosità, irritabilità, oltre che colpa, indicate più
spesso come hostility-in, è stato ampiamente documentato.
La riduzione dell’aggressività verbale riportata in letteratura potrebbe,
invece, non essere sempre presente. Inoltre l’entità dell’aggressività non è
in rapporto lineare con l’entità dello stato depressivo. L’aggressività quindi è
sì più elevata, quando è presente un disturbo depressivo, ma non
proporzionalmente alla sua gravità sintomatologica. Correlati alla gravità
dell’aggressività sarebbero soprattutto il risentimento e la sospettosità
(aggressività inibita).
L’aggressività agita non interagisce con gli aspetti depressivi ed i profili
correlati appaiono essere da una parte risentimento, negativismo, colpa per
il proprio comportamento aggressivo, irritabilità e dall’altra insicurezza,
sensitività, colpa, umore depresso, pensieri di morte, ansia. Durante la fase
di remissione di un episodio depressivo, il comportamento aggressivo tende
a limitarsi sia per quanto riguarda l’aggressività nel suo insieme, sia per
quanto riguarda aspetti caratteristici, quali l’irritabilità, il risentimento,
l’aggressività verbale e la colpa per il proprio comportamento aggressivo.
Tuttavia permane un pattern comportamentale caratterizzato da colpa,
risentimento e sospettosità con scarsa espressione di valenze agite, per
altro simile alla norma. Ne deriverebbe che il pattern aggressivo del
depresso è più uno stato che un tratto. Si potrebbe concludere che la
depressione comporta un maggior livello di aggressività, che però non è
proporzionata alla gravità sintomatologica del quadro clinico (ad indicare
~ 65 ~
che l’aggressività è una componente a sé stante). L’aggressività è
prevalentemente inibita, manifestandosi con atteggiamenti e sentimenti
esprimenti risentimento, sospettosità, talora negativismo, talora anche
irritabilità,
che
sono
legati
all’umore
depresso,
ma
specialmente
all’insicurezza depressiva e in misura minore alle idee suicidarie.
Pertanto la depressione a livello comportamentale si correla con una
attivazione di valenze aggressive le quali:
1. in parte vengono inibite dalla colpa, con aumento delle manifestazioni di
hostility-in, di ostilità coperta, nascosta e proiettata, quale quella del
risentimento e sospettosità;
2. in parte si trasferiscono in una realizzazione comportamentale attraverso
una hostility-out o meglio una overt-hostility, che comunque non è tanto
palesemente diretta verso gli altri, quanto indiretta o reattiva;
3. in parte potranno essere rivolte contro il sé, in condotte autolesive o più
specificamente suicidarie. L’accentuazione dell’aggressività durante la fase
depressiva non appare essere una regola generale.
Possono, infatti, essere considerati tre stereotipi equamente distribuiti come
percentuale. Il primo stereotipo non differisce dalla norma. Il secondo può
essere definito ad “alta aggressività”, il terzo a “bassa aggressività”, in cui
tuttavia gli aspetti dell’aggressività inibita si mantengono elevati, addirittura
più che nella norma.
È quindi evidente che le differenze nella entità dell’aggressività fra pazienti
depressi dipendono soltanto dal diverso grado di inibizione della
hostility-
out: violenza, aggressività indiretta, irritabilità, negativismo e aggressività
verbale sono i comportamenti che presentano il massimo della variabilità.
La hostility-in, rappresentata specialmente dalla coppia risentimentosospettosità, si mantiene invece sempre elevata, insieme alla colpa, ad
~ 66 ~
indicare
che
essa
costituisce
caratteristica
tipica
e
costante
nel
comportamento aggressivo del depresso in fase di malattia. Il ruolo della
depressione nei confronti dell’aggressività sembra quindi essere in ogni
caso quello di incrementare, forse attraverso la colpa, le manifestazioni di
hostility-in, mentre, rispetto alla hostility-out, la depressione svolgerebbe in
taluni un ruolo attivante, in altri un ruolo inibitorio.
Quali sono i fattori che possono essere chiamati in causa nel determinare le
diverse
espressioni
dell’aggressività
del
depresso?
L’inibizione
dell’aggressività espressa non sembra dipendere dalla colpa e neppure
dalla gravità sintomatologica.
Per quanto riguarda infine sesso ed età, sembrerebbe esistere una
prevalenza di soggetti di sesso maschile e di età elevata nel gruppo a bassa
aggressività, ad indicare che queste caratteristiche favorirebbero la
inibizione dell’aggressività espressa. Sostanzialmente tuttavia il grado di
inibizione dell’aggressività espressa, che distingue i tre stereotipi di pazienti
depressi aggressivi, rimane tuttora da chiarire, lasciando intravedere
interessanti ipotesi di ricerca, oltre che su altri piani, ad esempio quello della
personalità, anche sul piano neurochimico. Potrebbe infatti essere
prospettata una diversa partecipazione del sistema serotoninergico nei
depressi con elevata hostility-out, oppure una diversa bilancia tra questo
sistema neurotrasmettitoriale e gli altri implicati nella depressione, con
particolare riferimento a quello dopaminergico. Si potrebbe infatti ipotizzare
che, a parità di bassi valori dell’attività serotoninergica, siano i diversi valori
di quella dopaminergica a sostenere l’estrinsecazione o meno delle
condotte aggressive. Comunque, più genericamente, si potrebbe ipotizzare
che sia la bilancia serotonina-dopamina a svolgere un ruolo importante nel
determinismo del comportamento aggressivo del depresso, come ipotizzato
per il soggetto sano.
Va infine sottolineato che la variabilità del pattern aggressivo è tipica della
~ 67 ~
fase di malattia e che l’effetto è tanto disomogeneizzante, quanto
omogenizzante è quello della fase di remissione.
4.1.6. Nessi farmacoterapeutici
Quale è il ruolo dell’aggressività del depresso nel rapporto col terapeuta?
Quale effetto hanno le terapie antidepressive sull’aggressività? Le
caratteristiche di quest’ultima possono costituire un elemento di conoscenza
per una migliore scelta del trattamento? L’effetto delle sostanze psicotrope
sull’aggressività fornisce elementi per una più completa definizione di
correlati biologici della depressione?, ecc.
Studiando le variazioni dell’aggressività, in rapporto alla remissione della
depressione, in pazienti affetti da depressione maggiore ricorrente, trattati
con antidepressivi triciclici, a dosi comprese tra 75 e 150 mg/die, associati
con basse dosi di benzodiazepine (BDZ) (ipnoinducenti), è stato possibile
evidenziare come queste non siano di direzione univoca. In altre parole, per
alcuni pazienti si verifica un aumento, per altri una riduzione. Inoltre, quanto
più vi è scarsa aggressività, tanto più la variazione è nel senso
dell’aumento, a testimonianza di un incremento dell’aggressività.
Viceversa, si nota prevalentemente una riduzione dell’aggressività per
coloro che mostrano, durante la fase acuta, livelli elevati. Ne risulterebbe,
quindi, che la remissione della sintomatologia depressiva, ottenuta con il
trattamento con antidepressivi triciclici, svolge un ruolo “normalizzatore”
sulle manifestazioni aggressive del soggetto depresso, ora riducendole ora
attivandole, a seconda della loro entità, elevata o modesta, in fase acuta.
Questa tendenza tuttavia sembrerebbe dipendere dal tipo di trattamento
antidepressivo. Infatti nei pazienti trattati con fluoxetina, alla dose singola di
20-40 mg/die, senza altri farmaci né antidepressivi né tranquillanti, è
~ 68 ~
possibile
registrare
una
tendenza
diversa
delle
variazioni
del
comportamento aggressivo; tutto il profilo dell’aggressività si riduce, non si
evidenzia l’opposta direzione della variazione dell’aggressività a seconda
del valore iniziale, vi è un rapporto lineare fra miglioramento del grado
depressivo e variazione dell’aggressività. Sembrerebbe pertanto che il
trattamento con un farmaco ad azione elettiva sul sistema serotoninergico
avesse un effetto più costante sull’aggressività del depresso nel senso della
sua
riduzione,
a
conferma
delle
implicazioni
di
questo
sistema
neurotrasmettitoriale nel determinismo dei comportamenti aggressivi e nello
stesso tempo a convalida della spiccata e specifica azione serotoninergica
della sostanza.
Rimane da chiarire come mai in alcune persone l’insorgenza dello stato
depressivo riduce ed in altre aumenta i comportamenti aggressivi. Chi sono
gli uni, chi sono gli altri? Quale è la rispettiva caratterizzazione
neurochimica? Si differenziano nella risposta al trattamento? I due modelli
possono assumere valore predittivo, così da guidare la scelta del farmaco?
Lo studio dell’aggressività può dare informazioni predittive della risposta al
trattamento. In pazienti fibromialgici, trattati con maproptilina, gli indici di
aggressività sono in grado di predire non solo il miglioramento del sintomo
dolore, ma anche dei parametri psicopatologici, fra i quali sono fortemente
rappresentati i sintomi di ansia libera e di somatizzazione, che spesso
accompagnano la depressione. Questo risultato (al di là del suo significato
specifico relativo al rapporto fra aggressività, dolore, depressione e ansietà
che caratterizzano i pazienti affetti da fibromialgia) pone il quesito di quanto
le relazioni trovate fra aggressività e depressione siano inerenti al nucleo
depressivo, o non piuttosto alle componenti ansiose, ed invitano ad
estendere lo studio dell’aggressività anche ai disturbi d’ansia. L’aggressività
è stata riportata anche come fattore predittivo di risposta favorevole al
trattamento con amitriptilina. Questa risposta sarebbe dovuta alle
modificazioni del sistema serotoninergico.
~ 69 ~
~ 70 ~
4.2. IN SINTESI
Vi sono quindi numerosi motivi di interesse per lo studio del comportamento
aggressivo nell’ambito dei disturbi depressivi:
1. disporre di un indice psicobiologico dei sistemi neurotrasmettitori ali
maggiormente implicati, dato che l’aggressività, forse più di altri aspetti
psicologici e psicopatologici, è espressione dei substrati biologici;
2. conseguentemente sviluppare una tipologia dei disturbi depressivi, che
tenga conto anche di questa manifestazione psicopatologica, che potrebbe
rivelare una significatività quanto meno pari a quella di altri aspetti più
tradizionalmente considerati, come ad esempio l’ansia;
3. utilizzare l’entità e il tipo di comportamento aggressivo del depresso
come predittore della compliance; infatti il numero di drop-out nei nostri
studi è maggiore nel gruppo ad alta aggressività e sono i depressi con
elevata aggressività che tendono a non ammettere il miglioramento della
sintomatologia depressiva, determinando una discrepanza fra auto ed
eterovalutazione;
4. individuare nell’aggressività un criterio, estrinseco al quadro depressivo in
senso stretto, da utilizzare per indicazioni più mirate dei diversi trattamenti
antidepressivi e per una predizione della risposta terapeutica.
Alla luce di quanto esposto, la problematica dei rapporti fra aggressività e
depressione appare riportabile a tre modalità fondamentali. In un primo
modello, sostenuto dalle teorie psicodinamiche, l’aggressività precederebbe
~ 71 ~
la depressione e sarebbe la sua rimozione e repressione che, attraverso il
rivolgimento contro il sé, determinerebbe il vissuto depressivo.
In un secondo modello, coerente con la concezione behavioristica e con i
dati neurofisiologici relativi alla lateralizzazione emisferica, la depressione
precederebbe invece l’aggressività, determinando il suo incremento
mediante una riduzione della soglia alla frustrazione, alla quale seguirebbe
un’accentuazione delle valenze aggressive ed eventualmente delle relative
risposte comportamentali.
D’altra parte il non costante aumento dell’aggressività nella depressione, e
l’assenza di un rapporto lineare fra entità della sintomatologia depressiva ed
entità delle valenze aggressive, dà sostegno ad un terzo modello per il
quale fra i due fenomeni non esisterebbe un rapporto di interdipendenza,
ma essi coesisterebbero, perché sostenuti da un medesimo substrato.
Quest’ultimo si tradurrebbe, sul piano dell’umore, nella fenomenica
depressiva e, sul piano del controllo degli impulsi, in una riduzione del
controllo inibitorio, che determinerebbe il passaggio all’azione di pulsioni
distruttive, auto o eterodirette.
Mentre il primo dei tre modelli, quello di ispirazione psicodinamica, appare
più difficilmente conciliabile con gli altri e meno coerente con i dati
sperimentali, i restanti due sembrano poter coesistere e accordarsi con i
risultati della ricerca di ordine biologico, in particolare di quelli relativi al
ruolo del sistema serotoninergico. Questo sistema neurotrasmettitoriale,
forse in ragione della sua complessa organizzazione recettoriale in
sottopopolazioni assai articolate, svolge molteplici funzioni, più o meno
indipendenti fra loro, alcune delle quali si correlano con altrettanti aspetti
comportamentali, in particolare, fra gli altri, il tono dell’umore, il controllo
degli impulsi, la valutazione degli stimoli ambientali. Inoltre, differenziate
sarebbero anche le strutture anatomiche serotoninergiche correlate ai
diversi comportamenti. Infatti della regolazione dell’umore, e quindi della
~ 72 ~
depressione, sarebbero maggiormente responsabili le proiezioni dei nuclei
del rafe al lobo limbico mediante il fascicolo dorsale, mentre del controllo
degli impulsi, e quindi dell’aggressività, quelle dirette all’ippocampo
attraverso il fascicolo mediale. Pertanto il sistema serotoninergico, in quanto
implicato nella regolazione del tono affettivo, sarebbe chiamato in causa nel
determinismo dell’umore depressivo: sarebbe la riduzione della sua attività
basale nei disturbi depressivi, testimoniata dalla diminuzione della
concentrazione di neuromediatore nei tessuti cerebrali, dei valori dei
metaboliti nel liquor, dei siti di legame a livello presinaptico, a tradursi sul
piano comportamentale nel disturbo dell’umore.
Le stesse modificazioni del sistema serotoninergico, nel senso della
riduzione della attività basale, potrebbero essere alla base di un altro
aspetto comportamentale, quello relativo alle condotte suicidarie, ma in
questo caso a causa del ruolo del sistema serotoninergico, non più nella
regolazione dell’umore, ma in quella del controllo degli impulsi. Per
l’ipofunzione serotoninergica le valenze auto lesive sarebbero liberate dal
controllo inibitorio e passerebbero all’azione, specialmente a quella
realizzata con modalità violente.
Infine, lo stesso sistema neurotrasmettitoriale, in quanto coinvolto nella
regolazione della valutazione degli stimoli negativi e della risposta
comportamentale agli stessi, giustificherebbe la riduzione della soglia alla
frustrazione e quindi l’aumento delle valenze aggressive. Per quest’ultimo
aspetto, tuttavia, sarebbe da chiamare in causa l’aumento dei recettori
5-
HT2 postsinaptici, che si determina con un meccanismo di up-regulation a
causa della diminuita concentrazione intrasinaptica di neuromediatore.
Questo
meccanismo
renderebbe
quindi
il
sistema,
ipofunzionante
basalmente, ipersensitivo agli stimoli specifici.
Esistono, tuttavia, dati controversi: esplorando l’ipersensibilità dei recettori
serotoninergici e aggressività umana, non sono state riportate variazioni
~ 73 ~
dell’aggressività dopo somministrazione di un agonista dei recettori 5-HT
postsinaptici, né un maggiore rilascio di cortisolo o prolattina nei pazienti
con segni di aggressività diretta o storia di tentativi di suicidio rispetto ai
controlli sani. Poiché il sistema serotoninergico sarebbe lateralizzato a
destra, le modificazioni sopra riportate giustificherebbero l’iperfunzione
dell’emisfero destro nella risposta agli stimoli riscontrate nella depressione.
Cosicché, essendo questo emisfero responsabile della valutazione degli
stimoli negativi, la sua iperfunzione condizionerebbe la ipersensibilità a tali
eventi e un aumento delle risposte comportamentali rappresentato dalle
condotte aggressive. I tre settori funzionali sarebbero in parte indipendenti
fra loro. Pertanto, la compromissione prevalente di uno sugli altri
spiegherebbe le differenze fra pazienti, tutti depressi, ma alcuni con
condotte suicidarie ed altri no, alcuni con aumento delle valenze e delle
condotte aggressive ed altri no.
Naturalmente nel determinare le differenze cliniche e comportamentali
svolgerebbero un ruolo fondamentale anche le modificazioni degli altri
sistemi
neurotrasmettitoriali,
aggressività-depressione
i
rapporti
necessita
di
dei
quali
ulteriore
con
la
dinamica
approfondimento.
Certamente si delinea un quadro psicobiologico assai complesso del quale
tuttavia iniziano a definirsi alcuni elementi significativi, che lasciano
intravedere
l’importanza
tutt’altro
che
trascurabile
dello
studio
dell’aggressività per la migliore conoscenza della depressione, delle sue
basi biologiche, della sua classificazione clinica, della sua prognosi e del
suo trattamento.
~ 74 ~
CAPITOLO 5: AGGRESSIVITÀ E CONDOTTE SUICIDARIE
La letteratura sui rapporti fra aggressività e suicidio, sia a livello biologico
sia a livello clinico, riconosce una correlazione positiva fra aggressività e
suicidio, tanto da dare credito all’ipotesi che etero ed autoaggressività siano
correlate fra loro. Tuttavia, i rapporti fra aggressività e suicidio, nonostante i
contributi della letteratura, sia sul piano clinico e psicopatologico che su
quello biologico, rimangano scarsamente definiti e indagati soprattutto in
rapporto
alla
patologia
depressiva.
Essi
vengono
sostenuti
prevalentementea due livelli: quello prettamente interpretativo-teorico
dell’ottica psicoanalitica e quello sperimentale.
5.1.IPOTESI INTERPRETATIVE
Per l’ottica psicoanalitica il suicidio rappresenta quasi sempre un omicidio
mancato, nel quale l’Io rivolgerebbe contro di sé l’aggressività diretta
primariamente verso oggetti del mondo esterno. Le condotte suicidarie
rappresenterebbero, quindi, un rivolgimento contro il sé delle valenze
aggressive del soggetto.
Secondo Freud “[…] sappiamo da molto tempo, è vero, che nessun
nevrotico nutre pensieri di suicidio che non derivino da impulsi omicidi verso
gli altri che egli ha rivolto verso se stesso, ma non siamo mai stati in grado
di spiegare quale insieme di fattori conduca all’attuazione di tali
propositi[…]“.
Cesare Lombroso (1984) e Enrico Morselli (1985), prima di Freud, ed Karl
Abraham (Uomo delinquente, 1876) dopo di lui, avevano sottolineato i
~ 75 ~
legami tra aggressività, depressione e suicidio. In tempi più recenti, questi
legami sono stati nuovamente focalizzati dalla scuola antropologico criminale di Genova secondo la quale “[…] il suicidio rappresenta una
manifestazione
di
appagamento
dell’aggressività
che
può
essere
inizialmente rivolta verso altri […]”.
Al livello sperimentale, invece, i rapporti fra aggressività e suicidio, dato che
non esistono studi diretti espressamente ad indagarli, sono prospettati
soltanto in via indiretta e scaturiscono dall’osservazione che una
diminuzione dell’attività serotoninergica si ritrova sia nel comportamento
aggressivo che in quello suicidario. Il deficit di 5-HT è stato evidenziato in
diverse aree cerebrali di suicidi.
Studi più approfonditi sui recettori pre e postsinaptici hanno riportato una
diminuzione della funzione 5-HT presinaptica in vittime suicide, dati non
confermati in altri studi. I recettori postsinaptici, invece, sono aumentati nella
corteccia frontale di suicidi. È riportata una diminuzione dei livelli di 5-HIAA
liquorale nella maggior parte di studi clinici di pazienti che hanno compiuto
un tentativo di suicidio.
I dati della letteratura suggeriscono che la vulnerabilità agli atti suicidari
correla con una ridotta attività presinaptica 5-HTergica e che esiste una
correlazione fra suicidio e comportamento aggressivo. Sembrerebbe
tuttavia che la ipofunzione 5-HT, dimostrata dalla diminuzione di 5-HIAA, sia
inversamente correlata non tanto all’aggressività basale, quanto alla soglia
della risposta aggressiva agli stimoli esterni. Infatti l’aggressività indotta
dall’isolamento, nell’animale, che correla inversamente con l’attività 5-HT
centrale, sarebbe rappresentata da una minore soglia della risposta
aggressiva agli stimoli esterni, e non dal comportamento aggressivo
spontaneo.
Anche la biochimica sembra suggerire quindi l’esistenza di un legame tra i
comportamenti auto ed eteroaggressivi, visto che i risultati di molte ricerche
~ 76 ~
relative al comportamento aggressivo negli animali ed al comportamento
aggressivo e suicidario nell’uomo sembrano indicare nella disregolazione
del sistema serotoninergico la base biochimica comune dell’etero ed
autoaggressività: la riduzione dell’attività di tale sistema, con prevalenza
relativa di altri sistemi neurotrasmettitoriali, sarebbe responsabile di una
particolare vulnerabilità a sviluppare comportamenti aggressivi che potranno
attualizzarsi indifferentemente verso se stessi o verso gli altri.
La presenza di un’eventuale base biologica comune ai due fenomeni non
permette però, di stabilire l’esistenza di un rapporto diretto fra essi. La
riduzione dell’attività serotoninergica potrebbe essere infatti condizione
indispensabile, ma non essere sufficiente, dato che non si può escludere
che ciascuno dei due possa essere sotto il controllo anche di altre variabili
più specifiche.
5.2. STUDI PSICOBIOLOGICI E CLINICI
Anche
se
sono
state
abbastanza
approfonditamente
indagate
le
problematiche relative al suicidio, come sono state definite le caratteristiche
del comportamento aggressivo del depresso, poco esplorati risultano questi
due aspetti, aggressività e suicidio, nei loro rapporti reciproci. Rimane infatti:
1. da confermare l’esistenza di un rapporto fra aggressività e suicidio;
2. in caso affermativo, da stabilire l’eventuale specificità del comportamento
aggressivo correlato alle condotte suicidarie rispetto a quello di altre
situazioni psicopatologiche e in particolare della depressione
3. da accertare a quale tipo di aggressività il suicidio sia collegato;
4. da valutare se esiste un rapporto fra modalità di attuazione di tentativo
suicidiario e condotte aggressive;
5. da individuare il ruolo dei fattori biologici, quale eventuale trait d’union fra
~ 77 ~
aggressività e spinte suicidarie (se a livello biologico aggressività e condotte
suicidarie correlano con il medesimo substrato).
Il profilo di aggressività in soggetti che hanno tentato il suicidio si
caratterizza per una elevazione rispetto alla norma; particolarmente elevate
appaiono le componenti relative all’inibizione dell’aggressività quali il
risentimento, la sospettosità e la colpa per il proprio comportamento
aggressivo. Tale profilo si distingue nettamente da quello dei controlli sani. I
soggetti con tentativi suicidari sono, dunque, caratterizzati da un incremento
delle valenze aggressive che in buona parte vengono inibite e si traducono
in atteggiamenti indicativi della rimozione dell’aggressività, in parte vengono
represse e si manifestano sotto forma di irritabilità. In questi soggetti
aumenterebbero anche le manifestazioni di aggressività espressa sia in
maniera diretta sia in maniera indiretta.
Tuttavia il profilo di aggressività dei pazienti depressi si sovrappone
pressoché totalmente con quello dei tentati suicidi (TS). Tale analogia
sembra essere indipendente dalla elevata percentuale di pazienti depressi
nell’ambito dei TS. Infatti, il confronto all’interno dei TS fra il profilo di
aggressività dei depressi e dei soggetti con altre diagnosi non evidenzia
differenze significative. L’aggressività indiretta è, generalmente, più elevata
nei TS rispetto sia ai controlli sani, sia ai depressi.
Questa stessa differenza emerge anche dal confronto fra gruppo dei
depressi (senza TS) e sottogruppo dei TS con diagnosi di depressione.
Pertanto, la caratterizzazione dell’aggressività nei TS sarebbe di ordine non
quantitativo ma qualitativo. Nei TS, alle forme di aggressività rimossa o
repressa tipiche del depresso, si aggiungerebbe una forma di aggressività
comportamentalmente espressa, estrinsecata in condotte dimostrative delle
valenze aggressive, le quali tuttavia non giungono a colpire l’altro, ma
mirano a ferirlo in maniera indiretta.
Questa osservazione appare sufficientemente coerente nei tentativi
~ 78 ~
suicidari (e non nei suicidi veri e propri), i quali in ragione della
contemporanea
presenza
di
rilevanti
comportamenti
espressivi
di
aggressività indiretta, potrebbero essere interpretati anch’essi come una
condotta aggressiva che mira a colpire l’altro in maniera appunto indiretta e
quindi dimostrativa. In effetti è noto come gran parte dei TS possono
rappresentare, più che dei mancati suicidi, dei gesti compiuti con finalità
dimostrative. In accordo con questa ipotesi stanno i dati della letteratura
relativi per cui nell’ambito dei quadri depressivi l’aggressività espressa
sarebbe prevalente nei depressi con tratti isteroidi di personalità, nei quali
appunto è più probabile un TS con valenze dimostrative.
In termini generali, potremmo ipotizzare che la condotta suicidaria,
qualsivoglia sia la sua modalità attuativa, riconosca sempre una valenza
aggressiva rivolta verso gli altri, anche se l’atto non assume una palese
finalità dimostrativa o ricattatoria. Il valore predittivo dell’aggressività,
soprattutto quella indiretta, nei confronti delle condotte suicidarie era già
stato sottolineato dalla letteratura. Parametri bioumorali, come il binding per
l’imipramina triziata, risulta nei suicidi significativamente inferiore a quello
dei soggetti sani, confermando la riduzione dell’attività 5-HT di soggetti con
valenze autolesive. Anche i depressi peraltro fanno registrare un binding
significativamente inferiore ai normali. La bassa attività 5-HT dei TS
potrebbe essere pertanto in rapporto all’elevata percentuale di disturbi
depressivi in questi soggetti. Tale ipotesi tuttavia non risulta sostenibile, in
quanto il confronto fra valore medio di Bmax dei TS depressi non differisce
significativamente da quello dei TS con altre diagnosi.
Sembrerebbe quindi che la ridotta attività 5-HT sia in rapporto diretto con le
condotte suicidarie, e non mediata dal disturbo dell’umore. Gli aspetti
dell’aggressività, che risultano più correlabili con indice di attività
serotoninergica come il binding della 3H-IMI (imipramina MA0 inibitore),
sono
rappresentati
dall’aggressività
indiretta,
dall’irritabilità
e
dalla
sospettosità, nel senso che queste manifestazioni si fanno tanto più evidenti
~ 79 ~
quanto più è ridotto il tono 5-HTergico. Il dato biologico fornirebbe quindi
una coerente organizzazione dei dati comportamentali, nel senso che
coagulerebbe modalità parzialmente espresse dell’aggressività, e non
quelle apertamente manifestate o viceversa più ampiamente rimosse.
Nell’ambito di una generale riduzione dell’attività 5-HT, sarebbero queste ad
essere particolarmente presenti quando tale attività si riduce a valori più
bassi, mentre a valori relativamente meno bassi corrisponderebbero
espressioni più dirette dell’aggressività.
Infine, solo nei TS il rapporto fra comportamento aggressivo nel suo
complesso
e
attività
serotoninergica
risulterebbe
statisticamente
significativo, mentre sia nei sani che nei depressi, nonostante che in questi
ultimi si registri vuoi l’aumento delle valenze aggressive vuoi la riduzione
dell’attività 5-HTergica, non viene raggiunta la significatività. L’esistenza di
una relazione lineare fra aggressività e 5-HT soltanto nei TS, sembrerebbe
indicare
come
specificamente
l’aggressività
rappresentata
riconosca
da
una
quella
riduzione
matrice
biologica,
dell’attività
5-HT,
elettivamente nei soggetti che mettono in atto TS.
Tuttavia non sarebbe il fenomeno aggressività di per sé ad essere in
rapporto con il sistema 5-HT, in quanto l’aggressività è presente anche nel
campione dei depressi, nei quali l’attività 5-HT è sì ridotta, ma senza un
rapporto lineare con il comportamento aggressivo. Sarebbe quindi soltanto il
tipo di aggressività che si trova nei TS ad essere in relazione con la
disfunzione 5-HTergica. Poiché anche per il suicidio è stata suggerita una
compromissione 5-HT, sembrerebbe verosimile che sia l’aggressività sia le
valenze suicidarie discendessero dalla stessa modificazione dell’assetto
psicobiologico. Tale modificazione è stata ipotizzata in un generico disturbo
del controllo degli impulsi, che porterebbe ad un discontrollo delle pulsioni
aggressive eterodirette e contemporaneamente di quelle autolesive. Infatti,
in soggetti affetti da depressione maggiore, coloro che esprimono in
autovalutazione soltanto desideri di morte mostrano un’aggressività
~ 80 ~
sostanzialmente normale, mentre coloro che esternano propositi autolesivi o
addirittura hanno messo in atto tentativi mostrano una maggiore
aggressività. Aggressività e valenze suicidarie sarebbero quindi dimensioni
indipendenti, ancorché fortemente correlate fra loro, perché sarebbero
regolate da una stessa dimensione, l’impulsività. Soltanto quest’ultima
sarebbe sostenuta dall’abbassamento dell’attività 5-HT, che, da un lato,
renderebbe evidente sul piano comportamentale le valenze aggressive
ancorché in forma indiretta o represse, quali sono quelle che caratterizzano
il paziente depresso, dall’altro, attiverebbe e tradurrebbe in azione desideri
di morte, peraltro sostenuti dalla coartazione affettiva che caratterizza la
depressione, ma che può ritrovarsi anche in ambiti nosografici diversi.
Tuttavia alcune osservazioni suggeriscono una interpretazione alternativa.
Infatti,
mentre
la
depressione
comporta
di
per
sé
un
aumento
dell’aggressività tanto che il profilo di aggressività dei soggetti depressi non
si discosta sostanzialmente da quello dei TS, non tutti i depressi mettono in
atto tentativi suicidari ad indicare che aggressività e condotte suicidarie non
vanno di pari passo. L’indice “binding” è ridotto sia nei TS che nei pazienti
depressi, tuttavia nei primi a livelli significativamente più bassi rispetto ai
secondi.
Sembrerebbe quindi che, ai diversi livelli della riduzione dell’attività 5-HT,
corrispondessero comportamenti diversi anche se riportabili tutti ad una
dimensione unitaria. Si potrebbe infatti ipotizzare che il sistema 5-HT
tenesse sotto controllo valenze istintuali distruttive, cosicché ad una sua
riduzione corrisponderebbe una irruzione sul piano comportamentale di tali
valenze. A livelli di riduzione più modesta, le valenze distruttive si
manifesterebbero
conservandosi
nei confronti degli altri, sotto forma di aggressività,
invece
l’istinto
di
autoconservazione.
A
livelli
di
compromissione più elevata, gli istinti distruttivi conserverebbero le
estrinsecazioni eterodirette, ma arriverebbero a coinvolgere anche la
distruzione del sé. Non si tratterebbe pertanto nel suicidio di un rivolgimento
~ 81 ~
contro il sé di valenze aggressive, quanto piuttosto di un maggior grado di
compromissione di un sistema psicobiologico, che governerebbe la
conservazione del sé e degli altri. Analogamente, non si tratterebbe
neppure di un generico discontrollo degli impulsi, al quale dovrebbe seguire
la perdita del controllo sia sulle valenze etero aggressive sia su quelle
autoaggressive.
Si
tratterebbe
piuttosto
di
un
fenomeno,
quello
dell’aggressività, che crescerebbe entro una certa misura in intensità, al di
là della quale allargherebbe il raggio di azione fino a coinvolgere la propria
persona.
Tuttavia,
sia
i
tentativi
violenti
che
quelli
non
violenti
corrisponderebbero a bassi valori dell’attività 5-HT, più bassi comunque di
quelli riscontrati nei depressi senza TS, anche se con la differenza sopra
accennata fra violenti e non violenti. Il suicidio violento sembrerebbe quindi
rappresentare l’espressione massima della dimensione psicobiologica
ipotizzata, nella quale non soltanto viene compromesso l’istinto di
autoconservazione, ma l’atto auto lesivo viene compiuto in maniera
particolarmente autoaggressiva.
In sintesi, pertanto, i rilievi clinici e quelli biologici emersi sembrano porre
condotte aggressive eterodirette e auto dirette sulla stessa dimensione, in
cui le seconde sarebbero l’evoluzione, nel senso dell’accentuazione, delle
prime. Non si tratterebbe pertanto di una diversa espressione, auto ed
eterodiretta, della stessa carica aggressiva, quanto piuttosto di entità
diverse della pulsione aggressiva. La distruttività umana, abitualmente
controllata da sistemi psicobiologici, in particolare sostenuti dall’attività
serotoninergica, quando si attiva o si disinibisce, si realizza prioritariamente
con
comportamenti
aggressivi
eterodiretti.
Ad
una
maggiore
compromissione del sistema psicobiologico di controllo seguirebbe non
tanto un ulteriore incremento dell’attacco diretto verso l’altro, quanto un
aumento nel senso dell’estensione della valenza aggressiva, che verrebbe
a coinvolgere anche il proprio sé. Il suicidio acquisterebbe quindi il
significato di atto supremo nella gamma di comportamenti aggressivi,
espressione massima della distruttività umana, che nei suoi quadri estremi
~ 82 ~
si estende all’annullamento della propria vita e con essa del mondo intero,
come espressione di un attacco pur sempre rivolto verso gli altri, anche se
in maniera indiretta.
I rapporti fra aggressività e condotte suicidarie sono stati studiati soprattutto
in rapporto alla patologia depressiva, dato l’alto rischio suicidario connesso
con questa patologia. Una maggiore aggressività distinguerebbe i soggetti
con tendenze suicidarie da quelli senza, anche nell’ambito dei depressi, con
particolare
riferimento
alla
outwarded
hostility,
così
da
suggerire
l’aggressività indiretta come predittore dei tentativi di suicidio migliore
rispetto al grado di depressione.
Volendo esaminare i rapporti fra aggressività e suicidio dal punto di vista
esclusivamente clinico psicopatologico, limitando il campo di indagine agli
stati depressivi, si potrebbe considerare l’espressione delle diverse modalità
di distacco dalla vita come una dimensione unitaria che si svolge dai
semplici desideri di morte, ai propositi suicidari, ai tentativi di suicidio fino al
compimento dell’atto stesso. La dimensione distacco dalla vita con desideri
di morte può essere sintomo del vissuto depressivo e non indicare un reale
rischio di passaggio all’atto.
Nei propositi di suicidio l’azione autolesiva viene concepita esclusivamente
a livello ideativo, nel tentativo di suicidio viene attuato un comportamento
connesso al proposito, ma che non si realizza nella perdita della vita come
si realizza invece nel suicidio vero e proprio. Risulta evidente pertanto che
questi differenti comportamenti autolesivi si snodano lungo una dimensione
che
riguarda
la
compiutezza
dell’azione:
dal desiderio
di morte,
nell’assenza di una qualsiasi azione, all’azione pensata, all’azione
inefficace, fino all’azione perfettamente compiuta.
Dati i verosimili rapporti fra azione e aggressività, possiamo chiederci quale
tipo di rapporto l’aggressività stabilisca con le diverse modalità di
espressione del distacco dalla vita. Infatti tale rapporto potrebbe essere di
~ 83 ~
tipo lineare, per cui allo svilupparsi del passaggio all’azione corrisponde un
aumento delle valenze aggressive, un rapporto quindi di ordine quantitativo.
Oppure, alle diverse modalità autodistruttive potrebbe corrispondere una
inversione della direzione dell’aggressività, dall’aggressività diretta verso
l’esterno a quella rivolta verso il sé. Oppure, infine, le diverse modalità di
distacco dalla vita potrebbero essere sottese da un diverso tipo di
comportamento aggressivo, con differenze di ordine qualitativo.
Naturalmente gli studi clinici non permettono la valutazione del paziente
suicida, per il quale gli unici dati disponibili sono quelli condotti in studi
biologici
post-mortem
sulle
possibili
alterazioni
neurotrasmettitoriali.
Pertanto, sul piano strettamente clinico, i rapporti tra aggressività e valenze
suicidarie possono essere esplorati soltanto nell’ambito dei desideri di
morte, dei propositi e dei tentativi di suicidio, sebbene debba essere
segnalato come alcuni comportamenti suicidari che non portano a morte
possono essere dei veri e propri suicidi mancati, più che tentativi di suicidio
in senso tradizionale. D’altra parte la mancanza di criteri validi per la
valutazione clinica delle reali intenzioni del soggetto rende problematica la
valutazione del comportamento suicidario, essendo una valutazione più di
ordine soggettivo che oggettivo.
Studiando i rapporti fra aggressività e suicidio limitatamente alla
depressione, il profilo di aggressività dei pazienti depressi non si discosta
sostanzialmente dalla norma, se non per i più elevati valori di sospettosità e
colpa per il proprio comportamento aggressivo. Anche dal punto di vista
qualitativo non emergono rapporti fra entità della sintomatologia depressiva
e varie modalità espressive del comportamento aggressivo.
Confrontando fra loro soggetti che non hanno espresso desideri di morte,
che hanno dichiarato desideri di morte, ma non propositi o tentativi di
suicidio e pazienti che manifestano valenze suicidarie, è possibile
evidenziare che la dimensione che va dal desiderio di morte ai propositi
~ 84 ~
autolesivi ed ai tentativi di suicidio stabilisce un rapporto lineare soltanto con
la colpa, e non con i fattori che esplorano più propriamente l’aggressività.
Infatti, se pazienti con propositi e tentativi suicidari sembrano avere
maggiore aggressività rispetto agli altri pazienti, non altrettanto succede per
chi manifesta desideri di morte rispetto a chi questi desideri non esprime,
anzi chi ha desideri di morte sembrerebbe avere minore aggressività di
coloro nei quali l’attaccamento alla vita è conservato. Pertanto, si potrebbe
ipotizzare che la comparsa di desideri di morte si rapporti ad una
diminuzione dei comportamenti aggressivi nel loro complesso, mentre
propositi e tentativi di suicidio si correlano con una elevazione delle cariche
aggressive. I soggetti con desideri di morte sarebbero quindi più passivi,
meno inclini all’azione, mentre coloro che progettano il suicidio sarebbero
quelli con maggiori cariche aggressive, oppure quelli con distacco dalla vita,
nei quali si verifica un viraggio del comportamento verso l’aggressività. Vi
sarebbe anche una relazione fra comportamento aggressivo nel suo
complesso e pulsioni suicidarie, nel senso che queste sarebbero presenti in
coloro che manifestano maggiore aggressività, specialmente nelle sue
forme inibite.
I profili di aggressività nella depressione, complicata da TS, possono essere
ricondotti a quattro modelli: un profilo basso, un profilo medio, un profilo
elevato e, infine, un’aggressività alta, ma caratterizzata prevalentemente
dalle forme inibite e represse (risentimento e sospettosità).
La distribuzione dei soggetti in quattro gruppi, a seconda delle diverse
forme di valenze suicidarie, indica che i depressi che conservano
l’attaccamento alla vita possono avere tutti i quattro tipi di aggressività;
quelli con desideri di morte più spesso hanno un profilo di bassa
aggressività; quelli con valenze suicidarie espresse (propositi e tentativi)
sono caratterizzati da un deciso spostamento verso l’aggressività elevata.
Infatti, nessuno dei pazienti con propositi o tentativi compare nel gruppo con
aggressività bassa, mentre la grande maggioranza si ritrova nei gruppi ad
~ 85 ~
aggressività alta o rimossa. In sintesi, quindi, mentre non tutti i depressi con
aggressività elevata esprimono propositi o mettono in atto tentativi di
suicidio, certamente quelli con bassa aggressività non lo fanno. Un’alta
aggressività non predirrebbe, dunque, di per sé l’attuazione di tentativi di
suicidio, in quanto molti sono i depressi con elevata aggressività che non
dichiarano né propositi né tentativi di suicidio. Invece, una bassa
aggressività sembrerebbe rendere molto improbabile l’esistenza di tale tipo
di condotta. L’aggressività quindi si porrebbe come condizione necessaria,
ma non sufficiente per gli intenti suicidari.
Su un piano quantitativo è interessante sottolineare la linea di tendenza
verso una relazione fra bassa aggressività e desideri di morte.
Effettivamente il depresso che esprime tali desideri appare porsi nei
confronti della auspicata perdita della vita in maniera passiva, che ben si
correla ad una diminuzione delle cariche aggressive. Questo concorda, sul
piano clinico, con le parole con le quali il paziente depresso talvolta si
esprime: “vorrei essere morto”, “vorrei addormentarmi e non svegliarmi più”,
oppure “vorrei che qualcuno mi uccidesse”, con le quali si evidenzia il ruolo
passivo del soggetto di fronte alla morte, invocata sì, ma senza che egli
assuma un ruolo attivo nel ricercarla, come se venisse a mancare la spinta
aggressiva necessaria per il passaggio all’azione. Il passaggio all’azione
potrebbe essere legato ad un viraggio dell’aggressività, che da bassa
diviene più elevata. Si potrebbe spiegare così anche il riscontro della
maggior frequenza di tentativi di suicidio in corrispondenza di una certa fase
del trattamento antidepressivo, attribuita tradizionalmente ad una generica
disinibizione sul piano motorio operata dal farmaco, che in realtà potrebbe
essere interpretata come viraggio delle valenze aggressive.
Certamente non si può non riconoscere, nel determinismo delle valenze
suicidarie, il ruolo dei sentimenti di colpa, cosicché le varie espressioni
fenomeniche e comportamentali delle valenze suicidarie sarebbero il
risultato dell’interazione tra sentimenti di colpa e cariche aggressive.
~ 86 ~
Cariche aggressive che rivestono un significato non soltanto per aspetti
meramente quantitativi, ma anche qualitativi. Infatti, il distacco dalla vita si
traspone più spesso in condotte autolesive quanto più concomita un’elevata
aggressività, ma specialmente quando questa è inibita o rimossa,
traducendosi in atteggiamenti di risentimento e sospettosità.
~ 87 ~
~ 88 ~
CAPITOLO 6: AGGRESSIVITÀ E VIOLENZA
Il concetto di pericolosità, fortemente correlato alle condotte aggressive, con
la legge 180 è uscito dalle motivazioni dell’intervento psichiatrico urgente; in
particolare per il ricovero in regime di TSO, la legge ha privilegiato
giustamente
la
più
generica
necessità
di
intervento
terapeutico,
sottolineando nello stesso tempo la natura patologica dell’alterazione
psichica e quella medica del relativo intervento. Tuttavia, di fatto, buona
parte dei TSO sottintende, anche se non esplicitamente, la pericolosità del
comportamento, tanto che l’attività degli SPDC, ove la degenza in TSO è
spesso limitata a brevi periodi, assume più spesso di nuovo i caratteri della
custodia, piuttosto che della cura, poiché è difficile pensare che in pochi
giorni cessi la necessità di interventi terapeutici urgenti, mentre è più
probabile che gli interventi attuati si limitino ad arginare il comportamento
aggressivo e, quindi, la pericolosità.
6.1. VIOLENZA E PSICOPATOLOGIA
L’aggressività, in quanto condotta apertamente diretta contro gli altri sotto
forma di comportamenti violenti, si manifesta in molti disturbi psichiatrici, nei
quali appare come sintomo all’interno di una più ampia costellazione
psicopatologica. Pazienti schizofrenici, bipolari, dementi, alcolisti, epilettici,
cerebrolesi, con abuso di sostanze, con disturbi della condotta alimentare,
ecc., possono con elevata frequenza esternare un comportamento violento
che pone non pochi problemi gestionali.
In alcuni disturbi poi l’aggressività sembra occupare una posizione più
nucleare all’interno del quadro psicopatologico, tanto da costituirne più che
un sintomo l’essenza fondamentale. È particolarmente nei disturbi dell’Asse
II che tale condizione si realizza: vedasi il disturbo borderline di personalità,
quello antisociale, il disturbo passivo-aggressivo. In tutte queste condizioni,
come anche nella piromania, e nel gioco d’azzardo patologico, sono stati
ritrovati bassi livelli di 5-HIAA nel liquor, a testimonianza di un correlato
~ 89 ~
biologico comune individuabile nella ipoattività del sistema serotoninergico.
Vi sono disturbi psichiatrici associati con maggiore probabilità a violenza, in
cui la violenza è spesso presente e fa parte anche dei criteri diagnostici di
questi disturbi.
Nel disturbo esplosivo intermittente il comportamento violento può
comparire senza o alla minima provocazione e ricorre senza alcuna
manifestazione anticipatoria da parte del paziente.
Nel disturbo esplosivo isolato spesso il comportamento violento si manifesta
senza alcuna anticipazione, ma non c’è ricorrenza.
Nel disturbo del controllo degli impulsi atipico compare il comportamento
violento, ma non in relazione alla situazione ambientale.
Nel disturbo dell’adattamento con anomalia della condotta, la violenza
comportamentale è spesso legata ad un rifiuto da parte della persona
amata o di un familiare.
Nel disturbo antisociale di personalità i pazienti hanno dei gravi deficit
affettivi e mostrano uno scarso controllo superegoico.
Un disturbo della condotta che non rientra nei criteri del disturbo antisociale
di personalità può comunque essere associato a violenza. In altri disturbi è
probabile la presenza di violenza anche se questa non appare nei criteri
diagnostici.
Nel disturbo bipolare, tipo maniacale, i pazienti hanno un livello di attività
tanto elevato e una così bassa tolleranza alla frustrazione che la violenza
fisica non è infrequente.
Nella schizofrenia, tipo catatonico, i pazienti possono essere estremamente
distruttivi, specialmente dopo uno stato di arresto (stupor).
~ 90 ~
Nella schizofrenia, tipo paranoide, alcuni pazienti possono diventare violenti
in seguito ad un delirio persecutorio o a voci egodistoniche che comandino
loro di compiere qualcosa.
Nel disturbo paranoide acuto, può manifestarsi violenza o persistente
ideazione omicida diretta specificamente verso una persona o gruppo.
Nel disturbo borderline di personalità, la violenza tende ad essere diretta
verso se stessi (automutilazione), ma i pazienti possono diventare omicidi o
violenti se sotto l’effetto di alcool o farmaci.
Nel corso di un breve episodio psicotico, la violenza può essere scatenata
da un vissuto di rifiuto da parte del terapeuta o di altre figure significative.
Nel disturbo paranoide di personalità, durante la terapia, si può sviluppare
un transfert così intenso dal quale può scaturire un comportamento omicida
o violento.
Nel
disturbo
ossessivo-compulsivo,
il
divieto
di
porre
in
atto
il
comportamento compulsivo può generare un comportamento violento. Ad
esempio, un rupofobico compulsivo, che viene trattenuto fisicamente, può
colpire la persona che cerca di impedirgli l’azione.
Esistono infine disturbi organici, in cui è probabile la presenza di
comportamento violento, ma in cui la violenza in se stessa non costituisce
criterio diagnostico.
Nel delirium (stato confusionale), particolarmente quello associato a
fenciclidina, il comportamento dei pazienti è imprevedibile: essi possono
essere calmi un minuto prima e mostrarsi gravemente agitati un minuto
dopo. È possibile che questi pazienti possano provocarsi dei danni se non
vengono contenuti, ma vi possono riuscire anche se contenuti.
~ 91 ~
Nella sindrome delirante organica, l’aggressività può manifestarsi in
maniera indiretta contro oggetti o con atti vandalici; nella demenza, la
gelosia verso il coniuge può istigare aggressività. I pazienti dementi
possono divenire agitati durante la notte, quando compare una riduzione
degli input sensoriali (sindrome del “calar del sole”); altri possono andare
incontro a reazioni paradosse nei confronti di barbiturici e benzodiazepine.
L’aura delle crisi epilettiche parziali complesse, che produce paura o rabbia
intensa, e gli stati postictali raramente danno luogo a comportamenti
violenti.
Nell’intossicazione alcolica, i pazienti tendono ad essere violenti subito dopo
l’uscita dallo stato soporoso. Pazienti con intossicazione patologica possono
presentarsi violenti, anche senza essere alcolisti.
I pazienti con disturbo delirante da abuso di amfetamine sono soggetti a
bruschi cambiamenti e per brevi momenti possono apparire del tutto
normali, ma spesso esplodono in atti di violenza.
Nell’astinenza da oppiacei o da barbiturici (e altri sedativi e ipnotici simili), vi
può essere violenza a causa dell’irritabilità del paziente e per l’irresistibile
desiderio della droga (craving).
La connessione causale fra abuso di sostanze e violenza non è chiara,
nonostante essa venga segnalata in molti studi. Infatti soltanto una
minoranza di persone diventa violenta dopo aver assunto alcool e il
manifestarsi di un comportamento aggressivo in tale condizione dipende
certamente da una varietà di fattori, fra i quali l’aspettativa con cui la
sostanza viene assunta.
Tuttavia, quello che è certo è che un comportamento di rabbia seguente
all’uso di alcool non è mai stato riprodotto in situazioni sperimentali in
popolazioni a rischio. Un discorso a parte meritano le benzodiazepine
~ 92 ~
(BDZ). Infatti è stato prospettato che elevate dosi di flunitrazepam possano
portare ad esplosioni di violenza, così come alcuni studi hanno evidenziato
che le BDZ determinano in alcuni soggetti reazioni paradosse di rabbia e un
aumento delle tendenze ostili e aggressive. Anche in volontari con bassi
livelli di ansia, le BDZ hanno mostrato un effetto pro aggressivo, come pure
nei soggetti sani. Tuttavia è da notare che più abitualmente le BDZ vengono
assunte da soggetti che assumono vari tipi di sostanze e spesso vengono
prese in dosaggi elevati e per molto tempo. Il rapporto fra BDZ e
aggressività rimane perciò poco chiaro.
6.2. FATTORI PREDITTIVI DI VIOLENZA
Nella situazione di emergenza non sempre è agevole valutare le
potenzialità aggressive di un paziente e calcolare le probabilità di un
comportamento violento.
Spesso tale valutazione si fonda su impressioni aspecifiche o su un giudizio
clinico intuitivo, anche perché i primi studi in tal senso non sono apparsi
incoraggianti.
Tuttavia, mentre non sembrano esistere validi predittori di atti di violenza nel
lungo periodo, appare più realizzabile una valutazione del rischio di violenza
imminente.
La revisione della letteratura sull’argomento suggerisce alcuni indici come
predittivi di comportamento violento nel breve periodo.
1.Idee di violenza. Fra queste rivestirebbero la maggiore importanza come
fattore di rischio quelle concernenti desideri di aggressività nei confronti di
una persona specifica, mentre minore significato avrebbero quelle rivolte
verso un gruppo o una categoria. Idee più aspecifiche di ostilità, o desideri
di rompere oggetti, ne avrebbero ancora meno. Notevole importanza viene
attribuita alle voci imperative. Tuttavia è dubbio quanto esse siano in realtà
~ 93 ~
seguite da un comportamento in una percentuale rilevante dei casi.
2. Comportamento durante il colloquio.
Un crescendo progressivo dell’attività psicomotoria durante il colloquio con
una prima fase di aggressività verbale, in cui il soggetto mette in dubbio
l’autorità del operatore fino, in una fase successiva, a sfidarla con
turpiloquio o con atteggiamenti comportamentali, frequentemente precede
un atto di violenza.
3. Storia recente di violenza.
Indicativi di maggior rischio sarebbero le azioni violente compiute con mezzi
fisici, poi, in ordine, quelle compiute senza strumenti, ma che hanno
provocato serie lesioni, e così via fino a comportamenti verso gli oggetti,
che avrebbero un minore significato predittivo.
4. Storia remota di violenza.
Questa è di notevole importanza nel predire comportamenti violenti a breve
termine, tanto più quanto questi si saranno manifestati frequentemente nel
passato. Saranno da valutare anche eventuali arresti, infrazioni nella guida,
coinvolgimento in procedimenti legali, tendenza a punire i figli, o a seviziare
gli animali in epoca infantile o problemi costanti con le autorità in epoca
adolescenziale.
5. Sistemi di supporto.
La presenza di una famiglia, di un gruppo di amici, l’inserimento in un
gruppo religioso, il contatto con un servizio di igiene mentale, ecc.,
specialmente se valutabili come validi, è un fattore che limita il rischio di
condotte violente.
~ 94 ~
6. Compliance.
L’atteggiamento non cooperativo e una storia passata di non aderenza ai
trattamenti sollecitano in genere misure di sicurezza (come ad es. ricovero).
7. Storia di abuso di sostanze.
L’associazione fra questo fattore e il rischio di violenza a breve termine è in
realtà poco chiara, anche perché non è stata confermata nei pazienti seguiti
nel periodo successivo al ricovero. Nonostante la mancanza di convalide
sperimentali, l’abuso di sostanze viene tradizionalmente considerato un
fattore di rischio per il comportamento violento, specialmente per gli stati di
intossicazione in atto o in condizioni di astinenza, mentre l’uso occasionale,
ricreativo, avrebbe un valore molto inferiore. Naturalmente il rischio dipende
anche dal tipo di sostanza di abuso.
8. Anamnesi medica e neurologica.
Sono in primo piano i danni neurologici, in particolar modo quelli del lobo
frontale, dovuti ad un trauma, a vasculopatie cerebrali, a demenza di
Alzheimer o nell’ambito di una cerebropatia infantile o di un disturbo
organico di personalità. Particolare importanza è stata anche data
all’epilessia del lobo temporale. A questo proposito è interessante notare
che la tipologia del comportamento aggressivo, in caso di danno cerebrale,
può essere specifica per la singola localizzazione. Gli studi nell’animale ed
anche quelli nell’uomo hanno infatti dimostrato che la stimolazione elettrica
di specifiche aree cerebrali determina specifiche risposte aggressive. Molti
dei comportamenti aggressivi, che potrebbero essere giudicati di pertinenza
non medica, potrebbero invece avere una giustificazione in una disfunzione
dei sistemi neurofisiologici di controllo dell’aggressività. L’aggressività nei
confronti della moglie, ad esempio, non viene considerata in genere
organica; tuttavia studi recenti dimostrano come i danni organici cerebrali ne
siano il predittore più potente. Analogamente, alcuni Autori hanno osservato
~ 95 ~
come i pazienti con lesioni orbito-frontali siano comportamentalmente simili
ai sociopatici; così si è visto che i prigionieri violenti hanno anomalie
elettroencefalografiche in percentuale più elevata rispetto ai controlli.
Fattori che invece sono correlati negativamente con il comportamento
violento sono:
– un elevato numero di sintomi di depressione,
– un elevato numero di sintomi di ansia,
– precedenti trattamenti psichiatrici ambulatoriali,
– una storia di drug addiction (in contrasto con una storia di abuso alcolico),
– elevati tratti di timidezza e di emotività.
~ 96 ~
CAPITOLO 7: VALUTAZIONE E TRATTAMENTO DEL PAZIENTE
VIOLENTO
7.1. PREMESSA
Circa il 40% degli psichiatri è stato vittima nel corso della carriera di
violenza fisica (percosse, lesioni personali, tentato omicidio, omicidio
attuato, ecc.) da parte di pazienti malati di mente che aveva in cura. Negli
ospedali psichiatrici a massima sicurezza è stata rilevata una percentuale di
circa il 45% del personale paramedico vittima di violenza da parte dei
pazienti psichiatrici. Le percentuali sopra descritte aumentano notevolmente
qualora si considerino psichiatri e paramedici che operano nelle strutture di
emergenza psichiatrica, dove i comportamenti violenti sono più frequenti e
più gravi. L’aggressione agli psichiatri avviene, a livello generale, con armi
di offesa naturale (principalmente cono pugni e calci), uso di oggetti,
minacce con la pistola, minacce o lesioni col coltello e/o con armi bianche.
Da segnalare inoltre che le aggressioni agli psichiatri generalmente non
vengono denunciate ed i dati reali sono circa 5 volte superiori ai dati ufficiali.
La sottostima del comportamento violento è stata descritta da numerosi
Autori che ne hanno messo in luce le problematiche “metodologiche” che
contribuiscono al fenomeno (quali la difficoltà nel trovare una definizione
univoca di “comportamento violento”, uno strumento di rilevamento
adeguato, intralci burocratici, ecc.) e le problematiche “personali” (quali la
convinzione che il comportamento violento sia una parte integrante della
malattia mentale; complessi sentimenti di colpa; timore di subire accuse di
negligenza e/o inadeguata professionalità nello svolgere l’attività lavorativa;
ansia legata a possibili indagini sul “come” e sul “perché” è avvenuto il
comportamento aggressivo o sulle modalità della propria difesa, ecc.)
Per quanto concerne il comportamento violento del malato di mente in
ambito familiare, è da segnalare che, generalmente, sono gli episodi di
violenza fisica che inducono i familiari a richiedere il ricovero psichiatrico. In
~ 97 ~
relazione ad una maggiore incidenza del comportamento violento nella
popolazione psichiatrica rispetto alla popolazione generale, la letteratura
non evidenzia una posizione univoca.
Se da una parte alcuni Autori evidenziano una percentuale maggiore di
“arrest rate” (inclusi gli arresti per crimini violenti) tra i pazienti psichiatrici,
dall’altra numerosi Autori concordano nell’attribuire alla popolazione
psichiatrica
una
incidenza
di
comportamenti
violenti
pressoché
sovrapponibile a quella della popolazione generale.
Tuttavia, la presenza di numerose problematiche legate alla definizione di
“comportamento violento”, al corretto inquadramento psichiatrico, alla
metodologia di studio utilizzata, alla modalità di campionamento, alla
“criminalizzazione del malato di mente” (spostamento dei pazienti dal
sistema sanitario al sistema giudiziario), alla “psichiatrizzazione del
comportamento criminale” (spostamento di individui dal sistema giudiziario
a quello sanitario psichiatrico), ecc., lasciano aperto il campo ad ulteriori
studi.
7.2.
TRATTAMENTO
DEL
PAZIENTE
VIOLENTO
IN
SITUAZIONI
DI
EMERGENZA
Nella valutazione e trattamento del paziente violento in situazione di
emergenza saranno prese in considerazione le caratteristiche fisiche
dell’ambiente ove si svolge il colloquio, le modalità di intervento verbale e
comportamentale dello psichiatra, le tecniche di approccio ad un paziente
che minaccia con un’arma. Infine, saranno valutati gli errori emotivi e
comportamentali dell’operatore psichiatrico con il paziente violento ed i vari
livelli di intervento preventivo e terapeutico in relazione al livello di
introspezione.
~ 98 ~
7.2.1. Dove incontrare il paziente violento
In situazione di emergenza lo psichiatra può e deve decidere il luogo ove
colloquiare col paziente che ha posto o potrebbe porre in atto
comportamenti violenti. Effettuare il colloquio in un ambiente inadeguato, ad
es. molto ristretto come spazio, in una zona di passaggio con numerosi altri
pazienti che transitano o sono in attesa, in presenza di familiari ad alta
emotività espressa, che usano un linguaggio urlato, ecc., può rappresentare
la prima scelta errata dello psichiatra, che si rende facilmente responsabile,
anche se solo a livello concausale, dello scatenarsi o dell’aggravarsi
ulteriore di un comportamento violento e delle conseguenze di danno a
cose o persone da parte del paziente.
Il mancato rispetto di alcune regole basilari nell’intervistare un paziente con
comportamento violento può in certe stipule di assicurazioni e in alcuni
processi civili o penali, portare l’operatore o a non essere risarcito da
eventuali danni che ha riportato alla propria persona, o ad essere
perseguito in ragione di danno a terze persone, a termine di legge per
grossolana
imperizia,
negligenza
o
imprudenza
nell’esercitare
la
professione.
Esistono diverse possibilità di scelta dell’infermiere per strutturare
fisicamente nello spazio la valutazione del soggetto violento: solo col
paziente in una stanza, con la porta chiusa; solo col paziente in una stanza
con la porta aperta; solo col paziente in una stanza con la porta aperta e
con gli infermieri che assistono all’esterno della stanza; in presenza degli
infermieri con il paziente libero; presenti o assenti gli infermieri con il
paziente che è in uno stato di contenzione fisica, ecc.
Tutte queste possibilità hanno precise indicazioni e controindicazioni. Il
principio base, che può regolare la scelta del luogo del colloquio, è legato
alla sicurezza fisica dei partecipanti (Tab. 1 pag. 147). In primo luogo deve
essere rispettata la sicurezza fisica dell’operatore che non deve mettersi in
~ 99 ~
situazione di essere aggredito e non deve effettuare il colloquio in uno stato
di ansia o di paura.
Deve altresì essere rispettata la sicurezza del paziente, che, ad esempio,
non deve potere disporre di oggetti da taglio, da punta o contundenti per
procurare a sé o agli altri lesioni fisiche. Ricordiamo che molto spesso etero
ed autoaggressività si manifestano in breve spazio di tempo.
Deve essere altresì rispettata la sicurezza fisica di altri pazienti,
eventualmente presenti, della stessa équipe e di altri medici e paramedici.
La situazione ideale per il rispetto di questi principi di sicurezza si basa sul
fatto che lo psichiatra non deve intervistare il paziente agitato e violento da
solo in una stanza chiusa.
È opportuno che l’operatore possa sempre avere la possibilità, ad esempio
posizionandosi fra il paziente e la porta aperta, di guadagnare l’uscita senza
subire danni e di poter fruire del pronto intervento di una équipe, che osservi
senza disturbare o alterare la riservatezza del colloquio. Quest’ultima
avvertenza serve non solo per il pronto intervento fisico, che l’équipe può
mettere in atto, ma anche per tranquillizzare, dissuadere con la presenza,
discreta ma significativa di varie persone, eventuali atti aggressivi,
soprattutto se questi sono di tipo manipolatorio, e cioè suscettibili alla
provocazione, ma sempre sensibili al confronto con la realtà.
Il piano di intervento dell’équipe deve essere già stato precedentemente
messo per iscritto ed oggetto di discussione e di prove reali. Solo in tal
modo le singole persone conoscono e si sono familiarizzate con i propri
ruoli e sono in grado, con la dovuta padronanza, di eseguire, in condizione
di emergenza, le istruzioni di un coordinatore.
Sono da evitare le decisioni affrettate e confusionarie, all’insegna
dell’improvvisazione, in uno stato di urgenza ove ognuno si muove
individualmente e disordinatamente e si agita senza la presenza di un unico
~ 100 ~
ed esperto coordinatore, o di un preciso piano di intervento con chiara e
concreta distribuzione dei ruoli. Il colloquio approfondito col paziente in stato
di contenzione, e cioè trattenuto fisicamente dall’équipe, o con mezzi di
contenzione parziale (quali bracciali, cavigliere, ecc.) o con mezzi di
contenzione totale (fissato ed immobilizzato su un lettino), non può aver
luogo che in casi estremi. In queste situazioni il colloquio è opportuno sia
rimandato seppur dopo aver verbalizzato in modo adeguato al paziente
(anche se presenta, al momento, difficoltà alla comprensione manifesta)
che il colloquio sarà ripreso al momento in cui sarà migliorata la
comunicazione. È inoltre da segnalare che il paziente non deve essere
lasciato da solo, o semplicemente in compagnia dei parenti, senza la vigile
presenza del personale specializzato, sia prima che durante o dopo il
colloquio con lo psichiatra. In queste occasioni può fuggire, aggredire altre
persone, penetrare in locali creando confusione, danni, ecc. Inoltre il
paziente violento non può essere lasciato in attesa con altri pazienti
psichiatrici.
L’esperienza clinica insegna che è proprio nelle sale di emergenza
psichiatriche
che
avvengono,
con
più
frequenza,
violenze
fisiche
coinvolgendo pazienti e personale paramedico e medico. Può, ad esempio,
essere sufficiente uno sguardo, un saluto, un commento, ecc., per poter
provocare in certi pazienti paranoidei un passaggio all’azione violenta con
tutte le conseguenze fisiche di danno alla persona e di un trauma psichico
per tutti i partecipanti e spettatori dell’evento di violenza.
Il paziente violento presenta inoltre necessità di immediatezza di intervento
e precedenza di attenzioni sugli altri pazienti da parte dello psichiatra. Far
attendere passivamente un paziente violento non serve per calmarlo o
tranquillizzarlo, ma, come insegna l’esperienza clinica, spesso l’attesa
passiva aumenta lo stato di agitazione psichica e motoria e quello generico
di irritabilità aggressiva, aumentando così le probabilità per il soggetto del
passaggio all’azione. Egualmente l’attesa, come semplice rimando o
~ 101 ~
meccanismo psicologico di difesa e di evitamento temporaneo, non giova
all’approccio psichiatrico dei medici o paramedici al paziente violento.
È infine da segnalare la necessità che il paziente compia percorsi fisici, tra
l’entrata e l’uscita dall’area del colloquio, che non contemplino la possibilità
di trovare strutture o oggetti che permettano di arrecare danno fisico ad altri
o a se stessi. Sono quindi da proscrivere: corridoi stretti ed affollati; ambienti
con vetreria ed oggetti che possano essere usati come armi improprie;
passaggi in presenza di apparecchiature che producano suoni, luci, ecc.
7.2.2. Come presentarsi al paziente violento
In una situazione di emergenza l’operatore può presentarsi con varie
modalità al colloquio col paziente violento ed agitato. Anche in questi casi
vale il principio generale che l’operatore non deve mai porsi in una
posizione vittimologica, e cioè essere possibile oggetto di insulti fisici (Tab.
2 pag. 147). Prima ancora di colloquiare con il paziente è opportuno che lo
psichiatra sia avvertito dal personale dell’accettazione, adeguatamente
sensibilizzato alla clinica del comportamento violento, della eventuale
predisposizione alla violenza del nuovo venuto.
È opportuno che l’infermiere mantenga una distanza non inferiore al metro e
mezzo a paziente seduto o disteso e due metri a paziente in stazione eretta:
così quest’ultimo avrà difficoltà a colpirlo con movimenti bruschi e
improvvisi. Inutili sono poi le frequenti recriminazioni anche da parte degli
psichiatri esperti “è stato improvviso, non mi aspettavo questa reazione”.
Se il paziente deve essere visitato fisicamente, l’esame deve essere
compiuto con precauzioni adeguate (ad es. ponendo sempre un braccio di
difesa tra la testa del paziente e la testa dell’esaminatore allo scopo di
evitare lesioni da “testate”, ecc.). Inoltre l’operatore deve tenere presente
che avvicinandosi fisicamente al paziente entra in un suo spazio personale
e può stimolare facilmente una tra le forme più primitive di aggressività
~ 102 ~
territoriale. La difesa del proprio territorio nelle persone violente ed agitate si
estende per uno spazio che è circa 4 volte più ampio di quanto non lo sia in
un soggetto che non è violento.
Per quanto concerne specifiche psicopatologie, è da rilevare che, ad
esempio, in soggetti con spunti paranoidei, non bisogna avvicinarsi alle loro
spalle, dove lo spazio deve essere sempre lasciato libero anche da parte
del personale dell’équipe. Non ci si deve inoltre avvicinare al paziente con
modalità rapide e decise in senso frontale, poiché ciò può essere percepito
come un atteggiamento di confronto, di sfida e può facilitare il passaggio
all’azione aggressiva di difesa.
È inoltre da evitare il contatto diretto e prolungato nello sguardo degli occhi
del paziente: è spesso percepito da molti soggetti come una forma di
invasività, di provocazione personale. Non deve essere usata, a paziente
assiso o seduto, la posizione eretta dell’operatore che guardi e parli dall’alto
al basso: nei pazienti con disturbo a sfondo paranoideo potrebbe essere
percepito come un tentativo non solo di dominare, ma anche di insultare e
disprezzare. Sorridere o ridere è sempre interpretato da parte dal paziente
in senso aggressivo e dispregiativo. Essere “familiarmente”, “amicamente”
toccato dal medico in alcuni pazienti può suscitare fantasmi di un approccio
sessuale indesiderato, di dominazione o di insultante e pericolosa invasività.
È inoltre da tenere presente, in caso di incontro a breve distanza,
l’avvertenza di avvicinarsi al lato del paziente in posizione latero-frontale
porgendo sempre il proprio emicorpo, riducendo così la quantità e la qualità
fragile della persona fisica che può essere oggetto di aggressione. Inoltre,
per nessun motivo, anche quando il soggetto violento è stato calmato e
rasserenato, l’operatore deve voltare il dorso e soprattutto perdere il
controllo visivo del paziente. Anche nel caso in cui il paziente dovesse
tentare un’aggressione è sempre bene, come insegna l’esperienza, che
l’infermiere arretri, senza voltarsi, perché potrebbe essere più facilmente
~ 103 ~
afferrato e colpito.
È bene inoltre che il paziente non rimanga assolutamente in vicinanza di
altri pazienti, parenti o accompagnatori che parlano ad alta voce o che si
muovono in modo concitato o disordinato o che, in qualsiasi caso, anche
solo verbalmente, interferiscano o disturbino.
Si ricorda, infine, che l’infermiere in queste situazioni di emergenza non
deve presentare sul proprio corpo elementi di abbigliamento che lo rendano
facilmente vittima di danni fisici (orecchini, cravatte sventolanti, oggetti
appuntiti o di vetro nei taschini, ecc.). Egualmente nella stanza del colloquio
non devono esserci sulle scrivanie oggetti che possono rappresentare
un’arma propria o impropria (tagliacarte, forbici, lampade, ecc.) o,
nell’ambito della stanza, strutture o mobili che possano essere utilizzati nel
corso di un passaggio all’azione (appendiabiti e portaombrelli facilmente
mobilizzabili, sedie leggere, ecc.). Non è inutile che l’operatore apprenda
alcune tecniche, molto elementari, ma concretamente valide, per difendersi
dal contatto col paziente violento.
7.2.3. Cosa dire o fare con un paziente violento
L’operatore che valuta un paziente agitato e violento deve effettuare una
diagnosi rapida per decidere se dover procedere ad un colloquio oppure
(dopo aver assunto alcune informazioni essenziali) privilegiare con urgenza
un approccio farmacologico o tecnico di contenzione.
Il razionale alla base di questa scelta è che esistono pazienti con i quali il
colloquio, in quel momento, è difficile e il medico (pur non rinunciando in
linea di principio al dialogo e ad un approccio integrato) deve agire
prioritariamente a livelli diversi (farmacologico, di contenzione fisica).
In questa rapida diagnosi l’operatore può tener presente che in alcuni danni
organici cerebrali, in alcune psicosi, ecc., l’approccio esclusivo “a parole” col
~ 104 ~
paziente estremamente agitato, a livello di intervento concreto immediato,
non è utilizzabile nella situazione di emergenza. Uno stato di demenza con
confusione ed agitazione motoria ed aggressività, uno scompenso
maniacale con passaggi ripetuti all’azione violenta, ecc., non possono che
richiedere un trattamento farmacologico immediato ed eventualmente una
contenzione fisica.
Peraltro in molte altre situazioni di crisi (da lutto, da perdita, da separazione,
ecc.) lo psichiatra può tentare attraverso il colloquio, ed adeguate tecniche
psicoterapiche d’urgenza, un controllo comportamentale del paziente anche
in stato di agitazione psichica e motoria. La apparente rigidità della
decisione dicotomica dello psichiatra, “parlare” o “agire” (inteso in senso
farmacologico o contentivo) non può che essere adeguatamente sfumata e
trovare mediazioni nella complessa realtà clinica della emergenza
psichiatrica, pur non perdendo in nessun caso la sua concreta utilità di
approccio (Tab. 3 pag. 148).
Un intervento prevalentemente gestito a livello verbale nelle situazioni di
emergenza deve rispettare alcune regole fondamentali (Tab. 4 pag. 148).
Lo psichiatra deve presentarsi calmo, tranquillo ed accogliente nell’aspetto
mimico e motorio; parlare lentamente ed a basso volume con frasi molto
chiare e corte, esprimendo concetti semplici e concreti; deve lasciare il più
ampio spazio di tempo possibile al paziente perché possa esprimere e
descrivere i sentimenti; il paziente non deve essere interrotto soprattutto in
modo autoritario e minaccioso utilizzando la mano, il dito puntato, alzando il
volume della voce, avvicinandosi sino a sfiorarlo fisicamente.
L’infermiere, inoltre, deve sempre mostrare profonda empatia
alle
verbalizzazioni del paziente; evitare di esprimersi in modo provocatorio,
emettere giudizi, fornire interpretazioni precoci anche se corrette sotto il
profilo dinamico. Non debbono essere formulate al paziente promesse che
poi non possono essere mantenute, come quella di evitare il ricovero, di non
~ 105 ~
somministrargli farmaci o di rimandarlo a casa nell’immediatezza. Il
paziente, inoltre, al primo contatto con lo psichiatra non può essere
apostrofato con un “tu” familiare e paternalistico, che può essere percepito
come dominante ed irrispettoso.
Nelle fasi iniziali del colloquio il paziente può essere stimolato a verbalizzare
i
suoi
stati
d’animo
con
domande
apparentemente
“banali”,
ma
tecnicamente “neutre ed ampie” (chiedendogli, ad esempio, di spiegare che
cosa sta succedendo; per quale motivo è all’ospedale, ecc.).
È adeguato inoltre che sia mantenuto dall’operatore un atteggiamento
equilibrato, che permetta al paziente di liberare le sue fantasie, ma non
giustifichi un aumento incontrollabile della montata dell’ansia e dei suoi
passaggi all’azione violenta. Ad esempio, l’infermiere può precisare in modo
empatico ma con modalità cortesi e ferme che il paziente può parlare di
tutto ciò che lo mette a disagio, che lo contraria, infastidisce, ecc.,
stimolandolo ad esprimere tutti i suoi sentimenti, ma che non è tollerato in
quell’ospedale tentare di procurare danni fisici alle persone. Si può inoltre
chiedere al paziente se ritiene di essere in grado di parlare tranquillamente
dei suoi problemi con lo psichiatra senza mettere in atto dei comportamenti
violenti o se preferisce che vi sia qualcuno, ad esempio, degli infermieri, che
possano essere garanti ed aiutarlo a mantenere l’incolumità fisica delle
persone che partecipano al colloquio. Questa richiesta, se formulata con un
autentico rispetto ed empatia per il paziente e soprattutto se accompagnata
da un accettante e benevolo linguaggio non verbale attraverso il viso ed il
corpo del terapeuta, permette al paziente, in non pochi casi, di
padroneggiare meglio la situazione emotiva, sentendosi valorizzato ed
allontanando fantasmi di violenza nei propri confronti e verso terze persone.
È spesso necessaria la precisazione al paziente, anche se questo è
psicotico, quando se ne ravvisi una benché minima capacità di
comprensione, che se il paziente sceglie la via della violenza per dialogare
~ 106 ~
con le persone sarà ritenuto responsabile di tutti i suoi agiti. Anche questa
informazione è da comunicare al paziente, solo quando vi è l’indicazione,
tenendo conto che è soprattutto nel contesto del dialogo instaurato e
nell’ambito delle modalità espressive dello psichiatra, che il messaggio può
essere percepito rassicurante o provocatorio.
Questa
precisazione
in
tema
di
responsabilità
personale,
indipendentemente dalla presenza di una psicosi, è uno dei più importanti
mezzi terapeutici che sono oggetto di dialogo tra psichiatra e paziente nei
reparti di trattamento specialistici per pazienti violenti. Si ricorda che il
concetto di responsabilizzazione (nel senso dell’opportunità terapeutica di
considerare il paziente responsabile dei propri atti di violenza); la
ventilazione dei sentimenti aggressivi (lo sviluppo della capacità di
riconoscere e gestire l’aggressività attraverso il dialogo e la verbalizzazione
dei sentimenti) e la riparazione del danno (il riconoscimento empatico dei
danni provocati alla vittima attraverso un agire riparatorio) sono parti
integranti nell’approccio costruttivo e terapeutico con il paziente violento. Si
tratta di provvedimenti terapeutici che, a livello psichiatrico, debbono iniziare
sin dai primi contatti, sono da integrare con la specifica psicopatologia di cui
soffre il paziente e possono accompagnarsi a concomitanti e spesso
prioritari interventi, in emergenza, a livello farmacologico e contentivo.
7.2.4. Cosa dire o fare con un paziente che minaccia con un’arma
Non è un caso infrequente che all’operatore si possa presentare un
paziente, non necessariamente psicotico, che esibisce un’arma, come ad
esempio un fucile, una pistola, un coltello o un altro mezzo di offesa. Questa
eventualità, ad esempio, è frequente al’infermiere che presta opera nelle
carceri ove spesso il detenuto può presentarsi armato di coltelli rudimentali,
lamette da barba, ecc., con le quali minaccia di tagliarsi, di ingerirle e di
ferire quante persone cerchino di avvicinarsi. In questi casi, e cioè quando
un paziente minacci concretamente un comportamento violento etero o
~ 107 ~
autoaggressivo o ambedue con un’arma, possono essere presi in
considerazione alcuni principi di comportamento (Tab. 5 pag. 149 ).
Uno tra i primi provvedimenti da adottare è di allontanare tutti gli altri
possibili pazienti, detenuti, medici, infermieri, ecc., in modo da ridurre il
numero delle persone che possano correre dei rischi o che possano
stimolare il passaggio all’azione del paziente con la loro gestualità e con le
loro parole. In secondo luogo, è necessario far parlare il paziente e stabilire
una costante comunicazione verbale il più possibile calma e distesa. Questo
colloquio può cominciare da parte dell’operatore anche con le osservazioni
apparentemente più ovvie: “Vedo che ha un fucile in mano, che intenzioni
ha?” “Mi sembra di vedere una lametta fra le sue dita, mi spieghi...”, ecc.
Nel corso del colloquio possono poi usarsi specifiche modalità di approccio
allo scopo di evitare che le minacce si trasformino in agito. Tra queste
tecniche si segnala lo sfruttamento del narcisismo, la riduzione della
tensione attraverso il garante, l’aggancio emotivo, l’effetto umanizzante
della familiarizzazione, la creazione di un nemico esterno comune, la
dissociazione fra il linguaggio verbale ed il messaggio emotivo, il rispetto del
significato di sicurezza dell’arma, l’ubbidienza uniforme, ecc. Il soggetto che
pone in atto un agito di violenza, soprattutto se presenti tratti paranoidei di
onnipotenza, si dimostra molto sensibile alla frustrazione che le proprie
azioni si perdano nell’anonimato e non riscuotano plausi e ammirazione.
Questo aspetto narcisistico può essere sfruttato deviando l’aggressività da
una persona ad un problema più generale: “Non credo che lei voglia
aggredire un semplice medico, ho avuto l’impressione che il problema di cui
parlava fosse più importante”. Altre volte il paziente può essere
tranquillizzato da una persona (il garante) di cui ha fiducia e la cui presenza
serve a diluire la montata di ansia e di aggressività. Il paziente può essere
così stimolato a coinvolgere altre persone con le quali ha un buon rapporto
di accettazione (“Perché non utilizzare la presenza di una persona che sia
di sua fiducia?”).
~ 108 ~
L’aggancio emotivo al paziente che minaccia può avvenire attraverso
persone importanti e significative della propria vita (la madre, la moglie, i
figli, ecc.), che hanno lo scopo di porre sotto forma di dialogo e
verbalizzazioni i problemi emotivi che potrebbero trasformarsi, per le
difficoltà di neutralizzarli, in agiti auto ed eteroaggressivi.
Quando le minacce sono costanti, durano per molte ore e sono proferite
sempre con l’utilizzo di un’arma, è utile mettere in atto, quando possibile, la
familiarizzazione col paziente (offrire una sigaretta, prepararsi un caffè,
dividere e consumare del cibo, trovare interessi che uniscono, isolare
comunanze di gusti, aver vissuto uguali esperienze di vita, ecc.). Fare in
modo di essere individualizzati può permettere al soggetto, attraverso
sentimenti comuni di provare quell’empatia, che può essere freno inibitorio
almeno ad un tipo di violenza indiscriminata che colpisce persone senza
volto e senza legami affettivi personalizzati.
Un’ulteriore tecnica di approccio al paziente può consistere nel prestare
attenzione gratificante a quanto di adeguato è proposto e richiesto dal
paziente che minaccia: poter riavere i propri figli, essere reintegrato nel
lavoro, riparare un’ingiustizia subita, ecc. Questo atteggiamento empatico
accettante può portare l’operatore ad assumere un ruolo utile tra le
progettualità
attualmente
verbalizzate
e
manifestate
dal
paziente.
Emotivamente il paziente può percepire l’infermiere come un aiuto benevolo
e saggio contro difficoltà comuni poste dalle rigidità delle leggi, dalle
ingiustizie sociali, dalle difficoltà delle comunicazioni emotive interpersonali,
ecc. Se l’infermiere è sotto la minaccia continua di un’arma che viene
costantemente puntata contro di lui, attraverso la tecnica della dissociazione
tra messaggi verbali e messaggi emotivi, può bloccare e fungere da
contenitore dell’aggressività del paziente. La confessione, ad esempio,
dell’operatore del proprio timore per le armi, proferita con molta calma e
tranquillità, non seguita da preghiere o richieste, ha la duplice azione di
evitare dinamiche di confronto (viene riconosciuta la supremazia di chi
~ 109 ~
possiede l’arma ed è pubblicamente ammessa la propria paura) e di
trasmettere a livello emotivo (la sicurezza, la calma e la tranquillità che si
dimostra nel gestirsi come vittima) una capacità di contenimento dell’ansia
che concerne ambedue i protagonisti dell’evento.
È inoltre da segnalare che la persona che minaccia con un’arma non lo fa
solo per terrorizzare e per spaventare gli altri, ma lo fa anche perché è
terrorizzata e spaventata. L’arma rappresenta una forma di sicurezza che
chi minaccia e si sente minacciato non può lasciare, almeno nelle
immediatezze di tempo, in mano agli altri. Sono così da proscrivere ordini
autoritari e ricattatori di consegnare l’arma, avvicinarsi al paziente armato
con gesti eroici inconsulti e minacciosi.
Egualmente è sconsigliabile cercare di impadronirsi in modo furtivo o callido
dell’arma senza il consenso del paziente. Può essere richiesto al paziente di
riporre l’arma vicino alla propria persona. In questo modo si riduce il rischio
immediato, l’ansia è diluita col dialogo ed il paziente non si sente privato
dell’oggetto transazionale che gli procura fiducia e sicurezza. Solo in un
secondo tempo si può richiedere al paziente di deporre l’arma (sempre
opportunamente maneggiata, afferrata lontano dal grilletto e con la canna
rivolta al suolo e scaricata dalle munizioni) lontano dalle persone o
prenderla in consegna.
Ad esempio, nelle emergenze psichiatriche in ambito carcerario, al paziente
può essere gentilmente richiesto dall’operatore di deporre la lametta o il
coltello vicino a sé o sul tavolo, sulla sedia, ecc., senza obbligarlo,
inizialmente, a consegnare l’arma. Si ricorda che spesso in carcere accanto
ad una prima lametta o coltello, che possono essere consegnati, ne
esistono altri celati nel corpo o negli indumenti. Il paziente o il detenuto, se
si ritiene tradito nelle sue aspettative, non esiterebbe ad afferrare e ad
usare contro di sé e contro gli altri queste seconde armi che spesso
“compaiono come per magia” dopo la consegna delle prime.
~ 110 ~
L’atteggiamento che deve essere inoltre adottato, quando il paziente
minaccia con l’arma, è di eseguire con immediatezza e con movimenti dolci
e con voce calma quanto il paziente richiede. Deve essere evitata qualsiasi
intimidazione,
controminaccia,
confronto,
discussione,
critica
o
interpretazione.
Deve essere inoltre evitata da parte del minacciato qualsiasi manifestazione
di perdita di controllo emotivo e motorio. Si ricorda che la persona che
minaccia con un’arma è anche lei ansiosa e timorosa di perdere il controllo;
non è in grado generalmente di assistere ad una persona che si mette a
piangere, ad agitarsi, ad invocare pietà, ad urlare disperata. Chi minaccia
perde facilmente il controllo, soprattutto quando si innescano pericolose
identificazioni di sofferenze e di umiliazioni ed impotenza con la vittima, che
portano raramente, come insegna l’esperienza, ad identificazioni empatiche
e riparatorie, ma piuttosto stimolano meccanismi di identificazione
all’aggressore e di negazione che facilitano agiti distruttivi. Nel caso
l’operatore sia minacciato con altre persone, il gruppo delle vittime deve
cercare di mantenere un comportamento uniforme e costante. In queste
situazioni è spesso chi si differenzia dal gruppo, per qualsiasi motivo, che
viene aggredito ed ucciso per primo. I desideri di aggredire fisicamente, di
neutralizzare il paziente, soprattutto se armato,rientrano più sovente in un
sentimento rivendicativo e di onnipotenza reattiva di quanto non siano
applicabili in situazioni reali.
Si ricorda, quale regola generale, tra le variabili più utili per risolvere queste
situazioni (un paziente armato che minaccia la vittima), la capacità di
stabilire una continua comunicazione col soggetto e far trascorrere molto
tempo, parlando, discutendo e familiarizzando.
7.2.5. Errori emotivi e comportamentali del terapeuta con il paziente violento
Nel valutare e gestire il soggetto violento, l’infermiere può commettere
grossolani errori di comportamento ai fini diagnostici e terapeutici dovuti alla
~ 111 ~
paura, rabbia, aggressività, frustrazione, ecc., suscitate dal contatto col
paziente. Questi errori controtransferali (controtransfert in senso psichiatrico
criminologico e non restrittivo psicoanalitico) sono numerosi e per lo più
dipendono dai problemi personali e dal tipo di personalità dell’operatore.
Possono essere evitati in primo luogo gli errori controtransferali che si
basano sul sentimento di onnipotenza dell’operatore.
Non è adeguato alla realtà che il terapeuta ritenga di avere tanti e tali poteri
da essere in grado da solo ed esclusivamente con le parole, di sedare,
tranquillizzare, tutti i pazienti agitati e pericolosi. Pensare di poter
tranquillizzare da soli e con l’esclusivo uso delle parole, ad esempio, un
soggetto che sta vivendo una crisi maniacale è in linea di principio errato.
Un altro atteggiamento controtransferale da evitare da parte dell’operatore è
quello seduttivo. L’infermiere che si pone a sostenere acriticamente ed in
modo irrealistico le ragioni del paziente, permettendo a quest’ultimo,
concretamente, seppure con linguaggio non verbale, di spaccare oggetti,
minacciare persone, non responsabilizzarlo sulle azioni aggressive, non
ponendo interdizioni, mette in atto un atteggiamento non terapeutico.
Questo agire è infatti estremamente diseducativo nei confronti del paziente
che avrà imparato ed avrà rinforzato un suo modo di dialogare attraverso la
violenza, senza essere confrontato con la sua responsabilizzazione e cioè
con le conseguenze precise e specifiche del proprio agire. Inoltre il
comportamento
seduttivo
aumenta
l’ansia
del
paziente
violento,
alimentando i suoi fantasmi di perdita di controllo e di impossibilità di essere
accudito e contenuto nelle sue manifestazioni.
Sono poi da evitare tutti quei comportamenti dell’operatore legati alla
formazione reattiva. L’infermiere può reagire alla sua paura (nel confronto
col paziente violento) ed assumere un comportamento reattivamente
stenico e coraggioso, sino ad essere disposto, quando non necessario, ad
affrontare anche fisicamente il paziente. Questa tipologia di operatori, così
~ 112 ~
disposti ad una difesa attiva anche sul piano fisico, entrano nella
percentuale degli specialisti che, nella realtà clinica, sono i più aggrediti dai
pazienti.
È da sottolineare che il paziente violento è estremamente sensibile e si
scompensa facilmente passando all’atto tanto di fronte ad un operatore che
fa trasparire in modo inadeguato la sua paura, la sua ansia, quanto di fronte
ad un infermiere che esasperando un suo aspetto di ostentata sicurezza
può assumere atteggiamenti provocatori, di confrontazione, di intrusione e
sfida.
Nel trattare il paziente violento sono altresì da evitare tutti i meccanismi di
razionalizzazione e negazione soprattutto su base narcisistica. L’operatore
può essere indotto a minimizzare e negare la pericolosità nel paziente
attraverso ad esempio la razionalizzazione che l’evento di essere aggredito
da un paziente non possa accadere alla propria persona, in quanto troppo
abile, accorto ed esperto come clinico. Quando individui appartenenti a
questa tipologia sono vittime di violenza, soprattutto in reparto, in presenza
di altri pazienti, altri medici e paramedici, non sono poi in grado di ventilare
in modo adeguato i loro sentimenti ed i vissuti dell’équipe. Spesso la loro
ferita narcisistica, come insegna l’esperienza clinica, trova inadeguati
meccanismi di difesa, quali ad esempio spunti persecutori nei confronti dei
pazienti, medici e paramedici, come nel caso che segue.
Caso clinico.
In un reparto psichiatrico, un paziente aggredisce e ferisce gravemente
un’infermiera. Lo psichiatra responsabile del reparto non commenta
l’accaduto e non mostra empatia alla vittima. Alcuni giorni dopo lo stesso
paziente aggredisce lo psichiatra responsabile del reparto. Gli infermieri
“stranamente” giungono “in ritardo” a liberare e difendere lo psichiatra che,
a sua volta, è contuso e ferito. Nei giorni seguenti lo psichiatra verbalizzerà
sentimenti di persecuzione e nocumento da parte dei pazienti e degli
~ 113 ~
infermieri. “I pazienti sono sempre pericolosi e imprevedibili...”; “gli infermieri
non sono preparati professionalmente e volontariamente non desiderano
proteggere l’autorità medica che li obbliga a lavorare”.
Nell’ambito poi del trattamento del paziente violento, non è solo da valutare
la compliance del paziente al farmaco, ma anche quella dello psichiatra alla
terapia farmacologica. Lo psichiatra che presenta problemi nei confronti
della somministrazione dei farmaci andrà più incontro di altri, soprattutto in
relazione al paziente violento, a fenomeni di proiezione. Se lo psichiatra
infatti ritiene che i farmaci che somministra servano solo o soprattutto a
violentare la volontà del paziente, “annullare l’individuo” o come “un veleno”
siano solo e sempre “responsabili di gravi effetti collaterali”, molto
facilmente riterrà, attribuendo proiettivamente le sue paure al paziente, che
quest’ultimo, così “violentato”, “annullato”, “avvelenato” vorrà vendicarsi su
di lui. Questi psichiatri valuteranno quindi i pazienti molto più violenti di
quanto non lo siano in realtà e non saranno in grado di applicare una
adeguata farmacoterapia. Di fronte poi all’ansia e frustrazione nell’approccio
con un paziente aggressivo recidivante lo psichiatra può essere indotto ad
utilizzare in modo prevalente il meccanismo della scissione: il paziente non
è più un malato da curare (compito dello psichiatra), ma un delinquente da
neutralizzare (compito non dello psichiatra, ma della polizia, dei giudici,
ecc.).
Questa trasformazione del “malato” in “delinquente” può avvenire non solo
in modo brusco (“mad” “bad”), ma attraverso una sorta di “danza
diagnostica”. All’inizio cioè il paziente è ricoverato con attenzione prioritaria
alla sua ansia, depressione, ecc., nei ricoveri successivi, perdurando il
comportamento violento, la diagnosi è modificata con attenzione prioritaria
per l’aspetto tossicofilico, manipolatore, ecc. Infine, al continuare del
comportamento violento e deviante, è formulata la diagnosi di personalità
antisociale, non come psicopatologia terapeuticamente affrontabile o
comorbilità, ma come etichetta di disimpegno, impotenza, ed usura del
~ 114 ~
personale trattante.
Il meccanismo psicologico di difesa della scissione di fronte all’ansia ed alla
frustrazione col paziente violento può essere anche usato tra medici diversi
a contatto con lo stesso aspetto violento che formulano inconciliabili progetti
terapeutici (scissione orizzontale) o tra terapeuti a livelli gerarchici differenti,
ad esempio specialisti e medici di famiglia (scissione verticale) o essere
variamente concatenato (scissione incrociata).
In altre occasioni, lo psichiatra tende, oltre la misura empatica terapeutica,
ad assumere come propri i pensieri, i sentimenti e le azioni del paziente
violento che in questo modo non solo è “capito” (azione terapeutica), ma è
acriticamente “valorizzato”, “giustificato”, “difeso nell’espressione del suo
linguaggio
emotivo”
(meccanismo
di
difesa
dell’identificazione
all’aggressore). In alcuni di questi casi il terapeuta si comporta come se il
paziente avesse il coraggio di fare quello che il “terapeuta desidera fare, ma
non ne ha il coraggio”.
Sono da ricordare a questo proposito non solo i casi in cui il terapeuta può
far gestire la propria aggressività al paziente, ma anche i casi in cui il
terapeuta
depresso
può
delegare
i
propri
passaggi
all’azione
anticonservativa e suicidaria al paziente. È sempre preoccupazione
prioritaria di uno psichiatra, responsabile di un reparto di pazienti violenti,
che non vi siano elementi del personale medico e paramedico che si
servano dei pazienti per liberarsi di dinamiche etero ed autoaggressive.
L’identificazione dello psichiatra invece di essere diretta al paziente può
essere deviata alle vittime della violenza. Il terapeuta è così incapace, a
causa di sentimenti di sdegno, rabbia, e vendicatività (identificazione alla
vittima), ad un approccio equilibrato e sereno al paziente violento.
Quando poi la violenza del paziente si accompagna ad una vivace ed
eclatante patologia mentale, lo psichiatra, nel tentativo empatico di
~ 115 ~
comprendere il paziente, può andare incontro al sentimento fortemente
ansiogeno “di essere io stesso ad impazzire o a commettere qualche atto
criminale” (identificazione destrutturante).
È da segnalare che questo breve accenno alle reazioni emotive e
comportamentali di fronte ad un paziente violento concerne non solo lo
psichiatra in prima persona, ma anche tutta l’équipe di trattamento, spesso
in modo più manifesto, profondo e meno cosciente. È indispensabile quindi
per lo psichiatra non solo la coscienza ed il controllo sulle proprie reazioni
emotive, ma anche la capacità di sensibilizzare e formare terapeuticamente
l’équipe, sia in condizioni di emergenza che di trattamento a lungo termine
del paziente violento.
Nell’operatore psichiatrico, infatti, può essere presente un differente livello
di introspezione alle proprie reazioni emotive e comportamentali con il
paziente violento. Questa introspezione può variare da un adeguato
riconoscimento, un’accettazione critica creativa ed un funzionale utilizzo
terapeutico della propria emotività sino, nei casi con ridotta o assente
introspezione, a condurre l’operatore psichiatrico a porre in atto passaggi
all’azione controaggressivi non solo sul paziente, ma anche sul personale
trattante. Nel caso di ridotta o assente introspezione, è d’uopo che
l’operatore psichiatrico sia oggetto di attenzione terapeutica da parte dello
psichiatra
responsabile.
L’intervento
terapeutico,
pur
essendo
individualizzato e variamente integrato, può variare della ventilazione dei
vissuti personali in tema di violenza nell’ambito della terapia di gruppo o, nei
casi più gravi, essere affiancato e corroborato con terapie individuali gestite
dal supervisore dei gruppi della stessa unità di trattamento o, in casi di
incompatibilità, con terapeuti non appartenenti alla stessa unità
~ 116 ~
7.3. VALUTAZIONE E TRATTAMENTO DEL PAZIENTE VIOLENTO A LUNGO
TERMINE
Nell’ambito della valutazione e trattamento del paziente violento a lungo
termine sarà presa in considerazione una “griglia di analisi” (Tab. 6 pag.
149) allo scopo di esaminare la multifattorialità che è alla base dell’agito di
violenza. Questa “griglia” permette di acquisire i dati obiettivi sull’anatomia.

Livello di introspezione (dell’operatore psichiatrico):
Introspezione presente ed adeguata (delle proprie reazioni emotive e
comportamentali);
Introspezione ridotta ed ansia (con vivaci sentimenti di paura, collera,
frustrazione, ecc.);
Introspezione ridotta ed impiego stereotipato dei meccanismi di difesa
dell’ansia (negazione, proiezione, scissione, identificazione, ecc.);
Introspezione assente e passaggio all’azione contro aggressiva sul paziente
e sul personale (sentimenti di colpa, bassa autostima, ecc.);

Livello di intervento (sull’operatore psichiatrico):
Nessun intervento (riconoscimento, accettazione, utilizzazione terapeutica
della propria emotività);
Terapia di gruppo (con il gruppo dei colleghi e del personale);
Terapia individuale (con il supervisore delle terapie di gruppo dell’unità di
trattamento);
Terapia individuale (con un terapeuta non necessariamente della stessa
unità di trattamento) dell’agito violento, sulle caratteristiche cliniche
dell’incontro vittimologico, sulla ricostruzione della violenza passata, sui
fattori statici, situazionali e dinamici del passaggio all’azione e sugli aspetti
~ 117 ~
più squisitamente biologici e psichiatrici del protagonista dell’atto di
violenza.
7.3.1. Dati obbiettivi criminologici
L’esperienza clinica mette in luce che spesso è difficile per l’operatore poter
disporre di dati obiettivi sul comportamento violento e cioè una serie di
informazioni veritiere che permettano la ricostruzione di ciò che è realmente
accaduto. Per queste ragioni è utile che il fatto di violenza venga ricostruito
attraverso diverse fonti.
In primo luogo sono da raccogliere e valutare le verbalizzazioni del
paziente. Quest’ultimo deve essere stimolato a raccontare l’accaduto con
domande dapprima di tipo aperto e vago ed in seguito con richieste di
informazioni sempre più specifiche e chiuse. È utile indagare nel colloquio
con il paziente, non solo la realtà oggettiva del fatto di violenza, ma il
percepito soggettivo del fatto. L’infermiere deve aver cura di mantenere
separate le due verbalizzazioni: quella che il paziente ritiene obiettiva e la
personale interpretazione dell’evento di violenza. Il clinico dovrebbe
ricostruire una sorta di “drammatic script” del comportamento violento nel
quale sono riportate tutte le verbalizzazioni fornite dal paziente: il tempo, il
luogo in cui è avvenuto, le circostanze, gli eventi precedenti, le minacce, le
provocazioni, i pensieri, una accurata descrizione dell’accaduto e delle
conseguenze sulla vittima. Un’attenta esplorazione del passaggio all’azione
comporta altresì la conoscenza di quelli che per il paziente, nel suo
percepito, sono stati gli obiettivi, gli eventi precipitanti, il contesto sociale, i
sentimenti presenti prima, dopo, durante il fatto, le gratificazioni o i vantaggi
legati al comportamento violento. In quest’opera di rilevazione dei dati,
alcuni pazienti forniscono informazioni apparentemente chiare e sincere,
altri pazienti invece risultano apparentemente incoerenti e le motivazioni
all’origine del fatto di violenza paiono incomprensibili.
~ 118 ~
In entrambi i casi le informazioni raccolte dal paziente devono essere
riportate ed attentamente valutate. Non è infrequente che informazioni
apparentemente chiare e sincere omettano, coscientemente o meno,
significative variabili motivazionali, mentre verbalizzazioni che paiono ad un
esame iniziale ed affrettato incoerenti ed apparentemente incomprensibili,
possono contenere importanti elementi per la valutazione del fatto ed il
trattamento.
In secondo luogo, l’esame del fatto di violenza non deve arrestarsi alle
notizie raccolte dal paziente, ma avvalersi delle informazioni provenienti da
numerose fonti. I familiari, i colleghi di lavoro, gli insegnanti, le vittime, la
polizia, i carabinieri, ecc., possono fornire dati obiettivi importanti ai fini
diagnostici e terapeutici, dati che rimarrebbero inaccessibili alla diagnosi e
terapia, se la raccolta si limitasse alle verbalizzazioni del solo paziente.
Procedere ad una corretta identificazione del passaggio all’azione violenta
comporta inoltre una chiara distinzione tra fantasmi, minacce ed agiti.
Spesso lo scenario del comportamento violento è popolato da fantasmi che
il paziente richiama dal proprio “contenitore” di psicopatologia. Ad esempio
in alcuni casi di recidiva di omicidio compiuto da schizofrenici, il paziente ha
ripresentato deliri a contenuto persecutorio, che avevano accompagnato il
primo passaggio all’atto omicidario. In altri casi è il terapeuta ad introdurre
nello scenario i propri fantasmi, frutto di reazioni controtransferali non
adeguatamente riconosciute e valutate. Ad un livello più superficiale di
interpretazione, lo psichiatra può presentare anche pregiudizi non
adeguatamente criticati.
Per quanto concerne le minacce è da segnalare che non sempre
rappresentano la tappa di una progressiva ed ineluttabile marcia verso il
comportamento violento. Le minacce, in particolare quelle prevalentemente
verbali, possono assumere differenti significati: un tentativo di risolvere il
problema (“[…] con le minacce io provoco spavento e timore, così ottengo
~ 119 ~
quanto desidero”); una richiesta di aiuto (“[…] minaccio, così le persone mi
impediranno di commettere un atto irreparabile”); un meccanismo di rinforzo
della volontà del passaggio all’azione (“[...] ho espresso delle minacce
davanti a tutti, ora non mi resta che agire”) ecc.
Inoltre, (soprattutto per i soggetti schizofrenici) è opportuno non trascurare il
significato simbolico che i pazienti possono attribuire alle minacce, come
alle preghiere, alle maledizioni, alle invocazioni, ecc., nel loro significato
magico e paleologico dell’interpretazione della realtà. Non è possibile non
considerare il valore predittivo, mediato dal simbolismo, che le minacce
possono assumere.
Una corretta valutazione e decodificazione delle minacce che il paziente
verbalizza non può prescindere inoltre da una diagnosi tra le “minacce
fredde”, cioè le minacce prive di un investimento emotivo, che devono
essere indagate e approfondite nel colloquio clinico (attraverso le tecniche
di “talk up”) e le “minacce calde”, cioè impregnate dell’affettività del paziente
in un crescendo di ostilità, rabbia, esplosività, che debbono essere
prontamente interrotte e neutralizzate nel corso del colloquio con adeguate
tecniche di intervento (“talk down”).
Per quanto concerne l’agito, è importante definire, come già sottolineato, la
reale ampiezza ed anatomia del comportamento violento, attraverso varie
fonti, descrivendone aspetti quantitativi e qualitativi in modo dettagliato,
come realtà clinica che permetterà di isolare psicopatologie e modalità di
intervento farmacologico e psicoterapico.
7.3.2. Dati obiettivi vittimologici
Ritenere che la vittima di un incontro di violenza sia sempre del tutto
“innocente” e “sana di mente”, e che solo l’autore della violenza sia sempre
ed esclusivamente il solo “colpevole” ed il solo “malato di mente” è una
valutazione che, pur veritiera in alcuni casi clinici, è semplicistica e non
~ 120 ~
rappresenta la complessa dinamica tra autori e vittime di fatti di violenza.
In primo luogo, debbono essere indagati i rapporti autore vittima in relazione
a
specifiche
presenze
di
psicosi.
Si
ricorda
le
possibilità
di
complementarietà psicotiche tra autori e vittime. A questo proposito, sono
da segnalare, ad esempio, i casi di omicidio-suicidio per “patto di sangue”.
Si tratta frequentemente di soggetti schizofrenici paranoidi, che hanno
ucciso vittime affette da grave depressione maggiore che avevano già
tentato il suicidio più volte. Tra il soggetto schizofrenico paranoide (che si
sente perseguitato ed in pericolo di vita) e la vittima (depressa, che
verbalizza idee suicidarie) si stabilisce e si potenzia, con mutua
accettazione, il programma di uccidersi insieme. In genere, però, lo
schizofrenico uccide la persona depressa per poi ferirsi gravemente, e non
si uccide, né nell’immediatezza del fatto né a distanza di anni.
Egualmente i casi di induzione psicotica come nel caso di “folie à deux”, “à
trois”, “à quatre”, ecc., debbono essere oggetto di un attento studio
vittimologico. Inoltre, sono sempre da esaminare i casi di semplice
interpretazione tra specifiche psicopatologie non psicotiche che fra loro
sono “scatenanti”, “detonanti”, ecc. un comportamento violento. Si ricorda
certi comportamenti masochistici della vittima in relazione ad un carattere
narcisistico, violento, sadico- impositivo da parte dell’altro protagonista
dell’evento di violenza.
In secondo luogo, utilizzando lo schema di spettro della malattia, debbono
essere prese in considerazione le varie dinamiche psicologiche alla base
dell’incontro vittima-autore della violenza. Anche nel caso di un autore di
comportamento violento, affetto da psicosi, non possono essere ignorate le
sue relazioni dinamiche con la vittima, che non sempre o esclusivamente
sono legate a sintomi psicotici. Ad esempio, un soggetto schizofrenico
paranoide, quando commette un omicidio, molto raramente passa all’atto
scegliendo una vittima “a caso”, in modo del tutto fortuito. Anche ad un
~ 121 ~
esame superficiale, nella maggior parte dei casi la vittima ha partecipato in
qualche modo alla dinamica di violenza.
Si ricorda a questo proposito alcune tipologie cliniche:
1. La “vittima provocatrice” ha stimolato in modo obiettivo e grave, in più
occasioni, l’aggressività del soggetto schizofrenico. Ad esempio, i padri
violenti ed autoritari che percuotono con oggetti o minacciano con armi il
figlio schizofrenico (in preda a vistosa sintomatologia negativa ed a ritiro
autistico), perché “non vuole lavorare” e non “si comporta bene
socialmente”.
2. La dinamica della “vittima innescata” si verifica quando lo schizofrenico,
in un primo tempo, stimola la reattività aggressiva di numerose possibili
vittime ed in un secondo tempo uccide solo il soggetto che ha reagito con
violenza. Ad esempio uno schizofrenico schizoaffettivo che, provvisto di
arma ed in stato di esaltamento affettivo, si comporta in modo agitato,
invadente ed irrispettoso in un locale pubblico. La vittima molto spesso è
l’individuo che irritato dal comportamento del paziente apostrofa il soggetto
schizofrenico in modo brutale, arrogante e a sua volta lo minaccia
fisicamente.
3. La “vittima recidiva” concerne la tendenza, di certi soggetti, ad una
stereotipata tendenza a ripetere il passato, ponendosi costantemente in
situazioni di pericolosità fisica. Si ricorda ad esempio la frequenza, nei casi
di uxoricidio, del comportamento vittimologico “precipitante l’omicidio”
messo in atto da chi verrà ucciso (victim precipitated homicide): il marito, ad
esempio, che, nel caso di un violento litigio familiare, pone in mano alla
moglie il coltello, la minaccia fisicamente avvicinandosi e poi la stimola e la
provoca a reagire e ad aggredirlo (“Prova ad usare il coltello se hai il
coraggio...”).
~ 122 ~
Sempre nell’ambito dell’approccio vittimologico non può essere ignorato il
fatto che non raramente, nel caso di psicotici protagonisti di atti di violenza,
questi possono essere oggetto di stimolazioni omicidarie da parte di una
terza persona che interviene come un “abile animatore di marionette”,
guidando i fili del rapporto apparentemente diadico tra protagonista attivo e
passivo dell’atto violento. In questo senso, per fornire un ulteriore esempio
clinico, sono da considerare alcune aggressioni ai medici da parte dei
pazienti psicotici.
In questi casi devono essere considerati i ruoli di terze persone quali: altri
medici, infermieri, pazienti, familiari, ecc., che possono aver, in modo più o
meno celato ed informale, stimolato l’agito di violenza. L’infermiere che, ad
esempio, prospetta al paziente che è ordine tassativo del medico che debba
restare in camera di isolamento e che “purtroppo nessuno può discutere gli
ordini dei medici, anche se sono ingiusti o sbagliati”. Questa comunicazione
verbale può essere altresì accompagnata da messaggi non verbali di
disapporvazione e di disitima verso l’autorità medica come intrusiva,
irrispettosa, ed al contempo sono lanciati messaggi di empatia e complicità
con le richieste del soggetto. Questi messaggi, chiamati “esplodi- paziente”
possono facilmente sollevare l’ostilità ed il passaggio all’azione del paziente
contro lo psichiatra.
Egualmente, non pochi episodi di parricidio rappresentano da parte
dell’omicida la realizzazione di messaggi di violenza che provenivano
dall’intero nucleo familiare che era frustrato, umiliato, in ragione di
comportamenti arroganti, provocatori e violenti della vittima. Si ricorda che
l’immagine di questi abili “animatori di marionette”, che si interpongono fra
chi agisce la violenza e chi la subisce, possono operare indipendentemente
dalla presenza o assenza di psicosi nei protagonisti attivi e passivi
dell’episodio più manifesto di violenza.
~ 123 ~
7.3.3. Dati obiettivi anamnestici
La storia del comportamento violento passato riveste un ruolo fondamentale
nell’ambito della valutazione clinica. Frequentemente il comportamento
violento attuale non rappresenta l’episodio unico dell’anamnesi del paziente.
Spesso numerosi episodi di violenza hanno preceduto l’attuale e si sono
ripetuti nel tempo.
Conoscere i precedenti comportamenti violenti permette di individuare:
1. eventuali settori privilegiati di violenza;
2. possibili ripetizioni dinamiche;
3. indizi che possono precedere l’agito violento.
I settori privilegiati di violenza costituiscono le aree di vulnerabilità
soggettiva per cui specifici stimoli possono indurre in un particolare soggetto
un comportamento violento. Alcuni soggetti, ad esempio, possono mostrarsi
particolarmente
vulnerabili
e
manifestare
una
grossolana
reattività
aggressiva nei confronti di problemi legati alla loro sessualità. Altri soggetti
sono particolarmente sensibili a problemi di acquisizione economica. Altri
soggetti ancora reagiscono con violenza solo se è intaccato in modo
prioritario e grave il loro prestigio sociale. Inoltre, questi settori privilegiati
possono essere limitati o estesi.
Ad esempio, un soggetto può adottare un agito di violenza solo nel caso
debba difendere la vita e l’integrità fisica dei propri familiari. Altri soggetti
presentano un settore di violenza molto più ampio e possono, essendo ad
esempio in uno stato di aggressività irritabile a causa di loro specifiche
psicopatologie, passare all’azione violenta nei confronti di stimolazioni
talvolta aspecifiche come un apprezzamento irrispettoso, un motteggio di
spirito, uno sguardo persistente da parte della vittima.
~ 124 ~
Si ricorda infine il ruolo di alcune motivazioni culturali acquisite dall’individuo
attraverso
meccanismi
di
introiezioni
che,
in
particolari
culture,
rappresentano un settore privilegiato di violenza. Ad esempio, nell’ambito
dell’omicidio per vendetta, in Barbagia (Sardegna), il soggetto ha il dirittodovere sotto culturale di uccidere solo in particolari circostanze ed in
conseguenza di un tipo di offese chiaramente codificate e riconosciute da
tutta la popolazione. Rubare e “sgarrettare” (tagliare i tendini degli arti) le
pecore delle greggi può implicare una vendetta omicidaria essendo azione
considerata
offesa
grave.
L’adulterio
invece
non
rientra,
se
non
accompagnato da specifiche aggravanti, nei comportamenti che richiedono
a livello sottoculturale una vendetta di sangue e cioè un omicidio. Al
contrario di quanto precede, l’omicidio della compagna perché adultera è
alla base dei molti delitti in culture in cui è valorizzato ed erotizzato il
rapporto di coppia “onore-pudore”. Egualmente nell’ambito delle sottoculture
criminali esistono specifici comportamenti che possono stimolare agiti
violenti, quali, ad esempio, la chiamata di correo, il tradimento, il vilipendio
di leadership, ecc.
Per quanto concerne la ripetizione di dinamiche violente, e cioè di stessi
schemi di comportamento violento, sono da considerare almeno due
possibili livelli di raccolta dei dati.
In primo luogo, i dati più manifesti e concreti comportamentali. Ad esempio,
vi sono soggetti che usano esclusivamente violenza fisica in rapporto a
“dinamiche abbandoniche”. Questi soggetti mettono in atto una violenta
aggressione distruttiva (“viraggio amore-odio”) nei confronti delle donne
amate che li abbandonano. Altri soggetti reagiscono con particolare
sensibilità in relazione a dinamiche di “accettazione e rigetto dell’autorità” e
quindi indirizzano sempre la loro aggressività verso persone che
istituzionalmente incarnano figure di comando e di potere. Accanto a questa
prima e grossolana ma indispensabile raccolta di schemi ripetitivi, è
doverosa una diagnosi più approfondita basata sui meccanismi psicologici
~ 125 ~
di difesa, sullo spettro di malattia o su veri e propri sintomi psicotici. Nel
primo caso si ricorda l’importanza dei meccanismi psicologici di difesa nel
determinare comportamenti violenti spesso ripetitivi.
L’identificazione di schemi d’agito ricorrenti nella progressiva scalata del
comportamento violento risulta utile, oltre che sul piano diagnostico, anche
su quello terapeutico e preventivo. Paolo Lion (1972) sottolinea l’importanza
di particolari sintomi o segni nell’anamnesi, definiti “indizi neurologici”, quali
la presenza di cefalea, alterazioni dello stato di coscienza, cambiamenti dei
tratti di personalità e delle abitudini sessuali, implicazioni in attività
particolarmente rischiose (come ad es. un’abitudine recente a condurre
pericolosamente l’automobile ad alta velocità), ecc.
Essere in possesso di un’informazione clinica, ad esempio che un
comportamento violento intrafamiliare è preceduto dall’assunzione di
alcolici, da richieste sessuali inadeguate da parte del marito o, per citare un
altro caso, dal rilevamento e la verbalizzazione delle disabilità del coniuge
da parte della moglie in uno stato di aggressività irritabile, ecc., consente
all’operatore di isolare variabili utili non solo alla comprensione della
psicopatologia del caso, ma sfruttabili anche nell’approccio farmacoterapico. Inoltre, questi indizi presentano le caratteristiche di essere
indispensabili in tema di predittività e di prevenzione.
Si ricorda, infatti, a livello di terapia, che è doverosa ed indispensabile una
psicoeducazione dei protagonisti, soprattutto se recidivi, a cogliere, isolare,
neutralizzare, disinnescare, anche attraverso una autosomministrazione
farmacologica, tutti quegli indizi che possono essere poi seguiti, a
prescindere dal tipo di dinamica o dalla presenza di psicosi, da un
comportamento violento.
~ 126 ~
7.3.4. Fattori statici
Nell’ambito dei fattori statici, sono presi in considerazione i dati
biosociologici del soggetto (età, sesso, razza, stato civile, attività lavorativa,
scolarità, ecc.) oltre gli elementi della storia longitudinale riguardanti
l’anamnesi familiare, psichiatrica, medico-chirurgica, i precedenti giudiziari.
In particolare, per quanto concerne l’anamnesi familiare, oltre le
informazioni psichiatriche, particolare importanza riveste la raccolta di
informazioni su situazioni che possono essere legate al comportamento
violento.
A livello psichiatrico, debbono essere messe in luce la presenza di
psicopatologie che possono essere legate a comportamenti violenti (disturbi
di personalità antisociali, disturbi di personalità borderline, ecc.). Sotto il
profilo criminologico è da segnalare che spesso individui violenti
provengono da situazioni familiari “caotiche”, in cui i genitori affetti da gravi
psicopatologie, con problematiche coniugali conflittuali, adottanti agiti
devianti,
sono
incapaci
di
fornire
e
gestire
adeguati
modelli
di
comportamento ai figli. Anche a livello psicosociale sono utili da rilevare i
valori culturali della famiglia e le norme ed i valori concernenti l’espressione,
l’accettazione e le sanzioni legate al comportamento violento.
Fattori poi da indagare, oltre il contesto familiare, sono l’“esposizione alla
violenza” e la “violenza subita”. E’ da segnalare che soggetti che hanno
posto in atto comportamenti violenti presentano non raramente, nella loro
anamnesi, esposizione a fatti di violenza, e cioè hanno assistito, in qualità di
spettatori, a comportamenti aggressivi fisici gravi su persone. Questi
“scenari” di violenza possono essere stati reali: ad esempio, l’aggressione
fisica messa in atto dal padre in stato di ebbrezza alcolica sulla madre
inerme ed indifesa, che è violentemente percossa e ferita con gravi danni
alla propria integrità fisica; oppure l’esposizione alla violenza può essere
stata tale solo nel percepito del soggetto: la visione ad esempio della “scena
~ 127 ~
primaria”, e cioè di un rapporto sessuale tra uomo e donna, può essere
percepita in soggetti molto giovani, in alcuni psicotici, in pazienti con
specifici problemi emotivi, ecc., non come una scena sessuale, ma come
una scena di violenza fisica sul registro di controllo sadico e distruttivo della
vittima.
Nell’ambito dell’approfondimento dell’esposizione alla violenza non possono
non essere esaminati i gradi di implicazione emotiva del soggetto al fatto e
la sua capacità di apprendimento attraverso l’imitazione di schemi
comportamentali d’approccio al reale e di relazioni interpersonali.
Nell’ambito poi della raccolta dei dati in tema di “violenza subita” è da tenere
presente, anche in questo caso, la frequente osservazione che soggetti
autori di violenza sono stati essi stessi vittime in precedenza ed a livello
reale fisico di danni e violenze alla propria integrità fisica. Il tipo di violenza
fisica, soprattutto se in giovane età, può essere stato muscolare, con armi di
offesa naturale (calci, pugni, ecc.), non naturale (bastoni, cinghie, ecc.),
oppure una violenza non muscolare. Tra queste ultime sono da segnalare le
grossolane violenze psicologiche, i casi gravi di negligenza e trascuratezza,
gli abusi sessuali anche se non fisicamente violenti, e numerosi altri generi
di violenza, che caratterizzano ad esempio la “sindrome del bimbo
maltrattato”, ecc.
Non possono non essere valutate anche altre forme più sofisticate di
esposizione alla violenza. Ad esempio, l’influsso criminogenetico sul figlio
da parte delle “madri amanti”. Si tratta di madri cioè che accarezzano troppo
intimamente o si fanno accarezzare in modo voluttuoso e inadeguato dal
figlio, raccontano o si fanno raccontare dettagli morbosi di esperienze
sessuali, manifestano sentimenti di disistima nei confronti dell’altra figura
genitoriale, additandola con linguaggio verbale o non verbale come esempio
di impotenza maschile, di nullità sociale, ecc., mentre valorizzano il figlio
esaltandone le caratteristiche di figura maschile “forte, valida sessualmente,
~ 128 ~
egoista ed affascinante”.
Queste donne non solo esasperano il rapporto seduttivo ed erotico sessuale
col figlio, ma anche distruggono in lui, disprezzando e ridicolizzando il
padre, l’immagine dell’autorità e dell’interdizione. Questa loro educazione
tende a creare, nella vittima, dinamiche aggressive caratterizzate da gravi
turbe nel rapporto di implicazione sessuale eterosessuale con fantasmi di
essere traditi, manipolati, ecc. e continue ribellioni stereotipate e fisicamente
violente ad ogni forma di autorità.
Le conseguenze che derivano da una esposizione alla violenza o da essere
stato vittima di violenze sono molteplici e sono condizionate da numerose
variabili concernenti non solo l’età del soggetto e la durata dell’esposizione,
ma anche differenti meccanismi psicologici di difesa intervenuti. Sebbene
non sia possibile una rigida relazione tra l’esposizione alla violenza e la
violenza subita con la successiva riproduzione attiva del comportamento
violento, è da sottolineare tuttavia la possibilità che una serie di schemi
comportamentali possano, a distanza di tempo, stimolare un ruolo attivo di
comportamento violento nel soggetto.
Accanto a meccanismi psicologici di difesa (quali la formazione reattiva, la
sublimazione, la riparazione, ecc.), che tendono a ridurre la possibilità di un
passaggio all’azione violenta, vi sono altri meccanismi psicologici di difesa
(quali l’identificazione all’aggressore, l’identificazione alla vittima, la doppia
identificazione alla vittima e all’aggressore, ecc.) che possono, a distanza di
tempo, stimolare un comportamento violento.
Inoltre è da sottolineare il ruolo dell’apprendimento per imitazione ed il ruolo
dell’accettazione del comportamento violento per introiezione di valori
culturali e sottoculturali. Questi schemi di violenza possono o meno
accompagnarsi ed integrarsi con disturbi dello spettro di malattia o con vere
e proprie psicosi.
~ 129 ~
L’anamnesi psichiatrica e medico-chirurgica fornisce indicazioni utili sulla
presenza di eventuali patologie e sul ruolo che queste possono avere
nell’eziologia del comportamento violento e saranno approfondite nei fattori
biologici.
Per quanto concerne l’anamnesi sul curriculum giudiziario, è da segnalare
che tra le variabili più importanti, legate alla previsione di un comportamento
violento in futuro, ha priorità significativa la presenza di un comportamento
violento passato, soprattutto se “frequente”, “ingravescente” e “ravvicinato
nel tempo”. Lo psichiatra, tuttavia, non può porre fiducia esclusiva nel
curriculum giudiziario fornito dal casellario giudiziario e nella verbalizzazione
del soggetto o nelle informazioni fornite dai familiari.
Si ricorda che il curriculum giudiziario riporta la criminalità ufficiale che
spesso non è che una minima parte, come quantità e come qualità, di quella
ufficiosa, e cioè da quella realmente messa in atto dal soggetto. La violenza
passata verbalizzata dal paziente può essere volontariamente nascosta,
involontariamente dimenticata e spesso travisata nella sua realtà e nelle
sue dinamiche. Gli stessi familiari sono spesso attendibili in modo molto
differenziato. Risulta non raramente che le madri dei soggetti schizofrenici
(oggetto non solo di lesioni gravi, ma anche di tentati omidici) non hanno
verbalizzato allo psichiatra la violenza messa in atto dal figlio (“Avevo timore
che lo rinchiudeste nuovamente nel reparto di psichiatria”; “Non volevo che
fosse punito e rinchiuso in carcere”; “Mio figlio non voleva farmi del male,
era solo nervoso..., ma è molto dolce e bravo”). Le mogli invece dei soggetti
schizofrenici e violenti tendono in genere a segnalare allo psichiatra con
molta più attenzione e drammaticità i comportamenti aggressivi (“Non è solo
matto, ma è anche molto cattivo e violento”; “Temo per la mia vita”; “È
imprevedibile e può uccidere una persona da un momento all’altro”, ecc.).
Indispensabile quindi per lo psichiatra un’anamnesi, attraverso varie fonti,
che fornisca il più possibile un quadro reale dell’anamnesi di violenza del
soggetto.
~ 130 ~
7.3.5. Fattori situazionali
Poter isolare una sola causa eziologica del comportamento violento
(biochimica, organica, psicologica, psichiatrica, ecc.) allo stato attuale delle
conoscenze scientifiche non è possibile.
Per questo motivo il modello di approccio alle dinamiche di violenza nella
loro globalità non è basato su di un “unico nesso causale”, ma sulla ricerca
di una “costellazione di fattori” che variamente interagendo tra loro possono
dare origine ad un comportamento violento. Questa visione eziologica
attuale ed operativa del comportamento violento porta a riconsiderare con
attenzione il ruolo della causalità nell’ambito del comportamento violento in
relazione, in particolare, a specifici fattori situazionali.
A livello clinico concreto non può essere ignorata la “teoria della catastrofe”
che mette in luce, in certe dinamiche di violenza, l’importanza di tutta una
serie di variabili che da sole non sono in grado di agire, ma sommandosi
l’una all’altra hanno un valore determinante: “le gocce che fanno traboccare
il vaso”. Queste variabili concernono tanto la struttura psichica del soggetto
quanto i fattori situazionali. Si ricorda che “il violento non si agita solo ed
esclusivamente nel vuoto della sua patologia psichica”, ma è sempre in
contatto, seppur ridotto o distorto, con la realtà del mondo.
Tra i fattori situazionali si possano ricordare, in primo luogo, tutte quelle
variabili cliniche che accentuano, esasperano, sintomatologie di tipo
psicotico o di disturbo della personalità, e che possono essere legate ad
agiti violenti. Per comprendere alcuni comportamenti violenti intrafamiliari
messi in atto da soggetti schizofrenici, è importante invocare l’alta emotività
espressa di alcuni nuclei familiari. La stimolazione ipercritica, continua ed
esasperata a mobilizzarsi nel sociale, nei confronti di un soggetto
schizofrenico con sintomatologia negativa, depresso, autistico, ecc., non
può che provocare una violenta risposta di quest’ultimo sulla base della
vivace aggressività reattiva di difesa e profonda angoscia di affrontare le
~ 131 ~
relazioni interpersonali.
Egualmente, citando un altro esempio, le azioni iperprotettive della madre
possono essere percepite come soffocanti, intrusive e destrutturanti da
parte del figlio schizofrenico e possono portare quest’ultimo a stati di
“panico fusionale” con possibilità di esitare in matricidio. Inoltre, in certi
soggetti schizofrenici paranoidi la massiva ostilità verbalizzata e agita dal
microambiente, come risposta a loro contenuti persecutori e paranoidei, può
innescare un volano di aggressività e violenza fisica e reciproco sospetto e
rivendicazione quasi in un meccanismo di “paure e profezie autoalimentate”.
Tra i fattori situazionali sono altresì da annoverare tutte le variabili che
possono cristallizzare il malessere dei pazienti in una psicosi o disturbo
della personalità. Hanno questo significato, ad esempio, numerose
dinamiche legate al sentimento di perdita che sono stimolate e suscitate da
fattori situazionali. La perdita, ad esempio, della propria compagna, di
un’attività di lavoro, della propria abitazione, della libertà per un
imprigionamento o per un ricovero, ecc., possono, attraverso dinamiche
complesse, non necessariamente elaborate solo su un piano depressivo,
assumere il significato di variabile scatenante agiti violenti.
Questi comportamenti violenti, legati al sentimento di perdita, nel solo
aspetto più esteriore, superficiale e manifesto possono apparire in relazione
ed in modo esclusivo a motivazioni psicosociali (aggressività di difesa, di
territorio, di maternità, di leadership) o a motivazioni squisitamente
psichiatriche (deliri a contenuti persecutori, rapide oscillazioni dello stato
affettivo, stati ipomaniacali o maniacali). È utile segnalare, per poter
formulare un’adeguata diagnosi differenziale, che non tutti i deliri
persecutori,
le
variazioni
dell’umore
e
gli
esaltamenti
affettivi
si
accompagnano ad agiti violenti sulla persona: l’operatore non può esimersi
dal ricercare motivazioni più specifiche legate al comportamento violento.
~ 132 ~
Oltre la valutazione dei fattori situazionali scatenanti, è altresì da
considerare il “grado di socializzazione del comportamento aggressivo. Si
ricorda che ogni individuo, psicotico e non psicotico, organizza la propria
esistenza tra le altre persone, e cioè in un contesto sociale, col quale vi è un
profondo e complesso, continuo intrecciarsi di interazioni. Il tessuto sociale,
se da un lato è causa di aggressività interpersonale, d’altro canto permette
anche di scaricare, canalizzare e spesso neutralizzare cariche e tendenze
aggressive senza necessariamente ricorrere a comportamenti violenti fisici
su persone, animali od oggetti, socialmente riprovati o non tollerati.
Queste constatazioni sono di primaria importanza per la scelta delle terapie
nel comportamento violento. Non è infatti possibile, in linea generale,
eliminare dalla vita del paziente ogni forma di frustrazione ed aggressività
che ne deriva, ma è possibile aumentare nel soggetto la soglia di tolleranza
della frustrazione e permettere di manifestare l’aggressività in forme
socialmente più adeguate ed accettabili.
Accanto a questi provvedimenti squisitamente psicoterapici non possono
non essere adottati gli adeguati provvedimenti specifici farmacoterapici. Si
ricorda, ad esempio, la necessità assoluta e costante di un intervento
farmacologico in pazienti schizofrenici paranoidi con delirio a contenuto
persecutorio, vivaci movimenti affettivi, presenza di “minacce calde” che
tendono ad aumentare di intensità, ecc. Si tratta di pazienti in cui la soglia di
tolleranza alla frustrazione è assai ridotta e la presenza di un continuo stato
di aggressività irritabile e aspecifico non può che essere sedato, abbassato
e neutralizzato con un’adeguata terapia farmacologica.
Per quanto concerne l’insufficiente socializzazione che può stimolare il
comportamento violento, si ricorda che questa può essere dovuta a
molteplici cause.
Tra le cause organiche si ricorda, ad esempio, un pregresso traumatismo
cerebrale, che può impedire una corretta e adeguata lettura della realtà ed
~ 133 ~
al contempo può accompagnarsi ad un’abnorme tendenza al passaggio
all’azione con l’impossibilità di gestire e di mentalizzare i sentimenti,
soprattutto quelli ansiogeni.
Tra le cause psicosociali si segnala, ad esempio, in alcuni delinquenti
sessuali violenti, non necessariamente psicotici, gravi disabilità sociali
(carenze del “know how”). Un gran numero di questi soggetti violenti per
cause primariamente situazionali mancano della capacità tecnica di
corteggiare e sedurre persone di sesso differente e di mantenere relazioni
sociali che richiedono una certa destrezza ed abilità sociale (ad es. la
capacità di mentire, la disimplicazione emotiva, la falsa accettazione
formale, ecc.). Si tratta di soggetti ad adattabilità sociale assai debole con
un comportamento deviante ad alta visibilità e riprovazione sociale, nella cui
psicoterapia, sostitutiva di una socialità carente prevalentemente per fattori
situazionali, non possono essere ignorate le tecniche riabilitative di
apprendimento di abilità interpersonali più sviluppate, adeguate al reale ed
a specifiche funzioni sociali.
I fattori situazionali, talvolta indispensabili per un quadro completo delle
genesi del comportamento violento e della sua terapia e prevenzione, non
autorizzano
lo
specialista
ad
indebite
“sociologizzazioni”
o
“psicologizzazioni” di comportamenti che trovano eziologia primaria in
specifiche psicopatologie di ordine psichiatrico, seppur sfumate in spettri di
malattia o integrate in specifiche comorbilità.
7.3.6. Fattori dinamici
Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche non è possibile tracciare una
obiettiva ed esauriente patofisiologia di struttura e di funzione del
comportamento violento. In attesa di ridurre questa lacuna, è tuttavia
possibile, sotto il profilo clinico prendere atto di specifiche dinamiche che si
rivelano utili anche sotto il profilo farmaco e psicoterapico. Queste
dinamiche possono, in primo luogo, essere legate nella modulazione del
~ 134 ~
passaggio all’atto violento, ad una patologia mentale di tipo francamente e
specificatamente psicotico.
Ricordiamo ad esempio l’“omicidio per condensazione” ad opera del
soggetto schizofrenico (Nivoli,1975). Si tratta di quei casi in cui il soggetto
uccide due vittime pur essendo sua intenzione omicidaria verbalizzata
uccidere una sola persona. Il paziente non ricorda di avere ucciso la
seconda vittima e non riesce a motivare percepiti o realtà che possono
giustificare l’altro omicidio. Solo dopo approfonditi colloqui clinici è possibile
mettere in luce che la seconda vittima è stata inglobata attraverso il
meccanismo della condensazione (come agisce nel sogno) con la prima
vittima, con la quale presentava nel vissuto del paziente specifiche
comunanze.
Sempre nel soggetto schizofrenico che compie un omicidio, può essere
messo in luce il fenomeno della “concretizzazione del persecutore” (Nivoli,
1975). Il paziente da uno stato generico vago ed inquietante di “mutamento
pauroso” della percezione della realtà nei confronti di tutte le persone, può
bloccare e localizzare specifici contenuti persecutori su una sola persona,
che diventerà la vittima prescelta. Si verifica (come nell’arte letteraria) una
“concretizzazione” di uno stato d’animo caratterizzato da vivace sofferenza
su di un oggetto o su di una persona (“Tutto il destino e la vita sono contro
di me”, “Tu che sei il mio vicino di casa sei contro di me e sei l’unica causa
dei miei guai”).
Questi fattori dinamici (condensazione, concretizzazione, ecc.) non solo
permettono di aumentare le conoscenze dell’agire violento del soggetto
schizofrenico (sarebbe troppo semplicistico e non rispettoso del reale per lo
psichiatra fermarsi a constatare che lo schizofrenico è sempre del tutto
“imprevedibile” ed “incomprensibile” nel suo agire violento), ma anche
forniscono punti di repere, anche se non esaurienti e non appartenenti al
registro di causalità, per ipotesi di comprensione e provvedimenti pratici, per
~ 135 ~
la prevenzione e la terapia del comportamento violento su di un registro
squisitamente psicotico.
Nei disturbi di personalità, egualmente, sono note dinamiche specifiche di
violenza; ad esempio nelle personalità borderline in cui le relazioni
interpersonali sono spesso in bilico tra fusione e fuga, la presenza
dell’“angoscia simbiotica” può essere una tra le dinamiche prioritarie sulle
quali si instaura il comportamento violento. Alcuni soggetti maschili
borderline se fortemente stimolati da una compagna, il cui approccio sociale
è di tipo non solo esigente e dipendente, ma di tipo
divorante-
abbandonico, possono scompensarsi e passare all’atto distruttivo e violento
sulla compagna percepita così pericolosamente destrutturante.
I fattori dinamici spaziano quindi a livello più manifesto clinico dal campo
squisitamente psicotico a quello più squisitamente socio-culturale. I variabili
psichiatriche e psicosociali sono supporti che modulano il passaggio
all’azione violenta, ma che non possono avere prioritarie ed esclusive
pretese di causalità in senso stretto.
7.3.7. Aspetti biologici (segni)
Nell’ambito di una valutazione del comportamento violento, notevole
importanza acquista l’esame di fattori biologici a causa delle implicazioni
che “l’organicità” ha nell’eziologia, nel trattamento, nella prognosi del
comportamento violento.
L’esame dei fattori biologici si differenzia per tempi e modalità. In situazioni
di emergenza in presenza di un paziente violento (di cui verosimilmente non
si conosce la storia clinica), l’apparenza generale, la postura, l’andatura, il
linguaggio, gli odori, le pupille, la respirazione, la lacrimazione, le condizioni
della pelle, ecc., sono elementi da osservare direttamente al primo contatto.
I segni vitali devono essere immediatamente rilevati, subito dopo
l’ammissione e monitorizzati successivamente, considerato che un primo
~ 136 ~
esame risulta necessariamente incompleto (a causa delle problematiche
legate alla sicurezza, alla scarsa collaborazione del paziente, alla scarsa
disponibilità di tempo) e che le condizioni del paziente possono subire delle
rapide modificazioni.
Inoltre, particolare attenzione deve essere posta alla eventuale presenza di
segni che testimoniano la presenza di una sindrome mentale organica
(intossicazione, astinenza, delirium, allucinazioni, ecc.). I segni clinici di una
intossicazione ad esempio comprendono disartria (nell’intossicazione da
alcool, barbiturici, fenciclidina), incoordinazione ed instabilità nell’andatura
(nell’intossicazione
da
alcool,
barbiturici
e
allucinogeni),
nistagmo
(nell’intossicazione da alcool, barbiturici, fenciclidina), dilatazione delle
pupille
(nell’intossicazione
da
amfetamine,
cocaina,
allucinogeni),
sudorazione (nell’intossicazione da amfetamine, cocaine, allucinogeni),
tachicardia (nell’intossicazione da amfetamine, cocaina, allucinogeni,
anticolinergici), ecc.
La valutazione dei fattori biologici riveste un duplice significato: da una parte
fornisce delle utili informazioni sulle eventuali cause del comportamento
violento; dall’altra fornisce indicazioni sulle misure terapeutiche utilizzabili in
termini di sicurezza per il paziente. In situazioni di non emergenza, quando
si intraprende un processo diagnostico in funzione di una piano di
trattamento mirato, la valutazione dei fattori biologici procede anche con
l’ausilio di esami di laboratorio, strumentali e psicometrici.
Le condizioni organiche associate ad un comportamento violento sono
numerose: uso di specifici farmaci (Tab. 7 pag. 150), abuso di sostanze,
patologie del SNC (Tab. 8 pag. 150) e patologie sistemiche (Tab. 9 pag.
151) (con secondaria compromissione del SNC).
La relazione tra abuso di sostanze (alcool, droghe, ecc.) e comportamento
violento è condizionata da numerose e complesse dinamiche, alcune ad
“impronta” strettamente organica (quali fenomeni legati all’intossicazione
~ 137 ~
idiosincrasica, alla sindrome di astinenza, alle patologie correlate, ecc.),
altre più specificamente legate ad elementi socioculturali (ad es.
i
comportamenti
tossicodipendenti).
violenti
In
legati
alla
sottocultura
particolare,
per
quanto
deviante
concerne
dei
l’alcool,
l’intossicazione può essere associata ad un comportamento violento come
risultato, soprattutto nella fase iniziale, della disinibizione associata alla
labilità emotiva ed alla diminuita capacità di critica. Un comportamento
violento può verificarsi anche in individui che hanno introdotto minime
quantità di alcool come risultato di una intossicazione idiosincrasica.
Infine un comportamento violento può verificarsi nella sindrome di astinenza
(associato a numerosi sintomi organici) come risultato di una grave
disorganizzazione del comportamento o in risposta ad allucinazioni
minacciose.
La cocaina, introdotta per via nasale, inizialmente produce un effetto
euforizzante. Un uso prolungato, per via endovenosa o inalatoria (fumata
come crack), produce un viraggio dell’euforia in un sentimento di
grandiosità, con agitazione psicomotoria, sospettosità e frequentemente
violenza. Successivamente, l’uso prolungato “trasforma” la sospettosità in
ideazione paranoidea e quindi in attività delirante. Il comportamento violento
può essere correlato ad attività delirante associata alla iperstimolazione
della cocaina. L’astinenza da cocaina è più frequentemente associata ad
una fase depressiva piuttosto che ad un comportamento violento; tuttavia,
dopo un uso prolungato, quando vi è una grave compromissione del
contenuto del pensiero, un comportamento violento può essere il risultato di
una ideazione paranoidea, associata all’irritabilità ed alla agitazione
psicomotoria causate dalla cocaina.
Un intenso e prolungato uso di amfetamine può produrre, oltre un
sentimento di benessere, alterazioni del contenuto e della forma del
pensiero (ideazione paranoidea, disorganizzazione ed incoerenza del
~ 138 ~
pensiero) ed agitazione psicomotoria. Il comportamento violento può essere
strettamente correlato a tali condizioni. Anche la sindrome di astinenza da
amfetamine è spesso associata a depressione ed insonnia, sebbene la
presenza di agitazione psicomotoria ed ideazione paranoidea possano
produrre un comportamento violento.
Gli allucinogeni quali LSD, DMT, mescalina possono stimolare ideazione
delirante,
alterazioni
depersonalizzazione,
della
percezione
derealizzazione,
(quali
illusioni
sentimenti
ed
di
allucinazioni
prevalentemente visive) ed ansia marcata. Un comportamento violento può
essere correlato a tale sintomatologia e manifestarsi durante la fase di
intossicazione sebbene non sia frequente.
Nel corso di intossicazione da fenciclidina (PCP), invece, il comportamento
violento, associato ad impulsività e marcata compromissione della capacità
di critica è molto più frequente e può manifestarsi nell’arco di un’ora
dall’assunzione orale (nell’arco di cinque minuti se l’assunzione avviene per
via inalatoria, attraverso il fumo, o endovenosa). Dopo un uso prolungato di
allucinogeni, possono persistere elementi di psicopatologia residuali, che
possono associarsi a comportamenti violenti.
L’intossicazione da sostanze inalanti (collanti, vernici, ecc.) può essere
caratterizzata da diminuzione della capacità critica e comportamento
violento.
Per quanto concerne i farmaci, è importante valutare qualsiasi modifica,
interruzione, inizio di terapia psicofarmacologica. La regolare assunzione
deve essere confortata dalla testimonianza dei familiari o del personale
addetto alla somministrazione. Sono notevoli le implicazioni, in termini di
trattamento e prevenzione del comportamento violento, che comporta una
adeguata valutazione della “compliance” del paziente (nei confronti della
terapia) e del rapporto medico-paziente. Il vissuto del paziente nei confronti
della terapia farmacologica (“un veleno che uccide” ovvero “un farmaco
~ 139 ~
miracoloso”) consente di decodificare le ansie, le paure, le aspettative che il
paziente ha nei confronti della terapia e permette mirati adeguamenti
farmacologici.
Inoltre eventuali effetti collaterali e/o avversioni, sindromi di astinenza,
reazioni
idiosincrasiche,
interazioni
farmacologiche
dei
farmaci
(psicofarmaci e non) devono essere presi in considerazione come possibili
fattori eziologici di un disturbo mentale organico (intossicazione, delirium,
delirio, ecc.) strettamente correlato ad un comportamento violento. In
particolare, alcuni farmaci quali gli steroidi e gli anticolinergici (a causa di
intossicazione o di effetti collaterali) possono stimolare un comportamento
violento.
È da segnalare infine che l’acatisia da neurolettici può essere interpretata
come “agitazione” e trattata con una dose aggiuntiva di neurolettico
favorendo la comparsa di un comportamento violento e l’instaurazione di un
circolo vizioso. L’intossicazione da sedativi o ansiolitici può stimolare un
comportamento violento, attraverso un meccanismo di disinibizione
associato a labilità emotiva e diminuzione della capacità di critica. La
sindrome da astinenza da ansiolitici e sedativi (soprattutto quando vi è una
brusca sospensione dopo una prolungata assunzione di alte dosi di farmaci)
può essere associata ad un comportamento violento a causa della notevole
irritabilità ed agitazione psicomotoria che seguono alla sospensione. Da
segnalare il possibile “effetto paradosso” delle benzodiazepine nello
scatenare comportamenti disinibiti e dissociali.
Le patologie primarie del SNC associate ad un comportamento violento
sono numerose (Tab. 8 pag. 154). Epilessia, traumi cranici, infezioni
intracraniche, lesioni occupanti spazio, disturbi cerebrovascolari, malattie
degenerative, malattia di Wilson, sclerosi multipla, AIDS, ecc. possono
costituire l’elemento eziologico di una condizione psichiatrica (delirium,
demenza, ritardo mentale, allucinosi, disturbo organico di personalità,
~ 140 ~
disturbo organico delirante, disturbo organico dell’affettività, ecc.) associata
al comportamento violento.
Nell’ambito delle patologie del SNC l’epilessia merita una particolare
menzione. In un soggetto epilettico il comportamento violento può verificarsi
nella fase critica, postcritica, intercritica. Un comportamento violento nella
fase critica (ad es. come risultato di un automatismo nell’ambito di una
epilessia parziale complessa) è possibile, sebbene raro e di tipo omissivopassivo. Un comportamento violento nella fase critica delle altre forme di
epilessia è decisamente molto raro (in uno studio vengono segnalati 5 casi
su un totale di 5.400 pazienti)]. Nella fase postcritica il comportamento
violento può costituire parte di un prolungamento dello stato confusionale.
Un comportamento violento durante la fase intercritica in pazienti con
epilessia del lobo temporale è possibile.
Il concetto, tuttavia, di “personalità epilettica esplosiva” della fase intercritica
con
aumentata
tendenza
al
passaggio
all’azione
violenta
rimane
controverso (Balis, Monopolis, 1986), sebbene pazienti con epilessia
parziale complessa e focus di irritazione nel lobo temporale presentino un
maggior rischio di discontrollo degli impulsi associato ad irritabilità ed
esplosività.
Le malattie sistemiche (che comportano una compromissione secondaria
del SNC) associate ad un comportamento violento sono numerose
(Tab. 9 pag. 151). Tali patologie includono squilibri elettrolitici, ipossia,
malattie epatiche, malattie renali, deficienze vitaminiche (soprattutto
vitamina B12, folati e tiamina), infezioni sistemiche, ipoglicemia, morbo di
Cushing, ipertiroidismo, ipotiroidismo, lupus eritematoso sistemico, porfiria,
avvelenamento da metalli pesanti, insetticidi o altre sostanze, ecc. (Balis
1983; Tardiff, 1989).
L’abuso di sostanze, le patologie del SNC, le patologie sistemiche (con
compromissione secondaria del SNC) possono costituire la base eziologica
~ 141 ~
di un disturbo mentale organico con sintomi quali delirium, demenza,
allucinazioni, alterazioni dello stato di coscienza, ecc., che possono essere
in stretta relazione ad un comportamento violento. In presenza di un
paziente violento l’esame clinico (confortato da esami strumentali e di
laboratorio, screening di rilevamento sostanze, ecc.) deve primariamente
escludere la presenza di una patologia organica correlata al comportamento
violento e solo successivamente può essere presa in considerazione
l’esistenza di una patologia psichiatrica.
7.3.8. Aspetti psichiatrici
Il comportamento violento, come il comportamento suicidario,allo stato
attuale delle conoscenze, non trova un’unica causa eziologica in problemi
psichiatrici. Le persone che uccidono, si suicidano, aggrediscono
fisicamente altri, non presentano tutte malattie di interesse psichiatrico
obiettivamente documentate e precise indicazioni a terapie farmacologiche.
Per questa ragione è indispensabile che lo specialista consideri la
“diagnosi” e la “terapia psichiatrica” come un aspetto del capitolo più
importante che è la “valutazione” e “trattamento” (o “gestione”) del
comportamento violento.
Nella valutazione e trattamento del comportamento violento deve essere
considerata la presenza, o meno, di una diagnosi psichiatrica e la sua
terapia, ma anche devono essere valutati gli aspetti biologici, psicosociali,
vittimologici e criminologici del soggetto violento per poterne effettuare una
valutazione globale più completa ed un trattamento, a livello
di
neutralizzazione e di prevenzione, adeguato alla realtà.
Nell’ambito, tuttavia, della diagnosi e terapia psichiatrica, a causa delle loro
relazioni col comportamento violento, sono in particolare da considerare la
schizofrenia, il disturbo paranoide di personalità, la paranoia, la mania, la
depressione, il ritardo mentale, i disturbi di personalità.
~ 142 ~
Nell’ambito della schizofrenia, è da sottolineare l’importanza dei deliri,
soprattutto a contenuto persecutorio e di influenzamento, delle allucinazioni
imperative, delle allucinazioni uditive a contenuti umilianti, dell’aggressività
irritabile, nel corso di scompenso con agitazione psicomotoria o di acatisia,
ecc.
È da rilevare che nessuno di questi sintomi da solo è responsabile del
comportamento violento.
Tuttavia, se il sintomo psichiatrico, ad esempio un delirio di persecuzione,
non è “isolato” ma si trova “associato” ad altre psicopatologie (vivace stato
di agitazione psicomotoria, insonnia nei giorni precedenti, passaggi all’atto
con tentativi suicidari, sentimenti di “mutamento pauroso” della realtà, ecc.),
il suo valore concausale nello scatenare il comportamento violento deve
essere valutato con molta più attenzione e specificità.
È da segnalare, inoltre, la necessità di considerare nell’ambito della
schizofrenia, non solo la psicosi conclamata ma anche gli spettri fenotipici
della psicopatologia schizofrenica, tra cui ad esempio tutti i fenomeni legati
all’inquietante estraneità, al mutamento pauroso del mondo, ai fenomeni di
depersonalizzazione e di derealizzazione, ecc.
È da rilevare, inoltre, che anche nel caso della diagnosi psichiatrica di una
grave schizofrenia deve essere sempre considerato il modello tipico della
“diatesis stress”, in cui esiste cioè nel soggetto, indipendentemente dal tipo
e dalla presenza di psicosi, uno specifico substrato costituito da una
costellazione di fattori biologici, ambientali e culturali, in cui il soggetto ha
appreso ed accettato modalità di comportamento violento come risoluzione
dei conflitti (Silverton, 1988).
Nell’ambito dei disturbi paranoidi e di personalità paranoide, paranoicali,
sono da considerare, in particolare, i contenuti rivendicatori, persecutori, di
grandezza, di gelosia, in particolare, quando si accompagnano a comorbilità
~ 143 ~
con disturbi dell’umore a carattere ciclico ed in particolare ipomaniacale.
Nell’ambito del paziente maniacale, è da considerare la presenza
dell’agitazione psicomotoria, dell’aggressività irritabile, della incontrollata
iperattività, dell’intolleranza ai limiti sociali, di attività deliranti a contenuti
persecutori e di grandezza. In genere si tratta di comportamenti violenti
posti in essere senza premeditazione e senza obiettivi specifici.
La
depressione
riveste
una
grande
importanza
nello
scatenare
comportamenti violenti. La depressione (a livello più manifesto di psicosi:
sentimento di perdita di speranza, di impossibilità di ricevere aiuto, di
temporalità bloccate, ecc.) può accompagnarsi a comportamenti omicidari e
suicidari.
Infine, si pone in luce l’effetto dell’esposizione alla violenza per quanto
concerne uno schema di apprendimento e di “modeling” di passaggi
all’azione violenti. La depressione non psicotica, spesso non facilmente
diagnosticabile, non raramente è alla base di numerose dinamiche di
violenza (in particolare legate al concetto di “perdita” e di “separazione” e di
“dinamiche abbandoniche” reali o fantasmatiche).
Nel ritardo mentale, il comportamento violento può essere legato a
dinamiche di risentimento, invidia, acquisitive, ecc., che si accompagnano a
scarsa capacità di gestire abilità sociali nei rapporti interpersonali e disturbi
cognitivi di comprensione della realtà. Possono coesistere comorbilità per
spunti paranoidei rivendicativi (esasperazioni di dettagli oligofrenici di propri
diritti, ricerca di un capro espiatorio alle frustrazioni, ecc.); stati dissociativi
(alterazioni
degli
istinti,
dell’igiene
corporale,
della
nutrizione,
vagabondaggio, richieste assurde sotto il profilo economico e sessuale,
ecc.); disturbi dell’umore (stati ipomaniacali o ciclici, tendenze alla
dromomania, ecc.).
~ 144 ~
Nei deficit dell’intelligenza, legati a traumatismi cranici, è spesso presente
una vistosa aggressività irritabile e deviazioni degli istinti, in particolare
dell’istinto sessuale.
I disturbi di personalità possono essere legati al comportamento violento, in
particolare
il
disturbo
esplosivo
intermittente
(violenza
episodica
sproporzionata allo stimolo frustrante, presenza di rimorso, presenza di
sentimento di colpa, ecc.); il disturbo di personalità antisociale (violenza
frequente e costante, assenza a livello manifesto del sentimento di colpa e
di rimorso, ecc.); il disturbo di personalità borderline (violenza di tipo
impulsivo,
frequente,
non
specifica,
intramezzata
a
problemi
più
squisitamente psichiatrici con disturbi all’identità, manipolazione affettiva del
microambiente, ecc.).
I comportamenti violenti nei disturbi di personalità possono presentare
numerose variabili individuali e devono essere valutati dall’operatore anche
in relazione a specifici schemi di comportamento violento che possono
essere stati appresi dai pazienti che hanno avuto contatto con istituzioni
carcerarie, organizzazioni criminali, sottoculture della violenza (per quanto
concerne
l’apprendimento
di
modelli
nella
gestione
dei
rapporti
interpersonali).
Livelli di indagine questi ultimi, psichiatrico e criminologico, che non
escludono nei vari disturbi di personalità l’esame di un terzo livello e cioè di
quella psicopatologia trasversale, presente in numerosi psicotici, in disturbi
di personalità ed in soggetti anche non malati di mente (ad es. il panico
omosessuale
o
pseudo-omosessuale;
l’incapacità
di
mentalizzare
sentimenti con necessità di passare all’azione, ecc.), che rappresentano
elementi
di
particolare
e
specifico
interesse
nello
scatenare
il
comportamento violento. È inoltre da rilevare che i disturbi di personalità
possono associarsi a psicosi e possono essere variamente embricati tra di
loro.
~ 145 ~
Per quanto concerne la patologia psichiatrica dell’adulto, è da segnalare
l’utilità nell’anamnesi psichiatrica di patologie preesistenti in età giovanile.
La presenza infatti nell’adolescenza di disturbi della condotta, deficit
dell’attenzione con iperattività, comportamenti oppositivi, ecc. può meglio
chiarire diagnosi e prognosi del comportamento violento nell’adulto. Ad
esempio un disturbo della condotta in età adolescenziale può poi
configurare il quadro clinico di un disturbo di personalità antisociale nell’età
adulta, ove i comportamenti violenti si sono stabilizzati o modellati in
specifici ambienti criminogenetici.
~ 146 ~
Tab.1 - Struttura dell’ambiente fisico per il colloquio con il paziente violento







Ambiente fisico con doppia uscita
Posizione dello psichiatra tra il paziente e la porta d’uscita
Presenza di un dispositivo d’allarme nascosto ed accessibile
Assenza di oggetti utilizzabili come armi
Reperibilità di oggetti soffici da difesa
Controllo visivo da parte del personale
Presenza costante di un responsabile del piano di intervento
d’urgenza
Tab. 2 - Modalità di prevenzione della violenza nel colloquio psichiatrico
in emergenza.
• Segnalazione allo psichiatra dal personale d’accettazione delle
caratteristiche cliniche del paziente
• Assenza di abbigliamento vittimogeno sullo psichiatra
• Mantenimento della distanza di sicurezza tra psichiatra e paziente
• Controllo visivo costante, diretto o indiretto, dei movimenti del paziente
• Impiego delle adeguate tecniche di avvicinamento ed allontanamento
dal corpo e dal territorio del paziente
•
Apprendimento delle più semplici tecniche di difesa dal contatto
involontario e violento con il paziente
~ 147 ~
Tab. 3 - Fattori che riducono il numero, il tempo e le recidive della
contenzione e dell’isolamento del paziente violento.
• Adeguate tecniche di ascolto e di comunicazione col paziente
•
Riconoscimento dei segni premonitori di violenza e la loro
neutralizzazione
•
Introspezione
e
verbalizzazione
in
gruppo
dei
sentimenti
controtransferali legati alla violenza
• Tipo, dose, modalità di somministrazione del farmaco adeguato ai
sintomi psichiatrici
• Monitoraggio fisico e psichico continuo del paziente in contenzione ed
isolamento
• Ventilazione di gruppo frequente e periodica dei vissuti soggettivi legati
al progetto terapeutico del paziente
• Riabilitazione specifica del paziente mirata al comportamento violento
Tab. 4 - Intervento verbale in emergenza.
• Mantenere un aspetto mimico e posturale di calma
• Offrire il massimo di visibilità ai movimenti
• Parlare lentamente ed a basso volume
• Pronunciare frasi chiare, corte, semplici, neutre e concrete
• Facilitare l’espressione verbale del paziente
• Ascoltare mostrando sempre attenzione e rispetto
• Non mantenere a lungo lo sguardo diretto negli occhi del paziente
• Non assumere atteggiamenti verbali, mimici o posturali, intimidatori,
provocatori, ironici
• Non esprimere interpretazioni, giudizi o promesse non mantenibili
~ 148 ~
Tab. 5 - Intervento sul paziente che minaccia con un’arma.
• Esposizione del minimo numero di persone al rischio
• Uniformità di comportamento di calma accettante
• Stimolazione del dialogo e del rapporto personale
• Dilazione temporale empatica e giustificata delle richieste inadeguate
• Applicazione di specifiche tecniche di neutralizzazione:
1. utilizzazione del narcisismo e dilazione dell’agire
2. implicazione del garante e riduzione dell’ansia
3. aggancio emotivo e valorizzazione del dialogo
4. effetto umanizzante ed inibizione dell’agito
5. creazione del nemico esterno comune ed empatia
6. accettazione del significato di difesa dell’arma
7. dissociazione dei linguaggi ed effetto contenitore
8. evitamento di indentificazioni dolorose del paziente alla vittima o
all’aggressore
Tab. 6 - Griglia di analisi per la valutazione ed il trattamento a lungo
termine del paziente violento.
• Dati obiettivi criminologici
• Dati obiettivi vittimologici
• Dati obiettivi anamnestici
• Fattori statici
• Fattori situazionali
• Fattori dinamici
• Aspetti biologici
• Aspetti psichiatrici
~ 149 ~
Tab. 7 - Sostanze (uso ed abuso) correlate al comportamento violento.







Alcool Intossicazione ed astinenza
Cocaina Intossicazione ed astinenza
Amfetamine Intossicazione
Allucinogeni Intossicazione (fenciclidina)
Inalanti Intossicazione
Sedativi ed ansiolitici Intossicazione ed astinenza
Altri farmaci Intossicazione (ad es. steroidi)
Tab. 8 - Patologie del SNC associate al comportamento violento.
• AIDS
• Alterazioni elettroencefalografiche subcliniche
• Corea di Huntington
• Epilessia
• Idrocefalo
• Infezioni (encefaliti virali, meningite da TBC, sifilide, ecc.)
• Malattia di Alzheimer
• Malattia di Parkinson
• Malattia di Pick
• Malattia di Wilson
• Malattia multinfartuale
• Patologie cerebrovascolari
• Sclerosi multipla
• Stati post-anossici e post-ipoglicemici
• Trauma cranico
• Tumori
~ 150 ~
Tab. 9 - Condizioni sistemiche associate al comportamento violento.
• Deficienze vitaminiche (B12, folati, tiamina)
• Infezioni sistemiche
• Iper o ipotiroidismo
• Ipoglicemia
• Ipossia
• Lupus eritematoso sistemico
• Metalli pesanti, insetticidi, ecc.
• Morbo di Cushing
• Patologie epatiche
• Patologie renali
• Porfiria
• Squilibri elettrolitici
~ 151 ~
~ 152 ~
CAPITOLO 8: TERAPIA FARMACOLOGICA DEL PAZIENTE VIOLENTO
Nell’ambito di una eziologia spesso multifattoriale del comportamento
violento, l’intervento farmacologico rappresenta una parte della complessa
strategia di gestione.
Pur non essendovi allo stato attuale nessun farmaco riconosciuto dalla
Food and Drug Administration come specifico (Maier, 1993; Carrigan et al.,
1993) per il comportamento violento, tuttavia nella pratica clinica numerosi
Autori sono concordi nel distinguere due modalità e due tempi di intervento
differenti (Tardiff, 1989; Tupin, 1987).
Una prima modalità di intervento comprende la valutazione e la gestione del
comportamento violento nell’ambito di una situazione di emergenza (“shortterm management”), quale può essere quella che si incontra nelle
“emergency rooms”, nei reparti di ammissione, ecc., quando cioè l’operatore
deve gestire un paziente di cui, molto spesso, non conosce la storia clinica,
medica e psichiatrica. In tale situazione il farmaco rientra in una strategia di
intervento che ha come obiettivo la sedazione del paziente.
Una seconda modalità di intervento comprende la valutazione e la gestione
a lungo termine (“long term management”) del comportamento violento. In
tale situazione è essenziale formulare una accurata diagnosi ed è
indispensabile conoscere la costellazione dei fattori che intervengono nella
etiologia del comportamento violento. In tale situazione il farmaco acquista
una più specifica valenza terapeutica e preventiva.
8.1. INTERVENTO FARMACOLOGICO IN SITUAZIONI DI EMERGENZA
Quando si è in presenza di un paziente, di cui non si conosce la storia
clinica, che sta mettendo in atto un comportamento violento e/o delle
verbalizzazioni seriamente minacciose per la sicurezza del personale
trattante o di altri pazienti, è indicato un trattamento farmacologico di
~ 153 ~
urgenza (Tab. 10 pag.165). In tale situazione il primo obiettivo non è tanto
quello di formulare una diagnosi psichiatrica,quanto piuttosto indurre nel
paziente una sedazione farmacologica. Pertanto, i farmaci utilizzabili in una
situazione di emergenza devono consentire, oltre ad una pronta sedazione,
una facile somministrazione e la possibilità di un monitoraggio di tutti gli
effetti (terapeutici e collaterali).
I
farmaci
che
rispondono
in
maniera
soddisfacente
ai
criteri
precedentemente illustrati sono raggruppati principalmente in tre classi:
• farmaci antipsicotici,
• farmaci ansiolitici,
• farmaci sedativi.
Ciascun farmaco presenta vantaggi e svantaggi, nessuno può essere
indicato come il farmaco “antiviolento” per eccellenza e tutti hanno, in breve
tempo, un benefico effetto sull’agitazione e l’eccitamento. Qualunque sia il
farmaco utilizzato, risulta indispensabile, al fine di garantire la massima
efficacia terapeutica ed il minimo rischio di effetti collaterali, far precedere
l’intervento da un accurato esame clinico ed associare un continuo
monitoraggio delle funzioni vitali.
8.1.1. Farmaci antipsicotici-neurolettici:
I farmaci antipsicotici- neurolettici risultano efficaci nel controllo, a breve
termine, di numerosi comportamenti aggressivi, anche non specificatamente
psicotici. La “neurolettizzazione rapida” è una strategia basata su una
ripetuta somministrazione di neurolettico sino al raggiungimento del livello di
sedazione desiderato. La “neurolettizzazione rapida” presenta due modalità
a seconda del farmaco prescelto; inoltre ciascuna modalità presenta due
varianti in base alle dosi di farmaco utilizzate.
~ 154 ~
1. Neurolettizzazione rapida ad alta potenza farmacologica (in cui vengono
utilizzati dei neurolettici ad alta potenza, quali aloperidolo, trifluoperazina,
flufenazina, tiotixene). La variante a basse dosi prevede l’uso di aloperidolo
(farmaco di prima scelta) alla dose di 5 mg intramuscolo ogni 4-8 ore, sino a
raggiungere una dose massima giornaliera di 15-30 mg. La variante ad alte
dosi prevede l’uso di 10 mg di aloperidolo intramuscolo ogni 30 minuti, sino
ad una dose massima giornaliera di 45-100 mg.
La neurolettizzazione rapida ad alta potenza farmacologica richiede
particolare attenzione alla pressione arteriosa (in particolare ortostatica) ed
alla comparsa di sintomi extrapiramidali; qualora questi ultimi siano
particolarmente
imponenti,
viene
consigliato
l’utilizzo
della
neurolettizzazione rapida a bassa potenza farmacologica. È da tenere
presente che malattie organiche di base favoriscono la comparsa di effetti
extrapiramidali e di ipotensione ortostatica.
La neurolettizzazione rapida ad alta potenza farmacologica è controindicata
nei pazienti con delirium e/o altre patologie psicorganiche in quanto l’effetto
sedativo e anticolinergico può esacerbare la condizione di base.
È ugualmente controindicata nei pazienti con intossicazione da alcool o da
altri farmaci sedativi, in quanto i neurolettici possono ridurre ulteriormente il
livello di coscienza. Inoltre è da sottolineare che la comparsa di sintomi
extrapiramidali, quali acatisia, può indurre un effetto paradosso con
incremento della agitazione e del comportamento violento.
2. Neurolettizzazione rapida a bassa potenza farmacologica (in cui vengono
utilizzati neurolettici a bassa potenza farmacologica, quali clorpromazina,
tioridazina, mesoridazina). La neurolettizzazione rapida a bassa potenza
farmacologica a basse dosi prevede l’uso di 25 mg intramuscolo di
clorpromazina ogni 4 ore sino ad una dose giornaliera di 150 mg. La
neurolettizzazione rapida a bassa potenza farmacologica ad alte dosi
prevede l’utilizzo di 75 mg di clorpromazina intramuscolo ogni 4 ore sino ad
~ 155 ~
una dose massima giornaliera di 400 mg intramuscolo.
Per quanto concerne le precauzioni, è opportuno provvedere ad un
monitoraggio continuo dei segni vitali (respirazione, polso e pressione
arteriosa)].
8.1.2. Benzodiazepine:
L’uso sistematico delle benzodiazepine nel trattamento acuto del paziente
violento è controverso in termini di efficacia ed effetti collaterali. Per quanto
concerne l’efficacia, l’esperienza clinica ha dimostrato che in alcuni casi,
seppur utilizzate a dosi adeguate, non inducono l’effetto terapeutico
desiderato in ragione di una estrema variabilità soggettiva nel metabolismo.
Inoltre
alcuni
Autori
sono
particolarmente
critici
sull’uso
delle
benzodiazepine, a causa della possibile comparsa di effetti paradossi
(discontrollo, agitazione, aggressività). Infine, a causa della loro possibile
interazione con sostanze additive (ad es. alcool) e/o con altri farmaci
sedativi possono incrementare la depressione del SNC (Tupin, 1987).
Tuttavia, un uso accurato permette un utilizzo nel trattamento acuto del
paziente violento con soddisfacenti risultati.
Il farmaco di prima scelta è il lorazepam, in ragione di alcune caratteristiche
quali l’assorbimento, la rapidità di azione, l’efficacia, l’emivita. La via di
somministrazione preferita è quella intramuscolare. L’assorbimento, dopo
somministrazione intramuscolare, è rapido e sicuro; l’effetto sedativo
compare entro un’ora e permane a lungo, l’emivita (circa 12 ore) non crea
problematiche di accumulo. Una dose tra i 2-4 mg intramuscolo di
lorazepam (ripetibile ogni 4-6 ore) è spesso sufficiente per un controllo
dell’aggressività nella fase acuta. Dopo la fase acuta, è consigliato un
dosaggio più basso (in associazione o no ai neurolettici) non superiore ai 10
mg/die suddiviso in tre somministrazioni.
~ 156 ~
8.1.3. Barbiturici:
I barbiturici possono essere utilizzati nel trattamento di emergenza del
paziente violento, in funzione del loro sicuro effetto sedativo, della rapidità di
azione,
della
possibilità
di
somministrazione
(orale,
intramuscolo,
endovenosa). Tuttavia l’esistenza di un margine molto ristretto tra l’effetto
sedativo e la depressione respiratoria ne limita l’utilizzo a casi eccezionali.
L’effetto collaterale principale è costituito dalla depressione del SNC e dalle
possibili interazioni con altri farmaci depressogeni del SNC (Tupin, 1987).
Il farmaco di prima scelta è il sodio amobarbital. La via di somministrazione
preferita, in funzione della sicurezza, è quella intramuscolare. Una dose tra i
150-300 mg risulta normalmente efficace nella maggioranza dei casi.
Numerosi Autori tuttavia relegano l’utilizzo del sodio amobarbital ai soli casi
di estrema urgenza, comunemente viene preferito l’uso del lorazepam in
associazione ai neurolettici.
8.2. INTERVENTO FARMACOLOGICO A LUNGO TERMINE
L’intervento farmacologico a lungo termine ha come base un’accurata
diagnosi e come obiettivo il trattamento delle condizioni mediche e
psichiatriche che sottendono il comportamento violento. La semplice
induzione di sedazione (strategia basilare dell’intervento farmacologico in
situazioni di emergenza) e/o soppressione di un sintomo, senza una
adeguata diagnosi, generalmente non è indicata per un trattamento a lungo
termine e non risulta efficace. Il trattamento farmacologico a lungo termine
si avvale di una molteplicità di farmaci in considerazione delle differenti
patologie che si trovano in relazione al comportamento violento, delle
differenti modalità di somministrazione, degli effetti collaterali a breve e
lungo termine (Tab. 10 pag.165)
~ 157 ~
8.2.1. Farmaci antipsicotici (tipici e atipici):
I farmaci antipsicotici tipici (neurolettici) vengono comunemente usati nel
trattamento a lungo termine dei pazienti violenti, la cui aggressività è
direttamente legata a disturbi della ideazione e/o della percezione (delirio,
allucinazioni).
In particolare l’uso dei neurolettici risulta efficace nel trattamento del
comportamento violento degli schizofrenici paranoidi (Link, Stuve, 1994).
Vengono inoltre usati in altre patologie psichiatriche (mania, disturbi della
personalità, disturbi della condotta negli adolescenti, demenza, ecc.),
laddove elementi quali l’agitazione psicomotoria, l’ostilità, l’instabilità
emotiva, l’eretismo psichico sono in stretta relazione con il comportamento
violento.
L’uso dei neurolettici nel trattamento del paziente violento con ritardo
mentale è controverso: l’utilizzo a lungo termine dei neurolettici in tali
pazienti aumenta il rischio di comparsa di effetti collaterali, quali la
discinesia tardiva, pertanto l’indicazione rimane per i soli casi in cui una
sintomatologia psicotica faccia parte del quadro clinico.
I farmaci di prima scelta sono l’aloperidolo e la flufenazina in ragione della
loro facilità di somministrazione, della efficacia terapeutica, della sicurezza
in termini di effetti collaterali. Inoltre, ove compaiono problemi di compliance
(evento non raro in una terapia a lungo termine), è possibile ricorrere alle
forme depot. Una terapia a lungo termine con neurolettici può avvalersi di
dosi di aloperidolo tra 0,5-2 mg (per sintomi moderati) e 3-5 mg (per sintomi
imponenti) ogni 8-12 ore sino ad un massimo di 15 mg/die; la dose di
mantenimento generalmente non supera gli 8 mg/die; nei casi di cronicità
della malattia, possono essere necessarie dosi superiori (dose di
mantenimento di 20 mg/die).
~ 158 ~
Per quanto concerne l’utilizzo dell’aloperidolo in forma depot (nei casi in cui
le condizioni cliniche lo consentano) viene utilizzata una dose iniziale 10-15
volte l’equivalente della dose giornaliera utilizzata, incrementabile, se
necessario, sino ad un massimo di 100 mg. Generalmente una
somministrazione ad intervalli mensili risulta efficace, suscettibile tuttavia di
variazioni (di frequenza e di dose) in base alle necessità cliniche.
Per quanto concerne la flufenazina, vengono utilizzate dosi iniziali di 2,5-10
mg/die, per passare successivamente, quando la sintomatologia è sotto
controllo, a dosi di 1-5 mg/die. La preparazione depot è somministrata alla
dose iniziale di 12,5 mg, e successivamente 25 mg ogni 2-3 settimane. La
dose massima di mantenimento non dovrebbe superare i 100 mg ogni 2-3
settimane.
Qualora la presenza di una eccessiva sedazione o di effetti collaterali renda
problematica la prosecuzione della terapia, la scelta può ricadere sui
neurolettici a bassa potenza farmacologica, in particolar modo la
clorpromazina, alla dose di 25-100 mg ogni 4 ore (dose media di 300-800
mg/die) risulta efficace in numerosi casi.
Per quanto concerne i farmaci antipsicotici atipici, numerosi studi hanno
sottolineato l’efficacia della clozapina nel trattamento del comportamento
violento in pazienti schizofrenici (Wilson, 1992; Ratey et al., 1993; Volavka,
1995).
In particolare Volavka (1995) ha rilevato l’efficacia della clozapina nel
controllo dell’ostilità e dell’aggressività in pazienti schizofrenici resistenti al
trattamento con neurolettici. La dose media giornaliera consigliata è di
300mg/die, raggiungibile nell’arco di tre settimane, a partire da una dose
giornaliera di 25 mg.
Il trattamento farmacologico a lungo termine con farmaci antipsicotici (tipici
ed atipici) è causa di numerosi effetti collaterali di cui si deve tener conto
~ 159 ~
per poter garantire al paziente una sufficiente qualità di vita, oltre che una
sicurezza in termini di controllo sintomatologico.
Si rimanda all’ampia letteratura ed alle linee guida internazionali, per quanto
concerne la specifica diagnosi, prevenzione e terapia degli effetti collaterali.
Tuttavia pare utile segnalare che la sedazione, oltre che costituire un effetto
collaterale, è spesso un effetto desiderato, in particolare modo nel
trattamento del paziente violento. Tuttavia, una sedazione prolungata nel
tempo, oltre che diminuire la qualità di vita del paziente (posizionandolo in
una sorta di “contenzione farmacologica”), può influenzare negativamente la
compliance del paziente, aumentando il rischio di “drop-out”. Tale
inconveniente può, in parte, essere ovviato con l’utilizzo di una singola dose
serale che ha il vantaggio di diminuire il tempo diurno di sedazione e
consentire una qualità di vita accettabile.
8.2.2. Farmaci ansiolitici:
Nella pratica clinica, le benzodiazepine, pur trovando una valida
applicazione nel trattamento delle situazioni di emergenza,non hanno una
larga applicazione nel trattamento a lungo termine del paziente violento, in
ragione della possibile comparsa di fenomeni, quali abuso, dipendenza,
tolleranza, astinenza. Sono stati descritti inoltre casi di incremento
dell’aggressività (in pazienti trattati a lungo termine con benzodiazepine)
che ne limitano ulteriormente l’utilizzo.
8.2.3. Farmaci anticonvulsivanti:
Numerosi studi indicano l’efficacia di alcuni farmaci anticonvulsivanti nel
trattamento a lungo termine di pazienti psichiatrici con comportamento
violento. Tale efficacia inoltre non pare limitata ai soli casi con alterazioni
EEG cliniche e subcliniche, ma pare coinvolgere una più ampia varietà di
pazienti.
~ 160 ~
In particolare per quanto concerne la carbamazepina, studi clinici condotti
su pazienti con comportamento violento e diagnosi di schizofrenia, disturbi
della condotta, disturbi di personalità, disturbo mentale organico (Luchins,
1984; Neppe, 1981) hanno dimostrato un decremento del comportamento
violento durante il trattamento. La dose giornaliera consigliata oscilla tra i
600- 1.200 mg, suddivisa in tre somministrazioni.
Per quanto concerne gli effetti collaterali, durante il trattamento con
carbamazepina, vengono riportate alterazioni della crasi ematica e della
funzionalità epatica, pertanto tali parametri vanno controllati e monitorizzati
prima e durante il trattamento. Effetti collaterali di tipo extrapiramidale
(distonia, discinesia, ecc.) sono rari e scompaiono con l’interruzione o la
diminuzione del dosaggio.
Altri anticonvulsivanti sono stati utilizzati nel trattamento del paziente
violento.
La
difenilidantoina
è
risultata
efficace
nel
trattamento
dell’aggressività di differenti tipi di pazienti (bambini con grave ritardo
mentale, adulti non epilettici, ma con anomalie EEG, pazienti con “episodic
discontrol syndrome”). L’acido valproico (Maier, 1993) si è dimostrato
efficace nel controllo del comportamento violento di pazienti con disturbo
bipolare o schizoaffettivo, la dose giornaliera è di 750-3.000 mg.
8.2.4. Farmaci B-bloccanti:
Per quanto concerne l’utilizzo dei farmaci B-bloccanti nel trattamento del
comportamento aggressivo, numerosi Autori riportano i risultati di alcuni
studi sull’efficacia del propanololo in pazienti dal comportamento violento
con grossolane alterazioni organiche cerebrali (secondarie a trauma
cranico, tumori, alcolismo, encefalite, corea di Huntington, demenza, morbo
di Wilson, psicosi di Korsakoff, ritardo mentale) (Silver, Yudofsky, 1985).
Tali studi hanno riguardato, in prevalenza, pazienti che non hanno risposto
a
precedenti
terapie
con
altri
farmaci
anticonvulsivanti, litio).
~ 161 ~
(neurolettici,
ansiolitici,
In altri studi viene segnalata l’efficacia del propanololo, utilizzato in
associazione ai neurolettici, nel trattamento di pazienti schizofrenici con
comportamento violento. La dose suggerita è di 20 mg/tre volte al giorno,
con incremento fino a 60 mg/tre volte al giorno. L’effetto terapeutico non è
immediato e compare dopo alcuni giorni; è necessario un trattamento di
almeno 8 settimane prima di rilevare una non-risposta al farmaco.
Se il paziente riceve una contemporanea terapia a base di neurolettici, è
opportuno un monitoraggio costante dei livelli ematici di questi ultimi, in
quanto il propanololo ne causa un incremento. La sospensione deve
rispettare una gradualità con decremento di 20 mg al giorno.
Gli effetti collaterali includono ipotensione e bradicardia, tuttavia vengono
riportati anche casi di depressione del tono dell’umore e sedazione. L’inizio
della terapia deve essere preceduto da un esame clinico che escluda la
presenza di controindicazioni al trattamento (malattie ostruttive polmonari,
asma bronchiale, ecc.).
Altri B-bloccanti utilizzati sono il nadololo, alla dose di 80-160 mg/die, in
pazienti schizofrenici aggressivi (schizofrenia paranoide), ed il metoprololo
alla dose di 200-300 mg/die in pazienti aggressivi con lesioni organiche
cerebrali.
8.2.5. Litio:
Una terapia a lungo termine con litio trova la principale indicazione nella
prevenzione del comportamento violento associato agli episodi maniacali
nelle sindromi bipolari. Tuttavia, l’uso del litio si è dimostrato efficace anche
nel trattamento del comportamento violento associato ad altre condizioni
psichiatriche (ritardo mentale, sindromi organiche cerebrali, traumi cranici,
schizofrenia, disturbi di personalità, disturbi della condotta)
(Volavka,
1995). Infine, numerosi studi sottolineano l’efficacia del litio nel trattamento
del comportamento violento di individui non psicotici in stato di detenzione.
~ 162 ~
La terapia con litio deve essere preceduta da un esame medico- clinico
(confortato dagli esami di laboratorio) con particolare attenzione alle
patologie renali, tiroidee, paratiroidee, cardiache, metaboliche. Il livello
plasmatico terapeutico per un controllo del comportamento violento è
compreso tra 0,7 e 1,0 mEq/litro. La dose iniziale è di 300 mg due volte al
giorno di carbonato di litio, incrementabile a 300 mg tre o quattro volte al
giorno. Il livello plasmatico è controllabile dopo 12 ore dall’ultima
somministrazione. Una volta stabilizzatosi il controllo va ripetuto una volta al
mese per i primi sei mesi di trattamento e successivamente ogni due o tre
mesi.
Rimandando alla letteratura per quanto concerne la complessità degli effetti
collaterali e dei sintomi di intossicazione, pare opportuno segnalare che un
trattamento a lungo termine con litio deve prendere in considerazione la
possibilità di danni renali e, sebbene raramente, deficit neurologici
persistenti. Inoltre, un trattamento concomitante con neurolettici richiede un
monitoraggio dei livelli ematici di questi ultimi.
8.2.6. Farmaci antidepressivi:
L’uso degli antidepressivi trova particolare indicazione nelle forme di
aggressività legata a cambiamenti dell’umore. Paradossalmente infatti
alcuni pazienti depressi (oltre che presentare una auto aggressività con
rischio
suicidario)
presentano
un’aggressività
“esplosiva”
legata
all’irritabilità.
Inoltre il crescente interesse per gli antidepressivi nel trattamento del
comportamento violento si basa sul ruolo che il sistema serotoninergico
gioca nella modulazione dell’impulsività e del comportamento aggressivo
(Coccaro, 1989).
In
particolare,
tra
gli
antidepressivi
utilizzati
nel
trattamento
del
comportamento violento, l’amitriptilina ed il trazodone si sono dimostrati
~ 163 ~
efficaci nel trattamento di pazienti con danno organico cerebrale e
comportamento violento.
Tuttavia, alcuni studi segnalano anche la comparsa di ostilità ed
aggressività, dopo trattamento con triciclici, in pazienti con diagnosi di
depressione e disturbo borderline di personalità. La fluoxetina si è
dimostrata efficace, in termini di decremento del comportamento violento, in
pazienti con disturbo di personalità ed in pazienti con depressione
unipolare. Un trattamento a lungo termine con antidepressivi, in particolar
modo con triciclici, richiede un monitoraggio continuo per la possibile
comparsa di effetti collaterali (cardiovascolari, anticolinergici, ecc.).
8.2.7. Farmaci psicostimolanti:
L’uso di psicostimolanti nel trattamento del paziente con comportamento
violento è allo stato attuale controverso: infatti se da una parte alcuni studi
riportano
l’efficacia
dell’utilizzo
di
psicostimolanti
(amfetamina)
nel
trattamento del comportamento violento in alcuni tipi di pazienti (con
diagnosi di disturbo da iperattività e disturbo di personalità), altri ne
evidenziano il grave rischio, nello stesso tipo di pazienti, dell’instaurarsi di
fenomeni di abuso, come risultato di ciò, labilità emotiva, iperattività,
agitazione psicomotoria, aggressività, attività delirante.
~ 164 ~
Tab. 10 - Terapia farmacologica del paziente violento.
1. Neurolettizzazione rapida
2. Benzodiazepine
3. Barbiturici
1. Neurolettici (tipici, atipici, depot)
2. Anticonvulsivanti
3. B-bloccanti
4. Litio
5. Antidepressivi
~ 165 ~
~ 166 ~
CAPITOLO 9: ASPETTI DEONTOLOGICI NEL TRATTAMENTO DEL
PAZIENTE VIOLENTO
Nella valutazione e gestione del paziente violento, lo specialista non può
ignorare la possibilità di poter essere chiamato a rispondere del proprio
operato nei confronti di principi deontologici e medico-legali che devono
regolare la professionalità del suo agire. Ignorare questi principi non solo
può esporre l’operatore a procedimenti disciplinari oppure più francamente
a procedimenti giudiziari civili o penali per negligenza, imperizia o
imprudenza, ma anche attraverso ingombranti fantasmi di impotenza (“la
legge, la deontologia, ecc. mi impediscono di agire”), di onnipotenza (“sono
libero di agire come meglio credo e nessuno può accusarmi”), alterare il
rapporto psichiatrico di diagnosi e terapia o più globale di valutazione e
gestione del paziente violento.
In ragione soprattutto di un corretto ed adeguato rapporto clinico
professionale col paziente violento, saranno prese in considerazione alcune
osservazioni deontologiche di importanza medico-legale.
In primo luogo, la prognosi del comportamento violento non è funzionale se
gestita in termini dicotomici ed apodittici di positività o negatività (“questo
paziente commetterà atti violenti”; “quest’altro paziente non commetterà atti
violenti”), ma deve essere modulata sulla estrema variabilità e non facile
prevedibilità di ogni singolo caso clinico, tenendo altresì conto della
multifattorialità
che
conduce
al
comportamento
violento
(prognosi
differenziate, sotto l’aspetto clinico e di responsabilità civile e penale, quali
ad es. la generica, condizionale o imminente) .
Egualmente e non solo sul piano giuridico per tutelare la propria
professionalità, ma anche per una migliore penetranza clinica ed una
maggiore incidenza terapeutica del caso clinico di violenza, è utile che le
decisioni operative sul piano medico e sociale del operatore siano oggetto
di motivazioni adeguate obiettivamente giustificabili, espresse in modo
~ 167 ~
anche collegiale e siano documentate per iscritto. Infine, è da sottolineare la
necessità per lo psichiatra anche sotto il profilo etico e professionale, non
solo di rispettare, quanto possibile, il segreto professionale, ma anche di
rinvenire ed utilizzare modalità tecniche e cliniche per salvaguardare
contemporaneamente potenziali vittime del paziente in terapia (Tab. 11 pag.
178).
9.1.
PROGNOSI
DEL
COMPORTAMENTO
VIOLENTO.
GENERICA,
CONDIZIONALE, IMMINENTE
Allo stato attuale non esistono criteri (statistici, clinici, biochimici, ecc.)
obiettivi e validi per una prognosi certa del comportamento violento
nell’ambito della malattia mentale. È tuttavia compito dello specialista
cercare di identificare il paziente che potrà commettere agiti di violenza e
mettere in atto misure di prevenzione o di neutralizzazione adeguate sia di
ordine farmacologico che psicoterapico.
La prognosi psichiatrica del comportamento violento può essere generica,
condizionale o imminente. Si tratta di prognosi generica quando il paziente
presenta sintomi psichiatrici aspecifici di un probabile comportamento
violento non ancora iniziato in modo concreto. Questa sintomatologia a
livello statistico non ha valore significativo per una obiettiva previsione
futura. Ad esempio un soggetto schizofrenico con delirio strutturato a
contenuto persecutorio può in linea di principio passare all’azione con
comportamenti violenti verso i supposti persecutori. Tuttavia, l’esperienza
clinica dimostra che sono statisticamente assai limitati i soggetti
schizofrenici con deliri a contenuto persecutorio che in realtà passano
all’azione violenta su persone.
Nel caso di prognosi generica, la capacità di previsione dello psichiatra è
assai limitata e soggetta a molti errori con “falsi positivi” (previsioni di azioni
violente che in realtà non avverranno) e “falsi negativi” (mancata previsione
di fatti violenti avvenuti in realtà). Tuttavia, anche nel caso di prognosi
~ 168 ~
generica,
non
possono
essere
tralasciati
importanti
provvedimenti
farmacologici e psicoterapici (ad es. ridurre l’attività delirante con farmaci
deliriolitici, ecc.).
Nel caso di prognosi condizionale, il comportamento violento, non ancora
iniziato in modo concreto, può essere, sotto il profilo clinico e statistico,
significativamente legato ad uno specifico “sintomo” o a specifiche
“costellazioni di sintomi” scatenanti. Ad esempio un soggetto con un
disturbo dipendente di personalità può, in stato di ebbrezza da abuso di
bevande alcoliche, presentare comportamenti violenti in persona di figure di
autorità. Altre volte la prognosi condizionale non è legata ad uno specifico
“sintomo” ma ad una specifica “costellazione di sintomi” scatenanti. Può
essere considerato significativamente probabile un comportamento violento
se ad esempio un soggetto schizofrenico con delirio a contenuto
persecutorio presenta unitamente a questo sintomo (osservabile):
1. uno stato di agitazione psicomotoria,
2. oltre due notti trascorse insonni ed in stato eretistico,
3. “minacce calde”,
4. chiaramente identificata una vittima,
5. precedenti di aggressione sulle persone per percepiti soggettivi e contesti
sociali analoghi all’attuale.
Non si tratta in questo casi di “sintomi” isolati, ma di specifiche “costellazioni
di sintomi”, che nella pratica clinica, criminologica e forense si sono rivelate
statisticamente
significative
nell’ambito
della
schizofrenia
con
la
commissione di passaggi all’atto violento.
Nella prognosi condizionale lo psichiatra è in grado, con maggior precisione
della prognosi generica, di isolare sotto il profilo psichiatrico e diagnostico,
~ 169 ~
di segnalare a chi di competenza, e di agire in prima persona a livello
preventivo,su specifici sintomi o su specifiche costellazioni di sintomi
scatenanti il comportamento violento.
Infine, nella prognosi imminente, il comportamento violento del paziente è
già iniziato in modo concreto ed è richiesto allo psichiatra un intervento
rapido in termini di neutralizzazione di dinamiche di agiti violenti. Prognosi
imminente di comportamento violento può essere formulata in persona di un
soggetto affetto da psicosi maniacale che, in stato di violenta agitazione
psicomotoria, inizia a percuotere la porta del servizio di psichiatria,
esprimendosi ad alta voce, con minacce adeguate e calde in crescendo,
richiedendo di essere prontamente dimesso dal reparto ove è stato
ricoverato contro la propria volontà. La prognosi imminente si riferisce
anche a casi meno manifesti del precedente, che possono presentare
difficoltà diagnostiche. Ad esempio, la prima fase dell’“omicidio passionale
da separazione” è costituita da un profondo stato depressivo con tendenze
suicidarie che caratterizza il soggetto abbandonato dal compagno o dalla
compagna. In questa fase lo psichiatra può diagnosticare uno stato
depressivo reattivo e mettere in atto strategie terapeutiche per evitare il
suicidio del paziente.
Nella realtà clinica, a questa prima fase in cui il soggetto abbandonato dirige
l’aggressività fisica verso se stesso, segue in breve spazio di tempo, e
spesso con carattere improvviso, la seconda fase e cioè la direzione
dell’aggressività
verso
il
compagno
o
la
compagna
che
l’hanno
abbandonato. La mancata conoscenza da parte dello psichiatra di queste
due fasi cliniche (prima auto aggressività suicidaria e poi eteroaggressività
omicidaria), la fuorviante depressione con tendenze anticonservative ecc.
possono
essere
d’ostacolo
allo
psichiatra
nell’adottare
interventi
farmacologici e psicosociali adeguati alla protezione non solo del paziente,
ma anche delle potenziali vittime.
~ 170 ~
Nell’ambito della prognosi imminente del comportamento violento, lo
psichiatra presenta maggiori capacità di prevedere agiti di violenza rispetto
alla prognosi generica e condizionale e può quindi disporre, soprattutto in
stato di necessità, con maggiore giustificazione, non solo etica, ma anche
medico-legale, di provvedimenti di tipo restrittivo (della libertà personale),
intrusivo (con farmaci) e psicosociale (di interdizioni e divieti) nei confronti
del paziente.
La necessità di porre una prognosi del comportamento suddivisa in
generica, condizionata ed imminente, non solo rispetta la realtà clinica,
molto più complessa di una prognosi dicotomica del comportamento
violento, ma anche permette di agire con valutazioni, diagnosi e
provvedimenti più specifici, incivisi ed adeguati, e di declinare od assumere
responsabilità professionali, etiche e medico-legali più differenziate in
relazione allo specifico caso clinico.
9.2. TRATTAMENTO DEL COMPORTAMENTO VIOLENTO: MOTIVATO,
COLLEGIALE, DOCUMENTATO PER ISCRITTO
L’operatore, quando entra in contatto col paziente violento, non può
esimersi dal mettere in atto numerose decisioni operative. Tra queste ultime
si ricorda il trattamento sanitario obbligatorio, la contenzione totale o
parziale, l’isolamento, la somministrazione non accettata di farmaci, la
dimissione
o
l’ospedalizzazione
prolungata
del
paziente
con
un
comportamento violento nell’anamnesi, ecc.
A prescindere da specifiche indicazioni a termine di legge, per alcune di
queste decisioni operative (ad es. il Trattamento Sanitario Obbligatorio, il
giudizio di pericolosità in ambito di perizia legale, ecc.) sono da considerare
almeno tre regole fondamentali per un operare clinico corretto: la
motivazione adeguata delle decisioni, la collegialità e condivisione del
processo decisionale con altri operatori nel campo della salute mentale e la
documentazione di quanto precede per iscritto.
~ 171 ~
In primo luogo, le decisioni dello psichiatra per avere valore di prudenza,
diligenza e perizia, debbono essere, per ogni singolo caso specifico,
adeguatamente motivate.
Ad esempio nel caso di una decisione di contenzione fisica di un paziente,
devono essere precisati:
• la necessità dell’intervento;
• il metodo usato;
• le avvertenze cliniche per una adeguata applicazione del metodo di
contenzione.
Debbono inoltre essere segnalate le attenzioni professionali specifiche ad
ogni singolo caso clinico per la valutazione dei rischi legati alla contenzione
sia di natura fisica (ad es. monitoraggio del paziente per evitare piaghe da
ostacolo alla circolazione, rigurgiti da posizioni supine coatte prolungate,
disturbi
alla
termoregolazione
per
inadeguatezza
di
ventilazione
dell’ambiente, ecc.), che psichici (ad es. disumanizzazione del rapporto col
paziente, uso punitivo della contenzione, innesco di dinamiche sadiche di
controllo tra paziente e curanti, creazione di un circolo vizioso di
aggressione-contenzione-aggressione,
evitamento
di
profezie
autoalimentantesi, ecc.)
In particolare, poi, debbono essere motivate le decisioni dello psichiatra alla
base di un giudizio prognostico di probabile comportamento violento futuro.
In questi casi deve essere in primo luogo precisato e giustificato il tipo di
prognosi (generica, condizionale o imminente). In secondo luogo debbono
essere considerati, come una griglia di analisi, i dati obiettivi, criminologici,
vittimologici e anamnestici; i fattori statici situazionali e dinamici; gli aspetti
psichiatrici e biologici del paziente.
~ 172 ~
Per soddisfare un minimo di esigenze di corretta pratica professionale in
tema di prognosi del comportamento violento, non possono non essere
oggetto specifico di valutazione:
1. le caratteristiche cliniche della violenza attuale;
2. l’obiettivo della violenza attuale;
3. la adeguatezza delle minacce di violenza attuali;
4. la qualità e quantità della violenza passata con particolare riferimento ai
contesti psicosociali scatenanti;
5. i sintomi psichiatrici legati al passaggio all’azione violenta.
In secondo luogo, le decisioni psichiatriche in tema di comportamento
violento è utile sano assunte con modalità collegiali attraverso il parere di
più persone non necessariamente tutte appartenenti al settore specifico
della psichiatria. Ad esempio la dimissione di un paziente, che ha una lunga
anamnesi di violenza sulle persone, può essere giustificata non solo dal
parere del medico responsabile ma anche da altri medici che operano nella
stessa unità o nello stesso ospedale.
A questa condivisione di pareri motivati possono altresì partecipare, per
quanto concerne le loro specifiche competenze, altri operatori nel campo
della salute mentale. Possono essere infatti allegati rapporti psicosociali sul
microcosmo sociale del paziente, sulle dinamiche psicologiche familiari,
sulle attività riabilitative cognitivo-comportamentali specifiche in tema di
comportamento violento, sulla disponibilità ed aderenza al trattamento
farmacologico, ecc.
La funzione di operare con decisioni collegiali, oltre al vantaggio di una
eventuale diluizione delle responsabilità sia in termini etici e di procedimenti
civili o penali in tema di risarcimento del danno, sia di visibilità vittimologia
~ 173 ~
dello psichiatra in relazione a pazienti vendicativi e persecutori in cerca un
unico capro espiatorio, offre anche il primario vantaggio di una valutazione
clinica del paziente più completa di informazioni obiettive e più critica a
distorsioni soggettive di natura controtransferale. Infine è da rilevare (in
relazione alla necessità di ricostruzione di fatti per motivi
giudiziari,
assicurativi, assistenziali, scientifici, didattici, ecc.) la necessità di una
documentazione scritta il più possibile esauriente del caso clinico (non solo
in termini tutelativi della professionalità dello psichiatra).
9.3. PROTEZIONE DI VITTIME POTENZIALI E SEGRETO PROFESSIONALE
Non raramente lo specialista che ha in terapia un paziente violento ritiene di
trovarsi nel dilemma di dover effettuare una scelta difficile ed in ogni caso
frustrante: tradire il segreto professionale ed avvertire la vittima potenziale
delle segrete intenzioni violente del paziente, oppure non tradire il segreto
professionale e permettere così che un innocente sia oggetto di violenza
anche omicidaria da parte del paziente. Il dilemma così presentato (ed
ancora oggetto di controversie etiche e giuridiche) non sempre è realistico.
Nella concretezza dell’agire clinico quotidiano, sono presenti numerose altre
possibilità per proteggere le potenziali vittime e nel contempo non tradire il
segreto professionale, tanto nei suoi risvolti giuridici quanto in quelli
terapeutici della relazione medico-paziente.
Sarà fatto un breve cenno a queste tecniche di intervento.
1. Contratto terapeutico specifico.
L’operatore che tratta col paziente violento sin dall’inizio del rapporto non
può non precisare al suo assistito che ha il dovere di mantenere il segreto
professionale (ad eccezione di specifici casi quali ad es. il colloquio in corso
di perizia psichiatrica, ecc.), ma che ha altresì il dovere di proteggere da
danni fisici oltre al paziente stesso, anche altre vittime potenziali.
~ 174 ~
Questa precisazione iniziale è indispensabile non tanto a livello giuridico
quanto a livello terapeutico, per poter mantenere un rapporto non solo
chiaro, ma responsabilizzante concernente sia il paziente che lo psichiatra
in tema di eventuali provvedimenti preventivi per agiti potenziali di violenza.
2. Separazione spaziale dei protagonisti.
Un eventuale atto di violenza nei confronti di una vittima specifica può
essere, almeno a breve termine, evitato attraverso la separazione spaziale
dei protagonisti aggressore e vittima. La dimissione del paziente ad
esempio può essere ritardata: vi sarà così più tempo per una terapia
farmacologica e psicoterapica, per sensibilizzare i familiari, ecc. Può essere,
qualora corrisponda ai principi attuali di legge, invocato (per ragioni
psichiatriche e non per ragioni di controllo sociale) un trattamento sanitario
obbligatorio che può essere a sua volta prolungato con adeguata
giustificazione nel tempo. Se si tratta di protagonisti di probabili atti di
violenza istituzionalizzati possono essere adottate, in stato di emergenza,
misure di isolamento, contentive totali o parziali, trasferimento in altre unità,
ecc. Nel caso di protagonisti in ambiente libero, vere e proprie separazioni
spaziali anche con lunghe distanze chilometriche o residenze non
conosciute, possono rivelarsi, nel breve termine, di particolare utilità in stati
di emergenza. Si tratta di decisioni operative che hanno lo scopo di evitare
atti di violenza a brevissimo e breve termine ma che altresì possono
permettere l’inizio ed un eventuale perfezionamento di più valide azioni
preventive o neutralizzanti le dinamiche di violenza.
3. Prevenzione.
È possibile mettere in atto una prevenzione di tipo a breve e a lungo
termine. Le prevenzioni a breve termine consistono nell’individuare alcuni
passaggi obbligati della possibile dinamica di violenza ed interromperli (ad
es. il paziente può essere privato di armi che gli vengono ritirate e nascoste,
può essere accompagnato da una persona di riferimento in grado di
~ 175 ~
neutralizzare i suoi eventuali agiti aggressivi, può essere sottoposto ad un
più adeguato intervento farmacologico per sedare stati di agitazione
psichica e motoria o vivacità disturbanti di contenuti deliranti, ecc.). La
prevenzione strutturata nel tempo richiede specifiche tecniche terapeutiche
che possono essere messe in atto da personale specializzato e con un
paziente
collaborante
(autocoscienza
della
propria
violenza,
autoidentificazione dei passaggi all’agire violento, richiesta volontaria di
aiuto psicologico, chiarificazione del legame con la vittima potenziale, ecc.).
4. Sensibilizzazione dei familiari.
Il colloquio con i familiari del paziente può essere annoverato tra i compiti
del equipe curante. Nel corso del colloquio l’operatore senza ricorrere ad
affermazioni in contrasto col segreto professionale (“il paziente mi ha riferito
che...”) ma utilizzando timori, paure, fantasmi, ecc. espresse ed elaborati
dagli stessi familiari in tema di possibilità di atti violenti può effettuare una
adeguata messa a conoscenza dei presenti, non solo a livello razionale, ma
anche emotivo della reale capacità di agiti violenti da parte del paziente (“il
suo timore che il paziente torni a casa e possa compiere atti aggressivi,
gravi, è una possibilità molto realistica che deve essere considerata
seriamente... potrebbe essere utile come lei accennava a protezione di
eventuali vittime...”). In non pochi casi è possibile per l’operatore nel corso
del suo compito funzionale di raccolta di informazioni e di intervento
terapeutico stabilire contatti anche con la famiglia della vittima. In questo
caso la strutturazione adeguata di un colloquio può portare, senza
violazione del segreto professionale, a risultati terapeutici specificamente
mirati alla prevenzione della violenza anche su di una vittima specifica.
5. Sensibilizzazione della vittima.
Non è compito impossibile,come insegna l’esperienza clinica in corso di
trattamento di soggetti malati di mente violenti,ottenere dal paziente
l’autorizzazione a parlare con la potenziale vittima.
~ 176 ~
Richieste dello psichiatra opportunamente calibrate sulla psicopatologia del
paziente possono permettere un colloquio a due (operatore-vittima
potenziale) o un colloquio a tre (operatore-paziente-vittima potenziale). Nel
corso di questi colloqui la vittima può essere adeguatamente sensibilizzata
sia a livello di informazione, sia a livello più profondo di emotività personale
del tipo di percepito che il paziente può nutrire nei suoi confronti.
Egualmente nel corso di questi colloqui possono essere valutate e poste in
atto misure di tipo preventivo a possibili agiti di violenza.
~ 177 ~
Tab. 11 - Aspetti deontologici nel trattamento del paziente violento.
Chiarificazione della qualità della prognosi del comportamento violento
Giustificazione del trattamento del comportamento violento
Protezione di vittime potenziali:
Generica
Condizionale
Imminente
Motivata
Collegiale
Scritta
Contratto terapeutico specifico
Separazione spaziale dei protagonisti
Prevenzione a breve e a lungo termine
Sensibilizzazione dei familiari
Sensibilizzazione della vittima
~ 178 ~
CAPITOLO 10: STRUMENTI DI VALUTAZIONE DELL’AGGRESSIVITÀ
La valutazione dell’aggressività risulta particolarmente aleatoria quando si
basa su quanto il soggetto riferisce, come si verifica con gli strumenti di
autovalutazione o con le scale compilate dall’osservatore sulla base dei dati
ricavati dal colloquio. Più attendibile dovrebbe essere la valutazione del
comportamento da parte di un osservatore esterno anche se, in realtà,
anche l’osservazione pone alcuni problemi, primo fra tutti quello più
strettamente legato alla natura stessa dell’aggressività che, generalmente, è
un comportamento episodico, piuttosto che una condizione stabile o un
comportamento abituale o frequente. Di solito, nel caso dei comportamenti
episodici,
la
valutazione
può
essere
effettuata
sulla
base
dell’osservazione(segni) di un "frammento" del comportamento in questione,
in quanto esso sarà, con buona probabilità, rappresentativo della condizione
abituale del soggetto.
Nel caso dell’aggressività, tuttavia, la normale osservazione clinica offre
difficilmente l’opportunità di coglierne direttamente anche solo dei
"frammenti"; spesso, solo un’osservazione del soggetto nel suo setting
naturale e per un periodo sufficientemente protratto, può consentire di
cogliere eventuali manifestazioni aggressive, anche se sporadiche.
Si potrebbe pensare, in alternativa, ad una valutazione dell’aggressività in
un setting sperimentale in cui, controllando e modificando la situazione e gli
stimoli, il comportamento aggressivo possa essere in qualche modo
provocato e quindi misurato. Esperienze in questo senso sono state fatte,
ma restano limitate al campo della ricerca ed avrebbe poco senso (né
sarebbe comunque agevole) trasferirle a quello clinico.
Nonostante queste difficoltà e questi limiti, l’aggressività può essere
indagata e valutata con risultati soddisfacenti, non soltanto mediante i
classici questionari di personalità, ma anche attraverso questionari specifici;
~ 179 ~
inoltre, utilizzando le tecniche proiettive, l’aggressività può essere studiata
anche quando non è espressa, quando investe i livelli più profondi.
Poiché i soggetti con deficit intellettivi o disfunzioni organiche cerebrali
possono manifestare, con buona frequenza, comportamenti aggressivi,
nella valutazione dell’aggressività di questi soggetti può essere indicato
l’uso di test di efficienza, come la Wechsler Adult Intelligence Scale WAIS (Wechsler, 1974) o il Bender Visual Motor Gestalt Test (Bender,
1938), anche se, naturalmente, i risultati migliori si ottengono impiegando i
test, i questionari, le RS che indagano in maniera più mirata l’aggressività,
sia essa espressa in maniera diretta o indiretta.
Sono stati distinti gli strumenti: (Tab. 12 pag. 197-198)
a). gli strumenti che valutano
comportamentale o temperamentale);
l’aggressività
in
generale (tratto
b). gli strumenti che valutano l’aggressività in acuto, (aggressività agita);
c). gli strumenti che valutano il rischio di violenza;
d). gli strumenti che valutano l’aggressività in particolari categorie di soggetti
ed in particolare nei bambini/adolescenti e nell’anziano.
10.1. VALUTAZIONE DELL’AGGRESSIVITÀ IN GENERALE
Fra le scale per la valutazione dell’aggressività, quelle per l’aggressività in
generale, quella intesa, cioè, come tratto temperamentale, sono senz’altro
le più numerose (Tab. 12 pag. 197-198).
1. Uno dei primi strumenti formulati a questo scopo è certamente l’Hostility
Scale — HoSca (Cook e Medley, 1954), una scala di autovalutazione
costituita da 50 item, messa a punto originariamente per valutare le
capacità degli insegnanti di interagire con gli studenti. Si trattava, in realtà,
di un adattamento empirico del Minnesota Teacher Attitude Inventory,
~ 180 ~
effettuato allo scopo di amplificare la discriminazione fra i punteggi bassi e
quelli elevati. Gli studi di validità di questa scala hanno dimostrato che le
componenti primarie da essa misurate sono il cinismo e la sfiducia, anche
se alcuni item sembrano misurare tendenze comportamentali opposte ed
altri ancora sono indicativi di caratteristiche temperamentali diverse
dall’ostilità.
2. Il Buss Durkee Hostility Inventory - BDHI (Buss e Durkee, 1957) è,
probabilmente, uno dei questionari più conosciuti e più ampiamente utilizzati
per la valutazione dell’aggressività.
Lo strumento indaga non solo il tipo di aggressività, ma anche la modalità
con cui viene manifestata, secondo l’ottica comportamentista. Gli
atteggiamenti ed i comportamenti considerati, sono specifici e le situazioni
che li provocano "universali" e gli item vengono espressi in modo tale da
evitare
che
il
dover
ammettere
un
comportamento
socialmente
indesiderabile possa bloccare l’individuo. Lo strumento può essere
impiegato per valutare tanto il comportamento attuale, quanto caratteristiche
di tratto, e può valutare sia le valenze aggressive espresse sul piano
comportamentale, sia quelle ostili non agite sul piano comportamentale. Gli
item, dicotomi (Vero/Falso), definiscono sette tipi di condotte aggressive
(Aggressività
Diretta,
Indiretta
e
Aggressività
Verbale,
Irritabilità,
Negativismo, Risentimento e Sospettosità), la Colpa, l’Aggressività totale ed
un Indice di inibizione/ disinibizione dell’aggressività, che è il risultato del
rapporto fra aggressività totale e colpa.
3. Castrogiovanni e collaboratori hanno curato la traduzione e la validazione
italiana dello strumento (noto in Italia col nome di Questionario per la
Tipizzazione del comportamento Aggressivo - QTA (Castrogiovanni et al.,
1982). Sulla base del concetto psicodinamico dell’ostilità come entità
unitaria diretta all’interno (intrapunitiva) o all’esterno (extrapunitiva), è stato
messo a punto l’Hostility and Direction of Hostility Questionnaire HDHQ (Caine et al., 1967).
~ 181 ~
Gli item, tutti derivati dall’MMPI, vanno a costituire 5 scale, tre extrapunitive
(psicopatica, paranoide e isteroide) e due intrapunitive, (colpa e autocritica).
La capacità delle 5 scale di differenziare diverse categorie diagnostiche, è
una solida prova della validità e dell’attendibilità dell’HDHQ. Tutte le
sottoscale correlano tra loro suggerendo la possibile esistenza di un
generico fattore di ostilità.
4. La Novaco Anger Arousal Scale - NAAS (Novaco, 1975) è una scala
composta da 80 item che descrivono situazioni potenzialmente capaci di
provocare ansia ed il soggetto è chiamato a dire, per ciascuna di esse, in
che misura egli ritiene che ciascuna situazione possa essere per lui
provocante o lo porti ad arrabbiarsi. Poiché l’applicazione di una scala
siffatta richiedeva molto tempo, ne è stata successivamente proposta una
versione ridotta, di 30 item.
5. La Scala
di
Lagos (Lagos
et
al.,
1977)
propone
4
categorie
di
comportamenti violenti: verso le persone, verso gli oggetti, tentativi di
violenza verso le persone ed aggressività verbale contro le persone.
Per ogni categoria, la valutazione si articola su tre livelli di comportamento
di violenza crescente:
• nessuna violenza;
• comportamenti che provocano paura (aggressioni verbali, tentativi di
attacchi, aggressioni verso oggetti);
• violenze verso le persone.
6. Informazioni sul comportamento aggressivo a lungo termine (partendo,
addirittura, dall’infanzia), vengono fornite dal Brown-Goodwin Questionnaire
- BGQ (Brown et al., 1979 e 1992).
Mediante l’anamnesi medica e psichiatrica e l’osservazione del paziente, il
BGQ definisce 9 categorie legate alla storia del comportamento aggressivo
~ 182 ~
individuale. Ognuna delle 9 categorie è valutata su una scala da 0 (non
occorrenza) a 4 (eventi multipli). La scala, che presenta elevata validità,
sembra utile nella valutazione di caratteristiche aggressive di tratto piuttosto
che di stato.
7. Il Questionario Irritabilità-Ruminazione/Dissipazione - QI-R
(Caprara,
1991) è la sintesi di due scale, la Scala di Irritabilità e la Scala di
Ruminazione/Dissipazione, per la valutazione specifica di queste due
condotte aggressive.
La Scala di Irritabilità (Caprara, 1983) nasce da un tentativo di validazione
sulla popolazione italiana del BDHI (Buss e Durkee, 1957). Misura la
disposizione dell’individuo a reagire impulsivamente, polemicamente,
offensivamente, alla minima provocazione ed alla minima contrarietà. Essa
mira, quindi, a cogliere soprattutto la componente impulsiva della condotta
aggressiva (ad es., "se sono irritato/a, non ammetto discussioni"; "a volte mi
viene da gridare e dare pugni e calci per sfogarmi"; "ci vuole poco perché mi
salti la mosca al naso"). Diversi studi ne hanno confermato la validità per la
valutazione di quelle forme di aggressività indicate come "impulsive",
caratterizzate sia dall’elevata eccitazione, sia dallo scarso controllo
cognitivo sulla condotta e sulle sue conseguenze.
La Scala di Ruminazione/Dissipazione misura la propensione dell’individuo
a superare con maggiore o minore rapidità i sentimenti di rancore ed i
desideri di ritorsione connessi alle offese subite (o che l’individuo crede di
aver subito). Essa mira soprattutto a cogliere le componenti connesse
all’elaborazione cognitiva che sottende la condotta aggressiva (ad es.,
"ricorderò sempre le ingiustizie subite"; "solo dopo anni non riesco a provare
più rancore"; "quando mi fanno un torto me la lego al dito"; "ricordo i torti
subiti anche dopo anni"). La scala si propone, quindi, come una valutazione
della prospettiva temporale delle condotte aggressive. Studi successivi ne
hanno confermato la validità per la valutazione di quelle forme di
~ 183 ~
aggressività nelle quali risulta dominante il ruolo della memoria,
dell’intenzionalità, dei processi di valutazione, attribuzione e decisione, cioè
di tutte le componenti connesse con l’elaborazione cognitiva.
Il QI-R è costituito, come è stato detto, dalle due scale originali in versione
ridotta. Per mantenere sotto controllo, per "contenere", se non proprio per
evitare, i fenomeni dovuti al "response set" (risposte in serie), la tendenza,
cioè, ad uniformare la propria modalità di risposta, che si manifesta quando
si opera con questionari che vertono su dimensioni molto omogenee, sono
stati inseriti in ciascuna scala 5 item di controllo.
La Scala di Irritabilità ridotta è costituita da 15 voci delle quali 10 effettive e
5 di controllo. I 5 item di controllo sono: "non sono capace di mettere
nessuno al suo posto, neanche quando sarebbe necessario", "non credo
che esistano mai buone ragioni per ricorrere alla violenza", "raramente
reagisco picchiando, anche quando qualcuno mi picchia per primo", "non mi
piace fare scherzi di mano", "generalmente, se qualcuno mi manca di
rispetto, sono portato/a a lasciar correre".
La Scala di Ruminazione/Dissipazione ridotta è costituita anch’essa da 15
voci delle quali 10 effettive e 5 di controllo. I 5 item di controllo sono: "trovo
facilità nell’instaurare buoni rapporti con gli altri", "mi capita di mangiarmi le
unghie", "mi importa relativamente dei giudizi degli altri", "mi piace la gente
che sa stare allo scherzo", "mi piace la gente spensierata". Ogni item viene
valutato su una scala a 7 punti.
Le alternative di risposta ed i relativi punteggi sono: "completamente VERO
per me" = 7; "in buona misura VERO per me" = 6; "in una certa misura
VERO per me" = 5; "in una certa misura FALSO per me" = 3; "in buona
misura FALSO per me" = 2; "completamente FALSO per me" = 1.
Le Scale di Irritabilità e di Ruminazione/Dissipazione possono essere
utilizzate in vari ambiti. Il loro impiego nel settore della ricerca è confermato
~ 184 ~
da numerosi studi (Caprara e Pastorelli, 1989). Possono essere usate come
strumenti di misura per la valutazione di determinanti della condotta
aggressiva. Tali scale, per quanto non esauriscano la complessa
fenomenologia aggressiva, ne colgono alcuni aspetti e cioè la tendenza a
reagire impulsivamente e quella a nutrire sentimenti di rancore e di
ritorsione.
La Scala di Irritabilità risulta predittiva della condotta aggressiva in
numerose situazioni sperimentali riconducibili al paradigma di Buss e
correlata in diversi studi con varie dimensioni come l’Assalto, l’Aggressività
Indiretta, l’Irritabilità, il Negativismo, l’Aggressività Verbale, l’Ansia Manifesta
e quella Occulta (Caprara & Pastorelli, 1989).
Anche la Scala di Ruminazione risulta predittiva della condotta aggressiva
in situazioni sperimentali in cui, ad esempio, il soggetto viene offeso e in
seguito gli è data la possibilità di rivalersi sul provocatore. La scala è
risultata correlata con vari strumenti per la valutazione delle condotte
aggressive e con il numero di arresti per crimini diretti contro le persone e
contro la proprietà.
8. Un questionario di indubbia utilità nella documentazione e nella misurazione
di specifici aspetti del comportamento aggressivo è l’Overt Aggression
Scale - OAS (Yudofsky, 1986).
È una scala basata sull’osservazione del soggetto durante un episodio
aggressivo: l’osservatore, oltre a registrare i diversi comportamenti, deve
prendere nota degli interventi effettuati in risposta all’episodio aggressivo.
Se, tuttavia, il comportamento aggressivo ha delle fluttuazioni o se, come
spesso accade, tende a diluirsi nel tempo, può essere difficile trovare le
giuste risposte alla scala. Il personale paramedico che dovrebbe compilare
l’OAS, inoltre, potrebbe non essere in grado di farlo nel corso dell’episodio.
La scala si articola in quattro sezioni: Aggressività Verbale, Aggressività
Fisica contro Oggetti, Aggressività Fisica Autodiretta e Aggressività Fisica
~ 185 ~
Eterodiretta; ogni sezione comprende 4 voci ognuna valutata in base alla
gravità (mai; qualche volta; spesso; di solito; sempre).
Dell’OAS sono state sviluppate numerose versioni modificate.
9. La Modified OAS - MOAS (Kay, 1988) fornisce una valutazione settimanale
dell’aggressività, piuttosto che descrivere l’incidente critico di per sé.
La MOAS parte da una lista di controllo comportamentale per arrivare ad un
sistema di stima in 5 punti che rappresenta crescenti livelli di gravità.
Include forme importanti di aggressività, come il tentato suicidio e
l’intimidazione. Fornisce, inoltre, un punteggio totale che riflette la gravità
globale dell’aggressività.
10. A differenza della OAS, non registra gli interventi effettuati. Un altro
strumento di valutazione ricavato dalla OAS è la Retrospective Overt
Aggression
Scale
-
ROAS (Sorgi
et
al.,1991),
uno
strumento
di
eterovalutazione diretto a parenti o conoscenti del paziente ed allo staff che
valuta il paziente.
La ROAS è stata modificata sulla base della Nurse’s Observation Scale for
Inpatient Evaluation - NOSIE (Honigfeld et al., 1966); le 16 classi o tipi di
comportamento aggressivo sono state trasformate in una scala a 16 voci.
La frequenza del verificarsi delle condizioni descritte da queste voci è
valutata su una scala a 5 punti (da 0 a 4). Vengono registrate, inoltre,
informazioni sul numero di volte (variabili da 0 a più di 10 volte) che si
verifica un determinato comportamento aggressivo.
La ROAS è strutturata per essere usata retrospettivamente ed impiegata
come misura dell’aggressività, sia rispetto all’individuazione di determinate
condotte aggressive, sia rispetto alla frequenza e gravità dei comportamenti
aggressivi verificatisi nella settimana precedente e fornisce informazioni che
~ 186 ~
consentono di comprendere meglio i tratti di aggressività, di prevedere il
comportamento aggressivo e di sviluppare modalità efficaci di trattamento.
11. La Staff OAS - SOAS (Palmstierna e Wistedt, 1987) valuta il grado e la
frequenza dei comportamenti violenti e degli assalti in pazienti psichiatrici e
psicogeriatrici.
Sviluppata, come l’OAS, per un uso da parte dello staff ospedaliero,
differisce da quella perché, invece che una lista di item, è un continuum a 4
punteggi articolato in 3 categorie (media, scopo e risultato) lungo il quale lo
staff classifica tutti gli atti di aggressività. Il punteggio totale delle tre
categorie definisce la gravità totale dell’evento aggressivo ed è a sua volta
diviso in tre livelli: medio (2-5), moderato (6-8), e grave (9-12). La SOAS
fornisce anche l’indice di "frequenza di aggressività individuale" che è
determinato calcolando il numero totale di eventi aggressivi diviso il numero
dei giorni di osservazione.
12. Il Cohen-Mansfield Agitation Inventory - CMAI (Cohen-Mansfield e Billing,
1986; Cohen-Mansfield, 1988) è stato originariamente proposto per la
valutazione dell’agitazione dei pazienti anziani ricoverati.
È composto da 29 item, valutati su di una scala a 7 punti (da "mai" a
"diverse volte all’ora"), che vanno a costituire tre fattori, il comportamento
aggressivo (ferire, percuotere, strattonare), il comportamento fisicamente
non aggressivo (camminare avanti e indietro, manierismi ripetitivi, tentativi
di allontanarsi) ed il comportamento verbalmente agitato (lamentele, urla,
richieste costanti di attenzione). Da questa scala ne è stata ricavata una
abbreviata di 14 item valutati su di una scala a 5 punti. L’uso del punteggio
totale è sconsigliato essendo preferibile utilizzare i punteggi nei fattori. Il
periodo preso in considerazione è rappresentato dalle ultime due settimane.
La caratteristica principale del CMAI è il fatto di prendere in considerazione i
comportamenti osservabili, escludendo ogni interpretazione degli stati
~ 187 ~
emozionali ed ogni riferimento causale. Lo strumento si è dimostrato molto
affidabile in questa popolazione.
13. Creato allo scopo di definire la natura multidimensionale della collera,
il Multidimensional Anger Inventory - MAI (Siegel, 1986) include item che
riflettono particolari "dimensioni" della rabbia, come la frequenza, la durata,
l’intensità, la modalità di espressione, l’atteggiamento ostile, il range delle
situazioni scatenanti la reazione collerica.
La dimensione "modalità di espressione" della rabbia contiene, a sua volta,
forme diverse di collera: una definita "interna" ed una "esterna", l’aspetto
"colpa", il "litigio" o "alterco" (cioè la discussione con rabbia). Il MAI è
composto da 38 item, in parte originali ed in parte ripresi e adattati da
strumenti preesistenti.
Le dimensioni della rabbia sono:
• frequenza (ad es.: "tendo ad arrabbiarmi più frequentemente degli altri";
"mi sorprendo di quanto spesso mi arrabbio");
• durata (ad es.: "quando mi arrabbio, resto arrabbiato per ore");
• intensità (ad es.: "alcune persone sembrano arrabbiarsi più di me nelle
stesse circostanze"; "a volte mi sento più arrabbiato di quanto dovrei");
• modalità di espressione, suddivisa in 4 sottodimensioni:
a) rabbia interna (ad es.: "covo rancore senza dirlo a nessuno");
b) rabbia esterna (ad es.: "quando sono arrabbiato con qualcuno glielo
lascio capire");
c) ripensamento o "rimuginazione" (ad es.: "anche dopo avere espresso la
mia rabbia ho delle difficoltà a dimenticare");
~ 188 ~
d) colpa (ad es.: "mi sento in colpa ad esprimere la mia rabbia");
• atteggiamento ostile (ad es.: "la gente sparla di me alle mie spalle"; "la
gente mi può dare fastidio solo standomi intorno"; "sto in guardia con le
persone che sono più amichevoli di quanto mi aspettassi");
• range di situazioni scatenanti, che corrisponde all’item 38, articolato a sua
volta in 9 voci: (ad es.: mi arrabbio quando... "...qualcuno mi abbandona",
..."la gente è sleale", ..."qualcosa blocca i miei piani", eccetera); due voci
sono correlate con un’altra dimensione della collera, l’atteggiamento ostile e
cioè "mi arrabbio quando devo prendere ordini da qualcuno meno capace di
me" e "mi arrabbio quando devo lavorare con persone incompetenti".
A ciascuna delle 38 affermazioni è attribuito un punteggio crescente (da
"decisamente falso" = 1 fino a "molto vero" = 5) in base a quanto tale
affermazione è descrittiva del soggetto cui il MAI è somministrato.
14. Lo State-Trait Anger Expression Inventory - STAXI (Spielberger, 1988) è
una scala di autovalutazione che fornisce misure sintetiche, rappresentative
dell’esperienza e dell’espressione della rabbia.
È stato sviluppato con due scopi principali:
1 - disporre di un metodo per valutare le componenti della rabbia, che
potesse essere usato nella diagnosi particolareggiata di personalità normali
e non normali;
2 - disporre di uno strumento per misurarne le varie componenti, dato che la
rabbia figura spesso tra le caratteristiche personologiche dei soggetti con
disturbi quali l’ipertensione, l’infarto, il cancro.
Nel concetto di esperienza di rabbia, come misurata dallo STAXI, sono
comprese due principali componenti: la rabbia di stato e di tratto.
~ 189 ~
La rabbia di stato è definita come uno stato emotivo caratterizzato da
sentimenti soggettivi di diversa intensità, che vanno da un moderato senso
di fastidio o d’irritazione ad uno stato di furia e di rabbia, generalmente
accompagnato da tensione muscolare e da attivazione del sistema nervoso
autonomo. L’intensità varia in funzione di come si percepisce, per esempio,
un’ingiustizia subita, o una minaccia, o un attacco da parte di altri, ed in
funzione del grado di frustrazione che interviene per non aver raggiunto lo
scopo verso cui si era diretti.
La rabbia di tratto è, invece, la disposizione a percepire un gran numero di
situazioni come fastidiose o frustranti, e la tendenza a rispondere a tali
situazioni con più frequenti manifestazioni della rabbia di stato.
Gli individui con alto grado di rabbia di tratto hanno esperienza di rabbia di
stato più spesso e con maggiore intensità rispetto agli individui con basso
grado di rabbia di tratto. Il concetto di espressione della rabbia comprende
tre componenti principali:
• l’espressione della rabbia verso altre persone o oggetti dell’ambiente
(Rabbia-Out);
• la rabbia rivolta all’interno, cioè la rabbia trattenuta o soppressa (RabbiaIn);
• le differenze individuali con cui si tenta di controllare la propria
espressione della rabbia (Controllo della Rabbia).
Nelle sezioni della scala che esplorano la rabbia tratto, il soggetto è invitato
ad indicare come si sente "generalmente", in quelle che valutano l’ansia di
stato deve dire, invece, come si sente "nel momento attuale" .
~ 190 ~
Lo STAXI è composto da 44 item, che formano sei scale e due subscale:
• Rabbia di Stato (S-Rabbia): 10 item che misurano l’intensità dei sentimenti
di rabbia in un dato momento;
• Rabbia di Tratto (T-Rabbia): 10 item che misurano le differenze individuali
nell’essere disposti a provare rabbia; si articola in 2 subscale:
- Temperamento portato alla rabbia (T-Rabbia/T): 4 item che
misurano una predisposizione generale a provare o ad esprimere sentimenti
di rabbia senza una specifica ragione;
- Reazione di rabbia (T-Rabbia/R): 4 item che misurano le differenze
individuali nell’essere portati ad esprimere rabbia quando si viene criticati o
minacciati ingiustamente dagli altri;
• Rabbia rivolta all’interno: Rabbia-In (AX/In): una scala di espressione della
rabbia composta da 8 item che misurano la frequenza con cui i sentimenti di
rabbia sono trattenuti o soppressi;
• Rabbia rivolta all’esterno: Rabbia-Out (AX/Out): una scala di 8 item che
misurano la frequenza con cui un individuo esprime rabbia verso altre
persone o verso gli oggetti dell’ambiente;
• Controllo della rabbia (AX/Con): una scala di 8 item che misurano la
frequenza con cui un individuo tenta di controllare l’espressione della
propria rabbia;
• Espressione della rabbia (AX/EX): una scala ricavata dai 24 item delle
scale AX/In, AX/Out, e AX/Con che fornisce un indice generale della
frequenza con cui la rabbia viene espressa, senza tener conto di come
venga espletata.
~ 191 ~
Nel rispondere ad ognuno dei 44 item, gli individui classificano i propri
sentimenti di rabbia su scale a 4 punti che valutano sia l’intensità che la
frequenza con cui se ne fa esperienza, vengono espressi, nascosti, e
controllati (Comunian, 1992).
Lo STAXI è stato ampiamente testato ed ha mostrato ottime caratteristiche
psicometriche.
15. La Social Dysfunction and Aggression Scale - SDAS (Wistedt et al., 1990) è
una scala di osservazione per l’aggressività simile alla scala di Hamilton per
la depressione (HAM-D).
Si compone di 11 item graduati da 0 a 4 (0 = assente, 1 = dubbio o molto
lieve, 2 = da medio a moderato, 3 = grave, 4 = molto grave), 9 dei quali
riguardano l’aggressività eterodiretta e 2 quella autodiretta. Gli stessi Autori
fanno riferimento ad una precedente Global Aggression Scale - GAS, una
scala composta da 11 item che esplorano il disadattamento sociale e
l’aggressività su di un’ampia scala a 11 intervalli, dove 0 = assenza di
aggressività, 2-4 = aggressività media, 5-7 = aggressività moderata e 8-10
= aggressività grave. Successivamente la GAS è stata integrata da due
brevi scale (3 item) che esplorano l’aggressività eterodiretta (Three-items
Outward Aggression Scale - TOAS) e quella autodiretta (Three-items
Inward Aggression Scale - TIAS), attraverso il comportamento, il linguaggio
e gli aspetti secondari dell’aggressività.
16. Il Questionario per gli Attacchi di Rabbia - QAR (Fava, 1991)
è uno strumento di autovalutazione che indaga sulla presenza o assenza,
nei mesi precedenti la valutazione, di attacchi di rabbia, definiti come
inappropriati alla situazione, accompagnati da irritabilità, da sensazione di
perdere il controllo, e da sintomi neurovegetativi, come tachicardia,
sudorazione e vampate di calore. La presenza di attacchi di rabbia è definita
dalla presenza, nei 6 mesi precedenti, dei quattro criteri seguenti: irritabilità,
~ 192 ~
iperreattività, attacchi di rabbia (di cui uno almeno nell’ultimo mese) e
presenza di almeno 4 sintomi neurovegetativi.
17. L’Aggression
Inventory
-
AI (Gladue,
1991)
è
uno
strumento
di
autovalutazione che si propone di valutare il comportamento aggressivo in
quanto caratteristica (o tratto) del soggetto.
È composto da 30 item valutati su di una scala a 5 punti (da "1 = per niente,
affatto" a "5 = è proprio così"). L’AI si articola in quattro subscale:
• Aggressività fisica (PA), composta da 4 item;
• Aggressività verbale (VA), composta da 7 item;
• Impulsività/Impazienza (II), composta da 7 item,
• Evitamento (Avoid), composta da 2 item.
I punteggi dei maschi e delle femmine devono essere considerati
separatamente a causa delle possibili differenze, tra i due sessi, di molti
aspetti dell’aggressività (la scala ha dimostrato, all’analisi fattoriale una
validità di gruppo differenziandosi significativamente gli uomini dalle donne
in tutte e tre le subscale ed in 24 dei 36 item).
18. L’Aggression Questionnaire - AQ (Buss e Perry, 1992) può essere
considerato un completamento del BDHI che Buss aveva messo a punto
oltre trent’anni prima assieme a Durkee (Buss e Durkee, 1957).
Composto da 29 item, indaga quattro aspetti dell’aggressività, quella fisica
(PA, 9 item), quella verbale (VA, 5 item), la rabbia (A,7 item) e l’ostilità (H, 8
item). Lo strumento consente di valutare, non solo quanto un individuo è
aggressivo, grazie al punteggio totale, ma anche, attraverso le subscale,
come questa aggressività si manifesta. Il punteggio totale può variare da 29
a 145, quello delle subscale è espresso dalla somma dei punteggi degli item
~ 193 ~
che le compongono. Anche con l’AQ le differenze fra sessi risultano
rilevanti.
19. La Brief Agitation Rating Scale - BARS (Finkel, 1993) è una scala di 10 item
ricavata dalla CMAI, come versione più breve e di più rapida
somministrazione.
Ogni item è definito e misurato su di una scala da 1 a 7 e si riferisce al
comportamento nelle due settimane precedenti al ricovero (o alla
valutazione); dalla scala si ricavano gli stessi fattori della CMAI (aggressività
verbale, aggressività fisica, comportamenti agitati non aggressivi).
20. La Life History of Aggression - LHA (Coccaro, 1997) fornisce tre
sottopunteggi:
• Aggressività, di 5 item, che quantifica le manifestazioni aperte di
aggressività;
• Comportamento Antisociale/Conseguenze, di 4 item, che valuta il numero
di volte che il soggetto esperisce conseguenze sociali significative legate ai
comportamenti aggressivi e/o il numero di volte in cui ha messo in atto
comportamenti antisociali;
• Aggressività Autodiretta, di 2 item, che quantifica i comportamenti
aggressivi autodiretti.
Per aumentare la variabilità intersoggettiva, gli item della LHA sono valutati
secondo una scala a 5 punti basata sul numero totale di eventi dall’età di 13
anni (0 = nessun evento; 1 = 1 evento; 2 = 2 o 3 eventi; 3 = 4 o 9 eventi; 4 =
10 o più eventi; 5 = più eventi di quanti possano essere contati). Il punteggio
totale della LHA è calcolato sommando i tre sottopunteggi.
21. A questi strumenti si puo’ aggiungere anche la Barratt Impulsiveness Scale,
Version 11 - BIS-11 (Barratt e Stanford, 1995), uno strumento che,
~ 194 ~
valutando "l’agire senza pensare", come può essere definita l’impulsività,
può essere considerato come indice indiretto dell’aggressività la quale è
caratterizzata generalmente dalla riduzione o dalla perdita del controllo degli
impulsi. È una scala di autovalutazione, di rapida e facile compilazione,
ampiamente usata sia per valutare il ruolo dell’impulsività nel contesto della
psicopatologia, sia per lo studio dell’impulsività nei soggetti non psichiatrici.
10.2. VALUTAZIONE DELL’AGGRESSIVITÀ IN ACUTO
Alcuni Autori hanno messo a punto degli strumenti di misurazione e di
descrizione degli episodi acuti di aggressività (Tab. 12 pag.197).
Questo tipo di valutazione ha avuto un certo spazio fino a che l’assistenza
psichiatrica era prevalentemente di tipo ospedaliero, con ricoveri di lunga
durata, e questo offriva l’opportunità di osservare con una certa frequenza
questi comportamenti; oggi, che l’assistenza psichiatrica si svolge in
larghissima misura nel territorio, questi comportamenti sono di più rara
osservazione diretta e questi strumenti hanno perso gran parte del loro
valore.
Bunney e Hamburg (1963) sono stati probabilmente i primi ad occuparsi
dell’argomento sviluppando una scala di 24 item per l’osservazione
sistematica del comportamento emotivo, dalla quale emergono quattro aree
di comportamenti affettivi: depressione, rabbia, ansia e comportamento
psicotico.
Hargreaves (1968) ha proposto la Nursing Rating Scale - NRS, composta
da 24 item che coprono sia le dimensioni affettive della scala di Bunney e
Hamburg, sia altre dimensioni, quali i disturbi del pensiero, i comportamenti
interpersonali, il livello di attività ed il funzionamento globale. L’analisi
fattoriale isola quattro fattori distinti: rabbia, disturbi del pensiero, ansia e
depressione.
~ 195 ~
Sulla base della scala di Bunney e Hamburg e di quella di Hargreaves,
Green ha costruito l’Inpatient Behavioral Rating Scale - IBRS (Green,1977)
per la valutazione, mediante 26 item, del comportamento di pazienti
schizofrenici
disturbati
acutamente.
Sebbene
diversi
studi
abbiano
documentato l’utilità di questa scala nella valutazione in acuto del
comportamento di pazienti psichiatrici, la sua struttura fattoriale è ancora
dubbia.
Squier ha proposto recentemente un adattamento della IBRS, l’Acute
Psychiatric Rating Scale - APRS (Squier, 1995), composta dai 26 item
originali (lievemente modificati) e da due item aggiuntivi, relativi al
comportamento autolesivo ed alle lamentele fisiche. L’analisi fattoriale
dell’APRS isola 7 dimensioni: neuroticismo, aggressività, deterioramento
cognitivo, schizofrenia, ipomania, autolesionismo e ritiro emotivo.
Fra questi strumenti si potrebbe collocare anche l’Overt Aggression Scale OAS, che è stato descritto fra le scale generali, in quanto la sua versione
originale è basata sull’osservazione del soggetto durante un episodio
aggressivo, del quale l’osservatore registra i diversi comportamenti
prendendo nota degli interventi effettuati in risposta all’episodio aggressivo
stesso.
~ 196 ~
TAB.
12
PRINCIPALI
SCALE
PER
LA
VALUTAZIONE
DELL’AGGRESSIVITÀ IN GENERALE
Hostility Scale - HoSca (Cook e Medley, 1954)
Buss Durkee Hostility Inventory - BDHI (Buss e Durkee, 1957)
Hostility and Direction of Hostility Questionnaire - HDHQ (Caine et al.,
1967)
Novaco Anger Arousal Scale - NAAS (Novaco, 1975)
Scala di Lagos (Lagos et al., 1977)
Brown-Goodwin Questionnaire - BGQ (Brown et al., 1979, 1992)
Questionario Irritabilità-Ruminazione/Dissipazione - QI-R (Caprara et al.,
1991)
- Scala di Irritabilità (Caprara, 1983)
- Scala di Ruminazione/Dissipazione (Caprara et al., 1985a)
Overt Aggression Scale - OAS (Yudofsky et al., 1986)
- Modified OAS (Kay et al., 1988)
- Retrospective Overt Aggression Scale - ROAS (Sorgi et al., 1991)
- Staff OAS - SOAS (Palmstierna e Wistedt, 1987)
Cohen-Mansfield Agitation Inventory - CMAI (Cohen-Mansfield e Billing,
1986)
Multidimensional Anger Inventory - MAI (Siegel, 1986)
~ 197 ~
State-Trait Anger Expression Inventory - STAXI (Spielberger, 1988)
Social Dysfunction and Aggression Scale - SDAS (Wistedt et al., 1990)
Global Aggression Scale - GAS (Wistedt et al., 1990)
Questionario per gli Attacchi di Rabbia - QAR (Fava et al., 1991)
Aggression Inventory - AI (Gladue, 1991)
Aggression Questionnaire - AQ (Buss e Perry, 1992)
Brief Agitation Rating Scale - BARS (Finkel et al., 1993)
Life History of Aggression - LHA (Coccaro et al., 1997)
Barratt Impulsiveness Scale, Version 11 - BIS-11 (Barratt e Stanford,
1995)
~ 198 ~
CAPITOLO 11. DESCRIZIONE ED ELABORAZIONE DEL
RISULTATO SUI QUESITI DEL QUESTIONARIO
Introduzione:
La comunicazione interpersonale tra sanitario e utente dei
ospedalieri rappresenta la via maestra per mettere in atto
servizi
azioni di
promozione della salute. L’infermiere professionale, ogni giorno di più, sta
assumendo responsabilità crescenti nel rapporto con l’utente dei servizi
sanitari. Negli ultimi anni il rapporto tra sanitari e utenti si è molto modificato.
I cittadini hanno acquisito una sempre maggior cognizione dei propri diritti in
ambito sanitario ed hanno imparato a rivendicarli nelle forme dovute.
Tuttavia sono aumentate anche le reazioni aggressive dei cittadini verso i
sanitari. Gli infermieri, più frequentemente degli altri sanitari, sono oggetto
dell’aggressività dell’utente.
Per questo motivo è stato deciso di proporre un questionario rivolto agli
infermieri dei servizi ospedalieri e degli ambulatori territoriali che svolgono il
lavoro nell’area critica.
Nella mia ricerca ho dedicato molto spazio alla gestione dell’aggressività e
mi piacerebbe con il Vostro prezioso aiuto poter approfondire la mia ricerca.
Vi invito a compilare un questionario contenente 22 domande
ringrazio infinitamente per la collaborazione.
~ 199 ~
e
Vi
11.1. QUESTIONARIO
1. Sbarrare il quadratino corrispondente all’età compiuta:
□
20-29 anni
□
40-49 anni
□
30-39 anni
□
50-59 anni
2. Da quanto tempo lavora in reparto psichiatrico?
□
da 3 ai 5 anni
□
dai 6 ai 10 anni
□
dai 11 ai 15 anni
□
dai 16 ai 20 anni
□
oltre i 20 anni
…
…
3. Quanto è d’accordo con queste affermazioni:
1= forte disaccordo, 2= poco d’accordo, 3= parzialmente d’accordo,
4= d’accordo, 5= fortemente d’accordo
a) L’aggressività è una sindrome spesso non diagnosticata
1
□
b)
2
□
□
3
L’aggressività
4
□
5
□
è una manifestazione frequente del paziente
degente in un reparto psichiatrico
1
□
2
□
3
□
4
□
5
□
c) L’aggressività è un problema che richiede interventi precoci
1
□
2
□
3
□
4
□
5
□
d) L’aggressività del paziente aumenta il carico di assistenza infermieristica
1
□
2
□
3
□
4
~ 200 ~
□
5
□
e) In alcuni casi l’aggressività è prevenibile
1
□
2
□
3
□
4
□
5
4. E’ mai stato testimone o vittima di episodi aggressivi
□
agiti da pazienti
psichiatrici?
SI
□
NO
□
5. Il paziente aveva motivazioni validi che incedessero alla violenza?
SI
□
NO
□
6. Pensa che gli adolescenti siano tendenzialmente aggressivi?
SI
□
NO
□
7. Pensa che le persone vittime di violenza nella infanzia diventino
tendenzialmente più aggressive?
SI
□
NO
□
8. Pensa che gli extracomunitari siano tendenzialmente più aggressivi?
SI
□
NO
□
9. Pensi che i pazienti psichiatrici siano tendenzialmente più aggressivi?
SI
□
NO
□
10. Pensi che i comportamenti aggressivi siano indicativi in malattia mentale?
SI
□
NO
□
11. Quali sono secondo Lei le situazioni a rischio:
□
Affollamento in reparto
□
Pazienti con diagnosi di disturbo borderline
□
Pazienti caratteriali
□
Pazienti con anamnesi di comportamenti violenti
~ 201 ~
□
Pazienti con acatisia
□
Pazienti con storia di abuso di sostanze stupefacenti
□
Pazienti stranieri con difficoltà di comprensione della lingua italiana
□
Pazienti in TSO non sufficientemente informati riguardo le modalità di
ricovero
12. Quali sono secondo Lei i fattori di rischio:
□
Fattori biologici (genetica)
□
Fattori relazionali (rapporti interpersonali)
□
Fattori sociali (stato civile, stato economico, stato occupazionale,
ecc)
□
Fattori
psichici
(depressione,
alcolismo,
schizofrenia,
tossicodipendenza, vari disturbi psichiatrici,ecc)
□
Fattori inabilitanti (malattie gravi con esito infausto, incidenti gravi
invalidanti)
13. L’ambiente ha avuto un ruolo nell’evento aggressivo?
SI
□
NO
□
Se SI, quale?
____________________________________________________________
14. L’organizzazione del Suo lavoro ha avuto un ruolo nell’evento aggressivo?
SI
□
NO
□
Se SI, quale?
____________________________________________________________
15. A fronte di un evento aggressivo, quali sono state le azioni intraprese?
□
farmacoterapia
□
ricovero
□
contenzione
□
dialogo
□
riorganizzazione del lavoro
□
audit
~ 202 ~
16. Nella Sua U.O. vengono abitualmente utilizzate strumenti di valutazione del
rischio aggressivo? Per esempio, la scala MOAS (Scala modificata
dell’aggressività manifesta)
SI
□
NO
□
Se SI, quando?
□
all’ingresso
□
alla dimissione
□
quotidianamente
altro___________________________________________________
Se SI, quali?
____________________________________________________________
17. Il tema di aggressività è oggetto frequente di dibattito all’interno della Sua
U.O.?
SI
□
NO
□
18. Ha letto in ultimi 3 anni un saggio sulla aggressività?
SI
□
NO
□
Se SI, quale?
____________________________________________________________
19. Ha frequentato un corso di aggiornamento sul tema di aggressività negli
ultimi 3 anni?
SI
□
NO
□
Se SI, quali?
____________________________________________________________
20. Considerando i vari aspetti della Sua attività professionale, si ritiene:
□
molto soddisfatto
□
soddisfatto
□
abbastanza soddisfatto
~ 203 ~
□
poco soddisfatto
□
per niente soddisfatto
21. Quali proposte farebbe per migliorare la gestione degli eventi aggressivi?
a)__________________________________________________________
b)___________________________________________________________
c)___________________________________________________________
22. Eventuali commenti:
____________________________________________________________
____________________________________________________________
____________________________________________________________
Unita operativa:________________________________________________
Data:
______________________________________________________
GRAZIE PER LA COLLABORAZIONE!!!
~ 204 ~
11.2. ANALISI DEI DATI:
Il questionario di ricerca è composto da 136 iter compilati da infermieri che
svolgono attività lavorativa presso unità operative di area critica dei presidi
di Rimini e Riccione e che volontariamente hanno partecipato alla mia
indagine.
Obbiettivo: Descrivere gli studi di valutazione di un semplice questionario
messo a punto per valutare l’opinione dei operatori sanitari (infermieri) con
le seguenti caratteristiche:
-
facile, di rapida compilazione;
-
accettabile;
-
autocompilato.
Risultato d’indagine: Indagati 136 operatori, 72 hanno risposto al
questionario (52,94% del totale) e 62 operatori no hanno partecipato.
Unita operative coinvolte:

Presidio di Rimini:

118 Romagna Soccorso – 30 operatori;

SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e
Cura) – 17 operatori;

Dipendenze patologiche (Ser.T) - 11
operatori;

Centro di riabilitazione psichiatrica “Il
Glicine” (Bellaria-Igea Marina) – 4 operatori;

Presidio di Riccione:

118 – 7 operatori,

Dipendenze patologiche (Ser.T) - 3
operatori
~ 205 ~
Grafico 1. Età compiuta
45,00%
41,66%
40,00%
35,00%
30,55%
30,00%
25,00%
20,00%
18,05%
15,00%
10,00%
9,72%
5,00%
0,00%
20-29
30-39
40-49
50 e oltre
 Grafico1. L’età media del campione è tra 30 e 45 anni.
Grafico 2. Da quanto tempo lavora in reparto psichiatrico?
40,00%
36,11%
35,00%
30,00%
25,00%
20,83%
20,00%
15,00%
13,88%
13,88%
18,05%
10,00%
5,55%
5,00%
0,00%
da 3 a 5 da 6 a 10 da 11 a
anni
anni
15 anni
da 16 a
20 anni
oltre i 20
non
anni
risposto
 In Grafico 2 si può vedere che il 13,88% degli intervistati svolgono il
servizio nell’area critica psichiatrica da oltre 20 anni, nonostante la
percentuale alta di persone che non hanno risposto (36,11%) alla
domanda. Questo dato può essere spiegato dal fatto che la maggior
parte degli intervistati non lavorano nel reparto appartenente al
~ 206 ~
servizio psichiatrico, come U.O. di 118, ma abbiano a che fare nella
loro attività lavorativa con i pazienti con problemi psichiatrici.
Grafico 3. L’aggressività è una sindrome spesso non diagnosticata?
35,00%
30,55%
30,00%
25,00%
31,94%
poco d'accordo
20,83%
20,00%
15,00%
10,00%
forte disaccordo
parzialmente
d'accordo
9,72%
d'accordo
6,94%
fortemente
d'accordo
5,00%
0,00%
 Grafico 3. Per spiegare l’opinione che riguarda la diagnostica
dell’aggressività è necessario osservare il Grafico 3 riportato in
seguito in quale si evidenziano i seguenti aspetti: la percentuale più
alta di indagati (31,94%) è d’accordo e parzialmente d’accordo
(30,55%) con l’affermazione che l’aggressività non va diagnosticata.
Questo può far pensare che più della metà degli infermieri (del
campione) prestano un attenzione particolarmente focalizzata sul
problema.
~ 207 ~
Grafico 4. L’aggressività è una manifestazione frequente del paziente
degente in reparto psichiatrico?
forte disaccordo
8,33%
16%
poco d'accordo
19,44%
27,70%
29,16%
parzialmente
d'accordo
d'accordo
fortemente
d'accordo
 Nel Grafico 4 sono riassunti alcuni punti importanti della situazione
che riguarda il paziente ricoverato nell’UO psichiatrica. Il 29,16%,
27,70% e 16% (62,86% del campione) affermano che l’opinione sul
paziente degente nel reparto psichiatrico è tendenzialmente positiva.
Il motivo di questa risposta può essere determinato
dall’osservazione, dall’esperienza lavorativa, dalla statistica delle
U.O. sugli atti aggressivi volti verso operatori sanitari da parte dei
pazienti degenti.
Grafico 5. L’aggressività è un problema che richiede interventi precoci?
8,33%
forte d'accordo
11,11%
poco d'accordo
29,16%
parzialmente
d'accordo
38,88%
d'accordo
12,50%
~ 208 ~
fortemente
d'accordo
 Grafico 5. Alla domanda “L’aggressività è un problema che richiede
interventi precoci?” ben 55 persone, il 76,37% del campione, hanno
risposto positivamente. Questi dati sono importanti per comprendere
il
significato notevole dell’assistenza, prevenzione e cura del
paziente aggressivo.
 Il Grafico 6 illustra nel dettaglio, l’opinione degli operatori
sull’assistenza al paziente aggressivo. Hanno particolare importanza
le voci “fortemente d’accordo” e “ d’accordo”. Questi voci sono tra le
più interessanti. L’84,71% del campione riferisce che il carico
dell’assistenza infermieristica aumenta notevolmente con le
manifestazioni aggressive dei pazienti e che sono i problemi
principali del campione.
Grafico 6. L’aggressività del paziente aumenta il carico di assistenza
infermieristica?
60,00%
54,16% forte disaccordo
50,00%
poco d'accordo
40,00%
30,55%
30,00%
parzialmente
d'accordo
20,00%
d'accordo
10,00%
5,55%
1,38%
0,00%
1
2
8,33%
3
4
5
fortemente
d'accordo
 Grafico 7 . Riprendendo i dati del Grafico 5 si possano osservare i
dati del Grafico 7. In questo grafico, una percentuale delle persone
(44,44%) afferma che l'aggressività è prevenibile e soltanto 4,16%
approvano un forte disaccordo. Confrontando questo grafico con il
precedente Grafico 5 si potrebbe dedurre che il problema della
~ 209 ~
prevenzione è molto importante nell’ambito delle U.O. psichiatriche e
altre aree critiche.
Grafico
7.
In
alcuni
casi
l’aggressività
è
prevenibile?
72 indagati
non risposto
1,38%
20,83%
fortemente d'accordo
d'accordo
18,05%
parzialmente d'accordo
poco d'accordo
forte disaccordo
44,44%
11,11%
4,16%
Grafico 8. E’ mai stato testimone o vittima di episodi aggressivi agiti da
pazienti psichiatrici?
25,05%
si
no
83,34%
 Nel seguente Grafico 8 le percentuali dei “Si” sono piuttosto alte. Nel
corso dell’attività lavorativa il campione (83,34%) ha subito o ha
assistito agli atti aggressivi agiti dai pazienti psichiatrici. Questo
risultato fa pensare che gli atti aggressivi sono molto frequenti negli
O.U. dell’area critica
~ 210 ~
Grafico 9. Il paziente aveva motivazioni validi che incedessero alla
violenza?
9,72%
non risposto
47,22%
no
43,05%
si
0,00%
10,00% 20,00% 30,00% 40,00% 50,00%
 Nel Grafico 9 si può confrontare le risposte che riguardano le
motivazioni del paziente. E’ da notare che la percentuale è quasi la
stessa, in effetti il 43,05% delle persone hanno risposto
positivamente ed il 47,22% hanno risposto negativamente. In questo
caso si può osservare l’incertezza delle opinioni degli operatori sui
motivi del paziente.
Grafico 10. Pensa che gli adolescenti siano tendenzialmente aggressivi?
120,00%
100,00%
80,00%
16,66%
no
60,00%
si
40,00%
83,33%
20,00%
0,00%
0
0
~ 211 ~
0
 Grafico 10. La maggior parte degli infermieri pensano positivamente
(il 83,33% del campione) e descrive il fenomeno proprio come
problema di natura, ma un’altra parte il 16,66% non lo approva.
 Grafico 11.Nel grafico successivo si possano vedere quali fossero i
problemi dell’infanzia. Come illustrato già dal Grafico 10 , si osserva
la stessa tendenza nel Grafico 11, cioè ad attribuire l’aggressività
anche alle persone le quali hanno subito l’atto aggressivo
nell’infanzia. Ben 94,44% pensano positivamente e soltanto una
piccola parte non è d’accordo (il 5,55% del campione).
Grafico 11. Pensa che le persone vittime di violenza nell’infanzia diventino
tendenzialmente più aggressive?
100%
5,55%
no
si
95%
94,44%
90%
~ 212 ~
Grafico 12. Pensa che gi extracomunitari siano tendenzialmente aggressivi?
90,00%
80,55%
80,00%
70,00%
60,00%
si
50,00%
40,00%
30,00%
20,00%
10,00%
0,00%
no
19,44%
non risposto
0%
 Grafico 12.Per quanto riguarda questo grafico, i dati raccolti possono
fornire l’opinione degli infermieri sui pazienti stranieri. Un’attenzione
particolare merita la questione delle idee negative a prescindere
verso i pazienti extracomunitari (il 80,55% del campione pensa che il
paziente straniero è tendenzialmente aggressivo)
Grafico 13. Pensa che i pazienti psichiatrici siano tendenzialmente più
aggressivi?
no; 12,50%
si; 87,50%
~ 213 ~
 Grafico 13. In base ai dati di questo grafico, si puo’ vedere che
l’87,50% attribuisce l’aggressività al paziente psichiatrico.
 Grafico 14. Per quanto riguarda i comportamenti aggressivi e
malattia mentale, la maggioranza degli opinioni afferma che la
malattia mentale incide sull’aggressività (il 80,55% del campione).
Grafico 14. Pensa che i comportamenti aggressivi siano indicativi in malattia
mentale?
100%
90%
80%
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
19,44%
no
80,55%
~ 214 ~
si
Grafico15. Fattori di rischio.
Fattori di rischio
Fattori inabilitanti
(malattie gravi con
esito infausto, incidenti
gravi invalidanti)
13,88%
80,55%
34,72%
Fattori psichici
(depressione,
alcolismo, schizofrenia,
tossicodipendenza,
vari disturbi psichiatrici,
ecc)
Fattori sociali (stato
civile, sato economico,
stato occupazionale,
ecc)
Fattori relazionali
(rapporti interpersonali)
51,38%
Fattori biologici
(genetica)
19,44%
0,00%
50,00%
100,00%
 Grafico 15. I dati contenuti in questo grafico sono relativi ai fattori di
rischio che incidono sull’aggressività. Si può vedere come i “Fattori
psichici” siano stati percepiti da una percentuale piuttosto alta del
campione, l’80,55%. Da notare che la percentuale è notevolmente
alta anche nella voce “Fattori relazionali” (il 51,38% del campione). Il
valore di 34,72% corrisponde a “Fattori sociali” Invece “Fattori
biologici” e “Fattori inabilitanti” rimangono sotto il 20%.
~ 215 ~
Grafico 16. Situazioni a rischio.
Affolamento in reparto
60,00%
54,16%
54,16%
Pazienti con diagnosi
di disturbo borderline
50,00%
47,22%
Pazienti caratteriali
40,27%
40,00%
38,88%
38,88%
Pazienti con
anamnesi di
comportamenti violenti
30,00%
Pazienti con acatisia
20,00%
10,00%
16,66%
6,94%
Pazienti con storia di
abuso di sostanze
stupefacenti
Pazienti stranieri con
difficoltà di
compressione della
lingua italiana
Pazienti in TSO non
sufficientemente
informati riguardo le
modalità di ricovero
0,00%
100,00%
Come si può vedere nel Grafico 16 è stato riscontrato che una situazione a
~ 216 ~
rischio può provocare l’aggressività :
1) una percentuale piccola del campione (il 6,94% del totale) pensa che i
pazienti con l’acatisia possano creare una situazione a rischio;
2) una percentuale di 16,66% vedono i pazienti stranieri nella potenziale
situazione di rischio;
3) le voci “Affollamento nel reparto” e “Pazienti in TSO non sufficientemente
informati riguardo le modalità di ricovero” rappresentano i valori notevoli nel
grafico (il 38,88%);
4) il 40,27% è attribuito a “Pazienti con disturbi borderline”;
5) la voce successiva, invece, descrive “Pazienti caratteriali” dove si può
osservare la percentuale alta (il 47,22%) di affermazioni;
6) infine, per quanto riguarda “Pazienti con anamnesi di comportamenti
violenti” e “Pazienti con storia di abuso di sostanze stupefacenti” condivide
lo stesso valore (il 54,16%). Questo dato fa pensare che questi sono i
problemi principali del campione.
Grafico 17. L’ambiente ha avuto il ruolo nell’evento aggressivo?
2,77%
43,05%
54,16%
si
no
non risposto
Se Si, quale?
-
Affollamento del reparto;
-
Situazione famigliare;
-
Ambiente di lavoro ostile;
-
Ambiente chiuso;
-
Presenza nel reparto dei pazienti tendenzialmente aggressivi;
~ 217 ~
-
Comportamenti non empatici da parte del personale;
-
Poca disponibilità all’ascolto;
-
Divisa sanitaria degli operatori (spaventa)
 Grafico 17. I dati contenuti in questo grafico sono fondamentali per
comprendere il ruolo dell’ambiente nell’evento aggressivo. E’
importante notare che delle restanti persone del campione, 31, cioè il
43,05%, hanno risposto negativamente alla domanda. Questo dato,
la quasi parità delle opinioni, fa pensare che l’ambiente è una parte
significativa nell’evento aggressivo, ma nello stesso tempo non
conduce il paziente all’aggressività.
Grafico 18. L’organizzazione del Suo lavoro ha avuto ruolo nell’evento
aggressivo?
4,16%
75%
no
non risposto
20,83%
0,00%
si
50,00%
100,00%
Se Si, quale?
-
Poco tempo per ascolto e risposta;
-
Incapacità di valutare il paziente;
-
Dialogo;
-
Relazionarsi con il paziente ha contenuto lo stato di agitazione
 Dal Grafico 18 Si può dedurre che, nonostante la percentuale alta
(75%) di persone intervistate, il 20,83% pensa che l’organizzazione
del proprio lavoro non è congruo.
~ 218 ~
Grafico 19. A fronte di un evento aggressivo, quali sono state le azioni
intraprese?
farmacoterapia
70,00%
ricovero 16,66%
62,50%
60,00%
contenzione
50%
50,00%
dialogo
44,44%
40,00%
riorganizzazione
del lavoro 9,72%
30,00%
audit
20,00%
niente 4,16%
18,05%
niente
10,00%
0,00%
dialogo
farmacoterapia
 Grafico 19. Il 62,50% del campione ha risposto dando la priorità a
farmacoterapia; Il 50% delle persone hanno optato per il dialogo; Il
44,44% di operatori ritengono che la contenzione sia la soluzione
migliore; Il 16,66% sono favorevoli per il ricovero; E soltanto la voce
“riorganizzazione del lavoro” ha avuto 9,72% di tutto l’iter. Questo
dato può essere spiegato dal grafico precedente.
~ 219 ~
Grafico 20. Vanno utilizzati gli strumenti di valutazione nella Sua UO?
4,16%
29,16%
si
no
non
risposto
66,66%
Se Si, quali?
-
All’ingresso - 4
-
Alla dimissione – 5
-
Quotidianamente - 5 (Modificata durante il ricovero)
-
All’evento OAS ARS -5 – Glicine
 Grafico 20. Come si può vedere dal Grafico 20 è stato rilevata una
percentuale piuttosto alta di risposte negative (66,66%), ciò fa
pensare che nei reparti di area critica vanno utilizzati raramente gli
strumenti di valutazione del evento aggressivo.
 Grafico 21. Da notare che la percentuale è la stessa, in effetti il
47,22% delle persone hanno risposto in maniera identica, sia
positivamente che negativamente. Questo spiega il fatto di tanti
dibattiti, di tanti dubbi, di tante domande all’interno delle U.O.
dell’area critica.
~ 220 ~
Grafico 21. Il tema di aggressività è l’oggetto frequente del dibattito
all’interno della sua UO?
50,00%
47,22% 47,22%
40,00%
si
30,00%
no
non risposto
20,00%
5,55%
non risposto
10,00%
no
si
0,00%
Grafico 22. Ha letto negli ultimi 3 anni un saggio sull’aggressività?
100%
12,51%
non ricordo il titolo
80%
60%
no
40%
20%
86,11%
0%
Se SI, quale?
si
0
0
0
1,38%
0
“Aggressività”, K.Lorenz, 1981
 Grafico 22. Soltanto 1,38% (una persona) ha risposto alla domanda
positivamente. Nonostante questo valore, si può vedere che altri
operatori (il 12,51% del campione) hanno utilizzato la letteratura
dedicata al tema di aggressività.
~ 221 ~
 Grafico 23. Nel grafico successivo si può confrontare le risposte che
riguardano l’opinione sulla formazione professionale specifica. Il 75%
del campione ha risposto negativamente ciò fa pensare all’assenza
di competenza in questo campo di lavoro.
Grafico 23. Ha frequentato un corso di aggiornamento sul tema di
aggressività negli ultimi 3 anni?
4,16%
100,00%
80,00%
non risposto
75%
60,00%
no
si
40,00%
20,00%
20,83%
0,00%
Se Si, quale?
-
Nell’ambito di un corso specifico di laurea (SSES-UNIBO);
-
Comportamento da adottare e la difesa;
-
Gestione dell’aggressività nel paziente psichiatrico;
-
Come gestire l’aggressività;
-
Corso interno;
-
Non ricordo il titolo;
-
Solo in audit;
 Grafico 24. L’ultimo grafico descrive l’opinione sull’attività
professionale. La maggior parte degli operatori ritiene l’attività
professionale abbastanza soddisfacente (il 43,05% del campione) e
soltanto il 2,77% la ritiene per niente soddisfacente. Questi dati sono
tra i più interessanti, visto che il campione preso in esame è
~ 222 ~
composto da personale che svolge la sua attività lavorativa nell’area
critica.
Grafico 24. Considerando i vari aspetti della Sua attività professionale, si
ritiene:
2,77% 4,16% 6,94%
molto soddisfatto
15,27%
soddisfatto
27,77%
abbastanza soddisfatto
poco soddisfatto
per nieinte soddisfatto
43,05%
non risposto
Quali proposte farebbe per migliorare la gestione degli eventi aggressivi?
-
Corsi di aggiornamento e formazione professionale specifici;
-
Risorse a disposizione. Potenziare i servizi sociali, anche con più fondi e
figure professionali;
-
Disposizioni legali;
-
Audit;
-
Presenza costante del medico;
-
Uso frequente degli strumenti di valutazione;
-
Immediata interpretazione di situazioni a rischio;
-
Riduzione dei posti letto;
-
Riduzione degli stimoli che inducono all’aggressività;
-
Interventi precoci ai primi segnali di aggressività;
-
Lavoro di gruppo con i pazienti e specialista;
-
Presenza di forze dell’ordine sul luogo;
-
Gestione dello stress dell’operatore.
~ 223 ~
~ 224 ~
11.3.IN SINTESI:
Questo lavoro ha voluto essere un’analisi del fenomeno “aggressività” dal
punto di vista di una studentessa, quindi non pretende certo di essere
completo di tutti gli elementi che ruotano intorno al tema dell’aggressività
nell’area critica.
Il questionario è stato un utile strumento per ricavare preziosi informazioni
sull’aggressività e come la vedono gli operatori sanitari. In molti grafici è
stato dimostrato che l’aggressività è frequente e, soprattutto, molti operatori
considerano l’evento aggressivo come fattore estrinseco: appartenenza ad
un’altra nazione (l’80,55% del campione ha risposto positivamente
attribuendo molta importanza a questo fatto), ad un’altra cultura, agli abusi
fisici e psicologici in infanzia (il 94,44% del campione pensano che l’abuso
subito nell’infanzia possa portare ad essere aggressivi in adolescenza e in
seguito in età adulta), al ruolo dell’ambiente, uso di sostanze stupefacenti,
alla trascuratezza di interventi precoci sull’atto aggressivo, assenza di una
diagnosi precoce, ecc….
Bisogna fare una considerazione, da notare l’importanza di formazione
professionale (corsi specifici di formazione e autoformazione) e l’uso dei
strumenti di valutazione dell’aggressività nelle U.O. dell’area critica del
paziente psichiatrico, che in questa descrizione risulta una parte mancante
per comprendere meglio il comportamento aggressivo.
L’importante sottolineare subito che i comportamenti aggressivi delle
persone con le malattie psichiatriche sono in genere di numero inferiori a
quelli della popolazione generale. Più frequente è invece il rischio in
ambiente psichiatrico ed è lo staff infermieristico l’obiettivo più frequente
delle aggressioni. Il numero degli infermieri che hanno subito una violenza
da parte dei pazienti psichiatrici (l’83,34% del campione) porta a riflettere!
Gli episodi di aggressività si possono considerare come un problema molto
importante per le ricadute, soprattutto psicologiche, che possano avere sugli
operatori (burn aut) e sui degenti (compromissione delle relazioni
terapeutiche), nella convinzione che gli incidenti violenti non sono degli
eventi inevitabili ma che sia possibile e doveroso prevederli e prevenirli.
~ 225 ~
Appare evidente come l’impostazione di corrette procedure di accoglienza,
di accessibilità dell’utente e dei parenti al personale medico ed
infermieristico, di gestione di tempo, dei colloqui, organizzazione del lavoro,
ruolo dell’ambiente, delle uscite programmate possa notevolmente ridurre il
rischio
di
comportamenti
l’importanza
di
strutture
violenti.
La
architettoniche
letteratura
adeguate
evidenzia
al
inoltre
contenimento
dell’aggressività, anche nel utilizzo di diversi mezzi di contenimento fisico.
Di grande importanza anche la disponibilità di procedure farmacologiche
(il 62,50% del campione ha dato la priorità alla farmacoterapia), sebbene si
evidenzi come non si possano stabilire chiare relazioni di efficacia tra la
scelta di un farmaco od un’altro in determinati episodi di aggressività, se
non in pochi casi molto specifici.
Lo spazio è indispensabile, per diminuire i fattori di rischio correlati
all’agitazione psicomotoria, fattori tra i quali si ricordano: l’ambiente
percepito come minaccioso, la mancanza di privacy, la convivenza forzata,
il misto di patologie diverse che convivono contemporaneamente nello
stesso ambito.
Posso affermare che questo lavoro mi è stato molto utile, oltre che per
l’approfondimento teorico di quella che è la realtà dell’aggressività, anche
per aver arricchito il mio bagaglio esperienziale attraverso il tirocinio clinico
svolto in U.O. di Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (presidio di Rimini),
e, soprattutto, per avermi fornito spunti interessanti di riflessione sui quali
interrogarmi.
Quindi che cose’è l’aggressività, un segno o un sintomo?
Come si può evidenziare, nessuno del’item del questionario risulta, infatti, in
grado di soddisfare la risposta quindi, non possono né debbono essere
considerate niente di più che strumenti di osservazione sull’aggressività.
Queste scelte sono il prodotto non solo dell'esperienza, ma anche di un
lungo e faticoso lavoro di ricerca, di osservazione, di raccolta e di
valutazione dell’utente nelle U.O. dell’area critica.
~ 226 ~
CAPITOLO 12. CONCLUSIONI DELLA TESI
Questo lavoro non ha le finalità di essere esaustivo, poiché si basa
essenzialmente su ricerche teoriche, ma vuole fornire , in un contesto in
forte evoluzione e in presenza di ricerche e statistiche dettagliate, un quadro
sull’aspetto del argomento, che è il punto di riferimento ideale per la
valutazione. Nel corso di questa tesi il mio obiettivo era realizzare un lavoro
rivolto a chi si occupa dello studio, e non è strettamente uno specialista
della psichiatria. Per questo motivo ho riservato particolare attenzione ai
vari
aspetti
dell’aggressività,
dalla
definizione
del
comportamento
aggressivo, della violenza, condotte suicidarie, aspetti clinici, ruolo del
ambiente, genetica, età, sesso, al trattamento farmacologico. Tuttavia,
quando è stato possibile, ho inserito elementi di carattere tecnico (schede di
valutazione e questionario), tratti dalla mia (purtroppo poca) esperienza del
tirocinio clinico svolto presso Servizio Psichiatrico Di Diagnosi e Cura
dell’AUSL di Rimini, utile per una corretta comprensione dell’argomento.
La gran parte della tesi è dedicata all’argomento e alle varie teorie tratte da
autori di fama mondiale come i più famosi Z.Freud, K.Lorenz, Skinner,
Bandura, M.Klein, Berkowitz, H.Kohut, O.Kernberg. Mi sembra opportuno
sottolineare che il tema dell’aggressività è stato affrontato anche da molti
altri autori che non sono menzionati in questa sintesi.
Nel definire se l’aggressività è un segno oppure un sintomo ci aiuta
innanzitutto il significato dei termini. Si parla quindi di sintomo come un
qualche cosa di soggettivo, percepito dal paziente attraverso l’uso dei sensi
e al segno come un’anormalità oggettivamente interpretata dallo specialista.
I sintomi sono esperienze soggettive di varia natura descritte dal paziente,
come la depressione dell'umore e la riduzione dell'energia, espressi talvolta
come lamentela, al quale può corrispondere o no un segno rilevabile
obiettivamente. Il sintomo è sentito; qualunque modificazione percettibile
~ 227 ~
nell’organismo o nelle sue funzioni che indica una malattia oppure il tipo o la
fase di una malattia.
Per proseguire nella ricerca necessita anche la distinzione tra il concetto di
sintomo e malattia: Per quanto riguarda i sintomi psicosomatici, essi, pur
non organizzandosi in vere e proprie malattie, si esprimono attraverso il
corpo, coinvolgono il sistema nervoso autonomo e forniscono una risposta
vegetativa a situazioni di disagio psichico o di stress. Il sintomo è indizio di
uno stato morboso.
Nell'ambito dei disturbi psichiatrici il problema del sintomo è più complesso.
Gli psichiatri sviluppano la capacità di individuare le malattie mentali delle
persone per diverse ragioni: fare diagnosi accurate; determinare trattamenti
efficaci per i pazienti; offrire una prognosi affidabile; analizzare nel miglior
modo possibile i problemi psichiatrici e comunicare efficacemente con gli
altri medici. Per poter raggiungere questi obbiettivi, devono conoscere
adeguatamente il linguaggio psichiatrico; devono imparare a riconoscere e
definire i segni e i sintomi comportamentali ed emozionali e devono essere
in grado di osservare rigorosamente e descrivere in modo articolato
i fenomeni mentali della psichiatria. La maggior parte dei segni e dei sintomi
psichiatrici si ricollega al comportamento fondamentalmente normale e
corrisponde ai diversi punti dello spettro del comportamento, che va dal
normale al patologico.
Come manifestazione di un processo sottostante, il sintomo è comprensibile
soltanto in una logica causale all'interno della quale, come scrive K.
Jaspers, “[…] si distinguono, a seconda della
i sintomi
fondamentali (primari,assiali)
prossimità della causa,
dai sintomi
accessori (secondari,
marginali). Pur mantenendosi sempre in una logica causale, in ambito
psicopatologico il sintomo assume significati diversi a seconda dei quadri
teorici di riferimento all'interno dei quali avviene la lettura del disturbo
psichico. In ambito fenomenologico si contesta la possibilità di impiegare la
~ 228 ~
nozione di sintomo a proposito delle malattie mentali, perché il sintomo
rinvia a una causa che non si dà se non presupponendola a partire da una
teoria […]”.
In questo senso K. Schneider scrive che “[…] occorre abbandonare il
significato
medico
del
termine
"sintomo",
perché
una
formazione
psicopatologica di stato o di decorso non è una malattia che può produrre
sintomi […]”.
In medicina vige la distinzione tra il segno, che è un fenomeno oggettivo
che l'esaminatore assume come indice di un processo patologico, e il
sintomo, che è un fenomeno soggettivo avvertito dal paziente e che va poi
decodificato. I segni sono più o meno evidenti, in contrasto con le
sensazioni
soggettive
del
paziente.
Il
segno
è
osservato
ed
è
documentabile: alterazione emotiva, cognitiva o comportamentale rilevabile
obiettivamente mediante l’esame clinico o strumentale e al quale può
corrispondere o no un disagio soggettivo. I segni sono reperti obbiettivi
osservati dal medico, quali, ad esempio, l'affettività limitata e il
rallentamento ideomotorio.
E’ necessario quindi capire come si presenta l’aggressività. E’ possibile
attribuirla ai sintomi che percepisce una persona? Cosa può avvertire una
persona che si sente aggressiva? Quali sono i sintomi? E’ possibile
classificarli in sintomi aggressivi? L’aggressività è cosciente oppure no? E’
misurabile l’aggressività? E’ valutabile? E’ osservabile?
Rispondere a queste domande ci sono in aiuto gli strumenti come Le scale
di valutazione, con i Test e Questionari specifici. La parola stessa
“valutazione” porta a dedurre che l’aggressività è una cosa piuttosto
osservabile ed entra nella definizione dei segni.
Tornando alla fase teorica. La scelta degli autori selezionati per questo
lavoro è stata altamente arbitraria, e non è possibile neppure citare coloro
~ 229 ~
che sono stati omessi perché il rischio di trascurarne altri semplicemente
aumenterebbe. Dalla esamina delle varie teorie appare evidente che il
fenomeno dell’aggressività va considerato come segno. Basti prendere in
esempio la teoria del Sigmund Freud.
Secondo la nota teoria duale degli istinti di S. Freud nell’essere umano
sarebbero attivi fin dalla nascita due tipi di istinti: l’istinto di vita, Eros, che
guida la persona alla ricerca del piacere al soddisfacimento dei propri
desideri e l’istinto di morte, Thanatos, che dirigerebbe l’individuo verso
l’autodistruzione. La lotta antagonista tra Eros e Thanatos è causa di
conflitti intrapsichici che possono essere “risolti” spostando la forza
distruttiva verso un’altra persona. L’aggressione sarebbe quindi una
caratteristica
ineliminabile
della
natura
umana
e
non
sarebbe
completamente controllabile dalla persona. Si può dedurre quindi che la
considerazione dell’aggressività come l’istinto, incapacità dell’Io conduce ad
osservare questo fenomeno e quindi a rilevare i segni che lo rappresentano.
La teoria di Skinner nei suoi studi sull’apprendimento, poi definito
“Apprendimento Operante” (Skinner, 1969), ha studiato le “Forme di
condizionamento
del
comportamento”
formulando
in
particolare
la
concezione del rinforzo sia positivo sia negativo. Skinner vede due tipi di
aggressività a partire dagli effetti che essa crea sull’altro: una filogenetica
ed una ontogenetica. L’aggressività filogenetica è istintuale e funzionale alla
specie dal momento che essa rappresenterebbe, attraverso la lotta con
unghie e denti, l’archetipo della selezione naturale e ad essa viene attribuita
una qualità morale buona, dal momento che non porta automaticamente ad
una aggressività finalizzata a fare del male. Diversamente, l’aggressività
ontogenetica rappresenta l’agito orientato a “fare del male”, che si genera in
quanto previsto dalla società, spesso rinforzato dalla stessa ed efficace al
punto da strutturarlo nel carattere collettivo e soggettivo. Sentimenti positivi
vengono vissuti dall’aggressore come segnali di vittoria e quindi come
rinforzo positivo che sostiene l’aggressività stessa. Utile la sublimazione dei
~ 230 ~
istinti più aggressivi in altre attività come ad esempio lo sport. Cosa si può
evidenziare da questa teoria? L’istinto di sopravvivenza della specie come i
rinforzi della società che vengono vissuti in maniera inconscia senz’altro
sono i segni che si possono osservare e quindi non possono essere riferiti
dalla persona stessa.
Sempre negli stessi anni di Skinner, John Dollard arriva a sostenere che
l’aggressività è sempre la conseguenza di una frustrazione e che una
condizione frustrante conduce sempre ad agiti aggressivi ( Dollard e al.,
1939). Egli sottolinea che l’aggressività è difficilmente controllabile sul piano
on/off, mentre lo è di più su un piano di palesità o non palesità. Come dire
che l’aggressività non può essere più di tanto inibita, mentre per timore di
punizioni, può non essere visibile, non palese (Dollard, 1939) ovvero, ogni
atto aggressivo inibito costituisce una nuova frustrazione e quindi un
aumento dell'istigazione all'aggressività e inversamente "il manifestarsi” di
un qualsiasi atto aggressivo riduce l'istigazione all'aggressività stessa. Tutto
questo dimostra l’appartenenza prevalente della teoria ai segni che possano
essere interpretati in uno o in un altro modo.
Più vicino ai giorni nostri è invece il grande lavoro condotto da Stanley
Milgram, in particolar modo sui temi del conformismo, del condizionamento
sociale e dell’obbedienza. Proprio dallo studio dell’obbedienza derivano i
contributi più importanti che l’autore dà al tema aggressività (Milgram,
1963). Milgram parte dal domandarsi quanto una persona che per valori e
principi è contraria a fare del male, sotto pressione di un comando sia
disposta ad essere aggressiva e violenta. Da questo quesito egli arriva a
definire con grande chiarezza quanto un ambiente percepito come
autorevole
e
la
possibilità
dell’aggressore
a
deresponsabilizzarsi
contribuiscano fortemente a generare agiti violenti ed aggressivi, anche in
soggetti naturalmente non portati a compiere tali atti. In questo modo egli
evidenzia che l’aggressività si ottiene da situazioni ambientali e su qualsiasi
persona. Questo è possibile se si riesce a generare conflittualità e
~ 231 ~
disequilibri emozionali nei soggetti, i quali, non riuscendo a fuggire o a
ribellarsi (anche in assenza di punizioni), risolvono tale situazione attraverso
il “controantropomorfismo” (Milgram, 1963), cioè deumanizzando i propri
agiti, deresponsabilizzandosi, come se l’azione aggressiva sia opera di una
“anima” diversa da quella del diretto aggressore. Questo, secondo Milgram,
avviene attraverso uno scarico di responsabilità del diretto aggressore
sull’autorità e/o sull’istituzione, che - in sintesi - porta l’autore ad affermare
che “anche se le persone non sono motivate ad essere aggressive,
possono da un momento all’altro partecipare a comportamenti aggressivi e
distruttivi” (Milgram, 1963, 1974). In questa teoria si può essere sicuri di
attribuire
l’aggressività
ad
un
segno
dove
una
persona
deresponsabilizzandosi e scaricando sui terzi le sue azioni non si rende
conto e non riesce definire con certezza i sintomi che prova.
Un ulteriore autore che si è occupato di aggressività sul versante
sperimentalista è Albert Bandura, si occupa di aggressività dal punto di vista
dell’apprendimento,
dell’Apprendimento
all’interno
Sociale
della
(Bandura,
sua
1973).
più
Egli
ampia
sostiene
teoria
che
l’aggressività sia un fatto sociale e non biologico, dato dai modelli aggressivi
rappresentati dalla società e dalla capacità latente della persona di
apprendere dagli stessi modelli (modeling) (Bandura, 1973). In questo
senso Bandura ritiene che il comportamento aggressivo non sia l’effetto di
una frustrazione, né di una pulsione, ma l’effetto della possibilità di imparare
da modelli aggressivi (modeling), specie se questi sono percepiti come
socialmente accettati, efficaci e premiati. Vengono quindi sottolineati altri
aspetti che intervengono nelle dinamiche aggressive, come la capacità di
apprendere per sola esposizione (esperimento di bambola Bobo), ma
soprattutto come - a prescindere da condizioni mentali soggettive l’aggressività possa esserci unicamente a partire da come la persona pensa
sia il giudizio sociale su una data azione e quindi dal potersi prefigurare in
anticipo conseguenze premianti o punenti il proprio agito. In questa teoria ci
fa ritornare a definire di nuovo il fenomeno di aggressività come un segno.
~ 232 ~
Secondo l’etologo K.Lorenz, l’organismo accumula continuamente energia
aggressiva che verrà liberata in funzione di quanta ne è stata accumulata e
dello stimolo che la eccita (la vista o l’odore di un predatore). Il
comportamento aggressivo sarebbe quindi un istinto funzionale alla
sopravvivenza della specie favorendo il membro più forte e maggiormente
adattato
all’ambiente. Lorenz sostiene che
non
si può eliminare
l’aggressività, ma che si può incanalarla verso forme di scarica non
pericolose come attività sportive, artistiche, ecc. Chiaramente dal concetto
di carica innata, di lotta come istinto primario per garantire la sopravvivenza
si deduce appartenenza di questa teoria ai segni.
Di peso diverso e di più ampia portata è invece il contributo dato alla
psicologia da Melanie Klein (Klein, 1932, 1957), la quale attribuisce
all’aggressività una dimensione istintuale-originaria, già presente alla
nascita e coinvolta da subito nella generazione di strutture psichiche come
l’Io Infantile e il Super-Io. Per lei l’aggressività ha una dimensione
fantasmatica, che si origina dalla matrice del trauma della nascita (Freud,
1920; Rank, 1924), che da subito conduce il bambino ad avere fantasie di
distruttività verso sé e verso l’esterno di Sé. Questa teoria (istintualeoriginaria) dimostra una impossibilità di parlare dei sintomi.
Di grande interesse è anche il lavoro svolto di Donald W. Winnicott, il quale,
partendo dagli studi di Melanine Klein arriva a dare un notevole contributo a
tutta la “Psicologia delle Relazioni Oggettuali”, grazie agli approfondimenti
svolti sul rapporto persona - “oggetto” (Winnicott, 1941, 1971). Il suo
contributo alla conoscenza dell’aggressività parte proprio dallo studio del
rapporto che si ha con gli oggetti che incontriamo nella nostra esperienza e
“dell’uso” che ne facciamo. In una sua affermazione, che racchiude lo spirito
che da all’aggressività, sostiene che omicidio e suicidio sono la stessa cosa
(Winnicott, 1967) e che i rischi di eccesso di aggressività per una società
dipendono direttamente da quanto essa è rimossa negli individui; ovvero
dall’impossibilità di riconoscerla e poterla agire con i sentimenti appropriati.
~ 233 ~
L’aggressività è qui vista come una funzione mentale parziale, che precede
la costituzione di una personalità e che serve al neonato per esprimere
amore, amore aggressivo (ad esempio l’erotismo orale che ha in se
elementi aggressivi) (Winnicott, 1941, 1971), possibile anche perché il
neonato non riesce a preoccuparsi degli effetti delle sue azioni. Attraverso il
passaggio e la maturazione del sentimento di preoccupazione (cosa genero
nell’atro attraverso la mia aggressività) e attraverso l’elaborazione della
rabbia (derivante dalle frustrazioni di una normale esperienza), il bambino si
difenderà scindendo il suo amore aggressivo in due parti distinte e
separate: l’amore e l’odio.
Questa scissione perdurerà ed aiuterà a
consolidare gli aspetti amorosi dentro di sé e a riconoscere e a tenere fuori
di sé quelli aggressivi e di odio. Qui l’aggressività è ritenuta una parte della
pulsione dell’Es (e non una pulsione dell’Es) , quella della sua componente
distruttiva (ma non intenzionale) che, attraverso un sviluppo basato sulla
relazione con l’ambiente capace di integrare ed organizzare l’Io, verrà
trasformata in un’aggressività riconosciuta e gestibile. Il soggetto proverà
rabbia ed odio, ma temendo le conseguenze dei suoi stessi sentimenti sarà
portato a gestire tutto questo. Se le cose invece andassero diversamente,
cioè vi fosse una cattiva esperienza con il mondo esterno, l’individuo
sviluppa un maggior bisogno di vivere nel Non Me anziché nel Me (cioè
essere più concentrato su aspetti dell’esperienza che vede solo come
esterni da sé frustrante) (Winnicott, 1965), dando adito all’attivazione di
comportamenti aggressivi, che per sussistere necessitano di essere
provocati. (siccome lui mi vuole fare male allora io l’aggredisco). Pertanto, in
questo impianto teorico abbastanza articolato, l’aggressività è innata e
precede la fase integrativa e costituente la personalità ed il carattere
partecipando allo sviluppo complessivo della mente. Fondamentale però
diviene anche il contesto ambientale, che qui ha un ruolo ben specifico
rispetto all’aggressività, poiché deve dare la possibilità di vivere esperienze
sufficientemente frustranti, capaci cioè di far riconoscere la rabbia e l’odio e
di integrarle nello stesso tempo con le altre parti di sé. Quindi un ambiente
~ 234 ~
né troppo protettivo, né eccessivamente. In questa teoria si intravede il
discorso dei sintomi, l’individuo interagisce con l’ambiente, riconosce e
gestisce l’aggressività quindi è capace riferire i sentimenti che prova, ma
l’aspetto dell’aggressività innata, dall’impossibilità di riconoscerla e poterla
agire con i sentimenti appropriati fa ritornare a pensare che l’aggressività è
un segno. Soltanto osservando si può definirla.
Altrettanto articolata è poi la teoria sviluppata da Otto Kernberg (Kernberg,
1982, 1992), il quale ha il pregio di aver rivisitato la teoria delle pulsioni
tenendo insieme le teorie degli affetti con quella delle relazioni oggettuali.
Egli ha sviluppato a fondo le dinamiche dell’aggressività e propone una
concezione dell’aggressività innatista e pulsionale-affettvia nello stesso
tempo. Per l’autore l’aggressività è presente negli affetti, ovvero nella
primordiale capacità di distinguere ciò che ci piace (nutrirsi, riscaldarsi…) da
ciò che non ci piace (sentire fame, sentire dolore fisico…). Attraverso le
prime esperienze con il mondo e grazie ad altre due proprietà innate,
fantasticare e memorizzare, sviluppiamo inconsciamente una pulsione di
vita e una pulsione di morte.
L’aggressività è l’espressione della pulsione di morte (Kernberg, 1992).
Entrambe le pulsioni partecipano allo sviluppo di una rappresentazione di sé
e dell’oggetto e successivamente questa sottostruttura si consoliderà in una
struttura tripartita (es, io e super-io). Nel suo lavoro Kernberg non svela
un’aggressività o una dinamica aggressiva particolarmente nuova rispetto
agli autori che lo hanno preceduto, però ha il merito di riuscire a tenere
insieme apparenti sincrasie presenti tra due impianti teorici che tentano di
spiegare le stesse cose: la teoria delle pulsioni e la teoria delle relazioni
oggettuali. Questo avviene principalmente attraverso la possibilità di
collocare la matrice dell’aggressività negli affetti già intrauterini, ovvero
nell’innata capacità di poter soffrire (ed anche godere…) e dalla relativa
primordiale esperienza che possiamo fare di questa nostra capacità, che
~ 235 ~
solo così potrà strutturarsi in pulsione. La teoria di Kernberg ci dimostra
un’altra volta appartenenza di aggressività ai segni.
Aggressività: è un segno o un sintomo? Come si può definire il fenomeno
cosi complesso con una sola parola?
Storr (1968) ha scritto che l’aggressività può essere considerata una "parola
valigia“, poiché porta con se significati molto diversi tra loro: una emozione
aggressiva ingiustificata oppure anche giustificata, una competizione
legittima nel luogo di lavoro, un atteggiamento mentale, un confitto tra
nazioni, e così via. Uno dei problemi nasce dal fatto che il termine
aggressività può alludere simultaneamente al correlato comportamentale di
un’ emozione (agitazione, tachicardia, rossore in volto, ecc.) e a uno stato
psicologico, cioè una qualità astratta, un atteggiamento mentale o una
propensione interna che possono anche non manifestarsi a livello
comportamentale.
La parola stessa nella sua radice etimologica, ha in sé un’ambiguità di
significati, che chiaramente non è causale, ma è invece significativa della
complessità del fenomeno aggressività, che può svolgere funzioni diverse
nell’adattamento della persona alla realtà.
In conclusione, Aggressività = segno-sintomo.
~ 236 ~
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~ 244 ~
RINGRAZIAMENTI
Il mio percorso universitario richiede motivazione e dedizione: dal mio
personalissimo punto di vista, ha richiesto anche una buona dose di
pazienza, non tanto da parte mia quanto da parte di chi si è trovato ad
affiancarmi per un motivo o per l'altro in questi anni.
Di conseguenza, un primo enorme ringraziamento va al mio relatore, il Prof.
Massimo Borghesi, che ha avuto la fiducia (o l'incoscienza) di scegliermi per
stesura della presente tesi. Se mi trovo a scrivere queste righe oggi il merito
è principalmente suo: spero che in qualche modo possa essere fiero di
questo lavoro oltre che per non aver dubitato delle mie capacità.
Allo stesso modo vorrei ringraziare il medico del Pronto Soccorso di
Riccione(RN) Paolo Brici, che sebbene non sia stato il mio diretto
responsabile per questo percorso è stato comunque una figura di
riferimento.
Infine, l'ultimo grazie va alle persone che mi sono state vicine e hanno
creduto in me per tutto questo tempo, che mi hanno sopportato - e tuttora
mi sopportano - soprattutto per quanto riguarda questi ultimi mesi, il loro
lavoro di supporto (non troppo) silenzioso nei miei confronti ha fatto sì che
tutto questo sembrasse più semplice, ovvero alle mie bambine Marta ed
Elisa, al mio meraviglioso compagno Roberto a Lara e ai miei pochi ma cari
amici.
Condensare in qualche riga tutto quello che ho ricevuto da voi in questi anni
non è umanamente possibile e sarebbe riduttivo ed ingiusto, mi limiterò a
dire che avete continuato a crederci anche quando non ci credevo più
nemmeno io e di questo non vi sarò mai abbastanza grata.
GRAZIE!!!
~ 245 ~
~ 246 ~
ALLEGATI
~ 247 ~
~ 248 ~
SELEZIONE DI SCALE PER LA
VALUTAZIONE
DELL'AGGRESSIVITÀ
~ 249 ~
~ 250 ~
Principali scale di valutazione dell’aggressività in acuto. Il rischio di
violenza e dell’aggressività in categorie particolari
Valutazione dell'aggressività in
 Nursing Rating Scale – NRS
acuto
(Hargreaves, 1968)
 lnpatient Behavioral Rating Scale IBRS (Green et al., 1977)
 Overt Aggression Scale - GAS
(Yudofsky et al., 1986)
 Acute Psychiatric Rating Scale –
APRS (Squier, 1995)
Valutazione del rischio di
 Aggression Risk Profil Scale –
violenza
ARP (Kay et al., 1988)
 Scale of Profile of Feelings and
Acts of Violence – PFAV (Plutchik
e van Praag, 1990)
 Suicide and Aggression Survey –
SAS (Korn et al., 1992)
Valutazione dell'aggressività nei
 Aggressive Scale of the Child
bambini e negli adolescenti
Behavior Checklist - CBCL
(Achenbach, 1978)
 Revised Teacher Rating Scale rTRS (Goyette et al., 1978)
 Self-Report Delinquency scale SRD (Elliot et al., 1983)
 Pfeffer’s Spectrum of Assaultive
Behavior Scale (Pfefferetal.,1983)
 Lewi’s Scale - LS (Inamdar et al.,
1986)
 Revised Behavior Problem
Checklist - RBPC (Quay e
Peterson, 1987)
 Missouri Peer Relation lnventory MPRl (Borduin et al.,1989)
Valutazione dell’aggressività
 Cohen-Mansfield Agiation
negli anziani
Inventory – CMAI (Cohen
Mansfield e Billing, 1986)
 Rating Scale for Aggressive
Behavior in the Elderly – RAGE
(Patel e Hope, 1992)
~ 251 ~
Principali scale per la valutazione dell’aggressività in generale
Hostility Scale – HoSca (Cook e Medley, 1954)
Buss Durkee Hostility Inventory – BDHI (Buss e Durkee, 1967)
Hostility and Direction of Hostility Questionnaire – HDHQ (Caine et at.,
1967)
Novaco Anger Arousal Scale – NAAS (Novaco, 1975)
Scala di Lagos (Lagos et at., 1977
Brown-Goodwin Questionnaire – BGQ (Brown et at., 1979, 1992)
Questionario Irritabilità-Ruminazione/Dissipazione – QI-R (Caprara et at.,
1991)
-
Scala di Irritabilità (Caprara, 1983)
-
Scala di Ruminazione/Dissipazione (Caprara et at., 1985a)
Over Aggression Scale – OAS (Yudofsky et at., 1986)
-
Modified OAS (Kay et at., 1988)
-
Retrospective Overt Aggression Scale – ROAS (Sorgi et at., 1991)
-
Staff OAS – SOAS (Palmstierna e Wistedt, 1987)
Cohen-Mansfield Agitation Inventory – CMAI (Cohen-Mansfield e Billing,
1986)
Multidimensional Anger Inventory – MAI (Siegel, 1986)
State-Trait Anger Expression Inventory – STAXI (Spielberger, 1988)
Social Dysfunction and Aggression Scale – SDAS (Wistedt et at., 1990)
Global Aggression Scale – GAS (Wistedt et at., 1990)
Questionario per gli Attacchi di Rabbia – QAR (Fava et at., 1991)
Aggression Inventory – AI (Gladue, 1991)
Aggression Questionnaire – AQ (Buss e Perry, 1992)
Brief Agitation Rating Scale – BARS (Finkel et at., 1993)
Life History of Aggression – LHA (Coccaro et at., 1997)
Barratt Impulsiveness Scale, Version 11- BIS-11 (Barratt e Stanford, 1995)
~ 252 ~
INVENTORY FOR ASSESSING DIFFERENT KINDS OF HOSTILITY
(BDHI)
Autori: A H Buss, A Durkee, 1957.
Descrizione e particolarità di impiego
Il BDHI (Buss Durkee Hostitity Inventory) è uno strumento atto ad indagare,
secondo l'ottica comportamentista, non solo il tipo di aggressività, ma anche
la modalità con cui questa viene manifestata, e questo sia per il
comportamento aggressivo in rapporto ad una condizione patologica, sia
per quello che fa parte dei comportamenti quotidiani che si possono
osservare, anche se espressi in maniera meno scoperta, nei soggetti
"normali". Gli Autori sono partiti dal presupposto che una valutazione
globale dell'aggressività contiene una notevole ambiguità, potendo essere
attribuito lo stesso punteggio, ad esempio, ad un soggetto aggressivo, ma
non sospettoso e ad uno sospettoso, ma non aggressivo. Hanno ritenuto
importante, perciò, distinguere le manifestazioni di aggressività aperte da
quelle nascoste e, basandosi sull'osservazione clinica, hanno individuato 7
tipi di comportamento ostile-aggressivo, al quale hanno aggiunto, poi,
un'ottava dimensione, la colpa, definita come sentimento di essere cattivo,
di aver compiuto azioni riprovevoli, di provare rimorso. Gli item della scala
sono stati scelti secondo alcuni principi di base:
• ogni item doveva essere in grado di riferirsi ad una sola sottocIasse per
essere discriminativo;
• i comportamenti e gli atteggiamenti considerati dovevano essere specifici
e le situazioni che li provocavano dovevano essere "universali" (nell'item "mi
sento ribollire il sangue quando la gente mi prende in giro", ad esempio, il
"ribollire il sangue" è un comportamento specifico ed il "prendere in giro" è
una situazione universale);
•
l'item
doveva
essere
espresso
in
modo
che
l'ammettere
comportamento socialmente indesiderabile non bloccasse l'individuo.
~ 253 ~
un
Questo è stato realizzato attraverso le seguenti tre tecniche:
a) il comportamento viene presentato come già esistente ed al soggetto
viene chiesto solo come sarebbe la sua reazione fisica, minimizzando così il
giudizio relativo all'atteggiamento aggressivo ("a volte mostro la mia collera
battendo i pugni sul tavolo");
b) viene fornita una giustificazione al comportamento aggressivo ("chiunque
insulta me o la mia famiglia cerca la rissa"), ossia una spiegazione che
riduce le difese e i sentimenti di colpa del soggetto;
c) vengono utilizzate frasi idiomatiche frequentemente usate nel linguaggio
di tutti i giorni ("quando sono arrabbiato metto il muso").
Lo strumento indaga anche le valenze aggressive espresse sul piano
comportamentale con condotte dirette all'esterno e tese a proteggere
I'incolumità dell'individuo, specialmente se minacciata da uno stimolo
nocicettivo.
Periodo valutato
Il questionario può essere usato come strumento per la valutazione sia del
comportamento attuale, sia come rilevazione di una caratteristica di stato
del soggetto.
Indicazioni
Il BDHI in quanto valuta anche quelle valenze di ostilità che non vengono
agite sul piano comportamentale, può essere somministrato sia a soggetti
sani, sia a pazienti psichiatrici che presentino o meno comportamenti
aggressivi manifesti.
Impiego per valutazioni ripetute
Lo strumento può essere usato come metro di valutazione del cambiamento
di un comportamento in seguito ad un trattamento. Quando è impiegato
ripetutamente a questo scopo, al soggetto deve essere posta la richiesta di
fare riferimento, nel dare le risposte, al periodo attuale.
Struttura
Il BDHI è costituito da 75 item. Lo strumento, oltre a fornire un indice
globale di aggressività, indicato dal punteggio totale, consente di tracciare
~ 254 ~
un profilo del comportamento aggressivo articolato in sette tipi di condotte
aggressive
differenziate:
Aggressività
Diretta,
Aggressività
Indiretta,
Irritabilità, Negativismo, Risentimento, Sospettosità e Aggressività Verbale.
Un'ottava dimensione esplora la Colpa. Il rapporto fra il punteggio totale e la
Colpa permette di avere un indice dell'inibizione dell'aggressività.
Le dimensioni del BDHI sono:
• aggressività diretta: è il comportamento teso a far del male o danneggiare
gli altri senza riuscire a controllare gli impulsi aggressivi. In questo
stereotipo è completamente sconosciuta tutta quella vasta gamma di
reazioni non imperniate sulla forza, come possibili attualizzazioni nella
risposta a stimoli e situazioni provocatorie;
• aggressività indiretta: si tratta degli atteggiamenti e delle condotte
comportamentali di chi scarica l'aggressività mediante modalità indirette
come denigrare, "sbattere le porte", "mettere il muso", "scagliare oggetti" o
fare "scherzi pesanti";
• irritabilità: è caratterizzata dalla mancanza di tolleranza e pazienza nei
confronti degli altri, con facile perdita della calma, accompagnata dalla
spiacevole sensazione di essere sull' orlo di "esplodere";
• negativismo: è espresso da un comportamento oppositivo nei confronti
degli altri con la trasgressione, il rifiuto di eseguire qualsiasi tipo di compito,
o di fare esattamente l'opposto di ciò che viene chiesto;
• risentimento: è caratterizzato dalla frequente sensazione di aver subito
ingiustizie e di insoddisfazione rispetto al presente ed al passato;
• sospettosità: esprime la convinzione di essere denigrati ed un
atteggiamento di diffidenza nei confronti degli altri, vissuti come poco sinceri
o provocatori;
• aggressività verbale: è la costante disposizione alla disapprovazione ed
alla polemica con tutti quelli che non sono d'accordo senza evitare di dire
cose spiacevoli ed alzare la voce;
~ 255 ~
• colpa: sostenuta da una forte coscienza morale, da una notevole rigidità e
da un forte senso del dovere, svolge un ruolo modulatore importante sul
comportamento aggressivo.
Punteggio
Ciascun item prevede una risposta dicotoma, vero/falso.
Affidabilità e validità
La scala è stata ampiamente testata e vali data su numerosi campioni con
risultati ampiamente soddisfacenti. Castrogiovanni e collaboratori ne hanno
curato la standardizzazione e la validazione della versione italiana
(Castrogiovanni e coll., 1982).
Traduzione
P.Castrogiovanni, I.Maremmani, MF.Andreani (con la denominazione di
Questionario per la Tipizzazione del Comportamento Aggressivo - OTA).
Codice di identificazione della RS: # 750
BIBLIOGRAFIA
Buss AH, Durkee: An Inventory for Assessing Different Kinds of Hostility.
J Consult Psychol, 21 :343,1957.
Castrogiovanni P, Andreani MF et al.: Per una valutazione del! 'aggressività
nel! 'uomo: contributo alla validazione di un questionario per la tipizzazione
del comportamento aggressivo. Rivista di Psichiatria, 17:276, 1982.
Castrogiovanni P, Maremmani I, Andreani MF: Questionario per la
Tipizzazione dell'Aggressività (Q. TA.). Traduzione ed adattamento italiano
del!' "Inventory for Assessing Different Kinds of Hostility" di Buss e Durkee.
Istituto di Clinica Psichiatrica, Università di Pisa 1982.
~ 256 ~
INVENTORY FOR ASSESSING DIFFERENT KINDS OF
HOSTILITY - BDHI O QTA - # 750
Cognome e Nome--------------------------------Data di nascita-----------Codice Paziente------------Valutatore----------Data valutazione-------ISTRUZIONI
A fianco di ogni affermazione troverà scritto Vero Falso.
Per ogni affermazione dovrà fare una crocetta sulla risposta (Vero
o Falso) che meglio rispecchia la sua opinione o la sua esperienza
personale.
Risponda sinceramente a tutte le domande. Le informazioni che lei
fornirà sono coperte dal segreto professionale.
01. Anche quando vengo provocato, reagisco raramente con la
forza---------------------------------------------------------------------------------02. A volte sparlo delle persone che non mi piacciono ----------------03. Non faccio ciò che mi si chiede se non me lo si chiede
gentilmente -----------------------------------------------------------------------04. Perdo le staffe facilmente, ma mi calmo con rapidità -------------05. Non mi sembra di meritare quello che mi sta accadendo -------06. So che la gente tende a sparlare di me dietro le mie spalle ----07. Se disapprovo le azioni dei miei amici, trovo il modo di farglielo
notare-------------------------------------------------------------------------------08. Le poche volte che ho ingannato ho provato poi un grande
sentimento di rimorso ----------------------------------------------------------09. A volte non riesco proprio a controllare l'impulso di far del male
agli altri-----------------------------------------------------------------------------10. Non mi arrabbio mai al punto di scagliare oggetti -----------------11. A volte la gente mi infastidisce anche solo standomi attorno ---12. Se qualcuno pone una regola che non mi piace sono tentato di
trasgredirla-------------------------------------------------------------------------13. Mi sembra che gli altri ottengano sempre quello che vogliono -14. Sto in guardia con quelle persone che si dimostrano più gentili
di quanto pensavo --------------------------------------------------------------15. Spesso sono in disaccordo con la gente -----------------------------16. A volte ho dei cattivi pensieri che mi fanno vergognare di me
stesso ------------------------------------------------------------------------------17. Credo che non vi siano buone ragioni per picchiare qualcuno -18. Se sono arrabbiato a volte metto il muso ----------------------------19. Se qualcuno si mostra arrogante con me, faccio il contrario di
quello che mi chiede -----------------------------------------------------------20. Mi irrito molto di più di quello che la gente pensa ------------------21. Non conosco persone che possa dire di odiare veramente -----22. Molta gente sembra detestarmi ----------------------------------------23. Non posso evitare di entrare in polemica con chi non è
d'accordo con me-----------------------------------------------------------------
~ 257 ~
Vero
Vero
Falso
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Vero
Vero
Vero
Vero
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Falso
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24. Chi lavora senza fare il proprio dovere si deve sentire molto in
colpa -------------------------------------------------------------------------------25. Se qualcuno mi fa un torto, non gliela faccio passare liscia ----26. Quando sono arrabbiato mi capita di sbattere le porte -----------27. Sono sempre paziente con gli altri -------------------------------------28. Talvolta se sono arrabbiato con qualcuno non gli rivolgo più la
parola-------------------------------------------------------------------------------29. Se penso al mio passato non posso fare a meno di provare un
po' di risentimento ----------------------------------------------------------------30. Molte persone sembrano invidiose di me ----------------------------31. Pretendo che la gente rispetti i miei diritti ----------------------------32. Mi rende triste non aver fatto di più per i miei genitori ------------33. Chiunque insulta me o la mia famiglia cerca la rissa -------------34. Non faccio mai scherzi pesanti a nessuno --------------------------35. Se qualcuno si prende gioco di me mi ribolle subito il sangue -36. Se qualcuno si mostra prepotente, non perdo l'occasione per
farglielo notare -------------------------------------------------------------------37. Quasi ogni settimana incontro qualcuno che non mi piace -----38. A volte ho la sensazione che gli altri stiano ridendo di me ------39. Anche quando sono arrabbiato non ricorro a male parole ------40. Mi preoccupa il non sapere se potrò ottenere il perdono per i
miei peccati-----------------------------------------------------------------------41. La gente che continuamente mi scoccia si merita un pugno sul
naso --------------------------------------------------------------------------------42. A volte, se non riesco a realizzare quello che voglio, divento di
cattivo umore ---------------------------------------------------------------------43. Se qualcuno mi scoccia, gli dico subito cosa penso di lui -------44. Spesso mi sento un barile di polvere pronto ad esplodere ------45. Anche se non lo do a vedere, a volte sono divorato dalla
gelosia------------------------------------------------------------------------------46. Questo è il mio motto: diffida sempre degli estranei --------------47. Se qualcuno alza la voce con me io la alzo più di lui -------------48. Faccio molte cose di cui poi provo rimorso---------------------------49. Quando perdo la calma sono capace di prendere a sberle
qualcuno ---------------------------------------------------------------------------50. Non perdo le staffe dall' età di dieci anni -----------------------------51. Quando mi arrabbio dico cose spiacevoli ----------------------------52. A volte ho voglia di litigare -----------------------------------------------53. Se lasciassi capire agli altri come la penso, mi giudicherebbero
uno con cui è difficile andare d' accordo ----------------------------------54. Se una persona si mostra gentile con me, mi chiedo se non ci
sia sotto qual cos a ------------------------------------------------------------55. Non riesco a tener testa a nessuno a parole, anche quando è
necessario ------------------------------------------------------------------------56. Il non riuscire a fare qualcosa genera in me un senso di
rimorso------------------------------------------------------------------------------57. Spesso attacco briga con la prima persona che mi capita -------
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58. Ricordo di essermi talmente arrabbiato da rompere la prima
cosa che mi è venuta a tiro ---------------------------------------------------59. Spesso faccio minacce che in effetti non intendo mantenere --60. Non posso fare a meno di essere sgarbato con chi non mi
piace --------------------------------------------------------------------------------61. A volte credo di avere quanto di peggio ci si possa aspettare
dalla vita ---------------------------------------------------------------------------62. Prima pensavo che la maggior parte della gente dicesse la
verità, ma ora so che non è çosì --------------------------------------------63. Di solito non lascio trasparire la cattiva opinione che ho degli
altri ----------------------------------------------------------------------------------64. Se sbaglio, la coscienza mi rimorde per molto tempo ------------65. Per difendere i miei diritti non esito a ricorrere anche alla
violenza fisica---------------------------------------------------------------------66. Se qualcuno mi tratta ingiustamente, il fatto non mi irrita -------67. Non ho nemici che desiderino realmente danneggiarmi ---------68. Quando discuto tendo ad alzare la voce -----------------------------69. A volte penso di non aver vissuto rettamente -----------------------70. Ho conosciuto delle persone che mi hanno portato al punto di
fare a botte------------------------------------------------------------------------71. Non mi lascio irritare da una serie di cose di poco conto --------72. Penso di rado che la gente stia cercando di provocarmi o di
insultarmi --------------------------------------------------------------------------73. Recentemente sono stato di pessimo umore -----------------------74. Piuttosto che entrare in polemica preferisco lasciar perdere----75. A volte mostro la mia collera battendo i pugni sul tavolo ---------
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AGGRESSION QUESTIONNAlRE (AQ)
Autori: AH Buss, M Perry, 1992.
Descrizione e particolarità di impiego
L'Aggression Questionnaire è nato dall' osservazione di una certa
inconsistenza dell' analisi fattoriale del BDHI, lo strumento che lo stesso
Buss aveva messo a punto assieme a Durkee (Buss e Durkee, 1957).
È una scala composta da 29 item da cui derivano 4 fattori: Aggressività
Fisica, Aggressività Verbale, Rabbia e Ostilità. Dall'analisi delle correlazioni
tra i fattori emerge che la Rabbia è una manifestazione aggressiva
intermedia tra Aggressività Fisica e Verbale e Ostilità. Inoltre, i 4 fattori
correlano con diversi tratti di personalità, dato rilevante per la valutazione
dei rapporti tra aggressività e altre variabili che il QTA (o BDHI) non
permette di indagare. L'AQ è derivato dall'analisi delle componenti principali
effettuata su un iniziale pool di 52 item, parte dei quali ricavati direttamente
dal
BDHI.
Lo
strumento
consente
di
valutare,
non
solo
l'entità
dell'aggressività, ma anche (in base ai punteggi delle subscale) come tale
aggressività si manifesta.
Periodo valutato
Il questionario, può essere usato come strumento per la valutazione sia del
comportamento attuale, sia come rilevazione di una caratteristica di tratto
del soggetto.
Indicazioni
L'AQ, in quanto valuta anche quelle valenze di ostilità che non vengono
agite sul piano comportamentale, può essere somministrato sia a soggetti
sani, sia a pazienti psichiatrici che presentino o meno comportamenti
aggressivi manifesti.
Impiego per valutazioni ripetute
Lo strumento può essere usato come metro di valutazione del cambiamento
di un comportamento in seguito ad un trattamento. Quando è impiegato
ripetutamente a questo scopo, al soggetto deve essere posta la richiesta di
fare riferimento, nel dare le risposte, al periodo attuale.
~ 261 ~
Struttura
La scala è composta da 29 item dai quali derivano quattro fattori:
• Aggressività fisica (physical aggression - PA): composto da 9 item (1, 5, 9,
13, 17, 21, 24, 26, 28);
• Aggressività verbale (verbal aggression - VA): composto da 5 item (2, 6,
10, 14, 18);
• Rabbia (anger - A): composto da 7 item (3, 7, 11, 15, 19, 22, 29);
• Ostilità (hostility - H): composto da 8 item (4, 8, 12, 16, 20, 23, 25, 27).
Punteggio
Il punteggiò degli item è assegnato in base ad una scala a 5 punti che
esprime la misura in cui il comportamento esplorato da ciascun item "è
caratteristico" per il soggetto (da l = per niente, a 5 = pienamente). Gli item
24 e 29 hanno il punteggio invertito rispetto agli altri. Il punteggio totale (il
risultato della somma di tutti gli item) può variare fra 29 e 145; il punteggio
dei fattori è dato dalla somma dei punteggi degli item che li compongono. I
punteggi più alti esprimono una maggiore aggressività.
Affidabilità e validità
Le caratteristiche psicometriche (consistenza interna, affidabilità, validità al
test-retest) sono risultate di ottimo livello ha dimostrato di possedere una
buona affidabilità ed un'elevata correlazione con altre misure della
personalità borderline. Alcune ricerche hanno evidenziato che la scala
misura anche sintomi dei disturbi schizotipici e misti di personalità.
Traduzione
L.Conti per questo Repertorio
Codice di identificazione della RS: # 753
BIBLIOGRAFIA
Buss AH, Perry M: The Aggression Questionnaire. J Personal Soc Psychol,
63:452, 1992.
~ 262 ~
AGGRESSION QUESTIONNAIRE – AQ - # 753
~ 263 ~
È molto poco caratteristico
È poco caratteristico
È alquanto caratteristico
È proprio caratteristico
1. Di tanto in tanto non riesco a controllare la spinta a
picchiare qualcuno ..........................................................
2. Quando non sono d'accordo con i miei amici io gliela
dico apertamente …………………………………………
3. Mi arrabbio facilmente, ma mi calmo in fretta .............
4. Talvolta sono divorato dalla gelosia …………………..
5. Se sono provocato, posso picchiare qualcuno ...........
6. Spesso mi trovo in disaccordo con gli altri .................
7. Quando rimango deluso, lascio trasparire la mia
irritazione ........................................................................
8. Talvolta mi sembra che la vita mi abbia trattato
ingiustamente .................................................................
9. Se qualcuno mi picchia, io gliele rendo ……………….
10. Quando le persone mi importunano, io posso dirgli
ciò che penso di loro.......................................................
11. Spesso mi sento come un barile di polvere pronto
ad esplodere ...................................................................
12. Mi sembra che agli altri capitino sempre delle
opportunità…………….... ...............................................
13. Attacco briga un po' più spesso degli altri ................
14. Non posso evitare di entrare in polemica con chi
non è d'accordo con me …………………………………..
15. Secondo i miei amici sono una testa calda ...............
16. Mi chiedo perché talvolta mi sento così
amareggiato per qualcosa .............................................
Non è per niente caratteristico
Cognome e Nome-------------------------------- Data di nascita-----------------------Codice Paziente----------Valutatore--------------- Data valutazione----------------ISTRUZIONI
Valuti in che misura il comportamento indicato nelle espressioni seguenti è
caratteristico del suo comportamento.
Per me questo comportamento …
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17. Non esito a ricorrere alla violenza per difendere i
miei diritti ........................................................................
18. I miei amici dicono che io sono piuttosto
polemico…………………………......................................
19. A volte perdo le staffe per cose di poco conto ..........
20. So che "gli amici" parlano di me alle mie spalle …….
21. Ci sono delle persone che mi hanno portato al punto
di venire alle mani ...........................................................
22. Ho difficoltà a controllare la mia collera ……………..
23. Non mi fido degli sconosciuti che si comportano in
maniera eccessivamente amichevole …………………...
24. Credo che non esistano buone ragioni per picchiare
qualcuno..........................................................................
25. A volte penso che la gente rida di me alle mie spalle
26. Ho minacciato persone che conosco………………..
27. Se una persona si mostra particolarmente gentile
con me, mi chiedo che cosa c'è sotto.............................
28. Sono uscito dai gangheri al punto da spaccare gli
oggetti ............................................................................
29. Sono una persona di carattere mite ………………….
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OVERT AGGRESSION SCALE (OAS)
Autori: SC Yudofsky, JM Silver, W.Jackson, J.Endicott, 1986
Descrizione e particolarità di impiego
L'OAS è un questionario di indubbia utilità nella documentazione e nella
misurazione di specifici aspetti del comportamento aggressivo. È basato
sull'osservazione del soggetto da parte di un valutatore che registra tutti i
comportamenti che si manifestano nel corso di un episodio aggressivo, e
che prende nota, altresì, dei diversi interventi terapeutici utilizzati in risposta
all'episodio aggressivo stesso.
L'impiego dell'OAS è particolarmente importante per documentare e
valutare i pattern individuali di aggressività, come l'aggressività fisica o
verbale, le fluttuazioni temporali dei comportamenti aggressivi ed i tipi di
interventi utilizzati nel controllo di tali comportamenti.
Pur essendo un valido strumento di registrazione dell'episodio aggressivo,
ha alcune limitazioni: ad esempio, se il comportamento aggressivo, come
spesso accade, si diluisce nel tempo o presenta delle fluttuazioni, può
essere difficile compilare l'OAS, senza contare che il personale paramedico
spesso non ha il tempo per compilare la scala tutte le volte che il
comportamento aggressivo si manifesta e mentre è in corso.
Sono state sviluppate diverse versioni modificate dello strumento:
• Modified OAS - MOAS (Kay et al., 1988) fornisce una valutazione
settimanale
dell'aggressività;
parte
da
una
lista
di
controllo
comportamentale per arrivare ad un sistema di stima in 5 punti che
rappresenta crescenti livelli di gravità. Include forme importanti di
aggressività, come il tentato suicidio e l'intimidazione. Fornisce un
punteggio totale che riflette la gravità globale dell'aggressività; non registra
gli interventi effettuati.
• Retrospective Overt Aggression Scale - ROAS (Sorgi et al., 1991), uno
strumento di eterovalutazione diretto a parenti o conoscenti del paziente ed
allo staff che valuta il paziente.
~ 265 ~
Le 16 classi o tipi di comportamento aggressivo sono state trasformate in
una scala a 16 voci; la frequenza del verificarsi delle condizioni è valutata
su una scala a 5 punti (da 0 a 4). Sono registrate informazioni sul numero di
volte (variabili da 0 fino a più di 10 volte) che si verifica un determinato
comportamento aggressivo. Può essere usata retrospettivamente ed
impiegata come misura dell'aggressività, sia rispetto all'individuazione di
determinate condotte aggressive, sia rispetto alla frequenza ed alla gravità
dei comportamenti aggressivi verificatisi nella settimana precedente e
fornisce informazioni che consentono di comprendere meglio i tratti di
aggressività, di prevedere il comportamento aggressivo e di sviluppare
modalità efficaci di trattamento .
• Staff OAS - SOAS (Palmstierna e Wistedt, 1987) valuta il grado e la
frequenza dei comportamenti violenti e degli assalti in pazienti psichiatrici e
psicogeriatrici. Sviluppata, come l'OAS, per un uso da parte dello staff
ospedaliero, differisce da quella perché, invece che una lista di item, è un
continuum a 4 punteggi articolato in 3 categorie (media, scopo e risultato)
lungo il quale lo staff classifica tutti gli atti di aggressività.
Il punteggio totale delle tre categorie definisce la gravità totale dell' evento
aggressivo ed è a sua volta diviso in tre livelli: medio (2-5), moderato ( 6-8),
e grave (9-12); fornisce anche l'indice di "frequenza di aggressività
individuale", che è determinato calcolando il numero totale di eventi
aggressivi diviso il numero dei giorni di osservazione.
Periodo valutato
Il questionario è basato sull' osservazione diretta del soggetto ed il periodo
valutato è, perciò, quello dell' episodio aggressivo attuale.
Indicazioni
L'OAS è un valido strumento descrittivo delle modalità di espressione
dell'aggressività ed è perciò indicata per lo studio di questo comportamento
nei soggetti ricoverati.
~ 266 ~
Impiego per valutazioni ripetute
La scala è specificamente indicata per essere applicata ogni volta che si
presentano
episodi
di
aggressività,
ma
non
ha
indicazioni
per
un'applicazione seriata com'è quella che caratterizza la ricerca.
Struttura
La scala fornisce un punteggio globale della gravità del comportamento
aggressivo ed una classificazione dei comportamenti aggressivi in 16
diversi tipi. Si compone di 4 sezioni:
Aggressività Verbale; Aggressività Fisica contro Oggetti; Aggressività Fisica
Autodiretta; Aggressività Fisica Eterodiretta. Ogni sezione comprende 4
voci, per un totale di 16 voci.
Punteggio
I comportamenti aggressivi descritti dalle 4 voci di ogni sezione sono
graduati, a seconda della gravità, in: mai, qualche volta, spesso, di solito,
sempre.
Affidabilità e validità
Non abbiamo trovato studi relativi alle caratteristiche psicometriche della
scala.
Traduzione
A Di Muro, L.Luccarelli e P.Castrogiovanni per questo Repertorio.
Codice di identificazione della RS: # 755
BIBLIOGRAFIA
Kay SR, Wolkenfeld F, Murril LM: Profiles of aggression among psychiatric
patients. I.Nature and prevalence. J Nerv Ment Dis, 176:539, 1988.
Palmstiema T, Wistedt B: Staff observation aggression scale, SOAS:
presentation and evaluation. Acta Psychiat Scand, 76:657, 1987.
Sorgi P, Ratey J et al.: Rating aggression in the clinical setting. A
retrospective adaptation of the Overt Aggression Scale: preliminary results.
J Clin Neurosci, 3:52, 1991.
Yudofsky SC, Silver JM et al.: The Overt Aggression Scale for the objective
rating of verbal and physical aggressions. Am J Psychiatry, 143:35, 1986.
~ 267 ~
~ 268 ~
OVERT AGGRESSION SCALE – OAS # 755
Cognome e Nome …………………………..Data di nascita …………………..
Codice Paziente................... Valutatore................... Data valutazione ……..
Turno:
○ Notte
○ Giorno
○ Sera
○ Segnare qui se durante il turno non si sono verificati comportamenti aggressivi
(verbali o fisici) contro se stesso, gli altri o gli oggetti.
COMPORTAMENTO AGGRESSIVO (SEGNARE TUTTO CIÒ CHE È
PERTINENTE)
AGGRESSIVITÀ VERBALE
AGGRESSIVITÀ FISICA AUTODIRETTA
o Fa grandi schiamazzi, grida
o Si gratta o si sgraffia, si picchia, si
in modo irato
strappa i capelli (senza o solo con
o Grida insulti personali lievi
minime lesioni)
(per es., "Sei stupido!")
o Sbatte la testa, colpisce gli oggetti
o Impreca in maniera rabbiosa,
con i pugni, si butta per terra o
nella rabbia usa un
contro gli oggetti (si ferisce senza
linguaggio osceno, fa
gravi danni)
minacce non particolarmente
o Piccoli tagli o ammaccature, lievi
serie verso gli altri o se
bruciature
stesso
o Si provoca mutilazioni, si fa tagli
o Fa serie minacce di violenza
profondi, si morde a sangue, si
verso gli altri ("Ti uccido!"), o
provoca danni interni, fratture,
chiede di essere aiutato a
perdita di coscienza, perdita di denti
controllarsi
AGGRESSIVITÀ FISICA CONTRO
AGGRESSIVITÀ FISICA CONTRO
GLI OGGETTI
LE ALTRE PERSONE
o Sbatte la porta, butta all'aria i
o Fa gesti minacciosi, agita i pugni
vestiti,crea disordine
verso gli altri, agguanta gli altri per i
o Getta a terra gli oggetti,
vestiti
prende a calci i mobili senza
o Percuote, tira calci, spintona, tira i
romperli, sporca il muro
capelli (senza fare danni)
o Rompe gli oggetti, manda in
o Aggredisce gli altri provocando loro
frantumi le finestre
danni fisici moderato/lievi
o Appicca il fuoco, scaglia
(ammaccature, distorsioni, lividi)
oggetti in modo pericoloso
o Aggredisce gli altri causando loro
gravi danni fisici (fratture, ferite
profonde, lesioni interne
L'episodio è iniziato alle ore __ . __ AMIPM ed è durato __ , __ (h/min)
INTERVENTI (SEGNARE TUTTO CIÒ CHE È PERTINENTE)
o Nessuno
o Parlato con i
familiari
o Stretta
sorveglianza
o Tenere fermo il
paziente
o Terapia immediata
per os
o Terapia immediata
im/iv
o Separazione senza
rinchiudere il p.
(durata)
~ 269 ~
o Uso di contenzione
o Le lesioni richiedono
una terapia immediata
per il p.
o Le lesioni richiedono
una terapia immediata
per altre persone
~ 270 ~
BARRATT IMPULSIVENESS SCALE, Version 11 (BIS-11) .
Autori: ES Barratt, MS Stanford, 1995.
Descrizione e particolarità di impiego
La scala è stata messa a punto per la valutazione dell'impulsività intesa
come "agire senza pensare", come mancanza di controllo sui pensieri e sui
comportamenti. La BIS-11 prende in considerazione tre tipi di impulsività,
l'Impulsività Motoria, l'Impulsività senza Pianificazione e l'Impulsività
Attentiva. Probabilmente è lo strumento più noto e più usato per la
valutazione dell'impulsività in ambito di ricerca, mentre meno indicato è il
suo impiego in ambito clinico. La scala è in grado di discriminare fra soggetti
impulsivi e non impulsivi, ma non, almeno significativamente, fra i tre tipi di
impulsività.
Periodo valutato
La scala valuta dei tratti di personalità ed il periodo esplorato è pertanto la
vita intera.
Indicazioni
La BIS-11 è indicata per la ricerca, per lo studio dei rapporti fra impulsività e
patologia psichiatrica, meno per le applicazioni cliniche .
Impiego per valutazioni ripetute
Per quanto la scala non sia specificamente adatta agli impieghi clinici, è
abbastanza usata in questo contesto ed è usata anche per valutare i
cambiamenti de1la componente impulsiva del quadro clinico sotto
trattamento.
Struttura
La scala, di autovalutazione, è composta da 30 item; l'analisi fattoriale ha
isolato i già citati tre tipi di impulsività motoria senza pianificazione e
attentiva.
Punteggio
Gli item sono valutati su una scala a 4 punti, da 1 = raramente o mai a
4 = quasi sempre/ sempre. Il punteggio totale può andare da 30 a 120;
~ 271 ~
il punteggio medio va da 63,8 (±10,2) nei controlli, a 69,3 (±10,3) in soggetti
con comportamenti di abuso, a 71,4 (±12,6) in pazienti psichiatrici ed a 76,3
(±11 ,9) in reclusi maschi.
Affidabilità e validità
La consistenza è risultata ottima, la correlazione con altre scale di
valutazione dell'impulsività, dell'ostilità e della collera è risultata buona.
Traduzione
L.Conti per questo Repertorio.
Codice di identificazione della RS: # 758
BIBLIOGRAFIA
Barratt ES, Stanford MS: Impulsiveness. In: Costello CG (Ed.) "Personality
Characteristics of the Personality Disordered Client ", Wiley, New York,
1995.
~ 272 ~
BARRAT IMPULSIVENESS SCALE, Version 11 BIS – 11 # 758
Cognome e Nome……………………….. Data di nascità……………………..
Codice Paziente…………… Valutatore……….. Data valutazione…………..
~ 273 ~
Spesso
Quasi
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
sempre/Sempre
Occasionalmente
Le persone agiscono e pensano in maniera diversa
nelle diverse situazione. Questo è un test per
valutare alcuni modi in cui lei agisce e pensa.
Legga attentamente ciascuna affermazione ed
annerisca il quadratino che corrisponde alla
risposta che più si adatta a lei. Risponda
rapidamente e sinceramente.
1. lo programmo accuratamente le attività…………..
2. Faccio le cose senza pensare…………………….
3. Decido con molta rapidità………………………….
4. Prendo il mondo come viene………………………
5. Non presto attenzione……………………………..
6. I miei pensieri, "corrono"…………………………..
7. Programmo i miei viaggi con molto anticipo……
8. Sono padrone di me………………………………..
9. Mi concentro facilmente……………………………
10. lo risparmio con regolarità………………………
11. Sto sulle spine al teatro o alle conferenze……...
12. Sono uno che pensa accuratamente……………
13. Faccio piani per un investimento per il futuro…..
14. Dico le cose senza pensare………………………
15. Mi piace pensare a problemi complessi…………
16. Cambio spesso lavoro…………………………….
17. lo agisco d'impulso………………………………...
18. Mi annoio facilmente quando affronto
ragionamenti complessi……………………………….
19. Agisco sotto l'impulso del momento……………..
20. Sono uno che pensa con serietà………………...
21. Cambio spesso abitazione………………………..
22. Compro le cose impulsivamente…………………
23. Posso pensare solo ad un problema alla volta…
24. Cambio spesso i miei hobby……………………..
25. Spendo o addebito sul mio conto più di quello
che guadagno…………………………………………..
26. Quando penso ho pensieri estranei, parassitari.
27. So più interessato al presente che al futuro……
28. Sono irrequieto alle conferenze o ai discorsi…..
29. Mi piacciono i puzzle ……………………………..
30. Faccio progetti per il futuro ………………………
Raramente/Mai
ISTRUZIONI
SERVIZIO SANITARlO
MO.03.0RN.DSM.PDC Rev.02
REGIONALE
Emissione il
SCHEDA
EMILlA·ROMAGNA
06.08.2010
MONITORAGGIO
Azienda Unita Sanitaria
Pagina 1 di 1
ATTI AGGRESSIVI ¹
Locale di Rimini
servizio Psichiatrico di
Diagnosi e Cura
1. Il paziente nato/a…………………………………………….. il ………………………………..
ricoverato iI con diagnosi di: ……………………………………………………………………….
il giorno……………………………………. alte ore ……………………………………………….
9.
ALT
BD
DOS
NL
HA COMPIUTO IL SEGUENTE GESTO AGGRESSIVO
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
2. mezzo/i usato/i dal paziente per aggredire …………………………………………………
3. specificare le persone coinvolte …………………………………………………………….
4. specificare se l'aggredito/a è medico. infermiere. oss. austliario/a ……………………..
5. specificare se rottura di oggetti ……………………………………………………………..
6. specificare le conseguenze per le persone coinvolte ……………………………………
7. specificare il motivo che ha scatenato l'atto aggressivo…………………………………..
8. il paziente in terapia con
specificare se sono intervenute le Forze dell'Ordine o se hanno rifiutato
l'intervento………………………………………………………………………………………
………………………………………………………………………………………………..…
………………………………………………………………………………………………….
NOTE VARIE
…………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………
DATA…………………………………….
MEDICO………………………………….
INFERMIERE……………………………
~ 274 ~
SERVIZIO SANITARlO
REGIONALE
EMILlA·ROMAGNA
Azienda Unita Sanitaria
Locale di Rimini
servizio Psichiatrico di
Diagnosi e Cura
MODULO
Scala di valutazione del
rischio
comportamentale
auto/etero diretto o
sistemico
M/P08/ORN.DSM.PDC ²
Nome…………………………………………...........................
Rev.00
Emissione il
01.03.2010
Pagina 1 di 4
Etichetta del paziente
Cognome ………………………………………………………..
ISTRUZIONI PER LA COMPILAZIONE
La scala di valutazione deve essere compilata per ogni paziente al momento
dell'ingresso dal medico e dall'infermiere che gestisce il momento del ricovero.
Le motivazioni del rischio assegnato ad ogni paziente vanno specificate ogni volta
che si compila la scheda.
La rivalutazione del paziente deve essere effettuata almeno ogni giorno
preferibilmente al momento del briefing; la scala dovrà essere compilata solo in
caso di eventuali variazioni delle condizioni cliniche del paziente.
Il grado di rischio verrà riportato ad ogni turno nel diario infermieristico.
Il rischio comportamentale auto ed etero diretto e sistemico presentano 4 livelli di
intensità:
Rischio comportamentale auto diretto
1 Basso
2 Moderato
3 Elevato
4 Non
valutabile
es. assenza di tematiche autolesive
manifestate e/o riportate da conoscenti;
assenza in anamnesi di comportamenti
autolesivi; in caso di presenza di pregressi
gesti autolesivi unicamente in anamnesi,
fase clinica attuale con elevazione del tono
dell'umore. .
es. Iarvate tematiche autolesive espresse c
riportate con scarsa convinzione; pregressi
in anamnesi per episodi non gravi,
tematiche non deliranti di colpa e/o
ipocondriache, astinenza da
psicostimolanti, deflessione del tono
dell'umore senza aspetti espressivi di
sofferenza estrema e/o marcata agitazione
es. tematiche auto lesive manifeste,
anamnesi per TS di una certa gravità,
famigliarità per suicidio, tematiche deliranti
di colpa e/o di rovina, elevato stato di
agitazione, fasi bipolari miste, espressione
particolarmente cupa, elevato livello di
introversione.
In corso di valutazione
~ 275 ~
Rischio comportamentale etero diretto
1 Basso
2 Moderato
3 Elevato
4 Non
valutabile
es. non manifesta atteggiamenti fisici e/o
verbali di aggressione, non dà segni di
particolare insofferenza, aspetto
sufficientemente sereno e comunque non
cupo, anamnesi negativa per pregressi
episodi di impegno in conflitti fisici, non
minaccioso, assenza di manifestazioni
confuso/agitate.
es. insofferenza nei confronti dell'ambiente,
oppositività al ricovero in assenza di
minacce espresse. Anamnesi positiva per
episodi di aggressività non gravi e non
frequenti, tematiche persecutori e
soprattutto se incentrate nei confronti
dell'istituzione (CSM, SPDC).
es. minacce francamente espresse,
atteggiamento e postura aggressiva;
anamnesi positiva per conflitti fisici; elevata
quota di insofferenza nei confronti
dell'ambiente, franca oppositività;
intossicazione (accertata o presunta) da
psicostimolanti; aspetto cupo; tematiche
paranoidee.
In corso di valutazione
Rischio sistemico
Compilare il campo "rischio sistemico" 1 (basso) 2 (moderato) a 3 (grave) quando
viene riscontrato (obbligatoriamente nel caso di pazienti dementi e/o anziani).
Cardiovascolare
Ortopedico
Gastroenterologico
Neurologico
Geriatrico
Ginecologico
Endocrinologico
Altro (specificare)
(es.lipotimie)
(es. protesi, rischio di fratture)
(es. occlusione, epatopatie)
(es. stati confuso/agitati; sincopi; crisi epilettiche)
(es. aritmie cardiache, fragilità ossea, stati confusionali)
(es. gravidanza)
(es. tireotossicosi)
~ 276 ~
SERVIZIO SANITARlO
REGIONALE
EMILlA·ROMAGNA
Azienda Unita Sanitaria
Locale di Rimini
servizio Psichiatrico di
Diagnosi e Cura
MODULO
Scala di valutazione del
rischio
comportamentale
auto/etera diretto o
sistemico
M/P08/DRN.DSM.PDC ³
Rev.02
Emissione il
06.08.2010
Pagina 2 di 4
VALUTAZIONE ALL'INGRESSO
Livello
Motivazione
Rischio auto diretto
Rischio etero diretto
Rischio sistemico
Firma Medico……………………………. Data……………………………………
Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………...
VALUTAZIONE DURANTE IL RICOVERO
Livello
Motivazione
Rischio auto diretto
Rischio etero diretto
Rischio sistemico
Firma Medico……………………………. Data……………………………………
Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………...
VALUTAZIONE DURANTE IL RICOVERO
Livello
Motivazione
Rischio auto diretto
Rischio etero diretto
Rischio sistemico
Firma Medico……………………………. Data……………………………………
Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………...
~ 277 ~
SERVIZIO SANITARlO
REGIONALE
EMILlA·ROMAGNA
Azienda Unita Sanitaria
Locale di Rimini
servizio Psichiatrico di
Diagnosi e Cura
MODULO
Scala di valutazione del
rischio
comportamentale
auto/etera diretto o
sistemico
M/P08/DRN.DSM.PDC ³
Rev.02
Emissione il
06.08.2010
Pagina 3 di 4
VALUTAZIONE DURANTE IL RICOVERO
Livello
Motivazione
Rischio auto diretto
Rischio etero diretto
Rischio sistemico
Firma Medico……………………………. Data……………………………………
Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………...
VALUTAZIONE DURANTE IL RICOVERO
Livello
Motivazione
Rischio auto diretto
Rischio etero diretto
Rischio sistemico
Firma Medico……………………………. Data……………………………………
Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………...
VALUTAZIONE DURANTE IL RICOVERO
Livello
Motivazione
Rischio auto diretto
Rischio etero diretto
Rischio sistemico
Firma Medico……………………………. Data……………………………………
Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………...
~ 278 ~
SERVIZIO SANITARlO
REGIONALE
EMILlA·ROMAGNA
Azienda Unita Sanitaria
Locale di Rimini
servizio Psichiatrico di
Diagnosi e Cura
MODULO
Scala di valutazione del
rischio
comportamentale
auto/etera diretto o
sistemico
M/P08/DRN.DSM.PDC ³
Rev.02
Emissione il
06.08.2010
Pagina 4 di 4
VALUTAZIONE DURANTE IL RICOVERO
Livello
Motivazione
Rischio auto diretto
Rischio etero diretto
Rischio sistemico
Firma Medico……………………………. Data……………………………………
Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………...
VALUTAZIONE DURANTE IL RICOVERO
Livello
Motivazione
Rischio auto diretto
Rischio etero diretto
Rischio sistemico
Firma Medico……………………………. Data……………………………………
Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………...
VALUTAZIONE ALLA DIMISSIONE
Livello
Motivazione
Rischio auto diretto
Rischio etero diretto
Rischio sistemico
Firma Medico……………………………. Data……………………………………
Firma Infermiere per presa visione…………………… Data …………………...
~ 279 ~
~ 280 ~
SERVIZIO SANITARlO
REGIONALE
EMILlA·ROMAGNA
Azienda Unita Sanitaria
Locale di Rimini servizio
Psichiatrico di Diagnosi e
Cura
Dati relativi
all'Unità
Operativa e
all'operatore
all'Unità
Operativa e
all'operatore
Dati relativi al paziente
Gestione del rischio
clinico. SCHEDA DI
SEGNALAZIONE
SPONTANEA DEGLI
EVENTI MO.01.
4
PG.47.DIR.SAN.OOO
AGENZIA SANITARIA
REGIONALE
Scheda generale rev.2
Azienda/Casa di Cura
Unità Operativa
Nome e Cognome dell'operatore "(facoltativo)
○ Medico
Qualifica
○ Infermiere/caposala
○ Altro specificare
Nome e Cognome del paziente (facoltativo)
N° di scheda-nosologica
Circostanze
dell'evento
Tipo di
prestazione
Anno di nascita/Età
Luogo in cui si è verificato l'evento (es, bagno camera.
ecc.).
Data ……………….e ora ………in cui si è verificato l'evento
○
Ricovero
ordinario
○
Ricovero DH
○
prestazione
ambulatoriale
○
Intervento
chirurgico
Descrizione dell'evento (Che cosa è successo?)
~ 281 ~
○
Prestazione
domiciliare
○
Altro _______
Fattori che possono aver contribuito all’evento (è possibile Indicare più' di una
Fattori legati al personale
Condizioni generali o
precarie/fragilità/infer
mità
○
Staff inadeguato/insufficiente
○
○
Non cosciente/
scarsamente orientato
○
Insufficiente
addestramento/inserimento
Gruppo nuovo/inesperto
Elevato turn-over;
○
Scarsa continuità assistenziale
○
Protocollo/procedura
inesistente/ambigua
○
Insuccesso nel far rispettare
protoc. /procedure
Mancato coordinamento
○
Mancata/inadeguata
comunicazione
Mancanza/inadeguatezza
attrezzature
Mancata/inadeguata
manutenzione attrezzature
Mancanza/inadeguatezza
materiale di consumo
Ambiente inadeguato
○
○
Poca/mancata
autonomia
Barriere linguistiche/
culturali
○
Mancata adesione al
progetto terapeutico
○
Difficoltà nel seguire
istruzioni/procedure
Inadeguate
conoscenze/inesperie
nza
○
Fatica/stress
○
○
Presa scorciatoia/
regola non seguita
Mancata/inesatta
lettura documentaz.
/etichetta
Mancata supervisione
Scarso lavoro di
gruppo
Mancata
verifica
preventiva apparecch.
Altri fattori (specificare)
Fattori legati al sistema
Fattori legati al paziente
risposta)
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
○
Fattori che possono aver ridotto l'esito
○ Individuazione precoce
○
Buona pianificazione/protocollo
○
Fortuna
○ Buona assistenza
○
Altro (specificare)
A seguito dell'evento è stato necessario eseguire ulteriori indagini o prestazioni
sanitarie?
Indagini di laboratorio ○
Indagini radiologiche ○
ECG
○
Altre indagini ○
Visita medica ○
Consulenza
○
specialistica
Medicazioni
○
intervento chirurgico ○
Ricovero ordinario
○
~ 282 ~
Ricovero in TI ○
Trasferimento ○
Altro
○
Come si poteva prevenire l'evento? (es.: verifica delle attrezzature prima dell’uso, migliore
comunicazione scritta, sistema di monitoraggio/allarme, ecc.).
Specificare comunicazione scritta, sistema di monitoraggio/allarme, ecc.).
Specificare
L'evento è documentato in
Il paziente è stato informato dell'evento?
cartella clinica?
Si
○
No
○
Si
○
No
○
I dati contenuti nel campi colorati In grigio non saranno registrati nel database
Da questo punto in poi compilazione a cura del Responsabile medico dell'lncident
reporting
Esito dell' evento
Evento
potenziale
Evento
effettivo
Situazione pericolosa/danno potenziale/evento non occorso
(es: personale insufficiente/ pavimento sdrucciolevole coperto
dove non sono avvenute cadute)
Situazione pericolosa/danno potenziale/evento occorso, ma
intercettato (es: preparazione di un farmaco sbagliato, ma mai
somministrato/farmaco prescritto per un paziente allergico allo
stesso, ma non dispensato o somministrato)
NESSUN ESITO - evento in fase conclusiva/nessun danno
occorso (es: farmaco innocuo li somministrato erroneamente al
paziente)
ESITO MINORE - osservazioni o monitoraggi extra/ulteriore
visita del medico/nessun danno occorso o danni minori che
non richiedono un trattamento
ESITO MODERATO - osservazioni o monitoraggi
extra/ulteriore visita del medico/indagini diagnostiche minori
(es: esame del sangue o delle urine)/trattamenti minori
(es: bendaggi analgesici)
ESITO TRA MODERATO E SIGNIFICATIVO- osservazioni o
monitoraggi extra/ulteriore visita del medico/indagini
diagnostiche(es: procedure radiologiche/necessità di
trattamenti con altri farmaci/intervento chirurgico/cancellazione
o posticipazione del trattamento/ trasferimento ad altra U.O.
che non richieda il prolungamento della degenza
ESITO SIGNIFICATIVO - ammissione in ospedale o
prolungamento della degenza/condizioni che permangono alla
dimissione
ESITO SEVERO - disabilità permanente/contributo al decesso
Livello.1
Livello 2
Livello 3
Livello 4
Livello 5
Livello 6
Livello 7
Livello 8
Valutazione del rischio futuro
Possibilità di
Frequente (più di 1evento/anno)
riaccadimento di eventi
Raro (meno di 1 evento/anno)
analoghi
Possibile esito di un
Esito minore.(fino al livello 4)
evento analogo
Esito maggiore (livellò pari o superiore a 5)
Sono stati intrapresi accorgimenti a seguito dell'evento?
Si
○
Quali?
~ 283 ~
○
○
○
○
No
○
L'evento risulta incrementare i costi, la durata della degenza o il consumo di
risorse?
Si
○
No
In che modo?
L'evento ha determinato problemi di tipo organizzativo? (es, ritardi, ecc.)
Si
○
No
Quali?
C'è una lezione significativa da trarre dall'evento?
Si
○
No
Se si, quale? (proporre azioni per evitare il riaccadimento)
Nell'evento sono stati coinvolti altri servizi/reparti?
Si
○
No
Commentare.
○
○
○
○
Responsabile medico dell’incident reporting ……………Firma……………Data……….
1. La presente scheda vuole essere uno strumento per identificare i problemi, e le cause ad
essi connesse, che possono insorgere durante le attività clinico-assistenziali. Le
informazioni che si otterranno saranno utilizzate esclusivamente per sviluppare strategie
corretti ve per prevenire in futuro problemi similari. Per questo, in caso di altri obblighi
derivanti da legge, è necessario effettuare con procedure ordinarie le segnalazioni alle
autorità competenti.
2. La scheda può essere riconsegnata al Responsabile di Unità Operativa, anche in forma
anonima.
3. Dopo l'acquisizione delle informazioni necessarie all'analisi dell'evento, la scheda verrà
deidentificata per quanto riguarda i dati relativi all'operatore ed al paziente.
4. Dopo la compilazione della parte a cura del responsabile inviare la scheda
a:………………………………………………………………………………………………………
…………………………………………………………………………………………………………
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SCHEDA UNICA DI SEGNALAZIONE DI SOSPETIA REAZIONE AVVERSA (ADR)
da compilarsi a cura dei medico o degli altri operatori sanitari e da inviare al
5
Responsabile di fatmacovigilanza della struttura sanitaria di appartenenza )
1.INIZIALI 2.DATA
3.SESSO
4.DATA
5.ORIGINE
CODICE
DEL
DI
…………..
INSORGENZA ETNICA
SEGNALAZIONE
PAZIENTE NASCITA
REAZIONE
…………….. ……………………
…. ….
…………..
………………..
6.DESCRIZONE DELLA REAZIONE ED EVENTUALE 7.GRAVITA' DELLA
DIAGNOSI
• se il segnalatore è un medico REAZIONE:
o
grave
o
decesso
o
ospedalizzazione o
prolungamento osped.
o
invalidità grave o
permanente
o
ha messo in pericolo di
vita
o
anomalie congenite/
o
deficit nel neonato
non grave
8.ESAMI DI LABORATORIO RlLEVANTl PER ADR:
9.ESITO :
riportare i risultati e date in cui gli accertamenti sono
o
risoluzione completa
stati eseguiti
ADR il _'_'_
o
risoluzione con postumi
o
miglioramento
o
reazione invariata o
peggiorata
o
decesso il _'_'_
10.AZIONI INTRAPRESE: specificare.
o
dovuto alla reazione
In caso di sospensione compilare i campi da 16 a 19
avversa
o
il farmaco può avere
contribuito
o
non dovuto al farmaco
o
causa sconosciuta
o
non disponibile
INFORMAZIONI SUL FARMACO
11. FARMACO(I) SOSPETTO(I) (il nome della specialità medicinale)*
A)…………………………………….12. LOTTO……….. 13. DOSAGGIO/DIE………………….
14. VIA DI SOMMINISTRAZIONE…………….. 15. DURATA DELL 'USO: DAL…… AL…….
B)…………………………… ………12. LOTTO………..13. DOSAGGIO/DIE………………….
14. VIA DI SOMMINISTRAZIONE………………15.DURATA DELL'USO: DAL……. AL……..
C)……………………………………12. LOTTO………...13. DOSAGGlO/DIE………………….
14 .\/IA DI SOMMINISTRAZIONE ……………...15.DURATA DELL’USO: DAL .…....AL…….
Nel caso di vaccini specificare anche il numero di dosi e/o di richiamo e l’ora di
somministrazione
16. IL FARMACO E' STATO SOSPESO: A: sì/no
B: si/no
C: si/no
17. LA REAZIONE E' MIGLIORATA DOPO LA SOSPENSIONE:
18. FARMACO E’ STATO RIPRESO?
A:sì/no
B:sì/no
C:Sì/no
A:si/ no
B:sì/no
C:Sì/no
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19. SONO RlCOMPARSI I SINTOMI DOPO LA SOMMNISTRAZIONE?
A: sì/no
B:sì/no
C:Sì/no
20.INDICAZIONI O ALTRO MOTIVO PER CUI IL FARMACO È STATO USATO:
21.FARMACO (I) CONCOMITANTE(I), DOSAGGIO, VIA DI SOMMNISTRAZIONE,
DURATA DEL TRATTAMENTO
21.USO CONCOMITANTE DI ALTRI PRODOTTI A BASE DI PIANTE OFFICINALI,
OMEOPATlCl, INTEGRATORI ALIMENTARI, ECC. (specificare)
22.CONDIZIONI CONCOMlTANTl
PREDlSPONENTl (se il farmaco sospetto è un
vaccino riportare l'anamnesi ed eventuali vaccini somministrati nelle 4 settimane
precedenti alla somministrazione)
23.INFORMAZIONI SULLA SEGNALAZIONE
24.QUALIFICA DEL SEGNALATORE
25.DATI DELL SEGNALATORE
○
NOME COGNOME
MEDICO DI
MEDICINA GENERALE
○
PEDIATRA
DI LIBERA
SCELTA
○
MEDICO
○ FARMACISTA
INDIRIZZO
○
e-mail
OSPEDALIERO
○
SPECIALISTA
26.DATA DI COMPILAZIONE
ALTRO
FAX
27.FIRMA DEL RESPONSABILE DI
FARMACOVIGILANZA
28.CODICE ASL
1-5
29.FIRMA DEL SEGNALATORE
Fonte: Schede di valutazione in uso in U.O. SPDC Rimini (RN)
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