Il diritto missionario nella vita della Chiesa. Questioni

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TESTO PROVVISORIO
Pontificia Università della Santa Croce - Facoltà di Diritto Canonico - XVII Convegno di studi
Roma, 11-12 aprile 2013
FEDE EVANGELIZZAZIONE E DIRITTO CANONICO
Il diritto missionario nella vita della Chiesa.
Questioni problematiche aperte.
REV. PROF. ANDREA D’AURIA
Pontificia Università Urbaniana
SOMMARIO
1. Missione della Chiesa: realtà in crisi?; 2. Missione, inculturazione e ordinamento giuridico della Chiesa; 3. La
specificità del diritto missionario e la sfida dell’evangelizzazione; 4. Ius semper reformandum est; 5. Il diritto
missionario e il Concilio Vaticano II; 6. Il diritto missionario e il Codice del 1983; 7. Il chiarimento offerto
dall’Enciclica Redemptoris Missio; 8. Postfazione.
Nel corso di questo nostro breve contributo vorremmo cercare di analizzare quale posto ha
avuto il diritto nella sfida che la Chiesa ha sempre vissuto di portare l’annuncio della fede a tutti i
popoli e quali siano le strutture e gli strumenti giuridici e missionari che la Chiesa si è data per
rispondere a tale esigenza. Si è giustamente affermato che la Chiesa per sua natura è missionaria Ecclesia peregrinans natura sua missionaria est, cum ipsa ex missione Filii missioneque Spiritus
Sancti originem ducat secundum Propositum Dei Patris (AG 2) - e che tutta l’ampiezza del compito
che il Signore Gesù le ha affidato si esaurisce, in un certo qual modo, nel portare al mondo intero il
lieto annuncio.
Tale compito si è da sempre addensato in modo specifico nella cosiddetta missio ad gentes e
cioè nell’annunciare la fede a quelle popolazioni in cui non vi era o non vi è a tutt’oggi mai stato
neppure una prima implantatio ecclesiae. Al contempo, come vedremo in seguito, non bisogna però
dimenticare che vi è anche una missione che la Chiesa continua a svolgere verso coloro - e sono
molti - che già hanno ricevuto un primo annuncio del Vangelo.
Continua è stata nella storia della Chiesa la tensione polare tra questi due aspetti: se, per così
dire, “privilegiare” l’attenzione ad una dimensione ordinaria della missione o dare invece maggior
spazio e risonanza a quello che è la missione ad gentes e quindi alle sue strutture, con la
1
conseguente attenzione allo sviluppo e crescita del diritto missionario.
Per economia di trattazione e per evidenti ragioni espositive la nostra riflessione dovrà
addensarsi soprattutto sull’analisi di quello che è stato lo sviluppo storico e teologico di questa
“tensione polare” - missione universale della Chiesa e missio ad gentes - dal Concilio Vaticano II ai
nostri giorni. Vorremo illustrare brevemente come questi due fuochi di un’unica ellisse si sono
armonizzati nel tempo e quali diversificate soluzioni giuridiche sono state assunte.
1. Missione della Chiesa: realtà in crisi?
Non si può negare che da dopo il Concilio Vaticano II le realtà missionarie della Chiesa e il
loro stesso impeto comunicativo hanno subito un’aliquale crisi. Quella che doveva essere la nuova
primavera della Chiesa si è rivelata invece essere, in parte, una stagione d’incertezza, vecchiaia e
disorientamento.
Il problema si è profilato in questi ultimi anni come piuttosto profondo e radicale, in quanto
non si è trattato solamente di una crisi dovuta alla debolezza delle strutture giuridiche o
organizzative, quanto piuttosto di identità teologica ed autocoscienza della realtà ecclesiale.
1
Per tutta questa parte si veda: Velasio DE PAOLIS, La Chiesa Missionaria e il Codice del Concilio, in: La Chiesa è
missionaria. La ricezione nel Codice di Diritto Canonico, a cura di Luigi SABBARESE, Urbaniana University Press,
Citta del Vaticano 2009, pag. 17 e ss..
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Per quanto riguarda la crisi della dimensione missionaria della Chiesa, si devono ricordare
infatti anche alcune cause specifiche che in qualche modo sono all’origine di tale disorientamento e
che sono di carattere squisitamente teologico; si sono messe in dubbio infatti alcune verità
fondamentali della stessa fede cristiana cattolica, come ad esempio l’identificazione, sebbene non
2
esaustiva, della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica; la funzione della stessa Chiesa Cattolica
come unica comunità di salvezza voluta da Gesù; l’unica mediazione salvifica di nostro Signore
Gesù Cristo; la problematica relativa alla salvezza dei non cristiani; la dottrina dei cosiddetti
cristiani anonimi; un fraintendimento del principio della libertà di coscienza, etc.... In sintesi ciò che
è stato messo in crisi è stato proprio quell’insegnamento che il documento Dominus Iesus, della
Congregazione per la Dottrina della Fede, emanato il 6 agosto del 2000, ha voluto ribadire.
Queste problematiche, sentite a volte come irrisolte, hanno influito in particolare
nell’interpretazione e nel modo di intendere il dialogo ecumenico e interreligioso, in quanto risulta a
tutti ben chiaro che se Gesù non è l’unico salvatore del mondo allora inutile o almeno superflua
risulta ogni attività missionaria. Tutto ciò ha portato anche a fraintendere i principi basilari che
reggono il concetto di ecumenismo e di dialogo interreligioso, fino ad arrivare a ritenere che il
mondo non avesse più bisogno di Cristo e della Chiesa.
Di recente Benedetto XVI, parlando di dialogo interreligioso durante la Presentazione degli
Auguri Natalizi alla Curia Romana, lo scorso 21 dicembre 2012 ha affermato: “per l’essenza del
dialogo interreligioso, oggi in genere si considerano fondamentali due regole: 1. Il dialogo non ha di
mira la conversione, bensì la comprensione. In questo si distingue dall’evangelizzazione, dalla
missione. 2. Conformemente a ciò, in questo dialogo ambedue le parti restano consapevolmente
nella loro identità, che, nel dialogo, non mettono in questione né per sé né per gli altri.
Queste regole sono giuste. Penso, tuttavia, che in questa forma siano formulate troppo
superficialmente. Sì, il dialogo non ha di mira la conversione, ma una migliore comprensione
reciproca: ciò è corretto. La ricerca di conoscenza e di comprensione, però, vuole sempre essere
anche un avvicinamento alla verità. Così, ambedue le parti, avvicinandosi passo passo alla verità,
vanno in avanti e sono in cammino verso una più grande condivisione, che si fonda sull’unità della
verità. Per quanto riguarda il restare fedeli alla propria identità: sarebbe troppo poco se il cristiano
con la sua decisione per la propria identità interrompesse, per così dire, in base alla sua volontà, la
via verso la verità. Allora il suo essere cristiano diventerebbe qualcosa di arbitrario, una scelta
semplicemente fattuale. Allora egli, evidentemente, non metterebbe in conto che nella religione si
ha a che fare con la verità. Rispetto a questo direi che il cristiano ha la grande fiducia di fondo, anzi,
la grande certezza di fondo di poter prendere tranquillamente il largo nel vasto mare della verità,
senza dover temere per la sua identità di cristiano. Certo, non siamo noi a possedere la verità, ma è
essa a possedere noi: Cristo, che è la Verità, ci ha presi per mano, e sulla via della nostra ricerca
appassionata di conoscenza sappiamo che la sua mano ci tiene saldamente. L’essere interiormente
sostenuti dalla mano di Cristo ci rende liberi e al tempo stesso sicuri. Liberi: se siamo sostenuti da
Lui, possiamo entrare in qualsiasi dialogo apertamente e senza paura. Sicuri, perché Egli non ci
3
lascia, se non siamo noi stessi a staccarci da Lui. Uniti a Lui, siamo nella luce della verità.”
La dimensione e la tensione missionaria si sono affievolite inoltre soprattutto per la crisi delle
Chiese dei paesi di antica tradizione cattolica, specie di quelli che nel passato erano stati
particolarmente attivi e vivaci nell’invio dei missionari nelle zone di nuova evangelizzazione. Sotto
quest’aspetto si può dire che la crisi della missionarietà della Chiesa è lo specchio della crisi della
comunità cristiana, specialmente di quella occidentale. Si deve quindi concludere che il
disorientamento che ha travagliato la Chiesa al suo interno non poteva non ripercuotersi anche nella
sua attività missionaria ad extra.
2
A tal proposito si veda: Velasio D E PAOLIS, Chiesa di Cristo, Chiesa cattolica, Chiese particolari, comunità ecclesiali,
in: “Periodica”, 94, (2005), pagg. 543-586; Andrea D’AURIA, Alcune considerazioni sul problema dei destinatari della
legge ecclesiastica e sull’appartenenza ecclesiale, in: “Euntes Docete,” LIV/1, 2001.
3
http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2012/december/documents/hf_ben-xvi_spe_20121221_auguri-curia_it.html
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Occorre qui anche notare che mentre nelle precedenti crisi vi era stato successivamente un
risveglio missionario nella vita della Chiesa, nel disorientamento post-conciliare ciò non è
avvenuto. La ragione di questo disagio profondo - e a volte allarmante - sembra risiedere nel fatto
che le precedenti crisi avevano toccato la Chiesa piuttosto nelle sue strutture esterne e visibili; la
grave difficoltà attuale, invece, sembra aver inciso proprio sulla sua vita interna e più intima e sui
fattori costitutivi del suo annuncio. Problematiche messe ben in luce dall’enciclica Redemptoris
Missio, su cui torneremo in seguito.
La crisi delle missioni è stata quindi più profondamente la crisi della realtà ecclesiale in
quanto tale e della consapevolezza che questa ha di se stessa; disorientamento che è stato poi
accompagnato purtroppo anche da riflessi numerici significativi.
A tal proposito, degno d’interesse è stato il documento: NOTA DOTTRINALE SU ALCUNI
ASPETTI DELL'EVANGELIZZAZIONE, del 3 dicembre 2007, emanato dalla Congregazione per la
4
Dottrina e la Fede. In tale documento i fenomeni sopra menzionati vengono analizzati in forma
molto acuta, almeno nella loro radice teologica e culturale.
La problematica messa in luce dalla Nota Dottrinale si svolge secondo il seguente sviluppo
concettuale. La Nota evidenzia come sia diffusa una mentalità secondo la quale da una parte
sarebbe una sorta di violenza e mancanza di rispetto della libertà altrui annunciare il Vangelo.
Dall’altra si mette in luce la tendenza ad affermare l’inutilità di quest’annuncio, in quanto Cristo
non è necessario per essere salvati: nostro unico compito è quello di aiutare gli uomini ad essere se
stessi.
Secondo questa posizione, in sintesi, la salvezza è già presente in ogni uomo come dato
naturale innato e l’opera missionaria si realizza nell’esplicitare ciò che in un certo qual modo è già
5
insito in ogni persona umana. A ciò va aggiunto che tale posizione è stata altresì sostenuta dal
relativismo dilagante secondo il quale, alla fine, tutte le posizioni teologiche e filosofiche e tutte le
6
religioni si equivalgano.
Riteniamo che in sintesi tale posizione filosofica condannata dalla NOTA DOTTRINALE abbia
come base il seguente errore che presenta poi in realtà due sfaccettature differenti. O gli uomini
sono già buoni e quindi è in realtà sufficiente essere se stessi per essere redenti, per cui non vi è
bisogno di nessun incontro salvifico, ma solo di vivere in pienezza la propria cultura. Oppure la
verità non esiste e quindi viene meno il problema della sua conoscibilità e l’urgenza della sua
comunicazione in quanto non vi è più nulla da annunciare.
4
5
http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20071203_nota-evangelizzazione_it.html
“Si verifica oggi, tuttavia, una crescente confusione che induce molti a lasciare inascoltato ed inoperante il comando
missionario del Signore (cf. Mt 28, 19). Spesso si ritiene che ogni tentativo di convincere altri in questioni religiose sia
un limite posto alla libertà. Sarebbe lecito solamente esporre le proprie idee ed invitare le persone ad agire secondo
coscienza, senza favorire una loro conversione a Cristo ed alla fede cattolica: si dice che basta aiutare gli uomini a
essere più uomini o più fedeli alla propria religione, che basta costruire comunità capaci di operare per la giustizia, la
libertà, la pace, la solidarietà. Inoltre, alcuni sostengono che non si dovrebbe annunciare Cristo a chi non lo conosce, né
favorire l’adesione alla Chiesa, poiché sarebbe possibile esser salvati anche senza una conoscenza esplicita di Cristo e
senza una incorporazione formale alla Chiesa.” In: NOTA DOTTRINALE…, cit., n. 3. 6
“Tuttavia oggi vengono formulati, con sempre maggiore frequenza, degli interrogativi proprio sulla legittimità di
proporre ad altri — affinché possano aderirvi a loro volta — ciò che si ritiene vero per sé. Tale proposta è vista spesso
come un attentato alla libertà altrui. Questa visione della libertà umana, svincolata dal suo inscindibile riferimento alla
verità, è una delle espressioni «di quel relativismo che, non riconoscendo nulla come definitivo, lascia come ultima
misura solo il proprio io con le sue voglie, e sotto l'apparenza della libertà diventa per ciascuno una prigione». Nelle
diverse forme di agnosticismo e relativismo presenti nel pensiero contemporaneo, «la legittima pluralità di posizioni ha
ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull'assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno
dei sintomi più diffusi della sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto contemporaneo. A questa riserva non
sfuggono neppure alcune concezioni di vita che provengono dall'Oriente; in esse, infatti, si nega alla verità il suo
carattere esclusivo, partendo dal presupposto che essa si manifesta in modo uguale in dottrine diverse, persino
contraddittorie tra di loro». Se l'uomo nega la sua fondamentale capacità della verità, se diviene scettico sulla sua
facoltà di conoscere realmente ciò che è vero, egli finisce per perdere ciò che in modo unico può avvincere la sua
intelligenza ed affascinare il suo cuore.” In: NOTA DOTTRINALE…, cit., n. 4. - 3/23 -
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Tale nota mette altresì bene in rilievo il diritto di ogni uomo ad incontrare la verità salvifica e
specularmente il diritto-dovere dei battezzati di annunciarla. Numerosi studi hanno messo in luce
quest’aspetto enucleando come al diritto-dovere di mettersi in ascolto della verità e dell’annuncio
7
che salva corrisponda il diritto-dovere di annunciare. Non abbiamo qui il tempo di soffermarci su
quest’aspetto; diciamo solo che tale diritto, come tutti i diritti della persona, presenta una struttura
speculare. Infatti attorno ad ogni diritto fondamentale della persona si crea un vero e proprio
“reticolato” di diritti e di doveri tra ogni uomo e la comunità in cui si trova a vivere.
Ma qual è il fulcro concettuale attorno al quale avviene questa strutturazione speculare? Se
esiste il dovere di ascoltare la verità e altresì il dovere di condurre un’esistenza secondo la volontà
di Dio, sussiste altresì il corrispettivo dovere in capo alla Chiesa e ai suoi membri di portare a tutti
l’annuncio del vangelo, come recita il can. 211 – “tutti i fedeli hanno il dovere e il diritto di
impegnarsi perché l'annuncio divino della salvezza si diffonda sempre più fra gli uomini di ogni
tempo e di ogni luogo” - e di offrire tutti gli aiuti necessari affinché ogni uomo possa assolvere
quest’obbligo e raggiungere così la salvezza eterna dell’anima.
Di certo non possiamo affermare che esista il diritto a ricevere la Grazia di Dio, altrimenti
verrebbe vanificato ogni aspetto di gratuità della salvezza e il darsi a noi di Cristo sarebbe qualcosa
di esigito e doveroso per l’uomo, facendo così svanire il carattere di puro dono dell’evento
salvifico. Al contempo va affermato però che esiste il dovere per la Chiesa di esercitare la sua
funzione ministeriale ovvero di elargire agli uomini quei beni spirituali che ha ricevuto dal suo
divin Fondatore per il raggiungimento dei suoi scopi; beni che sono sinteticamente e principalmente
sussumibili nell’annuncio salvifico e nelle realtà sacramentali. La Chiesa tradirebbe se stessa e non
eserciterebbe la sua ministerialità se non mettesse continuamente a disposizione dei fedeli tali beni
che ha ricevuto dal Signore.
Quindi se non si può affermare che esiste un diritto a ricevere la Grazia del Signore, ci
sentiamo però di sostenere che esiste un vero e proprio diritto a ricevere, attraverso la mediazione
8
ecclesiale, quei beni salvifici - tra cui l’annuncio della parola di Dio - a favore di colui che è
destinato all’incontro con Cristo.
In modo molto efficace l’enciclica Redemptoris Missio, al n. 46, così si esprime in proposito:
“oggi l'appello alla conversione, che i missionari rivolgono ai non cristiani, è messo in discussione
o passato sotto silenzio. Si vede in esso un atto di «proselitismo»; si dice che basta aiutare gli
uomini a essere più uomini o più fedeli alla propria religione, che basta costruire comunità capaci di
operare per la giustizia, la libertà, la pace, la solidarietà. Ma si dimentica che ogni persona ha il
diritto di udire la «buona novella» di Dio che si rivela e si dona in Cristo, per attuare in pienezza la
sua propria vocazione”.
Ebbene riteniamo che tutta questa strutturazione di diritti e doveri abbia come chiave di
lettura la suprema esigenza che la Chiesa elargisca questi bene e che ogni uomo ne possa godere. In
particolar modo la Chiesa è interessata a che l’accesso alla salvezza e alla parola che salva a favore
di ogni persona umana sia il più possibile facilitato. In tal senso vanno interpretate tutte le strutture
giuridiche predisposte dall’ordinamento canonico, tese a tutelare il diritto all’incontro con la realtà
salvifica.
7
Tale tematica è stata abbondantemente studiata da Errazuriz. Si veda: Carlos José ERRAZURIZ, La dimensione
missionaria del munus docendi Ecclesiae. Profili giuridici, in: La Chiesa è missionaria. La ricezione nel Codice di
Diritto Canonico, a cura di Luigi SABBARESE, Urbaniana University Press, Citta del Vaticano 2009, pagg. 59-65; Carlos
José ERRÀZURIZ, La parola di Dio quale bene giuridico ecclesiale. Il munus docendi della Chiesa. Pontificia Università
della Santa Croce. Facoltà di Diritto Canonico. Subsidia Canonica 7, EDUSC, Roma 2012.
8
A tal proposito l’Incitti così si esprime: “…la mediazione ecclesiale diventa il luogo ove la dimensione giuridica della
chiamata alla santità trova la sua concretizzazione.” In: Giacomo INCITTI, Il popolo di Dio. La struttura giuridica
fondamentale tra uguaglianza e diversità, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2007, pag. 75.
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2. Missione, inculturazione e ordinamento giuridico della Chiesa
In un suo interessante scritto il card. Ratzinger affermava che nell’ottica della tematica
dell’annuncio della fede e dell’inculturazione l’incontro del cristianesimo con le culture moderne
richiede che queste vengano, in un certo qual modo, intaccate affinché possano arrivare a piena
maturazione e portare realmente frutto. L’Autore fa l’esempio del frutto del sicomoro di cui parla il
profeta Amos – “ero uno che incide i sicomori” (Am 7, 14) - che non matura se l’uomo non lo
9
incide con un piccolo intaglio. Senza questa piccola incisione tale frutto rimane insipido; questa è
appunto la sorte delle culture pagane prima o senza l’incontro col cristianesimo.
In nome di un vago rispetto e forse di una non meglio precisata tolleranza si è pensato spesso
che le culture dovevano essere rispettate nella loro integralità e in un certo senso lasciate intatte ed
immutate. Il Ratzinger dimostra al contrario come una cultura è veramente salva, è veramente se
stessa quando si lascia “incidere” dall’incontro con Cristo e solo in questo modo può giungere alla
sua piena maturazione. Ogni tradizione culturale, per quanto possa essere già impregnata dei semina
verbi, arriva a compimento e può fiorire in tutte le sue possibilità solo se si apre a Cristo e si lascia
da lui giudicare e contestare.
La realtà della Chiesa, nell’autocoscienza che nel tempo è andata prendendo di sé, ha avuto da
subito consapevolezza di avere bisogno di un ordinamento giuridico che le permettesse di
“incidere” i frutti che incontrava – per usare l’espressione di Ratzinger – e per esplicare la sua
missione nella libertà dal potere temporale, conformemente alla sua autonomia e coerente con gli
insegnamenti evangelici. Possiamo affermare che la strutturazione giuridica della Chiesa e la sua
adeguata strumentazione si sono andate sviluppando proprio nell’intento di rispondere alle esigenze
missionarie e di annuncio e di risolvere le problematiche che provenivano dall’attività della missio
ad gentes. A tal proposito l’Errazuriz afferma: “in quest’ultima dimensione la missionarietà
costituisce un criterio organizzativo di primordiale importanza per la Chiesa in quanto istituzione a
tutti i livelli, e di tutti coloro che la rappresentano, soprattutto dei sacri Pastori. Ogni organizzazione
e dinamica pastorale deve essere concepita con un’intrinseca componente missionaria, nel senso di
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mettersi al servizio effettivo di coloro che ancora non conoscono Cristo.”
La Chiesa universale è quindi da subito una realtà che si presenta, anche se solo
germinalmente, giuridicamente strutturata, con la consapevolezza di avere e di esercitare un potere
che viene dal Divino Redentore e che non è mutuato da nessuna realtà umana. Il principio
superiorem non recognoscens si evidenzia da subito come una caratteristica costitutiva ed
irrinunciabile dell’ordinamento ecclesiale.
11
Possiamo qui affermare, come sostiene il Mörsdorf, che la realtà giuridica della Chiesa è
quindi elemento primario degli elementi costitutivi originari del fatto rivelativo. L’ordinamento
canonico è quindi qualcosa di indispensabile nella vita della Chiesa e di coessenziale alla realtà
salvifica. Senza il diritto non è possibile vivere in pienezza l’avvenimento ecclesiale. Il diritto
canonico non si è mai presentato quindi come una semplice conseguenza della teologia dogmatica,
quasi che solo questa fosse in grado di cogliere la verità salvifica che dovrà essere poi applicata
nelle sue conseguenze operative e disciplinari dall’elemento giuridico. Il diritto canonico ha sempre
avuto, al contrario, una sua capacità specifica di cogliere il dato rivelato con un proprio metodo di
12
indagine e di conoscenza.
9
Joseph RATZINGER, In cammino verso Gesù Cristo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, pagg. 38-39.
ERRÀZURIZ, La dimensione missionaria…, cit., pag. 68.
11
Per tutto questa tema si veda in particolare: Klaus MÖRSDORF, Wort und Sakrament als Bauelemente der
Kirchenverfassung, in: “Archiv für katholischen Kirchenrecht”, (1965); Klaus MÖRSDORF, Fondamenti del diritto
canonico, Marcianum Press, Venezia 2008, pagg. 141-208.
12
A riguardo della problematica del diritto canonico quale scienza teologica si veda: Velasio DE PAOLIS, Formazione
giuridica civilistica e canonistica, in: “Seminarium”, XLIII, 2003, nn. 1-2, pag. 155.
10
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Desideriamo qui affermare infatti che il diritto è dotato di strumenti suoi propri in grado di
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cogliere il dato rivelato. In tal senso - come afferma il Corecco - verità di fede e verità giuridica
coincidono, in quanto non può esservi contraddizione tra due verità percepite e raggiunte attraverso
campi e metodologie distinte. Il non tenere uniti questi due principi creerebbe infatti pericolosi
14
dualismi. Portiamo qui l’esempio della consuetudine ove, come vedremo brevemente in seguito, il
sensus fidei fidelium è in grado di cogliere e di rendere normativo e quindi giuridico quello che è un
principio dell’esperienza di fede; o anche il caso del primato petrino, ove la verità di fede della
primazialità della Chiesa che presiede alla carità si unisce al dato giuridico di un primato di
giurisdizione.
Inoltre occorre considerare che la potenza dell’evento salvifico che è Cristo rimane nella vita
della Chiesa in modo precipuo attraverso l’evento sacramentale e la tradizione ecclesiale. Ma è
possibile immaginare questi due elementi senza una disciplina giuridica? Ebbene, secondo
15
Corecco, senza lo strumento del diritto e dell’organizzazione ecclesiale, posto a custodia e
garanzia di questi due elementi, non sarebbe possibile immaginare il permanere nella vita della
Chiesa dell’esperienza di liberazione fatta dai primi discepoli. Il diritto si pone infatti come
possibilità e certezza che l’evento salvifico sia presente con la medesima efficacia oggi come
duemila anni fa. All’interno dell’esperienza giuridica della Chiesa e della sua tradizione siamo certi
che oggi il sacramento dell’Eucarestia è lo stesso di quello celebrato da Gesù nell’ultima cena. Da
ciò proviene l’indispensabile garanzia che il diritto offre a riguardo della validità dei sacramenti.
Inoltre anche la successione apostolica, garante della valida efficacia del ministero ordinato,
non è concepibile senza una struttura giuridica che la disciplini. A ciò va aggiunto il processo di
canonizzazione che offre alla Chiesa esempi certi di santità. Anche in questo contesto possiamo
affermare che verità teologica e verità giuridica coincidono, tant’è vero che la proclamazione di un
nuovo santo, che è il termine di un processo di canonizzazione, viene equiparata, quanto alla sua
16
infallibilità, ad una statuizione dogmatica.
Infine la sussistenza del diritto canonico nella Chiesa deve essere vista come la piena
possibilità di garantire e tutelare la communio quale luogo in cui questa salvezza si riattualizza e
come unica realtà al cui interno i rapporti tra i fedeli e di questi con l’autorità, nonché le situazioni
17
giuridiche soggettive ricevono un’adeguata stabilità e protezione giuridica.
3. La specificità del diritto missionario nella Chiesa e la sfida dell’evangelizzazione
La problematica relativa alle strutture giuridiche che la Chiesa si è data nei secoli per svolgere
la sua missione salvifica si è dovuta scontrare inevitabilmente con tutta la problematica concernente
l’inculturazione giuridica. Il diritto canonico, essendo sorto e sviluppatosi soprattutto nell’ambito
della Chiesa latina, è stato senz’altro ampliamente influenzato dalla tradizione e dal contesto
romanistico. Ciò è stato a volte visto come un impedimento all’incontro del cristianesimo con altre
18
culture e alla possibilità di attualizzare con queste un reciproco arricchimento. Il diritto canonico,
13
Eugenio CORECCO, Teologia del Diritto canonico, in: Ius et communio. Scritti di Diritto Canonico, a cura di:
Graziano BORGONOVO - Arturo CATTANEO, vol. I, Ed. Piemme, Casal Monferrato 1997, pagg. 194-214.
14
Si veda, a tal proposito: Andrea D’AURIA, Il diritto consuetudinario nella vita della Chiesa, in: “Euntes Docete,”
LVI, 2003.
15
Eugenio CORECCO, L’unità tra diritto divino e canonico nella teologia cattolica, in: Ius et communio. Scritti di Diritto
Canonico, a cura di: Graziano BORGONOVO - Arturo CATTANEO, vol. I, Ed. Piemme, Casal Monferrato 1997, pagg.
116-130.
16
Per tutta questa parte si veda: CORECCO, Teologia del Diritto canonico…, cit., pagg. 194-214.
17
Eugenio CORECCO - Libero G EROSA, Il Diritto della Chiesa, Jaca Book, Milano 1995, pag. 25 e ss..
18
Silvia RECCHI, Il Codice e l'inculturazione, in: AA.VV., Fondazione del diritto. Tipologia e interpretazione della
norma canonica, (a cura di) Gruppo Italiano Docenti Di Diritto Canonico, Quaderni della Mendola, Milano 2001, pagg.
237-238.
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nel misurarsi con la tradizione e la sensibilità dei nuovi popoli che via via ha incontrato, ha dovuto
sempre ricomprendere che cosa del suo patrimonio giuridico fosse irrinunciabile e che cosa potesse
invece essere mutato per svolgere meglio la sua missione a servizio della Chiesa.
Riteniamo, per questi motivi, che l’esperienza dell’inculturazione giuridica abbia
rappresentato un paradigma per ogni tipo di inculturazione, proprio per il fatto che il diritto si è
dovuto continuamente misurare con la possibilità di ricevere arricchimenti da parte di altre culture e
al contempo di purificarsi e proteggersi incessantemente da eventuali contaminazioni.
Ciò va unito al fatto che il diritto della Chiesa ha sempre saputo valorizzare ed essere attento e
aperto alle istanze particolari ed alle produzioni normative che provenivano e che venivano
suscitate dalle terre di missione. In un certo qual modo l’organizzazione giuridica della Chiesa ha
dovuto ricrearsi e adattarsi continuamente per darsi nuovi strumenti proprio per far fronte alle
nuove sfide ed urgenze dell’evangelizzazione.
Il diritto universale infatti, soprattutto nelle due codificazioni del 1917 e 1983, non è apparso
come una realtà statica, impermeabile e monolitica, bensì, al contrario, si è presentato come un
corpo giuridico che è sempre stato sensibile alle suggestioni che provenivano dalle terre di missione
e quindi da tutto ciò che era il portato normativo del diritto missionario e particolare. Alcuni Autori
19
hanno parlato addirittura, a tal proposito, di un carattere empirico del diritto canonico.
Il diritto missionario ha perfino contribuito allo sviluppo del diritto universale, nonché al suo
continuo adattamento alle più diversificate esigenze normative che sono andate emergendo nel
corso dei secoli. Ciò si dimostra attraverso il fatto che alcuni istituti giuridici nati nell’alveo del
diritto missionario o addirittura come frutto di esperienze giuridiche di diritto particolare sono stati
poi recepiti dal diritto universale. Il diritto missionario ha esercitato, ad esempio, sull’insegnamento
proprio del Concilio Vaticano II un notevole influsso, fino a poter affermare che i punti di maggior
interesse e di discussione propri dell’assise conciliare sono stati determinati dalle esperienze e dagli
interrogativi provenienti dalle terre di missione.
Di certo, si pone qui l’annoso problema di verificare come un diritto scaturente da una società
in rapida evoluzione e influenzato dalle culture più disparate, sottoposte anche alle spinte della
globalizzazione, possa incontrare e conciliarsi con un diritto codiciale fortemente segnato da un
precipitato e da una tradizione giuridica di radice romanistica e germanica. Il diritto universale non
è qualcosa di monolitico e statico, bensì una realtà aperta alle sollecitazioni ed esigenze provenienti
dall’intero orbe terracqueo. Ciò dimostra, ancora una volta, la perenne giovinezza dell’evento
ecclesiale quale corpo vivo, che progredisce, si sviluppa ed è sempre sensibile a ciò che
continuamente nasce e si ripropone al suo interno, anche nella sua estrema periferia.
Si potrebbe portare ad esempio la disciplina matrimoniale, ove si dimostra come la normativa
propria della codificazione del 1983 si sia arricchita di quella che è stata la riflessione teologicogiuridico avvenuta nelle terre di missione e ciò in particolare per quanto riguarda il consenso, gli
impedimenti dirimenti e le problematiche relative alla mixta religio.
Ugualmente per quanto riguarda la partecipazione dei laici agli uffici ecclesiastici e la
cooperazione alla potestà di governo (can. 129 § 2) si dimostra quanto il precipitato normativo del
diritto missionario abbia condizionato le scelte del Legislatore codiciale, fino a possibilitare, anche
all’infuori della compartecipazione alla potestà di governo, la titolarità dei laici
nell’amministrazione dei sacramentali e nell’assistenza al matrimonio.
Il diritto missionario ha quindi saputo dimostrare di poter essere il punto di sutura tra diritto
universale e diritto particolare ed è anche ciò che ha permesso un reciproco travaso di insegnamento
e di soluzioni normative e di governo. Grazie al diritto missionario l’ordinamento giuridico della
Chiesa latina si è vieppiù trasformato in un vero e proprio diritto della Chiesa universale. L’influsso
del diritto missionario sull’ordinamento giuridico è la riprova che il diritto codiciale non ha come
origine solo il diritto europeo, ma si avvale di tutto ciò che è la produzione normativa dell’intera
Chiesa cattolica.
19
RECCHI, Il Codice e l'inculturazione…, cit., pag. 238.
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TESTO PROVVISORIO
Il diritto missionario si pone così, di sovente, quale chiave ermeneutica del diritto universale,
in quanto, se è nelle sollecitazioni provenienti dalle zone di missione che è rinvenibile l’impulso
dato ad una certa produzione normativa, tali desiderata illuminano anche la ratio e la finalità per
cui un determinato disposto legislativo è stato pensato e voluto. Inoltre il diritto missionario si
presenta spesso come un’ottima possibilità di ricostruzione e di rinvenimento delle circostanze
20
storiche, culturali ed ecclesiali in cui il Legislatore ha redatto una determinata normativa.
Il diritto missionario gioca nell’ordinamento giuridico della realtà ecclesiale e nella tensione
tra universale e particolare, un ruolo propulsore insostituibile, innanzitutto nel garantire e
riconoscere che le Chiese particolari hanno, entro certi ambiti – nell’intento di facilitare l’incontro
tra fede e cultura locale - una larga autonomia di governo, sia in materia legislativa che in materia
più strettamente amministrativa e giudiziaria. Proprio per questo si parla spesso, anche all’interno
della Chiesa – forse però, a volte, anche un po’ impropriamente - di principio di sussidiarietà,
volendo così esprimere che le Chiese particolari possono, in certe materie, provvedere, all’interno
di una giusta autonomia, alla conduzione delle loro stesse realtà, secondo la misura e l’ambito di
potere di cui sono provviste. I rinvii operati dal Codice, in materia legislativa, ai diritti particolari,
sono numerosissimi; si lascia così all’autorità gerarchica locale la possibilità e la libertà di
legiferare secondo le esigenze che essa vede opportune.
Insomma il diritto missionario nella Chiesa si è sempre rivelato essere come un’ottima
cinghia di trasmissione nel mutuo arricchimento tra universale e particolare, tra la garanzia di unità
e cattolicità che dalla Chiesa universale proviene alla Chiesa particolare e dal continuo
arricchimento culturale e valoriale che dalla Chiesa particolare raggiunge la Chiesa universale. In
questo l’ordinamento canonico ha nel tempo saputo dotarsi di una strumentazione sempre più
adeguata, tra le quali spicca la produzione normativa del diritto particolare propria dei vescovi, dei
21
concili e dei sinodi particolari, delle conferenze episcopali, nonché degli istituti di vita consacrata.
4. Ius semper reformandum est
Le sfide culturali e ideologiche che la Chiesa ha incontrato durante i secoli nella sua opera
evangelizzatrice e di nuova implantatio ecclesiae l’hanno indotta a rivedere continuamente, come
abbiamo già accennato, il proprio sistema giuridico in modo da adattarlo alle nuove necessità. Se
diciamo che Ecclesia semper reformanda est, forse lo possiamo affermare analogicamente anche
del sistema giuridico che la compagine ecclesiale si dà. La Chiesa ha sentito nei secoli la necessità
di munirsi di un diritto sempre più appropriato e specifico secondo le nuove urgenze
dell’evangelizzazione e questo soprattutto in seguito alla riforma protestante e al concilio di Trento.
In tal senso il corpo ecclesiale ha percepito l’urgenza di darsi un sistema giuridico che si
distinguesse dal diritto comune e che fosse maggiormente consono alle esigenze, a volte
straordinarie, della nuova implantatio. Certo si è trattato spesso di un diritto estremamente flessibile
che ha accompagnato le giovani Chiese nella loro età evolutiva per facilitarne e garantirne la
strutturazione e il consolidamento. Un diritto dotato di un carattere di provvisorietà che va poi man
mano scomparendo laddove la Chiesa esce dal suo stato di neofita e, strutturandosi in modo
completo, può essere maggiormente garantita dal diritto comune universale. Possiamo dire quindi
che il diritto missionario tende nel tempo ad assimilarsi sempre più al diritto comune man mano che
22
le nuove giovani chiese raggiungono uno stato di maturità ed autonomia.
20
Si veda, a tal proposito, l’interessante monografia di: Matthias PULTE, Das Missionsrecht. Ein Vorreiter des
universalen Kirchenrechts, Steyler Verlag, Nettetal 2006.
21
RECCHI, Il Codice e l'inculturazione…, cit., pagg. 241-243.
22
A tal proposito il Garcìa Martìn così si esprime: “da un punto di vista giuridico la finalità specifica di questa attività
apostolica sarà quella di portare le nuove cristianità all’osservanza, completa in tutti i suoi aspetti, di quella disciplina
ecclesiastica che le Chiese adulte non per l’età, ma per lo sviluppo, osservano affinché quelle siano inserite
completamente nel contesto giuridico dell’organizzazione ecclesiastica.” In: Julio GARCÌA MARTÌN, L’azione
missionaria nel Codex Iuris Canonici, EDIURCLA, Roma 2005, pag. 16.
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TESTO PROVVISORIO
La caratteristica del diritto missionario è quindi proprio quella delle sua flessibilità, di essere
per così dire un diritto elastico; per cui, pur non venendo meno al principio di imperatività, le norme
si configurano come maggiormente adattabili alle circostanze più fluide, di fronte a cui ci si viene a
23
trovare. Ciò dice anche dell’imperitura vitalità del corpo ecclesiale che si manifesta soprattutto
nella capacità di lasciarsi continuamente stimolare dalle realtà che incontra e che è in grado di porre
strutture giuridiche adeguate che gli permettano e favoriscano una crescita organica, in modo da
rispondere meglio alle esigenze dell’evangelizzazione.
In questo processo di continuo adattamento del sistema giuridico canonico alle esigenze
particolari vogliamo qui ricordare innanzitutto l’istituto della dispensa che si configura come uno
strumento indispensabile nell’ambito della necessità di un costante adattamento del diritto ecclesiale
alle situazioni locali. Nella tradizione giuridica della Chiesa si è sempre affermata la possibilità di
una relaxatio legis, cioè di una mitigazione, in un caso singolo, della rigidità e dell’obbligatorietà
della legge, giustificata da esigenze pastorali. Si riconosce quindi che in un caso concreto e
determinato il soggetto possa raggiungere la salus animarum attraverso la non osservanza della
24
legge ecclesiastica (can. 85).
Nel Codice del ‘17 la possibilità di dispensare dalle leggi ecclesiastiche universali era
concessa solamente al Sommo Pontefice. Nel Codice vigente, proprio in ossequio ad un principio di
maggior rilevanza dei poteri e delle istanze locali, il vescovo diocesano può dispensare, secondo
quanto previsto dal can. 87, dalle leggi universali. Ciò può avere rilevanza notevole proprio nelle
terre di nuova evangelizzazione, nell’ambito, ad esempio, delle dispense concesse – con inevitabili
ripercussioni per quello che concerne il dialogo interreligioso - per la celebrazione di quei
matrimoni che sarebbero altrimenti invalidi per la presenza dell’impedimento di disparitas cultus.
Come ben sappiamo la legge gode del requisito dell’imperatività; di conseguenza se è vero
che la legge obbliga in coscienza, il dovere di obbedire alla legge non è però lasciato all’arbitrio o
alla discrezione del singolo fedele, il quale deve attenersi alla legge anche se in coscienza ritiene
che ci siano motivi che farebbero ritenere più opportuno sottrarsi all’imperatività della legge. E
obbedendo alla legge si è certi che si potrà raggiungere quel fine buono per il quale la legge è stata
disposta e voluta. Ora può darsi il caso che un soggetto si trovi in determinate condizioni per cui
seguire la legge nel suo disposto precettivo non realizzi quel bene che è il fine proprio del disposto
normativo; anzi l’applicazione della legge potrebbe, in un caso singolo e determinato, ritorcersi a
grave danno del soggetto stesso. Paradossalmente, nel caso concreto, il fine proprio della legge è
così maggiormente raggiungibile e tutelato proprio se la legge non viene osservata nel suo dato
obbligante. Ma questa possibilità di evadere il contenuto precettivo della legge per il bene del fedele
e, al fondo, per osservare meglio la legge in quello che è il suo contenuto di giustizia, deve essere
concessa caso per caso dall’autorità della Chiesa, attraverso, per l’appunto, la concessione della
23
Così si esprime, a tal proposito, il Garcìa Martìn: “e in quest’aspetto che riscontriamo la differenza più spiccata tra i
due diritti. Il diritto comune, generalmente, ed è bene che sia cosi, insiste sulla rigidità della norma, sulla sua
inflessibilità; la norma è presentata come assoluta e da osservarsi sempre e ovunque. Invece, le norme del diritto
missionario sono ordinate coscientemente e volutamente in tal modo e forma che le stesse leggi abbiano in sé, e per loro
natura, un’attenuazione che in nessun caso intacca il principio generale, né gli toglie forza, per cui vanno recepite ed
accettate come leggi vincolanti. Brevemente: la legge, nel diritto missionario, esiste come vera norma vincolante, ha
valore giuridico, obbliga; ma spesso si deve fare attenzione che la sua forza non sia affermata se non tenendo conto
delle circostanze, delle condizioni dichiarate o inserite nella legge. E questo, si noti bene, nel diritto missionario non si
ottiene in via del tutto eccezionale, come capita o può capitare nel diritto comune, ma quasi in forza di un ordine
presentato coscientemente e scientemente dal legislatore. Questi ha ottenuto nel diritto missionario codificato questa
finalità, che lui stesso si era proposta, apponendo alla norma certe clausole che, con termine giusto anche se estraneo al
diritto possiamo chiamare elastiche; clausole che hanno per fine di concedere più ampio spazio nell’applicazione
concreta delle norme.” In: GARCÌA MARTÌN, L’azione missionaria…, cit., pag. 20.
24
Si veda a tal proposito: Andrea D’AURIA, Qualche considerazione sul problema della dispensa dalle leggi
disciplinari: il can. 87 § 1 C.I.C., in: Iustitia in Caritate. Miscellanea in onore di Velasio De Paolis, (a cura di James J.
CONN – Luigi SABBARESE), Città del Vaticano 2005.
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TESTO PROVVISORIO
dispensa qualora si ravvisi la sussistenza di una giusta causa; il che non può essere lasciato alla
decisione di coscienza della singola persona.
Un altro strumento assolutamente privilegiato, di cui l’esperienza giuridica della Chiesa si è
servita nell’opera di evangelizzazione e nell’incontro con culture lontane dal Vangelo, è l’istituto
della consuetudine, proprio per la rilevanza che gli usi locali hanno nel campo dell’adattamento e
dell’inculturazione e della missio ad gentes. Il concetto moderno di Codice ha inevitabilmente
mortificato l’esperienza consuetudinaria che proprio durante l’epoca napoleonica era stata vista
come una corruzione della legge. Il fenomeno consuetudinario ha avuto nei secoli sempre maggior
fortuna, sebbene con alterne vicende, dovute soprattutto al moderno concetto di legislazione,
25
tendenzialmente ostile alla realtà consuetudinaria, che si è man mano imposto nel tempo; e se è
vero che la prassi consuetudinaria ha sempre trovato spazio nell’ordinamento canonico moderno,
26
non è mancato chi, anche di recente, ne abbia messo in dubbio la validità.
In sintesi ciò che si è rimproverato alla consuetudine è di essere un istituto eccessivamente
fluttuante che potrebbe causare pericolosi fenomeni disgregativi all’interno del tessuto sociale.
L’uso consuetudinario potrebbe inoltre vanificare la funzione propulsiva e pedagogica della legge
scritta, in quanto gli ideali cui essa richiama verrebbero troppo facilmente elusi dal comportamento
27
della comunità.
28
Paradossalmente la tradizione canonistica, pur non riconoscendo la volontà popolare quale
fonte diretta di produzione normativa attraverso le strutture di partecipazione democratica, e
ribadendo che solo l’autorità della Chiesa è il soggetto attivo di legiferazione, ha dato grande rilievo
al fenomeno consuetudinario, più che non gli ordinamenti statuali, i quali, come afferma il Baura,
“pur partendo dal principio della sovranità popolare, tendono, tuttavia, ad accantonare la
consuetudine quale fonte del diritto a vantaggio della legge (…), nella quale si vuole scorgere, data
29
la sua formalità scritta, una maggiore garanzia di certezza giuridica.”
Intendiamo quindi ribadire il grande apporto che la consuetudine può costituire per la vita
giuridica della Chiesa e per la sua missione quale strumento di inculturazione del messaggio
evangelico e di adattamento del diritto universale alle variegate realtà pastorali. Laddove ciò
venisse fatto solo attraverso interventi legislativi espressi, si potrebbe andare incontro ad inevitabili
25
John HUELS, Dalla pratica alla legge, in: “Concilium”, 1996, pag. 810.
Un Autore indubbiamente autorevole come il Wernz auspicava addirittura, prima dell’attuale codificazione, che tutte
le consuetudini contra legem venissero del tutto abrogate, motivando come segue la sua affermazione: “ius scriptum
dignitate et claritate ius non scriptum superat, ideoque primo loco est exponendum nec cum iure non scripto
permiscendum.” In: Francisco Xavier WERNZ, cit. in: Rinaldo BERTOLINO, Sensus fidei et coutume dans le droit de
l’Eglise, in: “Freiburger Zeitschrift für Philosophie und Theologie”, XXXIII, 1986, pag. 229. Lo stesso Autore
ribadiva altresì che la volontà popolare non può essere sorgente di diritto in base ad un principio democraticistico, né
può essere equiparata ad una vera e propria legge - “populus christianus, suffragio quodam universali et expresso leges
ecclesiasticas ferre nequit … tacito suo suffragio universali pariter a condendis legibus ecclesiasticis excluditur.” In:
WERNZ, cit. in: BERTOLINO, Sensus fidei…, cit., pag. 229.
27
Lo stesso Van Hove, che si è sempre distinto per un particolare approfondimento dottrinale dell’istituto della
consuetudine, afferma che è insito nella consuetudo il pericolo di creare divergenze e conflitti all’interno del popolo di
Dio e di sottrarre questo alla legittima autorità; cfr: A. VAN HOVE, De Consuetudine. De temporis supputatione,
Malines – Roma 1933, pag. 62.
E il Michiels aggiunge, a tal proposito, che la consuetudine è ammissibile solo nella misura in cui la legge dovesse
rivelarsi insufficiente o lacunosa, ammettendo così di fatto soltanto la consuetudo praeter legem; cfr.: Gommarius
MICHIELS, Normae generales iuris canonici. Commentarius Libri I Codicis Juris Canonici, II ed., Parigi 1949, pag. 17.
28
“Viceversa, la Chiesa, pur proclamando il principio gerarchico quale elemento costitutivo, di origine divina, della
società ecclesiale, recepisce invece il fenomeno consuetudinario in maniera assai magnanima, collocandolo nell’attuale
sistema normativo – sia pure a determinate condizioni – sullo stesso rango normativo della legge.” In: Eduardo BAURA,
La consuetudine, in: AA.VV., Fondazione del diritto. Tipologia e interpretazione della norma canonica, (a cura del
Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico), Quaderni della Mendola, Milano 2001, pag. 81.
29
Cfr.: BAURA, La consuetudine…, cit., pag. 81.
26
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TESTO PROVVISORIO
30
lentezze nell’affrontare determinati problemi e a soluzioni talvolta inadeguate. È per quest’ordine
di ragioni che sia il Concilio Vaticano II che la nuova legislazione canonica hanno dato ampia
risonanza all’istituto della consuetudine, pur nel limite di una normativa che risulta forse ancora
31
scarsamente applicabile ed applicata.
Il ruolo dell’istituto della consuetudine è quindi quello di svolgere una funzione di sutura tra il
piano della rivelazione e quello normativo e tradurre il dato di fede in cultura giuridica, realizzando
pienamente quello che è lo scopo proprio del sistema normativo della Chiesa. Il fatto che una
comunità di fedeli ripeta un certo comportamento nel tempo è un dato innanzitutto teologico e poi
giuridico ed è espressione della communio Ecclesiae, quale elemento fondante una corretta
ermeneutica giuridica che sola può superare la contrapposizione dicotomica, o “polarità
32
concorrenziale” - come la definisce il Corecco - tra fedele ed autorità.
Abbiamo voluto operare quest’approfondimento sulla consuetudine in quanto riteniamo che
un’assimilazione acritica dell’idea illuministica di codificazione, che tende ad avere connotati
razionalistici, possa mortificare e di fatto abbia limitato la realtà della consuetudine quale fonte di
diritto nella Chiesa, impoverendone così l’esperienza giuridica. Al contempo riteniamo che la
consuetudine possa farsi carico di istanze e necessità che provengano dal corpo ecclesiale,
realizzando così quel principio di sussidiarietà, forse mai sufficientemente ed adeguatamente
esplorato. La consuetudine si rivela anche essere un buon antidoto contro una concezione
giuridicista e razionalista del diritto che tende a mortificare quello che è il portato della tradizione e
di esigenze particolari.
5. Il diritto missionario e il Concilio Vaticano II
Da uno studio attento dei testi conciliari possiamo rilevare, come già accennato, la presenza di
una tensione polare tra il concetto di missione in senso ampio, quale attività di tutta la Chiesa, e la
missio ad gentes. Questo duplice aspetto del termine missione, rinvenibili rispettivamente
nell’insegnamento della Lumen Gentium e del decreto Ad Gentes, è stato, a volte, fonte di ricchezza
e di approfondimento, ma talvolta anche di fraintendimento e confusione. Se è vero infatti che tutta
la Chiesa è missionaria, è altrettanto vero che bisogna comunque parlare di una particolarità della
missione ad gentes che si struttura anche secondo forme giuridiche ben specifiche.
Si è quindi verificata un’oscillazione, soprattutto nel post-concilio, tra la concezione di
missione della Chiesa tout court, che riguarda ogni battezzato, e quella di una missio ad gentes
propria e specifica di alcuni ambiti ecclesiali verso zone ben specifiche e determinate dell’orbe
terracqueo. Si è cercato poi, a tal proposito, di superare tale aporia, anche attraverso il decreto
Ecclesiae Sanctae, in cui si è affermato che ciò che era detto nel decreto Ad gentes valeva per tutta
33
la Chiesa. Forse però tale pronunciamento non fu sufficiente per vincere il fraintendimento.
Rimane infatti aperta la domanda: se tutta la Chiesa è chiamata ad osservare il contenuto del decreto
sulla missio ad gentes qual è allora lo specifico delle realtà missionarie?
30
Cfr.: Pedro LOMBARDIA, Panorámica del proyecto de Ley Fundamental, in: Escritos de derecho canònico, vol. III,
Pamplona 1974, pagg. 316-316; Juan FORNÈS, La costumbre contra legem, hoy, in: AA.VV., La norma en el derecho
canónico, Actas del III Congreso internacional de derecho canónico, Pamplona 1979, pag. 773.
31
Cfr.: Francisco Javier U RRUTIA, Les normes générales, Paris 1994, pagg. 104-105.
32
Eugenio CORECCO, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società.
Aspetti metodologici della questione, in: Angelo SCOLA - Niklaus HERZOG - Eugenio CORECCO, I Diritti Fondamentali
del Cristiano nella Chiesa e nella Società, Atti del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico, Friburgo 1981,
pag. 1224.
33
Il Motu Proprio Ecclesiae Sanctae, al n. 44, così disponeva: “poiché il Decreto del Sacro Concilio Vaticano II Ad
gentes divinitus (sull'attività missionaria della Chiesa) deve essere fedelmente osservato da tutti, in modo che tutta la
Chiesa si faccia realmente missionaria e tutto il Popolo di Dio sia cosciente del suo dovere missionario, gli Ordinari del
luogo facciano in modo che tutti i fedeli cristiani conoscano il Decreto: si tengano conferenze al clero sullo stesso e lo si
predichi al popolo al fine di illustrare e inculcare la comune responsabilità di coscienza sull'attività missionaria. Al fine
di facilitare e rendere più fedele l'applicazione del Decreto, si stabilisce quanto segue: (…)
- 11/23 -
TESTO PROVVISORIO
Un altro punto che ha influenzato tutta la problematica della missio ad gentes è stata quella
relativa alla rivalutazione della figura del vescovo in riferimento al collegio episcopale e al munus
petrino. La dottrina più moderna ha infatti affermato che: “la comprensione episcopale oggi non
sembra che debba essere compresa primariamente in relazione alla Chiesa particolare, ma
34
all’ordinazione in quanto tale e al ministero per il quale il vescovo viene consacrato.”
La difficoltà di affronto di tale problematica deriva dal fatto che l’episcopato è stato visto, nei
primi secoli del cristianesimo, principalmente in relazione alla Chiesa particolare; infatti le
consacrazioni episcopali erano perpetue e relative ad una comunità per la quale il vescovo veniva
35
consacrato. L’ecclesiologia del Concilio Vaticano II ha voluto invece sottolineare innanzitutto
l’appartenenza del Vescovo al Collegio Episcopale, nel quale si entra a far parte vi consecrationis.
La dottrina più recente infatti non considera più le ordinazioni come relative o perpetue e ciò ha
come conseguenza, da un punto di vista ecclesiologico, che il vincolo sponsale, che nella tradizione
lega il Vescovo, non è propriamente con una Chiesa particolare, ma semplicemente con la Chiesa di
Cristo.
Oggi infatti risulta comunemente accettato che vi sono molti Vescovi che, pur esercitando
compiti propriamente episcopali, non sono a capo di una Chiesa particolare. Vi sono, infatti, tutti i
Vescovi che coadiuvano il Papa nel suo ministero petrino e che svolgono il loro incarico all’interno
della Curia Romana; ma vi sono anche le circoscrizioni di cui ha parlato il Concilio e la lettera
36
Communionis Notio , come le Prelature personali, gli Ordinariati militari, etc., che hanno di solito
37
al loro vertice un vescovo.
Del resto un’analisi più approfondita del n. 22 della Lumen Gentium ci porta a costatare come
lo stesso documento conciliare parli di tre elementi nel definire la natura dell’episcopato:
consacrazione, comunione gerarchica e missio o determinatio canonica. Notiamo che i primi due
elementi caratterizzano l’episcopato in relazione al Collegio Episcopale; il terzo invece alla
missione che il Vescovo è chiamato ad espletare nella Chiesa e ciò specialmente in relazione alla
Chiesa particolare. Ora riteniamo che quest’ultimo requisito sia integrativo e non costitutivo del
ministero episcopale.
La pointe di tale nuova posizione dottrinale è che il Vescovo eserciti il suo potere in
comunione con il successore di Pietro, ovvero partecipi al suo munus petrino. Ogni vescovo vive
una corresponsabilità universale del ministero affidato in solido al Collegio episcopale e al suo
Capo. Il ministero specifico per il quale il vescovo viene ordinato consiste quindi in una
determinatio di un munus che è previo ed è ben più vasto, ovvero la partecipazione al governo del
Sommo Pontefice. Tale iuridica determinatio è poi di per sè variabile, in quanto si può essere
ordinati per una chiesa particolare o per una comunità; ma ciò che innanzitutto prevale è la
partecipazione al munus petrino.
La tradizionale attribuzione di una diocesi in partibus infedelium ad un Vescovo non
diocesano appartiene piuttosto ad una tendenza opposta alla comprensione del munus episcopale in
relazione alla communio. Infatti il “titolo” non esprime in realtà una reale missio o iuridica
determinatio, ma nasce dall’esigenza di giustificare a tutti i costi il legame Vescovo – Chiesa
34
In: Velasio D E PAOLIS, Il ruolo della scienza canonistica nell’ultimo ventennio, in: Pontificio Consiglio per i Testi
Legislativi (ed.), Vent’anni di esperienza canonistica 1983-2003. Atti della giornata Accademica tenutasi nel XX
anniversario della promulgazione del Codice di diritto canonico, Aula del Sinodo in Vaticano, 24 gennaio 2003,
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003, pag. 131.
35
Cf. Velasio DE PAOLIS, Nota sul titolo di consacrazione episcopale, in: “Ius Ecclesiae”, vol. XIV, 2002/1, pagg. 5979. 36
Cf.: CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera Communionis Notio, su alcuni aspetti della Chiesa
intesa come comunione, n. 16, in: Enchiridion Vaticanum, vol. 13, n. 1800. 37
Cf.: F. OCARIZ, Unità e diversità nella comunione ecclesiale, in: Communionis Notio lettera e Commenti, a cura della
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Città del Vaticano, 1994, pag. 72. - 12/23 -
TESTO PROVVISORIO
particolare. Per altro quasi nessun Vescovo, anche titolare, viene nominato ed ordinato se non in
vista di un compito canonicamente determinato. Un Vescovo ausiliare, ad esempio, è nominato
perché sia ausiliare nella diocesi alla quale è destinato; questa destinazione - e non il titolo fittizio costituisce la sua reale missio canonica, ne giustifica l’ordinazione e ne determina la condizione
38
giuridica nella Chiesa.
In sintesi quello che vogliamo qui affermare è che il proprium del ministero episcopale è la
partecipazione al munus petrino e l’appartenenza al collegio episcopale e solo di conseguenza la
destinazione ad un incarico, il quale però non deve essere necessariamente legato alla titolarità di
una diocesi.
Ora se è vero che tale riformulazione ecclesiologica ha avuto il merito di riprecisare la
rilevanza del munus episcopale nella sollecitudine per tutte le chiese, in comunione con il collegio
episcopale e il munus petrino, è anche vero però che si è forse persa la percezione di quale sia lo
39
specifico del vescovo nei territori di missione.
Un altro esempio. Come è a tutti ben noto e come abbiamo già accennato, l’attuale Codice di
40
Diritto Canonico prevede, al can. 87, che il Vescovo possa dispensare dalle leggi universali
qualora ciò risponda al bene dei fedeli. Il canone in questione, nel suo primo paragrafo, così recita:
Episcopus dioecesanus fideles, quoties id ad eorundem spirituale bonum conferre iudicet,
dispensare valet in legibus disciplinaribus tam universalibus quam particularibus pro suo territorio
vel suis subditis a suprema Ecclesiae auctoritate latis, non tamen in legibus processualibus aut
poenalibus, nec in iis quarum dispensatio Apostolicae Sedis aliive auctoritati specialiter reservatur.
La presente normativa rappresenta una “rivoluzione copernicana” rispetto a quanto previsto
nella codificazione pio-benedettina. Nel trascorso Codice infatti il potere di dispensa era riservato al
Legislatore, a suoi successori e al suo superiore e ovviamente anche a coloro a cui tale potere
41
venisse concesso. Il can. 80 della Codificazione Gasparri infatti così recitava: dispensatio, seu
legis in casu speciali relaxatio, concedi potest a conditore legis, ab eius successore vel Superiore,
nec non ab illo cui iidem facultatem dispensandi concesserint. Il can. 81 specificava poi che: a
generalibus Ecclesiae legibus Ordinarii infra Romanum Pontificem dispensare nequeunt, ne in
casu quidem peculiari, nisi haec potestas eisdem fuerit explicite vel implicite concessa, aut nisi
difficilis sit recursus ad Sanctam Sedem et simul in mora sit periculum gravis damni, et de
dispensatione agatur quae a Sede Apostolica concedi solet.
Tale canone non era che l’applicazione del principio generale esposto nel can. 80 ed in
armonia con tale previsione si disponeva altresì, al can. 82, che il Vescovo e gli altri Ordinari
potessero dispensare dalle leggi diocesane, da quelle leggi cioè di cui essi stessi erano i Legislatori.
Coerentemente con questo principio si escludeva la possibilità di dispensa da parte degli Ordinari
38
Cf.: D E PAOLIS, Nota sul titolo…, cit., pagg. 76-78. 39
GARCÌA MARTÌN, L’azione missionaria…, cit., pagg. 25-26.
Per il commento a tale canone si veda: Andrea D’AURIA - Velasio DE PAOLIS, Le Norme Generali. Commento al
Codice di Diritto Canonico. Libro primo. U.U.P., Roma 2008; Winfried AYMANS - Klaus MÖRSDORF, Kanonisches
Recht. Lehrbuch aufgrund des Codex Iuris Canonici, Band I, Einleitende Grundfragen und Allgemeinen Normen,
Paderborn – München – Wien – Zürich, 1991, pagg. 276-278; URRUTIA, Les normes générales…, cit., pagg. 155-156;
Eduardo BAURA, Commento al can. 87, in: Instituto Martìn de Azpilcueta. Facultad de Derecho Canònico Universidad
de Navarra, Comentario Exegético al Còdigo de Derecho Canònico, a cura di: A. MARZOA - J. MIRAS - R. RODRIGUEZOCANA, vol. I, Navarra 2002, pagg. 683-689; Eduardo BAURA, La dispensa canonica dalla legge, Milano 1997, pagg.
247-257; Hubert SOCHA, Commento al can. 87, in: Münsterischer Kommentar zum Codex Iuris Canonici, Essen 2003,
87, 1-9; D’AURIA, Qualche considerazione sul problema della dispensa…, cit., pagg. 215-226.
41
Per quanto riguarda la disciplina della dispensa nel vecchio Codice si veda: R. NAZ, Voce: “Dispense”, in:
Dictionnaire de droit canonique, a cura di R. Naz, IV, Paris 1953, coll. 1284-1296; Gommarus MICHIELS, Normae
Generales juris canonici. Commentarius libri I Codicis Juris Canonici, vol. I, Parisiis - Tornaci – Romae 1949, pag.
671 e ss.; Felice Maria CAPPELLO, Summa Iuris Canonici, vol. I, Romae 1945, pagg. 96-110; Francisco Javier W ERNZ –
Petrus VIDAL, Ius Canonicum. Normae Generales, Tomus I, Romae 1938, pagg. 463-475.
40
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TESTO PROVVISORIO
per le leggi emanate dal Sommo Pontefice per un territorio particolare, fatto salvo il disposto finale
del can. 81. A riguardo delle leggi universali quindi solo il Sommo Pontefice poteva concedere tale
42
dispensa, fatta salva la possibilità di un complesso sistema di concessioni di facoltà.
La normativa attuale semplifica notevolmente la materia, riprendendo di fatto il principio già
previsto nel decreto del Concilio Vaticano II Christus Dominus che così si esprimeva: “singulis
Episcopis dioecesanis facultas fit a lege generali Ecclesiae in casu particulari dispensandi fideles
in quos ad normam iuris exercent auctoritatem, quoties id ad eorum bonum spiritualem conferre
43
iudicent, nisi a Suprema Ecclesiae Auctoritate specialis reservatio facta fuerit.”
44
Successivamente il Motu Proprio di Paolo VI De Episcoporum Muneribus, che riordinava la
materia della dispensa derogando alla codificazione Gasparri, riprendeva integralmente tale
insegnamento. Secondo quanto previsto da tale Motu Proprio e dal can. 87 § 1 dell’attuale Codice
45
di Diritto Canonico, ogni Vescovo – e non l’Ordinario del luogo - e tutti coloro che sono a lui
equiparati hanno il potere ordinario e proprio di dispensare da tutte le leggi sia universali che
particolari con alcune limitazioni previste espressamente dall’ordinamento.
Riteniamo in sintesi che anche il fatto di aver concesso a tutti i vescovi ciò che era di
appannaggio, attraverso il sistema delle facoltà speciali, solamente di alcuni, abbia di fatto
contribuito a rendere più flebile la distinzione tra missio ad gentes e missione universale della
Chiesa.
Un ulteriore interessante approfondimento riguarda il rapporto tra Chiesa particolare e Chiesa
46
universale, ma non abbiamo qui il tempo per soffermarci a lungo. Diciamo in sintesi che
l’ecclesiologia e la canonistica moderne hanno evidenziato come non si possa, in modo analogico,
applicare il concetto proprio del subsistit intercorrente tra Chiesa cattolica e Chiesa di Cristo al
rapporto tra Chiesa particolare e Chiesa universale, laddove più precisamente si parlerà invece di
exsistit (in quibus una et unica Ecclesia catholica exsistit - cfr. can. 368). La scelta conciliare e
codiciale sta proprio a sottolineare come il reciproco arricchimento è elemento costitutivo della
tensione tra Chiesa universale e particolare, in quanto quest’ultima vive del riferimento
all’universale, ma l’universale si arricchisce di quei valori umani e culturali che si rinvengono
47
incontrando nuovi popoli chiamati al Vangelo. L’imprescindibile mutuo legame tra Chiesa
universale e Chiesa particolare indica che la Chiesa universale non è una semplice sommatoria o
confederazione di Chiese. La communio ecclesiarum si esprime infatti come una realtà ben più
profonda e costitutiva.
Ed è in questa tensione tra universale e particolare che s’instaura il diritto missionario quale
ordinamento che tende vieppiù ad avere un carattere di stabilità non occasionale, emancipandosi
così da una situazione di incompiutezza. Diritto che risente di tutte le problematiche relative
42
Si veda, a tal proposito: Ludovico BUIJS, De potestate episcoporum dispensandi, in: “Periodica”, 56, 1967, pagg. 88115; NAZ, Voce: “Dispense”…, cit., coll. 1284-1296.
43
Cfr.: Christus Dominus, n. 8 b.
44
Cfr.: De Episcoporum Muneribus, in: Enchiridion Vaticanum, II vol., 1966, n. 709 e ss..
45
Sono quindi esclusi dal potere di concedere la dispensa il vicario generale ed episcopale, se non per delega della
facoltà di dispensare concessa dallo stesso Vescovo ed è fatto comunque salvo il potere di dispensa in capo a coloro che
nel diritto sono equiparati al Vescovo diocesano - cfr.: De Episcoporum Muneribus, n. 713 e can. 368. Per le
conseguenze giuridiche di una tale distinzione si veda: AYMANS - MÖRSDORF, Kanonisches Recht…, cit., pagg. 276277.
46
DE PAOLIS, Il ruolo della scienza …, cit., pagg. 132-135.
47
RECCHI, Il Codice e l'inculturazione…, cit., pagg. 235-236.
- 14/23 -
TESTO PROVVISORIO
all’inculturazione, in quanto deve farsi, in un certo qual modo, mediatore e foriero di tutte le istanze
48
e sfide che provengono dalle zone di nuova implantatio.
Inoltre la nuova nozione di Chiesa particolare - forse più teologica - come portio populi Dei
(can. 369), che ha lasciato il criterio territoriale al secondo posto e che è stata applicata a tutte le
circoscrizioni ecclesiastiche, ha consentito di dare una definizione più precisa dell’attività
propriamente missionaria e di eliminare connotazioni che la condizionavano a partire da criteri
sociali e culturali. Ma dobbiamo notare che, allo stesso tempo, tale equiparazione ha indotto un
indebolimento del vero slancio missionario, in quanto non si è fatta la chiarezza necessaria su quale
sia lo specifico missionario, di fronte alla diminuzione delle differenze tra territori di missione e
terre cristiane. Infatti, la nuova nozione ha portato, di fatto, all’assimilazione delle Chiese di
49
missione alle diocesi e all’equiparazione di coloro che le governano ai Vescovi diocesani.
A queste incertezze metodologiche e dottrinali, che sono rifluite nel dibattito post-conciliare,
va aggiunta la considerazione secondo la quale, paradossalmente, come abbiamo già avuto modo di
dire, quanto più si insiste sul concetto secondo cui tutta la Chiesa è missionaria, tanto più viene
sfuocata la peculiarità e la specificità della missio ad gentes e della implantatio ecclesiae, tant’è
vero che spesso tale distinzione è scomparsa e si è altresì di conseguenza attenuata la
50
diversificazione tra territori di missione e territori cristiani.
Alcune acquisizioni ecclesiologiche del Concilio, che si sono poi giustamente riversate
nell’attuale codificazione, se da una parte hanno dato impulso e dignità alle missioni della Chiesa e
al diritto missionario, dall’altra non hanno evitato che si creasse qualche confusione ed incertezza.
Ad esempio l’equiparazione di fatto delle prefetture apostoliche e dei vicariati apostolici alle
diocesi: se tutto ciò da una parte ha favorito il conferimento e il riconoscimento di una maggior
dignità alle strutture missionarie, dall’altra non ha reso ragione di quella che è la distinzione
specifica tra queste diverse forme di chiesa particolare, tant’è che si è andato via via verso
un’equiparazione delle diocesi di missione a quelle ordinarie e dei poteri di coloro che le governano
51
ai vescovi diocesani. Ciò ha di fatto finito per affievolire lo slancio missionario, in quanto non si è
52
resa sufficientemente ragione della differenza tra implantatio ecclesiae e missione ad intra.
In sintesi quello che vogliamo qui affermare è che determinate acquisizioni e riflessioni della
moderna ecclesiologia e dogmatica giuridica - rifluite o comunque emerse nei lavori conciliari - e il
48
A riguardo di tutta questa problematica si veda: Vincenzo MOSCA, Il diritto missionario nel Codice. La dialettica tra
universale e particolare, in: “Ius Missionale”, 1, (2007), pagg. 11-76; Vincenzo MOSCA, Il diritto particolare:
specificazione, complemento, adattamento del diritto universale. Prospettiva teoretica, in: La Chiesa è missionaria. La
ricezione nel Codice di Diritto Canonico, a cura di Luigi SABBARESE, Urbaniana University Press, Citta del Vaticano
2009, pagg. 71-131; Vincenzo MOSCA, La dialettica tra universale e particolare: una prospettiva per il diritto
missionario, in: “Ad Gentes”, Teologia e antropologia della missione. Diritto canonico e missione oggi, 15, 2, 2011,
pagg. 148-166.
49
GARCÌA MARTÌN, L’azione missionaria…, cit., pagg. 26-27.
50
Il Garcìa Martìn, a tal proposito, così si esprime: “in primo luogo si trova l’affermazione della dimensione missionaria
di tutta la Chiesa e, quindi, la partecipazione di tutto il Popolo di Dio alla missione della Chiesa. La vecchia legislazione
aveva dato il loro posto alle missioni nella compagine della Chiesa universale considerandole come attività specifica,
ma non aveva certo dichiarato la natura missionaria della Chiesa. Questo principio ha avuto grande importanza nella
revisione della legislazione e conseguenze sul governo delle missioni in senso universale e generico perché ha messo in
rilievo la sollecitudine del collegio episcopale, ma ha creato non poche difficoltà alle missioni di carattere pratico.
Infatti, l’idea che tutta la Chiesa è missionaria ha portato a trascurare le missioni «tradizionali», le missioni ad gentes ad
extra, tanto che si voleva eliminarle, perché si diceva che tutta la Chiesa è missionaria, e così non doveva esistere più la
distinzione tra terre di missioni e terre cristiane.” In: GARCÌA MARTÌN, L’azione missionaria…, cit., pag. 25.
51
Il Garcia Martin fa giustamente notare che: “rimangono, sì, nel nuovo Codice figure, istituti e strutture proprie
all’organizzazione missionaria, per esempio, il Provicario ed il Proprefetto, ed il consiglio di missione, ma per la
maggior parte, sono state equiparate alle controparti del diritto comune.” In: GARCÌA MARTÌN, L’azione missionaria…,
cit., pag. 29.
52
DE PAOLIS, La Chiesa Missionaria…, cit., pag. 41 e ss.; G ARCÌA MARTÌN, L’azione missionaria…, cit., pag. 25 e ss..
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TESTO PROVVISORIO
dibattito che ne è conseguito, se da una parte hanno avuto il merito di favorire l’approfondimento
speculativo delle summenzionate problematiche, dall’altra – forse perché mal comprese ed
interpretate - si sono rivelate avere come contraccolpo quello di sfuocare il concetto e la distinzione
tra missio ad gentes e missione in senso più generale. Determinate indagini dottrinali, che abbiano
voluto brevemente tratteggiare, si sono rivelate avere un “effetto boomerang” sulla retta
comprensione ed esercizio dell’inveterata tensione tra universale e particolare e sulla disciplina
giuridica che ne consegue.
6. Il diritto missionario e il Codice del 1983
Questa comprensibile tensione polare tra il concetto di missio ad gentes e la realtà più
53
generale della missione di tutta la Chiesa è confluita inevitabilmente anche nel Codice del 1983.
Infatti la parte su De actione missionali ecclesiae, al can. 781 – che rispecchia l’insegnamento
conciliare di Lumen Gentium 23 e Ad Gentes 2 e 35 - esordisce affermando che: “dal momento che
tutta quanta la Chiesa è per sua natura missionaria e che l'opera di evangelizzazione è da ritenere
dovere fondamentale del popolo di Dio, tutti i fedeli, consci della loro responsabilità, assumano la
propria parte nell'opera missionaria.”
Il can. 786, che rappresenta in un certo qual modo il punto di arrivo di tutta la normativa
codiciale sull’azione missionaria della Chiesa, afferma che: “l’azione propriamente missionaria, per
mezzo della quale la Chiesa è impiantata nei popoli o nei gruppi dove ancora non è stata radicata,
viene assolta dalla Chiesa soprattutto mandando gli annunziatori del Vangelo fino a quando le
nuove Chiese non siano pienamente costituite, vale a dire quando siano dotate di forze proprie e di
mezzi sufficienti, per cui esse stesse siano capaci da sé di compiere l'opera di evangelizzazione.”
Non abbiamo qui il tempo - ed esulerebbe anche dall’ambito d’interesse della nostra
trattazione - per esporre tutto il contenuto normativo di questo titolo. Possiamo senz’altro affermare
che il Codice presenta uno sviluppo concettuale che parte dall’affermazione di una missionarietà
che riguarda tutti i fedeli - perché appunto tutta la Chiesa è missionaria - fino all’affermazione di
54
un’azione missionaria propriamente detta che si avvale di soggetti specifici che la svolgono.
Il can. 781 riprende di fatto Ad Gentes 35 ove si afferma per l’appunto che: “essendo la
Chiesa tutta missionaria, ed essendo l'opera evangelizzatrice dovere fondamentale del popolo di
Dio, il sacro Concilio invita tutti i fedeli ad un profondo rinnovamento interiore, affinché, avendo
una viva coscienza della propria responsabilità in ordine alla diffusione del Vangelo, prendano la
loro parte nell'opera missionaria presso i pagani.” Tale canone ribadisce il carattere missionario di
tutta la Chiesa e la partecipazione responsabile di tutto il popolo di Dio a quest’opera, secondo la
55
sua propria condizione.
53
“Wie schon im Missionsdekret des Konzils, so zeigt sich auch im Codex eine gewisse terminologische Schwierigkeit in
der Beschreibung des Ziels der Missionstätigkeit der Kirche. 781 spricht vom Werk der Evangelisierung.“ In: Heinrich
MUSSINGSHOF, Commento al can. 781, in: Münsterischer Kommentar zum Codex Iuris Canonici, Band III,
(herausgegeben von Klaus LÜDICKE), Ludgerus Verlag, Essen 1987, 781/2.
54
„Dieser verschiedentlich als zu eng und ekklesiozentrisch kritisierte Missionsbegriff ist durch die Bischofssynode
1974 erweitert worden zu einem „weltoffenen” Missionsbegriff im Sinne der ganzheitlichen Befreiung und Erlösung
des Menschen und aller Menschen (vgl. Evang. Nunt. 32-34; 52). Der Codex spricht von diesem weiteren Begriff der
Evangelisierung, der Erstverkündigung und ständige Verkündigung durch die Zeiten umgreift (781, 747 § 1, 211, 225 §
1), und von dem engeren Begriff der Einpflanzung der Kirche als einer Phase von der Erstverkündigung bis zur Bildung
einer selbständigen Kirche (786).” In: Heinrich MUSSINGSHOF, Commento al can. 786, in: Münsterischer Kommentar
zum Codex Iuris Canonici, Band III, (herausgegeben von Klaus LÜDICKE), Ludgerus Verlag, Essen 1987, 786/1.
A tal proposito si veda anche: Fernando RETAMAL, Commento al can. 786, in: Instituto Martín de Azpilcueta. Facultad
de Derecho Canònico. Universidad de Navarra, Comentario Exegético al Código de Derecho Canónico, a cura di: A.
MARZOA - J. MIRAS - R. RODRIGUEZ-OCANA, vol. III/1, Navarra 2002, pag. 185.
55
“Tal acción misional, común a todos los fieles, debe ser asumida por cada uno según la organicidad de carismas,
ministerios y funciones a que se ha aludido anteriormente, tanto a nivel individual como asociados e, incluso, en
cuanto comunidades de Iglesia, diocesanas, parroquiales o de otro tipo.” In: Fernando RETAMAL, Commento al can.
781, in: Instituto Martìn de Azpilcueta. Facultad de Derecho Canònico. Universidad de Navarra, Comentario Exegético
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TESTO PROVVISORIO
Il presente insegnamento si riannoda anche ad Ad Gentes 2, ove è detto che: “la Chiesa
durante il suo pellegrinaggio sulla terra è per sua natura missionaria”, e al can. 211 ove viene
affermato che: “tutti i fedeli hanno il dovere e il diritto di impegnarsi perché l'annuncio divino della
salvezza si diffonda sempre più fra gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo.” Il can. 216 specifica
poi che: “tutti i fedeli, in quanto partecipano alla missione della Chiesa, hanno il diritto, secondo lo
stato e la condizione di ciascuno, di promuovere o di sostenere l'attività apostolica anche con
proprie iniziative; tuttavia nessuna iniziativa rivendichi per se stessa il nome di cattolica, senza il
consenso dell'autorità ecclesiastica competente.”
Ma se tutta la Chiesa è missionaria rimane aperta la domanda su quale sia allora lo specifico
della missio ad gentes. Se tutto quello che si può dire dell’opera evangelizzatrice della Chiesa vale
anche per la missione in senso specifico, non si può però affermare il reciproco, e ciò proprio in
base al principio del rapporto tra genus et species. E allora qual è la species dell’azione
56
propriamente missionaria?
Probabilmente, come abbiamo già avuto modo di affermare, questa specificità dell’azione
missionaria ad gentes si è andata via via sfocando nel periodo post-conciliare ed è interessante qui
notare che vi è stata una conseguenza giuridica di rilievo: il diritto missionario si è andato sempre
più avvicinando a quello comune, a causa del perdersi della sua specificità; infatti proprio il diritto
comune è diventato nel tempo più flessibile, più capace di adattarsi alle esigenze locali e quindi nel
57
tempo ha finito per soppiantare il proprium del diritto missionario.
al Còdigo de Derecho Canònico, a cura di: A. MARZOA - J. MIRAS - R. RODRIGUEZ-OCANA, vol. III/1, Navarra 2002,
pag. 163.
56
A tal proposito, al n. 6 di Ad Gentes leggiamo: “Questo compito, che l'ordine episcopale, a capo del quale si trova il
successore di Pietro, deve realizzare con la collaborazione e la preghiera di tutta la Chiesa, è uno ed immutabile in ogni
luogo ed in ogni situazione, anche se in base al variare delle circostanze non si esplica allo stesso modo. Le differenze
quindi, che pur vanno tenute presenti in questa attività della Chiesa, non nascono dalla natura intrinseca della sua
missione, ma solo dalle circostanze in cui la missione stessa si esplica.
Tali condizioni dipendono sia dalla Chiesa, sia dai popoli, dai gruppi umani o dagli uomini, a cui la missione è
indirizzata. Difatti la Chiesa, pur possedendo in forma piena e totale i mezzi atti alla salvezza, né sempre né subito
agisce o può agire in maniera completa: nella sua azione, tendente alla realizzazione del piano divino, essa conosce inizi
e gradi; anzi talvolta, dopo inizi felici, deve registrare dolorosamente un regresso, o almeno si viene a trovare in uno
stadio di inadeguatezza e di insufficienza. Per quanto riguarda poi gli uomini, i gruppi e i popoli, solo gradatamente essa
può raggiungerli e conquistarli, assumendoli così nella pienezza cattolica. A qualsiasi condizione o stato devono poi
corrispondere atti appropriati e strumenti adeguati.
Fine specifico di quest’attività missionaria è l’evangelizzazione e la fondazione della Chiesa in seno a quei popoli e
gruppi umani in cui ancora non è radicata. Così è necessario che dal seme della parola di Dio si sviluppino Chiese
particolari autoctone, fondate dovunque nel mondo in numero sufficiente. Chiese che, ricche di forze proprie e di una
propria maturità e fornite adeguatamente di una gerarchia propria, unita al popolo fedele, nonché di mezzi consoni al
loro genio per viver bene la vita cristiana, portino il loro contributo a vantaggio di tutta quanta la Chiesa. Il mezzo
principale per questa fondazione è la predicazione del Vangelo di Gesù Cristo, per il cui annunzio il Signore inviò nel
mondo intero i suoi discepoli, affinché gli uomini, rinati mediante la parola di Dio, siano con il battesimo aggregati alla
Chiesa, la quale, in quanto corpo del Verbo incarnato, riceve nutrimento e vita dalla parola di Dio e dal pane
eucaristico.
In questa attività missionaria della Chiesa si verificano a volte condizioni diverse e mescolate le une alle altre: prima c'è
l'inizio o la fondazione, poi il nuovo sviluppo o periodo giovanile. Ma, anche terminate queste fasi, non cessa l'azione
missionaria della Chiesa: tocca anzi alle Chiese particolari già organizzate continuarla, predicando il Vangelo a tutti
quelli che sono ancora al di fuori.
(…) Così l'attività missionaria tra i pagani differisce sia dall’attività pastorale che viene svolta in mezzo ai fedeli, sia
dalle iniziative da prendere per ristabilire l'unità dei cristiani.”
57
“La conseguenza immediata di questi principi è un nuovo avvicinamento del diritto missionario al diritto comune.
L’accostamento del diritto missionario al diritto comune, portato avanti in cosi larga misura nel Codice del 1917, è stato
ancora più serrato nel nuovo Codice; l’avvicinamento è arrivato a tal punto che ben possiamo ormai parlare di una quasi
totale integrazione del diritto missionario nel diritto comune. Dobbiamo, però, avvertire che il diritto missionario non è
stato annullato. I fattori sono di due tipi, di carattere storico e di carattere ecclesiale, anche se questi sono notevolmente
influenzati dai primi. Molti paesi o territori di missione acquistano l’indipendenza politica, anche se non sempre si
trovano delle persone adeguatamente preparate per tale compito. Contemporaneamente molte circoscrizioni missionarie
vengono costituite diocesi, le quali, quindi, hanno la gerarchia ordinaria e le strutture stabilite dal diritto comune, che
- 17/23 -
TESTO PROVVISORIO
Occorre comunque riconoscere che l’attuale Codice ha contribuito molto ad una
chiarificazione su che cosa sia missio ad gentes, sebbene qualche oscillazione ed incertezza, di cui
abbiamo parlato poc’anzi, si rilevi anche nei lavori preparatori e specificamente al can. 786,
laddove i Consultori volevano inizialmente riferirsi a tutta l’attività missionaria della Chiesa e non
58
solo allo specifico della missio ad gentes.
Probabilmente, secondo alcuni Autori, tali aporie e oscillazioni sono originate proprio dalla
59
volontà di non decidere e di assimilare sempre più il regime di governo dei territori di missione a
quelli di diritto comune - “forse queste indecisioni sono da collegarsi non tanto con il problema di
vocabolario quanto con la precisa scelta di eliminare la distinzione classica tra il governo vicario
60
nelle terre di missione e il regime ordinario o di diritto comune nelle terre cristiane.”
Il can. 786 offre tuttavia un contributo interessante. Tale disposto normativo, chiarendo che
cosa s’intenda con attività missionaria in senso proprio, fa da chiave di lettura di tutti i canoni che
seguono, laddove viene enunciato che è sì vero che tutta la Chiesa è missionaria, ma che esiste al
contempo una specificità – actio proprie missionalis – del concetto di missio ad gentes, senza del
61
quale tutto diventa indistinto, generico e confuso.
Potremmo allora così descrivere la specificità della missio ad gentes, così come emerge dal
can. 786: una nuova implantatio ecclesiae ove essa non è ancora presente; lo strutturarsi delle
chiese particolari secondo forme specifiche, distinte dalle diocesi, e l’invio, per periodo delimitati,
di annunciatori (can. 784), fintantoché le nuove chiese non siano pienamente costituite. Anche
l’attività e la cooperazione dei diversi soggetti responsabili vengono modulate secondo questi
62
principi.
Le nuove chiese appaiono quindi pienamente costituite solo quando sono dotate di forze
proprie e di mezzi sufficienti, per cui esse possono compiere autonomamente la loro opera di
evangelizzazione, soprattutto laddove vi sia una comunità di fedeli laici sufficientemente
63
stabilizzata e matura. La dottrina fa riferimento, per interpretare questa espressione - instructae
sint propriis viribus et sufficientibus mediis - alla forza spirituale, alla maturità di fede e di vita
64
cristiana. I mezzi sufficienti sarebbero invece di ordine materiale.
per principio dovrebbe essere osservato, ma in pratica questo non è possibile farlo nella sua totalità.” In: GARCÌA
MARTÌN, L’azione missionaria…, cit., pag. 27.
58
Per tutta questa problematica si veda: DE PAOLIS, La Chiesa Missionaria…, cit., pag. 43.
59
DE PAOLIS, La Chiesa Missionaria…, cit., pag. 44.
60
In: GARCÌA MARTÌN, L’azione missionaria…, cit., pag. 74. 61
“Neben der Aufgabe, das Evangelium allen Völkern zu verkünden, taucht in 786 die Einpflanzung der Kirche in den
Völkern und Gemeinschaften als spezifische Missionstätigkeit auf. Verkündigung des Evangeliums ist der weitere und
allgemeinere Missionsbegriff, der die Erstverkündigung bei Menschen, die Christus noch nicht kennen, umfaßt und
auch die ständige Verkündigung und tiefere Aneignung des Evangeliums im Leben der Christen überall auf der Welt
meint. Die spezifische Missionstätigkeit im eigentlichen und engeren Sinn umfaßt die Evangeliumsverkündigung
solange, bis christliches Leben in den Missionsgebieten so gewachsen ist, daß in Organisation und Leben junge
selbständige Kirchen entstanden sind und die Kirche in diesem Sinn eingepflanzt ist (Plantatio Ecclesiae AG Art. 21)“.
In: MUSSINGSHOF, Commento al can. 781, in: Münsterischer Kommentar…, cit., 781/2.
62
Il Garcia Martin così si esprime: “attività di evangelizzazione che tende a far presente, in maniera perfetta e completa,
in quelle regioni dove non esiste ancora e in tutti quegli aspetti che sono stati voluti dal suo divino fondatore, la Chiesa
nella sua realtà socio-mistica”. In: GARCÌA MARTÌN, L’azione missionaria…, cit., pag. 15.
63
RETAMAL, Commento al can. 786, in: Comentario Exegético…, cit., pag. 188.
64
Lo Stoffel, a tal proposito, così si esprime: „die Mission erreicht ihr Ziel, wenn die neue Kirche voll präsent ist (Art. 5
Vat II AG). Drei Kennzeichen einer im christlichen Leben gereiften Kirche werden angeführt. Die Selbstbestimmung
beinhaltet die Inkulturation der Botschaft und die Bildung eines autochthonen Klerus unter der Leitung eines eigenen
Bischofs. Selbsterhaltung meint, daß die Kirchen finanziell selbsttragend werden. Die Selbstausbreitung besagt, daß die
Teilkirche selber zur missionierenden Kirche wird (c. 786 CIC; vgl. c. 590 CCEO; Art. 19 Vat II AG).“ In: Oskar
STOFFEL, Der missionarische Auftrag, in: (herausgegeben von Joseph LISTL und Heribert SCHMITZ), Handbuch des
katholischen Kirchenrechts, Verlag Friedrich Pustet, Regensburg 1999, pag. 681.
- 18/23 -
TESTO PROVVISORIO
Il Decreto Ad Gentes, al n. 21, sottolinea in particolar modo, quale nota distintiva della Chiesa
pienamente costituita che possa opus evangelizandi per se ipsae peragere, la presenza di un laicato
maturo - “la Chiesa non si può considerare realmente fondata, non vive in maniera piena, non è
segno perfetto della presenza di Cristo tra gli uomini, se alla gerarchia non si affianca e collabora un
laicato autentico. Non può infatti il Vangelo penetrare ben addentro nella mentalità, nel costume,
nell'attività di un popolo, se manca la presenza dinamica dei laici. Perciò, fin dal periodo di
fondazione di una Chiesa, bisogna dedicare ogni cura alla formazione di un maturo laicato
cristiano.”
Un altro elemento che può aiutare a contraddistinguere la missio ad gentes risiede nel fatto
che tali territori sono sotto la giurisdizione della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli sebbene questo dato non sia desumibile dall’impianto codiciale - e che l’Ordinario si trovi a
65
governare in nome e per conto della Santa Sede.
Non è poi inutile richiamare qui il fatto che parlare di missio ad gentes e di actio proprie
missionalis non è un concetto che si può relegare solo alla funzione di insegnare, quasi che l’attività
missionaria si esaurisse con la sola predicazione, bensì si tratta di una realtà che va inserita
66
pienamente anche nell’attività di governo e di santificazione propria della Chiesa. Infatti un'altra
tematica di rilievo, su cui il diritto ecclesiale e in particolare il diritto missionario mostrano la loro
peculiarità e rappresentano un punto di progresso e di annuncio significativo, anche rispetto al
diritto statuale, è quello relativo alla stretta connessione tra attività di governo ed attività educativa.
Si tratta forse di una tematica non sufficientemente dibattuta ed approfondita, ma posta l’unità di
origine, di trasmissione e di articolazione della Sacra Potestas nell’esperienza ecclesiale, è evidente
la fondatezza dell’affermazione secondo la quale ogni atto di governo è per il bene delle anime, è
teso a che ciascuno possa raggiungere la salus animarum ed è quindi un atto di santificazione e di
67
insegnamento insieme.
Il discorso potrebbe essere approfondito nel senso che le funzioni di santificare, di governare
e di insegnare si richiamano sempre vicendevolmente. Infatti ogni atto di santificazione ha un
aspetto di governo, in quanto crea rapporti giuridici vincolanti e genera nuove situazioni giuridiche
soggettive. Allo stesso modo ogni atto di governo contribuisce a che il fedele possa raggiungere la
salvezza che è la suprema lex Ecclesiae e presenta quindi una dinamica educativa in quanto porta
sempre in sè un aspetto di insegnamento. Al contempo, per la stretta connessione che vi è tra parola
e gesto, ogni atto sacramentale ha anche una funzione educativa e di annuncio. Ebbene l’esperienza
del diritto missionario ci insegna che governare non vuol dire semplicemente interpretare e
applicare la legge e mai l’attività di governo può risolversi in un mero esercizio tecnico. Essa è
sempre un’azione che mira al bene del fedele, alla sua educazione e all’annuncio fatto a tutto il
popolo di Dio.
Il Retamal afferma: “la acción misional así enunciada tiene índole provisoria: se realiza hasta que las nuevas Iglesias
sean plenamente constituidas. Ello tiene lugar, según anota el legislador, cuando están dotadas de: fuerzas propias, lo
que hace referencia a su vigor spiritual, madurez de la fe y de la vida cristiana; y suficientes medios lo que implica
recursos de diversos tipos, especialmente en el plano material. En estas condiciones, esas nuevas Iglesias pueden
cumplir por sí mismas la tarea de evangelizar, que es misión propia de la Iglesia.” In: RETAMAL, Commento al can.
786, in: Comentario Exegético…, cit., pagg. 185–186.
65
RETAMAL, Commento al can. 786, in: Comentario Exegético…, cit., pagg. 188-189.
66
GARCÌA MARTÌN, L’azione missionaria…, cit., pag. 80; RETAMAL, Commento al can. 781, in: Comentario
Exegético…, cit., pag. 161.
67
“Il potere giurisdizionale, con le sue tre funzioni (legislativa, giudiziaria ed esecutiva) è inseparabile da quello di
santificare e di insegnare e confluisce nell’unico servizio pastorale i cui detentori sono i Vescovi, successori degli
Apostoli, con a capo il Vescovo di Roma, successore di Pietro” In: Velasio DE PAOLIS, Il Diritto nella Missione della
Chiesa, in: Veritas in Caritate, Miscellanea di studi in onore del Card. Josè SARAIVA MARTINS, (a cura di Guido
MAZZOTTA - Juvénal ILUNGA MUYA), Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2003, pag. 116.
- 19/23 -
TESTO PROVVISORIO
7. Il chiarimento offerto dall’Enciclica Redemptoris Missio
Come abbiamo già avuto modo di illustrare, la sottolineatura conciliare sulla natura
missionaria della Chiesa e sul fatto che tutta la Chiesa è missionaria ha corso il rischio di oscurare
68
la consapevolezza che esista una missionarietà della Chiesa in senso stretto e specifico. Tale
fraintendimento, non certo per una poca chiarezza dei documenti conciliari – basti pensare a quanto
abbiamo detto a proposito del decreto Ad Gentes - si è esteso fino al punto di voler equiparare
giuridicamente i territori di diritto comune, ove si verifica una nuova implantatio ecclesiae, ai
territori di missione in senso stretto, ove si svolge una missio ad gentes vera e propria.
In tale contesto salutare e doveroso è stato l’apporto dell’Enciclica di Giovanni Paolo II
Redemptoris Missio, del 7 dicembre 1990. Il documento esordisce trattando della grande fecondità
69
missionaria scaturita dal Concilio, ma mette anche in guardia da pericoli e fraintendimenti che vi
sono stati nell’interpretare e applicare l’insegnamento conciliare e che il presente documento vuole
esplicitamente e direttamente affrontare. Si afferma infatti: “tuttavia, in questa «nuova primavera»
del cristianesimo non si può nascondere una tendenza negativa, che questo documento vuol
contribuire a superare: la missione specifica ad gentes sembra in fase di rallentamento, non certo in
linea con le indicazioni del concilio e del magistero successivo. Difficoltà interne ed esterne hanno
indebolito lo slancio missionario della chiesa verso i non cristiani, ed è un fatto, questo, che deve
preoccupare tutti i credenti in Cristo. Nella storia della chiesa, infatti, la spinta missionaria è sempre
stata segno di vitalità, come la sua diminuzione è segno di una crisi di fede” (RM 2).
L’Enciclica si ripropone quindi di dissipare dubbi ed incertezze che hanno portato a
fraintendimenti circa il rapporto tra il concetto di missione in senso proprio ed in senso più ampio e
di dare nuovo impulso alla missione che “costituisce il primo servizio che la Chiesa può rendere a
ciascun uomo e all'intera umanità nel mondo odierno, il quale conosce stupende conquiste, ma
sembra avere smarrito il senso delle realtà ultime e della stessa esistenza” (RM 2).
Lo stesso Pontefice sembra chiedersi se abbia senso parlare anche oggi di attività missionaria
in senso specifico, visto che alcune giovani Chiese sono ben impiantate e costituite e sono in grado
addirittura di inviare missionari alle altre Chiese perfino di antica fondazione; queste ultime, al
contempo, sembrano essere sofferenti e in crisi e richiedono esse stesse per prime una nuova
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implantatio ecclesiae.
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„Die Theorie von der Plantatio Ecclesiae wurde zu einem weltoffenen Missionsbegriff (Mission in sechs Kontinenten)
im Sinne der ganzheitlichen Befreiung des ganzen Menschen und aller Menschen weiterentwickelt (EvNunt, Nrn. 32-34,
52). C. 786 bleibt deshalb der Vorwurf einer gewissen Ekklesiozentrik nicht ganz erspart.“ In: STOFFEL, Der
missionarische Auftrag..., cit., pag. 681.
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Al n. 2 leggiamo: “molti sono già stati i frutti missionari del concilio: si sono moltiplicate le chiese locali fornite di
propri vescovi, clero e personale apostolico; si verifica un più profondo inserimento delle comunità cristiane nella vita
dei popoli; la comunione fra le chiese porta a un vivace scambio di beni spirituali e di doni; l'impegno evangelizzatore
dei laici sta cambiando la vita ecclesiale; le chiese particolari si aprono all'incontro, al dialogo e alla collaborazione con
i membri di altre chiese cristiane e religioni. Soprattutto si sta affermando una coscienza nuova: cioè che la missione
riguarda tutti i cristiani, tutte le diocesi e parrocchie, le istituzioni e associazioni ecclesiali.”
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In Redemptoris Missio, al n. 32, si afferma: “d'altra parte, l'opera missionaria ha prodotto abbondanti frutti in tutte le
parti del mondo, per cui esistono chiese impiantate, a volte tanto solide e mature da ben provvedere ai bisogni delle
proprie comunità e inviare anche personale per l'evangelizzazione in altre chiese e territori. Di qui il contrasto con aree
di antica cristianità, che è necessario rievangelizzare. Alcuni, pertanto, si chiedono se sia ancora il caso di parlare di
attività missionaria specifica o di ambiti precisi di essa, o se non si debba ammettere che esiste un'unica situazione
missionaria, per cui non c'è che un'unica missione, dappertutto eguale. La difficoltà di interpretare questa realtà
complessa e mutevole in ordine al mandato di evangelizzazione si manifesta già nel «vocabolario missionario»: a
esempio, c'è una certa esitazione a usare i termini «missioni» e «missionari», giudicati superati e carichi di risonanze
storiche negative; si preferisce usare il sostantivo «missione» al singolare e l'aggettivo «missionario» per qualificare
ogni attività della chiesa”.
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Ebbene se questa nuova concezione della tensione polare tra missione di tutta la Chiesa e
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missio ad gentes ha dato nuovo slancio all’opera di evangelizzazione, occorre però guardarsi dal
rischio di equiparare situazioni di fatto molto diverse e di ridurre, se non addirittura far scomparire,
la realtà delle missioni e dei missionari ad gentes. Dire che tutta la Chiesa è missionaria non esclude
che esista una specifica missione ad gentes; “come dire - aggiunge Giovanni Paolo II - che tutti i
cattolici debbono essere missionari non esclude, anzi richiede che ci siano i «missionari ad gentes e
a vita» per vocazione specifica.”
Il Papa, molto acutamente, distingue tre situazioni differenti. La prima, che è quella a cui si
rivolge l'attività missionaria della Chiesa in senso proprio, è formata da popoli, contesti umani e
socio-culturali in cui Cristo e il suo Vangelo non sono ancora conosciuti, o in cui mancano
comunità cristiane sufficientemente mature da poter incarnare la fede nel proprio ambiente e
annunziarla ad altri gruppi.
Ci sono poi comunità cristiane che sono dotate di adeguate e solide strutture ecclesiali, sono
ferventi di fede e di vita, irradiano la testimonianza del vangelo nel loro ambiente e sentono
l'impegno della missione universale. In esse si svolge una normale attività e cura pastorale della
Chiesa.
Esiste infine – afferma il Pontefice - una situazione intermedia, specie nei paesi di antica
cristianità - ma a volte anche nelle Chiese più giovani - dove interi gruppi di battezzati hanno
perduto il senso vivo della fede, o addirittura non si riconoscono più come appartenenti alla Chiesa,
conducendo un'esistenza lontana da Cristo e dal suo vangelo. In questo caso c'è bisogno di una
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nuova evangelizzazione, o rievangelizzazione .
Giovanni Paolo II riafferma, in RM 34, quale sia la specificità della missione ad gentes:
annuncio ai non cristiani in luoghi in cui le strutture ecclesiali sono ancora iniziali e l’annuncio del
vangelo non è stato ancora sufficientemente effettuato ed afferma che tale annuncio ad gentes non
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deve essere appiattito sulla missione globale di tutta la Chiesa.
Giovanni Paolo II aggiunge, molto acutamente, che senza questa dimensione specifica
dell’annuncio ad gentes proprio della Chiesa, tutta l’attività missionaria ne risulterebbe sbiadita.
Occorre, in un certo senso, riconoscere che la missio ad gentes costituisce un richiamo
paradigmatico per tutta la chiesa – “senza la missione ad gentes la stessa dimensione missionaria
della chiesa sarebbe priva del suo significato fondamentale e della sua attuazione esemplare” (RM
34). La missio ad gentes rappresenta, in un certo qual modo, un pungolo per tutta la Chiesa, in
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Sempre RM 32 afferma: “questo travaglio denota un cambiamento reale, che ha aspetti positivi. Il cosiddetto rientro o
«rimpatrio» delle missioni nella missione della chiesa, il confluire della missiologia nell'ecclesiologia e l'inserimento di
entrambe nel disegno trinitario di salvezza, hanno dato un respiro nuovo alla stessa attività missionaria, concepita non
già come un compito ai margini della chiesa, ma inserito nel cuore della sua vita, quale impegno fondamentale di tutto il
popolo di Dio.”
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Per tutta questa parte si veda: Redemptoris Missio n. 33.
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“L'attività missionaria specifica, o missione ad gentes, ha come destinatari «i popoli e i gruppi che ancora non credono
in Cristo», «coloro che sono lontani da Cristo», tra i quali la chiesa «non ha ancora messo radici» e la cui cultura non è
stata ancora influenzata dal vangelo. Essa si distingue dalle altre attività ecclesiali, perché si rivolge a gruppi e ambienti
non cristiani per l'assenza o insufficienza dell'annunzio evangelico e della presenza ecclesiale. Pertanto, si caratterizza
come opera di annunzio del Cristo e del suo vangelo, di edificazione della chiesa locale. di promozione dei valori del
regno. La peculiarità di questa missione ad gentes deriva dal fatto che si rivolge ai non cristiani. Occorre, perciò, evitare
che tale «compito più specificamente missionario, che Gesù ha affidato e quotidianamente riaffida alla sua chiesa»,
subisca un appiattimento nella missione globale di tutto il popolo di Dio e, quindi, sia trascurato o dimenticato.
D'altronde, i confini fra cura pastorale dei fedeli, nuova evangelizzazione e attività missionaria specifica non sono
nettamente definibili, e non è pensabile creare tra di esse barriere o compartimenti-stagno. Bisogna, tuttavia, non
perdere la tensione per l'annunzio e per la fondazione di nuove chiese presso popoli o gruppi umani, in cui ancora non
esistono poiché questo è il compito primo della chiesa che è inviata a tutti i popoli, fino agli ultimi confini della terra.
Senza la missione ad gentes la stessa dimensione missionaria della chiesa sarebbe priva del suo significato
fondamentale e della sua attuazione esemplare” (RM 34).
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quanto anche le Chiese di prima evangelizzazione, partecipando all’espletamento di una missione
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specifica, scopriranno che c’è bisogno anche di una missione ad intra.
8. Post – fazione
“La missione ad gentes ha davanti a sé un compito immane che non è per nulla in via di
estinzione. (…) Il compito di annunziare Gesù Cristo presso tutti i popoli appare immenso e
sproporzionato rispetto alle forze umane della Chiesa. Le difficoltà sembrano insormontabili e
potrebbero scoraggiare, se si trattasse di un'opera soltanto umana. In alcuni paesi è proibito
l'ingresso dei missionari, in altri è vietata non solo l'evangelizzazione, ma anche la conversione e
persino il culto cristiano. Altrove gli ostacoli sono di natura culturale: la trasmissione del messaggio
evangelico appare irrilevante o incomprensibile, e la conversione è vista come l'abbandono del
proprio popolo e della propria cultura” (RM 35).
“Oggi l'appello alla conversione, che i missionari rivolgono ai non cristiani, e messo in
discussione o passato sotto silenzio. Si vede in esso un atto di «proselitismo»; si dice che basta
aiutare gli uomini a essere più uomini o più fedeli alla propria religione, che basta costruire
comunità capaci di operare per la giustizia, la libertà, la pace, la solidarietà. Ma si dimentica che
ogni persona ha il diritto di udire la «buona novella» di Dio che si rivela e si dona in Cristo, per
attuare in pienezza la sua propria vocazione” (RM 46).
Abbiamo voluto concludere questa nostra breve riflessione con quanto afferma l’Enciclica
Redemptoris Missio perché ci pare essere sinteticamente riassuntivo ed efficacemente espressivo
delle preoccupazioni, delle urgenze, delle tensioni e delle prospettive che hanno animato il dibattito
ecclesiologico e canonistico a riguardo del tema della missio ad gentes.
Il diritto della Chiesa nasce infatti con la sua stessa attività missionaria e si profila da subito
come un suo strumento indispensabile. Esso, pertanto, deve godere della necessaria flessibilità e
relatività in ordine alla evangelizzazione. Quando la Chiesa si adopera per il primo annuncio della
salvezza si rende subito conto che deve continuamente adattare il suo ordinamento giuridico ai
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nuovi popoli che via via il Signore le dona la grazia di incontrare.
Così è nato e così si è sviluppato nel tempo, accanto al diritto comune, il diritto missionario,
che ha acquistato nel corso dei secoli sempre più consistenza. Esso, tuttavia, come abbiamo già
visto, gode del carattere della provvisorietà e della transitorietà; tale assetto normativo si protrae
fino a quando le nuove comunità abbiano raggiunto una sufficiente stabilità ed un’adeguatezza di
mezzi per crescere e strutturarsi in modo armonico ed organico.
Di fatto, nei tempi più recenti, le situazioni di missione sono rapidamente e profondamente
cambiate, anche per quanto riguarda l’annuncio evangelico ai nuovi popoli. Il Concilio Vaticano II
ne ha preso atto e ha ripensato i principi stessi dell’evangelizzazione ad gentes. Nello stesso tempo
ha dovuto anche riconoscere che non pochi paesi cristiani di antica tradizione sono diventati paesi
di missione e che nuove circostanze culturali e politiche richiedevano nuovi metodi. Come abbiamo
già visto, questo ha portato anche a degli equivoci e fraintendimenti, che hanno messo in gioco lo
stesso concetto di missione ad gentes della Chiesa, travisando a volte lo stesso insegnamento
conciliare.
Il Concilio Vaticano II non ha certamente inteso abolire le missioni in senso proprio, intese
quale attività missionaria che porta il primo annuncio della fede a persone che non l’hanno ancora
ricevuto. Piuttosto ha voluto inserire tale problematica all’interno di un concetto di missione più
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“È da notare, altresì, una reale e crescente interdipendenza tra le varie attività salvifiche della chiesa: ciascuna
influisce sull'altra, la stimola e la aiuta. Il dinamismo missionario crea scambio tra le chiese e orienta verso il mondo
esterno, con influssi positivi in tutti i sensi. Le chiese di antica cristianità. a esempio, alle prese col drammatico compito
della nuova evangelizzazione, comprendono meglio che non possono essere missionarie verso i non cristiani di altri
paesi e continenti, se non si preoccupano seriamente dei non cristiani in casa propria: la missionarietà ad intra è segno
credibile e stimolo per quella ad extra, e viceversa” (RM 34).
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DE PAOLIS, La Chiesa Missionaria…, cit., pagg. 52-54.
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ampio e ha inteso in tal senso coinvolgere ogni battezzato, sia pure nell’ambito delle competenze
proprio di ciascuno.
Neppure ha voluto confondere la realtà della missio ad gentes con il tema della nuova
evangelizzazione verso i battezzati non più credenti o praticanti. La missio ad gentes rimane
pertanto un settore proprio e specifico dell’attività missionaria della Chiesa. Tuttavia le nuove
situazioni che si sono venute a creare hanno comportato, per cause esterne e interne alla Chiesa, un
ridimensionamento del diritto missionario, inteso in senso tradizionale, sia perché di fatto anche
nella missio ad gentes la struttura gerarchica ordinaria viene ad essere stabilita molto presto, sia
perché la dimensione territoriale non rimane più come criterio esclusivo, sia soprattutto perché il
Legislatore, anche nel suo ordinamento giuridico universale, ha preferito ricorrere abbondantemente
al principio di sussidiarietà, a più spiccati criteri di flessibilità e di adattabilità, soprattutto lasciando
ampio margine e spazio al diritto particolare e al diritto complementare delle Conferenze
Episcopali.
In tal modo, il diritto missionario risulta essere ridimensionato e non appare più soltanto come
un diritto specifico accanto al diritto comune, ma semplicemente quale diritto particolare all’interno
del comune ordinamento giuridico per tutta la Chiesa.
Si è trattato quindi di un modo diverso di rispondere, a livello giuridico, alle esigenze proprie
dell’evangelizzazione. L’impegno della Chiesa nella sua missio ad gentes non può essere infatti
misurato dallo spessore o dallo spazio concesso al diritto missionario. Ciò che vogliamo qui
affermare è che una certa crisi dell’impegno della Chiesa nella missio ad gentes non è derivato dal
ridimensionamento del diritto missionario, quanto piuttosto da altri motivi – come abbiamo avuto
modo di vedere - soprattutto dottrinali e da un affievolimento della fede. L’annuncio evangelico,
infatti, è soprattutto e prima di tutto una questione di fede.
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