Educazione in Età Adulta Filippo M.De Sanctis Pagina 1 di 185 Indice 1 Prefazione (di Lamberto Borghi)........................................................................................ 4 2 Introduzione..................................................................................................................... 10 3 Problemi dell’educazione degli adulti............................................................................... 12 3.1 La società industriale e l'educazione degli adulti........................................................... 12 3.1.1 L'educazione degli adulti nella società industriale ....................................................... 12 3.1.2 Lo «sviluppo intellettuale della classe operaia» .......................................................... 15 3.1.3 «Problema intellettuale» e democrazia ....................................................................... 18 3.1.4 Una scelta di prospettiva: lo sviluppo del proletariato ................................................. 21 3.1.5 Creatività e intervento culturale................................................................................... 23 3.1.6 Strutture e occasioni culturali nella società industriale capitalistica............................. 24 3.1.7 Una politica dell'educazione degli adulti...................................................................... 26 3.2 Il Lavoro e problemi educativi dell'età adulta................................................................. 29 3.2.1 Le valenze creative del lavoro..................................................................................... 29 3.2.2 Le condizioni alienanti del lavoro ................................................................................ 30 3.2.3 Le condizioni alienanti del cosiddetto «tempo libero» ................................................. 35 3.2.4 Valenze educative nei problemi attuali del lavoro ....................................................... 37 3.2.5 Valenze educative nel rapporto lavoro-sviluppo economico........................................ 39 3.2.6 Condizioni di lavoro e scienza..................................................................................... 42 3.2.7 «Formazione permanente» ed educazione degli adulti............................................... 45 3.2.8 La condizione educativa nella fabbrica........................................................................ 48 3.2.9 Valenze educative nella realtà dell'agricoltura ............................................................ 54 3.2.10 Responsabilità e scelte educative nel terziario............................................................ 57 3.3 La scuola nel rapporto tra produzione e formazione ..................................................... 60 3.3.1 Istituzione formativa diretta e agenti educativi indiretti ................................................ 60 3.3.2 Il «processo di scissione» tra ed.permanente e descolarizzazione............................. 61 3.3.3 L'educazione permanente tra utopia e realtà .............................................................. 63 3.3.4 Educazione, non istituzione scolastica? ...................................................................... 67 3.3.5 Crisi della scuola e tendenze strutturali di riforma....................................................... 69 3.3.6 Educazione degli adulti e istituzioni formative ............................................................. 80 3.4 Pubblico, prodotti culturali e intervento educativo ......................................................... 82 3.4.1 Preminenza dei problemi del pubblico ........................................................................ 82 3.4.2 Dicotomia dei comportamenti rispetto a produzione e consumo ................................. 82 3.4.3 La vecchia identità del pubblico, e le sue evoluzioni ................................................... 84 3.4.4 Verso un nuovo identificarsi del pubblico .................................................................... 88 3.4.5 Il pubblico nel processo produttivo .............................................................................. 90 3.4.6 Pubblico e processo di consumo dei prodotti culturali................................................. 95 3.4.7 Dal momento del consumo alla gestione della produzione culturale........................... 99 3.5 Istituzioni pubbliche ed educazione degli adulti........................................................... 101 3.5.1 «Esperienza del mondo sensibile» e «capacità positiva» di affermazione................ 101 3.5.2 Agenzie del potere e occultamento della politica culturale ........................................ 102 3.5.3 Tendenze della «politica culturale» del capitalismo monopolistico di Stato .............. 104 3.5.4 Problemi del «servizio pubblico»............................................................................... 108 3.5.5 La «cultura» nel capitalismo monopolistico di Stato.................................................. 114 3.5.6 «Atmosfera culturale generale» e didattica degli adulti ............................................. 119 3.5.7 «Servizi pubblici intellettuali» e «principio associativo» ............................................ 122 3.6 Scienza, tecnica, realtà educativa ............................................................................... 124 3.6.1 Temi di riflessione per un'andragogia della scienza .................................................. 124 3.6.2 Considerazioni sul rapporto di divulgazione .............................................................. 126 3.6.3 Abito scientifico e capacità di trasformazione............................................................ 131 Pagina 2 di 185 3.6.4 Lavoro, scienza ed educazione degli adulti............................................................... 134 3.6.5 L'uso sociale della scienza ........................................................................................ 137 3.6.6 Il contributo di scienza e tecnica all'educazione degli adulti...................................... 139 4 Compiti e prospettive dell’educazione degli adulti ......................................................... 143 4.1 Premessa .................................................................................................................... 143 4.1.1 L'educazione degli adulti nella «società dell'educazione»......................................... 143 4.1.2 L'associazionismo: elemento di riflessione emergente dall'analisi dei problemi dell'educazione degli adulti ...................................................................................................... 146 4.1.3 Compito primario dell'ed.degli adulti: lo sviluppo dell'associazionismo ..................... 153 4.1.4 Prospettive dell'educazione degli adulti..................................................................... 162 5 Lode dell'imparare di Bertolt Brecht............................................................................... 177 6 Bibliografia..................................................................................................................... 178 7 Indice dei nomi .............................................................................................................. 183 Revisione 1.5 aggiornamento del 15/06/2007 9.42.00 Pagina 3 di 185 1 Prefazione (di Lamberto Borghi) Dell'educazione degli adulti si parla da molto tempo in Italia. Se la spinta a una riflessione meno distratta su questo argomento è derivata tra noi da altri paesi, la Danimarca e i paesi anglo-sassoni in maggior misura, tuttavia la sua considerazione, che ha assunto un posto sempre più rilevante nella pubblicistica educativa e nella produzione pedagogica dopo la seconda guerra mondiale, affonda le sue radici in una nostra specifica dinamica sociale, la cui stretta affiliazione a quella internazionale non ha mancato di essere presente ai suoi promotori e ai suoi studiosi. A nessuno è ignoto che in Italia come all'estero la profonda matrice degli sviluppi dell'educazione degli adulti come aspetto integrante della maturazione di una coscienza popolare è da ritrovare nel movimento operaio, vuoi nella sua crescita contrastata tra le popolazioni contadine, particolarmente nel bracciantato, in Sicilia e nella Bassa padana, vuoi nei suoi più fermi ed articolati agganci col nascente proletariato industriale, in modo più spiccato nelle regioni del settentrione. L'associazionismo operaio, sia quello che trasse alimento dall'azione educativa e organizzativa del Mazzini, sia quello che va riportato alle iniziative degli internazionalisti, prima di tendenza anarchica, quali Cafiero e Andrea Costa nella fase iniziale del suo impegno politico, e poi, seppure non esclusivamente, di ispirazione marxista, costituisce la fonte storica originaria del movimento dell'educazione degli adulti e la sua più genuina e verace manifestazione. Nel suo solco, verso la fine del secolo scorso, prese avvio la serie di iniziative che in quel settore educativo, fino allora escluso dalle programmazioni ufficiali, venne promossa dalla Società Umanitaria, e operò consapevolmente il gruppo di scrittori che Filippo Turati seppe raccogliere intorno alla Critica Sociale. Non è questa la sede idonea a una fuggevole ricostruzione della fitta maglia di attività che seppe tessere il movimento operaio, nella varietà dei suoi indirizzi, anarchico, riformista, sindacalista, marxista rivoluzionario, nel campo dell'educazione degli adulti. Il socialismo umanitario e riformista ispirò l'opera sia di Augusto Osimo e di Filippo Turati nel Nord sia di Giovanni Cena nell'Agro romano e di Salvemini nel Mezzo-giorno. A una simile, se non certamente identica, caratterizzazione umanitaria e riformistica va ricondotta l'opera che spiegò nel secondo dopoguerra l'Unione Nazionale per la Lotta contro l'Analfabetismo. Con finalità più limitate, soprattutto volte al ricupero degli analfabeti, l'appropriazione della scolarità dell'obbligo, la conquista di un'istruzione funzionale, ha operato la Direzione generale dell'educazione popolare. La mancanza di un personale docente consapevole delle complesse problematiche educative e sociali dell'educazione degli adulti nonché di conseguenti idonee metodologie didattiche ha finora ostacolato le iniziative promosse in questo settore, facendo leva sulle sue potenzialità innovative in campo educativo non soltanto nel suo ambito specifico, ma altresì in rapporto al funzionamento della tradizionale scuola dell'infanzia e dell'adolescenza. Nell'opera su L'educazione degli adulti (Bari 1964), ancor oggi per tanti versi vitale uscita nel nostro paese, per cura di Riccardo Bauer, che in essa era in grado di far tesoro dell'esperienza che veniva affinando nella sua qualità di presidente della Società Umanitaria, erano sottolineati due aspetti essenziali: per un verso il fatto che per un intervento non paternalistico nel campo dell'educazione degli adulti «le organizzazioni e le associazioni naturali dei lavoratori sono quelle ideologicamente qualificate e in cui più stretto è il nesso tra azione sociale e cultura»; e per un altro verso la necessità che «le iniziative di educazione degli adulti devono quanto più possibile scostarsi dagli ambienti e dai metodi della scuola tradizionale». Pagina 4 di 185 Nei dieci anni che ci separano della pubblicazione del libro di Riccardo Bauer molti eventi di carattere nazionale e internazionale, molti studi promossi da privati e da enti in Italia e all'estero nel settore dell'educazione degli adulti, dell'educazione permanente e della pedagogia sociale rendevano necessario e possibile un nuovo sforzo di rielaborazione e di sintesi. L'opera di De Sanctis viene incontro a questa esigenza e riempie questo vuoto. Si tratta di un lavoro che esce dal chiuso della provincia pedagogica; di un vero trattato generale dell'educazione degli adulti, il primo, se non vado errato, di così vasto respiro e di tanto vivo impegno, che viene pubblicato nel nostro paese e non soltanto in questo. La sua motivazione è principalmente politica e sociale. La spinta a scriverlo è stata data dalla mutata situazione generale nell'equilibrio e nella dinamica delle nazioni e delle classi. La partecipazione diretta delle masse all'opera di profondo e radicale mutamento dell'assetto tradizionale come protagoniste degli eventi storici non soltanto nelle forme mediate dall'azione e dall'iniziativa dei partiti politici e dei sindacati, ma anche e più nei modi inediti dell'autogestione, dell’autoriduzione, dell'intervento autoiniziato dei gruppi sui quali si fa sentire più pesante il conato repressivo del sistema, la diffusa consapevolezza della vanità degli sforzi di trasformazione affiancati alla scuola e alle altre istituzioni educative ufficiali a causa della loro natura di strumenti di riproduzione dell'assetto esistente: tutto questo, ed altro, sollecitava e rendeva possibile un ripensamento sistematico della vasta problematica dell'educazione degli adulti, vista nell'ampio contesto della tematica sociale e politica, oltreché educativa e pedagogica. L'autore aveva le carte in regola per venire incontro a questa esigenza. Non soltanto la sua attività di docente di educazione degli adulti nelle Università di Firenze e di Roma, ma anche, e non meno, quella di operatore culturale in numerosi progetti di ricerca e di sviluppo di carattere locale e nazionale lo rendevano particolarmente adatto ad accingersi a un'impresa tanto difficile. È nato cosi un libro che si distacca dai consueti lavori accademici e che si colloca in un orizzonte interpretativo e valutativo che lega strettamente la teoria alla prassi. Esso schiude nuove prospettive nell'ambito dell'educazione degli adulti. Il suo apporto innovativo è da identificare nel contributo di primo piano che dà alla fondazione scientifica di questa disciplina, avvalendosi dei progressi compiuti nel settore della pedagogia generale. Collocandosi dichiaratamente entro l'alveo della pedagogia marxista, l'opera accoglie il meglio del pensiero socio-pedagogico di altre correnti, tra le quali non ultima quella che fa capo al Dewey, di cui, del resto, sono ormai acquisite le notevoli affinità che lo legano al pensiero di Marx. A Marx e a Dewey spetta il merito di avere fondato la pedagogia come scienza. Ad entrambi compete altresì quello di avere dato un rilievo centrale ai problemi dell'educazione nell'età adulta visti nel quadro della crisi della società capitalistica in Europa e negli Stati Uniti. Avendo presente il parametro fornitogli dai due fondatori della pedagogia moderna concepita come aspetto integrante delle scienze sociali, De Sanctis sottolinea come la teoria e la pratica relative all'educazione degli adulti siano rimaste finora a «un livello premoderno ». Gli adulti vengono considerati non come soggetto, ma come oggetto dell'educazione. È suo convincimento che ogni concezione ed ogni prassi che attribuiscono la responsabilità e il compito dell'educazione degli adulti ad agenzie diverse da quelle che gli adulti stessi esprimono falliscono nel loro intento al tempo stesso in cui manifestano la debolezza del loro assunto. Considerando giustamente il movimento operaio come il grande iniziatore e protagonista delle rivendicazioni e delle realizzazioni nel settore dell'educazione degli adulti, egli fa sua l'affermazione del Dewey, che trova un esatto riscontro in molte altre già nitidamente avanzate Pagina 5 di 185 da Marx, secondo cui « sono le condizioni fondamentali che sono mutate, e il rimedio può venire soltanto da un'altrettanto radicale trasformazione dell'educazione». L'educazione nuova rappresenta, pertanto, l'espressione consapevole di obbiettive esigenze storiche e non l'astratta formulazione di principi teorici frutto di «eccelse menti di pedagogisti». Interpretando le parole del Dewey in chiave marxista, De Sanctis concepisce il processo di autoeducazione e di autoformazione della classe operaia come un aspetto intrinseco del suo costituirsi storico come classe ad opera della rivoluzione industriale e come momento indisgiungibile dalla conquista di una coscienza di classe. A questa concezione scientifica della pedagogia, con particolare ma non esclusivo riferimento a quella degli adulti, si lega strettamente un altro concetto in cui si esprime il secondo principio fondamentale della moderna teoria dell'educazione. Mi riferisco al dilatarsi dell'orizzonte pedagogico dai problemi della scuola e dell'età evolutiva a quelli dell'organizzazione e del funzionamento dell'intera società. Questo principio, che oggi in forme spesso confuse è confluito in quello dell'educazione permanente, trae esso pure le sue radici dal pensiero di Marx e di Dewey. È stato Marx a gettare luce per primo sui processi di reificazione della classe operaia nel sistema dei rapporti di produzione storicamente realizzato dal capitalismo industriale. La necessità e l'obbiettività storica di tali rapporti di produzione costituiscono la radice dell'educazione della classe operaia e, più largamente, dell'intera società. A quest'ordine di considerazioni De Sanctis dedica il primo capitolo del suo libro, che soltanto un lettore o un critico distratti potrebbero considerare non pertinenti al tema affrontato. Occorre affermare, al contrario, che la densa trattazione, che riprende temi marxiani, contenuta in questo capitolo costituisce la pietra angolare dell'intera opera. Legando insieme i due concetti fondamentali della moderna teoria pedagogica, quello del suo carattere scientifico e quello della sua larga valenza sociale, De Sanctis scrive che «l'educazione degli adulti ebbe origine... non da una risposta filantropica alle condizioni di sfruttamento del proletariato; non fu quindi un prodotto secondario dell'industrializzazione. Essa, invece, ebbe consustanziale ragione di vita dalle caratteristiche della società industriale capitalistica». Questa profonda istanza marxiana divenne centrale nel pensiero, finora poco noto, del tardo Dewey. Egli considera l'impiego della scienza e della tecnica, « le due grandi forze causali all'opera», nel sistema esistente di produzione fondato sul profitto come l'agente primario dell'attuale educazione della società e al tempo stesso come l'oggetto fondamentale di ogni seria teoria dell'educazione. Poiché sono le condizioni della vita sociale influenzate dall'impiego della scienza e della tecnica, nell'odierna fase storica, «che esercitano il più grande e più durevole effetto educativo (nonché diseducativo) sull'esperienza di vita e sulla cultura prevalente, è da esse piuttosto che dal sistema scolastico in senso stretto che ogni seria dottrina pedagogica deve trarre inizio». Non mi sembra di andare errato affermando che l'originalità dell'opera di De Sanctis sta nel ripetuto, martellante richiamo all'esigenza di prestare attenzione, analizzandole attentamente, alle «valenze educative» della struttura esistente della società e dei rapporti di produzione. La matrice marxiana del suo pensiero va identificata in questa sua insistenza sulla necessità che ogni discorso pedagogico inerente all'educazione degli adulti trovi il suo centrale punto di riferiménto nei rapporti di produzione. Di qui il rilievo primario che la trattazione del lavoro assume nella sua opera e la denuncia dell'errore di considerarlo come oggetto d'indagine avulsa dalla problematica educativa. Al contrario, è nella lotta per l'abolizione del lavoro alienato che egli colloca il punto nodale dell'educazione degli adulti e, più latamente, di ogni forma di educazione. Pagina 6 di 185 Seguendo Marx, e particolarmente su questo punto Engels, egli ravvisa nel sistema di produzione industriale, nella fabbrica capitalistica, pur coi suoi tempi defatiganti di lavoro e colle sue condizioni di estremo sfruttamento salariale, il contributo principale che le nuove condizioni storiche determinate dalla rivoluzione scientifica e tecnologica hanno recato all'educazione degli adulti. La coscienza della situazione di degradazione e di reificazione, favorita dal regime di fabbrica, le possibilità da esso offerte di una solidale azione mirante a un radicale cambiamento non soltanto per la classe operaia, ma per l'intera umanità costituiscono, nell'ultima abiezione, l'inizio della liberazione. De Sanctis vede nello sviluppo della grande industria moderna il necessario punto d'avvio dell'abolizione della società di classe e con essa del rinnovamento dell'educazione. L'alto prezzo pagato dall'umanità, per una serie ininterrotta di generazioni fino ai giorni nostri, gli appare giustificato da questa prospettiva di finale mutamento. Forse questo tema meritava una trattazione più problematica. Marx stesso, nei suoi tardi anni, indicava la possibilità di passaggio al socialismo senza passare dovunque — e si riferiva al mir russo — attraverso l'inferno della fabbrica capitalistica. Agnes Heller citava recentemente dall'abbozzo di lettera di Marx a Vera Zasulic, del 1881, l'affermazione che il mir «trova il capitalismo in una crisi che finirà soltanto con la sua eliminazione e col ritorno delle società moderne al tipo 'arcaico' della proprietà comune, forma in cui... il 'sistema nuovo' al quale tende la società moderna 'sarà una rinascita' (a revival) in una forma superiore (in a superior form) di un tipo sociale arcaico». Non mancano nel libro di De Sanctis spunti utili per una approfondita considerazione di questo tema oggi cruciale della direzione dello sviluppo. Egli indica come esempio delle «linee più complesse sulle quali è possibile muoversi» quelle emerse dalla Conferenza di Bucarest sui problemi demografici, dal cui comunicato finale cita la dichiarazione secondo cui «la base per una soluzione effettiva dei problemi della popolazione è soprattutto la trasformazione socio-economica». La questione è ben posta, e non si può non consentire con essa, salvo a indagare attentamente se l'unica via di tale mutamento socioeconomico sia quello dello sviluppo industriale senza altri limiti che quelli imposti dal sistema capitalistico di produzione. Le considerazioni che De Sanctis fa sulle valenze educative della fabbrica e del lavoro agricolo, sui rapporti fra città e campagna non soltanto rappresentano indicazioni esemplari del respiro ampio del suo pensiero che schiude viste nuove e puntuali nel terreno ancora largamente incondito dell'educazione permanente ma sono altresì temi suggestivi di ulteriori indagini ricche di eventuali contributi originali a un approccio inedito nel campo dell'educazione degli adulti. Questo mio riferimento a un problema che non va confuso coi diversivi che sono stati denunciati da coloro che hanno messo a fuoco i rischi nascosti nell’ «imbroglio ecologico» è un semplice richiamo a un serio problema di natura sia sociale che educativa. È il problema del nostro stesso avvenire su questa terra, è il problema della natura stessa e dell'uomo come parte di essa. E’ problema di fondo dell'educazione. Nelle scuole e nei Congressi , nei mass media e nei circoli operai e nelle case della cultura esso può essere affrontato in maniera mistificante. Dalle pagine che De Sanctis vi dedica è possibile evincere indicazioni utili a una sua corretta impostazione, vuoi nella educazione degli adulti vuoi in quella scolastica rivolta ai fanciulli e ai giovani. Tale problema non sposta la riflessione del lettore da quello che è il filo rosso dell'opera: l'inscindibile legame che unisce l'extrascolastico alla scuola, l'educazione e l'istruzione formali a quelle che sono inerenti alle lotte da combattere nell'organizzazione dei rapporti e dei processi della produzione considerata «nella sua globalità e nella sua strutturalità». Pagina 7 di 185 La ricchezza dei temi che si accompagna a tale tematica non consente un'analisi adeguata in una semplice «presentazione», il cui compito è solo quello di offrire qualche spunto a una lettura critica di un'opera densa di contenuto e dall'espressione concentrata e non sempre familiare ai lettori comuni dei testi di pedagogia. Sforzandoci di porre in luce i temi pedagogicamente più fecondi in essa trattati, oltre ai due più generali già sottolineati all'inizio di questo discorso, ci preme indicarne tre come degni di particolare riflessione: quello del rapporto tra scienza e lavoro; quello del rapporto tra interesse e socialità, e quello della libertà dell'apprendimento, che si riallaccia ai grandi motivi dell'atmosfera culturale generale e dell'associazionismo operaio nei suoi rapporti coll’ associazionismo civile. Riguardo al primo problema, spesso male impostato sotto la pressione di interessi di classe, nelle forme o della divulgazione scientifica o della purezza della scienza, De Sanctis si serve per la sua impostazione del principio del Dewey che «quale possa essere la scienza per lo specialista, essa per i fini educativi, è la conoscienza delle condizioni umane». Lungo tale direzione, che, come è noto, è primaria nel pensiero deweyano, De Sanctis concepisce il progresso scientifico e tecnologico come strettamente legato ai rapporti di produzione e di organizzazione del lavoro, e, come tale, da impostare nel quadro dei rapporti tra la classe operaia nel suo insieme e la scienza. In pratica, l'approccio della classe operaia alla scienza è da promuovere tenendo presente l'interesse sociale vitale della stessa classe a dominare le condizioni della propria esistenza sul lavoro, a inserirsi responsabilmente nel processo produttivo in termini non di pura esecuzione, ma in quelli della riorganizzazione e, in definitiva, della formazione. Degno di nota è il riferimento di De Sanctis al taylorismo che, a distanza di oltre quarant'anni, egli guarda con occhi diversi da quelli con cui lo guardava Gramsci, e del quale, con Georges Friedmann, sottolinea gli effetti di rafforzamento del capitale e di impoverimento culturale, politico e psicofisico della classe operaia. Il compito dell'educazione degli adulti nei riguardi del problema del rapporto tra lavoro e scienza è pertanto indicato nel contributo alla liberazione del lavoro e dei lavoratori «dalla soggezione tecno-scientifica», che, sul terreno culturale, si traduce nello sforzo della classe dirigente di appropriarsi a suo vantaggio dell'interesse e della socialità. Per la classe operaia, e più largamente per l'intera umanità, esiste un falso interesse, fatto consistere nell'incremento del salario e del profitto indipendentemente dalla considerazione dei rapporti di superiorità e di soggezione, di accresciuto potere di sfruttamento e di aumentato falso potere di consumo che in sostanza rafforza la dipendenza, in breve indipendentemente da ogni genuina considerazione di sviluppo sociale. Come nei riguardi del rapporto tra scienza e lavoro la funzione della prima è quella di rendere capace l'operaio di mutare la qualità del secondo e con ciò di trasformare il proprio rapporto con la natura e colla società, una trasformazione affine si verifica quando si sconfigge quello che De Sanctis chiama «l'insinuante tentativo da parte del capitalismo monopolistico di Stato di appropriarsi in blocco e nelle sue determinazioni della pedagogia attiva, appoggiandosi sul capovolgimento e sulla strumentalizzazione delle aspirazioni educative». Ciò che la classe al potere si sforza di oscurare nella classe operaia è la coincidenza profonda del proprio interesse con la genuina socialità, da realizzare soltanto mediante la creazione di una società nuova. Non è inopportuno ricordare che, per Dewey, l'interesse coincide nell'uomo, come nel fanciullo, nella «presa di coscienza di se stesso» in modo che si trasformi in «una forza emozionale in attività». Se si applica tale concezione alla valenza educativa del rapporto tra interesse e socialità per la classe operaia, essa si traduce nell'assecondamento del suo sforzo di acquistare consapevolezza della sua funzione trasformatrice della società mediante l'azione congiunta di tutti i suoi componenti Pagina 8 di 185 Questa sottile vena libertaria che penetra nell'analisi che De Sanctis effettua del compito trasformativo del rapporto tra lavoro e natura-società e del rapporto tra interesse e socialità si allarga a visione pedagogica generale là dove egli considera la rogersiana "libertà nell'apprendimento" come principio intrinseco di una società socialista, nella quale su tutti e su ciascuno cada la responsabilità della continua trasformazione delle sue strutture. La libertà di apprendimento equivale a responsabilità di autoformazione e di instaurazione di un clima di libertà nella vita sociale. Di qui l'importanza attribuita da De Sanctis a quella che indica, sulla scorta di Kurt Lewin, come «l'atmosfera culturale generale», considerata dal gran gestaltista come «il fondamento di tutte le situazioni specifiche». L'adesione al concetto della prevalenza, in ultima istanza, della sovrastruttura sulla struttura, avanzata da U. Terracini, spinge De Sanctis al di là dell'affermazione compiuta da quest'ultimo circa la maggior portata dei problemi politici su quelli economico-sociali. Egli si avvale di tale principio per sottolineare il peso degli sforzi della società, e in essa degli educatori, vuoi come insegnanti vuoi come operatori culturali, per la creazione di un atteggiamento generalizzato di apprezzamento dei valori culturali, per la creazione culturale, e ancor più precisamente (secondo il pregnante senso che Gramsci dava a tale parola) «intellettuale», ai fini dell'instaurazione di una nuova condizione umana. Il rilievo crescente che nell'opera acquista la cultura, sempre intrinsecamente legata alle lotte del lavoro, nella creazione di quella che col Suchodolski egli denomina «la società dell'educazione», nella quale la formazione primeggia sulla produzione, acquista un significativo ruolo educativo nelle pagine dedicate all'esame del rapporto tra l'associazionismo operaio e l’associazionismo civile. In tale esame egli fa sua, trasferendola in un nuovo contesto di significato, la lezione del Tocqueville. Per De Sanctis l'associazionismo occupa un posto centrale nell'educazione degli adulti. Ad esso, infatti, è legato lo sviluppo intellettuale della classe operaia nel processo della sua conquista della conoscenza di se medesima. Nello sviluppo dell'associazionismo acquistano sempre maggior importanza le libere associazioni sorte dal basso, espresse dal movimento spontaneo della società, con connotazione libertaria, accanto a quelle che De Sanctis menziona come nate dal seno del «movimento operaio nella sua struttura portante politica, il partito». Qui il discorso si fa più complesso e richiederebbe un'ulteriore precisazione. L'associazionismo civile, nella mia considerazione, si avvicinerebbe in tal modo allo stesso associazionismo operaio autoiniziato e autogestito dalla base e formato non soltanto da operai, salvo a designare come tali tutti coloro che lottano accanto a loro per un radicale mutamento dell'ordine esistente. Del resto verso questa visione comprensiva dei due tipi di associazionismo spinge tutto il discorso di De Sanctis. Egli stesso esprime l'esigenza di un «allargamento della condizione operaia ai tecnici e agli scienziati come forze interessate al superamento» della tradizionale divisione tra intellettuali e operai, facendo sue delle considerazioni di Antonio Badaloni. Il filone gramsciano del suo pensiero incentrato sullo sviluppo intellettuale della classe operaia costituisce, in definitiva, il motivo saliente del suo pensiero che teorizza, e al tempo stesso operativamente mira a creare, una nuova società dove tale divisione tra operai ed intellettuali venga meno, mercé l'acquisto di capacità superiori da parte della stessa classe operaia, identificata coll'intera società. In questo nuovo ordine da creare è lecito anticipare non soltanto marxianamente l'estinzione dello Stato, ma, come fa De Sanctis, anche la dissoluzione dell'educazione degli adulti «in una libertà educativa consapevole e liberante». Pagina 9 di 185 2 Introduzione Questo saggio nasce da un lungo periodo di lavoro nell'educazione degli adulti, con associazioni e nelle istituzioni educative, dalla pratica con strumenti antichi, recenti e nuovissimi; e dalla personale maturazione, attraverso i rapporti avuti e lo svolgimento del mestiere di operatore culturale negli ambienti più stimolanti del Paese. Ha origine dalla necessità di costruire un quadro di riferimento nel quale poter agire, rispetto alla nuova dimensione e alla nuova qualità dei problemi educativi nell'età adulta. E, in primo luogo, dall'emergere e dall'affermarsi con forza sempre maggiore di un rapporto sempre più stretto tra movimento operaio e acquisizione scientifica, dal realizzarsi del marxiano «sviluppo intellettuale della classe operaia». La conquista delle «ore di studio» dei lavoratori è l'esempio più recente di tale tendenza progressiva. Scaturisce, infine, dalla esigenza, sempre più avvertita con il passare degli anni, di dare un senso unitario alle esperienze compiute, con lo scopo di discutere — soprattutto con i giovani — nel modo più approfondito intorno ai problemi educativi nell'età adulta, come dire dell'avvenire sociale che intendiamo costruire. Come spesso accade, accingendomi a questo lavoro, ritenevo di potermi limitare ad una rapida esposizione del punto al quale l'educazione degli adulti era giunta in Italia. Ma, fin dalle prime riflessioni, dovevo constatare che non era possibile accontentarsi di una superficiale raschiatura del campo, che era indispensabile — almeno per la mia limitatezza — un profondo scasso, per far germogliare nuove prospettive di visione e di interventi. Le motivazioni largamente politiche mi sollecitavano, peraltro, a non restringere gli orizzonti della ricerca negli spazi dell'educazione degli adulti tradizionale; ma nell'impegnarmi a individuare le basi strutturali ed ideali per nuove prospettive. Da qui, uno sforzo non superficiale di fronte a difficoltà comprensibili che provenivano dall'intento di riconsiderare, da un punto di vista specifico, i processi educativi nella condizione di lavoro e — in generale — di vita sociale, nonché i problemi economici e culturali della nostra storia. Da qui, l'estrapolazione che ho dovuto compiere degli aspetti storici e metodologici; temi e problemi sui quali sarà necessario ritornare con l'attenzione, e per l'utilità, che meritano. Da qui, infine, l'emergere di interrogativi di ogni ordine, più che il perfezionarsi di risposte alle prime domande che mi ero poste. Si tratta di quesiti ai quali, nel lavoro e nella ricerca, sarà necessario rispondere scientificamente, con maggior pregnanza di quanto, in questo primo tentativo, sia stato possibile. L'esigenza, infatti, che è venuta alla luce con maggior rilievo, anche politico, sembra essere quella — per noi operatori culturali — di contribuire al crescere e all'affermarsi di un vincolo scientifico che, attraverso l'istituzione di strutture e l'invenzione di metodi, tenda a fornirci per l'operare quotidiano le più probanti, verificate indicazioni. La soluzione delle questioni sul tappeto sarà possibile attraverso l'articolazione più stretta dell'impegno operativo e dell'impegno scientifico. Riteniamo opportuno precisare il modo in cui abbiamo usato la nomenclatura del settore. Innanzi tutto, abbiamo cercato di evitare le possibili confusioni tra «educazione permanente» ed «educazione degli adulti», termine questo che abbiamo utilizzato nel senso dell'intervento formale, volontario; mentre delle locuzioni di «educazione adulta» e di «educazione nell'età adulta» ci siamo serviti per parlare del fenomeno, a livello oggettivo. Abbiamo usato la denominazione di «lavoro culturale», quando abbiamo presentato problemi specifici in situazioni di responsabilità politica organizzata. Pagina 10 di 185 Abbiamo evitato ogni commistione tra «educazione degli adulti» e «cultura popolare» o «educazione popolare», servendoci di queste ultime dizioni solo in riferimento a esperienze storiche o, comunque, definite per provenienza e struttura. Se non abbiamo ripreso il termine proudhoniano di «demopedia», ci siamo serviti di quello di «andragogia», inteso come studio sui problemi educativi nell'età adulta; talvolta, forse impropriamente, abbiamo adoperato l'aggettivo «andragogico» (nell'impossibilità di ricavare un aggettivo da «educazione degli adulti»). Invece della locuzione «educatori degli adulti», abbiamo parlato di «operatori culturali». Abbiamo escluso l'uso — in luogo di «educazione degli adulti» — di dizioni apparentemente similari: «istruzione permanente», «formazione permanente», «educazione ricorrente», «educazione in alternanza», o di altre ancora, riservandone l'utilizzazione nei casi più propri. Circa la bibliografia, abbiamo inteso, soprattutto, attingere alle fonti, da Marx a Gramsci, pur utilizzando tutti i contributi che ci venivano dal confronto quotidiano (e, a tal fine, spesso abbiamo fatto riferimento agli avvenimenti attuali e ai commenti della stampa), nonché dalle riflessioni di quanti hanno dimostrato — direttamente o indirettamente — interesse per i problemi dell'educazione degli adulti, non tanto come tema separato, quanto scaturente dalla globalità del processo di sviluppo. Mi auguro che il personale entusiasmo per il lavoro di educazione degli adulti, per le sue potenzialità e per le sue difficoltà, non abbia oscurato la chiarezza dei problemi. Tale risultato, evidentemente, era molto lontano dalle mie intenzioni e motivazioni che, d'altra parte, non potevano essere oltre misura raffreddate, forzando le caratteristiche e superando i difetti acquisiti, da operatore, nel proposito di affermare le ragioni di una azione culturale, nella conflittualità della nostra realtà. Ciò che, infatti, ho costantemente riscontrato nella prassi educativa è stato il prorompere di bisogni tesi alla trasformazione e, per converso, la violenta o capziosa opposizione al soddisfacimento di tali tensioni innovative. Da qui, una passionalità di scrittura della quale, comunque, chiedo scusa. Ma, anche, l'esortazione a moltiplicarci e a qualificarci per affrontare con maggior incisività e perizia la questione concreta dell'educazione nell'età adulta. Pagina 11 di 185 3 Problemi dell’educazione degli adulti 3.1 La società industriale e l'educazione degli adulti 3.1.1 L'educazione degli adulti nella società industriale Il primo riscontro problematico dobbiamo effettuarlo con le strutture della società industriale, come dire con la società moderna in quanto caratterizzata dalla produzione di beni su base industriale. Ed è un riscontro che intendiamo compiere relativamente alla situazione italiana, o a strutture economiche ad essa analoghe nel passato e nel presente. Si tratta di un'analisi indispensabile per ragioni storiche e strutturali; i riferimenti storici, infatti, possono permetterci di inquadrare l'educazione degli adulti nel tempo e nello spazio, di comprenderne le origini, gli sviluppi, le prospettive; l'analisi degli elementi economici, sociali, culturali — in stretta correlazione tra di loro e con gli avvenimenti contemporanei — può fornirci, almeno per grandi sintesi, il senso di un movimento educativo e permettere di orientarci per intervenire congruamente. È ben noto che è dal seno della società industriale che l'educazione degli adulti, in senso moderno, ha preso avvio. Ma in quale senso? È stato, ad esempio, affermato 1 che si tratterebbe di «un prodotto secondario dell'età scientifica, della rivoluzione industriale e dell'affermazione democratica». A noi sembra più pertinente riferirci, soprattutto, al rapporto tra strutture economiche capitalistiche e origine dei processi educativi in età adulta, sia in quanto direttamente organizzati, sia in quanto emergenti dagli specifici rapporti di produzione e — come tali — o piegati alle necessità delle egemonie economiche, o gestiti dal movimento operaio stesso fino a divenire parte integrante della cultura operaia. Da questo punto di vista, ciò che caratterizza la società industriale è, innanzi tutto, la semplificazione dei contrasti tra le classi: «la società intiera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l'una all'altra: borghesia e proletariato» 2. Se è vero che in altre epoche «oppressori ed oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volta palese»3, è vero che «l'epoca nostra, l'epoca della borghesia, si distingue perché ha semplificato i contrasti fra le classi» 4. In secondo luogo, la borghesia si caratterizza in quanto «non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l'insieme dei rapporti sociali... Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca borghese da tutte le altre... Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci»5. 1 Cfr. A. S. M. Hely, Tendenze nell'educazione degli adulti. Da Elsinòr a Montreal, Roma, Armando, 1966, p. 21. K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 56. 3 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 55. 4 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 56. 5 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 6061. 2 Pagina 12 di 185 Al contrario, considerando le epoche precedenti alla società industriale, la loro «prima condizione di esistenza... era invece l'immutata conservazione dell'antico modo di produzione»6. Rispetto a tali caratteristiche della società industriale capitalistica, l'origine dell'educazione degli adulti ci sembra debba essere considerata rispetto ai bisogni oggettivi e soggettivi dell'epoca. In tal senso, limitarsi a considerare soltanto le organizzazioni dell'«educazione degli adulti» in senso stretto ci appare improprio e, comunque, impari per comprendere la complessità di fenomeni che non possono essere settorializzati. Al massimo, come accade ad alcuni tentativi di sistemare storia, tendenze e problemi dell'educazione degli adulti, si riesce soltanto a chiudersi nelle istituzioni formalizzate, che, in quanto tali, già si spiegano da sole, e, in fondo, a bloccare ogni profonda riflessione per una nuova percezione dei processi educativi e dei modi innovanti di intervenire, oggi e in prospettiva. I modi «organizzati», infatti, di rispondere a determinati bisogni, non solo non acquistano valenza positiva per il fatto di essere, appunto, «formalizzati», riconosciuti per legge, capaci di programmare, ma suscitano legittimi sospetti nell'ambito di una riconsiderazione attuale dell'educazione degli adulti, svolta da parte di quanti vogliano rielaborare linee e programmi di lavoro più avanzati. Rispetto, dunque, alle due principali caratteristiche della società industriale basata su strutture capitalistiche, i problemi, e le loro manifestazioni come bisogni oggettivi, si enucleano, si precisano, postulano risposte. Il rapporto tra la necessità di «rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi l'insieme dei rapporti sociali»7 e la semplificazione «in due grandi classi direttamente opposte l'una all'altra: borghesia e proletariato»8 si svolge, evidentemente, nella sfera economica. La prima — peraltro — è una necessità soddisfacibile attraverso mezzi culturali (l'invenzione di strumenti necessari al rivoluzionamento parte dalla fabbrica e ritorna alla fabbrica passando attraverso laboratori scientifici e tecnologici); essa richiede adattamenti continui nei rapporti di produzione e nei rapporti sociali che soltanto l'uso di strumenti culturali (dalla parola al calcolo all'organizzazione) permette. La seconda caratteristica, organicamente legata alla prima, spiega perfettamente l'origine ambigua dell'educazione degli adulti nella società industriale, e non in epoche precedenti. Il rapporto, infatti, tra «incessante scuotimento»9 e semplificazione della lotta di classe non potrebbe essere risolto altrimenti dalla classe detentrice del potere che attraverso il controllo di processi educativi capaci di regolare «l'incertezza e il movimento eterni»10 del proletariato e degli strumenti culturali di cui la borghesia doveva pur dotare il proletariato stesso se non intendeva — come non poteva — contraddirsi nella propria necessità di rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l'insieme dei rapporti sociali. L'educazione degli adulti ebbe dunque origine, a nostro parere, non da una risposta filantropica alle condizioni di sfruttamento del proletariato; non fu, quindi, un prodotto secondario dell'industrializzazione. Ebbe invece precisa, consustanziale ragione di vita dalle caratteristiche strutturali della società industriale capitalistica. Quale migliore copertura dell'altruismo filantropico avrebbe potuto nascondere la realtà di una gigantesca scuola dell'adulto necessaria per una riconversione post-medievale di 6 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 60. K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 60. 8 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 56. 9 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 60. 10 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 61. 7 Pagina 13 di 185 atteggiamenti e di comportamenti, di usi e di costumi, di abitudini e di credenze, di aspirazioni e di consolazioni, di linguaggio e di valori? Alle necessità oggettive del sistema nascente erano strettamente interrelate quelle soggettive del proletariato; se è vero che la miseria costringeva ad accettare qualsiasi condizione di lavoro, attraverso quali processi se non quelli educativi il proletariato sarebbe riuscito ad assimilare procedimenti industriali così diversi da quelli artigianali o agricoli, i disastri dell'urbanesimo, il cambiamento della gestione familiare? Quell'intervento che oggi chiamiamo educazione degli adulti fu, dunque, all'origine un congegno sociale primario della struttura nascente ed un prodotto primario di contraddizione. Gli iniziatori delle attività educative, in senso stretto, per adulti erano ben consci del compito loro affidato: «l'educazione, finché non sia troppo progredita, può contribuire alla diminuzione della criminalità e quindi ad una maggiore sicurezza della proprietà privata ed anche ad una riduzione del pauperismo e della percentuale di indigenti»11. In altre epoche, quando la «prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali» era «l'immutata conservazione dell'antico modo di produzione»12, i processi educativi — in senso lato e in senso stretto — avevano la durata dell'età giovanile; nell'età adulta, l'apprendista si affinava nella vita lavorativa; a nessuno, di regola, veniva richiesto un continuo riadattamento sul lavoro o nell'ambiente. L'educazione degli adulti in senso moderno poteva allora avere un corrispettivo soltanto nell'otium degli strati superiori della società. Nella società industriale questa facoltà di pochi diviene una necessità di massa, un dovere di educazione globale. Ma, a qual fine? A comprendere meglio i cambiamenti della realtà circostante per adattarvisi, o a modificare la realtà nelle sue basi strutturali? A sopravvivere, potremmo chiederci, o a filosofare, a ragionare sulle cause? A migliorare o a trasformare? Quell'intervento che oggi chiamiamo educazione degli adulti fu, peraltro, come dicevamo, non solo un congegno sociale primario delle strutture nascenti; fu, anche, un prodotto di contraddizioni. Se, infatti, il bisogno di educarsi e istruirsi per conoscere, comprendere e modificare scaturiva dal proletariato (se non ci fosse stata una motivazione a frequentare, nessuna attività si sarebbe potuta organizzare), la necessità di un'educazione nell'età adulta scaturiva dagli stessi rapporti di produzione dell'epoca borghese, dalla necessità di una forza-lavoro adeguata. Se, inoltre, la domanda di educazione era tesa a modificare una realtà circostante ben precisa, la risposta a tale domanda poteva essere organizzata attraverso una prassi imitativa di strutture, metodi e —- nell'immediatezza dell'atto educativo — perfino di scopi tipici degli strati individualistici coltivati. Se, infatti, coloro che organizzavano ed impartivano educazione agli adulti erano mossi da nobili sollecitazioni, essi tuttavia erano tendenzialmente gli «operai salariati» della borghesia la quale aveva «spogliato della loro aureola tutte quelle attività che per l'innanzi erano considerate degne di venerazione e di rispetto», trasformando, appunto, «il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati»13. Se — infine — il proletariato aspirava ad educarsi in età adulta perché, come si diceva allora, «sapere è potere», il sapere stesso poteva essere piegato al potere esistente, sia per l'ambiguità degli strumenti culturali, sia perché le angolazioni ed i campi conoscitivi, i metodi e i programmi, venivano scelti nell'interesse dominante: come racconta Engels, veniva «predicata l'economia politica, il cui idolo è la libera concorrenza, e da cui l'operaio può trarre una sola 11 R. Peers, Adult Education, London, Routledge and Kegan Paul, 1958, p. 9. Cfr. A. S. M. Hely, Tendenze nell'educazione degli adulti. Da Elsinòr a Montreal, Roma, Armando, 1966, p. 23. 12 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 60 13 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 59. Pagina 14 di 185 conclusione: cioè nulla di più ragionevole che rassegnarsi a morir silenziosamente di fame; qui tutta l'istruzione è addomesticata, priva di nerbo, servile verso la politica e la religione dominanti; così che per l'operaio essa in realtà non è altro che una predica permanente per indurlo alla quieta obbedienza, alla remissività, alla rassegnazione al suo destino»14. Concludendo possiamo dire che l'educazione degli adulti, intesa come continuativa esigenza formativa rispetto alla necessità di «continuo rivoluzionamento della produzione», all'«incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali», all'«incertezza e al movimento eterni» che contraddistinguono la borghesia nella società industriale capitalistica, non è fenomeno neutro e tanto meno filantropico, ma aspetto dell'intervento sui processi formativi, della borghesia e del proletariato in lotta. Essa, pertanto, reca con sé le contraddizioni delle sue origini storiche, delle strutture sociali, economiche e culturali in cui opera, sia in modo formalizzato sia in modo informale, sia direttamente sia indirettamente, sia in modo organizzato sia in modo non organizzato, sia quando diretta dalla borghesia sia quando — nell'ambito di una società capitalistica — gestita dal proletariato. 3.1.2 Lo «sviluppo intellettuale della classe operaia» Senza tener conto di tali realtà di origine e di contraddizioni, sforzandosi invece — come si è spesso tentato — di creare una isola filantropica all'educazione degli adulti, non si comprendono i termini del condizionamento sociale in relazione alle finalità, ai metodi del lavoro educativo nell'età adulta; né, tantomeno, si percepiscono le possibilità di scelta reale. L'educatore, l'operatore culturale, deve essere anch'egli costretto «a considerare con occhi liberi da ogni illusione la (sua) posizione nella vita»15, ad abbandonare il terreno del missionaresimo nel cui recinto ha ritenuto di potersi isolare. Le possibilità di scelta, infatti, nascono dalle stesse contraddizioni della società industriale a carattere capitalistico, non dall'esterno, o dal nulla; nascono dalla capacità di legare i processi educativi ai processi di sviluppo del proletariato, per una reintegrazione dell'uomo diviso. La questione, infatti, alla quale dobbiamo dare una risposta non è relativa alla funzione dell'educazione degli adulti — come fenomeno isolato o isolabile —, o al decondizionamento sociale, o allo «sviluppo culturale» avulso dal contesto ambientale complessivo (economico, innanzi tutto, ma anche antropologico). Il problema centrale è quello del «processo di sviluppo del proletariato»16, della classe soggetta ai fenomeni provocati dalla economia capitalistica nella società industriale. La dimensione educativa in tale processo di sviluppo (e cioè i processi educativi connessi ai processi di liberazione strutturale) corrisponde a una via di passaggio il cui solco scaturisce dall'interno della «vecchia società», più esattamente dai «conflitti in seno alla vecchia società»17. 14 F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, Roma, Rinascita, 1955, p. 255 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 61. 16 Come scrivevano Marx ed Engels: «...la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le recano la morte; essa ha anche creato gli uomini che useranno quelle armi — i moderni operai, i proletari. Nella stessa misura in cui si sviluppa la borghesia, vale a dire il capitale, si sviluppa anche il proletariato, la classe degli operai moderni, i quali vivono solo fino a tanto che trovano lavoro, e trovano lavoro soltanto fino a che il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi al minuto, sono una mercé come ogni altro articolo di commercio, e perciò sono egualmente esposti a tutte le vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato». Cfr. K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, pp. 65-66. 17 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 71. 15 Pagina 15 di 185 Secondo la sintesi di Marx-Engels, il « processo di sviluppo del proletariato»18 è favorito in tre modi dai conflitti in parola: innanzi tutto, è la stessa borghesia, «di continuo in lotta», che « si vede costretta a fare appello al proletariato, a chiederne l'aiuto, trascinandolo cosi nel moto politico»; ed è essa stessa che così facendo fornisce «al proletariato gli elementi della propria educazione, gli da cioè le armi contro se stessa»19. In secondo luogo, sono quelle stesse «intiere parti costitutive della classe dominante» che, «per il progresso dell'industria... vengono precipitate nella condizione del proletariato o sono per lo meno minacciate nelle loro condizioni di esistenza», a recare «al proletariato una massa di elementi della loro educazione»20. In terzo luogo, «nei periodi in cui la lotta di classe si avvicina al momento decisivo, il processo di dissolvimento in seno alla classe dominante, in seno a tutta la vecchia società, assume un carattere cosi violento, cosi aspro, che una piccola parte della classe dominante si stacca da essa per unirsi alla classe rivoluzionaria... e segnatamente una parte degli ideologi borghesi che sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme»21. Come scriverà Engels nella prefazione all'edizione tedesca del 1890, per «la vittoria finale delle tesi enunciate nel Manifesto, Marx confidava unicamente ed esclusivamente in quello sviluppo intellettuale della classe operaia, che doveva necessariamente scaturire dall'azione comune e dalla discussione»22. I processi educativi indispensabili a tale sviluppo, peraltro, da una parte, appaiono favoriti dai «conflitti in seno alla vecchia società»; dall'altra, devono necessariamente scaturire dall'«azione in comune», dalla «discussione». Nell'edizione inglese del 188823, l'«educazione» che il proletariato ricava dalla borghesia stessa, o da parti di essa, è specificata in tre aspetti: 1) gli «elementi della propria educazione» sono indicati come «educazione politica e generale»; 2) l'« educazione» («una massa di elementi della loro educazione») che «intiere parti costitutive della classe dominante» recano al proletariato è specificata in «elementi di istruzione e di progresso»; 3) il contributo, infine, degli «ideologi borghesi che sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme». Se l'educazione in genere deriva dunque dai conflitti, vi è un'articolazione dei processi educativi in età adulta, nell'ambito della società industriale a carattere capitalistico, che deve essere tenuta presente nella sua complessità reale, onde trarne linee operative adeguate. Ma i processi educativi, verso uno «sviluppo intellettuale della classe operaia» nel quale Marx «confidava unicamente ed esclusivamente» «per la vittoria finale» (non, dunque, per uno degli stadi che si succedono, tra vittorie e sconfitte), non si esauriscono negli elementi formativi che il proletariato ricava dalla borghesia, come «armi» contro la stessa classe dominante. 18 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 71. K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 71. 20 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 71. 21 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, pp. 7172 22 Cfr. K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, tradotto dall'edizione critica del Marx-Engels-Lenin Institut di Mosca con introduzione a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Torino, Einaudi, 1966-4, p. 314. Nella prefazione all'edizione italiana del 1893, Engels scriveva: «...gli operai di Parigi, rovesciando il Governo, avevano l'intenzione ben determinata di rovesciare il regime della borghesia. Ma, per quanto essi avessero coscienza dell'antagonismo fatale che esisteva fra la loro propria classe e la borghesia, né il progresso economico del paese, né lo sviluppo intellettuale delle masse operaie francesi, erano giunti al grado che avrebbe resa possibile una ricostruzione sociale. I frutti della rivoluzione furono dunque, in ultima analisi, raccolti dalla classe capitalistica» (ivi, p. 319). 23 Cfr. K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 71, note 2, 3 e p. 72. 19 Pagina 16 di 185 Ai fini di un compimento dello «sviluppo intellettuale della classe operaia» nell'ambito del «processo di sviluppo del proletariato», l'elaborazione di tali elementi e contributi avviene attraverso strumenti e modi caratteristici della classe operaia. Si tratta di strumenti e modi politici ai quali dobbiamo attribuire una valenza educativa, fino a considerarli quali strumenti culturali propri di formazione operaia, come strumenti e modi della cultura operaia. Essi sono24 «l'azione in comune» e «la discussione». Essi, per noi, vanno posti in opposizione ai «conflitti» interni alla vecchia società nella quale «la borghesia è di continuo in lotta: dapprima contro l'aristocrazia, poi contro quelle parti della borghesia stessa i cui interessi sono in contrasto col progresso dell'industria; sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri»25. È una opposizione, per noi, sul piano dei processi educativi; come è evidente, dall'una scaturisce il bellum contra omnes, la competitività; dall'altra, il lavoro collettivo, la ricerca comune, la lotta contro le strutture capitalistiche. Ed è soprattutto attraverso la pratica del movimento operaio stesso che l'educazione in età adulta acquista valore sociale creativo; soltanto da una prassi innovante, infatti, i processi educativi possono ricevere quella sollecitazione alla creatività capace di reintegrare, di superare gli effetti dell'alienazione. L'analisi dei nessi tra condizionamento sociale e sviluppo culturale, nel concreto storico e strutturale della società industriale capitalistica, nel riferimento ai processi educativi derivati dalla cultura borghese e a quelli propri della cultura operaia (o, meglio, agli elementi che, per necessità di sintesi, possiamo raggruppare sotto tali denominazioni) ci sollecita, dunque, ad attribuire all'educazione in età adulta significati che vanno molto al di là della velleitaria consolazione, del semplice risarcimento, dell'inane speranza o della generica aspirazione allo sviluppo sociale. Tali significati derivano dai «conflitti in seno alla vecchia società», e, in particolare, dai conflitti stessi all'interno dei «più modi» di ricavare «educazione» («educazione politica e generale», «elementi di istruzione e di progresso», contributo da «una parte degli ideologi borghesi») in contrapposizione al controllo esercitabile dalla cultura operaia, sulla base «dell’azione in comune» e della «discussione». Non sembra esistere, dunque, un'educazione per l'età adulta, e una educazione degli adulti in senso stretto, che possa prescindere dai conflitti tra condizionamento sociale e sviluppo culturale, che possa esistere di per sé, in schemi sia pur raffinati di programmi di lavoro, di strutture, di metodi, di strumenti. E’ da tali conflitti che nascono le contraddizioni, per l'oggi compiutamente irrisolvibili, nelle quali si dibatte l'educazione degli adulti, e nelle quali spesso si trovano invischiati gli operatori culturali. I problemi dell'educazione degli adulti nelle società industriali a carattere capitalistico vertono intorno alle questioni relative alla partecipazione e alla fruizione culturale, al rapporto tra conservazione e innovazione culturale, all'antinomia tra mediazione e creatività, fino alle scelte di politica culturale delle forze in campo, alle strutture culturali da creare. Sono questioni di pressante attualità cui bisogna cercare di dare risposte, oggi, in un momento in cui la funzione liberatoria dell'educazione degli adulti acquista sempre maggior peso dovuto ad una più precisa, consapevole percezione delle sue specifiche possibilità d'intervento. Sia pure per sintesi, esaminiamo partitamente tali questioni. 24 Come si esprime Engels nella prefazione cit. all'edizione tedesca del 1890, cfr. Manifesto del Partito comunista, Torino, Einaudi, 1964, p. 314 25 Cfr. K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista,Introduzione di P.Togliatti,Roma,Editori Riuniti,1969,p.71. Pagina 17 di 185 3.1.3 «Problema intellettuale» e democrazia La società industriale capitalistica pone tendenzialmente a disposizione mezzi enormi per lo sviluppo della cultura: la scuola (di massa), i mezzi di comunicazione (di massa), i beni di consumo culturale (di massa), sono gli aspetti più evidenti di tale realtà. Ma la società industriale capitalistica attuale pone in essere dispositivi di potenza altrettanto enorme per controllare e indirizzare tale sviluppo per la conservazione delle proprie strutture economiche. Conosciamo bene la realtà di fenomeni socio-culturali, di cui le lotte allo scadere degli anni '60 hanno socializzato i significati politici. Attraverso la sintesi di uno scrittore americano, possiamo ripetere che la radice dello sfruttamento capitalistico non si nutre più e soltanto del proletariato che lavora, ma della massa che si diverte. Il vecchio sfruttamento era verticale: i poveri alimentavano i ricchi. Ora si aggiunge lo sfruttamento orizzontale della massa da parte dello Stato e del monopolio, uno sfruttamento secondario che sta diventando necessario per il capitalismo quasi quanto lo sfruttamento diretto del proletariato. Il capitalismo del secolo scorso poteva trovare il suo profitto nelle dodici ore di lavoro in fabbrica, ma quando il lavoratore sfruttato aveva terminato la fatica, il suo corpo era esausto, ma la sua mente poteva cercare un divertimento che era relativamente indipendente dall'industria per la quale lavorava. Quando, però, il lavoro in più del proletario viene sostituito dal cosiddetto «tempo libero» del consumatore, un altro sfruttatore del salariato diventa l'industria, sotto la forma culturale e ricreativa. Nella società industriale capitalistica più avanzata, sul piano dei mezzi e del controllo, vi era consapevolezza delle nuove forme culturali di dominio e di sfruttamento. Proprio negli anni in cui Henry Ford adottava la settimana di cinque giorni (ed affermava che, senza una diminuzione del tempo lavorativo, i lavoratori che sono i massimi acquirenti del paese non possono aver modo di coltivare un più alto standard di vita e quindi accrescere il loro potere d'acquisto; che l'economia riceve un impulso positivo in avanti quando gli americani hanno più tempo libero da dedicare al consumo e che, pertanto, entrate superiori e maggiore produzione non possono tradursi nel necessario maggior consumo, se non aumenta il tempo libero), proprio in quegli anni 20, usciva il libro dedicato da John Dewey a Il pubblico e i suoi problemi26. Nelle sue pagine, Dewey si chiedeva: «Che, cos'è, insomma, il pubblico nelle attuali condizioni? Quali sono le ragioni della sua eclisse? Che cosa gli impedisce di ritrovare e identificare se stesso? Con quali mezzi la sua posizione appena abbozzata ed amorfa si organizzerà in una efficace azione politica adeguata alle attuali esigenze e alle attuali possibilità sociali? Che cosa è accaduto al pubblico nel secolo e mezzo trascorso dal momento in cui la teoria della democrazia politica cominciò ad essere sostenuta con tanta fiducia e con tanta speranza?»27. Se non ad altre questioni, Dewey dava una risposta singolarmente vicina alle indicazioni prospettiche marxiane per una «vittoria finale». «Il problema di un pubblico democraticamente organizzato — affermava Dewey — è principalmente ed essenzialmente un problema intellettuale in una misura ignota alle situazioni politiche di età precedenti»28. 26 Cfr. John Dewey, Comunità e potere, Firenze, La Nuova Italia,1971, trad. it. di The Public and Its Problems. An Essay in Politicai Inquiry New York, Henry Holt, 1927. Il volume raccoglie alcune conferenze tenute da Dewey nel 1926 alla Fondazione Larwill del Kenyon College, Ohio. 27 John Dewey, Comunità e potere, Firenze, La Nuova Italia,1971 p. 99. Pagina 18 di 185 Noi sappiamo, dunque, «come mai l'era delle macchine promuovendo lo sviluppo della "Grande Società" abbia invaso e parzialmente disgregato le piccole comunità delle epoche precedenti senza generare una Grande Comunità»29, per usare i termini deweyani. E sappiamo che la Grande Società deve amministrarsi con rigidi criteri da istituzione totale, da Grande Lager — diremmo —, proprio per provocare confusione intellettuale, quella confusione che «derivata dalla estensione e dalle ramificazioni delle attività sociali, ha reso scettici gli uomini sull'efficacia dell'azione politica... Gli uomini — aggiungeva Dewey — si sentono presi nel vortice di forze troppo grandi per capirle e dominarle. Il pensiero è costretto ad arrestarsi e l'azione ne è paralizzata. Perfino lo specialista incontra difficoltà a risalire la catena delle "cause e degli effetti"»30. Il «problema intellettuale» del Dewey e quello marxiano dello «sviluppo intellettuale della classe operaia» sono dunque al centro di qualsiasi esame relativo ai temi dell'educazione nell'età adulta. E il crinale tra finalità e finalità, tra metodi e metodi, tra i diversi usi di determinati strumenti, tra strutture e strutture è segnato — a nostro parere — dalla capacità di restituire alla classe operaia, anche come pubblico, la sua pienezza, contro una eclisse del «pubblico» indotta attraverso i processi formativi che i potenti mezzi culturali possono permettere all'establishment; e che questi usa con l'intenzione di accrescere, anche attraverso l'uso di tali strumenti, la confusione, e cioè l'apatia, l'inazione politica, l'assoggettamento. Il termine stesso di partecipazione culturale assume, dunque, un significato relativo, e tutt'altro che autonomo. Non solo la standardizzata, affluente, slavata fruizione culturalistica — che la società industriale capitalistica finge di assicurare al Grande Lager — produce confusione utile alla conservazione. Anche la partecipazione culturale che aspiri al settore specifico, alla stanza dei giochi31, rischia di assicurare un minimo margine di permissività ad alcuni limitati strati intellettuali (il margine può estendersi fino a permettere un discorso culturalistico sulla rivoluzione), solo per allontanare i rischi di una partecipazione globale, per aumentare i reticolati della divisione del lavoro, per allontanare ogni rischio fattuale di cambiamenti. Nella Grande Società capitalistica non può esservi autonomia reale, ma fittizia. Da un punto di vista culturale, essa ci appare come un simulacro di società feudale che riesce a camuffare nella molteplicità delle posizioni sociali (i nuovi «signori feudali, vassalli, maestri d'arte, garzoni, servi della gleba, e per di più in quasi ciascuna di queste classi altre speciali gradazioni»)32 la semplificazione che contraddistingue «l'epoca della borghesia». Essa ci appare come un simulacro di società rinascimentale che, sbandierando valori umanistici acquisiti anche attraverso le grandi rivoluzioni moderne, riesce a mascherare, dietro il pluralismo delle idee, una sostanza strutturale che vede «due grandi classi direttamente opposte l'una all'altra»33. Ciò significa che la chiarezza, opposta alla confusione indotta, non è una prerogativa della professione intellettuale o meramente intellettuale; dobbiamo superare i vecchi recinti (uno 28 John Dewey, Comunità e potere, Firenze, La Nuova Italia,1971 p. 99. John Dewey, Comunità e potere, Firenze, La Nuova Italia,1971 p. 100. 30 John Dewey, Comunità e potere, Firenze, La Nuova Italia,1971 p. 106. 31 J. Huizinga, peraltro, osservava che «dire infantilismo e dire gioco non è la stessa cosa. Quando — continuava — alcuni anni fa credetti di poter raccogliere sotto il nome di puerilismo un certo numero di preoccupanti fenomeni dell'odierna vita sociale, mirai ad una serie di attività in cui l'uomo moderno, specialmente come membro di qualche collettività operante in senso organizzato, sembra comportarsi secondo le norme della pubertà o dell'adolescenza. Si trattava soprattutto di abitudini causate oppure favorite dalla tecnica dello scambio spirituale moderno». Cfr. Homo ludens, Torino, Einaudi, 1946, p. 252, e La crisi della civiltà, Torino, Einaudi, 1938, p. 107. 32 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 56. 33 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 56. 29 Pagina 19 di 185 dei quali era appunto riservato agli strati intellettuali) per affrontare organicamente con il movimento operaio i problemi di una partecipazione culturale piena, creativa, globale. Piena nel senso di opposta allo svuotamento che la società industriale attua del passato culturale, al vuoto che essa è capace di creare rapidissimamente per sostituirlo con le sue mode standardizzate e intercambiabili, atte ad accompagnare, con superficiali cambiamenti, «l'incertezza e il movimento eterni» che «contraddistinguono l'epoca borghese da tutte le altre»34. Creativa nel senso di opposta al diffusionismo culturale, al consumismo quantitativo come premessa critica resistenziale di base per dare spazi, all'insoddisfazione, al bisogno del nuovo e del diverso; come allenamento al perseguimento di fini non banalizzati e di autentica trasformazione; come modo di essere creativi rispetto alla passività indotta. Globale, infine, nel senso di opposta alle settorializzazioni di comodo (cominciando dalle dicotomie di «lavoro» e di «tempo libero», di «politica» e di «cultura») che tutti sappiamo quali pseudoproblemi abbiano provocato, come impegno che sappia reciprocamente reintegrare il politico nel culturale e il culturale nel politico, che sappia risarcire l'unità dell'uomo nella classe oggettiva cui appartiene per un superamento del classismo e dei suoi derivati. La partecipazione culturale per lo «sviluppo intellettuale della classe operaia» non può essere, dunque, che disfunzionale a quella «partecipazione» svuotante che il sistema attua con la dovizia dei suoi mezzi; non può essere che oppositiva a qualunque utilizzazione degli stessi moduli che, nella prassi imitativa indotta dalle attuali strutture sociali, possono venir praticate per lo stesso fine dello sviluppo intellettuale della classe operaia; un fine che diviene sedicente, in quanto contraddetto da metodi svuotanti, passivizzanti, settoriali che — sotto la spinta di contenuti immediati — costringono ad ignorare l'intero arco dei processi formativi. Concludendo su questo punto, possiamo dire che una funzione innovante dell'educazione degli adulti non solo deve sollecitare a rifiutare la mera diffusione dei prodotti culturali realizzati nell'ambito dei recinti, degli scarsi spazi, riservati alle élites con licenza di espressione; non solo deve servire a trovare metodi e a lottare per il cambiamento di strutture allo scopo di stabilire rapporti di partecipazione culturale responsiva e responsabile tra pubblico e autori e prodotti culturali; non solo deve vanificare ogni tendenza all'indottrinamento di comodo attraverso un proprio proporsi come isola culturale, come proponitrice di metodi, strutture, strumenti di partecipazione culturale illusoriamente non condizionabili. Una funzione innovante dell'educazione degli adulti nella società industriale capitalistica può essere realizzata se i propositi di estensione e di approfondimento della partecipazione culturale non sono finalizzati a tale forma di «partecipazione culturale», ma allo «sviluppo intellettuale» della classe operaia. Non si tratta, evidentemente, di una scelta inedita, nei proponimenti e nei fatti. Essa è molto antica, risale — come ricorda Ross D. Waller35 — agli «emancipatori liberali dell'Europa del XIX secolo (i quali) pensavano, come Tommaso Moro, che gli uomini dovrebbero occupare il loro tempo libero per arricchire la mente e fecero a quel tempo un lavoro bellissimo, preparando con l'educazione degli adulti, una élite nella classe lavoratrice che, in tutti i casi nei paesi nordici, ha svolto un ruolo preponderante nella rivoluzione sociale del nostro tempo». Ma si tratta di una scelta che deve essere maggiormente e più precisamente qualificata rispetto alle finalità che perseguiamo. Se è vero, come abbiamo visto, che l'educazione degli adulti è nata come necessità oggettiva della società industriale capitalistica, noi, oggi, dobbiamo proporci come finalità quella di contribuire al disvelamento di tale necessità oggettiva, quella — in altre parole — di vanificare 34 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, pp. 6061. 35 Cfr. Ross D. Waller, II problema del tempo libero, in «II Protagora» 13, marzo 1961, pp. 10-11. Pagina 20 di 185 quel!'«educazione degli adulti» che copre, dietro una fraseologia non sempre sinceramente umanistica, una realtà di classe. Se è vero, infatti, che nei paesi nordici l'«educazione degli adulti» ha «svolto un ruolo preponderante nella rivoluzione sociale», dobbiamo chiederci — talvolta i paradossi semplificano forse eccessivamente i problemi — come mai l'educazione degli adulti, in quei paesi, non tenda a scomparire come intervento esterno al movimento operaio. Dobbiamo, cioè, interrogarci — ancora, e senza mai ritenerci soddisfatti — sulla rispondenza piena o parziale, coerente o contraddittoria delle scelte che effettuiamo, e, nel caso negativo, rendere tali scelte più adeguate, più conseguenti nel rapporto con le finalità che perseguiamo. Il nostro fine, infatti, non è quello di eternizzare l'«educazione degli adulti» come è stata o come è, ma di contribuire affinchè l'ambiguità del nostro intervento venga dissella in una realtà educativa consapevole e liberante. 3.1.4 Una scelta di prospettiva: lo sviluppo del proletariato Perché orientiamo le nostre scelte verso una educazione degli adulti intesa allo «sviluppo intellettuale della classe operaia»? La motivazione di tale orientamento è precisa e riferibile oggettivamente al processo di sviluppo del proletariato. Non si tratta, vogliamo intendere, di una opzione volontaristica, sulla base di un populistico chinarsi sul popolo, secondo schemi mentali di missionaresimo pedagogico estremamente pervicaci nel nostro campo. Né deve trattarsi dell'esecuzione di un mandato della società industriale capitalistica intenzionata al recupero intellettuale di larghe masse la cui «partecipazione culturale» ad un livello più elevato è indispensabile all'aumento della produttività e del plusvalore, nonché all'estensione della politica dell'integrazione e del consenso. Ed anche questo è uno dei rischi che l'educazione degli adulti spesso corre e dai quali spesso è uscita e rischia di continuare ad uscire vittima e carnefice. Il riferimento oggettivo al processo di sviluppo del proletariato non è — al limite — neppure una scelta aprioristica, dottrinaria. È una constatazione storica inevitabile: è stato possibile annullare l'alienazione totale dell'uomo da se stesso, attraverso un processo che se all'inizio della società industriale capitalistica ha visto lottare «i singoli operai ad uno ad uno»36 ha visto poi società intere «farla finita... con la sua propria borghesia»37. Di fronte a tale processo progressivo che ha portato e porta ad annullare le basi strutturali della società industriale capitalistica, di fronte a tale processo intrinsecamente dinamico che postula innovazione, la nostra scelta non può tendere che verso un'educazione degli adulti tesa a contribuire allo sviluppo intellettuale della classe operaia perché è dimostrato che di «tutte le classi che oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria»38. Certo, è stato necessario un periodo non breve per cominciare ad operare tale mutazione; e, ciò, soltanto in alcune società, con tutte le conseguenze che una convivenza in regime di «guerra fredda», di «coesistenza pacifica» o di guerra vera e propria39 doveva comportare; un processo lungo, sanguinoso, denso di lotte contro strutture capaci di trasformare in continuazione i congegni di sfruttamento sul piano internazionale; un processo 36 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 68. K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 74. 38 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 72. 39 L'attuale crisi economica (l’autore si riferisce alla crisi petrolifera degli anni ’70 ndt) presenta prospettive drammatiche in campo internazionale. 37 Pagina 21 di 185 non immune da gravi contraddizioni, nei tempi lunghi necessari allo sviluppo sociale del proletariato, attraverso i suoi «diversi gradi di evoluzione». Ma tali contraddizioni (o «errori», come talvolta si dice con aria erroneamente penitenziera) verificatisi in un periodo così esteso, in società cosi distanti non sono attribuibili al nuovo che sopraggiungeva o si affermava, alla prassi rivoluzionaria, bensì alla persistenza del vecchio strutturale e culturale. Non sembra esservi un'analisi svolta da critici di società socialiste che possa vertere su errori nell'innovazione reale; inevitabilmente tali analisi finiscono col rimproverare alle nuove società che hanno abolito lo sfruttamento economico dell'uomo sull'uomo i difetti delle società industriali capitalistiche, o delle società precedenti con le loro valenze educative di segno conservativo. Ed è soltanto apparentemente illogico che sia così. È stata, infatti, la difficoltà oggettiva di una totale innovazione culturale (ma non solo culturale) a riprodurre condizioni e processi formativi non liberatóri. Difficoltà attribuibili, da una parte, all'assedio esterno; ma, dall'altra, allo svolgersi dei tempi indispensabili all'innovazione culturale. Non aveva detto, con piena consapevolezza, Lenin stesso che il « problema culturale non può essere risolto con la stessa rapidità dei problemi politici e militari»? 40 Se siamo certi che una reale innovazione culturale può provenire soltanto da una mutazione strutturale dell'attuale società industriale, se la capacità di cambiare è attribuibile al proletariato perché le «altre classi decadono e periscono con la grande industria, mentre il proletariato ne è il prodotto più genuino»41, se riteniamo che le contraddizioni di un sistema innovato strutturalmente discendano anche dalla persistenza di prassi conservative o imitative di culture passate preesistenti o coesistenti, la nostra scelta di operare per lo sviluppo intellettuale della classe operaia appare come l'unica funzionale ad una educazione degli adulti rinnovata nelle sue finalità e nei suoi metodi e, quindi, capace di contribuire all'instaurarsi di processi formativi non contradittòri. D'altra parte, è soltanto in una società dove non regni la necessità del profitto che i valori delle piccole comunità, le tradizioni stesse, e le possibilità di partecipazione reale alle scelte, l'organizzazione sociale e politica, i bisogni individuali possono trovare occasione e campo di espressione e di autoregolazione. Qui il ritmo di conservazione e di innovazione può battere il suo tempo a misura umana: i pregiudizi cederanno il campo alle analisi scientifiche, le repressioni alle prevenzioni, la creatività nell'organizzazione sociale farà scomparire le parole stesse, indicative di pratiche sociali dei duri, precedenti secoli dominati da signori e da dogmi. Qui la necessità dell'«educazione degli adulti» scomparirà per cedere il posto a processi formativi che saranno consustanziali allo svolgimento della vita; da tali processi liberatori scaturiranno le innovazioni essenziali, le vere risposte a problemi per i quali, oggi, ci sembra impossibile trovare soluzioni adeguate e per i quali, tanto spesso, si ricorre a forme «educative» — anche nell'età adulta — ereditate, senza alcun correttivo sostanziale, dalle epoche e dalle società più oscure. Non si tratta di profezie; laddove «le contraddizioni in seno al popolo»42, sono affrontate e risolte per tali, distinguendole da quelle «tra il nemico e noi», i processi formativi innovanti sono già iniziati. 40 Cfr. M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 236. Il brano è tratto dal Rapporto al II Congresso pan-russo dell'educazione politica su La Nuova Politica Economica e i compiti dei Politprosvet (Centri di educazione politica), tenutosi dal 17 al 27 ottobre 1921. Cfr. Lenin, La costruzione del socialismo, Roma, Rinascita, 1956, pp. 185-202 41 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 72. 42 E, cioè: «le contraddizioni in seno alla classe operaia, le contraddizioni in seno alla classe contadina, le contraddizioni tra gli intellettuali, le contraddizioni che oppongono gli operai e i contadini agli intellettuali, le contraddizioni che oppongono gli operai e gli altri lavoratori alla borghesia nazionale, le contraddizioni in seno alla borghesia nazionale, ecc. Il nostro governo popolare rappresenta veramente gli interessi del popolo, è un Pagina 22 di 185 3.1.5 Creatività e intervento culturale La nostra scelta per il «processo di sviluppo del proletariato» e per «lo sviluppo intellettuale della classe operaia» è collegabile ad un altro riferimento oggettivo alla crisi strutturale della società industriale capitalistica rispetto alla creatività, ed ai modi di restituire ampio respiro ai procedimenti creativi rispetto alla prevalenza schiacciante dei prodotti creati. Si tratta di un riferimento ampliamente verificato e verificabile nell'epoca della riproducibilità tecnica dell'arte (e cioè del campo ove la creatività assume valore addirittura emblematico), e non staremo a ripeterci. Si è già detto che una funzione dell'educazione degli adulti rispetto ai prodotti creati può essere soprattutto quella di sollecitare e organizzare processi formativi per una capacità di risposta, di critica, di riappropriazione. E, pur se attraverso tali procedimenti di responsabilizzazione, è impossibile prescindere da una capacità creativa (per cui consideriamo questa come una delle vie per contribuire alla mutazione delle strutture, già predisponendo atteggiamenti nuovi rispetto ai mezzi culturali che la società industriale pone a nostra disposizione) tuttavia ciò non basta. La resistenza e la difesa sono indubbiamente educative e creatrici, ma talvolta, in particolare in alcuni settori, abbassano il livello delle nostre capacità creative alla virtualità dello specchio nemico, di fronte al quale veniamo a trovarci. Possiamo, così, ritrovarci con quell'oleografia, con quella declamazione, con quella sintesi scientifica affrettata che soltanto il fervore e l'urgenza della battaglia inducono a ritenere compiuta manifestazione delle nostre capacità creative più profonde. Se vi sono ostilità naturali ancora avvolte nel mistero (per cui possiamo affermare che, oggi, soltanto tendenzialmente: «l'uomo riproduce l'intera natura»43 ), nessun mistero avvolge i rapporti di produzione ed i limiti che da essi scaturiscono per la creatività; da questo punto di vista «la preistoria della società umana» si avvia a conclusione («I rapporti di produzione borghesi - scriveva esattamente Marx — sono l'ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che scaturisce dalle condizioni sociali di vita degli individui. Ma le forze produttive sviluppantisi nel seno della società borghese creano al tempo stesso le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si conclude, quindi, la preistoria della società umana»44 ). governo al servizio del popolo; ma tra esso e il popolo esistono ugualmente delle contraddizioni. Queste contraddizioni comprendono quelle esistenti tra gli interessi dello Stato, della collettività e dell'individuo, tra la democrazia e il centralismo, tra chi dirige e chi è diretto, tra certi funzionari dello Stato che praticano uno stile di lavoro burocratico e le masse popolari. Anche queste sono tutte contraddizioni in seno al popolo. In generale, le contraddizioni in seno al popolo si basano sull'identità fondamentale degli interessi del popolo». Cfr. Mao Tse Tung, Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo, 27 febbraio 1957, Pechino, Casa editrice in lingue estere, 1967, p. 3. 43 «La pratica produzione di un mondo aggettivo, la lavorazione della natura inorganica — scriveva Marx — è la conferma dell'uomo come consapevole ente generico, cioè ente che si rapporta al genere come al suo proprio essere ossia si rapporta a sé come ente generico. Invero anche l'animale produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche ecc. Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente per sé o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l'uomo produce universalmente; produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà dal medesimo. L'animale produce solo se stesso, mentre l'uomo riproduce l'intera natura; il prodotto dell'animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l'uomo confronta libero il suo prodotto». Cfr. Per la critica dell'economia politica con l'aggiunta di un capitolo finale sulla filosofia di Hegel, in Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, pp. 199-200. Cfr. anche Marx e Engels, Sull'arte e la letteratura, Milano, Cooperativa del libro popolare, 1954, pp. 7-8. 44 K.Marx-F.Engels, Sull'arte e la letteratura, Milano, Cooperativa del libro popolare, 1954, p. 2. Pagina 23 di 185 I limiti alla creatività possono, dunque, essere dissolti purché tale liberazione avvenga attraverso una mutazione strutturale che annulli le fondamenta stesse per ogni eventuale riedificazione di strutture comportanti limitazioni. Tale mutazione può avvenire ad opera del proletariato il quale può «impossessarsi delle forze produttive sociali soltanto abolendo il loro modo di appropriazione attuale e con esso l'intiero attuale modo di appropriazione», al contrario di tutte le classi che «finora s'impossessarono del potere» cercando di «assicurarsi la posizione raggiunta assoggettando tutta la società alle condizioni del loro guadagno»45. Non, dunque, del «potere» per il proprio «guadagno», ma delle «forze produttive sociali» per abolire «l'intiero attuale modo di appropriazione». Sappiamo bene che il rapporto tra annullamento delle basi limitanti e sviluppo della creatività non è, in generale, immediato; sappiamo bene che negli stadi di passaggio ci troveremo ancora di fronte al problema oggettivo dell'utilizzazione dei mezzi e strumenti culturali ingenti quanto ambigui che la stessa società industriale pone a disposizione. Sappiamo ancor meglio, d'altra parte, che tali problemi esistono nella società capitalistica, dove le basi strutturali sono operanti per piegare ai fini conservativi e del profitto (industria culturale compresa) le stesse potenzialità, in astratto, liberatorie dell'arte. Sappiamo infine che proprio qui l'educazione degli adulti può avere una funzione specifica. In proposito, dobbiamo tener conto di una realtà che, se postula processi lunghi e tortuosi, richiede anche, proprio per questo, chiarezza di intervento per accelerare i processi di sviluppo, e non per rallentarli, come spesso accade, piegandosi ai voleri sottintesi della conservazione. La durata educativa non può essere un alibi. Uno degli elementi caratterizzanti di tale realtà è costituito dalle necessità soggettive di recupero: delle privazioni secolari, delle tensioni quotidiane. Un bisogno che sarebbe profondamente errato interpretare, o limitarsi aristocraticamente ad interpretare, in chiave di rozzezza dei «gusti» che l'industria culturale costituisce e predetermina. Un bisogno orientato che, ad es., spiega certe grandi quantità (gli abbonamenti alla radiotelevisione, le frequenze ai cinema, la motorizzazione, le vendite dei dischi di musica leggera, le tirature dei rotocalchi, l'aumento dei viaggi attraverso i treni e gli aerei) e determinate esiguità (le frequenze ai musei, alle biblioteche, le tirature dei quotidiani e delle pubblicazioni specializzate, la diffusione della musica classica); ma un bisogno che non deve essere staticizzato e inserito in una visione eterna della realtà, una realtà che — per noi — è momentanea, che presenta nel suo dinamismo i motivi di sviluppo che bisogna saper leggere, per i quali l'educazione degli adulti deve saper lottare con il movimento operaio. Dinanzi a tale fenomeno, certo capace di rallentare l'espandersi di capacità creative, l'intervento culturale ha una pesante responsabilità. La sua presenza attiva è indispensabile per accelerare i processi di sviluppo intellettuale nella misura in cui propone e predispone modi innovativi di recupero, tenendo presente che l'intervento deve essere tempestivo affinché il recupero non divenga assuefazione, che — infine — il nostro compito essenziale è quello di contribuire a promuovere il massimo delle condizioni di creatività intellettuali e sociali. 3.1.6 Strutture e occasioni culturali nella società industriale capitalistica Nella società industriale capitalistica, le condizioni di creatività tendono a scemare in proporzione inversa all'aumento delle condizioni di fruizione. 45 K,Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti,Roma,Editori Riuniti,1969,pp.73-74. Pagina 24 di 185 Soltanto le personalità eccezionali riescono ad esprimere il meglio delle loro possibilità creative, e, per lo più, o la loro educazione nell'età giovanile si è svolta in condizioni oppositive particolarmente favorevoli, o le scelte nell'età adulta sono maturate non attraverso un pensiero genericamente divergente, ma sulla base di un'opposizione precisa, di un rifiuto totale delle strutture condizionanti attraverso il cui fuoco si è riusciti a passare. Nella generalità, ognuno può constatare lo spreco enorme di energie, di genialità, di slancio; spreco che talvolta fa apparire la società industriale — irta di grattacieli, di stadi, rumorosa di juke-box, carica di immagini fluenti — come una immensa «terra desolata». Lo spreco è parte integrante del consumismo; l'utilizzazione delle energie, per converso, può essere rischiosa. Se una minima parte, infatti, della ricchezza deve essere ridistribuita affinché la macchina possa funzionare, il controllo della macchina, il potere, non può correre l'alea di essere posto in crisi — a lungo andare — dall'aumento di opposizione che scaturirebbe, nel modo più articolato ed in tutti i settori dal culturale al sociale, da eventuali condizioni ottimali di creatività. Lo sviluppo delle condizioni di creatività, dunque, è compito essenziale dell'educazione degli adulti nei limiti oggettivi che la società industriale capitalistica pone, ma, anche, nelle contraddizioni, nei varchi che le stesse strutture sono costrette a presentare. Tali possibilità appaiono — fin dall'età giovanile — nell'aumento della scolarizzazione e — con riferimento all'età adulta — nell'utilizzazione degli strumenti di comunicazione, negli investimenti dell'industria culturale e nella commercializzazione dei prodotti culturali, nella necessità stessa di costituire strutture culturali (biblioteche, centri culturali, teatri, circuiti per audiovisivi, musei ecc.). Sono ben note le necessità di funzionamento che spingono la società industriale a ridistribuire una parte minima, peraltro, della ricchezza nell'istituzione di strutture culturali; il fine della produttività massima sollecita un intervento sul «fattore umano», sull'uomo reificato, affinché renda al massimo delle sue possibilità. Si tratta della stessa necessità oggettiva che, come si è visto, fu all'origine dell'educazione degli adulti all'alba della grande industria; la logica è uguale, anche se i mezzi sono aumentati in proporzione alle necessità di qualificazione della forza-lavoro. Rispetto a tale logica, vi sono — per usare termini impropri, ma aderenti a spiegarsi in poche righe — una strategia ed una tattica del movimento di educazione degli adulti nella società industriale capitalistica, e l'una non deve mai essere confusa con l'altra. Della prima — che identifichiamo con la politica culturale — ci occuperemo più avanti, nell'ambito di un discorso più generale sul rapporto tra istituzioni pubbliche ed educazione degli adulti46. Diciamo soltanto che dobbiamo porci in modo antagonistico rispetto all'istituzione e alla gestione delle strutture culturali; è necessario considerare, cioè, tali istituzioni non in assoluto, come templi della cultura, ma in rapporto alla funzione liberatoria che in un determinato ambiente e, soprattutto, in relazione ad un determinato pubblico, si pensa possano svolgere. Non sono le stanze di riunione, o i film, o i libri, o i quadri che spalancano le porte alla nuova cultura, ma i procedimenti, l'uso che il pubblico (un pubblico capace d'identificarsi socialmente e politicamente) riesce a conquistare nella battaglia culturale cui la società industriale lo impegna, in ogni momento. La nostra tattica rispetto alle strutture culturali ci fa muovere, talvolta, come gli operai ai primi « gradi di evoluzione» (i quali «non rivolgono soltanto i loro attacchi contro i rapporti borghesi di produzione, ma li rivolgono contro gli stessi strumenti della produzione; essi distruggono le merci straniere che fanno loro concorrenza, fanno a pezzi le macchine, incendiano le fabbriche, tentano di riacquistare la tramontata posizione dell'operaio del Medioevo47»). 46 47 Cfr. il capitolo «Istituzioni pubbliche ed educazione degli adulti». K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 68. Pagina 25 di 185 E le analogie con alcune tendenze di luddismo culturale sono trasparenti a sufficienza perché convenga insistervi. Una tattica fruttuosa, invece, deve consentire di porsi quotidianamente in reale contrapposizione con le strutture condizionanti; nella misura in cui queste si propongono la strumentalizzazione culturale (e, infatti; «ogni cosa sacra viene sconsacrata»48), l'educazione degli adulti deve sapersi porre in rapporto operativo con le strutture culturali in modo da mutare il loro indirizzo, da defunzionalizzarle rispetto alle finalità deformanti di partenza, da ricostruirle come palestre di antagonismo politico, da rielaborarle quali occasioni di creatività. Ma, detto questo, bisogna precisare che al movimento operaio non interessano, di per sé, in assoluto e in astratto le strutture culturali, come istituzioni che, per forza propria, possano trasformare il mondo; al massimo, esse possono giovare alla conoscenza del mondo; ma, come sappiamo, le finalità di conoscenza e di trasformazione non sempre coincidono. Negli equivoci, appunto, della conoscenza superficiale, le strutture culturali possono anche risultare, al limite della mistificazione, gabbie culturalistiche, specchietti dell'acculturazione, modesti spiragli per la nuova piccola borghesia, sfogatoi di umori adolescenziali. Le strutture culturali che la società industriale è costretta ad istituire interessano il movimento di educazione degli adulti in relazione al pubblico con il quale si è scelto di operare, in relazione cioè alla forza contestativa che il movimento operaio nel suo complesso dimostra per mutare, nella prassi, la funzione attribuita alle istituzioni dalle agenzie del potere. Sulla base di questa scelta fondamentale, e delle decisioni operative che da essa conseguono, l'educazione degli adulti non deve essere coinvolta in iniziative che corrispondono a precise necessità della società industriale capitalistica; essa è interessata — invece — all'istituzione e alla gestione democratica di strutture culturali; ne sollecita anzi, nonostante la natura problematica, l'impianto e il funzionamento. Ma, anche quali operatori culturali, dobbiamo essere sempre molto cauti nell'attribuire eccessiva importanza modificatrice alle strutture culturali, perfino a quelle che un pubblico organizzato sia riuscito pienamente a trasformare facendo di uno strumento caduto, non a caso, dall'alto, un proprio strumento di liberazione. Dobbiamo sempre avere presente, infatti, che la modestia dell'intervento educativo (non principio determinante, ma elemento inerente ad un complesso globale di fenomeni) non permette esaltazioni fuori luogo; dobbiamo essere contrari a generalizzazioni sproporzionate circa le valenze del lavoro culturale che possono ingenerare illusioni circa le capacità di modificazione attraverso il solo nostro impegno. Anche gli interventi culturali apparentemente più innovanti possono rischiare di far rientrare nel gioco delle permissività, concesse dalle strutture economiche egemoni, lo slancio di un gruppo, di un'ora, di un'isola in un ambiente distratto. O, addirittura, di farlo strumentalizzare. 3.1.7 Una politica dell'educazione degli adulti È evidente, da quanto precede, che porre il problema dell'educazione degli adulti in relazione con la società industriale significa affrontare e tendere a risolvere esplicitamente quello di una politica delle strutture e delle istituzioni nel campo specifico. Ma teniamo presente che l'educazione degli adulti è soltanto la parte di un tutto che si chiama educazione permanente; di un tutto che, globalmente, scaturisce dai rapporti di produzione esistenti in questa società; di un movimento politico, nel senso più aperto, che si 48 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 61. Pagina 26 di 185 propone di modificare l'attuale organizzazione classista, secondo linee innovatrici sempre più largamente condivise. Ed è da queste prospettive globali che l'argomento potrebbe essere compiutamente affrontato. È nostro compito, tuttavia, sollecitare l'esplicitazione di linee capaci di affrontare le contraddizioni politiche che ognuno avverte nel campo dell'educazione degli adulti; è nostro dovere esprimere un punto di vista circa i temi dell'educazione in età adulta, temi che — nell'ambito della politica culturale dello schieramento democratico — ci sembra debbano essere affrontati nella loro urgenza, nella loro specificità e, possiamo aggiungere, nella loro drammaticità. È inutile premettere che il nostro discorso è diretto non certo a quelle forze che all'interno del movimento operaio già praticano educazione degli adulti attraverso tutti i mezzi reperibili e disponibili, ma a quanti nello stesso movimento educativo, non abbiano ancora affrontato compiutamente la questione onde promuovere, nelle presenti condizioni, una propria, lineare azione oppositiva, onde poter opporre educazione a educazione, finalità a finalità, metodi a metodi, strumenti a strumenti, tecniche a tecniche, onde non lasciare sguarnito un terreno importante di lotta o, peggio ancora, come talvolta accade, onde non muoversi in modo non riconoscibile nettamente, quando in modo addirittura mimetico rispetto alle strutture prevalenti. In effetti, se riteniamo che nella società industriale esistano problemi di educazione adulta in misura e in modi mai conosciuti in altre epoche, dobbiamo verificare quali sono in proposito i nostri atteggiamenti politici. Una domanda da rivolgerci — ad esempio — riguarda il modo in cui ci poniamo in rapporto (e poniamo altri in rapporto) con i prodotti culturali, tra essi comprendendo non solo quadri, libri, musica, ma la scienza e l'educazione stessa. La risposta, verificabile nella pratica quotidiana — e non nella falsa coscienza, o nella pura teoria —, ci indica che già nell'uso del linguaggio il nostro atteggiamento è legato ad un rapporto feticistico ed erroneamente gerarchico; ci mostra che in molti atteggiamenti il mondo delle idee e dei prodotti culturali è capziosamente scisso dalla condizione umana, e realisticamente umana; ci denuncia che la nostra sollecitazione primaria ed immediata e unidirezionale in questo rapporto non è di spiegare l'uomo al prodotto, ma il prodotto all'uomo; non è di conoscerci per trasformarci, ma di conoscere la qualità della nostra contemplazione. Altre domande potremmo porci, ed una esemplificazione estremamente lunga potrebbe corredare queste osservazioni che non intendono farci entrare nella casistica o nell'aneddotica dei nostri atteggiamenti e comportamenti quotidiani; esse tendono soltanto a richiamare l'attenzione, a riflettere, sulla considerazione che, nella pluralità delle culture politiche, spesso scegliamo proprio quelle più respingenti, meno progressive, incapaci di avviare processi educativi liberatori. Con un'affermazione che forse può scandalizzare, potremmo dire che nella pratica dell'educazione nell'età adulta siamo ancora ad un livello politico premoderno. Nel nostro settore, non è ancora avvenuta, in senso proprio, la rivoluzione pedagogica che ha visto nell'educazione dell'età infantile il rovesciamento di prospettiva: dal bambino oggetto al bambino soggetto di educazione49. Se è vero che anche per i problemi dell'educazione nell'età infantile la rivoluzione pedagogica non è ancora compiuta nei fatti (le strutture scolastiche, le strutture sociali condizionate non riescono a liberare tutte le energie latenti), possiamo dire che per i temi dell'educazione nell'età adulta la rivoluzione andragogica non è neppure iniziata, almeno in via diretta. Non solo nella pratica quotidiana, dove le pigrizie (usiamo eufemismi) e i condizionamenti possono giocare brutti scherzi, ma nelle stesse impostazioni teoriche — dove si ritiene di godere d'un margine maggiore di distacco —, talvolta esprimiamo o ascoltiamo 49 Cfr. capitolo “prospettive dell’educazione degli adulti”, quando riprenderemo questo problema, a proposito dei compiti e delle prospettive dell'educazione degli adulti, sulla base di alcune osservazioni di L. Borghi Pagina 27 di 185 affermazioni che comprovano questa drammatica realtà che postula con urgenza un cambiamento. A causa di questa nostra arretratezza di concezioni, a causa di questa rivoluzione mancata, nella prassi educativa degli adulti ci troviamo sprovveduti. E chiedersi il perché di tale mancato sviluppo politico, nonostante la spinta a cambiare che proviene dal movimento operaio, significa compiere un'autoanalisi indispensabile quanto impietosa. Oggi molto appare, almeno teoricamente, più comprensibile; ma a nulla può servire una chiarezza astratta e non verificabile; a nulla, evidentemente, ai fini di una rivoluzione andragogica. È necessario che l'educazione degli adulti, come movimento in estensione di forze e di possibilità d'intervento, colga l'occasione che i motivi di sviluppo emergenti offrono. È urgente che essa non spieghi se stessa, la propria necessità di esistere in relazione al passato, ma in vista di nuove prospettive, che essa trovi — al limite — il modo di contribuire al proprio annullamento in una società diversa. Sono discorsi molto evidenti anche nella pratica, come può verificare ogni operatore culturale nel proprio lavoro quotidiano, nel rapporto con operai e contadini. Manca, tuttavia, la possibilità di utilizzare pienamente metodi e strumenti; manca un rapporto sostanziale che può essere impostato su nuove basi soltanto attraverso quell'innovazione dell'educazione degli adulti che i tempi richiedono. Si tratta di un'innovazione per la cui realizzazione la nostra società può giovarsi del contributo degli operatori culturali stessi, delle istituzioni e delle associazioni che hanno introdotto e impostato in Italia finalità e metodi dell'educazione degli adulti, dell'università che oggi inizia ad interessarsi in modo più sistematico al problema. Ma una rivoluzione andragogica - che, in ogni campo, porti realmente a spostare il discorso dall'adulto come oggetto all'adulto come soggetto educativo —, potrà essere realizzata nella società industriale soltanto dal movimento operaio, nella coerenza del proprio impegno politico, della sua storia e delle sue prospettive. Attraverso le sue strutture organizzative di partito e di sindacato. Attraverso una politica esplicita e verificata dell'educazione agli adulti. Pagina 28 di 185 3.2 Il Lavoro e problemi educativi dell'età adulta 3.2.1 Le valenze creative del lavoro Come diceva Engels nella Dialettica della natura, il lavoro è la fonte di ogni ricchezza, accanto alla natura che offre al lavoro la materia greggia che esso trasforma in ricchezza. «Ma il lavoro — soggiungeva Engels — è ancora infinitamente più di ciò. È la prima, fondamentale condizione di tutta la vita umana; e lo è invero a tal punto, che noi possiamo dire in un certo senso: il lavoro ha creato lo stesso uomo...»50. Esaminando lo sviluppo dell'uomo da un'ipotesi che permette di vedere l'interazione tra bisogni e sviluppo delle capacità umane di soddisfarli, siamo indotti a considerare i problemi educativi dell'età adulta da un'angolazione propria, specifica, coerente. L'esigenza di ricollocare i temi educativi nell'ambito di un'impostazione che sottolinei le valenze creative del lavoro, scaturisce dal rifiuto di una pratica impropria che tende a scindere il lavoro dalla realtà formativa, ad isolare la considerazione del lavoro — preso soltanto come «fattore» assieme ad altri — dalla globalità dei processi educativi, sminuendo il rilievo sostanziale e primario del lavoro stesso. Sul ceppo tutt'altro che vitale di una siffatta diminuzione germinano, necessariamente, orientamenti troppo contraddittori perché sia possibile utilizzarli in senso innovativo. Seguendo tali indirizzi, da una parte ci troviamo talvolta ad orientarci sulla base di un privilegiamento agnostico dell'intervento educativo, posto come esterno alle realtà conflittuali che scaturìscono proprio dalle condizioni materiali, dai rapporti di produzione e — infine — dai processi educativi di questa realtà. Dall'altra, saremmo spinti a dover prescindere dalle valenze educative globali, ed a considerare soltanto alcuni aspetti relativi al livello occupazionale, rivendicativo, economicistico, ma non in riferimento alle valenze creative del lavoro stésso. Chiedersi il perché di tali impostazioni significa ripercorrere l'iter storico, dalle origini, dell'educazione degli adulti e valutare — come si è accennato — la sua ambiguità strutturale; tale analisi può agevolmente condurre a comprendere il ruolo di ausilio alla conformità che essa 50 F. Engels, Dialettica della natura, Roma, Rinascita, 1955, pp. 162-167. Come nota M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 129: «L'interesse che essa presenta per la pedagogia risiede, oltre che per il rapporto che vi si istituisce tra dialettica e scienze naturali, anche per il tentativo di collocare lo sviluppo dell'uomo, e con esso, ovviamente, il problema dell'educazione, in una prospettiva in cui storia naturale e storia umana vengono considerate unitariamente». Per determinare il senso educativo del lavoro nella società capitali stica, tener presente quanto scriveva lo stesso Engels ne La situazione della classe operaia in Inghilterra cit., pp. 138-140: «Non c'è quindi neppure da meravigliarsi se gli operai, trattati come bestie, o divengono veramente tali o riescono a conservare la coscienza e il sentimento della propria umanità soltanto mediante l'odio più ardente, mediante una perpetua rivolta interna contro la borghesia dominante. Essi sono uomini soltanto fino a che provano ira contro la classe dominante; diventano bestie non appena si adattano pazientemente al loro giogo cercando soltanto di rendersi piacevole la vita sotto il gioco, senza voler spezzare il giogo stesso. Questo è dunque tutto ciò che la borghesia ha fatto per educare la classe operaia...». Ne La sacra famiglia, K.Marx e F. Engels definendo il proletariato come «partito della distruzione*, affermavano che esso «non può sopprimere le proprie condizioni di vita senza sopprimere tutte le inumane condizioni di vita della società attuale, che si riassumono nella situazione. Esso — aggiungevano — non frequenta invano la dura, ma temprante scuola del lavoro»; cfr. La sacra famiglia, ovvero Critica della Critica critica. Contro Bruno Bauer e Consorti, Roma, Rinascita,1954, pp. 39-41. A. Gramsci rilevava: «Quanto più il proletariato si specializza in un gesto professionale tanto più sente la necessità dell'ordine, del metodo, della precisione, tanto più sente la necessità che tutto il mondo sia come una sola immensa fabbrica, organizzata con la stessa precisione, lo stesso metodo, lo stesso ordine che egli verifica essere vitale nella fabbrica dovelavora...» (in «L'Ordine Nuovo», 21 febbraio 1920). Pagina 29 di 185 ha assunto e può assumere oggettivamente quando ci si rifiuti di individuare una specificità al suo operare. Sembra evidente che tale specificità non può essere definita distaccando il lavoro dai processi formativi e accentrando l'attenzione prevalentemente sui temi, le strutture, le modalità, gli strumenti educativi in senso stretto. Ad esempio, considerando l'educazione degli adulti quale un meccanico prolungamento della scuola molto difficilmente si possono enucleare linee d'intervento specifiche. E ciò non solo perché a livello psicologico altri sono i problemi delle età infantile o adolescenziale e altri sono quelli relativi alle età adulte; non solo perché a livello sociologico i giovani hanno, nella nostra realtà, il loro epicentro di apprendimento nella scuola come istituzione delegata alla formazione, mentre gli adulti hanno il loro nucleo essenziale nel lavoro come impegno produttivo, ma perché il lavoro, considerato quale farsi dell'uomo, impregna delle proprie valenze educative la società nel suo complesso, e cioè nelle sue diverse stagioni esistenziali, nei rapporti familiari e sociali, nella dinamicità del suo continuum e delle sue interrelazioni. Se nell'ultimo quindicennio il concetto di educazione permanente è valso a spezzare l'illusione di comodo che la vita fosse divisibile in due tronconi: quello della scuola e quello del lavoro, non dobbiamo ritenere che il prolungamento della prima, sotto forma di educazione permanente, sia di per sé in grado di risolvere i problemi dell'innovazione per un soddisfacimento dei bisogni e dei motivi di sviluppo. Al limite questa nuova illusione può produrre equivoci ancora più gravi; ad esempio quello di teorizzare la necessità di occupare istituzionalmente ogni momento della giornata dell'operaio ad uso, magari, della sua promozione individuale. Bisogna guardarsi, insomma, da una tendenziale forma di mistificazione qual'è quella di trasferire immediatamente alcuni valori e pratiche dal campo dell'età scolare a quello dell'età adulta, come se in tal modo, per via soltanto o preminentemente educativa, si potessero superare le differenze che esistono tra una visione preminentemente pedagogica ed una realtà ben più articolata, tra i contenuti di un'istituzione come quella scolastica e quelli di una fabbrica. È necessario, invece, il contrario: assumere tutte le valenze creative del lavoro e riferirsi costantemente ad esse non solo in relazione ai problemi educativi dell'età adulta, ma a quelli dell'età infantile e adolescenziale. Per chiudere il circolo delle petizioni di principio dobbiamo partire dai rapporti di produzione. 3.2.2 Le condizioni alienanti del lavoro Soltanto assumendo con coerenza questo punto di vista ci è possibile individuare i limiti dell'intervento educativo e il senso della sua potenzialità per contribuire ad una modificazione. I limiti scaturiscono nella società dal «lavoro alienato», dalla «divisione capitalistica del lavoro». Anche «noi partiamo da un fatto economico, attuale»51 con il Marx dei Manoscritti, evitando di «trasferirci come l'economista politico, quando vuole spiegarsi, in un inventato stato originario» perché «Un tale stato originario non spiega niente. Sposta semplicemente la questione in una grigia nebulosa lontananza»52. «L'operaio — constatava, dunque, Marx — diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza e estensione. L'operaio diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci. 51 52 K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 194. K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 194. Pagina 30 di 185 Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavoratore come una merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere»53. Ma l'alienazione non si mostra solo nel risultato, nel rapporto coi prodotti del suo lavoro, «bensì anche nell'ago della produzione, dentro la stessa attività producente. Come potrebbe l'operaio confrontarsi come un estraneo col prodotto della sua attività, se egli non si è estraniato da se stesso nell'atto della produzione stessa? Il prodotto — risponde Marx — non è che il résumé dell'attività, della produzione. Se, dunque, il prodotto del lavoro è la espropriazione, la stessa produzione dev'essere espropriazione in atto, o espropriazione dell'attività, o attività di espropriazione»54. L'espropriazione del lavoro consiste in questo: «che il lavoro resta esterno all'operaio» (e cioè: «l'operaio non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito»)55; in secondo luogo, che il lavoro dell'operaio «non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo» («Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni ad esso»)56; infine, «L'esteriorità del lavoro al lavoratore si palesa in questo: che il lavoro non è cosa sua ma di un altro; che non gli appartiene, e che in esso egli non appartiene a sé, bensì a un altro»57. «Il risultato è che l'uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali» che «sono in effetti anche schiette funzioni umane, ma sono bestiali nell'astrazione che le separa dal restante cerchio dell'umana attività e ne fa degli scopi ultimi e unici»58. Oltre al rapporto dell'operaio col prodotto del lavoro e a quello con l'atto di produzione nel lavoro, vi è una terza caratteristica del lavoro alienato: «Poiché il lavoro alienato 1) aliena all'uomo la natura, e 2) aliena all'uomo se stesso, la sua attiva funzione, la sua attività vitale, aliena così all'uomo il genere; gli riduce così la vita generica ad un mezzo della vita individuale. In primo luogo estrania l'una all'altra la vita generica e la vita individuale, in secondo luogo fa di quest'ultima nella sua astrazione lo scopo della prima, parimenti nella sua forma astratta e alienata»59. Proseguendo, Marx si chiede: «Se il prodotto del lavoro mi è estraneo... Se la mia propria attività non mi appartiene... a chi appartiene allora?»60. E risponde: «A un ente altro da me» che non è la Divinità e «Tanto meno la natura»; poiché, aggiunge, «il rapporto dell'uomo a se stesso è aggettivo e reale soltanto per il rapporto dell'uomo agli altri uomini»61, quando egli sta in rapporto «al prodotto del suo lavoro, al suo lavoro oggettivato, come ad un oggetto estraneo, nemico, possente, da lui indipendente, sta in rapporto ad esso così perché un altro uomo, a lui estraneo e nemico, possente, indipendente da lui, è il padrone di questo oggetto. Quando egli si riferisce alla sua propria attività come ad un'attività non libera, si riferisce a essa come ad un'attività al servizio, sotto il dominio, la costrizione e il giogo di un altro uomo»62. Aggiunge, quindi, che «Attraverso il lavoro alienato l'uomo non istituisce, dunque, soltanto il suo rapporto con l'oggetto e con l'atto della produzione come con un uomo estraneo 53 K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 194. K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 197. 55 K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 197. 56 K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 197. 57 K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 197. 58 K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 197. 59 K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 199. 60 K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 201. 61 K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 201. 62 K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 202. 54 Pagina 31 di 185 e nemico, ma istituisce anche il rapporto in cui altri uomini stanno con la sua produzione e il suo prodotto, ed il rapporto in cui egli sta con questi altri uomini...»63, fino a definire la proprietà privata come «il prodotto, il risultato, la necessaria conseguenza del lavoro espropriato»64. «Abbiamo certamente ricavato il concetto del lavoro espropriato (della vita espropriata) dall'economia politica come risultato del movimento della proprietà privata. Ma — spiega Marx — nell'analisi di questo concetto si mostra che, mentre la proprietà privata appare come ragione e causa del lavoro espropriato, essa è piuttosto una conseguenza di quest'ultimo, così come gli Dei sono in orìgine non causa ma bensì effetto dello smarrimento dell'intelletto umano. Poi questo rapporto si rovescia in un effetto reciproco. Solo all'ultimo punto culminante dello sviluppo della proprietà privata questa mostra di nuovo in risalto il suo segreto: cioè che, da una parte, essa è il risultato del lavoro espropriato, e secondariamente ch'essa è il mezzo col quale il lavoro si espropria, la realizzazione di questa espropriazione»65. Il manoscritto sul lavoro alienato, sul finire, presenta, tra l'altro, un problema: «Noi — si afferma — abbiamo accettato l'alienazione del lavoro, la sua espropriazione, come un fatto e abbiamo analizzato questo fatto: ci chiediamo ora come l'uomo giunga a questo, a espropriarsi del suo lavoro, a estraniarsi da esso»66. Nell'Ideologia tedesca, l'alienazione viene spiegata attraverso l'esame della divisione del lavoro, dalla «concreta indagine storico-economica dell'evoluzione della forma sociale in cui con oggettiva necessità si esprime l'attività collettiva degli uomini...»67. Occupandosi dello sviluppo della coscienza come «prodotto sociale» che «tale resta fin tanto che in genere esistono uomini»68, Marx afferma che la «coscienza da montone o tribale perviene a uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriore in virtù dell'accresciuta produttività, dell'aumento dei bisogni e dell'aumento della popolazione che sta alla base dell'uno e dell'altro fenomeno. Si sviluppa così la divisione del lavoro, che in origine era niente altro che la divisione del lavoro nell'atto sessuale, e poi la divisione del lavoro che si produce spontaneamente o " naturalmente" in virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica), del bisogno, del caso, ecc. La divisione del lavoro diventa una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro mentale...»69; «... con la divisione del lavoro si da la possibilità, anzi la realtà, che l'attività spirituale e l'attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo tocchino a individui diversi...»70; «La divisione del lavoro, che implica tutte queste contraddizioni... implica in pari tempo anche la ripartizione, e precisamente la ripartizione ineguale, sia per quantità che per qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, e quindi la proprietà...»71. «Del resto — specifica più avanti — divisione del lavoro e proprietà privata sono espressioni identiche: con la prima si esprime in riferimento al prodotto dell'attività esattamente ciò che con l'altra si esprime in riferimento al prodotto dell'attività»72. 63 K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 202. K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 202. 65 K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 202-203. 66 K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 204. «Questo problema il giovane Marx non lo risolse né nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, né nella successiva Sacra famiglia, scritta insieme con Engels», nota Jurij Davydov, Il lavoro e la libertà, Torino, Einaudi, 1966, p. 66. 67 Jurij Davydov, Il lavoro e la libertà, Torino, Einaudi, 1966, p. 67. 68 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 21. 69 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 21 70 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 22 71 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 23 72 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 23 64 Pagina 32 di 185 Un altro aspetto da considerare circa la divisione del lavoro è che con essa «è data altresì la contraddizione fra l'interesse del singolo individuo o della singola famiglia e l'interesse collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti reciproci; e questo interesse collettivo non esiste puramente nell'immaginazione, come «universale», ma esiste innanzi tutto nella realtà come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è diviso. Appunto da questo antagonismo fra interesse particolare e interesse collettivo l'interesse collettivo prende una configurazione autonoma come Stato»73 che è separato dai reali interessi singoli e generali ma sempre sulla base reale di legami esistenti, «e soprattutto... sulla base delle classi già determinate dalla divisione del lavoro, che si differenziano in ogni raggruppamento umano di questo genere e delle quali una domina tutte le altre...»74. «Appunto perché gli individui cercano soltanto il loro particolare interesse, che per loro non coincide col loro interesse collettivo, questo viene loro imposto come un interesse "generale", anch'esso a sua volta particolare e specifico...»75. E infine conclude Marx: «la divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che fin tanto che gli uomini si trovano nella società naturale» fin tanto che l'attività è divisa non volontariamente ma naturalmente, l'azione propria dell'uomo diventa una potenza a lui estranea, cioè: «appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire»76. La divisione del lavoro, questo «fissarsi dell'attività sociale, questo consolidarsi del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta» è stato — dice Marx — «uno dei momenti principali dello sviluppo storico», momento che può essere superato; (dirà più avanti: «soltanto sotto due condizioni pratiche»). Ma vogliamo sottolineare il fatto che nell'attuale fase, in cui la cooperazione stessa non è volontaria ma naturale: «Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione del lavoro, appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è volontaria ma naturale, non come il loro proprio potere unificato, ma come una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno donde viene e dove va...»77. È stato sottolineato78 che nell'Ideologia tedesca, l'«alienazione» è dedotta dalla «cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione del lavoro». La sua causa è individuata in ciò che «la cooperazione stessa non è volontaria ma naturale». Ed è stato ricavato che «il problema del "superamento" di questa alienazione trapassa nel problema dell'organizzazione di una cooperazione degli uomini che si determini non per forza di natura, ma in modo volontario, consapevole e pianificato». Marx aveva indicato che l'«estraniazione» «può essere superata soltanto sotto due condizioni pratiche. Affinché essa diventi un potere "insostenibile", cioè un potere contro il quale si agisce per via rivoluzionaria, occorre che essa abbia reso la massa dell'umanità affatto "priva di proprietà" e l'abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esistente della ricchezza e della cultura, due condizioni che presuppongono un grande incremento della forza produttiva, un alto grado del suo sviluppo... presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario...»79. 73 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 23. K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 23. 75 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 23 76 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 24. 77 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 24 78 Da Davydov, op. cit., p. 67. 79 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, pp. 24-25. 74 Pagina 33 di 185 D'altra parte è stato notato80 che «finché della forma sociale d'attività degli individui si "appropriano" gruppi sociali più o meno cospicui — le "classi" —, questi organizzano tale attività in modo che essa continui a garantire il loro dominio...», e che «finché lo strato degli uomini che, in modo consapevole o no, si "appropriano" della forma sociale d'attività degli individui (e la "organizzano" conformemente) non coincide con tutta la società nel suo complesso, si ha un'opposizione degli interessi di chi svolge un immediato lavoro e di chi si serve dei risultati dell'attività lavorativa degli individui, determinando la forma di quell’ “opera" comune in cui questi risultati necessariamente sfociano. Il problema si riduce, quindi, a determinare quale classe sociale si "appropria" dei risultati generali dell'attività dei produttori e in quali condizioni sociali se ne "appropria"». Quanto dire, secondo questa inter-pretazione, che il problema non sta tanto nel controllo della forza produttiva sociale, «quanto nella forma sociale in cui questo controllo si realizza, il problema è se una data forma sociale rende possibile un controllo di massa — di tutto il popolo — della forza produttiva di massa oppure no. Poiché soltanto nel caso in cui questo controllo sia realizzato da tutti gli individui partecipanti alla produzione sociale, ne possono trarre vantaggio tutta la società nel suo complesso e ogni suo membro». Ovvero, come dirà Lenin, si tratta di «stabilire l'unico controllo veramente reale, dal basso, attraverso l'unione dei dipendenti, attraverso gli operai»81. A questo punto, chiedersi come o in che misura «gli stessi individui sono preparati — o possono essere preparati — dallo sviluppo oggettivo a realizzare questo controllo veramente di massa e veramente democratico della propria produzione e delle proprie relazioni» significa considerare tale questione come si presenta a Marx, quale «problema delle tendenze di sviluppo della divisione del lavoro sociale e delle prospettive di formazione della persona totalmente sviluppata»82. «Questo motivo ritorna in tutto il corso della ricerca marxista, riproponendo formulazioni analoghe e sempre ricorrenti, in cui all'uomo unilaterale (ovvero, disumanizzato, alienato, estraniato, diviso, parziale, isolato, localmente limitato, privato della propria natura, spogliato di ogni reale contenuto di vita, posto fuori di sé, escluso da ogni manifestazione personale, appropriato a una funzione unilaterale, annesso a una operazione di dettaglio, sussunto sotto rapporti di classe determinati, smembrato, tìsicamente spezzato e spiritualmente abbrutito, ridotto a frammento del suo stesso corpo, rattrappito, minorato, subordinato servilmente, ecc.) si contrappone l'uomo onnilaterale (ovvero universale, totale, multilaterale, sviluppato completamente, pienamente, liberamente, in tutti i sensi, ecc.)»83. Se Marx esamina il problema suesposto esprimendo «una soluzione positiva»84; se è vero che «la pedagogia si presenta come forma e metodo della reintegrazione dell'uomo nel lavoro, in opposizione a un lavoro che ha diviso l'uomo»85, si tratta di studiare le determinazioni attuali di tali fondamentali questioni per quanto riguarda l'educazione nell'età adulta. L'importante è muovere dalla consapevolezza che i limiti e il senso della potenzialità dell'intervento educativo per contribuire ad una modificazione sono strettamente correlati al lavoro e ai suoi problemi nell'ambito di una società industriale a struttura capitalistica. Il dato fondamentale da tener sempre presente consiste nella realtà dei rapporti di produzione che per l'adulto (ma non solo per l'adulto) si presenta con precise valenze educative, permeando della sua globalità formativa tutti gli aspetti e i momenti dell'esistenza. 80 Cfr. J. Davydov, op. cit, p. 71. V.I. Lenin, Socinenija (Opere complete), Moskva 1957-63, vol. 25, pp. 328-29; cit. in J. Davydov, p. 110. 82 J. Davydov, op. cit, p. 73. 83 M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 9. 84 J. Davydov, op. cit, p. 73. 85 M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 9. 81 Pagina 34 di 185 3.2.3 Le condizioni alienanti del cosiddetto «tempo libero» Accanto all'equivoco di considerare l'educazione degli adulti quale un meccanico prolungamento del periodo scolastico, astraendola dalle condizioni del lavoro e privilegiando una sua presunta agnosticità formativa, sussiste un altro equivoco che assume mistificanti coloriture pedagogistiche: quello del cosiddetto «tempo libero». Tale equivoco ha la propria orìgine dal rapporto conflittuale tra i risultati positivi raggiunti dal movimento operaio nelle sue lotte per la diminuzione delle ore di produzione in fabbrica e la tendenza di segno opposto ad impegnare tali spazi nell'orbita dell'accumulazione, della produttività, dell'autoconservazione del sistema. Si tratta di un rapporto estremamente problematico che nella fase e nella situazione attuali non ha possibilità di risoluzione di per sé perché esso rispecchia l'opposizione classista di base; l'opposizione tra lavoro e «tempo libero» come tra diverse pratiche e concezioni del «tempo libero» stesso deve essere quindi esaminata e valutata all'interno di una struttura sociale e politica antagonistica. Se, quindi, deve essere attribuito un valore progressivo alla diminuzione delle ore lavorative in fabbrica, non può essere assegnato, immediatamente, valore progressivo al «tempo» che viene definito «libero». Si tratta di valutarne il valore nell'uso che nelle attuali strutture, qui e oggi, viene effettuato. È stato scritto86, ad esempio, che vivere il «tempo libero» come l'antitesi assoluta del lavoro è soltanto una illusione compensatrice perché il «tempo libero» resta segnato dal lavoro non solo per la fatica quotidiana, ma anche per una tale ricerca dell'insignificanza, per una tale sottomissione a ogni genere di determinazioni esteriori che l'atteggiamento nei confronti del «tempo libero» diviene identico a quella verso il lavoro: passività, irresponsabilità, conformismo, inserimento in una gigantesca macchina; in questo modo, ciò che si ritiene sia contestazione delle condizioni di lavoro risulta essere invece una giustificazione involontaria di ciò che si è subito per necessità nel corso della situazione di lavoro. A noi sembra che un'analisi che muova prevalentemente dal sentimento del «tempo libero» non possa condurci molto lontano, alla ricerca di interventi educativi capaci di contrastare non il sentimento del «tempo libero», ma la realtà classista che è causa dei processi formativi alla passività, all'irresponsabilità, al conformismo, all'inserimento nella gigantesca macchina del lavoro e del «tempo libero» alienati. Dobbiamo, peraltro, rilevare che sono proprio analisi soggettivistiche di analoga drammaticità e provenienza (sono, infatti, quelle analisi che tendono a considerare il «tempo libero» quale «un fenomeno al disopra delle distinzioni di classe e di regime» e che, pertanto, sono portate a ritenere che «un'analisi di classe non ci porterebbe lontano», magari appoggiandosi surrettiziamente sulla non totale risoluzione del problema nelle società socialiste87) a incentivare un flusso di equivoci pericolosi nella catena produttiva della falsa coscienza. Cosi, ad esempio, può accadere che nel momento in cui si drammatizzano i guasti del «tempo libero», la drammaticità della denuncia si capovolge nel grottesco, poiché al fenomeno si attribuisce una valenza positiva in quanto esso attuerebbe «una nuova corrente di valori, nuove correnti di assimilazione, al di fuori dei rapporti tradizionalmente legati alla divisione del lavoro»88. Ora a noi sembra evidente che se di fronte all'ampia fenomenologia dell'industria e del commercio del divertimento riusciamo ad individuare aspetti positivi, questi non sono attribuibili ali'«offerta», ma alla contestazione di tale offerta da parte delle forze, associate o individuali, 86 Cfr. J.-M. Domenach, Loisir et travaii, in «Esprit» n. 274 ( giugno 1959), p. 1104 Ivi, p. 1104: «II s'agit plutót d'un phénomène qui, par dessous les ilistinctions de classe et de regime, pénètre les mentalités...». 88 Ivi, p. 1104. 87 Pagina 35 di 185 che nei confronti del «tempo libero» alienato si comportano come nei confronti del lavoro alienato. Quanto dire, appunto, che il fenomeno di per sé non è neppure valutabile, se non lo poniamo in rapporto all'uso che siamo capaci di farne. Ma, ovviamente, tale uso non è valutabile in termini moralistici, perché questi sono gli sbocchi inevitabili delle analisi che o prescindono dalla realtà dei rapporti di produzione o la aggirano cercando scorciatoie pedagogistiche. Risultano essere inutili, ad esempio, quelle multiformi, sebbene analoghe, concezioni e pratiche del «tempo libero» che, dal più al meno, tendono a distaccare il «momento» del lavoro dal «momento» del «tempo libero», quasi ponendosi di fronte ad una globalità di situazione con l'orologio alla mano, con la pseudoconcreta praticità di chi ritiene di poter ricomporre l'unità dell'operaio sul quadrante del tempo, frazionando le ventiquattro ore quotidiane negli spicchi del lavoro, del «tempo libero», del riposo ecc. Il risultato, ovviamente, non è la ricostituzione dell'individuo per sé e nella società progressiva, ma la sua restaurazione per la produttività nel «lavoro alienato». In sostanza, queste concezioni e pratiche, pur ammantate di nobili propositi, tendono scientemente o inconsapevolmente a estendere alla giornata intera dell'operaio il controllo del cronometrista, lo Scientific Management del taylorismo. Esse sono inutili, dicevamo, in relazione ad una finalità opposta all'«organizzazione del surmenage»; finalità che non può essere raggiunta sia perché, in generale, la divisione del tempo è analoga alla divisione del lavoro, ma anche perché nessuna singola iniziativa di «tempo libero» che prescinda, per scissione, dal «lavoro alienato» può avere reali prospettive di sviluppo, neppure nella sua specificità promozionale. Cosi, non solo le passività dello svago, le diversioni del divertimento ci appaiono chiuse in se stesse, schiacciate al recupero delle forze psico-fisiche, ma anche le attività culturali non possono avere altro respiro al di là di se stesse. Certo questa della cultura fine a se stessa è stata una concezione storica della borghesia illuminata, ma per valutarne la portata educativa attuale è necessario porre in relazione tale ideologia con una realtà da trasformare in molti, più che da godere in pochi. D'altra parte, pur volendo accentrare l'attenzione sul gioco, non possiamo fare a meno di tener conto delle considerazioni negative che Huizinga89 svolgeva rispondendo alla domanda: «Il secolo precedente, a nostro vedere, aveva sacrificato molti di quegli elementi ludici che distinsero tutti i secoli anteriori. Orbene, si è ristabilito quel deficit, o è aumentato invece? ». Rispetto ad un aumento nel nostro secolo di questo deficit, causato — anch'esso — dalla «funzione sommamente rivoluzionaria» della borghesia che «ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache» che «ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell'esaltazione religiosa, dell'entusiasmo cavalieresco»90, nessuno può fingere — se non per tornaconto - che alcunché possa essere autonomo, non interrelato, in un sistema tanto complesso quanto compiuto quale il presente. Rifletteremo ancora su tali problemi, ma intanto ciò che intendevamo sottolineare era il fatto che neppure l'attività culturale apparentemente più disinteressata può sussistere positivamente quando sia considerata e praticata illusoriamente come distaccata o distaccabile dal «lavoro alienato». Tali concezioni e pratiche, dunque, si rivelano per essere non solo inutili, ma nocive al superamento delle condizioni alienanti del lavoro e del «tempo libero» nella misura, almeno, in cui distraggono dai problemi storici e rallentano i processi di acquisizione di consapevolezza, di controllo e di dominio sui fenomeni in atto e in fieri. E ciò non per una scelta volontaristica, ma perché oggettivamente il «tempo libero», da un punto di vista educativo, è il frutto ideologico di una realtà di rapporti di produzione in cui il 89 90 J. Huizinga, op. cit, pp. 241-247. K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 59. Pagina 36 di 185 lavoratore è forza-lavoro; in cui questa capacità produttiva viene sviluppata — non ai fini dell'interesse collettivo — in ogni frazione di secondo dell'esistenza lavorativa, e con ogni mezzo; in cui il capitale variabile rappresentato dalla forza-lavoro deve rendere direttamente o indirettamente plusvalore per la costante crescita del profitto; in cui il «tempo libero» è in realtà un modo di produzione — magari sub specie consumistica — in una realtà globale onnilavorativa 91. Le determinazioni marxiane possono esserci utili per operare verso il superamento delle false antinomie: « 1) Il libero sviluppo delle individualità, e quindi non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare lavoro eccedente, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro". 2) "La vera economia — il risparmio — consiste nel risparmio di tempo di lavoro (il minimo - e la riduzione al minimo — delle spese di produzione); ma questo risparmio è identico allo sviluppo della forza produttiva. Quindi per null'affatto la rinuncia al godimento, ma sviluppo di power, sviluppo della capacità produttiva e quindi sia delle capacità che dei mezzi di godimento". 3) "II risparmio di tempo di lavoro equivale all'aumento del tempo libero, cioè del tempo utilizzabile per il pieno sviluppo dell'individuo che come massima forza produttiva a sua volta reagisce sulla produttività del lavoro. Dal punto di vista del diretto processo produttivo esso può essere considerato come produzione di capitale fisso; questo capitale fisso being man himself". 4) "È evidente che il tempo di lavoro immediato non può restare nella astratta opposizione al tempo libero in cui si pone dal punto di vista dell'economia borghese... Il tempo libero, che è sia tempo per l'ozio sia tempo per un'attività superiore, ha trasformato naturalmente chi ne dispone in un diverso soggetto, e come diverso soggetto esso entra anche nel diretto processo produttivo"»92. Il problema, dunque, per noi è come contribuire nelle attuali condizioni alienanti del lavoro e del «tempo libero», in una realtà onniproduttiva, nei limiti dell'intervento educativo, all'instaurarsi di una forma sociale in cui, capovolgendo gli attuali rapporti, «capitale fisso being man himself», lavoro e tempo libero siano al servizio dell'uomo onnilaterale. 3.2.4 Valenze educative nei problemi attuali del lavoro Il primo impegno per individuare gli sbocchi e i campi d'intervento dell'educazione degli adulti, di fronte alla sfida negativa che le attuali condizioni presentano, è quello teso a individuare le condizioni attuali e locali del lavoro, nell'ambito dei processi di sviluppo e delle loro contraddizioni. Nell'analisi di tali condizioni, nelle particolarità dei vari settori, l'impegno sarà indirizzato ad enucleare le valenze educative di ciascuna realtà di rapporti e di modi di produzione, con i riflessi che tali condizioni hanno nei rapporti sociali e politici, e, quindi, le valenze educative globali che scaturiscono dalle condizioni di lavoro, o di non lavoro. E’ evidente che queste valenze educative sono insite nei rapporti in parola, e non sono manifeste e tanto meno dichiarate; vanno enucleate e rivelate alla luce del sole affinché i processi formativi per l'età adulta, che vengono posti in essere dal sistema, divengano leggibili come i programmi stabiliti per le età scolari. 91 92 Cfr. il capitolo «Pubblico, prodotti culturali e intervento educativo». Cfr. J. Davydov, op. cit, pp. 126-127. Pagina 37 di 185 E come a questi — e alle loro attuazioni — è possibile attribuire un significato rispetto al fine che si propongono, così è essenziale per noi, e deve esser reso possibile concretamente, l'individuare il senso formativo, e il fine, di fenomeni e situazioni che non sono direttamente formativi, come quelli inerenti alle strutture scolastiche, ma che sostanzialmente hanno un rilievo di formazione sociale globale. È, peraltro, dal controllo di questa realtà di formazione sociale globale che si possono valutare le strutture educative formali; queste traggono i modi della loro esistenza dall'articolarsi dei rapporti di produzione. Uno dei compiti essenziali dell'educazione degli adulti è, quindi, quello di estrarre, nel lavoro pratico e nella riflessione sulle esperienze, i significati educativi delle situazioni e dei problemi attuali del lavoro. È evidente che essi sono compresi nelle analisi economiche, inclusi come sono nelle realtà strutturali. Ma si tratta di estrapolarli storicamente, localmente, nella loro specificità formativa. Si tratta, cioè, di comprendere, nel loro realizzarsi quotidiano, i metodi che consentono la formazione della forza-lavoro in quanto tale, che garantiscono il consenso o che permettono di riassorbire il dissenso, che assicurano trasformazioni culturali nei temi più custoditi, che facilitano il permanere nonostante tutto delle possibilità di sfruttamento nei termini più inconcepibili, che legittimano l'emarginazione di individui, di gruppi, di popolazioni. Si tratta in altre parole di comprendere i metodi, le tecniche, gli strumenti, le stesse strutture che, al di là dell'occasione lavorativa, proiettano il rapporto di lavoro in una dimensione formativa prospettica che vale, appunto, per la produzione di uomini-lavoratori93, oltre che per la produzione di oggetti; che vale per il pluslavoro di domani, oltre che per il plusvalore di oggi. Si tratta, per converso, di recepire le valenze educative dell'organizzarsi, dell'operare, del lottare del movimento operaio. Ma, qui, rispetto a finalità antagonistiche, il compito dell'educazione degli adulti è quello di enucleare, comprendere, valutare le procedure e i modi di affermazione del controllo, dell'opposizione, dell'emergere e dello strutturarsi delle prospettive alternative alle attuali condizioni di lavoro. Il passato e il presente delle strutture organizzative operaie e contadine sono una miniera di iniziative creative volte a formare nella lotta e in vista della lotta; è necessario studiare nella situazione specifica la rispondenza delle iniziative ai bisogni formativi che l'articolazione della risposta operaia alle nuove forme di sfruttamento rende sempre più complessi e impegnativi. Nello stesso tempo, bisogna farsi carico dell'analisi rispetto alle valenze educative che posseggono le attività non esplicitamente e non direttamente formative. In particolare, appurare se, come, perché la contestazione operaia alla pressione padronale risulta essere globalmente antagonistica, ovvero se oppositiva soltanto limitatamente al settore e al momento; ciò per definire il senso Ideologico delle valenze educative, la loro rispondenza alle finalità globalmente e prospettivamente liberatorie secondo la tradizione del movimento operaio. Uscendo dagli apprezzamenti generici o autoesaltanti, impegnarsi per individuare i metodi, le tecniche, gli strumenti che impediscono passi indietro e che, invece, producono un «diverso soggetto» capace di contribuire all'instaurarsi di nuove forme sociali. Sembra evidente che soltanto definendo prioritariamente le valenze educative delle condizioni di lavoro e dell'opposizione a tali condizioni è lecito porsi prospettive concrete d'intervento educativo nell'età adulta nel settore specifico del «lavoro culturale», come — del resto — in quelli sindacale e politico. 93 Marx scriveva che «l'uomo, come la macchina, si logora, e deve essere sostituito da un altro uomo. In più della quantità di oggetti d'uso corrente, di cui egli ha bisogno per il suo proprio sostentamento, egli ha bisogno di un'altra quantità di oggetti d'uso corrente, per allevare un certo numero di figli, che debbono rimpiazzarlo sul mercato del lavoro e perpetuare la razza degli operai». Cfr. Salario, prezzo e profitto, Mosca, Edizioni in lingue estere, 1947, p. 48. Pagina 38 di 185 Ma tenendo ben presente che questa priorità non deve essere la ricerca di un a priori teorico, bensì il risultato della pratica educativa, di un conoscere facendo. Dicevamo che il primo impegno nel nostro campo è quello teso a individuare le condizioni attuali e locali del lavoro, estraendo le valenze educative dalle specifiche realtà nelle quali intendiamo operare, dalle contraddizioni economiche sociali ed educative delle tendenze di sviluppo. Ciò significa porsi nel modo più coerente rispetto ai problemi organici dell'età adulta, in quanto è nel lavoro che l'uomo e la donna del nostro tempo si realizzano o, meglio, possono positivamente realizzarsi. Ma questo procedimento non è consueto nella prassi dell'educazione degli adulti che, normalmente, è portata dalle proprie interne ambiguità e contraddizioni ad interrogarsi allo specchio, dando per scontati i problemi di fondo, quasi delle acquisizioni teoriche sulle quali sia inutile ritornare; senza tener ben presente che è il rapporto condizioni di lavoro-condizioni educative nell'età adulta a qualificare di fatto la vitalità del nostro intervento e che è questo rapporto che dobbiamo controllare attivandone le potenzialità di risoluzione; vi è, dunque, per noi, l'impossibilità di prescindere praticamente dal nesso storico lavoro-educazione, pena la sordità, la mancanza di qualsiasi eco sociale ai nostri sforzi e la vacuità dei nostri conati, l'asservimento sostanziale — in realtà — alle ragioni della educazione alla conservazione. Essendo questo procedimento inconsueto, esso presenta difficoltà che dobbiamo porre in evidenza; a tale scopo riesamineremo alcuni fondamentali problemi del lavoro cercando di estrarre alcune valenze educative che attualmente ci appaiono rappresentative delle tendenze in atto. Nei limiti della sintesi cui siamo costretti, cercheremo di estrarre i significati formativi insiti nel rapporto tra il lavoro e lo sviluppo economico, il progresso scientifico e tecnologico, la formazione professionale; altri campi di indagine saranno il lavoro nell'industria, nell'agricoltura, nel terziario; ma sarebbe essenziale considerare le valenze educative nel rapporto tra il lavoro e i fenomeni più macroscopici della nostra società: la stessa disoccupazione, innanzi tutto; l'urbanesimo; l'emigrazione; la condizione femminile e la famiglia. 3.2.5 Valenze educative nel rapporto lavoro-sviluppo economico I temi relativi allo sviluppo economico caratterizzano gli anni dal dopoguerra ad oggi; ma la percezione dei problemi e il modo di affrontarli sono tutt'altro che univoci, a seconda che l'analisi venga svolta nei paesi a economia capitalistica o dall'angolazione neocapitalistica, ovvero dal punto di vista dei paesi socialisti con differenze rilevanti anche tra di essi, ovvero ancora — dall'interesse dei paesi del «Terzo mondo». Nonostante, dunque, la contemporaneità storica dell'argomento che l'opinione pubblica ha recepito con il rilievo e la capillarità di un dato conoscitivo mondiale di cultura economica, pesa sulle soluzioni reali l'opposizione tra paesi «sottosviluppati» e paesi «sottosviluppanti» capitalistici. Ed è più che comprensibile che i primi guardino con estremo sospetto lo stesso concetto di «sviluppo economico», quasi una bandiera del vecchio mondo dietro la quale i secondi nascondono la loro egoistica soluzione alle fluttuazioni cicliche, alle crisi periodiche del sistema; è un amaro scetticismo che somiglia a quello che si nutre verso l'ottocentesco «progresso». Anche qui, infatti, i popoli, le regioni, gli strati sociali sfruttati hanno ragione di chiedersi: «sviluppo economico» per chi? per che cosa?, di fronte alla questione che invece assilla i «sottosviluppanti» ed i loro tecnici economisti: come realizzare lo sviluppo economico senza perdere il profitto? All'interno di una struttura sociale come la nostra, il movimento operaio lotta contro una pratica economica dello sviluppo che tende a risolversi a svantaggio della remunerazione del Pagina 39 di 185 lavoratore; il numero delle giornate di sciopero è elevato, rispetto ad altri paesi (ad es., nel decennio «che va dal 1954 al 1964, gli scioperi effettuati in Italia costituiscono, per la loro ampiezza, il 55 per cento di tutte le astensioni verificatesi nei sei paesi del Mec»; e negli anni seguenti il rapporto è ancora salito: nel '66, ad es., è giunto oltre l’82 per cento delle ore di sciopero effettuate nella stessa area, pari a 14 milioni di giornate in Italia, a 2 milioni in Francia, a 27 mila circa in Germania occidentale94). Ciò prova, da una parte, la combattività dei lavoratori e — in particolare — la valenza educativa delle lotte che nel dopoguerra hanno svolto la più rilevante funzione educatrice di larghi strati della popolazione nei confronti della rassegnazione, del fatalismo, frutti — anch'essi — dei processi formativi imposti dalle precedenti dominazioni storiche nelle precedenti strutture economiche. Dall'altra, però, ciò prova la capacità di dominio — negli adattamenti politici opportuni: dallo Statuto albertino, a Giolitti, al fascismo, alla Costituzione repubblicana — delle strutture economiche prevalenti; basti ricordare che il livello salariale reale è tuttora tra i più bassi nell'area della Comunità europea95, senza volersi riferire alla destinazione del profitto, sempre prevalentemente assorbito nel «privato» o nel «pubblico» al servizio del «privato», e in minima parte destinato alle esigenze generali, alle riforme sociali. Ciò vuoi dire, per quanto riguarda il nostro discorso, che il tipo di sviluppo economico che si cerca d'imporre filtra con risultati educativi a sé confacenti attraverso le maglie del controllo, della resistenza, dell'opposizione del movimento operaio? Al di là dell'azione formativa dei mezzi d'influenza (dei quali parleremo più avanti) in mano «privata» o — di fatto — pseudopubblica, al di là dell'«industria culturale» che, talvolta, e proprio per questo, assume un valore esorcistico, non esistono altre determinazioni di dominio le cui valenze educative non siano state sufficientemente soppesate, analizzate e, perciò, controllate dal movimento operaio? Al di là delle comunicazioni audiovisive, sappiamo bene che sono le stesse condizioni del lavoro che operano educativamente per l'accettazione, o il rifiuto, di un tipo di sviluppo economico. E necessario conoscere, anche attraverso il lavoro di educazione degli adulti, le determinazioni specificatamente formative delle condizioni del lavoro. Perché conosciamo solo parzialmente queste valenze educative insite nel rapporto lavoro-sviluppo economico? Zygmunt Bauman osservava che il contributo maggiore della sociologia marxista è «quello della scoperta e dello studio del ruolo svolto dalla struttura sociale, considerata come un sistema di interdipendenze tra ampi gruppi umani formatisi nel corso della produzione, della distribuzione e dell'appropriazione dei beni richiesti per la soddisfazione dei bisogni umani nel determinare i processi sociali»; ma, soggiungeva, che concentrando l'attenzione su queste determinazioni del comportamento umano «alcuni studiosi marxisti hanno trascurato l'altro sistema di determinazioni che interviene in ogni situazione sociale, il sistema della cultura»96. Come si concilia questo rilievo con l’Ideologia tedesca («Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l'espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio»97) ? 94 Cfr. C. Falaschi, Perché gli italiani scioperano, in «l'Unità», 29 novembre 1967. «Nel 1969 gli scioperi raggiunsero 195 milioni di ore (circa 26 milioni di giornate con gli orari dell'epoca e nel 1970 146 milioni di ore, circa 20 milioni di giornate)... Nel 1971 in Italia si sono avuti scioperi per 103 milioni di ore, pari a circa 15 milioni di giornate lavorative»; cfr. R. Stefanelli, L'Europa dei proletari, in «l'Unità», 23 aprile 1972. 95 Dai dati dell'Office statistique della C.E.E., nel 1973 emergeva che mentre nel 1966 e nel 1969 il «costo salariale» dell'operaio italiano era il più basso nel raffronto con la situazione della Repubblica federale tedesca, della Francia, dei Paesi Bassi, del Belgio, del Lussemburgo, nel 1971 risultava che il «costo salariale» più basso era quello per l'imprenditore francese; cfr. «Le Monde», 30 gennaio 1973, p. 18. 96 Z. Bauman, Marx e la teoria contemporanea della cultura, in Marx vivo, vol. II, Milano, Mondadori, 1969, p. 83. 97 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, pp. 35-36. Pagina 40 di 185 Questo «sistema della cultura», insito nei rapporti di produzione, va dunque ricavato e controllato nelle stesse condizioni di lavoro le cui valenze educative vanno esplicitate nel loro farsi quotidiano e prospettico; e questo al di là delle cause che possono essere addotte per spiegare le attuali carenze. Per individuare tali realtà formative e i varchi che dobbiamo aprirci nelle attuali condizioni, possiamo partire estendendo alla formazione generale il discorso che nel Capitale si svolge a proposito della «formazione professionale»? Marx scriveva che «Per modificare la natura umana generale in modo da farle raggiungere abilità e destrezza in un dato ramo di lavoro, da farla diventare forza-lavoro sviluppata e specifica, c'è bisogno d'una certa preparazione o educazione, che costa a sua volta una somma maggiore o minore di equivalenti di merci. Le spese di formazione della forza-lavoro differiscono secondo ch'essa abbia carattere più o meno complesso. Queste spese di istruzione, infinitesime per la forza-lavoro ordinaria, entrano dunque nel ciclo dei valori spesi per la produzione della forza-lavoro»98. Nelle attuali strutture produttive, il bisogno di una «forza-lavoro sviluppata e specifica» è particolarmente elevato, qualitativamente e quantitativamente, mentre forse mai, come oggi «è evidente che l'operaio, durante tutto il tempo della sua vita, non è altro che forza-lavoro, e perciò, che tutto il suo tempo disponibile è, per natura e per diritto, tempo di lavoro, e dunque appartiene alla autovalorizzazione del capitale»99. Tale autovalorizzazione si determina e si accresce non solo attraverso l'istruzione tecnologica, ma anche attraverso l'introiezione sul lavoro delle «idee dominanti», quella — ad es. — dello «sviluppo economico», con le sue varie articolazioni: quella — ad es. — della «produttività»; o quella — addirittura — della concomitanza d'interessi tra operai e padrone. I varchi possibili in tale «sistema della cultura» originato dai rapporti di produzione, sono anch'essi interni, intrinseci a tali rapporti, oggi improntati ad uno «sviluppo economico» che, nonostante le ipocrisie umanitaristiche, se può essere tecnicamente accettato, non deve, tuttavia, scalfire l'entità del profitto. La techne padronale — come «arte della manipolazione e della trasformazione» della forza-lavoro — è quindi in rapporto stretto con «il ciclo dei valori spesi per la produzione della forza-lavoro». Essa non può contraddirsi prevedendo «spese di formazione della forza-lavoro» che in qualche misura intacchino il profitto, ed è costretta ad accettare una sorta di rendita formativa che è quella che scaturisce da una «educazione naturale» che il complesso della situazione lavorativa fornisce, sia all'interno come all'esterno della fabbrica. Tale «educazione naturale» rientrerebbe, addirittura, tra le «economie esterne» e le «economie interne» del Marshall, se è condivisibile l'esempio che viene avanzato100 per spiegare il concetto di «economie esterne»: «Si faccia il caso delle attività industriali in una plaga evoluta come quella che sta fra Milano e Torino. È chiaro che chi impianta uno stabilimento colà, può fruire di una serie di vantaggi locali, che gli mancherebbero se andasse a impiantarlo in Sardegna: vi è una «atmosfera» (per usare una felice espressione di Marshall) propizia alla produzione industriale», per concludere con un'esclamazione che dal nostro punto di vista è illuminante: «la gente sembra nascere con le attitudini per il lavoro nell'industria». 98 K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, p. 189. K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 288-289; il capitale, scriveva Marx: «scavalca non soltanto i limiti massimi morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici. Usurpa il tempo necessario per la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo. Ruba il tempo che è indispensabile per consumare aria libera e luce solare. Lesina sul tempo dei pasti, e lo incorpora dove è possibile nel processo produttivo stesso, cosicché al lavoratore viene dato il cibo come a un puro e semplice mezzo di produzione, come si da carbone alla caldaia a vapore, come si da sego e olio alle macchine...». 100 Cfr. F. Forte, Introduzione alla politica economica. Il mercato e i piani, Torino, Einaudi, 1964, p. 322. 99 Pagina 41 di 185 Questo modo di dire, infatti, copre e svela — nello stesso tempo — una realtà formativa in atto che possiede un passato e che avrà i suoi effetti per il futuro, addirittura generazionale. Che tale «educazione naturale» non sia un fenomeno spontaneo, ma rientrante nella logica «naturale» dello sviluppo capitalistico, è abbastanza ovvio. E, tuttavia, l'asserzione è sempre verificabile. Riscontriamola nel momento in cui, ad esempio, si spiega il rapporto tra possibilità e impossibilità che «un sistema economico si possa espandere uniformemente»101; esso, deve tener conto di condizioni economiche in senso stretto, ma anche di variabili legate a quelli che possiamo definire i tempi educativi. Cosi, alcune industrie «non sono suscettibili di espansione allo stesso modo; si possono espandere solo aumentando di continuo la forza lavorativa occupata, o (e) impiegando in esse una rilevante quantità di capitale, per ogni unità addizionale di prodotto e lasciando passare un certo tempo, per adattare i fattori umani e organizzativi e portare a termine le lunghe trasformazioni tecniche richieste102. Ovvero: «Il sistema economico reale è diverso da quello dell'astrazione, per cui ci sono una serie di situazioni storiche, di istituzioni, di attitudini, di caratteri... che fanno sì che in un certo paese date possibilità sussistano in maggior grado, che in un altro»103. Questo adattamento dei «fattori umani», questa «serie di situazioni storiche» costituiscono per un sistema capitalistico le variabili e, nello stesso tempo, per noi, le valenze educative in senso conservativo nel momento in cui l'uomo diviene un «fattore» e la sua storia soltanto uno tra gli elementi da considerare. Una logica, peraltro, accentrata sul profitto che per lo sviluppo economico deve basarsi soprattutto sull'«educazione naturale» delle condizioni di lavoro (mentre per altri interventi educativi, ottenibili all'esterno della fabbrica, anche attraverso agenzie delegate — cinema, televisione, stampa, radio —, può realizzare ulteriori profitti, mentre provvede ad educare), offre varchi di cui il movimento operaio ha saputo e saprà sempre meglio servirsi, e di cui anche l'educazione degli adulti dovrà tener conto. Questa «educazione naturale», infatti, che rientra nella logica naturale dello sviluppo capitalistico, è il frutto della divisione del lavoro; anch'essa può apparire agli individui «come una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno donde viene e dove va...», come una facies dell'alienazione. Ma essa è parte integrante di quella «cooperazione naturale», cioè «non volontaria», nell'ambito di una forma sociale storica, modificabile. E, rispetto a questa «educazione naturale», è stata dimostrata possibile un'educazione volontaria, determinata consapevolmente, di senso contrario, capace di contribuire a profonde mutazioni nella forma sociale. Il compito può essere assolto riferendosi continuamente alle valenze educative operanti nelle condizioni lavorative del processo di sviluppo economico in una società come la nostra. 3.2.6 Condizioni di lavoro e scienza Strettamente interrelato allo sviluppo economico, tanto da confondersi nella prospettiva, il progresso scientifico e tecnico è un altro aspetto di cui è necessario considerare le valenze educative, in relazione al lavoro. Tali significati formativi, infatti, non scaturiscono se non univoci, e pertanto distorti, dall'esame dei problemi della scienza, della tecnica prese a sé. E il fatto che tale rapporto oggi ci appaia elementare, non significa che sempre riusciamo ad articolarlo nel modo più conseguente per la costruzione di un uomo onnilaterale. 101 Ivi, p. 376. Ivi, p. 377. 103 Ivi, p. 378. 102 Pagina 42 di 185 Basti pensare alla disputa, risolta soltanto di fatto, sull'utilità dei viaggi interplanetari; o al lavoro estremamente problematico di scienziati e tecnici al servizio dei «signori della guerra». D'altra parte, il rapporto tra condizioni del lavoro e progresso scientifico e tecnico, coetaneo alla nascita della società industriale, non sempre è stato così presente e pienamente consapevole. La sua non considerazione — agli albori della civiltà industriale — è stata per più versi occasione di scandalo. G. Friedmann definisce «strabiliante» il dato «che studiosi professionalmente avvezzi all'analisi complessa del reale abbiano fatto con tanta tranquilla baldanza tabula rasa dell'interrelazione dei diversi fatti della civiltà, e sacrificato cosi tutto un ordine di ripercussioni economiche e di contraccolpi morali che un osservatore penetrante avrebbe potuto discernere fin dall'epoca in cui si levavano i loro inni al progresso continuo e, per cosi dire, fatale»104. Il fatto è che la loro fiducia era totale: «Lo scienziato non cessa di aumentare il patrimonio e il capitale collettivo dei popoli», scriveva M. Berthelot nel 1897, in un libro intitolato Science et Morale, e non a caso; la fiducia era così totale da rasentare il cinismo. Il sociologo francese sottolinea come, accanto a molti scienziati e filosofi dell'epoca, dominati come il celebre chimico da speranze «che dovevano apparire troppo semplicistiche», vi erano ingegneri che, indifferenti «a qualunque modificazione di struttura, ignari perfino dei problemi posti da questa, pieni di sincera buona volontà (Taylor — ad esempio — non ne mancava davvero)», «immaginavano di poter tranquillamente sovrapporre al caos del loro tempo un ordine quasi matematico, superare mediante un incessante sviluppo del rendimento i conflitti fra padroni e operai, e portare cosi il successo della "scienza industriale" allo stesso livello dei trionfi delle scienze meccaniche. Il loro errore tecnicista, isolante l'impresa dall'insieme dei fenomeni fisiologici, psicologici, sociali e morali del gruppo umano di cui è parte, è stato omologo (per quanto più spiegabile) al grande errore degli scientisti»105. Il problema, non si pone soltanto e semplicemente in termini deontologici; sappiamo bene che la responsabilità degli scienziati e dei tecnici deve essere inserita nel quadro di riferimento della «grande industria che separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente dal lavoro, e la costringe a entrare al servizio del capitale»106. Questo processo di scissione del lavoro dalla scienza è riscontrabile nel momento in cui le «cognizioni, l'intelligenza e la volontà che il contadino indipendente o il maestro artigiano sviluppano, anche se su piccola scala .. sono richieste soltanto per il complesso dell'officina»107. Così «Quel che gli operai parziali perdono si concentra nel capitale di contro a loro. Questa contrapposizione delle potenze intellettuali del processo materiale di produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina, è un prodotto della divisione del lavoro di tipo manufatturiero»108. È un processo di scissione che «comincia nella cooperazione semplice dove il capitalista rappresenta l'unità e la volontà del corpo lavorativo sociale di fronte ai singoli operai; si sviluppa nella manifattura che mutila l'operaio facendone un operaio parziale- si completa nella grande industria...»109 che costringe la scienza a entrare al servizio del capitale. Insomma, come detto in uno studio del 1824 citato dallo stesso Marx: «L'uomo di scienza e l'operaio produttivo sono separati da ampio tratto, e la scienza, invece di aumentare, in mano all'operaio, la sua forza produttiva a suo favore, gli si è quasi dappertutto contrapposta… la 104 G. Friedmann, Problemi umani del macchinismo industriale, Torino, Einaudi, 1949, p. 31. Ivi, pp. 21-31. 106 K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 60-64. 107 K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 60-64 108 K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 60-64 109 K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 60-64 105 Pagina 43 di 185 conoscenza diviene uno strumento che può esser separato dal lavoro e contrapposto ad esso»110. Oltre al rapporto scienza-lavoro, è necessario considerare l'articolazione del rapporto tra «base tecnica» dell'industria moderna e condizione operaia, tra progresso tecnico e dinamica trasformativa delle condizioni di lavoro. La relazione presenta un «aspetto negativo» e aspetti di potenziale progressività. Tale rapporto emerge dalla considerazione che l'industria moderna «non considera e non tratta mai come definitiva la forma esistente di un processo di produzione. Quindi la sua base tecnica è rivoluzionaria, mentre la base di tutti gli altri modi di produzione era sostanzialmente conservatrice. Con le macchine con i processi chimici e con altri metodi essa sovverte costantemente, assieme alla base tecnica della produzione, le funzioni degli operai e le combinazioni sociali del processo la-vorativo. Così essa rivoluziona con altrettanta costanza la divisione del lavoro entro la società e getta incessantemente masse di capitale e masse di operai da una branca della produzione nell'altra. Quindi la natura della grande industria porta con sé variazione del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell'operaio in tutti i sensi. Dall'altra parte essa riproduce l'antica divisione del lavoro con le sue particolarità ossificate, ma nella sua forma capitalistica»111. Questa «contraddizione assoluta» elimina ogni tranquillità, solidità e sicurezza delle condizioni di vita dell'operaio, minaccia di render superfluo l'operaio stesso rendendo superflua la sua funzione parziale. Ma «la natura della grande industria» presenta aspetti di potenziale progressività; e infatti «se ora la variazione del lavoro si impone soltanto come prepotente legge naturale e con l'effetto ciecamente distruttivo di una legge naturale che incontri ostacoli dappertutto, la grande industria, con le sue stesse catastrofi, fa si che il riconoscimento della variazione dei lavori e quindi della maggior versatilità possibile dell'operaio come legge sociale generale della produzione e l'adattamento delle circostanze alla attuazione normale di tale legge, diventino una questione di vita e di morte»112. Essa insomma deve «sostituire a quella mostruosità che è una miserabile popolazione operaia disponibile, tenuta in riserva per il variabile bisogno di sfruttamento del capitale, la disponibilità assoluta dell'uomo per il variare delle esigenze del lavoro»; e, sempre potenzialmente: «sostituire all'individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l'individuo totalmente sviluppato, per il quale le differenti funzioni sociali sono modi di attività che si danno il cambio l'uno con l'altro»113. È evidente che il senso positivo delle valenze educative del rapporto in parola non è da ricercarsi in questa potenzialità presa in senso assoluto, ma nell'ambito del suo condizionamento dettato dalla finalità; finché, infatti, il «variare delle esigenze di lavoro» sarà soggetto al «variabile bisogno di sfruttamento», difficilmente la potenzialità liberatoria implicita nella «base tecnica» della grande industria potrà risolversi nella formazione di individui totalmente sviluppati. Non sono, infatti, le «écoles d'enseignement professionnel» (di cui Marx parlava come di un «elemento di questo processo di sovvertimento»114 dovuto alla base tecnica rivoluzionaria) di ieri, o la «formazione (professionale) permanente» di oggi che potranno risolvere, prese a sé, la contraddizione di fondo del rapporto tra una scienza asservita, una base tecnica il cui 110 W. Thompson, An Inquiry into the Principles of the Distribution of Wealth, London, 1824, p. 274; cfr. M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 105, nota 2. 111 Ivi, p. 97. 112 Ivi, p. 97. 113 Ivi, p. 97. 114 Ivi, p. 97. Pagina 44 di 185 comportamento è analogo a quello d'un terremoto continuo, e una condizione di lavoro per forza di struttura assoggettata, comunque, all'una e all'altra. Dobbiamo riflettere, d'altra parte, che il rapporto con la base tecnica può offrire alla presenza operaia valenze educative almeno di relazione diretta; anche nel momento dell'apprendimento di nuove tecniche, di nuovi strumenti, di nuovi processi produttivi; ma, soprattutto, nel momento della lotta contro l'intensificazione dello sfruttamento che il capitale cerca di attuare proprio sulla base tecnica innovata: dal licenziamento all'intensificazione dei ritmi produttivi; in questa relazione diretta di scontro è, almeno, riscontrabile una valenza di sollecitazione sia ad analizzare la condizione di lavoro, sia ad organizzare una risposta associata, sia a controllare gli sviluppi del rapporto dentro e fuori la fabbrica. Il rapporto con la scienza, nel senso anzidetto, è — invece - illusorio, estremamente mediato; praticamente, come possibilità di manipolazione, di agibilità diretta da parte operaia, esso è inesistente e, nelle attuali strutture, inesistibile. Poiché il processo di scissione è incontrollato, in atto e ad un grado tendenzialmente crescente, le valenze educative implicite nel rapporto scienza-lavoro appaiono estremamente problematiche. E ciò per più aspetti, alcuni dei quali sopravanzano lo stesso immediato processo produttivo innovante, la stessa «invenzione» tecnico-scientifica. Ad esempio, la scienza (ripetiamo: intesa come «potenza produttiva indipendente dal lavoro») può caricarsi di significati simbolici al di là del suo, strumentale; e proiettare all'indietro nel tempo il proprio valore sociale. Se teniamo presente il fatto «caratteristico che i mestieri particolari si chiamassero fino nel secolo XVIII mysteries (mystères) nella cui oscurità poteva penetrare soltanto chi era iniziato con l'esperienza e con la professione»115, dobbiamo davvero interrogarci, come è stato ipotizzato, su un ritorno al medioevo tramite quella scienza che aveva contribuito a snebbiarlo proprio negli aspetti conoscitivi? Al di là delle ipotesi più paradossali, l'aspetto da considerare non riguarda, per i problemi educativi dell'età adulta, la scienza in sé, ma il rapporto con le condizioni di lavoro e, in questo, la possibilità di reale, diretta controllabilità di tale relazione da parte operaia. In mancanza di tale possibilità — per la quale e nella quale deve lavorare l'educazione degli adulti —, ci si trova dinanzi ad una valenza educativa d'impotenza, occasione di impliciti condizionamenti, terreno di facile coltura dell'indifferenza e della rassegnazione. Una educazione adulta deve considerare questo aspetto come uno dei più critici rispetto ai processi di crescita; nella limitatezza sperimentale delle odierne strutture, deve tener conto di altre esperienze realizzate nell'ambito di altre forme sociali; considerare questo aspetto, insomma, storicamente e prospettivamente per ciò che può e potrà significare nella sua globalità, chiamando ad assunzioni di responsabilità, nel loro interesse di uomini liberi, scienziati e tecnici, consapevoli della condizione distorta della loro funzione sociale116. 3.2.7 «Formazione permanente» ed educazione degli adulti Rispetto allo sviluppo economico ed al progresso scientifico e tecnico, ciò che si richiede al lavoratore è il suo aggiornamento, la sua riqualificazione, la sua disponibilità a favorire sviluppo e progresso stessi. La considerazione delle valenze educative insite nella «formazione permanente» è, quindi, strettamente interrelata con quelle svolte a proposito dei problemi relativi allo sviluppo e al progresso, problemi che emergono e che il movimento operaio affronta, per le loro implicanze classiste, con le questioni: per chi? 115 116 Ivi, p. 96. Cfr. il capitolo «Scienza, tecnica ed educazione degli adulti». Pagina 45 di 185 per che cosa? Non intendiamo, per ora, occuparci dell'istruzione professionale in generale-compresa quella relativa all'età scolare; ma limitarci a riflettere sulla realtà formativa in atto per l'età lavorativa; anche se, in tal modo, il discorso può risultare monco, essendo la parte di cui vogliamo occuparci collegata a tutto il sistema «scolastico», istituzionale e informale, privato e pubblico, per ogni età. Ci sembra essenziale individuare subito le valenze educative della situazione in parola perché, rispetto all'attuale pratica dello «sviluppo economico» e del «progresso tecnicoscientifico», questo è il settore che, a livello individuale e sociale, postula una partecipazione diretta del lavoratore come singolo e dei lavoratori organizzati nelle loro strutture associative. Sappiamo bene che senza una partecipazione diretta si può realizzare — si è fatto e si fa — «sviluppo» e «progresso» imposti, per mere finalità private, ai lavoratori; ma senza interesse non si può apprendere né insegnare, almeno nelle istanze formali. Poiché le occasioni informali tendono a scomparire (lo stesso «istituto dell'apprendistato è anacronistico e superato rispetto alle esigenze produttive di una società industriale di tipo avanzato»)117, mentre tendono ad affermarsi, ad organizzarsi, a svilupparsi forme istituzionali e formali, promosse dalle stesse aziende, dallo Stato, dalle Regioni, dagli stessi sindacati, è evidente che il postulato rogersiano della «freedom to learn»118, della libertà per apprendere, può essere considerato un punto di riferimento utile. Tanto più che, e citiamo alcune osservazioni119 di fonte sovietica (d'una realtà cioè dove questi problemi si pongono in modo socialmente diverso): «le cognizioni e la conoscenza delle leggi dello sviluppo della società non possono essere acquisite una volta per tutte; occorre arricchirle continuamente. Tale necessità è dettata anche dall'impetuoso progresso della scienza e della tecnica. Alcuni sociologi affermano che, attualmente, l'insegnamento delle cognizioni scientifiche cessa d'essere attuale e viene sostituito da cognizioni nuove nel corso di un quarto di secolo. Occorre tener presente anche il fatto che l'odierno sviluppo della produzione richiede dai lavoratori un'alta cultura generale, e la capacità di assimilare rapidamente le nuove tecnologie...». Bisogna tener presente, infine, che «due terzi della conoscenza scientifica di tutta la storia dell'umanità sono il frutto degli ultimi venti anni...». Se in una società a struttura economica socialista si è risposto a questi interrogativi con una riforma dei programmi tecnico-scientifici, attribuendo loro «una maggiore apertura, chiedendo la collaborazione dello studente, facendolo divenire parte attiva del processo di istruzione...», a maggior ragione la questione della partecipazione all'apprendimento si pone in società dove anche la corresponsabilità è un controsenso rispetto alle strutture classiste. Necessità, dunque, di partecipazione, cioè di libertà di scelta, per poter maturare una volontà di apprendere; ovvero, condizioni di urgenza tali da costituirsi esse stesse come apprendimento della necessità della partecipazione all'apprendere? Tali condizioni di urgenza sono dettate dal rapporto formazione-lavoro; dal predisporre, cioè, una forza-lavoro adeguata alle esigenze di mercato sul quale il salariato potrà vendere la mercé per esigenze di sopravvivenza. Sicché il prodotto della sua attività, anche di quella formativa, non è lo scopo della sua attività; è una prospettiva di salario, un salario differito, nella logica di uno «sviluppo» che, come condiziona il mercato di lavoro, così condiziona la formazione della mercé-lavoro. Insomma, anche un processo così «personale» come quello formativo vive il «convertirsi del rapporto individuale nel suo contrario, in un rapporto puramente oggettivo»; e dobbiamo constatare che «nell'epoca presente la dominazione dei rapporti oggettivi sugli individui, il 117 I. Pisoni, Quali vie di soluzione per l'apprendistato?, in «Formazione e qualifica», 7-8, gennaio-aprile 1970, p. 3. Cfr. C. Rogers, Freedom to Learn?, New York, Merrill, 1969; trad.it. Libertà nell'apprendimento, Firenze, GiuntiBarbèra, 1973. 119 Cfr. «l'Unità», 11 settembre 1970. 118 Pagina 46 di 185 soffocamento dell'individualità da parte della casualità, ha assunto la sua forma più acuta e più generale»120. All'interno di tale rapporto, un rapporto di forza, la libertà di scelta è evidentemente limitata al soddisfacimento dei minimi motivi di deficit, come dice lo psicologo, cioè a quello dell'esigenza — si legge nell'Ideologia tedesca: del «"che io mi sviluppi", cosa che ogni individuo sinora ha fatto...»121. Le valenze educative si evidenziano nella strumentalizzazione di fatto emergente dalla relazione tra lavoro e formazione che caratterizza l'attuale realtà dell'istruzione professionale. E evidente, infatti, che una volontà d'apprendere ridotta all'acquisizione di capacità ripetitive, anche delle mansioni complesse richieste dagli attuali processi produttivi, non solo non garantisce spazi, ma tende a restringere il rapporto discente-docente al passaggio nozionistico, ad escludere ogni altro elemento di ricerca in comune al di fuori della professionalità e dei campi ad essa più prossimi. L'atteggiamento nei confronti della materia «educazione civica», sempre scarsamente considerata, è sintomatico: essa — e non solo il modo in cui viene insegnata — da una parte non aggiunge e non sottrae alcunché alle nozioni offerte e richieste, dall'altra è contrattata dal discente — e perfino respinta — come un inutile aggravio; ma, soprattutto, e non a torto date le condizioni generali del rapporto formazione-lavoro, come un grottesco proporre alle capacità mnemoniche dell'allievo una sequela di diritti formali che la stessa realtà formativa, li e in quel momento, contraddice. Il rifiuto, peraltro, che talvolta viene interpretato soprattutto da parte padronale come una prova di «praticità», di «concretezza», può essere invece interpretato come l'ultima difesa dallo scherno, un'affermazione di estraneità sociale. Le condizioni d'urgenza — che si costituiscono esse stesse come apprendimento della necessità della partecipazione all'apprendere — assumono anche forme non immediatamente economiche. Nel quadro della prospettiva del salario, del « guadagnare» che — in questo modo — ha assunto un valore prioritario nella cultura della società industriale capitalistica, esse contengono valenze educative che dobbiamo valutare in quanto tali. Cosi, ad esempio, l'ansia di ricevere riconoscimenti di qualità personali (intelligenza, memoria, forza, agilità, prontezza di riflessi ecc.) o il desiderio di affermazione individuale (ascesa sociale, soddisfazione consumistica, desiderio di eccellere, ecc.) si coniugano con l'esistenza di strutture facilitanti, già esistenti e comunque tendenzialmente in sviluppo (scuola e corsi aziendali e pubblici, forme di congedo retribuito, attività di aggiornamento ecc.), sulla base della necessità reale di trovare acquirenti della propria forza-lavoro riqualificata quando disoccupati, o, quando occupati, di vendere le proprie capacità a condizioni più vantaggiose. Insomma, se le valenze educative insite nella teoria e nella pratica dello «sviluppo economico» e del «progresso tecnico-scientifico» sono storicamente esplicite, quelle relative alla «formazione professionale» sono impregnate di ambiguità, proprio perché i processi formativi richiedono un quid di partecipazione. Probabilmente è dovuto a tali valenze educative il fenomeno secondo cui esisterebbero «contraddizioni che costringono i lavoratori studenti a un certo grado di isolamento sociale»122; ossia, contraddizioni socialmente irrisolte. Certo il problema non è quello di porsi luddisticamente contro la «formazione professionale», la promozione del rapporto lavoro-scuola, le scuole per i lavoratori, o contro lo sviluppo e il progresso. Nell'ambito delle scelte innovative del movimento operaio, compito di chi intende contribuire anche con l'educazione adulta è quello di considerare, riflettere, operare 120 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 429. K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 430. 122 V. Foa, Introduzione a / lavoratori studenti di G. Levi Arian, G.Alasia, A. Chiesa, P. Bergoglio, L. Benigni, Torino, Einaudi, 1969. 121 Pagina 47 di 185 sull'influenza educativa, come dire di conservazione, che l'uso classista, nelle attuali strutture, può realizzare anche della «formazione permanente». 3.2.8 La condizione educativa nella fabbrica La fabbrica è l'epicentro di ogni discorso politico, sindacale, e anche educativo; è qui dove «la dominazione dei rapporti oggettivi sugli individui» ha raggiunto «la sua forma più acuta e più generale»; ed è da qui che può svolgersi «il compito di liberarsi da un modo determinatissimo dello sviluppo»123. Attraverso il passaggio dal macchinismo all'automazione, attraverso le varie rivoluzioni industriali, l'antinomia tra ragioni dell'uomo e ragioni della produzione non è stata risolta; sicché è ancora interessante, per noi, il raffronto tra forma sociale — e cultura — dell'antichità grecoromana, e forma sociale — e cultura — della nostra realtà: «Presso gli antichi non troviamo mai un'indagine su quale forma di proprietà fondiaria, ecc., crei la ricchezza più produttiva, maggiore... L'indagine è sempre volta a stabilire quale forma di proprietà crei i migliori cittadini... Perciò la vecchia concezione secondo cui l'uomo, anche se inteso in un senso molto limitato dal punto di vista nazionale, religioso, politico, è lo scopo della produzione, appare molto elevata nei confronti del mondo moderno, in cui la produzione si presenta come scopo degli uomini e la ricchezza come scopo della produzione»124. Il nostro contributo deve tendere a riattribuire alla «ricchezza» il significato di «pieno sviluppo del dominio dell'uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura...»125; il significato di «estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senz'altro presupposto che il precedente sviluppo storico, la quale rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato..., nella quale l'uomo non si riproduce entro una determinatezza, ma produce la propria totalità... non cerca di rimanere qualche cosa di divenuto, ma è nell'assoluto movimento del divenire»126. La fabbrica, dunque, è l'epicentro di un processo storico liberatorio; non a caso, tra le principali misure trasformative, Engels, per quanto riguarda le soluzioni ai problemi formativi, indicava «Educazione e lavoro di fabbrica insieme»127. E ciò perché, allo scopo di portare la produzione al livello di soddisfacimento dei bisogni di tutti, «non bastano da soli gli ausili meccanici e chimici; debbono essere sviluppate in misura corrispondente anche le capacità degli uomini che fanno funzionare quegli ausili»128; tale capacità si sviluppa superando la divisione del lavoro attraverso «l'esercizio comune della produzione (che) non può essere attuato da uomini come quelli di oggi, ognuno dei quali ha sviluppato una sola delle sue attitudini a spese di tutte le altre, e conosce soltanto un ramo, o soltanto un ramo di un ramo della produzione complessiva»129. 123 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 430. Da Forme che precedono la produzione capitalistica, VI quaderno dei manoscritti economici, redatto da Marx tra l'ottobre 1857 e il marzo 1858; cfr. M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 80. Osserva Manacorda: «Interessante, ai fini pedagogici, la relazione istituita tra forme di produzione e sviluppo dell'individuo, il quale non può essere totale in una situazione produttiva limitata, e l'osservazione che la situazione dell'antichità classica, ponendo l'uomo, per quanto limitato, come scopo della produzione, e non viceversa,come avviene nella società capitalistica, è più elevata di quella moderna» (ivi,pp. 79-80). 125 M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 80. 126 M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 80. 127 F. Engels, Principi del comunismo, in K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 297. 128 F. Engels, Principi del comunismo, in K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 300. 129 F. Engels, Principi del comunismo, in K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 300. 124 Pagina 48 di 185 «L'istruzione potrà far seguire ai giovani rapidamente l'intero sistema della produzione, li metterà in grado di passare a turno dall'uno all'altro ramo della produzione, secondo i motivi offerti dai bisogni della società o dalle loro proprie inclinazioni. Toglierà ai giovani il carattere unilaterale impresso ad ogni individuo dall'attuale divisione del lavoro»130. Se le prospettive sono chiare, verso la costruzione dell'uomo onnilaterale (ed è sempre costruttivo sottolineare la necessità che l'educazione degli adulti maturi prospettive globali; vogliamo ricordare qui questo impegno, in relazione ai problemi del rapporto fabbricaeducazione) quali sono oggi le valenze educative della fabbrica come struttura formativa? Quali sono gli elementi costitutivi che assicurano la possibilità di produrre uomini, mentre questi producono oggetti, e plusvalore? In generale, ci è noto che i processi produttivi contribuiscono a modificare il lavoratore, e, infatti, «i contadini e gli operai manufatturieri del secolo passato hanno mutato tutto il loro tipo di vita e sono diventati essi stessi uomini del tutto nuovi quando furono trascinati nella grande industria...»131. Ma, oltre al processo formativo oggettivo, dobbiamo riscontrare un'intenzionalità che rafforza ed accelera questo processo. Per comprendere tale componente soggettiva, è opportuno rifarci alle linee di tendenza dell'«educazione dell'avvenire», alle impostazioni di Robert Owen che — come si legge nel Capitale —, dal sistema della fabbrica aveva tratto quel germe di impostazione educativa « che collegherà, per tutti i bambini oltre una certa età, il lavoro produttivo con distruzione e la ginnastica, non solo come metodo per aumentare la produzione sociale; ma anche come unico metodo per produrre uomini pienamente sviluppati»132. È necessario riferirsi alla definizione di una pratica educativa come l'«istruzione politecnica»133 che era e rimane rivoluzionaria, sia rispetto alla pratica usuale del tempo e di oggi, sia rispetto alle necessità del processo industriale. È un riferimento comprovante quanto il settore educativo sia in rapporto di dipendenza dalle strutture economiche. E, infatti, se in società progressive tali impostazioni innovanti possono essere realizzate al fine di «produrre uomini totalmente sviluppati», nelle società conservative esse tendono ad essere rovesciate nella loro stessa pratica, verso scopi del tutto opposti. Così, un progetto che doveva valere per i fanciulli e per gli adolescenti (anche con la specificazione delle età: «La prima classe deve estendersi ai fanciulli dai 9 ai 12 anni, la seconda dai 13 ai 15 anni e la terza deve comprendere i giovanetti e le ragazze dai 16 ai 17 anni»134) e che veniva proposto in quanto «la parte più illuminata degli operai comprende perfettamente che il futuro della sua classe, e perciò dell'umanità, dipende totalmente dalla formazione delle nuove generazioni»135, viene realizzato attualmente per educare gli adulti, nel senso contrario a quello costitutivo del progetto, affinché dal risultato di questa particolare educazione dipenda una precisa, omogenea e conservativa, educazione dei giovani, sia nel quadro di strutture scolastiche immodificate, sia nel cerchio familiare e ambientale anch'essi controllati dai risultati di tale educazione sugli adulti. 130 F. Engels, Principi del comunismo, in K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 300. 131 F. Engels, Principi del comunismo, in K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 300. 132 M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 95. 133 M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 84; tratto da Istruzioni ai delegati del Consiglio generale provvisorio su singole questioni, scritte da Marx «per il I Congresso dell'Associazione Internazionale dei lavoratori, tenutosi a Ginevra dal 3 all'8 settembre 1866, che le approvò come propria risoluzione». 134 M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, pp. 82-83. 135 M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 83. Pagina 49 di 185 Il progetto — infatti — muoveva dalle considerazioni che in «una situazione razionale della società, ogni fanciullo senza distinzione a partire dai nove anni, dovrebbe diventare un operaio produttivo; alla stessa maniera nessuna persona adulta dovrebbe essere esclusa dalla legge generale della natura; cioè di lavorare per essere in condizione di mangiare, e di lavorare non soltanto col cervello, ma anche con le mani»136. Soggiungeva, poi, che tuttavia «nel momento presente noi abbiamo a che fare.soltanto coi fanciulli della classe operaia»137. L'appropriazione e il rovesciamento della «tendenza della industria moderna ad attrarre fanciulli e adolescenti dei due sessi alla collaborazione nell'opera della produzione sociale» che Marx riteneva fosse «progressiva, salutare e giusta», valutando, peraltro, «orribile», «il modo in cui questa tendenza viene attuata sotto il dominio del capitale»138, sono stati ottenuti -da quel «momento presente» a oggi — attraverso diversi interventi che vogliamo esaminare, a livello di ipotesi, dal nostro punto di vista. Secondo una prima ipotesi, considerando, nella pratica, il tempo reso onnilavorativo (compreso quello non immediatamente produttivo) come tempo di formazione: dal «metà scuola e metà lavoro»139 per i giovani al tutto lavoro e tutto scuola — contemporaneamente — per gli adulti. Ciò, sia — e in primo luogo — per le valenze educative specifiche della condizione di lavoro nella fabbrica. Sia per la programmazione dell'aggiornamento professionale a cura diretta dell'azienda o dello stato, durante l'occupazione, o durante la disoccupazione (invece di garantire una «istruzione politecnica» nell'età scolare, si preferisce, e non a caso, offrire un interessato recupero nel momento in cui l'efficienza aziendale o la produttività lo richiedono). Sia per i processi educativi che la politica dell'informazione e della «cultura» avvia, suggerisce, incanala, controlla in correlazione funzionale a quelli della condizione di lavoro. La seconda ipotesi — che riprendiamo dalla similitudine — forse impropria, ma espressiva — emersa durante le lotte degli studenti -vede la scuola, trasformata da centro formativo per le èlites a «scuola di massa», divenire una gigantesca fabbrica. In tale struttura, ad esempio, un metodo di studio quale il lavoro di gruppo non viene visto ed utilizzato in funzione dello sviluppo del discente, ma, tendenzialmente, in funzione della produttività programmata della fabbrica-scuola; in tale struttura, l'accento viene posto soprattutto sull'istruzione professionale, più che sulla formazione dell'uomo in senso onnilaterale, ma, nel contempo, tale istruzione viene impartita — per carenza di strutture, di personale, di strumenti — ad un livello talmente minimo da far supporre, poiché niente può verificarsi casualmente oltre un certo limite, che in questo modo si intenda, da una parte, assicurarsi le sacche di disoccupazione indispensabili all'equilibrio del sistema del profitto e, dall'altra, rinviare un'istruzione politecnica al momento dell'urgenza produttiva per limitare la spesa allo stretto necessario (l'istruzione pubblica per tutti diviene l'istruzione per tutti gli operai e i lavoratori strettamente indispensabili). In tal modo quel sistema della fabbrica da cui «come si può seguire nei particolari negli scritti di Robert Owen, è nato il germe della educazione dell'avvenire»140, tende a impregnare di sé, in modo non meno «orribile», tutta la forma sociale, e ad imprimere, anche sui momenti e gli aspetti che tutte le culture storiche avevano salvaguardato, le stimmate dello sfruttamento e della preparazione formativa allo sfruttamento. Per la verità, il «lavoro minorile» non viene più proclamato come necessario almeno nei paesi «sviluppati», anche se viene praticato ancora su scala paleocapitalistica in molti paesi 136 M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 82. M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 82. 138 M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 82. 139 Cfr. Il Capitale, pp. 195-198; in M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 94 e nota 17. 140 M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 95. 137 Pagina 50 di 185 (basti pensare che una recente relazione del BIT faceva ammontare a 43 milioni i bambini e i minorenni al lavoro nel mondo)141. Per converso, si tende a interpretare univocamente l'«educazione degli adulti», come una necessità storica di «educazione permanente» o — meglio — di «formazione permanente» ai valori e ai bisogni della produzione. Assistiamo così, in generale, ad un processo di infantilizzazione o di adolescentizzazione dell'adulto (ci sembra pertanto allarmante la percezione, avvertita da non pochi, che oggi la vita preveda soltanto due età: l'infanzia e la vecchiaia, con un passaggio rapido ed impercettibile dall'una all'altra). L'analisi particolareggiata delle valenze educative nella fabbrica ci fornirebbe ampio materiale di approfondimento. Dovendo noi indagare sulla questione se e come la condizione di lavoro si costituisca anche quale condizione formativa, non potremmo certo rispondere che tali condizioni sono oggi intese a rendere concretamente edificabile l'uomo dal giovane, il maturo dall'immaturo, l'illimitato dal limitato, il padrone di se stesso e dell'ambiente dal bisognoso di provvidenze e di servizi assistenziali, l'onnilaterale dall'unilaterale. Dovremmo, invece, replicare che le intenzioni risultano del tutto opposte. È proprio rispetto a questa intenzionalità che — in opposizione — si precisa il significato innovativo dell'educazione degli adulti, sia con lo storico riferimento all'esperienza propria e specifica del movimento operaio, sia, soprattutto, in organicità d'intenti con le lotte operaie attuali per contrastare quelle tendenze in atto e quelle intenzioni. Per aver chiaro il senso di una risposta negativa a quella domanda, è necessario aver presente alcuni elementi di giudizio dei quali raramente si parla sulla stampa o dalla televisione, e dei quali, raramente, al di fuori degli ambienti direttamente interessati, si ha una percezione globale adeguata. Non si possono comprendere le valenze educative della condizione di lavoro nell'industria, e non è possibile effettuare lavoro educativo reale negli ambienti operai, senza considerare, ad esempio, il rilievo generale che hanno — in primo luogo — i dati relativi ai casi di infortunio sul lavoro. Quando si rifletta che nel decennio 1954-1964, in coincidenza con lo svilupparsi del cosiddetto «miracolo economico», abbiamo avuto un bilancio di oltre 50 mila operai morti sul lavoro e di oltre 14 milioni di infortunati, più o meno gravi; che queste cifre sono aumentate negli anni successivi, nel 1967 — ad esempio — i casi d'infortunio sono stati 1 milione e duecentomila circa, di cui ben 2.595 mortali, con un aumento del 9%; che dai raffronti effettuati sul piano internazionale risulta che il numero degli «omicidi bianchi» è stato superiore, durante il periodo bellico, a quello delle vittime di guerra (ed è significativo verificare il fenomeno in paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna: nel primo, durante gli anni 1942-44, si ha una media mensile di 160.747 vittime — di vario grado — sul lavoro, contro le 24.896 vittime — feriti o uccisi — della guerra; in Gran Bretagna, nel periodo 1939-44, si riscontra una media mensile di 22.109 vittime del lavoro e di 10.667 vittime della guerra)142. A parte la rilevanza umana di questa vera e propria strage, sulla quale si esercita una equivoca retorica carica, essa stessa, di valenze formative: da quella della stampa padronale che piange sul caso individuale, senza mai fornire dati statistici globali, a quella caratteristica del fascismo che chiamava «caduti sul lavoro» le vittime degli «omicidi bianchi», come se la causa fosse il «lavoro» in astratto. A parte la rilevanza sociale, per tutte le implicazioni che comporta sul piano personale, familiare. 141 142 Cfr. «l'Unità», 30 maggio 1972. Cfr. «Avanti!», 23 luglio 1965. Secondo i dati più recenti —forniti dal Ministro della Sanità il 29 settembre 1974 — in Italia gli infortuni sul lavoro ammontano a due milioni con quattromila morti; cfr. «l'Unità», 30 settembre 1974. Pagina 51 di 185 A parte quella economica, con tutto l'implicito cinismo che la considerazione di questo fenomeno comporta (ad es., nel 1968, ponendo in relazione il problema degli infortuni con il «programma di sviluppo quinquennale», si affermava la possibilità di una «previsione di risparmio per la collettività» che sarebbe derivata da una «efficiente organizzazione della prevenzione, armonicamente [sic] integrata nel contesto più ampio della sicurezza sociale» e che avrebbe permesso di «ridurre del 5%... il costo annuo degli incidenti, infortuni e malattie professionali — 50 miliardi su 1000 —», ciò avrebbe posto a disposizione «una somma notevole da destinare, secondo le indicazioni del piano, ad altre forme di investimento sociale o [sic] direttamente produttivo», e, cioè, neppure spese, per ipotesi, allo scopo di ridurre almeno di un altro 5% gli «omicidi bianchi»)143. A parte, dunque, tutti questi aspetti, ognuno dei quali importante, vi e una rilevanza educativa del fenomeno che andrebbe studiata in profondità, e che, comunque, deve essere considerata; esistono rilevanti contraddizioni da spiegare. Ad es., comprendere sulla base di quali altre motivazioni (la loro entità, i processi della loro introiezione) è stato possibile per un soldato inglese combattere fino alla morte contro gli assassini nazisti e, nel contempo, ad un operaio inglese non combattere contro le cause degli «omicidi bianchi» nel paese, fino alla scomparsa del capitalismo. Oppure: comprendere come una larga parte dell'opinione pubblica faccia proprio il discorso della lotta contro gli infortuni attribuendo possibilità risolutive all'intervento educativo a base di «sensibilizzazione», «informazione» ecc., e non a quello dei processi produttivi da eliminare nella loro pericolo-sita; non avvedendosi, in questo, di aver subito essa stessa un intervento educativo da parte delle forze interessate a non impegnare alcunché per evitare danni rilevanti alle persone e alla collettività. Non si tratta, in proposito, per noi, di emettere giudizi moralistici sull'operaio inglese non combattivo o — per converso — sul piccolo-borghese italiano che si sente «danneggiato» dall'operaio che «non sta attento», ma di comprendere, lavorando, quali sono stati e sono le strumentazioni e i processi educativi che possono condurre a determinati risultati. E, accentrando il proprio interesse sulle condizioni di lavoro, promuovere, nell'ambiente ove si opera, inchieste partecipate sulle valenze educative della realtà infortunistica rispetto ai processi di emancipazione della classe operaia; appurare direttamente, oltre ai danni umani, sociali, economici della persona uccisa o ferita, quali danni educativi subisce il movimento operaio nel suo insieme. Un settore, per noi, merita particolare attenzione, quello delle malattie mentali; nel lavoro industriale, esse registrano un aumento considerevole144, attestando l'incidenza anche educativa (deformativa) dello sfruttamento realizzato attraverso il macchinismo, l'automazione, i processi produttivi che creano l'uomo unilaterale, l'uomo diviso. Lo Scientific Management145 sembra abbia puntato, oltre che sul rendimento del lavoratore attraverso la cosiddetta razionalizzazione nella singola azienda, sul rendimento educativo, nei tempi lunghi, della propria pratica, nell'ambito dell'intero sistema economico capitalistico. Indubbiamente, lo scopo diretto è stato ed è quello della massima produttività (Taylor riteneva di poter superare l'antinomia di classe attraverso l'aumento della produttività); ma si tratta di uno scopo della proprietà che, in quanto tale, con nessuno sforzo educativo diretto avrebbe potuto e potrebbe essere imposto, né tanto meno fatto proprio dall'operaio singolo, neppure dall'individuo meno consapevole della condizione in cui si trova. Occorre una condizione educativa specifica che, permetta di ottenere una massimizzazione dello sforzo, attraverso il controllo del costo psichico del lavoro, spinto fino al limite della sopportabilità. 143 Cfr. «Avanti!», 22 maggio 1968. Anch'esso coincidente con il cosiddetto «miracolo economico». 145 G. Friedmann, op. cit., p. 28. 144 Pagina 52 di 185 Questa condizione educativa sembra legata nella fabbrica ad una ratio (e ad una aproblematicità) che il taylorismo ha permesso di spingere all'estremo (affermava che l'operaio non doveva pensare, altri lo avrebbero fatto per lui), e che ha la possibilità di presentarsi all'individuo come un mondo risolto in cui l'unico sforzo — apparentemente — è quello di riuscire ad inserirsi, senza disturbare l'ordine delle cose prestabilite. Un universo eccezionale — rispetto a quello quotidiano, irto di problemi, di dubbi, di interrogativi — in cui il do ut des, la vendita non ha riferimenti ad aspettative future, a speranze, ma al salario con scadenza fissa. Una razionalità, peraltro, di cui il sistema economico nasconde la logica, e lo scopo produttivistico; nasconde e mistifica, incrementando lo sfruttamento, fino ad un limite di sopportabilità che non è, tuttavia, conoscibile e prevedibile nel suo massimo, legato com'é al costo psichico del lavoro, al rapporto individuo-macchina, ad un «dispendio di forze non quantificabile». Una razionalità, dunque, alla base delle condizioni educative che nella fabbrica volentem ducunt, nolentem trahunt fino al limite della rottura dell'equilibrio mentale. Una ideologia che si autogiustifica e che è arduo contestare in blocco dall'interno della sua ratio; se è stato possibile per i sindacati e per molti scienziati contrastare di fatto l'analisi del comportamento sul lavoro fino a negare la stessa presunta scientificità del taylorismo e dei suoi derivati, se è possibile lottare contro le applicazioni di quelle analisi sui ritmi e sui salari, di fatto è estremamente complesso opporsi alla razionalità aziendale come condizione educativa, dall'interno della sua logica, dall'interno di una singola azienda, dall'interno del singolo reparto. Ciò è possibile, indubbiamente, partendo da un'altra, opposta razionalità, esterna a quella, e globale rispetto a quella, che nella prospettiva di mutazione dei rapporti di proprietà affronti subito i problemi della divisione del lavoro. Come affermava recentemente il sindacalista Trentin: «II problema è di attaccare immediatamente le contraddizioni esistenti tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, nella piena coscienza che, una volta superate nella loro forma più frusta, queste contraddizioni si riproporranno al movimento operaio sotto una forma più avanzata e, nello stesso tempo, più acuta, come l'esperienza dimostra»146. E ciò è possibile oggi per la concretezza storica della prospettiva di mutazione dei rapporti di proprietà, e per la visione del mondo che permea tale mutazione. Per questo: «L'operaio specializzato di oggi ha un livello intellettuale medio, una nozione del mondo che lo circonda, molto superiori a quelli del lavoratore di cinquant'anni orsono. Per un giovane, il lavoro parcellizzato è una condanna che ferisce direttamente la sua coscienza e la sua intelligenza... Mentre lo spreco, al livello della società, non fa che aumentare, la contraddizione tradizionale si è capovolta, da un punto di vista soggettivo: la semplice mortificazione delle capacità intellettuali attuali del lavoratore diviene l'elemento principale»147. Aumentare questo livello intellettuale, sviluppare la cognizione di una visione del mondo, contribuire — dunque — attraverso interventi educativi, significa incrementare la percezione di una realtà mortificante, fornire strumenti di consapevolezza per uscire all'esterno della razionalità della fabbrica di modello tayloristico; e uscirne non per «incentivi materiali (cottimo collettivo che può divenire... partecipazione indirizzata ai risultati produttivi dell'intera azienda)»148, ma perché si rifiutano le valenze educative di quella struttura e si cercano occasioni educative antagonistiche, capaci di contribuire ai processi di mutazione della forma sociale. Qui non ci è dato sviluppare un'analisi sui singoli aspetti formativi delle condizioni di lavoro nell'industria; né avrebbe senso occuparsi del lavoro a catena, dei ritmi, del problema delle qualifiche, dei processi di automatizzazione e dei mille problemi della fabbrica in rapporto 146 Le taylorisme remis en cause de l'autre còte des Alpes, «Le Monde». 14 dicembre 1971, p. 20. Le taylorisme remis en cause de l'autre còte des Alpes, «Le Monde». 14 dicembre 1971, p. 20. 148 R. Stefanelli, Quando la merce-uomo si ribella al capitale, in «l'Unità», 17 aprile 1968. 147 Pagina 53 di 185 alle loro valenze educative, senza un riferimento preciso e contingente ad una fabbrica ed alla risposta operaia alle condizioni di questa fabbrica, e, per noi, senza un rapporto di conoscenza diretta. Si tratta di legare un'analisi globale ad una determinata situazione storica, ambientale ed al rapporto tra intervento educativo innovante e valenze educative dei rapporti in atto. A noi sembra, peraltro, che l'educazione degli adulti debba ancora scoprire tutte le sue possibilità in questo senso, e che queste potenzialità hanno garanzia di emergere soltanto sul terreno sperimentale, senza deleghe ad elaborazioni altrui, affrontando direttamente problema dopo problema. A titolo di esempio, un nostro modo di accertare la consistenza delle valenze educative in fabbrica potrebbe esser quello di operare fin dai primi rapporti di assunzione nell'azienda; e passando attraverso tutti i problemi esistenti ed emergenti. Dall'analisi del periodo dell'assunzione (come iniziazione alla razionalità dell'organizzazione della fabbrica, attraverso le sue «prove» — i «tests» psicologici —, o, perfino, le sue «protezioni» — le lettere di raccomandazioni di notabili) probabilmente scaturirebbero indicazioni su quell'insieme di condizioni educative iniziali ed iniziatiche da cui discende, per logica coerenza interna, l'accettazione di altri aspetti di una ratio che, altrimenti, sarebbe insopportabile. Da una siffatta ricerca partecipata potrebbe precisarsi il nostro compito che non «sta al di sopra della società», ma in rapporto organico di educazione contro la deformazione, per iniziativa dei soggetti di tale rapporto. 3.2.9 Valenze educative nella realtà dell'agricoltura L'analisi delle valenze educative esistenti nelle condizioni di lavoro agricolo, non può non essere interrelata con quella delle valenze educative dell'industria, perché la «più grande divisione del lavoro materiale e intellettuale è la separazione di città e campagna»149. Tra città e campagna vi è un antagonismo che «comincia col passaggio dalla barbarie alla civiltà, dall'organizzazione in tribù allo stato, dalla località alla nazione, e si protrae attraverso tutta la storia della civiltà fino ai nostri giorni...»150. Un antagonismo che «è la più crassa espressione della sussunzione dell'individuo sotto la divisione del lavoro, sotto una determinata attività che gli viene imposta; sussunzione che fa dell'uno il limitato animale cittadino, dell'altro il limitato animale campagnolo, e che rinnova quotidianamente l'antagonismo tra i loro interessi»151. Una relazione antagonistica che in Italia è sempre stata, ed è tuttora, testimoniata dalla cosiddetta «questione meridionale», e che sul piano internazionale è rappresentata dalla problematica relativa al cosiddetto «Terzo mondo»; una relazione, «fondata direttamente sulla divisione del lavoro e sugli strumenti di produzione», in cui la città (i paesi e le regioni capitalisticamente industrializzati) si distingue per «il fatto della concentrazione della popolazione, degli strumenti di produzione, del capitale, dei godimenti, dei bisogni, mentre la campagna fa apparire proprio il fatto opposto, l'isolamento e la separazione»152. Anche a causa di tale rapporto, l'individuazione delle valenze educative nell'agricoltura è ancora più complessa di quanto non sia quella nella realtà industriale; e, tuttavia, soprattutto nel nostro paese, è un impegno che l'educazione degli adulti non può fare a meno di assolvere. Nello scontro tra città e campagna, è proprio il mondo contadino che, in un modo o nell'altro, ha subito e subisce le maggiori spese, anche in termini educativi, dei processi di trasformazione. 149 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 40 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 40 151 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p.41 152 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p.41 150 Pagina 54 di 185 Sicché, chiunque si trovi ad affrontare i problemi relativi al rapporto tra intervento educativo e gli stessi processi d'industrializzazione, o il fenomeno dell'emigrazione, o l'urbanesimo, o l'esodo dalle campagne, o ogni altra questione della odierna realtà italiana, non potrebbe omettere di considerare il passato sociale, economico, culturale, e, cioè, dimenticare il rilievo che le valenze educative presenti nelle condizioni di lavoro agricolo hanno avuto, in un senso o nell'altro, sulla formazione dei genitori degli attuali operai, o sugli stessi attuali operai, passati dal bracciantato al complesso industriale nel giro di un viaggio di alcune centinaia di chilometri, e magari in età non più giovanile. Tali valenze educative hanno influito enormemente per costruire un «limitato animale campagnolo» sulla base dell'«isolamento» e della «separazione», se i risultati sono riscontrabili sia al di fuori dell'ambiente d'origine, sia sul luogo di residenza rispetto ai tempi, all'evolversi ambientale sulla base delle scelte della città. Una delle scelte più tipiche, da questo punto di vista, è quella «riforma dell'agricoltura nella Comunità Economica Europea» nel cui Memorandum del 1969153 si legge, a proposito della piramide delle età delle persone occupate nell'agricoltura, che essa presenta, rispetto a quella della popolazione complessiva della Comunità, una «netta contrazione per le persone tra i 40 e 55 anni e un anormale ampliamento per le persone più anziane. La metà di tutti i capi di aziende agricole ha già più di 57 anni»; per lamentare, tra l'ovvio e lo sdegnato, che, per questo: «Spesso essi non hanno la formazione che consente loro di adeguarsi facilmente alle mutevoli condizioni sociali ed economiche». Laddove non si sa: se sottolineare l'atteggiamento lunare di fronte alla mutevolezza delle condizioni, come se queste non fossero volute e imposte da quel potere economico che un tempo veniva definito «blocco agrario» (e che formava un certo tipo di contadino), e che oggi, assumendo altre forme si sdegna di quella «formazione», e ne vorrebbe imporre un'altra, per un contadino agile, pronto all'adattamento. Ovvero sottolineare l'acre sincerità della contradittoria pretesa che «formazione» equivalga a facilità di adeguamento, come se questa non fosse anche frutto educativo del passato, imposta nella logica del latifondo. Il fatto è che, nonostante in questo Memorandum si parli di misure e provvedimenti intesi a «contribuire efficacemente al miglioramento dell'avvenire della popolazione agricola», in realtà questa popolazione sarebbe oggetto, da un Piano all'altro, di modificazioni sostanziali, se non fosse in grado di opporre una articolata resistenza nelle forme più diverse, maturate attraverso le valenze educative della propria storia e l'esperienza del movimento contadino (dall'occupazione delle terre alle lotte bracciantili del 1969). Modificazioni sostanziali che hanno visto, in venti anni, il passaggio dal 49 per cento della popolazione attiva occupata in agricoltura al 19,4 per cento. «In tutto sono 3 milioni e 683 mila addetti, che secondo certe previsioni dovrebbero diminuire ancora, di due milioni, per attestarsi su una percentuale oscillante tra l'8 e il 12 per cento. Sono dati questi che danno un'idea dei profondi sconvolgimenti che hanno colpito le nostre campagne. Niente però — proseguiva il presidente dell'Alleanza dei contadini — è avvenuto a caso. Lo sconquasso è il risultato di un meccanismo di sviluppo ben preciso che vede l'agricoltura e i contadini in posizione di netta subordinazione economica e sociale nei confronti del grande capitale monopolistico»154. 153 Cfr. Memorandum sulla riforma dell'agricoltura nella Comunità, Ufficio per l'Italia della Direzione generale stampa e informazione delle Comunità Europee, Roma, luglio 1969 (ristampa), pp. 6-7 154 Relazione di A. Esposto, presidente dell'Alleanza dei contadini, svolta presso la Facoltà di Agraria dell'Università di Piacenza; cfr. R. Bonifacci, / contadini all'università, «l'Unità», 24 marzo 1971. Nel 1973, l'« esodo agricolo ha riguardato 300 mila persone attive di cui 130 mila all'estero», cfr. «l'Unità», 7 febbraio 1974 Pagina 55 di 185 E, riferendosi all'emigrazione dalle campagne: «L'esodo si è trasformato in fuga che investe prima di tutto le forze giovani: in un solo anno — aggiungeva il segretario generale della Federbraccianti — 470 mila addetti sono usciti dall'agricoltura e 500 mila lavoratori sono emigrati dal Mezzogiorno... Le cause risiedono nella condizione sociale e civile dei lavoratori della campagna e del Sud -che hanno salari annui pari in media al 50 per cento di un operaio dell'industria e, in alcune regioni, lavoro solo per una media di 120 giorni l'anno — e nel livello bassissimo del reddito di lavoro di grandi masse di contadini»155. Può anche darsi che l'estensore del Memorandum sia convinto in buona fede — analogamente al Taylor di altri tempi e campi — di poter «contribuire efficacemente all'avvenire della popolazione agricola», di quella, almeno, che non abbandonerà; ma quando si pensi che negli Stati Uniti, il reddito medio di una famiglia agricola — compresi i guadagni esterni alla fattoria — resta ancora inferiore del 15 per cento alle risorse delle altre categorie socioprofessionali, si comprende come il desiderio possa anche essere quello, ma che la tendenza reale è ben altra: negli Stati Uniti, ad esempio, negli anni 1960-69 le aziende con un giro di affari di più di 40 mila dollari sono aumentate dal 2,9% al 7,1%; quelle con un giro da 10 a 40 mila dollari sono aumentate dal 18,2% al 29%. Queste aziende assicurano l'85% delle vendite dell'agricoltura. L'altro 15 per cento è assicurato dalle aziende medie (da 2500 a 10.000 dollari) e piccole (meno di 2.500); entrambe sono in costante diminuzione156. Questa tendenza è in atto anche nel nostro paese ed è «il frutto di una politica nazionale e comunitaria di classe che ha affidato e vorrebbe continuare ad affidare le sorti di milioni di uomini alle decisioni della grande industria e del capitale agrario»157. Rispetto a questa tendenza, a questo «sconquasso», e rispetto alla resistenza del movimento contadino all'una e all'altro, è fondamentale estrarre le valenze educative delle realtà in atto e in opposizione. Bisogna, a tal fine, tener sempre conto delle valenze educative operanti nel passato contadino, quando questo mondo era sinonimo di staticità, e di iterazione senza innovazione. Un passato che è prossimo perché risale alla vigilia della motorizzazione, della meccanizzazione, della televisione; e, cioè, dei fattori potenzialmente progressivi perché capaci di contribuire al superamento dell'«isolamento» e della «separazione», ma in realtà tendenti ad agire, nelle attuali strutture, nel senso di nuove forme di «isolamento» e di «separazione». Si tratta, dunque, di individuare le valenze educative di tre momenti, e delle loro interrelazioni, nelle condizioni di lavoro dell'agricoltura; questi tre momenti sono dipendenti dal rapporto città-campagna. Nel primo momento (per il cui esame l'apporto di Gramsci è fondamentale, assieme ad una vasta e pur contradittoria letteratura, sia economica, sia sociologica, sia letteraria), potremmo dire — in sintesi e grosso modo — che le condizioni di lavoro, già legate alla produzione — non sempre controllabile — di vegetali e animali, sono esposte all'arbitrio padronale che, collegato all'esterno con il capitale industriale, si impone all'interno delle strutture agricole nei modi più chiusi. Le condizioni di lavoro che ne scaturiscono, più che legate — come si può ritenere — ai ritmi biologici e stagionali, hanno una rigida unità di misura in se stesse, nel lavoro. La valenza educativa in cui si sostanzia tale condizione è misurabile sulla «fatica»; il tempo non esiste al di fuori della condizione lavorativa stessa, né è misurabile altrimenti. 155 Relazione di F. Rossitto, Segretario generale della Federbraccianti-CGIL, alla «Conferenza nazionale dei delegati d'azienda e membri delle commissioni per il collocamento e la gestione dei contratti», Roma, 19 settembre 1970. Atti in «Collana documenti», fascicolo: Le conquiste dei braccianti sono il frutto di lotte interne. Una loro rigorosa gestione è condizione per una grande avanzata sulla via dell'unità e delle riforme, pp. 11-34 156 Cfr. L'agricolture américaine aufutur, III: Lesfermiers de l'aube et du crepuscule, inchiesta di P.-M. Doutrelant, in «Le Monde», 16 luglio 1972, p. 26 157 F. Rossitto, op. cit. Pagina 56 di 185 È chiaro che questa valenza educativa, con tutto il suo rilievo etico, è destinata a prolungarsi oltre il suo originario momento strutturale. Anche in quello che possiamo considerare come secondo momento, quando la «città» invade la «campagna» con la motorizzazione, la meccanizzazione, la televisione; le condizioni di lavoro nell'agricoltura vedono aumentare il livello di sfruttamento che viene praticato sia all'interno delle strutture economiche agricole, sia, all'esterno, da parte delle strutture industriali; le valenze educative di questa nuova situazione sono evidentemente rese più complesse da quelle stesse lezioni che vengono introdotte attraverso l'invasione in parola; all'autoritarismo, al paternalismo tradizionalmente vigenti nelle campagne si unisce l'educazione attraverso altre forme di paternalismo e di autoritarismo: la pubblicità, il tecnicismo, l'introiezione di modelli cittadini, il rapporto passivo e passivizzante con la televisione. Nel terzo momento, attraverso la cosiddetta «fuga dalle campagne», la ricerca delle valenze educative nelle condizioni di lavoro agricolo si intreccia con quella da svolgersi in relazione ai fenomeni dell'emigrazione, dell'urbanesimo; tale situazione dinamica è in atto ed è fatta di apporti dall'esterno all'interno e dall'interno all'esterno dell'agricoltura, ad opera di quei contadini che, un tempo, svolgevano tale funzione soltanto subendo la vita militare, occasione educativa che un G. Fortunato propugnava seriamente quale coadiuvante alle soluzioni del problema del Mezzogiorno158. 3.2.10 Responsabilità e scelte educative nel terziario L'individuazione del significato, dell'entità, delle capacità riproduttiva e diffusiva delle valenze educative esistenti nelle condizioni di lavoro delle attività terziarie è, per il nostro lavoro, interessante per due ordini di ragioni. Per ragioni oggettive, innanzi tutto, in quanto lo spostamento delle forze di lavoro da un settore all'altro e, in particolare, dall'agricoltura verso l'industria e le attività terziarie, cosi rilevante in Italia dal dopoguerra, assume valore educativo di per sé, per la modificazione globale che comporta un cambiamento economico, sociale e culturale di vasta portata. In secondo luogo, per ragioni soggettive, in quanto la multiformità delle condizioni di lavoro, in questo settore, e nella società di classe, propone una gamma di situazioni particolari, di varia consapevolezza e di ambiguità delle stesse valenze educative. Da qui l'utilità del tentativo di ricondurre la visione di tali situazioni ad una prospettiva unitaria. Ciò è complesso, ad es., per la composizione estremamente mista degli interessi del ceto medio, fornitore di forza-lavoro per larga parte delle attività terziarie (gli interessi dell'insegnante, del dirigente d'azienda, del cameriere, del commerciante ecc.); oppure, per l'equivocità dello status che può sollecitare, indifferentemente, ad avvicinarsi al mondo operaio o ai detentori dei mezzi di produzione; o, infine — ma la ricerca di questi aspetti sarebbe più complessa — per la relazione stretta esistente tra condizione di lavoro nel terziario e processi formativi, relazione che vede gli addetti del settore in funzione diretta o indiretta — ma comunque reale — di agenti educativi. O, meglio, al servizio delle agenzie educative: scuola, altre strutture formative pubbliche (dalle biblioteche ai mezzi di comunicazione). 158 Pur non avendo «nulla a che fare con uno spirito naturalistico», G. Fortunato sembra ritenesse che «la soluzione vera della questione meridionale stava in un mutato intendimento morale degli Italiani, chel'esercito, accostando uomini giovani delle più distanti regioni, fosse realmente "il fattore più valido dell'educazione nazionale", presso cui "più vivo e più intenso batte il cuore della Patria", poiché esso "è sangue ed è carne del nostro sangue e strumento di alta educazione civile e patriottica". E, in particolare, l'esercito era ai suoi occhi "il grande educatore" dei contadini, che senza di esso rimarrebbero come murati nella solitudine dei loro campi, mai arrivando ad una nozione della nuova Italia»; cfr. M.L. Salvadori, II mito del buongoverno, La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Torino, Einaudi, 1963, p. 179. Pagina 57 di 185 Il terremoto settoriale che ha investito l'Italia negli ultimi venti anni, con l'aumento del terziario e l'abbandono delle campagne, con l'emigrazione dal Sud verso il Nord industrializzato — sia nazionale che estero —, con l'urbanesimo, con il problema del lavoro femminile, con l'aumento stesso della scolarizzazione, ha provocato un gigantesco sforzo sociale di riqualificazione individuale, di adattamento a nuove condizioni di lavoro e a diversi modi di vivere, di apprendimento all'uso di strumenti culturali inediti per larghi strati della popolazione, di percezione dei modi moderni dell'associarsi politico e sindacale nonché di scelta personale tra i diversi schieramenti. Peraltro i processi di proletarizzazione hanno investito zone e strati sociali che il «blocco agrario» e le amministrazioni borboniche avevano mantenuto per lunghi anni a regime feudale di sopravvivenza. Tutto ciò, un insieme di fenomeni compositi e contraddittori, nella logica del tipo di sviluppo imposto dall'interesse del capitale interno e internazionale, ha postulato soprattutto per la classe operaia e, in generale, per i lavoratori dei ceti soggetti, un impegno duplice: di interpretazione dei dati che la complessa realtà andava fornendo, e di risposta al senso conservativo e, nel loro interesse, peggiorativo che tali elementi possedevano. Un impegno che, per quanto riguarda la risposta, il movimento operaio, nel suo complesso, ha svolto nell'interesse collettivo; ma, nel contempo, uno sforzo d'interpretazione che gli individui stessi venivano chiamati a compiere attraverso le diverse occasioni, le varie capacità, i plurimi spunti di rapporti, le più opposte forme di mediazione. Il rilievo di una ricerca da compiersi costantemente sulla condizione di lavoro nel terziario discende dal ruolo educativo cui i lavoratori di questo settore sono stati chiamati, e saranno chiamati, dalle forze egemoni economicamente, perdurando l'attuale tipo di sviluppo. Il senso della valenza educativa di questo ruolo formativo dei lavoratori del terziario è evidentemente conservativo, del che tutto cambi purché nulla cambi; il loro ruolo educativo nasce dal bisogno di larghi strati della popolazione di adeguarsi al tipo di sviluppo in atto per le esigenze di sopravvivenza individuale e familiare; le occasioni formative di questo tipo, infine, sono costituite da ogni e qualsiasi momento in cui gli adulti entrano in rapporto con una società di classe, e, cioè, praticamente dall'alba al momento di chiudere gli occhi, eccezion fatta per quelle ore che i consapevoli dedicano allo studio, all'organizzazione dei modi e all'azione per modificare la realtà strutturale in cui sono oppressi. Lo sforzo d'interpretazione che, a livello individuale, il tipo di sviluppo chiama a compiere avviene, dunque, attraverso la mediazione dell'«impiegato» (che prendiamo a simbolo della categoria terziaria) il quale diviene una sorta di maestro della riqualificazione sociale nel senso anzidetto. I luoghi deputati all'insegnamento sono i più diversi: il posto di lavoro, la strada, il cinema, il grande magazzino, la sala da ballo, la casa, l'officina meccanica, il bar ecc. e il ruolo viene ricoperto di volta in volta, dal dirigente d'azienda, dal cartellonista, dal regista cinematografico, dalla commessa, dal cantante, dalla presentatrice o dal giornalista televisivo, dal tecnico del frigorifero o dell'automobile, dal cameriere ecc. Mentre, come sappiamo, il bisogno di interpretare per esigenze di sopravvivenza pone problemi di chiavi di lettura dei messaggi più diversi attraverso i veicoli più vari: il regolamento scritto o la busta paga in fabbrica, i manifesti pubblicitari o la diversità del dialetto — quando non della lingua — nella strada, i «generi» cinematografici con i loro significati attuali, la situazione di bengodi consumistica del grande magazzino, la canzone scacciapensieri o quella con pseudopensieri della sala da ballo, il telegiornale o il carosello, il funzionamento e il guasto degli apparecchi elettrodomestici o dell'automobile, le bibite dai mille colori nel bar, e cosi via. Si può affermare che la semiologia ha origine da questo bisogno d'interpretare, un bisogno di massa, più che dalla teoria? Fatto è che tutti siamo alle prese, in qualche momento dell'esistenza, con il bisogno d'interpretare per poter scegliere, per trovare il comportamento giusto a livello individuale, quello che più e meglio ci aiuti a sopravvivere. Pagina 58 di 185 E, ovviamente, tale bisogno è tanto più ingente quanto più le situazioni sono inedite per le più diverse ragioni, e quanto più pesa sull'individuo una carenza di consapevolezza che, in generale, possiamo definire politica. Si tratta di un bisogno che può essere soddisfatto attraverso la mediazione del «lavoratore commerciale», quello stesso che ha steso il regolamento o predisposto la busta paga, o che — in sintesi — nella complessa morfologia dei processi di produzione e del consumo, «compie un lavoro, in parte non pagato» con il quale «non produce direttamente del plusvalore», ma rende perché «contribuisce a diminuire le spese della realizzazione del plusvalore»159. E’ un esercito di piccoli esperti di cui ci si può servire per avere più informazioni, più interpretazioni, e, quindi, più educazione unidirezionale e interessata, e, infatti, «il capitalista aumenta il numero di questi lavoratori, quando vi sia da realizzare più valore e profitto»160. Vi è, infine da tener presente che «La generalizzazione dell'istruzione popolare permette di reclutare questa specie di salariati da classi che prima ne erano escluse ed erano abituate ad un tenore di vita peggiore»161, mentre questa stessa generalizzazione «accresce l'afflusso e con ciò la concorrenza»162. Nonostante risulti che i «lavoratori commerciali veri e propri appartengono alla classe di salariati meglio pagati, di quelli il cui lavoro è qualificato, superiore al livello medio»163, la loro condizione di lavoro è precaria e ambigua e la valenza educativa di questa realtà di rapporti è altrettanto precaria e ambigua. Di fronte a questa oggettività di condizioni strutturali ed educative, e a questa funzione di mediazione — di fatto, unidirezionale e coerente allo scopo di contribuire a «diminuire le spese della realizzazione del plusvalore» —, la tensione soggettiva può avere valore innovativo se è rieducata in un rapporto organico alle ragioni del movimento operaio. Intendiamo dire che non può esservi autonomia, ad esempio, per l'operatore culturale che presuma di esplicare il proprio «servizio» senza compiere scelte di campo. Vogliamo aggiungere che egli può contribuire a conquistare uno spazio liberatorio tenendo conto dei rapporti di forze in cui è inserito se diviene consapevole del suo preciso bisogno di essere educato, e ciò proprio perché dal sistema gli è stata assegnata la funzione eteronoma di maestro di adattamento ad un tipo di sviluppo particolare. Analogamente si può dire per il giornalista, per il regista, per il cantante, per il commerciante. Se un tempo il ceto «di mezzano stato» frequentava le Università Popolari per acculturarsi ai valori borghesi, per ascendere verso strati socio-culturali superiori, oggi gli appartenenti allo stesso ceto debbono trovare le occasioni di crescita in rapporto ai motivi di sviluppo delle classi popolari. E l'educazione degli adulti deve contribuire allo sviluppo di questo rapporto, all'acquisizione della consapevolezza necessaria verso uno schieramento di forze capace di opporsi al «grande capitale monopolistico». 159 K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 362-363. Cfr. M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, pp. 102-103 160 K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 362-363 161 K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 362-363 162 K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 362-363 163 K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 362-363 Pagina 59 di 185 3.3 La scuola nel rapporto tra produzione e formazione 3.3.1 Istituzione formativa diretta e agenti educativi indiretti La configurazione della scuola, come istituzione formativa diretta, emerge dalle strutture produttive e dalle condizioni di lavoro; è quotidianamente constatabile che nella società industriale è operante la tendenza a rendere il sistema scolastico conforme alle necessità dei rapporti e dei processi di produzione, a questi assoggettando — nelle società capitalistiche — la specificità di funzionamento della scuola stessa164. È necessario, quindi, chiedersi quali siano, nell'ambito di tale tendenza, i rapporti tra produzione e formazione, perché è nell'articolarsi di tali relazioni che si chiariscono i termini del rapporto tra scuola ed educazione degli adulti. A noi sembra che, per esaminare questo complesso articolato di rapporti, i contributi di taglio prevalentemente psicologico o pedagogico siano da utilizzare all'interno di una visione che consenta di scorgere le determinazioni essenziali del rapporto tra scuola ed educazione degli adulti. Sia per quanto riguarda le caratteristiche delle età infantile o adolescenziale in relazione a quelle dell'età adulta, sia per quanto attiene alle specificità dei processi formativi in età e condizioni differenti. Da una parte abbiamo un continuum formativo che dobbiamo considerare per tale; dall'altra ci troviamo di fronte ad un frammentarsi di occasioni educative che non solo non si presentano con una facies unitaria, ma che tendono a occultare tale facies o dietro formule ambigue (la descolarizzazione) ovvero dietro false scissioni (lavoro e tempo libero; produzione e consumo). L'angolazione andragogica — e l'intervento dell'educazione degli adulti — può essere utile per ricondurre ad unità gli agenti educativi diretti e indiretti; e per contribuire a modificare il senso politico di tale, attuale unità. Affermando che la configurazione del sistema scolastico emerge dalla logica delle strutture produttive, intendiamo riprendere il significato qualificante attribuito al lavoro, come condizione che crea l'uomo; come elemento che attribuisce valori e disvalori agli altri agenti educativi diretti, come la scuola, o indiretti, come l'ambiente. E ciò sulla base della determinazione secondo la quale in una società di classe coloro che dispongono dei mezzi di produzione dispongono «con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale» e «dominano anche come pensanti, come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo»165. Rispetto a questa unità educativa orientata e tendenzialmente controllata dalle strutture economiche dominanti, i diversi agenti educativi, diretti e indiretti, si differenziano a seconda delle funzioni loro affidate, e si caratterizzano per il loro rilievo così come per le loro contraddizioni. Ad esempio, i mezzi di comunicazione (dalla televisione, al cinema, alla radio, alla stampa) mostrano una realtà di «distribuzione delle idee» che, grazie allo sviluppo tecnologico, mai come oggi è stata tanto disponibile per i detentori dei mezzi di produzione; e, nello stesso tempo, lasciano intravedere una potenzialità innovativa che si tratta di controllare e di dirigere. 164 Ovvero, la specificità della sua crisi; con Gramsci, possiamo dire che «la crisi scolastica che oggi imperversa è appunto legata al fatto che questo processo di differenziazione e particolarizzazione avviene caoticamente, senza principi chiari e precisi, senza un piano bene studiato e consapevolmente fissato: la crisi del programma e dell'organizzazione scolastica, cioè dell'indirizzo generale di una politica di formazione dei moderni quadri intellettuali, è in gran parte un aspetto e una complicazione della crisi organica più comprensiva e generale» (cfr. Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura,Torino, Einaudi, 1949, p. 99). 165 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, pp. 35-36. Pagina 60 di 185 Nell'ambiente, le condizioni che scaturiscono dalla politica sociale ed economica tendono ad imporre valenze educative improntate all'isolamento — il divide et impera delle agglomerazioni urbane —, e, nello stesso tempo, possono dar luogo a riaggregazioni di tipo nuovo, con valenze educative improntate ad una visione collettiva. La scuola, peraltro, pur essendo il frutto storico dei processi di sviluppo industriale — con tutte le loro caratteristiche deformanti e conformanti — subisce una critica alla propria efficienza nella preparazione al lavoro anche da parte di quelle strutture industriali che debbono constatare enormi ritardi nell'approntamento della forza-lavoro qualificata; ritardi di cui le strutture economiche sono le principali responsabili. D'altra parte, rispetto alla globalità dell’unità educativa, la scuola è stata isolata dalla società degli adulti, tradizionalmente e tendenzialmente senza controllo esterno, se non per i risultati produttivi finali. In ciò, essa si diversifica dagli altri agenti educativi; dai mezzi di comunicazione, ad esempio, nella misura in cui ciascun messaggio può essere controllato e contestato dall'utente nel momento del suo arrivo, e lo è di fatto, pur se questo controllo e questa contestazione non sempre raggiungono forme organizzative dirette; dall'ambiente, dove le aggregazioni di interessi possono giungere a sconvolgere i programmi formativi, impliciti o espliciti, degli economisti o degli urbanisti facendo scoppiare contraddizioni difficilmente sanabili; dal lavoro poi, ed evidentemente, dove il controllo operaio consente di soppesare gli stessi processi di isolamento cui si cerca di sottoporre il singolo lavoratore, il singolo reparto, la singola fabbrica. L'isolamento della scuola dagli adulti viene postulato ideologicamente attraverso il rovesciamento della laicità che, se per un Salvemini166 voleva dire il garantire alle generazioni che sorgono il bisogno di tutto comprendere per poter tutto dominare, significa, nella scuola, isolata asetticità, distanza dai problemi della società, apoliticità, neutralità programmatica. Tali sono le caratteristiche che coprono una realtà formativa interessata privatisticamente alla conservazione dello status quo. Nel constatare gli aspetti più rilevanti del distacco tra scuola e società degli adulti, troviamo altri elementi che convalidano quella separazione e la precisano nella sua intenzionalità: dividere i processi produttivi da quelli formativi, nell'affermazione di quel processo di scissione (come «contrapposizione delle potenze intellettuali del processo materiale di produzione agli operai, come proprietà non loro e come potere che li domina») che «si completa nella grande industria» la quale «separa la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente dal lavoro, e la costringe a entrare al servizio del capitale»167. La scuola, in sintesi, rispetto agli altri agenti educativi usufruisce di un falso privilegio che è il suo specifico condizionamento. Potremmo aggiungere che mentre la sostanza formativa degli altri agenti può essere di fatto mistificata dietro varie esigenze, ragioni, logiche interne (ad es., per il lavoro, la produttività; per i mezzi di comunicazione, il divertimento o addirittura la «cultura»; per l'ambiente, il benessere e la sicurezza), per la scuola essa non può essere celata; viene pertanto isolata nella sua finalità direttamente educativa, privilegiata — appunto — nel suo ruolo di «pubblico servizio» formativo, conclusa in se stessa, nel ghetto della comunità scolastica168. 3.3.2 Il «processo di scissione» tra ed.permanente e descolarizzazione Può essere utile verificare il senso storico del rapporto tra scuola ed educazione degli adulti riesaminando il processo di scissione tra formazione e produzione rispetto a due tendenze contemporanee: l'«educazione permanente» e la «descolarizzazione». 166 Cfr. G. Bini, Contro i catechismi confessionali e «laici», in «l'Unità»,9 dicembre 1966. K. Marx, Il Capitale, Critica dell'economia politica, Roma, Rinascita, 1951-56, pp. 60-64. 168 La potenzialità innovativa dei recenti «decreti delegati» si collega e deve essere contrapposta alla tradizionale condizione di isolamento della scuola. 167 Pagina 61 di 185 Entrambe hanno acquisito forza politica e rilevanza pedagogica per le diverse e contrastanti interpretazioni che le contraddittorie spinte dello sviluppo economico hanno sollecitato e per le risposte che a tali spinte sono state opposte dal movimento operaio. Entrambe hanno avuto origine dall'insoddisfazione nei confronti del sistema scolastico, e in genere formativo, sia da parte delle strutture produttive, sia da parte delle forze organizzate del lavoro, sia da parte degli stessi studenti e docenti. Una insoddisfazione motivata da opposte analisi e finalità, evidentemente; e, tuttavia, un fuoco concentrico di critiche e proposte che, appoggiandosi sulle lotte del movimento studentesco, hanno costituito un ponte tra scuola e società adulta; un raccordo problematico che, grazie alle lotte degli anni '60, difficilmente potrà essere annullato, riportando la percezione dei problemi alle carenze della situazione precedente. Un rapporto con l'esterno, d'altro canto, è oggi tendenzialmente ricercato dalla scuola stessa, anche la più tradizionalmente asettica, in quanto ci si avvede che, a differenza di quanto si verificava alcuni anni orsono, i problemi da affrontare e da risolvere non sono soltanto di ordine pedagogico, ma sostanzialmente politico. E se l'uomo di scuola «apolitico» dirà — restando in attesa — che in questa realtà non riesce a comprendere nulla, chi è minimamente consapevole non si illude che gli attuali rapporti di forza potranno essere risolti attraverso innovazioni interne, di ordine metodologico o organizzativo. Peraltro, dall'esterno, la pressione è tanto elevata che il dibattito sui temi educativi, sulle soluzioni relative alle strutture scolastiche è entrato, per un verso o per l'altro, nella vita familiare, nel quartiere, nella borgata, e, in generale, nella comunicazione collettiva. Ma, anche se la percezione sociale della rilevanza e della vitalità della questione scolastica non è più quella di ieri, quando essa costituiva materia di lotta, di ricerca, di elaborazione soltanto per le forze politiche organizzate e per gruppi di pedagogisti e di docenti169, ciò non significa che, pur di fronte ad una ampia mobilitazione d'interessi personali e familiari, il «processo di scissione» non prosegua il proprio corso. L'aumento quantitativo della popolazione adulta che sente l'importanza di penetrare nell'isolamento della comunità scolastica (almeno per comprendere il perché di determinate sofferenze individuali) è, infatti, in stretto rapporto con l'aumento della popolazione scolastica, con il cosiddetto fenomeno della « scuola di massa». Questa sensibilità di pura sopravvivenza personale non può avere capacità d'incidere sui processi oggettivi che tendono ad innovare nella struttura scolastica soltanto a fini particolari. Per poter bloccare il «processo di scissione» tra formazione e produzione, tra scienza e lavoro, il movimento operaio è impegnato a trovare e sviluppare i modi operativi (ad es. i Consigli di zona) affinché questa sensibilità, agli albori della consapevolezza, maturi verso un rapporto sociale più profondo e più saldo tra adulti e scuola. In un quadro di riferimento politico (come quello di «Consigli di zona» diffusamente operanti), l'intervento educativo nell'età adulta potrà contribuire per raccordare i momenti, attualmente divisi, della formazione: da quella infantile, all'adolescenziale, all'adulta, nelle interrelazioni tra le diverse situazioni (di produzione o di consumo; di figli o di genitori; di docenti o di discenti). E, in questo apporto specifico, attribuire una valenza innovativa, dal senso politico determinato, all'«educazione permanente». In proposito può certamente avere un peso raffermarsi della consapevolezza che una educazione permanente è già in atto, sia nelle forme dirette che indirette, secondo un programma conservativo che tende a realizzare formazione e produzione — nei modi più adeguati ai processi di sviluppo economico, scientifico e tecnico — nella loro scissione. Tale consapevolezza, che è essenziale rispetto alle valenze educative di segno adattivo — operanti nelle condizioni di lavoro, nel rapporto ambientale, nel consumo per la 169 Basti ricordare I'ADESSPI e TMCE. Pagina 62 di 185 sopravvivenza, nella relazione problematica con i mezzi di comunicazione —, rafforza una visione politica globale e fornisce risposte specifiche all'esigenza di contrastare il processo di scissione in atto, nella globalità delle sue articolazioni. Essa attribuisce alla descolarizzazione il significato particolare di una resistenza ad un determinato programma ad uso di interessi storici particolari, più che di rivolta inconsulta contro la struttura scolastica presa in sé e per sé; un programma che tende a realizzarsi — infatti — non solo dentro, ma fuori della scuola, e ciò in modo precipuo per quantità e per entità costrittiva delle occasioni di «apprendimento»: nella realtà del lavoro, dell'ambiente, della comunicazione audiovisiva. Da questa angolazione, l'opposizione che sembra esservi tra educazione permanente (la scuola per tutta la vita) e descolarizzazione (tutta la vita senza scuola) risulta essere sostanzialmente esterna al processo di scissione tra formazione e produzione, ed inerte ai fini di un risarcimento da parte di chi subisce, da giovane, la carenza di strutture scolastiche rispondenti ai bisogni, e, da adulto, di fatto, una realtà educativa permanente. Se l'establishment ha ancora bisogno dell'istituzione scolastica, usufruisce di occasioni — altrettanto cogenti per le valenze educative che contengono — che, possono essere, tendenzialmente, conformanti quanto la scuola. Il sistema socio-economico, d'altro canto — sotto il segno di slogan vuoti (come la «descolarizzazione»), o troppo pieni (come la «società educante») —, si avvia ad individuare per le esigenze del proprio sviluppo, modalità formative più efficienti del sistema scolastico tradizionalmente utilizzato. Queste tendenze, se da una parte provano che la formazione ai fini della produzione deve essere realizzata conformemente alle oggettive esigenze del progresso scientifico e tecnico, dall'altra confermano — per le modalità che vengono affacciate, ipotizzate e, in alcuni luoghi e circostanze, già realizzate — la realtà delle valenze educative in atto al di fuori della scuola. Si tratterebbe, soltanto, di organizzare queste potenzialità, di attribuire loro una consequenzialità capace di irregimentare la «naturalità» dei processi d'apprendimento, di segnare i tempi della formazione, di separare nuovamente, e in modi nuovi, formazione e produzione, di realizzare più compiutamente il processo di scissione tra scienza e lavoro. Attraverso un esame — pur succinto, necessariamente — delle singole tendenze dell'«educazione permanente», della «descolarizzazione» nonché delle proposte che sono state suggerite per realizzare l'una aspirazione e l'altra, altri stimoli potranno emergere per esaminare il complesso rapporto tra educazione infantile-adolescenziale e adulta. 3.3.3 L'educazione permanente tra utopia e realtà Negli organismi internazionali, l'educazione permanente - in quanto tale — è definita come «un concetto globale integrante i differenti aspetti e momenti del processo educativo in un continuum coerente»170, ovvero, come spiega Paul Lengrand, «un ordre d'idées, d'expériences et de réalisations bien spécifiques, c'est-à-dire l'éducation dans la plénitude de son concept, dans la totalité de ses aspects et de ses dimensions, dans la continuitè ininterrompue de son développement depuis les premiers moments de l'existence jusq'aux derniers et dans l'articulation intime et organique de ses divers moments et de ses phases successives»171. Una concezione, quindi, che va molto al di là della «educazione continua» della «educazione ricorrente», della «educazione ininterrotta» della «formazione permanente», della tendenza al semplice prolungamento della scuola per tutta la vita. 170 171 Unesco, Bibliographie sur l'éducation permanente, Paris, ED/WS/359, ottobre 1972, p. 3. P. Lengrand, A la découverte de l'éducation permanente, Unesco, ED/WS/354, «Colloque interdisciplinaire sur l'éducation permanente», Parigi, settembre 1972, p. 12. Cfr. Introduzione all'educazione permanente, Roma, Armando, 1973, p. 34. Pagina 63 di 185 Una visione dell'educazione che tende a superare la ristrettezza del rapporto e dell'identificazione educazione-scuola, nonché la limitatezza dell'educazione degli adulti intesa quale forma di rimedio agli effetti deprivanti del classismo sull'età infantile e adolescenziale degli appartenenti agli strati proletari e alle regioni meridionali. Una prospettiva — afferma Suchodolski172 — che, superando le ideologie educative sia della «società di produzione» (che risale all'«etica calvinista-puritana e all'economia ascetica dei pionieri del capitalismo») sia, della «società dei consumi», tende a prefigurare l'educazione come «un bene specifico avente un valore intrinseco singolare e invidiabile»; noi ci rendiamo sempre più conto — egli aggiunge — che l'istruzione non deve limitarsi alla formazione per la produzione e per il consumo, ma che essa deve realizzare funzioni di ordine più generale, nello sviluppo più multilaterale dell'uomo. La concezione nuova della «società dell'educazione» prende in considerazione proprio questi due aspetti: non si tratta soltanto del fatto che la civiltà moderna esige dagli uomini uno sforzo continuo di perfezionamento professionale, ma ugualmente che essa crea condizioni e incoraggiamenti ad approfittare dei multipli beni della vita e che ciò diviene possibile grazie unicamente all'istruzione. La concezione di una società dell'educazione — prefigura Suchodolski — promette di far uscire gli uomini dall'impasse nella quale li avevano condotti le loro visioni della «società di produzione» e della «società di consumo». Contenendo nei limiti della ragione i compiti della produzione e i bisogni del consumo, questa concezione considera la vita umana come esistenza soggettivamente preziosa grazie all'intensificazione di tutte le forze dell'uomo che devono servire il suo sviluppo. L'affermazione degli uomini nella produzione e nel consumo, ma anche nelle attività che vanno al di là del quadro di queste due funzioni, nel lavoro sociale e nell'attività creatrice, divengono la base che precisa all'educazione permanente gli obiettivi e un contenuto assolutamente nuovi. La dottrina dell'educazione permanente — conclude — diviene cosi una sorgente di revisione critica delle nozioni pedagogiche essenziali e un fattore cooperante alla comprensione moderna dell'educazione come processo di sviluppo della vita umana integrale nei suoi contenuti umanistici. Questa teoria dell'educazione si collega con le tradizioni più feconde del pensiero pedagogico — da Socrate e Dewey, passando per Comenio — alle migliori prove ed esperienze intraprese nei differenti paesi. Ma tale concezione di un'educazione permanente che si realizza in una «società di educazione», in — potremmo dire — un «regno della libertà» formativa, deve fare i conti, oggi, e in particolare nel nostro paese, con le strutture della realtà sociale. Proprio perché la sua dimensione reale non è quella strettamente pedagogica, ma quella «umana» «nella quale si opera la principale scelta dei valori», le condizioni politiche del divenire e dell'affermarsi di un'«educazione permanente» devono essere attentamente studiate nel tempo e nel luogo. Ci avvediamo, allora, che il «permanente», il «globale», il «coerente» attribuiti ad un'educazione del futuro non sono specificazioni risolutive dei problemi attuali. I riferimenti temporali («permanente»), spaziali («globale») e anche quelli interni al processo formativo («coerente») posseggono una valenza indubbiamente progressiva rispetto alla mera identificazione riduttiva scuola-educazione, ovvero studio-età giovanile; oppure rispetto alla claustrizzazione della scuola rispetto all'ambiente, alla scissione della istituzione formativa dalla società, all'accettazione fatalistica della divisione tra scuola ufficiale, riconosciuta e «scuola parallela» dei media; oppure rispetto alle incongruenze metodologiche all'interno del sistema scolastico. 172 B. Suchodolski, Éducation permanente. Problèmes, tàches, conditions, Unesco, Paris, ED-72/CONF. 1/3, Colloque interdisciplinaire sur l'èducation permanente», Parigi, 16 agosto 1972. Pagina 64 di 185 Ma tale progressività non è immediatamente e sempre tale; essa può assumere due significati diametralmente opposti, o, comunque, divergenti: da una parte, quello di una semplice tendenza alla ristrutturazione, alla riorganizzazione, all'aggiornamento delle istituzioni educative in risposta alle esigenze dei processi produttivi, alle suggestioni scientifiche, alle pressioni della «scuola di massa». Dall'altra, quello di una piena assunzione dei valori trasformativi che può avere l'incentivazione dei processi di affermazione di una «educazione permanente» verso una «società dell'educazione» che, delimitando la produzione e il consumo, tenda a riattribuire all'uomo tutte le sue capacità creative, contro lo sfruttamento dell'homo faber e dell'homo ludens. Se fosse la prima tendenza a prevalere, il ritmo educativo di conservazione-innovazione sarebbe completamente falsato e distorto, a vantaggio delle finalità conservative, in una conferma di tali finalità insite nell'«educazione permanente» che è già in atto, che possiede una propria «globalità», una propria «coerenza» e che avrebbe semplicemente bisogno di restaurare le proprie strutture, di rielaborare i propri metodi, di utilizzare i nuovi strumenti. Sembra evidente che qualora utilizzassimo il concetto di «educazione permanente» senza porre attenzione alle appropriazioni possibili non soltanto non salvaguarderemmo le aspirazioni al cambiamento, ma forniremmo alibi, sostegno, strumenti al disegno dell'immodificazione capitalistica. L'attenzione di chi opera nel campo dell'educazione degli adulti si esercita, innanzi tutto, sulla base della consapevolezza che, come sottolinea Suchodolski, se «l'organizzazione dell'insegnamento scolastico dipende in primo luogo dall'amministrazione dell'istruzione pubblica e dai quadri insegnanti, la realizzazione dell'ambizioso programma dell'educazione permanente dipende prima di tutto dai fattori che determinano le condizioni e l'orientamento dell'esistenza umana», e che tali «fattori non hanno un carattere pedagogico immediato e non dipendono dagli educatori»173. Questa considerazione, evidentemente, non deresponsabilizza gli educatori, ma tende ad evitare le ricorrenti illusioni pedagogistiche che sarebbero particolarmente miopi dinanzi ai problemi dell'educazione permanente. Questo concetto — nelle prefigurazioni più condivisibili — postula, infatti, un rapporto così intensamente organico tra educazione e società, tra formazione e lavoro, che sarebbe oggettivamente assurdo tentare di estrapolare un momento dall'altro, un aspetto dall'altro. Questa considerazione comporta, al positivo, l'esigenza imprescindibile per un educatore di impostare il proprio lavoro senza indulgere a false oasi pedagogiche, ma correlando organicamente il proprio intervento ai processi globali, operando affinché le scissioni non trovino avalli da parte nostra. D'altra parte, tale attenzione si esercita per una sorta di mandato storico; se è vero, come noi riteniamo, che l'esigenza moderna di una educazione permanente ha avuto origine dalla pratica dell'educazione degli adulti174, a questa tocca farsi carico — più di altri settori: universitario, superiore, medio, elementare, ma auspicabilmente insieme ad essi — del controllo sui processi realizzativi dell'educazione permanente, che certo nelle nostre strutture socio-economiche non avranno corso immediatamente progressivo. 173 B. Suchodolski, Éducation permanente. Problèmes, tàches, conditions, Unesco, Paris, ED-72/CONF. 1/3, Colloque interdisciplinaire sur l'èducation permanente», Parigi, 16 agosto 1972 174 «II contributo dell'educazione degli adulti all'insieme dell'educazione è decisivo ed insostituibile. Si è visto che in tale ambiente ed a partire da una serie di analisi sulla natura, le condizioni e il funzionamento del lavoro in corso e sugli ostacoli incontrati, che si sono elaborate e si continuano ad elaborare la teoria, e in una certa misura, la pratica dell'educazione permanen te. Ma il contributo dei programmi e delle attività di questo settore alla collettività educativa ha un carattere nello stesso tempo concreto ed immediato. Le più importanti innovazioni pedagogiche del nostro tempo sono nate in questo contesto» (cfr. P. Lengrand, Introduzione all'educazione permanente cit., pp. 35-36). Pagina 65 di 185 Ci sembra importante sottolineare la pratica, perché come rileva P. Lengrand, è nel corso della propria evoluzione che l'educazione degli adulti segna le proprie distanze nei confronti dei modi tradizionali dell'educazione. Le generazioni di lavoratori che cercavano il mezzo, grazie all'istruzione, di ottenere le migliori condizioni di vita e soprattutto di sicurezza, sia perché cercavano un alimento al loro desiderio di conoscere e di comprendere, sia perché dovevano acquistare gli strumenti di lotta, hanno scoperto nelle organizzazioni di mutuo insegnamento, nelle istituzioni di educazione operaia o cooperativa, nei movimenti ed associazioni di educazione popolare «attraverso, insomma, le esperienze di queste istituzioni inedite», un «nuovo genere di relazione educativa»175. Ma prima di giungere a questo risultato (ben prima dell'esplosione studentesca degli anni '60), i lavoratori hanno verificato che l'insegnamento «è un potente strumento di assimilazione e di conformismo. Hanno rifiutato di lasciarsi assimilare da una cultura dal carattere borghese e conservatore che privilegia i valori del passato, dell'eredità, dell'ordine e della sicurezza, a detrimento dei valori della lotta, dell'innovazione e dell'apertura. Hanno sentito il pericolo di una cultura disincarnata che si pretendeva oggettiva e disinteressata, mentre era un'arma di scelta per la difesa degli interessi della classe al potere. Hanno, denunciato i miti e le mistificazioni della ragione universale, estranea alle congiunture e alle lotte per il riconoscimento dei diritti e la giustizia sociale»176. Un altro rifiuto è maturato nei confronti del sistema educativo e dei modi tradizionali dell'istruzione distribuita ai fanciulli: «la trasmissione a senso unico del sapere, gli esercizi, i compiti, la verifica delle conoscenze, gli esami e i diplomi»177. E, conclude Lengrand, è stato «contro queste strutture mentali, ideologiche, culturali e metodologiche che si è progressivamente costituito un nuovo tipo di educazione degli adulti»178. Attraverso il non breve e contraddittorio processo della propria evoluzione, l'educazione degli adulti, in quanto emersa dai bisogni formativi della classe operaia, ha raggiunto una consapevolezza storica che può permetterle un controllo non ingenuo sui modi di realizzazione di un'educazione permanente. E, nello stesso tempo, una consapevolezza delle forze sulle quali poter contare per ostacolare i disegni conservativi. Tale verifica deve essere effettuata sull'emergenza degli attuali e prospettici bisogni formativi, sulle spinte e controspinte che delineano un progetto di educazione permanente. Indubbiamente esse non potrebbero essere individuate, oggi, nella visione di una «Pampaedia» dell'«educazione universale» secondo Comenio179; ovvero limitarsi alle motivazioni del Report inglese del 1919 dove si leggeva, a proposito dell'educazione adulta che essa «non può essere considerata come un lusso per poche eccezionali persone qui e adesso, e neppure come qualcosa che riguardi soltanto un breve periodo della vita giovanile, ma che l'educazione adulta è una permanente nazionale necessità, un inseparabile aspetto della "citinzenship" e quindi dovrebbe essere insieme universale e permanente»180. 175 B. Suchodolski, Éducation permanente. Problèmes, tàches, conditions, Unesco, Paris, ED-72/CONF. 1/3, Colloque interdisciplinaire sur l'èducation permanente», Parigi, 16 agosto 1972 176 B. Suchodolski, Éducation permanente. Problèmes, tàches, conditions, Unesco, Paris, ED-72/CONF. 1/3, Colloque interdisciplinaire sur l'èducation permanente», Parigi, 16 agosto 1972 177 B. Suchodolski, Éducation permanente. Problèmes, tàches, conditions, Unesco, Paris, ED-72/CONF. 1/3, Colloque interdisciplinaire sur l'èducation permanente», Parigi, 16 agosto 1972 178 B. Suchodolski, Éducation permanente. Problèmes, tàches, conditions, Unesco, Paris, ED-72/CONF. 1/3, Colloque interdisciplinaire sur l'èducation permanente», Parigi, 16 agosto 1972 179 J. Kotasek, L'idèe d'éducationpermanente dans la réforme actuelle des systèmes éducatifs et de laformation des maìtres, in L'école et l'éducation permanente, Quatre études, Paris, Unesco, 1972, p. 187. 180 Cfr. Adult Éducation Committee, Ministry of Reconstruction, Great Britain, 1919, p. 55. Pagina 66 di 185 Le attuali e prospettiche sollecitazioni al delinearsi teorico e al realizzarsi strutturale di un'educazione permanente non possono essere raffrontate alle indicazioni umanistiche, illuministiche, o a quelle funzionali agli albori della società industriale. È necessario rifarsi agli attuali processi di produzione e di consumo per contribuire a superarli; alla dialettica del cambiamento e della stasi che mai, come in questo scorcio di contemporaneità, ha investito con tanto interesse e con tanta veemenza i processi formativi. 3.3.4 Educazione, non istituzione scolastica? Rispetto al concetto di educazione permanente, nelle sue prospettive utopiche e nelle sue contraddizioni storiche, acquista un particolare valore, nell'ambito del rapporto scuolaeducazione degli adulti, il proposito di smantellamento dell'istituzione formativa scolastica, nelle varie versioni più o meno recenti (Ivan Illich, Paul Goodman, Everett Reimer)181. Tale smantellamento è, secondo Illich, «ormai inevitabile, e si verificherà molto prima di quanto si pensi. Non si può più infatti rimandarlo di molto, e non è neanche necessario dare una forte spinta a provocarlo perché questo già viene fatto. Piuttosto — egli aggiunge — sarebbe opportuno cercare di orientarlo in una direzione promettente, dal momento che potrebbe ancora attuarsi in due maniere diametralmente opposte»182. Da una parte, infatti, potremmo avere un «allargamento del mandato del pedagogo» e sostanzialmente un «accrescimento del suo controllo sulla società, anche fuori della scuola. Con le migliori intenzioni e con la semplice estensione della retorica oggi in uso nella scuola, l'attuale crisi scolastica potrebbe fornire agli educatori un pretesto per servirsi di tutte le reti della società contemporanea al fine di incanalare verso di noi i loro messaggi, s'intende per il nostro bene. La descolarizzazione... significherebbe in tal caso l'avvento di un "mondo nuovo" huxleyano, dominato dai ben intenzionati gestori dell'istruzione programmata». Dall'altra parte, si potrebbe avere la «straordinaria possibilità» per «grandi masse di gente» di «preservare il diritto di accedere su un piede di eguaglianza agli strumenti che permettono sia di apprendere sia di rendere partecipi gli altri di ciò che si conosce o si crede»183. Ci sembra che il tema della «descolarizzazione» vada, oggi, ripreso e discusso a questo punto, più che all'origine delle sue motivazioni. Sia, infatti, che queste fossero basate su constatazioni d'inefficienza e di spreco («Tra il 1965 e il 1968, per esempio, nelle scuole degli Stati Uniti sono stati spesi oltre tre miliardi di dollari per compensare la situazione di svantaggio di quasi sei milioni di bambini. Questo programma, noto come "Title One", è il più costoso tentativo di recupero che sia mai stato tentato nel campo dell'istruzione, e tuttavia non si è notato alcun progresso significativo nell'apprendimento dei piccoli "svantaggiati". Anzi, in confronto ai compagni provenienti da famiglie di medio reddito, sono andati ancora più indietro». Sicché abbiamo «il fallimento totale del tentativo di migliorare l'istruzione dei poveri con il più costoso degli interventi»184. 181 Cfr. I. Illich, Distruggere la scuola, Pistoia, s.d., Centro di documentazione; Descolarizzare la società. Per una alternativa all'istituzione scolastica, Milano, Mondadori, 1972. Rovesciare le istituzioni, Roma, Armando, 1972. E. Reimer, La scuola è morta, Roma, Armando, 1972. Cfr. La descolarizzazione nell'era tecnologica, a cura di M. Laeng e W. K. Richmond, Roma, Armando, 1972. 182 I. Illich, Descolarizzare la società cit., p. 163. 183 Ivi, pp. 163-164. 184 Ivi, p. 26. Pagina 67 di 185 Sia che provenissero da rilievi sulle distorte finalità educative dell'istituzione scolastica in USA («Molti studenti, specie se poveri, sanno per istinto che cosa fa per loro la scuola: gli insegna a confondere processo e sostanza. Una volta confusi questi due momenti, acquista validità una nuova logica: quanto maggiore è l'applicazione, tanto migliori sono i risultati; in altre parole, l'escalation porta al successo. In questo modo si "scolarizza" l'allievo a confondere insegnamento e apprendimento, promozione e istruzione, diploma e competenza, facilità di parola e capacità di dire qualcosa di nuovo»185. In un caso o nell'altro, insomma, sarebbe arduo non condividere le motivazioni iniziali. Soprattutto riferendosi al nostro paese dove, cambiando quanto vi è da cambiare, le critiche rivolte — da diverse parti — alla scuola convergono sui punti essenziali delle analisi descolarizzanti di Illich e di altri; ovviamente, per le zone della penisola dove le strutture scolastiche esistono. Da un'angolazione di educazione permanente, e, cioè, di implicita modificazione delle attuali strutture formative, è indispensabile muovere da una critica, scientificamente radicale, alla situazione presente; ma è anche necessario e saggio che l'analisi dell'assoggettamento della scuola alle strutture e alla logica del profitto schiuda orizzonti realmente innovativi. Si verifica tale processo in Illich? Egli — osserva L. Lombardo Radice — «combatte il consumismo, il progresso tecnico fine a se stesso, l'inquinamento dell'ambiente e la manipolazione degli uomini. Vede, e denuncia, i guasti e le contraddizioni del capitalismo maturo, ma non li attribuisce al capitalismo in quanto tale, bensì — genericamente — al modo di produzione industriale… Secondo Illich, la crisi generale attuale non è da ricercare nei rapporti di proprietà, bensi nel modo di produzione... la soluzione non consisterebbe nel dominare le forze produttive scatenate, ma nel ridurle; non in un diverso sviluppo, ma in un arresto, e anche in arretramento, dello sviluppo produttivo stesso»186. Le prospettive, pur suggestive, di una società senza scuola dove l'alternativa all'istituzione scolastica sarebbe fondata su quattro reti formative (capaci di garantire: gli oggetti educativi, lo scambio delle conoscenze, la discussione tra pari, la disponibilità di maestri)187 presentano gli stessi rischi di quelle di un'educazione permanente chiusa in se stessa. Non si comprende, infatti, come un tipo di società che ha elaborato una scuola (e una mancanza di scuole) a proprio uso e autoconservazione potrebbe distruggere volontariamente una istituzione storica senza intaccare il proprio sistema, la propria organizzazione. Allo stesso modo in cui sarebbe superficiale non riferire la «coerenza» dell'educazione permanente ad un termine di confronto capace di scoprirne il senso, cosi è necessario chiedersi quale utilizzazione potrebbe essere fatta — ed è fatta — sia della critica sentimentalmente radicale, sia delle ipotesi sostitutive avanzate da Illich. In altre parole, la «società senza scuola» appare come il rovescio ingenuo di una «società educante» già esistente ed operante. Senza una modificazione strutturale, la sostanza, la finalità, le direzioni educative rimarrebbero — scuola o non scuola — identiche a se stesse. Come si può partire dalla scuola (l'effetto), sia per abolirne le strutture sia per incrementarne alternativamente le funzioni per l'intero arco dell'esistenza, allo scopo di mutare quella società capitalistica (la causa) che ha creato un tipo di istituzione formativa, e che tende a riprodursi? Le forze consapevoli e organizzate della società adulta constatano quotidianamente che la «riproduzione» — come tendenza e non come deterministico risultato — agisce nell'ambito 185 Ivi, p. 21. L. Lombardo Radice, La descolarizzazione a chi gioverebbe?, in «La Riforma della Scuola» 11, 1972, pp. 19-24 187 I. Illich, Distruggere la scuola cit., p. 130. 186 Pagina 68 di 185 dei più larghi tempi e spazi, attraverso strutture e strumenti che non sono soltanto quelli meramente scolastici, nonché attraverso metodi che sono ben lontani — apparentemente — da quelli tradizionali. Dalle verifiche sulle valenze educative agenti nei rapporti di lavoro (la ricerca del posto da parte del disoccupato, quella del giovane alla prima occupazione, le condizioni di lavoro in fabbrica, gli omicidi bianchi, le malattie professionali, l'emigrazione, le condizioni di pensionamento); o sulle valenze educative del rapporto familiare (gestito da genitori che soffrono di condizioni formative costrittive e non liberanti); o sulle valenze educative dell'ambiente (le strutture urbanistiche, l'intrecciarsi comunicativo degli audiovisivi, della stampa, della pubblicità), da tali verifiche sembra, talvolta, scaturire, la constatazione che la semplice e generica richiesta di «descolarizzazione» (o di «educazione permanente») sia una grottesca irrisione. L'importante, ci sembra, non è il distruggere; ma il costruire una capacità e una forza di controllo sui processi educativi in atto, o in fieri (dall'ambito scolastico — da sviluppare anche quantitativamente —, a quello delle strutture educative per l'età adulta, da creare o rafforzare). L'importante è l'essere in grado di gestire processi formativi oppositivi a quelli attuali. Educazione senza questa scuola, cosi come essa è venuta strutturandosi parallelamente allo sviluppo di tipo capitalistico, non può voler dire soltanto il rifiuto; si tratta di un'aspirazione che deve muovere dal concreto della contraddizione di classe insita in questa società. Per realizzare una società positivamente educativa, non basta cancellare con un tratto di penna le situazioni e le istituzioni educative che ostacolano oggettivamente ogni processo liberatorio, ma creare le condizioni reali perché l'acquisizione di consapevolezza sulle valenze e sulla direzione delle situazioni e delle istituzioni educative proceda di pari passo ai movimenti trasformativi degli attuali rapporti di produzione. Senza questo tipo di impegno, educazione permanente e richiesta di descolarizzazione possono essere non solo comodamente assorbite dalla conservazione, ma possono risolversi in un corroborante per un sistema formativo che sappia realizzare quel quid di riforma sufficiente a superare alcuni momenti e aspetti delle proprie periodiche crisi. 3.3.5 Crisi della scuola e tendenze strutturali di riforma Le tendenze di riforma delle strutture scolastiche tradizionali sono, peraltro, già in atto, e non da oggi. Esse variano d'intensità e di significato (sempre nell'apparenza della trasformazione) a seconda delle latitudini e delle longitudini pedagogiche, in stretta correlazione con le soluzioni che nei singoli paesi capitalistici si individuano per controllare i rapporti tra formazione e occupazione, tra scuola e mercato del lavoro, tra formazione professionale e modi di produzione, tra mano d'opera giovanile e adulta, tra donna e uomo, tra agricoltura e industria, tra zone depresse e sviluppate, tra mercato del lavoro interno e internazionale, e tra i nessi tra l'uno e l'altro settore. Nel nostro paese, ad esempio, siamo evidentemente ben lontani da un'educazione considerata come un bene in sé, secondo la prospettiva del Suchodolski. Le strutture formative sono una variabile del profitto; ciò conduce ad una alternanza di sollecitazioni e di freni, di timide riforme e di costanti tentativi di controriforma sia nelle strutture come nei metodi d'insegnamento. Non intendendo trovare soluzioni reali ai problemi dell'occupazione, si tenta di tornare al «numero chiuso»; le «circolari» sulle sperimentazioni vengono continuamente contraddette a spese degli insegnanti che, nonostante le difficoltà, si impegnano ad attuarle. Pagina 69 di 185 La crisi dell'occupazione giovanile viene addossata allo sviluppo della scolarità; ma se «si considerano — notava Chiarante188 — le linee di sviluppo complessive del sistema scolastico italiano, in effetti il dato emergente non è tanto quello — generico — del forte incremento della scolarizzazione verificatosi negli ultimi due decenni (che è dato comune a tutti i paesi), bensì è quello di uno sviluppo scolastico fortemente squilibrato, che nel confronto con altri paesi fa registrare, accanto a ritmi abbastanza elevati di crescita dell'istruzione media superiore e di quella universitaria, il permanere di forti ritardi e di gravissime carenze proprio nel settore dell'istruzione di base: e se si considera la rilevanza di questo settore è giusto dire che siamo in presenza, per quel che riguarda i livelli di istruzione della grande massa della popolazione, non già di un'espansione scolastica troppo estesa o troppo rapida, bensì, al contrario, del persistere di carenze gravi e diffuse del sistema scolastico e del sistema formativo nel suo complesso rispetto ai bisogni di una società ad avanzato sviluppo economico e sociale». E, infatti, anche per il periodo più recente in cui si è parlato iperbolicamente di «esplosione scolastica», i dati relativi al rapporto tra mutamenti intervenuti nelle strutture dell'occupazione e livelli di istruzione sono molto significativi. All'inizio del decennio 1960-1970, abbiamo, «rispetto al totale degli occupati, una percentuale estremamente elevata — oltre l'81% — di lavoratori privi di qualunque titolo di studio o forniti solo della licenza elementare: ma anche al termine del decennio tale percentuale rimaneva assai alta, pari a quasi il 72% del totale degli occupati. La tendenza alla stagnazione risulta ancora più accentuata se si limita il confronto solo ai lavoratori dipendenti: in questo caso si vede infatti che i lavoratori senza titolo o forniti solo della licenza di scuola elementare erano nel 1961 il 92% del complesso dei lavoratori dipendenti ed erano ancora l’86% nel 1970». Forse, per riflettere al significato sociale complessivo, vale la pena di tener presente che in valore assoluto gli occupati con licenza elementare o senza nessun titolo di studio ammontavano nel 1970 a 13 milioni e 555 mila su un totale di 18 milioni e 954 mila. Di fronte a questa realtà, i problemi dell'educazione permanente assumono significati sociali e storici precisi perché le tendenze alla stagnazione formativa sono oggettivamente prevalenti rispetto ad altre che siano, almeno, riformatrici delle più evidenti storture che, non certo casualmente, vanno a colpire gli appartenenti ai ceti contadini e operai; è tra gli occupati di questi ceti che si riscontravano, nel 1970, ben 2 milioni e 911 mila lavoratori privi di qualsiasi titolo di studio. Per essi vi è necessità, sia di possedere gli strumenti di comunicazione essenziali per far sentire la loro voce; sia di possedere occasioni e strutture formative che non siano quelle della pura trasmissione dei valori conservativi, ma quelle capaci di garantire l'aprirsi al nuovo, la creazione di una società in cui l'educazione permanente sia garantita a tutti. Se nel nostro paese non interpretassimo in senso innovativo il rapporto scuoladescolarizzazione, nella contraddizione classista che lo permea, la crisi della scuola ricadrebbe, come già accadde al tempo della florida scuola per pochi, sulle teste dei diseredati, sia per escluderli culturalmente, sia per sfruttarli economicamente a beneficio delle aristocrazie intellettuali e sociali. Descolarizzazione, dunque, nel senso di destrutturazione di questo sistema scolastico come variabile del profitto, come istituzione di discriminazione, nel senso di creazione di strutture, occasioni, metodi di formazione alternativi. D'altra parte, se nel nostro paese le spinte verso soluzioni riformatrici sono ingenti, e si può credere che esse riusciranno a vincere le resistenze più chiuse ed arroccate, altrove le sollecitazioni contro le strutture e i metodi obsoleti hanno trovato udienza, almeno per ragioni di efficienza e almeno a titolo sperimentale. 188 G. Chiarante, Istruzione e sbocchi professionali. Più scuola e più occupazione, in «Rinascita» 5, 2 febbraio 1973, pp. 19-20 Pagina 70 di 185 Sulla strada, certo non della descolarizzazione, ma dell'allentamento delle maglie metodologiche dell'istituzione scolastica si sono posti alcuni progetti negli Stati Uniti come quello dell'«Università senza mura», realizzato da Samuel Baskin dell'Antioch College di Yellow Springs, con l'aiuto del governo americano e della Fondazione Ford, o come quello dell’ «Empire State College» organizzato dalla State University dello Stato di New York, con un contributo delle Fondazioni Ford e Carnegie. Il primo rifiuta la pratica dell'istruzione secondo il modello del «college», sia nel senso che non richiede residenza o frequenza, sia nel senso che comprende nella docenza persone estranee al college; gli studenti possono frequentare corsi presso altri colleges convenzionati in quanto associati al progetto, possono lavorare presso istituti pubblici o aziende private — dagli ospedali ai musei —, possono studiare individualmente servendosi delle apparecchiature fornite loro. Il secondo progetto acquisisce alcuni principi delle tendenze innovative sul piano metodologico, e cerca di realizzarli; ad esempio, pur riconoscendo l'importanza dello studio nell'ambito della struttura, ritiene che tale modo di acquisire conoscenze non sia più l'unico e il più importante, che il periodo quadriennale di studio non debba essere considerato immodificabile ma abbreviato, prolungato o intervallato da altre occasioni educative, che il curriculum non debba essere definito dall'istituzione, e per essa dai docenti, ma con gli studenti, che nessun esperto che insegni possa essere accettato quale un puro trasmettitore, e così via. Sembra, qui, di udire l'eco delle proposizioni di quanti hanno affermato le più avanzate aspirazioni all'educazione permanente; sembra di percepire il riecheggiare delle aspirazioni degli Illich. Di fronte ai problemi degli scompensi — riscontrabili anche nel campo educativo — provocati da precise cause strutturali, la contraddizione non consente di rimuovere queste ultime, ma accetta che si tenti di attenuare, controllare, indirizzare gli effetti. Ciò si verifica, puntualmente, attraverso i processi di asservimento della scienza e della tecnologia, nella condizione della proletarizzazione intellettuale, attraverso l'appropriazione delle prospettive innovanti circa le strutture, le metodologie, gli strumenti; sicché mentre tali prospettive di rinnovamento emergono dalla condizione oggettiva scaturente dai rapporti di produzione (nella sofferenza per tale condizione, e dalla creatività oppositiva a tale condizione oggettiva) la loro utilizzazione viene soggettivamente piegata all'interesse delle strutture conservative dominanti. Le tendenze strutturali di riforma della scuola nascono con tali stimmate non solo negli Stati Uniti, come esemplificavamo; ma in ogni paese neocapitalistico dove si siano percepite, e ci si sia appropriati — privatisticamente — delle riflessioni che Dewey faceva nel lontano 1899: «oggi, la concentrazione dell'industria e la divisione del lavoro hanno praticamente eliminato le occupazioni che si svolgevano nell'ambito della casa e del vicinato, almeno per quanto concerne gli effetti educativi... Sono le condizioni fondamentali che sono mutate, e il rimedio può venire soltanto da un'altrettanto radicale trasformazione dell'educazione»189. La scuola italiana — a causa dei suoi fattori condizionanti — non si è inserita in un processo di sviluppo analogo a quello dei paesi anglosassoni; il sistema sociale che la dirige molto tardivamente recepisce che — come sottolinea Touraine190 — una società industriale postula ad ogni elemento di situarsi in un sistema di cambiamento e non chiede più conto del passato o dell'essenza. Basti riflettere, per tener conto dei ritardi storici, che la «Carta della Scuola», promulgata come un'epigrafe mortuaria nel '39, a coronamento del regime, si basava sulla scelta di una «esclusione di un certo numero di alunni dalla scuola pubblica» e sull'allarme (negli anni Trenta): «Troppi giovani nelle nostre Università. Troppa facilità di accedervi. 189 190 J. Dewey, Scuola e società, Firenze, La Nuova Italia, 1961, p. 6. A. Touraine, La società post-industriale, Bologna, II Mulino, 1970, p. 44 Pagina 71 di 185 Troppe Università!»191. Sappiamo bene, dunque, che la nostra situazione in Europa è ancora lontana, sul mero piano dell'efficienza e della razionalizzazione, da quelle di altri paesi a struttura capitalistica. Delle tendenze prospettiche che emergono da tali realtà più articolate, più aggiornate, più sollecitate dalle contraddizioni interne, dobbiamo tener conto. Perché sarà da queste logiche di sviluppo che potremo essere influenzati, e non tanto per le futuribili forme di integrazione politica, quanto per le presenti e galoppanti forme di integrazione economica dinanzi alle quali - vedi il problema della nostra forza-lavoro nel mercato europeo — ci troviamo, sempre più acutamente, in situazione di sottosviluppo. Tali tendenze, non limitate peraltro all'Europa, si basano su alcune assunzioni tanto precise, quanto oggettive. Innanzi tutto, sulla crisi delle presenti strutture, anche nei loro metodi, e sulla correlativa necessità di individuare altre forme di risposta alle necessità educative. Le ipotesi, i suggerimenti, i piani si diversificano notevolmente circa i modi di realizzare una «radicale trasformazione dell'educazione». Essi variano a seconda che l'accento cada, tanto per fare alcuni esempi, sul rapporto scuola-produttività o scuola-sviluppo, sul rapporto scuola-lavoro o su quello scuolaautorealizzazione. Esse variano a seconda che i processi educativi siano posti in relazione con il tempo, e in particolare con l'età individuale, ovvero con lo spazio sociale; a seconda che si tenda a privilegiare la scuola come tale, colui che studia, la funzione di chi insegna o il rapporto tra le componenti interne alla struttura e all'occasione formativa, ovvero la relazione tra interno ed esterno. Si vuoi sottolineare — con questo — che le aspirazioni generiche ad un'«educazione permanente», o le proposizioni circa la «descolarizzazione», non sono scoperte di navigatori solitari, a livello soggettivo, ma risultanze di processi oggettivi che è necessario porre in luce, e sulle quali bisogna trovare i modi di intervenire in relazione a finalità globali che contengano quelle educative, sia in senso lato, sia in senso stretto. Si intende ribadire che né la realizzazione di una formale educazione permanente né una totale descolarizzazione sarebbero di per sé sufficienti a modificare realmente la presente crisi. Ed è probabilmente per questo che le tendenze all'aggiustamento si muovono proprio nelle direzioni che talvolta vengono ritenute, soggettivamente, addirittura rivoluzionarie. Muovendo dall'assunto della crisi dell'attuale scuola, esiste un'abbondante letteratura che affronta i problemi futurologi dei sistemi educativi. Attraverso le sintesi e i modelli particolarmente evidenti di O. K. Kyòstiò192, ci sembra opportuno sottolineare il ruolo che l'educazione degli adulti potrebbe svolgere nei diversi schemi scolastici alternativi, considerati in un ordine temporale prossimo e lontano. Per la definizione di tali schemi, si parte da alcuni presupposti riscontrabili nelle attuali realtà statistiche e tendenze: l'aumento continuo del numero delle persone che frequentano la scuola; il diminuire delle differenze di tipo e dei livelli tra le scuole e l'accrescersi dell'implicazione tra l'una e l'altra; il diminuire del contrasto tra l'educazione generale e quella professionale in relazione ai mutati bisogni della società e allo sviluppo delle capacità di fronte ai rischi di obsolescenza; la necessità di legare la scuola alla ricerca, in rapporto alla complessità dei processi di apprendimento e allo sviluppo delle relative tecnologie; il modificarsi del significato tradizionale della scuola, poiché il problema dell'apprendere riguarda persone di ogni età mentre si verifica uno sviluppo di tecnologie educative che non richiedono, necessariamente, edifici scolastici e insegnanti per lo svolgimento di funzioni un tempo necessarie; l'affermarsi di una concezione dell'educazione estesa a tutta la vita e il correlativo sminuire del valore attribuito allo status scolastico con l'abbandono di esami e riconoscimenti 191 192 G. Gentile, Scrìtti pedagogici. La riforma della scuola in Italia, Firenze, Sansoni, 1937 O. K. Kyóstiò, The Role of Schooling in Society, Institute of Behavioral Sciences, University of Oulu, Finland, 1972. Pagina 72 di 185 (lauree, diplomi ecc.); i processi di assimilazione della scuola - non più considerata un'istituzione per sé - alla società nella quale l'apprendere e il vivere avverrebbero nelle «naturali» occasioni: famiglia, gruppi amicali, lavoro, divertimento ecc. È inutile sottolineare che alcuni di tali presupposti, gli ultimi in particolare, appaiono non riguardare soltanto l'ambito scolastico; più che la riforma dei sistemi d'insegnamento, sembrano postulare cambiamenti generali non superficiali del sistema sociale. In effetti, dobbiamo tener presente due opzioni: la prima si riferisce al tipo di modificazione che ci attendiamo nella società per la scuola; la seconda al tipo di modificazione che ci attendiamo nella scuola per la società. Sembra evidente che qualora la prima attesa fosse limitata a riforme superficiali, senza intaccare i rapporti di produzione, la logica del profitto permetterebbe e potrebbe perfino richiedere modificazioni per la scuola, anche totali, almeno apparentemente, pur di conservare lo status attuale; in questo caso, il sistema formativo muterebbe volto, ma non direzione. Qualora, invece, la tensione al cambiamento investisse gli attuali rapporti di produzione, le prospettive di mutazione del sistema formativo acquisterebbero una valenza innovativa reale. Se la prima opzione riguarda il modo in cui ci poniamo rispetto ad un progetto societario a termine indefinito, la seconda si riferisce direttamente al modo in cui, oggi, viviamo il rapporto conservazione-innovazione nel complessivo sistema formativo che non è soltanto quello scolastico in senso stretto. Sulla base di queste distinzioni, possiamo esaminare le principali linee di modificazione della scuola, per riscontrare la funzione che — nelle varie opzioni — ha, o potrebbe avere, l'educazione degli adulti. Secondo lo schema cui ci rifacciamo, le diverse tendenze di modificazione vengono rappresentate in sei modelli di sistemi formativi: 1) il sistema della scuola parallela 2) il sistema gerarchico, di tipo A e di tipo B 3) il sistema di scuola unificata 4) il sistema di scuola di base 5) il sistema di vita integrata I primi tre riguardano essenzialmente il sistema gerarchico, nei suoi vari perfezionamenti. Il quarto prevede una rimozione della tradizionale struttura. Il quinto anticipa un riversarsi reciproco tra società e scuola. In ognuno di tali sistemi l'educazione degli adulti ha avuto, ha o potrebbe avere, differenti funzioni. Vediamoli in modo particolare. Pagina 73 di 185 Figura 1 – Schema 1 193 - Scuola Parallela Con questo primo schema, viene rappresentata la situazione esistente — con le dovute precisazioni — in alcuni paesi europei. In tale sistema formativo di tipo gerarchico, le occasioni educative procedono, dopo una prima fase comune, in un rigido parallelismo che conduce i pochi agli studi superiori e la maggior parte verso la formazione professionale, sia nella scuola sia sul lavoro. Tendenze alla modernizzazione dei metodi sono presenti e possibili in questo sistema che tuttavia rimane uguale a se stesso, alle sue caratteristiche fondamentalmente parallele e differenzianti tra una ristretta élite e la massa. La funzione dell'educazione degli adulti in questo sistema è quella - del tutto assoggettata — del recupero, della diffusione culturale, della divulgazione e, in generale, di tutte le iniziative di sostanziale acculturazione allo sviluppo scientifico, tecnologico, alla produzione artistica, anche se attraverso metodi e strumenti più aggiornati e funzionali di quelli oggi esistenti. 193 O. K. Kyóstiò, The Role of Schooling in Society, Institute of Behavioral Sciences, University of Oulu, Finland, 1972, p. 9. Pagina 74 di 185 Figura 2 – Schema 2 A 194 - Sistema gerarchico In questo secondo schema, articolato in un modello A e B, è rappresentata la tendenza, presente in minor misura in A e in maggior misura in B, ad offrire l'opportunità di proseguire gli studi ad un crescente numero di giovani; permane, tuttavia, in generale, l'impostazione gerarchica e, in particolare, la differenziazione tra formazione di una élite e formazione di massa. In A, l'educazione degli adulti è «integrata con la vita pratica» o svolta attraverso corsi specifici; in B, diviene una istituzione vera e propria. 194 O. K. Kyóstiò, The Role of Schooling in Society, Institute of Behavioral Sciences, University of Oulu, Finland, 1972, p.9 Pagina 75 di 185 Figura 3 - Schema 2 B 195 195 - Sistema gerarchico avanzato O. K. Kyóstiò, The Role of Schooling in Society, Institute of Behavioral Sciences, University of Oulu, Finland, 1972, p. 10. Pagina 76 di 185 Figura 4 – Schema 3 196 - Scuola Unificata Con questo schema si rappresenta il più sviluppato livello del sistema gerarchico, dove sono aperte amplie possibilità di studio a seconda dei bisogni del sistema produttivo; e ciò sia nel senso del recyclage, dell'educazione ricorrente, sia per evitare disoccupazione. In questo sistema è possibile il «sandwich type study», cioè l'alternanza di studio e lavoro. Attività educative sono svolte dai privati (industria) con il sostegno pubblico. L'educazione degli adulti vi svolge una funzione organica al sistema formativo, a livello di scuola secondaria, mentre assicura il superamento dei difetti di tale sistema, soprattutto per le generazioni anziane e per superare l'obsolescenza delle conoscenze acquisite a scuola. 196 O. K. Kyóstiò, The Role of Schooling in Society, Institute of Behavioral Sciences, University of Oulu, Finland, 1972, p. 10 Pagina 77 di 185 Figura 5 – Schema 4 197 - Scuola di base II modello 4 mostra nuove forme organizzative del sistema formativo e il parziale abbandono delle strutture scolastiche tradizionali. Queste rimangono in piedi fino ai quindici anni, mentre successivamente subentrano occasioni formative non strettamente scolastiche; da una parte il riferimento ad un'educazione prolungata per tutta la vita, dall'altra lo sviluppo delle tecniche educative renderebbero possibile lo studio individuale. L'educazione degli adulti, in questo modello, avrebbe un ruolo primario, posto che, come sembrarle tendenze trasformative investirebbero dapprima i momenti formativi dell'età postadolescenziale, sia per ragioni strutturali (il rapporto formazione-lavoro), sia per ragioni metodologiche (la maggiore possibilità in età adulta di organizzarsi un programma di studio), sia per ragioni istituzionali (nel rapporto tra università, istituti di ricerca, enti locali, sindacati). L'educazione degli adulti, peraltro, riceverebbe una funzione specifica dai processi di formazione impliciti nella funzione della scuola di base la quale avrebbe il compito di preparare i giovani dai 5 ai 15 anni, fornendo loro gli strumenti per lo studio nell'età adulta. 197 O. K. Kyóstiò, The Role of Schooling in Society, Institute of Behavioral Sciences, University of Oulu, Finland, 1972., p. 12. Pagina 78 di 185 Figura 6 - Schema 5 198 - Vita integrata Nella prospettiva futurologica dello schema 5, avremmo la scomparsa della scuola come istituzione a sé, e correlativo esaurimento dell'insegnante e del discente come tradizionalmente intesi nelle attuali istituzioni. Ma, indubbiamente, questa realtà di «educazione naturale» non sarebbe (come ci hanno insegnato Marx e Engels) prima dell'uomo o fuori dell'uomo. Proprio perché si identificherebbe con la vita, essa sarebbe non facilmente controllabile, come una struttura definita (con i suoi programmi, i suoi addetti, i suoi rapporti). Sbaglieremmo, si vuol dire, se considerassimo questa prospettiva come immediatamente capace di innovazione e di risoluzione dei problemi di una società classista. In una società capitalistica, infatti, essa equivarrebbe a uno strumento d'integrazione al massimo grado di efficienza, proprio nella misura in cui i processi formativi avverrebbero nelle occasioni e nei modi meno avvertibili in quanto tali e, perciò, meno verificabili. Con questa strumentazione, in conclusione, avremmo certamente una società educativa diversa da quella rozza della produzione e del consumo, ma raffinatamente educativa alla produzione e al consumo, nella quale le vie dell'innovazione sarebbero precluse, con le caratteristiche delle prefigurazioni sociali di Zamjatin, di Orwell o di Huxley. 198 O. K. Kyóstiò, The Role of Schooling in Society, Institute of Behavioral Sciences, University of Oulu, Finland, 1972., p. 12 Pagina 79 di 185 Di fronte alle caratteristiche di questo modello (processo educativo dalla culla alla tomba, nessuna differenza tra educazione e istruzione, tutti educatori reciprocamente, scopi dell'educazione non distinguibili anzi identici a quelli della società, nessuna struttura scolastica in quanto tale) l'educazione degli adulti avrebbe il massimo della propria funzione, se non altro di fronte al problema dell'assunzione di una responsabilità collettiva e diretta. 3.3.6 Educazione degli adulti e istituzioni formative Rispetto allo svolgersi delle tendenze di cui abbiamo presentato le sintesi essenziali, quale funzione dovrebbe avere un movimento di educazione degli adulti? Se è evidente che le modificazioni delle attuali strutture scolastiche dipendono globalmente dalle capacità d'incidenza del movimento operaio nel suo complesso, dal risultato della lotta tra vecchio e nuovo, è evidente che la preparazione alle lotte (a discernere il nuovo dal vecchio) è anche un problema educativo. Di fronte alla sinuosità dei processi in atto, alla elevata aliquota di ambiguità possibile, l'acquisizione della consapevolezza del reale senso degli interventi, delle tendenze in atto e soprattutto delle prospettive non può essere che frutto di un'intensificazione dei processi formativi. Se è vero quanto asserisce Bertrand de Jouvenel e cioè che prevedere significa conoscere l'avvenire attraverso l'educazione della volontà, ciò è tanto più vero, riteniamo, per coloro che riflettono sull'avvenire per un dovere sociale, e non per un divertimento fantastico o scientifico dell'intelligenza. Si tratta, vogliamo dire, non solo di attendere dagli eventi i risultati e le indicazioni, ma di saper anticipare un futuro che è già presente o pressante. Noi riteniamo che il principale compito cui dovrebbe impegnarsi un movimento di educazione degli adulti, capace di stare al passo dei tempi, dovrebbe essere quello di rieducarsi. E ciò non solo a livello nazionale, ma internazionale. Se è vero, come molti ritengono, che dal suo seno sono emerse indicazioni tra le più pregnanti del rinnovamento pedagogico — e questo proprio per la presenza del pubblico operaio, protagonista della nascita e dello sviluppo dell'educazione degli adulti — si tratta oggi d'interrogarsi sugli aspetti della nostra staticità, d'individuare ogni potenzialità sommersa dalla quotidianità, di rifiutare lo stantio che l'educazione degli adulti si trascina dietro dall'ambiguità delle origini. Senza una profonda opera di autoanalisi e di bonifica, molto difficilmente l'educazione degli adulti riuscirebbe a garantire tutto il nuovo che è indispensabile e che essa sarebbe in grado di dare. E, d'altra parte, espletare questo compito primario è meno arduo per l'educazione degli adulti di quanto non sia per altri settori del movimento educativo. L'invito che da più parti si rivolge alla scuola di contribuire a cambiare se stessa partendo da se stessa — nell'innovazione dei metodi come dei rapporti interni ed esterni —, in quanto strumento educativo di trasformazione, può essere accolto subito dall'educazione degli adulti. E non solo perché essa è meno, o per nulla, legata a programmi e a diplomi o a riconoscimenti legali, ma soprattutto perché il suo rapporto educativo essenziale è fondato storicamente e socialmente sui problemi, e cioè sui bisogni di sviluppo della classe operaia. Diviene più chiaro, allora, cosa vuoi significare l'impegno a intensificare i processi formativi in modo da saper anticipare il precipitare e il realizzarsi delle correnti tendenze trasformative della scuola e, in generale, del sistema educativo. Uscire dal pedagogismo illuminato, dagli orti conclusi del metodologismo fine a se stesso, dalle presunzioni di obiettività, dalle illusioni Pagina 80 di 185 delle false autonomie e, nello stesso tempo, crearsi al più presto e nel modo più solido un terreno reale d'intervento. Se il problema della struttura scolastica è quello del rapporto con la società, qui è la stessa società adulta che, educando se stessa, prepara lo scioglimento di quell'essenziale nodo della trasformazione. Se nelle nuove tendenze, o anche in quelle meno avanzate e più tradizionalmente gerarchiche, la responsabilità dell'educazione degli adulti comincia non solo ad emergere, ma ad affermarsi come prioritaria per l'avvio a soluzione della crisi della scuola, bisogna affrettare i tempi di questa assunzione di responsabilità; dobbiamo riconoscere infatti che da parte della società adulta questa assunzione non è stata finora piena. Il fondamento storico e sociale dell'educazione degli adulti indica la base da cui muovere: il rapporto tra produzione e formazione, tra lavoro e scienza. Le determinazioni che scaturiscono dal riferimento costante e coerente a questa base, mentre possono evitarci d'incorrere, come spesso è accaduto e accade, nel settorialismo, sia spaziale che temporale, possono guidarci nell'impegno di contrastare quel «processo di scissione» attraverso il quale si tende a separare «la scienza, facendone una potenza produttiva indipendente dal lavoro... al servizio del capitale». Possono guidarci nel promuovere quel sommovimento formativo che sarebbe costituito dalla diffusione dell'acquisizione di consapevolezza dell''educazione permanente naturale, in atto, oggi. Possono soccorrerci nel rendere, anche educativamente, presente e agente la possibilità del cambiamento. Ciò significherebbe realizzare una politica dell'educazione degli adulti in relazione al sistema scolastico, affinché gli adulti sappiano intervenire sulle attuali strutture in vista di finalità, di nuove istituzioni, di metodi precisati, progressivi e coerenti. Si tratterebbe del modo più fruttuoso di lavorare per il futuro. Possono, infine, sostenerci, in Italia, nella lotta per il superamento dell'attuale scandalo: l'assenza pressoché totale di interventi di educazione degli adulti in grado di affrontare in tempi rapidi — seguendo l'esempio di Cuba o della Somalia -il pesante analfabetismo e il gravoso non compimento della scuola dell'obbligo. Soltanto le lotte operaie e la conquista (si è trattato e si tratta di una battaglia) delle « 150 ore» hanno rotto i paternalistici e ritardanti schemi dell'«educazione popolare». Bisogna sviluppare e concludere un processo appena iniziato; andare oltre una visione e una pratica dell'educazione degli adulti come surrettizio rimedio alle carenze della scuola di base. Pagina 81 di 185 3.4 Pubblico, prodotti culturali e intervento educativo 3.4.1 Preminenza dei problemi del pubblico Tra gli agenti educativi operanti nell'età adulta, un ruolo rilevante ricoprono i prodotti dell'«industria culturale»: i libri, i dischi, i film, i programmi televisivi, i giornali, le videocassette, i rotocalchi, i fumetti, i programmi radiofonici. Soprattutto i prodotti dell'industria degli audiovisivi — trasmissioni televisive, film — svolgono un ruolo che se per i ragazzi appare di «scuola parallela», per gli adulti può essere definito di «lavoro parallelo», sia per le valenze educative del lavoro, sia per la necessità — come vedremo — d'inserire il consumo dei prodotti culturali nella globalità della produzione. Nel nostro Paese, gli audiovisivi occupano un posto prevalente rispetto agli altri strumenti di comunicazione; rispetto ad altri Paesi, il nostro — ad esempio — si caratterizza per il rapporto sempre intenso della popolazione con il cinema, nonostante l'avvento della televisione e lo sviluppo della motorizzazione (nel 1973, le spese per il cinema ammontavano a 265 miliardi, pari al 44% della spesa per tutte le forme di spettacolo). Per questo, il problema del «pubblico» emerge con particolare forza e con significato preminente. Peraltro, tale questione assume pregnanza politica quando venga considerata non come tema a sé, ma strettamente interrelata con i problemi di «sviluppo intellettuale della classe operaia»; allorché, cioè, si esca dallo «spettacolo» o dall’ «informazione», per riconsiderare le valenze educative della televisione, del cinema, della stampa, in relazione alla gestione delle strutture dominanti e alle lotte del movimento operaio per contrastarne e rovesciarne l'influenza. Il problema dei mezzi di comunicazione e della produzione culturale non rimane, allora, concluso in un ambito educativo; esso si coniuga alla battaglia per una mutazione strutturale. Grazie a questa particolarità della situazione italiana, quando ci si trova a riflettere sui «mezzi di comunicazione di massa», sulla «industria culturale», la considerazione che altrove tende a privilegiare gli aspetti psicosociologici da noi assume rilievo politico-culturale; da qui, la preminenza dei problemi del pubblico, rispetto alla «politica degli autori» o ai «mass media» considerati astrattamente. Da qui, anche, le domande che ci poniamo rispetto a questo tema, estremamente complesso in quanto considerato, nella pratica commerciale e nelle impostazioni conservative, da angolazioni ambiguamente inter-classiste. E, da qui, anche il primo interrogativo che dobbiamo porci: quali sono a livello strutturale i problemi del pubblico? 3.4.2 Dicotomia dei comportamenti rispetto a produzione e consumo I problemi del pubblico sono riassumibili nella necessità e nella difficoltà della propria autoidentificazione, da intendersi come acquisizione della consapevolezza di essere all'interno del processo produttivo, e non all'esterno, come manifestazione di «bisogno» preminentemente o esclusivamente soggettivo, da soddisfarsi attraverso un consumo da altri deterministicamente definito, e definitivo. Tale crisi di autoidentificazione del pubblico non è astorica o astratta, ma precisabile e definibile in quanto direttamente e intenzionalmente provocata nel nostro rapporto con le strutture economiche della «produzione culturale». Nella loro pratica, tali strutture inducono processi educativi fortemente disorientanti e estremamente contraddittori nei contenuti identificativi che inculcano o cercano di inculcare. Senza spendere troppe parole, è quotidianamente constatabile come gli «spettatori» o i «pubblici» (a seconda del momento della giornata, degli stati d'animo, dell'introiezione dei vari Pagina 82 di 185 messaggi pubblicitari, ecc.), ritengono, di volta in volta: di essere i giudici dei film o delle trasmissioni televisive che vedono; oppure gli inermi fruitori di indifferenti spettacoli ricreativi; o anche gli oppositori del sistema comunicativo, e perfino gli interessati spettatori di una trasmissione culturale. La descrizione degli atteggiamenti e dei comportamenti potrebbe continuare — con varie specificazioni — a seconda del modo in cui viviamo questa crisi di identificazione. Essa giunge a punti paradossali: nessuno, nemmeno chi scrive e nemmeno chi legge queste parole, ritiene di potersi definire «pubblico», ovvero di far parte di un'entità in crisi di autoidentificazione. «Pubblico» sono gli altri. Come superare questa crisi, e non in via psicologica o educazionistica (di prediche sull'evoluzione del pubblico, o del «gusto», ne abbiamo svolte o ascoltate fin troppe)? E’ da ritenere che soltanto sulla base di una autoidentificazione del pubblico sarà possibile costruirsi un'altra identità, opposta a quella interclassista o ambigua corrente, e parallelamente allo sviluppo complessivo del movimento operaio e democratico, a livello delle grandi occasioni di reciproco riconoscimento tra le forze dell'innovazione politica, e cioè nelle lotte, anche nei confronti della «produzione culturale». Per spiegarci, quando si parla dell'individuo combattivo in fabbrica o nelle piazze, e remissivo o acquiescente di fronte allo schermo o al giornale «indipendente» locale199, si comprende la necessità di riflettere sul come superare questa dicotomia di comportamento di fronte allo stesso padrone. Sappiamo bene che l'atteggiamento di soggezione al paternalismo culturale (e, in particolare, a quello degli spettacoli più popolari del cinema e della televisione) è tra i più duri a vincersi attraverso una «risposta» del singolo. Sappiamo altrettanto bene, d'altronde, che non sarà continuando a suddividerci in due comportamenti, «di produzione» e «di consumo» (uno critico e l'altro acritico; uno attivo e l'altro passivo; uno creativo e l'altro sterile) che le strutture economiche verso le quali siamo critici, attivi e creativi nelle lotte potranno modificarsi se — in contemporanea - continueremo ad essere acritici, passivi e sterili verso i «prodotti culturali». Tutto si tiene, senza un intervento preciso, conseguente e coerente. Questo intervento autoeducativo — che riguarda tutti gli strati sociali — acquista il suo significato politico nella misura in cui si propone e riesce a promuovere un passaggio di tensione e di consapevolezza tra due campi che si cerca di far restare lontani e separati, e non a caso. L'uno, infatti, è carico di acquisizioni sulla situazione attuale e sulle prospettive. L'altro, invece, che non solo è scarico di tutto questo, ma, in generale, è remissivo, accomodante, propenso agli eterni rinvii. Non intendiamo analizzare quale interscambio avvenga attualmente tra i due campi; ma possiamo presumere che ben poco passi dal primo al secondo, e non poco dal secondo al primo. 199 «...se fate il conto dei lettori della Stampa, se fate il conto dei lettori dell'Unità a Torino non corrispondono — affermava G.C. Pajetta — con quelli elettorali e, quindi, noi con la Stampa c'entriamo qualche cosa. Quante copie ne comperiamo? Troppe, per me; purtroppo, ma le comperiamo ed allora non abbiamo niente da dire, non dobbiamo far sentire il nostro peso, non dobbiamo chiedere al lettore della Stampa — oltre che chiedergli di diventare un lettore dell'Unità — di fare qualche cosa come cittadino, come lettore comunista, come metalmeccanico, anche se continua a leggere la Stampa? Dobbiamo chiederglielo e questo si riflette in qualche modo. Bisogna che noi sentiamo questo, che il lettore che sceglie è un lettore che può esigere e noi dobbiamo chiamarli meno "fruitori", non solo perché questa parola non mi piace molto, ma perché vorrei che noi intendessimo che, nella grande macchina del giornalismo, anche il lettore è un protagonista e che il giornale è fatto anche di chi lo legge, di chi quel giorno non lo compera più o di chi scrive una lettera di protesta o di chi lo legge con rabbia e deve far sentire questa rabbia». Cfr. Radiotelevisione informazione democrazia, Convegno Nazionale del PCI, Roma, 29-31 marzo 1973; Roma, Editori Riuniti, 1973, p. 308. Pagina 83 di 185 Non siamo ancora in grado, sembra, di valutare pienamente e di fatto il significato politico di questa frenante dicotomia pratica di cui pur possiamo individuare le cause (dall'analfabetismo alla «teoria dei due popoli»); di valutarla nelle prospettive, intendiamo dire. Possiamo soltanto riflettere che la nostra situazione è diversa non solo da quella nella quale si trovò nel 1789 la borghesia: «La classe che risultò allora vincente in decennali conflitti — scrive W. Benjamin — già si era assicurata, prima di impossessarsi del potere, il dominio dell'apparato culturale. L'organizzazione della cultura, l'educazione erano da tempo impregnate dell'ideologia del tiers état e la lotta per l'emancipazione culturale era stata portata a termine prima di quella politica»200. Ma è diversa anche da quella in cui si trovò «il proletariato dopo la vittoria della rivoluzione», situazione che era «diversa da quella della borghesia nel 1789»; quando Benjamin, negli anni post-rivoluzionari, visitò l'Unione Sovietica, ebbe a notare: «Per milioni e milioni di analfabeti devono essere gettate ora le fondamenta di una formazione di base. Questo è, in Russia, un compito nazionale. La cultura prerivoluzionaria della Russia era del tutto aspecifica, europea. Si tratta ora di bilanciare i due momenti: quello della cultura superiore, di stampo europeo, e quello della formazione elementare, nazionale»201. Come operatori culturali, d'altra parte, possiamo proporci di contribuire a superare — oggi — questa dicotomia che, perdurando, o rischia di rinviare verso il futuro una modificazione (in attesa dell'emancipazione culturale), o rischia di confermare ad oligarchie il dominio dell'apparato culturale. Contribuire ai processi di costruzione di una identità del pubblico, un'identità di prospettiva, non di mera resistenza, vuoi dire per noi lavorare affinché i processi di emancipazione della cultura dominante procedano parallelamente e per reciproca sollecitazione con quelli di emancipazione dagli attuali rapporti di produzione; senza illudersi che la nuova cultura — di cui già esistono pratiche reali nel movimento operaio — possa raggiungere la propria pienezza in condizioni strutturali limitanti, ma senza accettare che queste condizioni mortifichino l'affermarsi del nuovo nell'ambito culturale, della comunicazione, dell'espressione, della critica e, soggettivamente, per quanto riguarda il pubblico, nella remissività, nella passività, nella sterilità. Lavorare per una nuova identità del pubblico significa, allo stato della situazione, e rispetto ad un criterio di valutazione politica come quello ipotizzato, riesaminare, da una parte, i tratti distintivi, le note caratteristiche, i lineamenti che al «pubblico» sono stati attribuiti, e dall'altra avanzare — anche attraverso una critica del lavoro culturale — nuovi parametri sui quali inquadrare, definire e affrontare i problemi del pubblico; sarà più legittimo, a questo punto, individuare le linee di lavoro più utili, più generalizzabili, più incisive. 3.4.3 La vecchia identità del pubblico, e le sue evoluzioni La vecchia, e ancora operante, identità del pubblico richiederebbe uno studio storico che qui non possiamo permetterci di svolgere: né compiutamente, né per grandi blocchi. Ci limiteremo ad indicare gli elementi di sintesi che sembrano essenziali per sviluppare le tendenze, peraltro già in atto, verso un nuovo identificarsi del pubblico. Tra l'altro, l'impegno interdisciplinare che richiederebbe una theoroica (come scienza del pubblico) è ben lontano dall'essere, benché minimamente, avviato; e non solo per ragioni di difficoltà di studio, quanto per le resistenze che incontra lo sviluppo della democrazia nel senso più pieno. 200 201 Cfr. W. Benjamin, Immagini di città, Torino, Einaudi, 1955, pp. 36 37. W. Benjamin, Immagini di città, Torino, Einaudi, 1955, pp. 36 37 Pagina 84 di 185 Se vogliamo partire con il piede giusto — pur tra comprensibili difficoltà — verso una nuova identità del pubblico non possiamo limitarci a denotare il pubblico come l'aggregato, l'insieme, l'unione, il corpo, la sintesi, l'unione, la massa, la compagine, il complesso, la totalità, la contemporaneità, la somma, l'aggregazione, la schiera, l'assieme, la società, la brigata, il collettivo, ecc. degli spettatori che assistono ad uno spettacolo. E non solo perché ci esprimeremmo con insufficienza o con tautologie. Ma perché questo nome collettivo — che nasce con significato oppositivo al privato — non può non avere una valenza politica, in senso pieno; per cui è logico ritenere che per comprendere anche il pubblico del cinema, della televisione, della stampa e dei musei, non possiamo non partire da una comprensione politica della sua identità storica tradizionale. Intendiamo dire che se sono tuttora in corso discussioni, non facilmente esaustive, sui rapporti tra film e politica, tra teatro e politica, o, tout court, tra arte e politica, difficilmente potrebbe essere posto in dubbio il ruolo primario della politica rispetto ai problemi del pubblico. La vecchia identità del pubblico, dunque, quella almeno della formazione economicosociale che ci riguarda strettamente, viene elaborandosi con l'affermarsi della società borghese, quando, è stato scritto: «la città assume le funzioni culturali della corte»202, e nelle «nuove istituzioni che, malgrado tutte le differenze, svolgono eguali funzioni sociali in Inghilterra come in Francia: i caffè nella loro fioritura fra il 1680 e il 1730, i salotti nel periodo fra la reggenza e la Rivoluzione. Qui come là, essi sono i centri di una critica prima letteraria poi anche politica, in cui comincia gradualmente a formarsi una parità di persone colte fra società aristocratica e intellettuali borghesi»203. Ma le public nel senso del pubblico teatrale veniva già usato in Francia anteriormente (Auerbach afferma che, in questo senso, la parola appare usata nel 1629; anteriormente «l'uso del sostantivo public si riferiva esclusivamente allo Stato o al bene pubblico»204). (Da tener presente che «l'accezione estetica» di «arte» appare soltanto nel 1688, in La Bruyére205). Sicché sembrerebbe che da un uso politico — di validità relativa al periodo —, il termine sia poi passato ad altri usi delimitati (da quello letterario a quello relativo allo spettacolo), e comunque sempre riferito a quantità molto ristrette di «privati raziocinanti». Habermas ha svolto un'indagine storico-sociologica su questo periodo, studiando i «mutamenti strutturali dell'opinione pubblica»; ma la sua analisi (che, peraltro, lascia adito a non poche perplessità per le conclusioni) si limita «alla struttura e alla funzione del modello liberale di sfera pubblica borghese, alla sua origine e trasformazione», mentre «lascia da parte le varianti di una dimensione pubblica plebea costrette, per così dire, in posizione subalterna»206. Sarebbe necessario, quindi, uno studio per riscoprire le origini di una identità del pubblico «plebeo», che è ancora oggi corrente e tacitamente accettata, sia — con diversi gradi di consapevolezza — negli strati popolari, sia in quegli strati piccolo-borghesi che presumono di non far parte di quel pubblico. Qui, intanto, potremmo ricordare che è il pubblico che non frequentava i caffè o i salotti sei e settecenteschi e che, invece, è parte costitutiva, in ruolo plaudente, delle feste civili; orante nelle cerimonie religiose; vitalistico nei carnevali. Ad esempio, gli ingressi del '500 (basti ricordare le feste per i viaggi di Carlo V in Italia, quando questi venne accolto da «registi» come il Sangallo, Giulio Romano, Giorgio Vasari nelle 202 Cfr. J. Habermas, Storia e crìtica dell'opinione pubblica, Bari, Laterza, 1971, p. 46 J. Habermas, Storia e crìtica dell'opinione pubblica, Bari, Laterza, 1971, p. 47. 204 J. Habermas, Storia e crìtica dell'opinione pubblica, Bari, Laterza, 1971, p. 45. 205 Cfr. T. De Mauro, Senso e significato, Studi di semantica teorica e storica, Bari, Adriatica, 1971, pp. 378-379: «...è appunto un testo francese di La Bruyére il primo a documentare la nuova accezione estetica del termine»; J. de La Bruyére, Les caractères ou les moeurs de ce siede (1688), ed. a cura di R. Garapon, Paris 1962, p. 69: «II y a dans l'art un point de perfec-tion, comme de bonté ou de maturile dans la nature: celui qui le sent et qui l'aime a le goùt parfait; celui qui ne le sent pas, e qui aime au deça ou au delà, a goùt défectueux». 206 J. Habermas, Storia e crìtica dell'opinione pubblica, Bari, Laterza, 1971, p. 8. 203 Pagina 85 di 185 sue visite a Roma, a Mantova, a Firenze) che continuarono nei secoli successivi («il trionfale itinerario attraverso l'Italia di Cristina di Svezia convertitasi al cattolicesimo, culminato — 1655 — con l'ingresso a Roma, da Porta del Popolo, di cui, per l'occasione, Bernini ricostruì la facciata interna»207) fino alla carnevalesca accoglienza per Hitler. Ad esempio, nelle processioni santoriali, nei cortei battesimali e nuziali, nei mortori, nei riti per le feste religiose del Natale, della settimana santa, del Corpus Domini: tutte occasioni che, dal punto di vista del «pubblico», andrebbero studiate e valutate per estrarne i significati educativi che, accanto a quelli spettacolari, operavano incisivamente sui fedeli non solo in quanto tali, ma anche in quanto «pubblico». Potremmo ricordare, inoltre, le mascherate carnevalesche, come unica occasione alle quali «erano ammesse (grazie all'anonimo garantito dalla maschera) tutte le classi sociali»208. E, infine, sarebbe necessario approfondire le valenze educative delle varie feste popolari a carattere stagionale (le vendemmie, i maggi, i bruscelli, le moresche) che, essendo gestite direttamente dai ceti popolari, andrebbero riesaminate, al di là dei loro valori culturali, come probabili prime forme aurorali di una diversa presenza «politica» del pubblico. Ma la sostanza sociale dell'esistenza del pubblico «plebeo» nei secoli immediatamente precedenti la rivoluzione francese è quella che traspare dal «Rapporto e progetto di decreto sulla organizzazione generale dell'istruzione pubblica» presentati da Condorcet all'Assemblea nazionale nel 1792, come aspirazione al superamento della mancanza di «ragione»: «Tant qu'il y aura des hommes — diceva Condorcet — qui n'obéiront pas a leur raison seule, qui recevront leurs opinions d'une opinion étrangère, en vain toutes les chaìnes auraient été brisées, en vain ces opinions de commande seraient d'utiles vé-rités; le genre humain n'en resterait pas moins partagé en deux classes: celle des hommes qui raisonnent et celle des hommes qui croient, celle des maìtres et celle des esclaves»209. Qui sembrerebbe esservi, e vi fu, l'intenzione di superare lo scarto tra il pubblico composto da «privati raziocinanti» e quello «plebeo»210. In effetti, come ben sappiamo, la «ragione» della sfera pubblica borghese era una illusione. Sia l'uno che l'altro pubblico avevano l'unica funzione della destinazione: a chi altrimenti avrebbe parlato la gerarchia? In questo senso, il pubblico della società borghese si può dire avesse una precisa funzione privata, per uno di quei rovesciamenti ideologici che, peraltro, sono ancora operanti nella società dei consumi. Nessuno dei due pubblici aveva realtà di risposta, né tanto meno potere di replica; la risposta poteva o non poteva esserci. Anche il pubblico dei «raziocinanti» — quello che Marivaux definiva come giudice, e, insieme, parte dei grandi uomini che ama e umilia — non era giudice reale, mentre era parte di uomini soltanto letterariamente grandi. La sua risposta era, infatti, letterariamente critica, così come quella del pubblico «plebeo» era plauso per il riconoscimento della propria esistenza ad un'autorità che cercava espliciti consensi, come riprova della propria consistenza gerarchica. 207 Cfr. Enciclopedia dello Spettacolo, Roma, Casa Editrice Le Maschere, 1961, vol. Vili, A. M. Ripellino: «Processioni e cortei», pp. 494-508». 208 Enciclopedia dello Spettacolo, Roma, Casa Editrice Le Maschere, 1961, vol. Vili, A. M. Ripellino: «Processioni e cortei», pp. 494-508» 209 Cfr. Rapport et projet de décret sur l'organisation generale de l'Instruction publique, présentés a l'Assemblèe nationale, au nom du Comile d'Instruction publique, par Condorcet, les 20 et 21 avril 1792, réimprimés par orare de la Convention nationale; riprodotto in B. Cacérès, Histoire de l'éducation populaire, «Peuple et Culture», Paris, Éditions du Seuil, 1964, pp. 187-200, in particolare la p. 191. 210 La mostra Les fètes de la Révolution, Clermont-Ferrand, Musée Bargoin, 15 giugno-15 settembre 1974, catalogo Imprimerie Reix, ha, peraltro, posto in evidenza come anche allora «les hommes qui raisonnent» organizzassero per «les hommes qui croient» rituali estremamente rigidi di feste, pompe funebri, anniversari, ai quali il popolo disciplinatamente doveva partecipare, sulla base della regia dei «raziocinanti». Pagina 86 di 185 Sarebbe da analizzare se, in quale misura e con quali elementi differenziati, la figura storica del «pubblico» ebbe, o meno, a svilupparsi con quella di popolo nei primi dell' '800; gli anni che si conclusero con i versi quarantotteschi di Petòfi: «Giuriamo che non saremo mai più schiavi!». Fatto è che narrando di quei giorni in cui «la rivoluzione italiana, che era stata fino allora più nelle lettere che nelle opere, uscì dalla teoria, entrò in pratica», lo storico Balbo parla del '48 come d'una rappresentazione popolare in cui «il popolo» è più «pubblico» che popolo. Egli scrive che se le precedenti rivoluzioni, quelle del 1640 in Inghilterra e dell'89 in Francia, nacquero in letizia e speranza, nessuna giunse al punto di quella italiana che «durò diciotto mesi di matta letizia»: «fu un vero baccanale di dimostrazioni festive nelle piazze, di festive passeggiate per le vie, banchetti in sale, banchetti all'aria, canto di giorni e di notte, da per tutto, cantate per li teatri, coccarde, nastri, bandiere, catene di pezzuole e veli femminili che si chiamavano d'unione nazionale, o che so io; poesie, prose, vaneggiamenti, pazzie». Insomma, per questo testimone, castigato cattolico piemontese (che giudicava il '48 come De Gaulle vedrà il '68: una clienlit), sembra che in Italia il popolo diventi prima «pubblico» che «popolo». Come egli commenta — abbreviando velocemente il racconto, per pudore —: «parmi che riesca così più chiaro e quasi parlante da sé, il cenno di questi diciotto mesi, operosi, se si guardi indietro, sprecati in gran parte se si guardi innanzi, o, per parlar più esattamente, produttori di libertà e di licenza, improduttivi di quell'indipendenza, che è anche più da desiderarsi, dell'indipendenza che avrebbe dovuto essere la prima e la sola mira degli Italiani»211. Fatto è che per uscire dai salotti e dai caffè alle piazze, dalle «lettere» alle «opere», il concetto di popolo dovette farsi anche pratica di pubblico diverso, almeno in Italia, e almeno secondo Balbo. Un pubblico che passò dalle processioni e dai «trionfi» dei principi alle manifestazioni pubbliche di una sua primitiva forma di affermazione. Sono intuizioni, queste; certamente sarebbe tutto da esaminare il rapporto tra «populismo» (non parliamo dell'atteggiamento romantico, filantropico verso la plebe, ma dell'accesa utopia del «populismo russo» studiato da Franco Venturi212) e sviluppo d'una identità moderna del pubblico. Sarebbero da studiare quelle forme di autocontestazione dell'autore che, ad esempio, inducevano un Baudelaire a pensare i canti del poeta in termini di «calco luminoso» delle speranze popolari213. Quelle forme di contestazione della pratica dello scrittore che sollecitarono un Mazzini a coniugare la letteratura con l'azione; o che fecero emergere nel Tenca214 l'attenzione, tra i primi, in Italia, verso il destinatario, il pubblico, e in senso specificatamente moderno, vicino alle posizioni del contemporaneo francese E. Hennequin, che affermava: «Un'opera d'arte non esercita effetto estetico che sulle persone di cui rappresenta — nei suoi caratteri — le particolarità mentali; in breve: un'opera d'arte commuove solo coloro di cui è segno»215. 211 C. Balbo, Dalla storia d'Italia dalle origini fino ai nostri tempi, Sommario, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1862, pp. 405-406. 212 F. Venturi, Il populismo russo, Torino, Einaudi, 1972. «La Massa è talmente intrinseca a Baudelaire — scrive Benjamin — che si cerca invano in lui una descrizione di essa»; e, come spiegava sempre Benjamin: «La folla: nessun altro oggetto si è imposto più autorevolmente ai letterati dell'800. Essa cominciava - in larghi strati per cui la lettura era divenuta abitudine — a organizzarsi come pubblico. Assurgeva al ruolo di committente; e voleva ritrovarsi nel romanzo contemporaneo, come i fondatori nei quadri del Medioevo» (cfr. Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1962, pp. 97-100). 214 Cfr. G. Pirodda, Mozzini e Tenca, Padova, Liviana, 1969. 215 Cfr. La critique scientifique, Paris 1888, p. 138, cit. in G. Fagliano Ungari (a cura di), Sociologia della letteratura, Bologna, II Mulino, 1972, p. 32. 213 Pagina 87 di 185 E sarebbe da valutare il perché queste indicazioni minoritarie fossero così scarsamente influenti, esemplificando dalle posizioni di un Goethe il quale condannava: «ogni considerazione per il pubblico...». Perché: «il vero artista deve ignorare il suo pubblico, proprio come il maestro ignora i capricci degli alunni, il medico i desideri dei pazienti, il giudice le passioni delle parti in lite. La cosa migliore è fingere che non vi sia un pubblico, o almeno ammettere che l'artista ha soltanto un pubblico di amici, si rivolge soltanto a una comunità di santi»216; posizioni che non perirono con lui, ma hanno una loro circolazione, pur se non così platealmente ostentata; posizioni, comunque, che possono farci capire perché Engels definisse Goethe: «ora colossale, ora minuscolo; ora genio altezzoso, sprezzante, che guarda il mondo dall'alto in basso, ora filisteo prudente, soddisfatto, angusto»217. Da noi, bisognerà attendere Francesco De Sanctis, con la sua sottintesa identificazione del pubblico con il critico; per lui, il critico deve infatti «rifare quello che ha fatto il poeta, rifarlo a suo modo e con altri mezzi»218, per cominciare a leggere la nuova identità del pubblico; e, tuttavia, non sarà ancora tutto chiaro; da queste proposizioni potranno perfino emergere soggettivismi; e il pubblico «plebeo» rischierà di tornare a dipendere da quello dei «raziocinanti», e tutti e due dalla gerarchia della classe dominante. 3.4.4 Verso un nuovo identificarsi del pubblico Se il parallelismo tra «popolo» e «pubblico» in senso nuovo può svolgersi in modo molto problematico, del resto correlativo all'ambiguità del primo termine, l'avvio a soluzione per la costruzione di una nuova identità per il pubblico si fonda — in realtà — sull'Ideologia tedesca, sulla concezione materialista della storia. Si fonda sulla «filologia vivente» di Gramsci che scriveva: «Con l'estendersi dei partiti di massa e il loro aderire organicamente alla vita più intima (economica-produttiva) della massa stessa, il processo di standardizzazione dei sentimenti popolari da meccanico e casuale... diventa consapevole e critico...»219. Possiamo riconoscere che siamo appena alle prime percezioni degli sviluppi politici e culturali che potremo conseguire costruendo su queste fondamenta il discorso relativo al pubblico. «Difatti — scriveva Michele Rago, nel '67 - il discorso sull'arte, nel marxismo, rimane in sordina fino alla conclusione dell'Ottocento. Molti compagni da noi conosciuti vent'anni fa, i quali avevano ancora una formazione ottocentesca, o non lo capivano o se ne sentivano infastiditi. Lo stesso discorso si delinea nel momento in cui le avanguardie letterarie si spostano verso il marxismo, dando inizio, cioè, a un revisionismo interno dell'arte borghese e delle sue tradizioni (poco prima della guerra '14-18). La necessità di approfondire il discorso si avverte anche di più nell'URSS dopo la rivoluzione, e così in ogni paese dove la classe operaia arriva a nuove responsabilità. È chiaro allora — continuava Rago — che il discorso sull'arte, con alterne vicende, è continuato nel marxismo. Tuttavia c'è da osservare che quest'ultimo, nel suo rapporto con l'arte, non ha trovato validità solo per quei pochissimi testi sulla questione che Marx e Engels ci hanno lasciato. 216 Cfr. R. Wellek, Storia della critica moderna. Dall'Illuminismo al Romanticismo, vol. I, Bologna, II Mulino, 19712, p. 234. 217 R. Wellek, Storia della critica moderna. Dall'Illuminismo al Romanticismo, vol. IlI, L'età della transizione, p. 295. 218 Saggi critici, Bari, Laterza, 1952, vol. II, p. 90; Wellek nota che De Sanctis «rifiuta qualsiasi giudizio fondato su programmi, teorie o intenzioni dell'autore. "Altro è dire e altro è fare". Si devono "distinguere il mondo intenzionale e il mondo effettivo, ciò che il poeta ha voluto e ciò che ha fatto". In definitiva, "il metodo più sicuro e concludente è di guardare il libro in sé, e non nelle intenzioni dell'Autore"» (Wellek, op. cit., pp. 126-127). 219 A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, Torino, Einaudi, 1945, pp. 127-128. Pagina 88 di 185 L'ha trovata soprattutto perché lo specifico contenuto del pensiero rivoluzionario da una parte, e dall'altra la sua proposta di risolvere il problema sociale al di fuori dell'anarchia e degli sconvolgimenti legati al sistema borghese... sono diventati pietre di paragone della contingente vita umana. Questa funzione — concludeva —, il marxismo, nel suo essere teoria rivoluzionaria, l' ha sempre avuta, in questo periodo, di là da ogni socialriformismo; il quale, nel tentativo di un progresso standardizzato e a direzione unica, verso l'alto (con l'assimilazione progressiva di strati di proletariato alla cultura preesistente), ha potuto dar spazio a una cultura specialistica o a una cultura ibrida e monca»220. Analoghe osservazioni potremmo svolgere sul rapporto tra marxismo e discorso sul pubblico; sottolineando, in particolare, che un analogo fastidio sembra di provocare, in alcuni ambiti del movimento, quando introduciamo la problematica del pubblico; ma non si tratta di ambiti operai, dove invece il rapporto movimento operaio-pubblico contribuisce immediatamente a chiarire il rapporto marxismo-arte; bensì di ambiti intellettuali dove l'introduzione di questo elemento di riflessione, e l'accentuazione della sua presenza, non di rado scompiglia le comode, sistemazioni scolastiche e sociali, nella misura in cui esso rimette in discussione ruoli, attribuzioni di compiti, rapporti, metodi di lavoro, strumenti, nella misura in cui il rapporto pubblico-strutture economiche afferma il superamento di problematiche accentrate sul privilegio di fatto. Se è vero che il problema dell'arte si risolve attraverso «lo specifico contenuto del pensiero rivoluzionario» e attraverso la proposta del marxismo «di risolvere il problema sociale al di fuori dell'anarchia e degli sconvolgimenti legati al sistema borghese», è anche vero che il problema del pubblico sollecita una datazione, una localizzazione degli impegni innovatori, e una specificazione di tali impegni sulle questioni quotidiane, sulle articolazioni del divenire del pubblico come aspetto politico del problema dell'arte. Da questa angolazione, dobbiamo ancora praticare (non solo discutere o ridiscutere verbalmente) le indicazioni gramsciane; dobbiamo ancora sperimentare pienamente nella vita sociale il senso degli appunti scritti in carcere; dobbiamo immergere concretamente i problemi del pubblico nella «filosofia della prassi». Sia tenendo conto che se nelle riflessioni di Antonio Gramsci il «lettore» occupa un posto di tanto rilievo, ciò non è casuale (e ad esempio riferibile alle sue esperienze di critico teatrale), ma strettamente legato ai problemi della formazione politica delle coscienze221. Sia tenendo ben presente che, se il tema che noi chiamiamo del pubblico aveva per Gramsci un rilievo proporzionato all'analfabetismo strumentale di allora, oggi, nella realtà della società dei consumi, dello sviluppo della scolarizzazione e — soprattutto — della forza del movimento operaio, esso acquista, in positivo e in negativo, un rilievo estremamente maggiore, se non primario rispetto a quello dello scrittore e del suo impegno-disimpegno. Ma non solo Gramsci; forse dobbiamo ancora praticare, coerentemente in ogni sede e in ogni occasione, almeno le indicazioni di Gobetti che non si aspettava «dei lettori ma dei collaboratori»222. Noi ci troviamo rispetto ai problemi del pubblico in una realtà storica specifica e precisa che non è assimilabile ad altre: ad esempio, non dobbiamo andare con Dewey «alla ricerca del 220 M. Rago, Arte e letteratura nella ricerca marxista, recensione a Marx-Engels, Scrìtti sull'arte, a cura di C. Salinari; cfr. «l'Unità», 6 settembre 1967. 221 «L'educazione socialista del proletariato si compie ogni giorno, in ogni atto, per ogni atteggiamento ideale», cfr. Sotto la mole, 17 giugno 1916, pp. 173-174. Cfr. G. Davico Bonino, Gramsci e il teatro, Torino, Einaudi, 1972, p. 21. 222 P. Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Torino, Einaudi, 1964, p. 192; nell'introduzione, Gobetti scriveva che non pensava di raggiungere il proprio fine «con un'opera di pedagogisti e di predicatori: la nostra capacità di educare si esperimenta realisticamente in noi stessi; educando noi, avremo educato gli altri. Abbiamo più fiducia negli uomini che nella cultura, per cui, discutendo di idee, la riserva costante, se non dichiarata, è nella nostra convinzione di fare per questa via delle esperienze, senza compromettere il futuro» (ivi, p. 5). Pagina 89 di 185 pubblico», nella misura in cui possiamo legare questo discorso (e queste realtà della comunicazione e dell'espressione) ai temi globali che il movimento operaio porta avanti. Se non siamo nelle condizioni di pensare al cinema come «mezzo di autoistruzione» e di praticare attraverso le strutture pubbliche una politica del pubblico tendente a sviluppare il pubblico; se non siamo nelle condizioni in cui l'autore può diventare pubblico, e la musica espressione collettiva, a maggior ragione dobbiamo impegnarci nel rendere organico il rapporto e la consapevolezza di tale rapporto tra problemi del pubblico e problemi del movimento operaio, in modo da coprire la globalità dello sfruttamento capitalistico con gli interventi più diretti e più specifici sui vari momenti degli attuali rapporti di produzione. Il contributo alla nuova identità del pubblico che ci viene dalla teoria e dalle pratiche del movimento operaio nel suo complesso nazionale e internazionale è fondamentale. Esso ci sostiene, soprattutto, nel superamento di uno degli equivoci che il sociologismo di maniera ha insinuato presentandoci il pubblico sub specie interclassista, come realtà inconoscibile proprio in quanto rapportabile soltanto al consumo assunto come momento a sé, promanante dai bisogni soggettivi di individui astorici e asociali. Esso ci mostra, invece, che il pubblico dei lettori, degli spettatori, degli ascoltatori è un aspetto della realtà classista, e il più duro a scomparire, anche in società strutturalmente evolute verso organizzazioni politiche di rottura con quelle partorite dalla società borghese. Esso ci indica che il pubblico è la realtà conoscibile e trasformabile dell'arte, la traduzione storicamente e strutturalmente politica di questioni ancora irrisolte, come quelle che sull'epos greco poneva Marx. Esso ci sottolinea che il tema del pubblico come classe, come percezione e consapevolezza della problematica collettiva dell'espressione, della comunicazione e della risposta, àncora la lotta politica alla modificazione della regola di un «pubblico sfruttato», più che all'inseguimento dell'eccezione di un autore; e che, come il problema della scienza non può esser posto come questione etica o intellettuale del singolo scienziato, ma come impegno collettivo contro lo sfruttamento capitalista della scienza, cosi il problema dell'arte, dell'espressione e della comunicazione debbono essere affrontati in modo da divenire materia di lotta del movimento operaio. Ciò non solo per la quantità e la forza dell'intervento modificatore, ma perché soltanto il movimento operaio, nelle sue varie articolazioni, può controllare, studiare, legare tutti i momenti; può sviluppare tutti i movimenti di lotta in ogni ambito e in ogni fase; può determinare l'aprirsi di nuove prospettive; può costruire un terreno di cui il pubblico sia protagonista nella sua nuova identità, facendo del suo rapporto con i grandi mezzi di espressione e di comunicazione una occasione di educazione innovativa che si affianchi alle lotte e alla loro capacità formativa. Soltanto il movimento operaio nel suo complesso può non dimenticare un anello della catena, o limitarsi a privilegiarne uno. 3.4.5 Il pubblico nel processo produttivo Rispetto a questo impegno, anche noi operatori culturali possiamo contribuire, per dirla con parole marxiane, a «fondare una nuova Atene su un elemento nuovo»; ma questo elemento nuovo, il pubblico, deve — infine — indurre a scrollarci di dosso troppa polvere223 e, 223 Lo sviluppo dei temi della comunicazione dovrebbe indurci a riflettere a fondo sulle nostre responsabilità, sul rilievo che oggi investe il lavoro culturale accanto a quello politico e sindacale. Sollecitarci a riflettere adeguatamente prima di seguire, anche a livello di frase, alcune pratiche. Soltanto per fare un esempio, come pratichiamo oggi il termine di «massa»? Possiamo ancora usare, senza esitazioni, la dizione di «mezzi di comunicazione di massa»? Possiamo continuare ad accettare il ribaltamento del valore di «massa» ben altrimenti usato da Marx, da Lenin, da Gramsci, senza renderci conto che — qui e adesso — questo ci spinge verso comportamenti di accettazione dello status quo? Come si può ancora parlare di «mezzi di comunicazione di massa», quando siamo ben consapevoli che essi sono «mezzi di comunicazione alla massa» e dovrebbero essere strutturalmente risolti, e chiamati, «mezzi di comunicazione collettiva»? L'accettazione corriva di locuzioni Pagina 90 di 185 nello stesso tempo, a rifiutare tutte. quelle appropriazioni delle scienze umane da parte del neocapitalismo che ci impediscono di partire dal pubblico come valore politico, e, invece, tentano di standardizzare il nostro intervento a livello di descrizione di fenomeni, di quantificazione del mercato gestito dal capitale, di analisi sociologistica del consumo di una produzione culturale mai studiata nei suoi processi reali. Karl Marx — e non è vano ripeterci alcune determinazioni, anche le più note — aveva strettamente coniugato il consumo alla produzione, affermando la dipendenza del primo dalla seconda: «... la cosa più importante da mettere in rilievo è che produzione e consumo, considerati come attività di un soggetto o di più individui, si presentano in ogni caso come momenti di un processo in cui la produzione è l'effettivo punto di partenza e perciò anche il momento egemonico. Il consumo come necessità, come bisogno, è esso stesso un momento interno dell'attività produttiva. Ma quest'ultima è il punto di partenza della realizzazione e, quindi, anche il suo momento egemonico, l'atto nel quale l'intero processo riprende il suo andamento»224. Peraltro, bisogna tener presente che tra i diversi momenti della totalità produttiva esiste un'azione reciproca: «Il risultato al quale perveniamo non è che produzione, distribuzione, scambio, consumo, siano identici, ma che essi rappresentano tutti delle articolazioni di una totalità, differenze nell'ambito di una unità. La produzione assume l'egemonia tanto su se stessa, nella sua determinazione antitetica, quanto sugli altri momenti. Da essa il processo ricomincia sempre di nuovo. Che lo scambio e il consumo non possano essere elementi egemonici è cosa che si comprende da sé. Altrettanto si dica della distribuzione in quanto distribuzione di prodotti. Ma come distribuzione degli agenti della produzione è essa stessa un momento della produzione. Una produzione determinata determina quindi un consumo, una distribuzione, uno scambio determinati, nonché i determinati rapporti reciproci tra questi diversi momenti. Indubbiamente anche la produzione, nella sua forma unilaterale, è da parte sua determinata dagli altri momenti. Quando per es. il mercato, e cioè la sfera dello scambio, si estende, la produzione cresce estensivamente e si articola intensivamente. Se muta la distribuzione, la produzione si modifica; per es., quando si verifica una concentrazione del capitale, una diversa distribuzione della popolazione tra città e campagna ecc. Infine, i bisogni del consumo determinano la produzione. Tra i diversi momenti si esercita un'azione reciproca. E questo avviene in ogni insieme organico»225. In particolare, qual è l'articolazione del rapporto tra produzione e consumo? Marx confuta sia la concezione del consumo come «antitesi distruttiva della produzione»226, sia l'identificazione tra produzione e consumo («Niente di più semplice a questo punto, per un hegeliano, che identificare produzione e consumo»227); egli specifica gli aspetti sociologistiche provoca, in alcuni, il distacco di fatto dal pubblico e l'assunzione di un ruolo non ben chiaro di « comunicatori di massa». Come, ad es., può riscontrarsi nell'uso del termine «controinformazione», e in certe pratiche che vedono gli individui illuminati scegliere l'informazione come problema, scegliere i tempi, scegliere il pubblico, e, poi, opporre la loro presunta «controinformazione» a quell'«informazione» che vorrebbero contestare; il tutto perché, basandosi sull'artefatto distacco dell'informazione dalla formazione, si vuole continuare ad avere un ruolo di «raziocinante» nella formazione, senza chiamare questa operazione con il vero nome, ma mistificandola dietro il problema reale dell'uso che della formazione viene fatto dal capitalismo sotto la forma dell'informazione. 224 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 18. 225 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 25. 226 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 14. 227 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 18. Pagina 91 di 185 della relazione tra produzione e consumo giungendo alle determinazioni che «il consumo produce la produzione in duplice modo: 1) in quanto solo nel consumo il prodotto diviene un prodotto effettivo. Per esempio, un vestito non diviene realmente un vestito che per l'atto di portarlo; una casa che non è abitata, non è in effetti una vera casa; il prodotto, quindi, a differenza del semplice oggetto naturale, si afferma, diviene prodotto soltanto nel consumo. Dissolvendo il prodotto, il consumo gli da veramente il finishing stroke (l'ultima rifinitura); giacché il prodotto è la produzione non soltanto come attività oggettivata, ma pure come oggetto per il soggetto attivo; 2) in quanto il consumo crea il bisogno di una nuova produzione e quindi quel motivo ideale che è lo stimolo interno della produzione e il suo presupposto. Il consumo crea la propensione alla produzione; esso crea anche l'oggetto, che determina finalisticamente la produzione. Se è chiaro che la produzione offre esteriormente l'oggetto del consumo, è perciò altrettanto chiaro che il consumo pone idealmente l'oggetto della produzione, come immagine interiore, come bisogno, come propensione e come scopo. Esso crea gli oggetti della produzione in una forma ancora soggettiva. Senza bisogno non vi è produzione. Ma il consumo riproduce il bisogno»228. Per altro verso, continua Marx, a queste determinazioni sul consumo, corrispondono quelle sulla produzione; essa « 1) fornisce al consumo il materiale, l'oggetto. Un consumo senza oggetto non è un consumo; per questo verso, quindi, la produzione crea, produce il consumo. 2) Ma non è soltanto l'oggetto che la produzione procura al consumo. Essa da anche al consumo la sua determinatezza, il suo carattere, il suo finish. (...) La fame è fame — esemplifica Marx —, ma la fame che si soddisfa con carne cotta, mangiata con coltello e forchetta, è una fame diversa da quella che divora carne cruda, aiutandosi con mani, unghie e denti. Non è soltanto l'oggetto del consumo dunque ad essere prodotto dalla produzione, ma anche il modo di consumarlo, non solo oggettivamente, ma anche soggettivamente. La produzione crea quindi il consumatore. 3) La produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale. Quando il consumo emerge dalla sua immediatezza e dalla sua prima rozzezza naturale — e l'attardarsi in questa fase sarebbe ancora il risultato di una produzione imprigionata nella rozzezza naturale — esso stesso come propensione è mediato dall'oggetto. Il bisogno che esso ne avverte è creato dalla percezione dell'oggetto stesso. L'oggetto artistico — e allo stesso modo qualsiasi altro prodotto — crea un pubblico sensibile all'arte e capace di godimento estetico. La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l'oggetto»229. Insomma la produzione produce il consumo sia creandogli il materiale, sia determinando il modo di consumo, sia la propensione al consumo. Queste determinazioni marxiane sono per noi la base per riflettere sui problemi del pubblico, cosi come oggi essi ci si presentano. Ma dobbiamo tener per fermo — in via pregiudiziale — che la rappresentazione critica che noi operatori culturali possiamo elaborare del «pubblico» non soltanto è evidentemente riferibile alla fase del capitalismo monopolistico di Stato in cui ci troviamo, ma può rischiare — proprio per questo — di essere essa stessa acritica, «naturale» per l'attuale formazione socioeconomica. In altre parole, dobbiamo tener presente che anche l'operatore culturale è (o può 228 229 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 15. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 16. Pagina 92 di 185 essere) prodotto dalla produzione, come elemento del «modo di consumo» nonché della «propensione al consumo». Ci sembra opportuno sottolineare questo punto perché troppo spesso emerge, ad esempio, nel nostro campo (così come nella critica cinematografica, televisiva, letteraria) l'equivoco di una «funzione di mediazione che scaturirebbe da una autonomia che molto somiglia» alla «sfera autonoma» della distribuzione, come prefigurata dalla «concezione più superficiale» secondo la quale «la distribuzione si presenta come distribuzione dei prodotti e quindi... ben lontana dalla produzione e quasi autonoma rispetto ad essa»230. E, d'altra parte, la non consapevolezza di essere elemento della produzione e la falsa coscienza di essere elemento della distribuzione — cioè di mediazione tra la produzione e il consumo — genera quelle ambiguità in cui cade un certo tipo di operatore culturale (demagogico) quando volontaristicamente, ma nella logica dei «due popoli», afferma di lavorare per il pubblico (cioè per il «modo di consumo»), ma autonomamente dal pubblico. Senza riflettere che è la produzione stessa a distribuirlo come «strumento di produzione» del consumo. Per comprendere la situazione attuale del pubblico (come valore politico nel «sistema della cultura», o, se si vuole, nell'ambito della comunicazione culturale che avviene attraverso il cinema, la televisione, la musica, le biblioteche, i musei, il teatro) bisogna rifarsi, anche se con evidente e provocatoria forzatura, a quella degli operai in fabbrica. «Tutti i fattori sociali della produzione — scriveva Marx — sono forze produttive del capitale, e il capitale stesso perciò si presenta come loro soggetto. L'associazione degli operai, quale si presenta nella fabbrica, non è perciò neanche posta da loro, ma dal capitale. La loro associazione non è la loro esistenza concreta, ma l’esistenza concreta del capitale. Di fronte al singolo operaio essa si presenta come accidentale. Il rapporto tra l'operaio e la sua associazione e cooperazione con altri operai è un rapporto di estraneità, un rapporto con modi di operare del capitale»231. Nessun'altra analogia potrebbe permetterci di rappresentare meglio la situazione del pubblico-oggetto rispetto al soggetto-capitale, del pubblico-astratto contro il capitale-concreto, dello spettatore accidentale rispetto all'altro spettatore, a sua volta accidentale, dell'estraneità degli spettatori tra loro, una assenza di rapporto concreto rispetto ai modi di essere e di operare del capitale nella produzione culturale. Dove, dunque, individuare il pubblico? Dove, cioè, in quale articolazione del processo produttivo intervenire per contribuire al tramutarsi del pubblico da oggetto a soggetto, da associazione astratta a associazione concreta, progressiva? Dove favorire il rovesciamento della situazione dello spettatore, da accidentale a volontaria, dalla estraneità all'altro spettatore ad un rapporto di compenetrazione intenzionale, e di lotta contro i modi di operare del capitale nel « sistema della cultura»? Ovvero, come si pone una problematica d'identificazione del pubblico? «Una produzione determinata — scriveva Marx - determina... un consumo, una distribuzione, uno scambio determinati, nonché i determinati rapporti reciproci tra questi diversi momenti»232. Tenendo presente la constatazione che Marx afferma subito dopo: «Indubbiamente anche la produzione, nella sua forma unilaterale, è da parte sua determinata dagli altri momenti»233, 230 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 21. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. II, pp. 241242. 232 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, pp. 25-26 233 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 26. 231 Pagina 93 di 185 come si pone la questione relativamente di prodotti culturali? Se dobbiamo stare ben attenti (vedi ad es. le posizioni di Fornari che, sulla base di un'analisi psicoanalitica, tende a ribaltare i rapporti tra produzione e consumo, suggerendo, di sottrarci alla «produzione», all'archetipo biologico, cioè al seno materno)234 a rifiutare qualsiasi proposta di sovrapposizione dei «rapporti di consumo» ai «rapporti di produzione», o di confusione tra gli uni e gli altri rapporti, dobbiamo però studiare come, in questi rapporti di produzione, agiscono i consumi, cioè come il pubblico è eterodiretto nel soddisfacimento dei suoi bisogni; e, per converso, come, in queste strutture econo-miche, emerge e può affermarsi il «bisogno di comunismo». Marx, com'è noto, esprimendo le sue determinazioni circa i rapporti tra produzione e consumo, scrive: «L'oggetto artistico — e allo stesso modo qualsiasi altro prodotto — crea un pubblico sensibile all'arte e capace di godimento estetico. La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l'oggetto»235. Se rapportiamo il valore «artistico» della metà dell'800 al valore dell’arte» nel pieno dell'«industria culturale»236, possiamo dire che oggi l'oggetto presunto artistico crea un pubblico insensibile all'arte e incapace di godimento estetico. Ma, e d'altra parte, a nostro vantaggio possiamo e dobbiamo tener conto del fatto che questo creare avviene attraverso un processo educativo preciso, individuabile e definibile (nelle strutture formative, nei metodi, negli strumenti e, soprattutto, nelle finalità). Dobbiamo, dunque, valutare che su questo processo possiamo intervenire, allo stesso modo e nello stesso momento in cui interveniamo sul processo produttivo in senso stretto (che ha anch'esso un valore educativo per i suoi operatori: gli operai nella realtà della fabbrica). È legittimo far discendere dalla constatazione dell'esistenza di un processo attivo del consumo la necessità di intervenire sui singoli momenti con uguale forza e con strumenti tra loro coordinati nonché coerenti rispetto agli interessi di un pubblico modificante, non solo modificabile? È chiaro come, accettando tutte le conseguenze della determinazione marxiana (« solo nel consumo il prodotto diviene un prodotto effettivo»237), opereremmo su quel diviene nei vari momenti della articolazione produttiva che non si esaurisce nello «studio» cinematografico o televisivo, ma trova il suo finish nel locale cinematografico o nel tinello. Ciò significherebbe superare la deterministica e preminente — se non esclusiva — fiducia nel miglioramento delle opere, dei registi, della produzione in senso stretto, come atto risolutivo dei problemi del rapporto tra pubblico e strutture econo-miche (una fiducia — storicamente superata — nel valore in sé dell'«oggetto artistico»). Ciò significherebbe enucleare (e trovare tutti gli strumenti più adeguati nel campo del lavoro di educazione degli adulti) linee di intervento non più chiuse nella valutazione o nell'apprezzamento dell'opera, ma capaci di collegare il momento particolare del consumo a 234 F. Pomari, Psicoanalisi della società industriale, in «Tempi Moderni», 1, 1970. G. Fabris trova «di particolare interesse l'analisi di Pomari in cui, con i metodi della psicanalisi, attraverso un'analisi simbolica del tripode capitale-lavoro-consumo per indagarne la riconducibilità ad una elaborazione dei livelli di organizzazione pulsionale corporea, sottrae alla produzione l'archetipo biologico (il seno materno) tanto prestigioso su cui questa fonda a un livello inconscio il proprio privilegiamento per investirne il consumatore che in realtà alimenta il processo produttivo implicante capitale e lavoro uniti insieme. La rilevanza di questa proposta sta, a nostro parere, nell'aver tolto alla produzione quel sottofondo inconscio che la rendeva emotivamente tanto coinvolgente — dato il prestigioso corrispettivo biologico — creando cosi i presupposti per una definitiva scomparsa nei suoi confronti di qualsiasi passività e dipendenza affettiva dell'individuo reso definitivamente autonomo e indipendente: la conclusione della proposta di Pomari, in cui il processo in dustriale si pone come sistema esecutivo del consumo costituentesi come si stema decisionale, è conseguente al ribaltamento, anche in termini dei corrispettivi inconsci, dei rapporti fra produzione e consumo»; cfr. Sociologia dei consumi, Milano, Hoepli, 1971, p. 75 235 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol.I, p. 16. 236 Cfr. M. Horkheimer e Th. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Torino, Einaudi, 19662, pp. 130 180 237 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol.I, p. 15. Pagina 94 di 185 quello globale della produzione, nella misura in cui «i bisogni del consumo determinano la produzione»238. Muovendo dalla determinazione relativa al processo che vede il prodotto ricevere il suo finish nel consumo, possiamo chiederci se non è possibile partire da questa determinazione marxiana per individuare i modi di contribuire ad una autoidentificazione del pubblico. Non riusciremo mai, infatti, a costruirci come pubblico modificante se non saremo riusciti a situarci nel processo produttivo. Per questo, e non casualmente e con innegabile forzatura, abbiamo introdotto l'analogia tra gli operai in fabbrica — tra loro e rispetto al capitale — e il pubblico nel momento del consumo o, come si diceva prima, nel «processo attivo del consumo». Non perché l'analogia potesse andare al di là dell'immagine suggestiva (una cosa è il lavoro alla catena, una cosa è la poltrona del cinema), ma perché soltanto ponendo in rapporto il consumo con la produzione, spiegando il consumo come produzione, attribuendo alla produzione, e ai rapporti di produzione, quell'«egemonia» necessaria per comprenderne tutte le articolazioni, è possibile avvicinarci ad una modificabilità del pubblico in situazione di pubblico (e non di puro, autonomo, soggettivo consumatore, o di spettatore engagé, o addirittura di gaudente, come, in termini spiccioli, vuoi farci credere l'homo oeconomicus del neocapitalismo). In questo «processo attivo del consumo», il pubblico può superare le false coscienze indotte, autoidentificarsi come sfruttato, acquisire consapevolezza della condizione classista in cui è situato, e, identificandosi quale pubblico come classe239, organizzarsi per lottare anche per modificare il tempo non lavorativo? 3.4.6 Pubblico e processo di consumo dei prodotti culturali È possibile, in altre parole, fare dell'homo ludens contemporaneo il simulacro del falso gioco della «civiltà dei consumi», come Marx fece dell'homo oeconomicus la falsa rappresentazione dell'«individuo in quanto soggetto dell'economia classica»240, come dice Althusser? È possibile identificare negli attuali rapporti di produzione il significato produttivo del consumo dei «prodotti culturali», e in quale senso? La questione può essere affrontata innanzi tutto riferendoci al «valore della forzalavoro»241. Tale valore è «determinato dal valore degli oggetti d'uso corrente che sono necessari per produrre, sviluppare, conservare e perpetuare la forza-lavoro»; «Come per ogni altra merce, il suo valore è determinato dalla quantità di lavoro necessaria per la sua produzione. La forza-lavoro di un uomo consiste unicamente nella sua personalità vivente». Oltre al consumo «di una determinata quantità di generi alimentari», egli «ha bisogno di un'altra quantità di oggetti d'uso corrente, per allevare un certo numero di figli, che debbono rimpiazzarlo sul mercato del lavoro e perpetuare la razza degli operai. Inoltre, per lo sviluppo della sua forza-lavoro e per l'acquisto di una certa abilità, deve essere spesa ancora una nuova somma di valori». Dunque, se consideriamo un film, un libro, una trasmissione televisiva come «oggetti d'uso corrente», possiamo affermare che i «prodotti culturali», in quanto servono «per lo sviluppo della forza-lavoro e per l'acquisto di una certa abilità», si configurano nel consumo come strumenti di produzione della forza-lavoro. 238 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol.I, p. 26. Attribuiamo a questa locuzione un valore di sintesi del processo di sviluppo democratico: da plebe a folla a proletariato a classe. 240 Althusser, Per Marx, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 204 241 K. Marx, Salario, prezzo e profitto, Mosca, Edizioni in lingue estere, 1947, pp. 48-49 239 Pagina 95 di 185 Inoltre, possiamo sviluppare questa analisi sul consumo dei «prodotti culturali» rispetto alle determinazioni sul sopralavoro e sul plusvalore. Se, infatti, supponiamo che «la produzione della quantità media di oggetti correnti necessari alla vita di un operaio richiede sei ore di lavoro medio», e se il capitalista farà lavorare l'operaio dodici ore, «oltre le sei ore che gli sono necessarie per produrre l'equivalente del suo salario, cioè del valore della sua forza-lavoro», sappiamo che l'operaio dovrà lavorare per altre sei ore di sopralavoro, «e questo sopralavoro si incorporerà in un plus-valore e in un sopraprodotto». Come possiamo definire — ai fini della autoidentificazione del pubblico — le altre una, due, tre ore (oltre al mangiare, dormire, fare all'amore necessari alla conservazione e alla perpetuazione fisica della «razza degli operai»), per leggere, vedere un film, assistere a una trasmissione televisiva, atti da intendersi come «consumo di prodotti culturali»? Possiamo considerarlo come un tempo di «sopra-sopra-lavoro» che si incorporerà, anch'esso, nel plus-valore? Come identificare, ai fini dei lavoro culturale, quésto superdispendio di energie che si svolge anche in ore di presunto riposo? Sappiamo bene che in rapporto «all'intera società la creazione di tempo disponibile è anche una creazione di tempo per la produzione della scienza, dell'arte, ecc.», ma sappiamo anche che questo tempo non è disponibile per la classe operaia. Questo «meccanismo di sviluppo della società — scrive Marx - non dipende dal fatto che, poiché un singolo individuo ha soddisfatto i suoi bisogni, esso crea poi il suo eccedente; bensì dal fatto che, poiché un singolo individuo o una classe di individui sono costretti a lavorare più di quanto sia necessario alla soddisfazione dei loro bisogni — ossia, poiché c'è un pluslavoro da una parte —, viene creato un non-lavoro e una ricchezza eccedente dall'altra»242. E sappiamo anche bene che, a proposito di questo «sopra-sopra-lavoro», non potremmo parlare di lavoro produttivo in senso economico, in quanto, come affermava Marx: «Lavoro produttivo è soltanto quello che produce capitale... Il lavoro è produttivo solo in quanto produce il suo contrario»243, e faceva questa precisazione proprio a proposito del «prodotto culturale» di un pianista. Egli scriveva esattamente: «Il costruttore di pianoforti riproduce capitale, mentre il pianista scambia il suo lavoro soltanto con reddito. Ma il pianista che produce musica e soddisfa il nostro senso musicale, non produce quest'ultimo in una certa misura? In effetti, si: il suo lavoro produce qualcosa: ma per questo esso non è lavoro produttivo in senso economico, così come non lo è il lavoro del pazzo che produce chimere. Il lavoro è produttivo solo in quanto produce il suo contrario. Perciò altri economisti fanno essere il cosiddetto lavoratore improduttivo indirettamente produttivo. Per esempio il pianista offre uno stimolo alla produzione, sia perché dispone la nostra individualità ad una maggiore energia e vitalità, o anche nel senso comune per cui desta un nuovo bisogno per la cui soddisfazione viene impiegata più solerzia nella produzione materiale immediata»244. Se, dunque, il tempo «eccedente» (e la «ricchezza eccedente») non sono disponibili per la classe operaia ai fini della «produzione della scienza, dell'arte»; se il superdispendio dell'energia nell'una, due, tre ore di «sopra-sopra-lavoro» non può rientrare nel «lavoro produttivo in senso economico» in quanto non produce capitale, cioè «il suo contrario», come identificare ai fini del nostro intervento culturale questo tempo in cui la classe operaia lavora 242 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 417. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol.II, pp. 291292. 244 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol.II, p. 291. 243 Pagina 96 di 185 come pubblico oltre la «quantità di lavoro necessaria per la sua conservazione o riproduzione», nonché oltre il plus-lavoro in fabbrica? In realtà, mentre in una società non classista potremmo distinguere la produzione degli «oggetti d'uso corrente» in una quota necessaria per produrre e conservare la forza-lavoro, e in una quota necessaria per svilupparla e perpetuarla (e riferire l'uso dei «prodotti culturali» a questa seconda), possiamo affermare che in una società in cui il capitale impone il sopralavoro che s'incorpora nel plus-valore, il «sopra-sopra-lavoro» che l'operaio compie come spettatore attraverso il consumo dei prodotti culturali se non è «eccedente», né «produttivo in senso economico», è tuttavia funzionale al plus-valore nella misura in cui sviluppa e perpetua «la razza degli operai». Ma questo sviluppo e questa perpetuazione sono unisensici (e cioè conducono direttamente all'«uomo unidimensionale» di tipo marcusiano245) ovvero sempiterni e univoci (come nella Riproduzione di Bourdieu e Passeron246) ? Il processo (il «divenire» e il «creare» della determinazione marxiana: «solo nel consumo il prodotto diviene un prodotto effettivo»; «L'oggetto artistico crea un pubblico sensibile») attraverso il quale il capitale impone il «sopra-sopra-lavoro» oltre la quantità di lavoro necessaria, e oltre il plus-lavoro, oltre la produzione e la conservazione della mercé-lavoro, ai fini del suo sviluppo e della sua perpetuazione, nonché dello sviluppo e della perpetuazione della «razza degli operai», questo processo non è — a nostro avviso — così deterministico come appare da alcuni saggi. Può essere apparso tale, vogliamo dire, studiando queste problematiche rispetto alla situazione statunitense; o rispetto alla situazione del sistema scolastico. In realtà, è proprio in questo momento del processo produttivo che nel lavoro culturale troviamo il pubblico potenzialmente come classe, mentre il prodotto sta divenendo prodotto effettivo, mentre il prodotto sta creando il suo soggetto. Vediamo, dunque, come il prodotto culturale diviene prodotto culturale, e come il prodotto crei il suo soggetto. Il prodotto culturale non diviene prodotto così come qualsiasi altro prodotto diviene tale nel consumo; il finish che qualsiasi prodotto trova nel momento del consumo, come aspetto della totalità della quale la produzione «assume l'egemonia», presenta qui caratteristiche o specificità precise. Innanzi tutto nel tempo e nella materialità. Se, infatti, consumare significa usare, logorare, dissolvere un prodotto247, noi constatiamo che la forma oggettiva del prodotto culturale non solo permane dopo il consumo, ma risulta — come dire — indissolvibile per alcuni prodotti. Quando Marx pone la ben nota questione: «...è possibile Achille con la polvere da sparo e il piombo? O, in generale, l'Iliade con il torchio tipografico o addirittura con la macchina tipografica? Con la pressa del tipografo non scompaiono necessariamente il canto, le saghe, la Musa, e quindi le condizioni necessarie della poesia epica?»248, egli, come è noto, commenta: «Ma la difficoltà non sta nell'intendere che l'arte e l'epos greco sono legati a certe forme dello sviluppo sociale. La difficoltà è rappresentata dal fatto che essi continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili»249. Marx, se comprendiamo bene, afferma che 245 H. Marcuse, L'uomo a una dimensione. L'ideologia della società industriale, Torino, Einaudi, 1967 P. Bourdieu e J.-C, Passeron, La riproduzione. Sistemi di insegnamento e ordine culturale, Firenze, Guaraldi, 1972. 247 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. II, p. 408 248 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 40. 249 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 40. 246 Pagina 97 di 185 «il fascino che la loro (dei greci) arte esercita su di noi non è in contraddizione con lo stadio sociale poco o nulla evoluto in cui essa maturò. Ne è piuttosto il risultato...»250; superando così le difficoltà relative al rapporto tra arte e forma di sviluppo sociale. Ma dobbiamo esaminare come si risolve la successiva «difficoltà»: comprendere «il godimento estetico» che essi continuano a suscitare in noi. In realtà, ci sembra che essa sia spiegabile in termini marxiani, introducendo un elemento sociale, il pubblico, invece del pronome personale «noi», e considerando questo elemento non staccato, ma inserito nel processo produttivo, uno specifico processo produttivo che si svolge nei secoli. In questo particolare rapporto di produzione-consumo, riscontriamo, ad esempio, che un «prodotto culturale» come l'Iliade viene consumato (e cioè prodotto) da generazioni di pubblici, e mai dissolto. Ciò non vuoi dire, come potrebbe essere suggerito da qualche idealista, che ciò si verifica nella misura in cui un «prodotto» è opera d'arte e in quanto l'opera d'arte è un prodotto spirituale ed eterno, perché in tal modo si farebbe riemergere, in nobili stracci, quel «feticismo delle merci» che, anche nel nostro lavoro culturale, privilegiando il pubblico, vogliamo demistificare. Ciò vuoi dire, invece, e dal punto di vista del pubblico, che il consumo dei «prodotti culturali «presenta caratteristiche precise: il «prodotto culturale» (e non solo l'opera d'arte, anche «Carosello») rimane identico a se stesso (a differenza di qualsiasi altro prodotto, dalla pur lentissima deperibilità attraverso il consumo), la sua forma oggettiva è immediatamente pronta per un altro consumo, e così in avanti nel tempo. Ciò vuoi dire che il finishing stroke, come operazione terminale del processo produttivo dei «prodotti culturali», è quello nel quale «il prodotto crea il suo soggetto», ovvero quello — sempre nuovo — nel quale il pubblico si qualifica nei suoi modi di consumo. La stessa frase di Marx è emblematica in proposito: se quando parla di godimento estetico pone in luce la sensibilità che «in noi», a livello personale, suscitano l'arte e l'epos greco, quando esprime il successivo giudizio («costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili»), egli pone in evidenza la propria risposta critica (positiva), esemplificando il divenire del pubblico nel momento in cui questi apporta la sua ultima rifinitura. Certo, nel tempo, possono darsi diversi esempi di «pubblici»: dagli iconoclasti, ai nazisti, ai generali cileni che bruciano i libri marxisti; pubblici questi che — potremmo dire — non hanno superato la fase sensibile, fermandosi al cieco furore delle belve, e praticando l'ultima rifinitura con il fuoco. Certo, il finish è storicamente e socialmente determinato e determinabile (basti pensare a quello praticato nel rapporto con alcuni autori, in diversi periodi storici e nelle stesse società, ovvero in diverse società negli stessi periodi storici). Ma certo, il finish come fase conclusiva del consumo se presuppone un pubblico e un «prodotto culturale» oggettivamente dati, non presuppone un pubblico immodificabile, ma modificabile e modificante, il quale può perfezionare il prodotto che lo crea come soggetto, sia subendolo a livello di mera percezione fisiologica, sia reagendovi con un'accresciuta sensibilità, sia sviluppandovi il proprio «bisogno di comunismo». Dobbiamo, in proposito, tener ben chiaro quanto Marx afferma circa la tendenza del capitalismo che «è sempre, per un verso, quella di creare tempo disponibile, per l'altro di convertirlo in pluslavoro. Se la prima cosa gli riesce, ecco intervenire una soprapproduzione, e allora il lavoro necessario viene interrotto perché il capitale non può valorizzare alcun pluslavoro. Quanto più si sviluppa questa contraddizione, tanto più viene in luce che la crescita delle forze produttive non può più essere vincolata all'appropriazione di pluslavoro altrui, ma che piuttosto la massa operaia stessa deve appropriarsi del suo pluslavoro»251. 250 251 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, p. 40. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. II, p. 405. Pagina 98 di 185 In questa contraddizione, operante anche nel «sopra-sopra-lavoro» del pubblico, possiamo inserire il nostro intervento politico-culturale. In che senso? Operando dalla parte del pubblico (come facies del proletariato che tende a divenire classe; in potenza, direbbe Marx), per favorire l'emergere e l'affermarsi di modi di finishing stroke che, a seconda della specificità dei pubblici e dei prodotti, sviluppi o contrasti il processo produttivo dell'industria culturale nel momento terminale del consumo. Ciò vuoi dire contribuire affinché il pubblico si appropri del «sopra-sopra-lavoro» (che non è immediatamente economico) e articoli nel proprio interesse culturale i modi di consumo che il sistema della cultura dominante tende a imporre. Ciò vuoi dire concorrere affinché, attraverso l'uso del finish (indispensabile al prodotto per esistere), il pubblico contrasti l'incorporarsi del proprio «sopra-sopra-lavoro» — svolto a domicilio — nel plusvalore {anche economico, perché un modo di consumo che educhi al rifiuto si oppone al significato politico e alla direzione economica dell'industria culturale, e contribuisce all'identificarsi e al rafforzarsi del pubblico come classe; cioè della classe operaia quando non lavora in fabbrica, ma conferisce il proprio finish ai prodotti culturali). Ciò vuoi dire attribuire teoricamente e voler attribuire praticamente al pubblico la gestione dei modi di consumo, rifiutando il finish monosensico, monovalente, unidirezionale e unidimensionale che i detentori dei mezzi di produzione culturale vorrebbero imporre ai fini della mera e conservativa riproduzione del sistema culturale, anche attraverso i «nuovi» prodotti culturali. Ciò vuoi dire considerare il lavoro educativo con il pubblico non quale un intervento sulle opinioni, sui gusti, su un quid imprendibile che può somigliare alla «produzione di chimere». Ma basare il lavoro di educazione degli adulti sulla specificità della produzione culturale come processo globale continuo — nel tempo e nello spazio — che ha necessità di un finish storico per rendere un prodotto culturale esistente, e che deve attribuire al pubblico, nel momento del consumo, l'ultima parola, il finish (non essendo in condizione il produttore di consumare il proprio prodotto né in toto, né nello spazio, né nel tempo). 3.4.7 Dal momento del consumo alla gestione della produzione culturale Ma ciò che è più importante — in quanto discende dalla circolarità del rapporto produzione-consumo — è il processo che conduce, o può condurre, il pubblico dal consumo alla produzione, dal controllo e dalla resistenza ai prodotti culturali della neocapitalistica industria culturale, alla gestione dei mezzi di produzione culturale. Quando si sofferma sugli aspetti delle «identità» tra consumo e produzione Marx scrive: «La produzione non è soltanto immediatamente consumo, né il consumo immediatamente produzione (...)»; e spiega «...ciascuno di essi — oltre ad essere immediatamente l'altro e mediatore dell'altro — realizzandosi crea l'altro, si realizza come l'altro. Il consumo rende definitivamente esecutivo l'atto di produzione, portando a compimento il prodotto come prodotto, dissolvendolo, consumandone la forma oggettiva autonoma (e abbiamo visto con quale specificità nel campo dei «prodotti culturali»); facendo maturare e divenire abilità, mediante il bisogno della ripetizione, la disposizione sviluppata nel primo atto di produzione; esso — conclude Marx — non è quindi soltanto l'atto conclusivo in virtù del quale il prodotto diviene prodotto ma anche l'atto in virtù del quale il produttore diviene produttore»252. Cioè, il consumo non crea soltanto il soggetto del prodotto, ma — attraverso il suo esercizio che conduce alla maturazione di abilità, e anche attraverso il bisogno della ripetizione — conduce oltre il primo atto di produzione, oltre l'atto conclusivo in virtù del quale il prodotto diviene prodotto, verso il divenire del produttore. 252 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, vol. I, pp. 17-18 Pagina 99 di 185 È evidente che la creazione di questo nuovo produttore, o di questo soggetto del secondo atto di produzione, dipende, in potenza, dal finish. Cioè dal modo in cui il consumo ha operato sulla forma oggettiva autonoma del prodotto culturale. Se l'ultima rifinitura è stata apportata sulla base degli schemi predisposti, il produttore della seconda produzione sarà uguale al primo (o simile). Ma se il finish del pubblico sarà stato praticato nella prefigurazione di una nuova formazione socioeconomica, e cioè in modo rivoluzionario, il nuovo produttore sarà, in potenza, il pubblico stesso. Il pubblico, vogliamo dire, non in quanto insieme di spettatori che assistono ad un film, auditores scissi nella propria condizione di operai nella «fabbrica dei prodotti culturali»; non in quanto gruppo sociale con uno status oggettivamente determinato dalla classe dominante e dalla sua industria culturale, e soggettivamente indeterminato per il pubblico stesso. Ma pubblico come aspetto dei rapporti e dei modi di produzione capitalistici nella particolarità e nella specificità della produzione culturale. Pubblico, quindi, che attraverso l'acquisizione dei modi di autoidentificarsi come classe (modi praticabili non in astratto, ma nei processi di produzione, in cui, al momento del consumo, è inserito con la funzione conclusiva del processo stesso), può divenire produttore, in potenza. E sottolineiamo, in potenza, in quanto l'appropriazione dei mezzi di produzione culturale non può fondarsi soltanto sull'appropriazione della comunicazione, dei significati dei «prodotti culturali», ovvero, sulla gestione del finish. Questa gestione, la sempre più generalizzata assunzione da parte del pubblico di questa gestione, potrà soltanto contribuire ai processi di riappropriazione delle strutture economiche e dei mezzi di produzione culturale da parte della classe operaia. Ed è proprio in considerazione dei limiti del nostro lavoro culturale, che dobbiamo vedere come nostro compito primario e reale l'operare nel divenire di un pubblico come autore253, nel senso di attribuire alla potenzialità dell'autoidentificazione del pubblico il proprio augere, il proprio aumentare il proprio potere, il proprio sviluppare la propria capacità di autodeterminazione. Senza — tuttavia - farsi soverchie illusioni (come talvolta è accaduto e accade) che soltanto il nostro lavoro culturale possa condurre nei suoi limiti sovrastrutturali e nelle sue ambiguità, all'immediato e concreto divenire del pubblico «produttore di cultura» e gestore dei mezzi di. produzione culturale. Ciò significa - e vogliamo sottolinearlo — che il lavoro culturale nel momento del consumo, non esaurisce la «battaglia delle idee»; la nostra lotta va condotta sulla produzione nella sua globalità e nella sua strutturalità, soprattutto attraverso il lavoro politico in senso stretto, il lavoro sindacale e riferita alle lotte del movimento nel suo complesso e nelle sue articolazioni, non teoricamente soltanto, o astraendo dagli scontri reali in atto. 253 Agli aspetti metodologici del lavoro di educazione degli adulti ho dedicato il volume Il pubblico come autore. L'analisi del film nelle discussioni di gruppo, Firenze, La Nuova Italia, 1970 Pagina 100 di 185 3.5 Istituzioni pubbliche ed educazione degli adulti 3.5.1 «Esperienza del mondo sensibile» e «capacità positiva» di affermazione Affrontare l'esame del rapporto tra le istituzioni pubbliche e i problemi dell'educazione degli adulti significa considerare il tema che è sintesi di tale rapporto: la «politica culturale» di una determinata organizzazione sociale, cioè il « potere culturale», la gestione del potere, il rapporto tra forze opposte rispetto a tale potere. La rilevanza del tema, rispetto ai problemi educativi, è riassumibile in alcune proposizioni della Sacra famiglia. Se l'uomo è sociale per natura, egli sviluppa la sua vera natura solo nella società, e la potenza della sua natura deve trovare la sua misura non nella potenza dell'individuo ma nelle potenza della società». E ancora, per quanto attiene in modo specifico il campo educativo: «Se l'uomo si forma ogni cognizione, ogni sensazione, ecc., dal mondo sensibile e dall'esperienza del mondo sensibile, ciò che importa allora è regolare il mondo empirico in modo che l'uomo vi faccia esperienza di ciò che è veramente umano e si abitui a conoscervisi come uomoSe l'uomo è formato dalle circostanze, si devono rendere umane le circostanze... Se l'uomo è non libero in senso materialistico, cioè è libero non per la forza negativa di evitare questo o quello, ma per la capacità positiva di affermare la sua vera individualità (...si deve...) dare a ciascuno nella società il posto di cui ha bisogno per l'estrinsecazione essenziale della sua vita»254. Dinanzi a questo bisogno fondamentale, qual è la risposta dell'organizzazione sociale? Come è regolato dal potere pubblico «il mondo empirico in modo che l'uomo vi faccia esperienza di ciò che è veramente umano e si abitui a conoscervisi come uomo»? Come sono predisposti il «mondo sensibile» e la possibilità di compiere «esperienza del mondo sensibile» affinché l'uomo possa formarsi cognizioni e sensazioni? Queste sono le principali questioni, andando al fondo dei problemi, per riesaminare il significato del rapporto tra istituzioni pubbliche e educazione degli adulti, e cioè il senso di una politica culturale, esplicita o implicita che essa sia, da interpretarsi come intenzionale predisposizione dell'ambiente per garantire ovvero per ostacolare all'uomo la «capacità positiva» di affermare la sua vera individualità. Un'accezione di «politica culturale» più adeguata al modo di porsi, oggi, di fronte a tali problemi discende direttamente dalle determinazioni marxiane. Esse anticipano oggettivamente le problematiche ecologiche, e non certo casualmente rispetto — almeno — al modo in cui esse si pongono nelle società neocapitalistiche. Nello stesso tempo, esse permettono di modificare le accezioni retorico-umanistiche dell'aggettivo, «culturale», restituendo vitalità anche al patrimonio artistico attraverso una qualificazione « politica» di scelte responsabili, unidirezionali (il rapporto formativo uomo-società), onnicomprensive (il rapporto globale con il «mondo sensibile»), metodologicamente orientate (!'esperienza del mondo sensibile). Esaminando, in particolare, ognuna di tali indicazioni, il significato di «politica culturale», un termine reso ambiguo dalle forze dominanti, riacquista valenze dinamiche, storiche e 254 K. Marx-F. Engels, La sacra famiglia cit., pp. 140-142 Pagina 101 di 185 prospettiche che possono sollecitare potenzialità trasformative mortificate dalle accezioni e dalle pratiche staticizzanti. E, infatti, assumere scelte responsabili, muovendo da necessità che scaturiscono da una proposizione ipotetica reale, vuoi dire tendere all'eliminazione delle pseudoproblematicità e alla considerazione dei veri problemi da affrontare qui e adesso, in organizzazioni sociali determinate. L'autenticità dei problemi è verificabile in concreto nelle forme storiche che assume il rapporto uomo-società, e cioè rispetto ai termini politici nella situazione conflittuale data. Tali scelte, inoltre, non privilegiano un settore (ad es. quello dell'arte o della filosofia), un ambito (i luoghi consacrati della «cultura») o un momento (quello della educazione scolastica o post-scolastica), ma abbracciano il «mondo sensibile», il «mondo empirico» in tutta la globalità e in tutte le articolazioni, partendo dal lavoro che, in un regno della necessità, è l'epicentro dei processi formativi. Infine, tali scelte seguono procedimenti sperimentali, capaci di restituire creatività, innovazione nella lotta contro l'antropofagia culturale, forza oppositiva rispetto a ogni forma di autarchia e ogni forma di sussistenza culturali. 3.5.2 Agenzie del potere e occultamento della politica culturale Rispetto a tale interpretazione di «politica culturale» le responsabilità delle forze agenti si precisano e si qualificano. Quelle delle istituzioni pubbliche, in particolare e per quanto riguarda più strettamente il nostro tema di riflessione, si manifestano nelle loro più autentiche tendenze, pur se umbratili, almeno apparentemente; ma in realtà precise e continuative. Talvolta sembra esservi addirittura una assenza o una fuga da tali responsabilità, quasi riversando sul complesso della società le origini, le cause dirette delle situazioni di fatto più carenti; o, perfino, ergendosi a giudice postumo delle «colpe» degli emigranti analfabeti, degli operai svogliati e tecnologicamente arretrati, dei registi venduti al commercio pornografico, dei pittori ripetitivi e provinciali, dei giornalisti reticenti, e così via. Per quanto riguarda una presunta assenza di responsabilità, di fronte all'attuale stato di cose, è corrente nel nostro establishment tecnocratico far ricorso al «tipo di motivazioni storiche che all'attuale assetto hanno condotto». Come è singolarmente riassunto in un rapporto del '69: «Da questo punto di vista, non si può non rilevare come i contenuti della politica culturale in Italia siano stati per molto tempo condizionati (!) dalla svolta storica che ha caratterizzato la recente evoluzione del nostro paese: il passaggio da un regime autoritario, la dittatura fascista, ad un regime democratico e pluralista. In questa situazione è comprensibile come, per molto tempo, una azione concreta di indirizzo dei contenuti culturali sia stata ostacolata (!) dal continuo ricordo dei controlli oppressivi e della maldestra (!) propaganda del Ministero della Cultura Popolare e degli altri organi similari nel passato regime. Così, se è mancata una politica rivolta ai contenuti dell'azione culturale, non fu tanto per ignavia o insipienza (!) degli amministratori e dei politici, quanto per una scelta precisa (!) che si rifaceva a tutta una esperienza ideologica e culturale. L'azione degli organi di governo nei riguardi della vita culturale si è indirizzata in questo modo quasi esclusivamente sul piano delle infrastrutture e delle reti di servizio (!). Le motivazioni che stanno dietro a tale linea di intervento non si riducono però al semplice (...) desiderio di evitare ogni, sia pur marginale, contatto con il passato regime, ma si radicano bene in profondo nella realtà sociale dell'Italia del dopoguerra. È proprio in relazione alla natura di democrazia del nostro nuovo regime politico, e all'obiettivo di realizzare nel nostro paese una società mobile ed aperta che l'azione di indirizzo e di impulso dei politici (!) si è concentrata, libera rimanendo la dinamica di espressione dei Pagina 102 di 185 contenuti culturali, sulla predisposizione di strumenti attraverso i quali i vari gruppi potessero autonomamente esprimere la loro elaborazione culturale»255. Quanto dire — secondo queste interpretazioni - che le istituzioni pubbliche hanno scientemente declinato ogni responsabilità nel campo della politica culturale; che esse si sono delimitate il terreno d'intervento alla realizzazione di «strumenti», di «infrastrutture», di «reti di servizio» e che la responsabilità della carente «dinamica di espressione dei contenuti culturali» ricade tutta sui «vari gruppi» che non hanno saputo approfittare di tanto ben di dio; e, ad esempio, dei canali sempre aperti e disponibili della televisione, dell'esercizio cinematografico pubblico che — per disuso — si dovette svendere, delle larghe facilitazioni aperte a cooperative di giornalisti, delle biblioteche assenti nella maggior parte dei comuni, del pieno sostegno all'associazionismo, dell'editoria pubblica. Il grottesco si estende, attraverso la forza delle istituzioni pubbliche e attraverso la logica riduttiva del compromesso in cui vengono coinvolti paesi ed esperti insospettabili, a livello internazionale; e da qui ritorna, con assurde motivazioni, in loco. La più caratteristica esemplificazione è certamente quella relativa al modo di affrontare una definizione di «cultura» e di «politica culturale»; qui, infatti, i tentativi di deresponsabilizzazione (o, meglio, di dimostrarsi non responsabili) appaiono in tutta la loro verità. La tematica è recente e le testimonianze numerose; scegliamone alcune: P. Moinot ad una conferenza del-l'Unesco nel 1966: «Permettetemi di non usare più il termine di cultura il cui contenuto appare sempre, in qualche modo, imprendibile e di parlare di azione culturale, formula umilmente operativa, ma che rientra naturalmente nella divisione del nostro lavoro e nell'organizzazione dei nostri piani e dei nostri programmi»256. Ma le basi di tali impostazioni — che a livello internazionale si determinano più per evitare fratture tra stati a diverso regime che per reale convinzione — risalgono, come ricorda P. Gaudibert257, agli anni della crisi delle ideologie, quando Dumazedier riscontrava che «Le ideologie più opposte convergono più o meno consapevolmente nella ricerca di criteri comuni per un'azione precisa, per un periodo dato». Più avanti, ritroviamo il filo di questo discorso negli atti degli incontri di Avignone: «Non si tratta di giungere a una nuova definizione della cultura... Sarebbe illusorio ricercare un'unanimità» circa una gerarchia dei valori culturali, mentre sarebbe più facile trovare un punto d'incontro sulle modalità dell'azione culturale. E un altro intervento: «Si può definire la nozione di cultura?... è apparso subito che non si giungerà facilmente ad una definizione teorica comune. È apparso, per converso, possibile di trovare un accordo su un'idea operativa, quella dell'azione e dello sviluppo culturale». Anche R. Maheu — direttore generale dell'Unesco — concorda: «È saggio evitare lo scoglio di una definizione preliminare della cultura». E infine: «Non si può giungere ad una definizione unica, accettata da tutti, della cultura… Ma lo sviluppo culturale è una nozione operativa, dinamica, feconda quanto quella dello sviluppo economico e dello sviluppo sociale». Insomma, fingendo di non voler scegliere un significato di cultura, si cerca di conservare o di riappropriarsi, senza darlo a vedere, del potere culturale attraverso la presunta scoperta di 255 Cfr. Censis, L'intervento pubblico nella organizzazione della cultura, Roma, aprile 1969, pp. 16-17, ciclostilato. P. Moinot, Pour des politiques d'action culturelle, Paris, Unesco,1966 257 P. Gaudibert, Action culturelle: integration et/ou subversion, Paris, Casterman, 1972, pp. 15-17, dove appaiono le citazioni di Dumazedier (da Point de vue sociologique sur les nouvelles relations du loisir et du développement culturel en France depuis les années 1953-1955, ciclostilato) e degli «incontri culturali» di Avignone, tra il 1964 e il 1967. Cfr. ed. it., Milano, Feltrinelli, 1973. 256 Pagina 103 di 185 uno «sviluppo culturale» che è di senso indeterminato e che, proprio per le analogie con lo «sviluppo economico», desta le più vive preoccupazioni. Soprattutto perché ancora oggi permane la cattiva, quanto mistificatoria, abitudine di basarsi sull'inanità o inefficienza delle ideologie, senza precisare quali; ad esempio, nella dichiarazione finale del colloquio europeo sul tema «Prospettive dello sviluppo culturale» svolto nell'aprile 1972, con lo scopo di proporre all'attenzione dei ministri della cultura che si sarebbero riuniti ad Helsinki nel giugno dello stesso anno i «fondamenti di strategia della cultura», si legge: «La frustrazione del potere di esprimersi da luogo a una carenza che le ideologie attuali non sono in grado di colmare: ciò che si dice non corrisponde più a ciò che succede»258; la responsabilità, insomma, non ricadrebbe sulle strutture (comprese le istituzioni pubbliche) incapaci o nolenti nell'assicurare il «potere di esprimersi», ma sulle ideologie (in generale) non in grado di rimediare agli effetti! E siccome questo colloquio si è svolto presso il «Centre du futur», vi è da temere anche per le prospettive. Concludendo, se non si conoscessero le difficoltà di convivenza internazionale, sarebbe difficile comprendere come sia possibile riferirsi a una «politica della cultura» fondata sul rifiuto di definire la «cultura», e, cioè, senza indicare il fine di una «politica». Ma, al di là dei problemi relativi alla difficoltà di procedimento degli incontri internazionali, ciò che maggiormente ci interessa sono i significati di tali determinazioni non appena esse ritornano a livello nazionale: quasi un assenso alla pratica di una «politica culturale» in atto che, tuttavia, non si intende spiegare ed esplicitare, e per la quale non si intenderebbe agevolare l'individuazione delle responsabilità; ogniqualvolta infatti queste vengono scoperte e precisate, il monumento al mito del servizio pubblico e dell'oggettività viene sgretolato e barcolla. 3.5.3 Tendenze della «politica culturale» del capitalismo monopolistico di Stato Svelare tali responsabilità, in effetti, non è agevole, quanto è semplice, almeno, attribuire a singoli governi e ministri la loro parte di contributo, più o meno incisivo, o consapevole, o mascherato, al realizzarsi di un disegno strutturale, quello del capitalismo monopolistico di Stato. Questo «stadio» del capitalismo è, infatti, il punto di riferimento obbligato per comprendere il rapporto (il significato politico, sociale, culturale di tale rapporto) tra istituzioni pubbliche e educazione degli adulti. Ma la specificità classista di questo «stadio» non si presenta immediatamente e direttamente, e ciò soprattutto nel campo della cultura. Proprio attraverso i suoi termini contradittorì che si esplicitano nel passaggio sempre affermato dalla sfera del «privato» alla sfera del «pubblico» si occultano le realtà sostanziali, quelle che discendono dalla «principale contraddizione della società borghese, tra il carattere sociale della produzione e la forma capitalista privata di appropriazione, posto che i mezzi di produzione appartengono a un numero sempre più piccolo di persone»259. E’ necessario precisare che tale occultamento tende a presentarsi non come tale, ma come «superamento» delle condizioni reali, come avvio progressivo al cambiamento, come sintesi degli opposti; e il tutto con raffinate prodezze di conciliazione e tecniche di convinzione. Pur senza poter approfondire un'analisi dei singoli settori, almeno come promemoria è necessario tener conto del rapporto tra realtà sostanziali e modi in cui dal punto di vista 258 Cfr. Perspective et développement culturel, in «Développement culturel», Bulletin d'information du Service des études et recherches du Ministère des Affaires culturelles, n. 13, maggio-giugno 1972 259 V. Tcheprakov, Le capitalism monopoliste d'État, Mosca, Éditions du Progrès, 1969, pp. 49-50 Pagina 104 di 185 economico, amministrativo, sociale e culturale cercano di realizzarsi quelle pretese, e con quali tecniche occultative. Ed è proprio in tali manifestazioni che si attua quell'educazione degli adulti di fatto che è la vera, operante educazione degli adulti, rispetto a quella settoriale, specifica e formalizzata in cui hanno cercato e cercano di lavorare gli operatori culturali, come in una riserva indiana — almeno per il passato — e dalla quale potranno uscire se sapranno organicamente legarsi alle forze, anche educative, che contrastano le manifestazioni, il senso, e le forze di tale occultamento. Come vedremo meglio più avanti, è in questo capovolgimento della prassi che si perpetua — o almeno tenta di divenire «permanente» — il dominio classista; è in questa coerenza interna di un'«educazione permanente» unisensica, martellante e onnicomprensiva che si realizzano gli scopi della conservazione strutturale, molto di più forse, e, certamente, con minor possibilità di controllo, di quanto non si realizzino attraverso quell'«apparato ideologico di Stato» che è la «scuola» delle età infantili, adolescenziali, adulte, e nelle sue diverse forme istituzionali. Da un punto di vista economico, strutturale, qual'è, dunque, la configurazione che di sé stesso presenta il capitalismo monopolistico di Stato? Attraverso quali messaggi l'impianto economico dominante comunica la propria articolazione, i propri metodi, le proprie finalità? A cosa tende il rapporto educativo tra struttura economica e — nel senso generale e complessivo — popolazione? Avanziamo subito alcune ipotesi rispetto all'ultima questione, quella che in modo specifico ci riguarda. Potremmo affermare che la maggior parte degli aspetti specifici per l'individuazione di ipotesi particolari discende da una ipotesi centrale che comprenderebbe e spiegherebbe ogni altra: l'insinuante tentativo da parte del capitalismo monopolistico di Stato di appropriarsi in blocco e nelle sue determinazioni della pedagogia attiva, appoggiandosi sul capovolgimento e la strumentalizzazione delle aspirazioni educative. E, infatti, quando si rifletta che è «intorno alla dottrina dell'interesse che gravita l'intera concezione dell'educazione attiva» e che «La dottrina dello sforzo e dell'interesse è strettamente congiunta a quella del carattere individuale e sociale dell'educazione che forma assieme ad essa il caposaldo della pedagogia del Dewey»260, è proprio intorno all'«interesse» e intorno alla «socialità» quale «punto di partenza» e di «arrivo dell'educazione» che gravitano i tentativi di appropriazione. Quale «interesse», infatti, e quale «socialità» corrispondono alle versioni neocapitalistiche, al senso in cui si imposta il rapporto educativo tra strutture economiche e popolazione? È intorno a questi due punti che l'ipotesi globale si specifica, sia storicamente che geograficamente, sia negli scopi come nei metodi. Il tentativo d'impossessamento dell'interesse e della socialità avviene, innanzi tutto, nello spostamento dell'attenzione dall'economico all'etico-psicologico, dall'oggettivo al soggettivo; come è stato osservato, si sostituiscono all'analisi delle proprietà del capitalismo monopolistico di Stato alcune sentenze etico-psicologiche, sicché «tutta la discussione tra i rappresentanti delle diverse scuole borghesi gira intorno alla questione di sapere se l'intervento dello Stato nell'economia è un bene o un male»261, mentre questo intervento è un processo oggettivo che non dipende da apprezzamenti soggettivi; e infatti, «non bisogna considerare il capitalismo monopolistico di Stato come una tendenza», ma come «un fenomeno, una forma, uno stadio del capitalismo monopolistico»262. 260 L. Borghi, II fondamento dell'educazione attiva, Firenze, La Nuova Italia, 19666, pp. 98V. Tcheprakov, op. cit., p. 30 262 Ivi, p. 23. 261 Pagina 105 di 185 Sembra evidente che in questa mistificazione soggettivistica sono fondate le basi per una metafisica dello Stato che interviene per il bene o per il male, in relazione ad un comportamento buono o cattivo dei cittadini incapaci di proporsi un rapporto corretto tra propri «interessi» e «socialità». Il passaggio di questa pseudoproblematica dall'economico al culturale comporta una falsificazione della conflittualità in atto tra ideologie e pratiche della conservazione e ideologie e pratiche dell'innovazione. In questa dualità opposi-tiva entra del tutto giustificata, se non indispensabile, la figura metafisica e demiurgica dello Stato. È evidente, peraltro, che dalla consapevolezza dell'oggettività dell'intervento dello Stato, anche nel culturale, scaturiscono, come vedremo più avanti, ben diverse indicazioni da quelle che si aspirerebbe a far scaturire dell'aspettazione messianica nei confronti di uno Stato salvatore. Oltre alla mistificante problematizzazione di un dato oggettivo, un altro, e ben più ambizioso, tentativo di appropriazione dell'interesse e della socialità si cerca di realizzare attraverso la riduzione della spinta al cambiamento, affermando che esso è già in corso e, senza traumi, può concludersi compiutamente. La mutazione sarebbe avvenuta, o starebbe avvenendo, attraverso l'intervento dello Stato nell'economia; avremmo una «nuova economia», un «capitalismo senza capitalisti né proletari» perché «il capitalismo ha dimostrato la propria vitalità e la propria capacità di adattarsi alle condizioni che cambiano»263 ovvero, come spiega A. Berle, «il capitale e il capitalismo esistono. Il fattore che scompare è il capitalista. Non si sa bene come, ma è quasi totalmente scomparso dal quadro»264. Sembrerebbe ovvio replicare a tali vaticini con l'osservazione marxiana: quando, con poca spesa, si vogliono eliminare tutti i difetti di una società non vi è nulla di più semplice che cambiare significato ad alcune parole. Ma il rapporto educativo tra forze del capitale e forze del lavoro, appoggiandosi alla contraddizione dell'intervento statale e alla deviazione degli interessi del proletariato, non di rado riesce a far passare le sue imposture e a svolgersi con profitto per lo status quo. Basti riflettere, per il passato, all'atteggiamento dei militanti antifascisti rispetto al «carattere economico e di classe del fascismo»; «È proprio per quanto riguarda l'approfondimento della struttura e dell'organizzazione interna del capitalismo monopolistico in Italia, in effetti, e della sua collocazione nel sistema imperialistico mondiale, che sin dal ventennio fascista si possono rilevare, tra gli studiosi ed i militanti antifascisti stessi, le maggiori deficienze»265. Basti considerare, per il presente, l'amplio ventaglio di maschere con le quali si tende a rendere accetta una situazione immodificata (in quanto «l'appropriazione resta privata, perché i mezzi di produzione restano, come prima, proprietà privata di un numero ristretto di monopolisti oppure sono utilizzati da essi a loro profitto»266): dalla «rivoluzione manageriale» del Burnham alla «economia mista» dello Slichter, dalla «economia di mercato temperata dalla coscienza sociale» dell'Erhard alla teoria dell'«automatismo dello sviluppo economico indipendentemente dal suo sistema socioeconomico» del Rostow. Oppure, è sufficiente riferirsi alle varie forme di appropriazione dell'interesse e della socialità tentate attraverso la pratica politico-economica: se è defunto il rozzo «corporativismo» (e, cioè, come anticipava nel 1920 Gramsci: l'«incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese»267), sono agenti con raffinati mezzi ma con analogo scopo la «politica dei redditi» propugnata senza successo in Italia, la «partecipazione» del De 263 Ivi, pp. 33-34, da C. Wright Mills, The Marxists, New York 1962, p. 470 Ivi, p. 35, da A. Berle, The 20th Century Capitalist Revolution, New York 1954, p. 39. 265 E. Sereni, Il capitale monopolistico nelle analisi dei comunisti italiani, in «Critica marxista» 5, settembre-ottobre 1972, p. 18. Sereni precisa, peraltro, che i «comunisti sono stati fin d'allora, senza dubbio, i primi (e per lungo tempo, i soli) a sottolineare il carattere ed il contenuto di classe economicamente e storicamente condizionato del fascismo, in quanto nuova forma della reazione e dell'oppressione capitalista...». 266 V. Tcheprakov, op. cit., p. 34. 267 Cfr. E. Sereni, op. cit., p. 18. 264 Pagina 106 di 185 Gaulle, le varie forme di azionariato sociale della Germania federale, la «diffusione del potere» dello Strachey in Gran Bretagna. Nel culturale, inoltre, parallela a queste teorie e pratiche è direttamente tesa all'appropriazione dell'interesse e della socialità l'ipotesi della «morte delle ideologie», con questo presunto decesso la battaglia delle idee sarebbe superata, i diversi e opposti progetti societari si equivarrebbero fino a confondersi in qualcosa di presunto nuovo, l'utopia e le tensioni si spegnerebbero, non resterebbe che produrre quietamente, e più non dimandare. Qual'è, in conclusione, il tentativo educativo d'impossessamento? Quello di indurre continua confusione tra soddisfacimento storico dei bisogni materiali e interesse di classe, nonché tra interesse di classe e «interesse nazionale» o «interesse generale», e ciò attribuendo allo Stato — al capitalismo monopolistico di Stato — nelle diverse forme d'intervento: partecipativo, mediativo, conciliativo, programmativo, gestionale, il potere di superare le antinomie sostanziali. Un terzo tentativo di appropriazione poggia sulla superficie delle realtà classiste, il miglioramento delle condizioni di vita del proletariato. Per sottolineare il valore positivo dell'intervento dello Stato, sia rispetto al cambiamento, sia rispetto ai difetti di un sistema liberistico, si afferma con intenti rassicuranti che la teoria della pauperizzazione è superata, che «era stato preconizzato (dai marxisti) l'impoverimento crescente delle masse operaie. Ma i salari per addetto sono aumentati di continuo nei paesi occidentali avanzati, e i salari orari sono saliti anche di più perché l'orario di lavoro si è ridotto grandemente (in un secolo in effetti si è più che dimezzato...). Il macchinismo industriale come mezzo di sfruttamento della fatica umana, nelle economie occidentali evolute, non è un fenomeno cosi diffuso come un tempo, né vi sono segni che esso stia aggravandosi. Le ore di lavoro si riducono e la fatica fisica del lavoro diminuisce. L'introduzione delle macchine — si era preconizzato — comprime i salari perché crea disoccupati; determina crisi industriali e contrazione di produzione, perché impoverisce le masse, genera sottoconsumo e stagnazione. Fenomeni di questo genere ve ne sono stati, in effetti; e ve ne sono. Essi sono molto gravi. Ma non sono più in grado di svolgersi in tutte le loro concatenazioni, in tutti i loro gravi effetti negativi: lo Stato e i sindacati, adesso, li contrastano e, spesso, con successo»268. Insomma, se non fosse per l'intervento statale (e dei sindacati, stranamente appaiati, quasi per esprimere un sotteso desiderio d'incorporazione direbbe Gramsci), l'impoverimento si verificherebbe, ma mai come preconizzato dalla teoria della pauperizzazione. Il fatto è, innanzi tutto, che l'impoverimento non è in assoluto crescente per l'opposizione del movimento operaio; in secondo luogo, che è falsa la teoria, attribuita a Marx269, che nel capitalismo «si produrrebbe un processo continuo di pauperizzazione assoluta del proletariato». In verità, «La lotta contro la volgarizzazione della tesi della pauperizzazione assoluta del proletariato ha una lunga storia. Già nel 1891, Engels criticava il programma di Erfurt della socialdemocrazia tedesca secondo la quale il numero del proletariato e la sua miseria non cesserebbero di aumentare. Sotto questa forma categorica la formula è scorretta. L'organizzazione degli operai, la loro resistenza sempre più forte ostacolano la crescita della miseria. Ma ciò che aumenta in modo incontestabile, è l'insicurezza dell'esistenza». Marx, peraltro, aveva scritto: «Un aumento sensibile del salario suppone un accrescimento rapido del capitale produttivo. 268 269 F. Forte, op. cit., p. 185. Cfr. per l'analisi di questo problema, V. Tcheprakov, op. cit., pp.301-305. Pagina 107 di 185 L'accrescimento rapido del capitale produttivo comporta anche una crescita rapida della ricchezza, del lusso, dei bisogni e dei piaceri sociali. Dunque, pur se i piaceri dell'operaio si sono accresciuti, la soddisfazione sociale che procurano è diminuita, comparativamente ai piaceri accresciuti del capitalista che sono inaccessibili all'operaio, comparativamente allo stadio di sviluppo della società in generale. I nostri bisogni e i nostri piaceri — precisava ancora Marx - hanno la loro origine nella società; non li misuriamo agli oggetti della nostra soddisfazione. Poiché essi sono di natura sociale, essi sono di natura relativa». E anche Lenin aveva precisato che «la miseria aumenta, non nel senso fisico, ma in senso sociale, cioè a dire nel senso che vi è sproporzione tra il livello crescente dei bisogni della borghesia e della società intera, e il livello di vita delle masse lavoratrici». In conclusione, quando nel rapporto educativo tra mondo del capitale e mondo del lavoro si attribuisce all'intervento dello Stato la capacità di mediare, si intende nascondere la realtà dello scontro, e la valenza delle forze opposte. Per il mondo delle forze economicamente dominanti, l'interesse è reso equivalente al salario come «minimo fisiologico» e alla giornata lavorativa come «massimo fisiologico». La socialità, in corrispondenza a tale interpretazione dell'interesse come aspirazione alla sopravvivenza, è l'accettazione di tale interpretazione. Quanto più tale accettazione è tacita e quieta tanto più essa viene valutata positiva per la socialità. Con l'apparato economico, repressivo e ideologico, lo Stato contribuisce al passaggio di questo messaggio di acquiescenza o a tentare di bloccare gli opposti messaggi delle forze del lavoro che all'interesse e alla socialità attribuiscono non solo significati liberatori, ma lottano — anche nel rapporto educativo — per l'affermazione dei loro valori, realmente e non surrettiziamente innovantti a livello degli interessi minimali del consumo e della socialità dimezzata. Noi sappiamo, per concludere, che questi modi e tecniche educative tendono all'occultamento della reale portata storica e sociale del capitalismo monopolistico di Stato; e sappiamo che tale impostazione del rapporto educativo può svolgersi e realizzarsi, talvolta a favore per lo status qua, proprio perché «lo sviluppo del capitalismo monopolistico di Stato è un fenomeno contraddittorio. Da una parte, è chiamato a mobilitare tutti i fattori economici, politici e ideologici allo scopo di prolungare l'esistenza della società capitalista; dall'altra, prepara oggettivamente — e non potrebbe non preparare — la base materiale per il futuro regime socialista, approfondisce e aggrava la crisi generale del capitalismo»270. Sappiamo, infine, che nel campo economico, il movimento operaio articola tale rapporto educativo come — potremmo dire con Gramsci271 — «una lotta contro gli istinti legati alle funzioni biologiche», e cioè contro il «minimo fisiologico» del salario e contro il «massimo fisiologico» della giornata lavorativa, per l'affermazione di un interesse alla trasformazione, per una socialità liberatoria e creativa, contro lo sfruttamento degli attuali rapporti di produzione. 3.5.4 Problemi del «servizio pubblico» Se nel campo economico il tentativo d'impossessamento dell'interesse e della socialità rimane a livello problematico o — più esattamente — costituisce lo stesso terreno di scontro, ed 270 271 Ivi, p. 19. A proposito della «spontaneità» nell'educazione infantile, Gramsci scriveva: «In realtà ogni generazione educa la nuova generazione, cioè la forma e l'educazione è una lotta contro gli istinti legati alle funzioni biologiche elementari, una lotta contro la natura, per dominarla e creare l'uomo "attuale" alla sua epoca» (cfr. Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Torino, Einaudi, 1949, p. 119). Pagina 108 di 185 è tangibile, controllabile e controllato collettivamente, nel campo generale dell'amministrazione le vie dell'impossessamento sono molteplici e multiformi. Pertanto, il rapporto educativo tra apparato amministrativo del capitalismo monopolistico di Stato e popolazione si svolge tra equivoci non facilmente svelatali, tra ambiguità intenzionali o connaturali al sistema amministrativo; l'interesse e la socialità divengono termini adoperabili con molta destrezza in senso conservativo. Se, ad esempio, osserviamo l'uso del «servizio pubblico» (nella sua teoria e nella sua pratica) troviamo una fertile occasione di riflessione sulle valenze educative che la nozione e la realizzazione di «servizio pubblico» comporta. Ci sembra utile scegliere, tra tanti aspetti dell'amministrazione pubblica, il settore dei servizi perché esso appare, da una parte, come la forma più recente dell'intervento amministrativo pubblico, e, dall'altra, perché è quello che — almeno in alcuni ambiti — risente più vivacemente delle spinte «dal basso». Come notava A. Zucconi a proposito dei «servizi sociali», in Italia, infatti, «si è cominciato a parlare di "servizi sociali" solo in questi ultimi anni, ufficialmente dopo la pubblicazione del Progetto 80. Il discorso si è successivamente animato sia con l'istituzione delle Regioni, sia con le esperienze di decentramento amministrativo in alcune grandi aree metropolitane. Di questo "approccio" piuttosto nuovo — rilevava ancora — dobbiamo in sostanza rallegrarci, perché è in certo senso un approccio "dal basso", in quanto parte dai bisogni concreti della popolazione di un dato territorio ed implica sia il problema del governo di questo territorio, sia della partecipazione della popolazione ai servizi come utenza attiva e come gestione»272. D'altra parte, se dai «servizi sociali» come oggi intesi o discussi, passiamo ai «servizi pubblici» in generale troviamo una problematica molto antica e complessa, con una storia — legata all'origine dello Stato moderno —, con indicazioni rivelatrici in relazione all'interesse e alla socialità nonché all'uso che di questi riferimenti si è praticato nel rapporto educativo in esame. «La teoria del servizio pubblico — ha scritto J. Chevallier273 - si è sviluppata agli inizi del XX secolo a partire dalla celebre opera del consigliere di Stato Teissier, La responsabilité de la puissance publique, del 1906»; egli «vede nella nozione di servizio pubblico una nozione chiave che fonda la competenza della giurisdizione amministrativa». Con il contributo di altri autori, la nozione conosce «una fortuna straordinaria, perché essa fonda e limita, sul piano filosofico i poteri dei governanti, mentre costituisce un criterio giuridico di applicazione del diritto amministrativo. Essa è di una chiarezza rimarchevole sul piano concettuale: il diritto dello Stato è il diritto dei servizi pubblici e, dunque, non solamente ogni attività amministrativa costituisce per principio un servizio pubblico, ma ancora solo un'attività amministrativa può costituire un servizio pubblico. La nozione di servizio pubblico è tanto estesa quanto l'attività dei poteri pubblici , questa coincide esattamente con quella. L'attività di servizio pubblico va di pari passo con la gestione attraverso un organo amministrativo. In questa concezione, i due sensi del servizio pubblico coincidono: il servizio pubblicoistituzione corrisponde al servizio pubblico-attività». Cosa significa questa concezione nella pratica? E quale significato assume nel rapporto educativo? Spiega lo Chevallier che nella pratica è il «criterio organico» che diviene preponderante, e proprio « perché è il più operazionale». 272 A. Zucconi, I servizi sociali nel decentramento amministrativo a Roma, Milano, Bologna, Roma, AAI, quaderno 12 (1972), supplemento al n. 6 1971 di «Assistenza d'oggi», p. 19. 273 J. Chevallier, Le service public, Paris, Presses Universitaires de France, 1971, pp. 8-11 Pagina 109 di 185 In che senso? «Non è facile — si aggiunge e specifica -definire se l'attività in causa è veramente d'interesse generale; ma ciò non è necessario: poiché ogni persona pubblica gestisce un servizio pubblico, è sufficiente qualificare l'organo per scoprire per il fatto stesso la natura dell'attività. E questa qualificazione pone molti minori problemi. Grazie a questa referenza organica, la precisione concettuale della nozione di servizio pubblico è molto grande». In effetti, di fronte a questa definizione del «contenuto originario» del servizio pubblico ogni possibile dubbio viene fugato: non è il «servizio» che qualifica il «servizio pubblico», ma è il «servizio pubblico» stesso che si pone come tale; cioè: non è la funzione a qualificare l'organo, ma è quest'ultimo che si autogiustifica organicamente; cioè, ancora: non è chi si serve del «servizio pubblico» a qualificare il servizio, ma è il servitore. Vi è, tuttavia, un particolare: in questo caso il servitore si identifica con il padrone. Nascono, allora, fondati interrogativi sul cui prodest, sugli interessi e sulla socialità; soprattutto quando si afferma che tutto l'esercizio del servizio pubblico è basato su una presunzione: «...le attività pubbliche perseguono sempre, direttamente o indirettamente, la finalità dell'interesse generale. Vi è una verace presunzione che l'Amministrazione agisce nel senso dell'interesse generale, ed è molto difficile scoprire un criterio oggettivo che permetta di contraddire questa presunzione. Tutte le attività pubbliche hanno dunque per principio il carattere di attività di servizio pubblico, e ciò mostra che su questo piano il criterio organico conserva una grandissima importanza». Ma non esistono davvero altri «criteri oggetti vi» capaci di contraddire questa presunzione? Limitiamoci ad osservare, per ora, che nella logica che scaturisce da tale presunzione l'organicità non sembra riferita alla funzione (e alla popolazione servita), quanto piuttosto all'organo (e al «servizio pubblico», come singolare «servo padrone»). Questa impostazione originaria, tuttavia, è senza dubbio utile, nella misura in cui ci fornisce la cartina di tornasole dell'«interesse generale». E, infatti, con questo strumento di verifica possiamo soffermarci, almeno brevemente, sul significato pratico che ha assunto questa presunzione nell'evoluzione-involuzione storica. Per ricavare elementi utili di riflessione dobbiamo tener presente che — e non solo per noi — non è la pubblicizzazione dei servizi che preoccupa; tutt'altro; ma l'uso che del «servizio pubblico» è stato e viene fatto. L'ipotesi, dunque, intorno alla quale dobbiamo cercare di indagare è relativa alla rispondenza di alcuni istituti ai cosiddetti «interessi generali», non dando per scontata, presuntivamente, la «generalità» di tali interessi, ma cercando d'individuare, nel corso storico, il senso politico del manifestarsi concreto di tali «interessi generali». Ciò equivale, per noi, all'individuazione del rapporto tra valenze educative di alcuni istituti che si definiscono pubblici e scopi reali di tali istituti. Sembra evidente, in altre parole, che è proprio il criterio organico a permetterci di appurare se è vero, e in quale misura, che negli interventi pubblici prevalgono gli interessi generali, ovvero se sono gli interessi privatistici a prevalere sub specie della pubblicità dell'istituto; se è vero che l'intervento pubblico di per sé permetta di superare il classismo ovvero che esso non mascheri una permanente sostanza classista dietro una facies pubblicistica; e, in questo secondo caso, mentre non si riscontrerebbe una rispondenza reale — ma solo apparente o labile — ai bisogni e agli interessi della popolazione, risulterebbe esservi prevalentemente l'uso educativo dell'istituto, e, naturalmente, in senso conservativo. Se come termine di riferimento storico-amministrativo prendiamo gli «enti pubblici», in quanto ci sembra che essi contengano l'attuale problematica dei «servizi pubblici», riscontriamo che, in effetti, all'origine dello Stato moderno sembra esservi una tendenza all'assunzione Pagina 110 di 185 diretta di responsabilità da parte dello Stato rispetto ai bisogni dei cittadini; come è stato notato274, «Nei primi anni della rivoluzione francese si assiste infatti al disconoscimento di una autonoma personalità a enti locali, comunità ecclesiastiche e ospedali. L'ostilità nei confronti dell'esistenza di un patrimonio distinto da quello dello Stato si manifesta in Francia in una deliberazione del 5 agosto 1789 dell'Assemblea Costituente che privava di ogni privilegio patrimoniale e non patrimoniale tutti gli enti territoriali e le comunità»275. In seguito questa tendenza cedette il passo al riconoscimento di persone pubbliche diverse da quella dello Stato, con distinte caratteristiche storiche a seconda del periodo. In Italia, una prima fase viene considerata quella compresa tra l'unità (1860) e la prima guerra mondiale (1915); in questo periodo, l'amministrazione pubblica è «quella che si compie sotto l'autorità dello Stato, rappresenta una causa essenzialmente pubblica, uno dei fini dello Stato e delle sue autorità frazionarie»276 e queste sono, principalmente, i comuni e le province; l'esistenza di enti pubblici, in altre parole, viene riconosciuta sul territorio, «per la cura di interessi generali di dimensioni locali». Essi si presentano con due caratteristiche: innanzitutto «curano interessi generali» (il comune «è persona giuridica pubblica perché «corporazione localizzata per provvedere agli interessi che nascono e muoiono nel territorio comunale»277; perché ha «una moltitudine di fini da raggiungere», è «uno Stato in piccolo»278) ; e «in questo modo si comprende — spiega il Cassese — perché il problema della personalità giuridica pubblica fosse, nel periodo preso in considerazione, in connessione con quello dell'autogoverno, del diritto cioè di amministrare da sé i propri affari: se un ente pubblico cura istituzionalmente tutti gli interessi di una collettività bisogna che i membri di quest'ultima siano posti in grado di far sentire la loro voce nell'ente pubblico»279. La seconda caratteristica è nel «carattere dello jus imperii che accompagna gli atti dell'autorità comunale»280. Scrive M. S. Giannini: «Sino a quando si era avuto, in Italia, la vigenza della costituzione liberale, lo Stato si occupava di poche cose e lasciava all'iniziativa dei Comuni tutto ciò che non formasse oggetto di un proprio interessamento diretto»281, aggiungendo e specificando che ciò accadeva «non tanto per rispetto dei principi, quanto perché si trattava di materie sulle quali lo Stato non aveva opinioni e non voleva assumere atteggiamenti propri»282; fatto sta che «i Comuni, soprattutto quelli dell'Italia settentrionale e centrale, furono, almeno sino agli inizi di questo secolo, i più operosi creatori di istituti giuridici. Vi furono regolamenti di edilizia, i quali contenevano delle prescrizioni che erano più avanzate di quelle della legge urbanistica del 1942 (...) istituti come i pubblici macelli, i mercati generali, i mercati speciali, i depositi generali, i vivai e semenzai pubblici, le scuole di riabilitazione per minorati, le cattedre di istruzione agraria, i preventori e gli ambulatori, alcuni 274 Cfr., anche per le successive osservazioni e per i riferimenti bibliografici, S. Cassese, Partecipazioni pubbliche ed enti digestione, Milano, Edizioni di Comunità, 1962, p. 90 ss 275 Ivi, p. 90; cfr. R. Drago, La crise de la notion d'établissement public, Paris 1950, p. 33 276 Ivi, p. 91 ; cfr. L. Meucci, Instituzioni di diritto amministrativo, Torino 1892, p. 164. 277 Ivi, p. 91; cfr. G. Giorgi, La dottrina delle persone giuridiche o corpi morali, Firenze 1899, vol. II, p. 10. 278 Ivi, p. 91; cfr. G. Giorgi, op. cit., vol. IV, p. 93 279 Ivi, p. 92; cfr. S. Romano, La teoria dei diritti pubblici subiettivi, Trattato Orlando, Milano, s.d. (ma 1897), p. 146; F. Cammeo, Corso di diritto amministrativo, Padova 1960, p. 391. 280 Ivi, p. 92; cfr. G. Giorgi, op. cit., vol. IV, p. 93. 281 M. S. Giannini (a cura di), / Comuni, Atti del Congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, Pubblicazioni dell'Istituto per la Scienza dell'Amministrazione Pubblica, Vicenza, Neri Pozza 1967, p. 34 282 Ivi. Pagina 111 di 185 istituti assistenziali per gli anziani o per persone socialmente sottoprotette, ebbero tutti la loro origine in iniziative comunali»283. Concludendo intorno a questa prima fase, vi è da tener presente che, accanto agli enti in parola (principalmente comuni e province), vi sono «istituzioni semipubbliche » o «di pubblica utilità» che non hanno, in senso stretto, «l'esercizio del potere pubblico» e non entrano «nell'ordito rigorosamente governativo dello Stato» (esse sono, ad es., le università, le opere pie, le congregazioni di carità, i consigli delle professioni liberali ecc.)284. La seconda fase viene compresa nel periodo 1915-1943; ma lo sviluppo quantitativo degli enti pubblici si ebbe soprattutto nel ventennio fascista. In questa fase si riscontra «la costituzione di enti a competenza nazionale per la cura di interessi non più generali ma di settore»285. Le loro caratteristiche: «il loro estendersi a tutta la comunità nazionale» e il «curare non più tutti ma solo gruppi di interessi»286. È importante sottolineare, innanzi tutto che rispetto a questo, abbiamo un «declino dell'importanza degli enti locali»287. Ed è in questo periodo «— e proprio in relazione alla non perfetta coincidenza tra ente pubblico e fine pubblico — che sorgono persone giuridiche pubbliche operanti come imprenditori privati»288. Ciò in quanto la «tendenza del diritto fascista è precisamente nel senso di configurare sempre più largamente nuovi enti pubblici con attività fondamentalmente regolata dal diritto privato»289. «Accanto a enti pubblici-impresa, si creano in questo periodo enti con compiti di regolazione e con rappresentanza di interessi di settori professionali, che godono della personalità pubblica ma operano come soggetti privati»290. La spiegazione di questo proliferare di «enti pubblici» è nel prevalere del regime totalitario «che mira a vestire di carattere pubblico interessi privati. Enti di gestione, enti di incoraggiamento, enti di controllo proliferarono senza alcun ordine apparente, giungendo perfino a curare interessi strutturalmente in contrasto tra di loro. Si verificò, in tal modo, il seguente fenomeno: il piano su cui avveniva la composizione degli interessi economici si spostò dallo Stato-società verso l'interno dell'ordinamento statale. Ciò, del resto, — conclude il Cassese — corrispondeva alla conclamata identificazione fra società e Stato (o tra nazione e Stato)»291. Insomma: l'«incorporare» gramsciano era stata un'anticipazione esatta anche nell'ambito amministrativo. Quale interpretazione estrarre, da un punto di vista educativo, di questo fenomeno? La « Relazione all'Assemblea Costituente» della Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato notò senza perifrasi che il pullulare di «enti pubblici» in quel periodo fu determinato «da tendenze avverse al progressivo aumento delle funzioni pubbliche, 283 Ci è sembrato opportuno ricordare questi elementi per sottolineare l'amplio raggio degli istituti promossi da Comuni; per quanto specificitamente ci riguarda, andrebbero aggiunti i conservatori, le biblioteche, le pinacoteche, i musei 284 S. Cassese, op. cit., p. 92 285 Ivi, p. 93. 286 Ivi. 287 Di questo declino oggi si riscontrano i significativi effetti: se «si raffronta ciò che un Comune faceva o poteva fare nei primi decenni dell'unità, e ciò che un Comune fa o può fare oggi, si constata che il Comune ha perduto una quantità di attribuzioni a favore dello Stato o di enti pubblici diversi. Si constata soprattutto che anche nelle attribuzioni rimaste al Comune, si è avuta un'erosione continua di competenze, al punto che oggi nessuno saprebbe indicarne una che gli sia esclusivamente propria» (cfr. M. S. Giannini, op. cit., p. 34). 288 S. Cassese, op. cit., p. 94. 289 Ivi, p. 94; cfr. G. M. De Francesco, Persone giuridiche pubbliche e loro classificazioni. Scritti per Vacchelli, Milano 1938, p. 211. 290 Ivi, p. 94. 291 Ivi, pp. 94-95 Pagina 112 di 185 e cioè da tendenze politiche liberali o liberiste», e cioè dal «considerare pubblici enti i quali di pubblico non hanno altro che il nome»292. Per altro verso, si afferma che tale interpretazione «non considera il fatto che con l'estensione degli enti pubblici si da rilievo pubblico a interessi finora meramente privati e si trasformano attività private e quindi meramente lecite in attività funzionali, cioè pubbliche»293. A noi sembra, volendo tentare un'interpretazione, che per un verso non si possa parlare di «tendenze» liberali o liberiste, ma di manifestazioni amministrative dello «stadio» strutturale del capitalismo monopolistico di Stato nel ventennio fascista. Dall'altro verso, che non comprendiamo come queste manifestazioni, in questo periodo, con un regime che «mira a vestire di carattere pubblico interessi privati» possano, immediatamente e in toto, trasformarsi in «attività funzionali, cioè pubbliche». Piuttosto bisognerà distinguere tra enti ed enti: quelli istituiti sulla base di bisogni più largamente avvertiti e per questo, forse, elaborati strutturalmente in modo da rendere più solida, apparentemente questa trasformazione; e quelli più rozzamente costruiti ai fini privati. Dovremmo, infatti, tener presente, al di là delle forme giuridiche, le sostanze politiche, e la domanda che avanzava G. Dimitrov: «Qual è l'origine dell'influenza del fascismo sulle masse?». E le sue risposte: che esso «riesce ad attirare una parte delle masse perché fa appello demagogicamente ai loro bisogni e alle loro aspirazioni più sentite». Che esso «tende allo sfruttamento più sfrenato delle masse, ma le avvicina con un'abile demagogia anticapitalistica, sfruttando l'odio profondo che i lavoratori nutrono contro la borghesia rapace, contro le banche, i trust e i magnati della finanza, e lancia parole d'ordine più suggestive, in questo momento, per le masse politicamente immature. In Germania, "il bene comune al di sopra di quello privato"; in Italia, "il nostro non è uno stato capitalista, ma uno stato corporativo"...»294. Il fatto che alcuni enti siano riusciti a scavalcare la Resistenza e a ripresentarsi alla società, con scarse modificazioni, identici da un punto di vista democratico, potrebbe costituire un'altra occasione di distinzione: tra quelli capaci di svolgere una funzione sostanzialmente simile sul piano demagogico (ad es. il bisogno di svago, e la risposta pronuba quanto interessata a tale bisogno) e per i quali è stato sufficiente cambiare intestazione (dall'EIAR all'OND); e quelli deperiti come ente totalitario (ad es. la GIL) perché impossibilitati a reciclarsi nel pluralismo come organo del «bene comune» giovanile295. Concludendo, ci sembra che, effettivamente, nel campo generale dell'amministrazione le vie d'impossessamento dell'interesse e della socialità siano molteplici e multiformi, indirizzandosi alle «masse politicamente immature», «ai loro bisogni e alle loro aspirazioni più sentite», in nome di un'organicità al «bene comune». Inoltre, vi è da tener presente che il rapporto educativo tra amministrazione («servizio pubblico») e popolazione è facilitato oggettivamente, in senso conservativo, dal fatto che la richiesta (di «assistenza», di «aiuto», di «consulenza», di «protezione», di «istruzione», di «svago» ecc.) non è avanzata a livello collettivo, ma individuale; non a livello di produzione, ma di consumo; non a livello della forza di classe, ma della minorazione sociale; non nella pienezza dell'autocontrollo, ma nello stato di necessità (e sui diversi bisogni nessuno può permettersi moralismi); non a livello delle cause (le condizioni di lavoro in fabbrica o lo sfruttamento) ma degli effetti (la malattia contratta sul lavoro o la disoccupazione). 292 Ivi, p. 95; cfr. Ministero per la Costituente, Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato, Relazione alla assemblea costituente, vol. Ili, p. 15 293 Ivi, p. 95. 294 G. Dimitrov, Dal fronte antifascista alla Democrazia Popolare, Rapporto al VII Congresso dell'Internazionale Comunista, Mosca, 2 agosto 1935. 295 Si potrebbe osservare, in proposito, che molti tentativi sono stati compiuti per un adattamento; ma infine — nel 1973 — a un trentennio dalla caduta del regime fascista — finalmente ci si è decisi ad attribuire i beni della exGIL alle Regioni (ma non tutti). Pagina 113 di 185 E come contrapporre a questo rapporto educativo potenzialmente così assoggettante un opposto rapporto educativo che disveli il privato classista nel sedicente «servizio pubblico»? Come organizzare quell'utenza che è il moderno sottoproletariato prodotto dal neocapitalismo? Non intendiamo suggerire che ciò sia impossibile; è possibile e reale; ma è certo più difficile acquisire consapevolezza nel rapporto educativo con il «servizio pubblico» di quanto non lo sia in fabbrica, nel rapporto educativo con la struttura economica. Ogni sforzo in questo senso andrebbe sostenuto; l'analisi di Dimitrov conserva tutta la sua attualità di sostanza. Quando, dalla considerazione delle forme d'impossessamento dell'interesse e della socialità di tipo fascistico (massimamente contraffattorio e prepotente nel suo inglobante corporativismo) passiamo a riflettere alla situazione attuale, dobbiamo tener conto dei pericoli sempre presenti e delle contraddizioni del capitalismo monopolistico di Stato. Circa i pericoli, è sempre salutare ed educativo alla consapevolezza quanto ancora Dimitrov affermava, nel '35, che non si può «immaginare l'ascesa al potere del fascismo in modo semplice e piano, come se un comitato qualsiasi del capitale finanziario decidesse di instaurare la dittatura fascista a una data fissa», (noi diremmo con i colpi di Stato), ma «attraverso una lotta con i vecchi partiti borghesi o con una determinata parte di essi», e che questa lotta non diminuisce «l'importanza del fatto che, prima dell'instaurazione della dittatura fascista, i governi borghesi, ordinariamente, attraversano una serie di tappe preparatorie ed instaurano una serie di misure reazionarie, le quali favoriscono direttamente l'ascesa del fascismo al potere». Chi — aggiungeva — «non lotta durante queste tappe preparatorie contro le misure reazionarie» non solo «non è in grado di impedire», ma «facilita la vittoria del fascismo». Circa le contraddizioni, dobbiamo sottolineare alcuni punti fermi per impedire che nel campo amministrativo prevalga un senso conservativo nel rapporto educativo tra «servizio pubblico», «ente pubblico» e popolazione. Innanzi tutto, il rifiuto dell'equazione semplicistica «servizio pubblico» = «interesse generale», «bene comune» ecc., ovvero la presunzione che scopo del «servizio pubblico» sia, sic et simpliciter, l'interesse generale; se si vuoi muovere da un dato presuntivo, scegliere la presunzione opposta, proprio perché il senso dell'aggettivo «pubblico» è materia del contendere o deve divenir tale nelle più mistificate occasioni. In secondo luogo, e per affermare un senso diverso del «pubblico», tendere ad attribuire il criterio organico all'interesse di chi si serve, e non allo Stato erogatore del «servizio». In terzo luogo, tener conto del principio dinamico e dialettico che il senso del «pubblico» non si giustifica a priori o per presunzione giuridica, ma nella gestione e nel controllo, da cui discende che un «servizio pubblico» è tale quando, anche qui, secondo la Costituzione, «la sovranità appartiene al popolo» (art. 1). In quarto luogo, infine, ci sembra importante sottolineare il rilievo dell'istituzione delle Regioni per la tendenza che esprime di ritorno al territorio (agli interessi delle popolazioni direttamente presenti ai problemi della gestione e del controllo), e per tutto ciò che tale istituzione significa come spazio e potere alle autonomie locali, come democraticità nei fini e nelle procedure di attuazione dei «servizi pubblici», come rovesciamento — almeno potenziale — del rapporto educativo metafisico e demiurgico tipico dello Stato accentratore, nel presente stadio del capitalismo monopolistico. 3.5.5 La «cultura» nel capitalismo monopolistico di Stato Se nel campo economico il rapporto educativo tra capitalismo monopolistico di Stato e movimento operaio costituisce lo stesso terreno di scontro, e, quindi, il controllo sul senso di tale rapporto, la lotta per il cambiamento di tale senso è possibile, definibile quotidianamente, attualmente reale; se nel campo amministrativo, e proprio per le ambiguità del «servizio pubblico», il rapporto educativo con la popolazione è meno controllabile quando nella prassi Pagina 114 di 185 non riusciamo a ribaltare il senso del «pubblico» e cioè i modi di modificare le attuali posizioni di potere, cosa accade nel campo e nell'accezione, tradizionalmente delimitati, della «cultura»? Pur avendo ricercato in questi rapporti — prioritari, anche da un punto di vista culturale — il significato implicitamente educativo all'assetto economico e amministrativo, è necessario riscontrare le valenze educative che emergono dal rapporto tra «cultura» e capitalismo monopolistico di Stato. Perché, se è vero che la politica culturale scaturisce dall'assetto strutturale e istituzionale, è vero anche che esiste una camera di elaborazione specifica alle decisioni di politica culturale, un luogo deputato ai tentativi di impossessamento dell'interesse e della socialità; che poi in Italia esso non corrisponda ad un Ministero della cultura, ciò è interpretabile da varie angolazioni296. Per individuare le vie d'impossessamento dell'interesse e della socialità nel campo culturale, dobbiamo riferirci al complesso del rapporto educativo, andando al di là della singola opera d'arte, del singolo museo (teatro, biblioteca ecc.), del singolo autore. Il voler limitare e restringere i discorsi al singolo autore, alla singola infrastruttura culturale, alla singola opera d'arte, ovvero al complesso mondo dell'arte come insieme di singole individualità, di singolarità infrastrutturali, di unicità irripetibili costituisce — infatti — uno dei giochi di ricatto più usuali per non permettere di abbracciare la globalità del rapporto educativo in atto ed il suo senso conservativo, per continuare — magari sotto nuove forme — e perpetuare l'impossessamento a favore del privilegio. In questo trabocchetto sembra a noi che siano caduti anche sociologi come Dumazedier297, per un verso o, per l'altro, Bourdieu e Darbel298, quando sono andati a constatare il rapporto tra campi d'interesse ovvero musei, e popolazione; in tali spicchi di realtà, in tali angoli ristretti della globalità non è possibile trovare altro che i brandelli di una condizione umana dalle potenzialità ben più ricche di capacità innovative. In realtà, infatti, limitarsi ad appurare che tra arte e popolazione non scolarizzata non vi è alcun rapporto positivo, che in alcuni strati sociali manca l'amore (il bisogno, l'interesse) per l'arte significa accettare i termini scontati di un rapporto classista. Il problema non sembra essere questo, né quello di abbattere tardivamente i fantasmi della «neutralità» dell'arte o dell'«innocenza del gusto». Ma quello di appurare fino a quale punto si spinge la contraddizione di una divinità che ha bisogno di fedeli, che ha bisogno di scoprire i loro bisogni (i più riposti299) per poterli soddisfare, a beneficio della propria autoconservazione, fino alle soglie della saturazione, mai oltre, per impedire la liberazione dal bisogno stesso. Come scriveva Marx: l'animale «produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente solo se libero dal bisogno medesimo»300; l'importante è che non si permetta mai di «produrre veramente». Per impedire che ciò si verifichi la divinità avverte il bisogno di controllare tutte le evenienze dei bisogni, e perfino di suscitarne di nuovi, artefatti e indotti, che la socialità storica 296 Periodicamente, s'è parlato dell'istituzione di un Ministero dei Beni Culturali; ora è stato istituito J. Dumazedier è stato tra i pionieri di questo genere di ricerche (con l'inchiesta condotta ad Annecy nel biennio 1956-57). «Su un agglomerato urbano di 40.000 abitanti, la caratteristica dominante rilevata "nei riguardi dell'acquisto sistematico delle conoscenze è l'indifferenza". Ma il gruppo relativamente ristretto di persone che sentono dei bisogni culturali rivela, particolarmente al livello operaio, un interesse concentrato " sui problemi pratici e tecnici". Tra gli operai qualificati una scarsa attenzione viene rivolta "alla scienza, all'arte, alla letteratura, ai problemi filosofici" a vantaggio delle questioni inerenti alla vita quotidiana e alla tecnica» (cfr. L. Borghi, Educazione e sviluppo sociale, Firenze, La Nuova Italia, 1962, p. 234; J. Dumazedier e J. Hassenforder, L'instruction et les masses, in «International Revue of Edu-cation», 1961, n. 1, pp. 37-50). 298 P. Bourdieu e A. Darbel, L'Amour de l’Art. Les Musées et leur public, Paris, Éditions de Minuit, 1966; trad. it., Firenze, Guaraldi, 1970 299 Cfr. Chreiologie, Journées francaises dei Vaucresson 4-6 settembre 1968, Societé francaise de chreiologie, Rapports et Communications relatifs a l'étude scientifique des besoins, «Informations-UFOD», Numero special:. 1968-1969 300 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili, a cura di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 19716, pp.199-200 297 Pagina 115 di 185 è in grado di soddisfare quietamente (peccato che gli strati operai non siano in grado di godere di tante gioie profferte nell'epoca della riproducibilità tecnica dell'opera d'arte!). Ma cosa intendiamo dire con divinità, e con i suoi bisogni di bisogni? A noi sembra che, per individuare le vie d'impossessamento che nel campo della «cultura» il capitalismo monopolistico di Stato segue, sia necessario lasciarci prendere per mano dalle tendenze in atto, vedere dove vanno a concludersi, individuare i varchi della contraddizione in cui il neocapitalismo si trova e in cui tenta di intrigare. L'ipotesi dalla quale possiamo muovere è relativa alla compresenza, in questo stadio, di due tendenze. La prima si riferisce, appunto, alla nuova divinità; potremmo definirla come la religione della cultura o dell'arte, un fenomeno la cui origine è databile agli albori della società industriale; come notava Huizinga negli anni'30: «II grande cambiamento (circa la funzione dell'arte) è nato dalla nuova ispirazione estetica dello spirito, che ebbe inizio dopo la prima metà del Settecento in due forme: una romantica, l'altra classicheggiante. La corrente principale è quella romantica, l'altra vi s'intreccia. Da ambedue nasce quella celeste esaltazione del piacere estetico nella scala dei valori; celeste perché troppo spesso si sostituirà a un affievolito sentimento religioso... Solo verso la fine dell'Ottocento, non senza l'influenza della tecnica fotografica, la voga dell'arte penetra pure nelle masse dei più o meno istruiti. L'arte diventa dominio pubblico, sta bene insomma di occuparsi di arte. Lo snobismo si diffonde sensibilmente nel pubblico... L'arte è... soggetta ai fattori nocivi del moderno processo di produzione». La meccanizzazione, la pubblicità, la ricerca d'effetto «influiscono maggiormente su di lei perché essa lavora più direttamente per la vendita, e con mezzi tecnici». D'altra parte, l'artista «viene considerato come un essere eccezionale superiore alla maggioranza degli uomini, e deve stimare giusto che gli sia tributata una certa riverenza. Per poter gustare questo senso di eccezionalità egli ha bisogno di un pubblico di ammiratori... »301. Dobbiamo sempre tener presenti, circa il pubblico e il rapporto produzione-consumo, le osservazioni marxiane: «L'oggetto dell'arte — come ogni altro prodotto — crea un pubblico sensibile all'arte e capace di godimento estetico. La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l'oggetto. La produzione produce quindi il consumo...»302. La seconda tendenza ha origine dal tentativo di condizionare lo sviluppo democratico anche nel campo culturale; accettati, almeno teoricamente, i principi di libertà e di eguaglianza, lo Stato, nello stadio del capitalismo monopolistico, tenta di ritardare il riconoscimento reale dei lavoratori, della loro presenza storica, fisica, diremmo. Fu sintomatico, in questo senso, il dibattito in sede di Costituente, quando — se ben ricordiamo — la dizione di Togliatti (« repubblica di lavoratori ») sostenuta dalle sinistre dovette cedere alla mediazione della formula «fondata sul lavoro». Al contrario della prima, questa seconda tendenza è, dunque recente; essa — pur tardivamente — viene esplicitata a livello ufficiale nel «Progetto 80»303, il documento del Ministero del Bilancio e della Programmazione economica pubblicato nel '69 (e la data è importante, in quanto gli estensori non potevano non tener conto delle aspirazioni — distorte — del '68); qui si parla, per la prima volta, di «promozione della cultura», di «servizi sociali per il tempo libero» oltre alla «preservazione del patrimonio storico e artistico». Inoltre, se la prima tendenza ha origini dalle necessità della società industriale, ma è formulata nella camera di elaborazione gestita da intellettuali alla Winckelmann, la seconda nasce in opposizione alla 301 J. Huizinga, Homo ludens, Torino, Einaudi, 1946, pp. 248-249; tutti i corsivi sono nostri K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica cit., p. 16 303 Ministero del Bilancio e della Programmazione economica, Progetto 80, Rapporto preliminare al programma economico nazionale 1971-1975, Milano, Feltrinelli, 1969 302 Pagina 116 di 185 rivoluzione bolscevica, alle aspirazioni del movimento operaio, all'affermazione della presenza storica dei lavoratori. Essa nasce, evidentemente, come risposta conservativa al movimento che propugnava e propugna non solo la libertà e l'eguaglianza nello stesso campo culturale, ma, anche qui, la necessità di partire dai rapporti di produzione, più che dal mondo classico. Questa tendenza, dunque, tenta di impossessarsi più direttamente dell'interesse delle masse lavoratrici e della socialità; finge (fino a prova contraria)304 di recepire le aspirazioni alla democratizzazione culturale (nel senso della ripartizione di un bene che deve essere comune, del decentramento e della diffusione culturali) e tende ad accettare, almeno teoricamente, il diritto alla cultura in analogia al diritto alla libertà e alla giustizia. La personalità che ha cercato di spingere a oltranza queste due tendenze è stato indubbiamente Malraux i cui «dieci anni di azione culturale resteranno una delle avventure più ricche» vissute, e non solo da lui, e non solo in Francia. Un'avventura conclusasi con il maggio francese, con la contraddizione che opponeva Andrè Malraux «agitatore culturale» al ministro Malraux, e che «non poteva risolversi altro che con un ritiro»305. Un'avventura, a nostro parere, che mirava alla sintesi tra le due tendenze, e che sembra essere naufragata nelle sue ambizioni. Quasi riprendendo i termini di quella «celeste esaltazione del piacere estetico» di cui aveva parlato Huizinga leggendo il futuro, Malraux affermava che «La cultura è l'insieme delle forme che sono state più forti della morte...»306, che «Auparavant il y avait la religion. Aujourd'hui a l'échelon de l'État, il faut tenter de faire en sorte que la sauvegarde soit mise de façon permanente en face de l'attaque. Avant cinquante ans, la culture sera gratuite»307, che le Maisons de la culture sono le «cattedrali del XX secolo»308, che «Il museo che fu una collezione diviene — e lui solo — una sorta di tempio»309, che le Maisons de la culture sono appunto le cattedrali «dove la gente si incontra per incontrare ciò che di meglio vi è in essa»310. Cercando di fondere in questa «religione della cultura» l'universalismo e il nazionalismo, le aspirazioni democratiche e il gollismo, e forse sperando di riuscire in questo scopo grazie soprattutto al suo rapporto passato col vivo di rivoluzioni, Malraux si senti osservare nel '68 che se la cultura era la religione, essa aveva oggi «il ruolo dell'oppio dei popoli»311, in più: che «essa tendeva» a fondare una specie di religione, di religione di stato». Mentre già nel '65, il PCF aveva notato seccamente che «l'arte non ha niente da guadagnare a essere promossa al rango di religione di Stato»312. Ma il fallimento sostanziale della inglobante visione del Malraux non significa sconfitta del capitalismo monopolistico di Stato sul terreno della politica culturale. L'impossessamento dell'interesse e della socialità può rischiare anzi di passare più inosservato quando, fingendo di accettare la richiesta di democratizzazione, il discorso si fa 304 Ci sembra corretto scrivere «finge», e non «accetta», perché, in effetti, per quanto riguarda la situazione del nostro Paese, mancano le determinazioni concrete, e, quando sembrano esservi, vengono inevase; basti pensare alle cifre, in bilancio, non spese per l'edilizia scolastica, alle lunghe traversie per la costruzione della biblioteca nazionale a Roma, alle cifre stanziate per gli enti di stato per il cinema, al piano per la pubblica lettura (Piano L), al 2% della spesa per le costruzioni da destinarsi ad opere d'arte (v. «l'Unità», 12 gennaio 1967). 305 Cfr. J. Lacouture, «Dix ans de règne sur la culture, in "Le Monde", 9 luglio 1969. Peraltro, si nota che «politicamente, il generale de Gaulle è morto nel maggio 1968» (così J. Fauvet, in «Le Monde», 3 maggio 1973), anche per una rivolta alla politica culturale del regime gollista 306 Cfr. P. Gaudibert, op. cit., p. 43 307 Ivi, p. 44. 308 Ivi. 309 Ivi. 310 Ivi. 311 J. Dubuffet, Asphyxiante Culture, Paris, Pauvert, 1968, p. 13. Scriveva: «La cultura tende a prendere il posto di ciò che un tempo fu quello del la religione. Come quello, essa ha oggi i suoi sacerdoti, i suoi profeti, i suoi santi, i suoi collegi di dignitari». 312 G. Belloin, Politique culturelle: les communistes proposent, in «Cahiers du communisme» 10, ottobre 1965, p. 35; cfr. P. Gaudibert, op. cit., p.45 Pagina 117 di 185 efficientistico e servizievole; come quando, nel '62, in Francia, si scriveva nel primo stadio (quello delle attrezzature) del quarto piano: «II ruolo dello Stato è di creare le condizioni che rendano possibile e fruttuoso lo sforzo di ciascuno, specialmente sviluppando un'infrastruttura di sale di spettacolo e di Maisons de la culture, in rapporto con i bisogni sempre più sentiti... È una forma molto particolare di "servizio pubblico" che importa organizzare e provvedere di attrezzature negli anni prossimi se si vuole cominciare a soddisfare i bisogni culturali»313. Ovvero, come quando, nel '69, in Italia — e nell'imitazione sostanziale quanto provinciale dell'efficientismo gollista — il «Progetto 80» scriveva: «Per realizzare le condizioni che rendano possibile la massima comunicazione culturale occorrerà integrare il sistema formativo ordinario con un sistema adeguato di centri culturali... I centri di diffusione della cultura dovrebbero essere distinti in: strutture specializzate...; strutture polivalenti», «L'adozione del principio dell'educazione permanente farà sì che nei prossimi anni le strutture formative extrascolastiche debbano passare da una fase di esistenza limitata e precaria ad una di intenso sviluppo e di riqualificazione»314. Nessuno, ovviamente, potrebbe contestare, in assoluto, le scelte della spesa pubblica per le infrastrutture; le biblioteche, i teatri, le sale da concerto, i locali di riunione servono così come — per altri versi — le ferrovie, i ponti o le autostrade. Ma, per esaminare la questione nel relativo e nel concreto, e per estrarre da tali riscontri i significati più autentici del rapporto educativo, dobbiamo porci alcune domande che, purtroppo, acquistano un sapore retorico in questa situazione di «privatismo» del «pubblico». Sapere, in primo luogo, perché tra le due linee opzionali315 degli economisti (quella di chi ritiene prioritarie le infrastrutture e quella di chi tende «ad insistere sulla necessità di accelerare, mediante imprese industriali, il processo di industrializzazione») abbia prevalso quest'ultima che sacrifica il «capitale fisso sociale»; soprattutto tenendo conto che questa nozione è oggi più amplia di quella tradizionale di «opere pubbliche» (comprende, oltre a «strade, porti, ferrovie, acquedotti, fognature, ospedali», tutto il capitale di uso collettivo, che è esterno alla dotazione di capitale della singola impresa manifatturiera o agricola o commerciale: «le installazioni elettriche, telefoniche, le dighe, i canali navigabili, le bonifiche, l'irrigazione» e che anche «le spese per la pubblica istruzione vanno ad arricchire "il capitale fisso sociale" in un suo aspetto che, per essere immateriale, non è meno importante: quello del patrimonio di cultura e di conoscenze della popolazione»). Sapere, in secondo luogo, perché nel quadro della «politica di opere pubbliche», l'edilizia scolastica sia stata sacrificata, sia in relazione ai bisogni, sia in proporzione, ad es., alla rete autostradale o — ancor più significativo per quanto riguarda la ripartizione di spese per il «capitale fisso sociale» — in relazione allo sviluppo della rete televisiva (e poco mancò alla riuscita del colpo di mano estivo del '73 sulla TV a colori). Sapere, in terzo luogo, quale sia la percentuale di danaro pubblico che oggi viene versato per il settore culturale agli organi che conservano, producono, distribuiscono «beni culturali»: dai musei alle biblioteche, al cinema, all'editoria anche giornalistica, ai teatri, alla produzione musicale, alla televisione ecc.316. Gli elementi disponibili ci sembra provino che sia la strumentalizzazione della elitaria «religione della cultura» (e cioè l'uso di questa moderna ideologia del capitalismo monopolistico di Stato), sia quella della «democratizzazione della cultura» (e cioè il ribaltamento delle più autentiche istanze popolari) sono troppo scoperte per poter sostanziare ancora a lungo l'appropriazione dell'interesse dei lavoratori e della loro socialità. Il problema, tuttavia, risiede nella gestione del discorso culturale che, a differenza di quello economico o di quello 313 J. Charpenteau, Un besoin des réponses diverses, in L'animation culturelìe, Paris, Les Éditions ouvrières, 1964, p. 25. 314 Progetto 80 cit., pp. 122-129 315 F. Forte, op. cit., pp. 332-337 316 Cfr. G. Bechelloni, La macchina culturale in Italia, Bologna, II Mulino, 1974, pp. 101-103 Pagina 118 di 185 amministrativo, è affidata se non delegata — per varie vie e in nome di vari assiomi — a strati sociali, e a gruppi di interesse, estremamente esposti ai ricatti, alle blandizie, al controllo delle forze economicamente egemoni. In proposito, crediamo sia da ritenere ancora valida l'affermazione gramsciana secondo cui «avviene che molti intellettuali pensino di essere lo Stato: credenza, che, data la massa imponente della categoria, ha talvolta conseguenze notevoli e porta a complicazioni spiacevoli per il gruppo fondamentale economico che realmente è lo Stato»317. Certamente lo status e il ruolo degli «intellettuali» operanti nel campo strettamente culturale presentano oggi caratteristiche specifiche che qui non possiamo affrontare318; ma il problema di fondo — per quanto riguarda più strettamente la loro funzione nel quadro del rapporto educativo tra la politica culturale del capitalismo monopolistico di Stato e la popolazione — sta tutto nell'alta percentuale di rischio del loro essere «incorporati» (con la loro «autonomia» e perfino con la loro «conflittualità») nelle strutture statali. Da qui discende la facilità di camuffamento del «privato» nel «servizio pubblico» culturale; ma anche la consapevolezza che è necessario aprire le porte di questa camera di elaborazione delle decisioni di politica culturale; nonché la necessità di contribuire a interrompere questo circuito chiuso. Dalla nostra succinta analisi dei campi economico, amministrativo e culturale, ci sembra — in conclusione — che scaturisca chiaramente da dove e come può venire l'innovazione, dove e come esista resistenza al rapporto educativo di segno conservativo. Laddove, come nella vita economica, il movimento operaio possiede direttamente la propria forza storica, e i suoi metodi e i suoi strumenti di lotta con tutta la loro valenza educativa (dal «principio associativo» di Gramsci allo sciopero) lì il rapporto educativo non passa univocamente, unidirezionalmente; tende, anzi, e sempre più pressantemente, a invertire i ruoli: da discente a docente. Con tutte le loro contraddizioni, le pubblicizzazioni economiche in quanto costituiscono le «basi materiali» per una società diversa sono le lezioni che il neocapitalismo è stato costretto ad imparare a memoria. Laddove, invece, come nei campi amministrativo e — ancor di più — culturale l'opposizione alla sovrastruttura presenta articolazioni di mediazione e, in generale, il movimento operaio non possiede una propria forza specifica, lì il rapporto educativo è tuttora problematico, anche se è vero che l'editoria, il cinema, la televisione stessa sono profondamente influenzati dai bisogni reali dei lavoratori e dalle forze politiche e sindacali che li rappresentano e organizzano. 3.5.6 «Atmosfera culturale generale» e didattica degli adulti Rispetto alla situazione attuale, alle prospettive di lotta, ai metodi da seguire, all'evoluzione delle forme e dei contenuti di egemonia del neocapitalismo, e cioè rispetto al tipo di rapporto educativo che in questo stadio il capitalismo monopolistico di Stato tenta di attuare, dobbiamo riflettere ai compiti che deve porsi una nuova concezione dell'educazione degli adulti nella pratica delle istituzioni pubbliche. Tale pratica appare, ed è dichiarata apertamente, non al servizio dei lavoratori, ma dell'adeguamento della forza lavoro; nel capitolo I, «La programmazione italiana nella prospettiva degli anni settanta» del «Progetto 80», alla voce «cultura» si afferma, ad es.: «I 317 318 A. Gramsci, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura cit., p.12 Cfr. S. Piccone-Stella, Intellettuali e capitale nella società italiana del dopoguerra, Bari, De Donato, 1972. G. C. Ferretti, L'autocritica dell'intellettuale, Padova, Marsilio, 1970. R. Luperini, Gli intellettuali di sinistra e I’ideologia della ricostruzione, in «Ideologie» 8, 1969. G. Jervis e L. J. Comba, Ruolo professionale e azione politica, in «Quaderni Piacentini» 38, 1969. M. Sabbatini, Sul blocco corporativo degli intellettuali di sinistra, in «Ideologie» 7, 1969 Pagina 119 di 185 progressi dell'automazione rendono indispensabile anche in Italia una consapevole scelta sul tipo di società che dovremo fronteggiare, o che vogliamo costruire. La sostituzione del lavoro operativo ed esecutivo offre l'occasione di spostare gradatamente le energie umane verso le attività specifiche e creative dell'intelligenza e della cultura. Si tratta certamente di un processo lungo. Ma già oggi, con un grado di automazione relativamente modesto, il problema del livello culturale appare centrale rispetto al problema dell'occupazione. E più ancora lo diverrà nei prossimi anni. I problemi della scuola, della formazione professionale, della ricerca, si fondono in un solo vasto impegno di trasformazione culturale, che rappresenta l'unica risposta valida alla "sfida" tecnologica»; o più avanti: «...l'espansione del settore destinato a soddisfare i bisogni collettivi richiederà l'impiego crescente di uomini in attività solo in parte automatizzabili, come l'insegnamento, l'informazione, lo spettacolo, la diffusione della cultura...»319. Ci sembra — in proposito — che siano ben fondate le osservazioni più recenti di U. Terracini320 quando nel '72 puntualizzava: «Siamo giunti nella storia del nostro Paese ad un momento nel quale, secondo uno di quei rovesciamenti della prassi che sono propri della dialettica marxista, i problemi della sovrastruttura hanno acquistato prevalenza sui problemi delle strutture, il politico predomina sull’economico-sociale». Egli spiegava il fenomeno affermando che «un corso ormai decennale di grandi lotte unitarie delle masse lavoratrici ha notevolmente inciso sopra il predominio economico della grande borghesia capitalistica, la quale, per evitare che ciò proceda ulteriormente, è venuta nella determinazione di avvalersi in pieno del potere politico», per un verso appoggiandosi sulle mancate riforme dell'«intera organizzazione dello Stato» che «non ha subito alcuna modificazione a confronto del tempo prerepubblicano e pre-democratico », e, per l'altro, servendosi del neofascismo «in quanto strumento sussidiario dello Stato nel compito di intimidazione e repressione delle grandi masse popolari». A noi sembra tanto esatta questa interpretazione, basata sul rovesciamento della prassi, che ad essa vorremmo riferire la valenza politica («la determinazione di avvalersi in pieno del potere politico») delle tendenze di politica culturale, sia nelle istituzioni pubbliche, direttamente gestite, sia nel sostegno statale alle private. Da questa angolazione, acquistano un significato educativo globale sia le anticipazioni del «Progetto 80» — e molto al di là della riqualificazione della forza-lavoro, specie nelle «attività solo in parte automatizzabili» — ; sia le previsioni dei futurologi che, senza eccezione, prefigurano la (prossima) società postindustriale come eminentemente «educativa»321; sia gli assunti di alcuni sociologi i quali affermano che ormai «ciò che l'individuo incorpora nel suo tessuto mentale gli giunge assai più con l'impregnazione della mente immersa nella sfera dei messaggi che attraverso il processo razionale dell'educazione, più ordinato e metodico certo, ma operante soltanto per un breve periodo della sua vita; la scuola della vita ha il sopravvento sulla scuola tout-court; da essa aspettiamo il più delle conoscenze utili e questa constatazione di fatto equivale alla constatazione di una carenza dell'educazione per l'uomo dell'era tecnologica: vi è d'ora in avanti dissonanza tra vita ed educazione»322. Queste anticipazioni, previsioni, osservazioni hanno certamente una loro validità; ma «lo schermo della nostra cultura» somiglierebbe davvero a un feltro (cioè «una congerie di piccoli elementi di conoscenza, di frammenti di significato»323) soltanto se ci ritenessimo soddisfatti dei programmi illuminati di sviluppo della cultura e di trasformazione culturale (come nel «Progetto 319 Progetto 80 cit., pp. 7-8 e 34 Intervento di U. Terracini al Comitato Centrale del PCI cfr «l'Unità», 28 ottobre 1972. 321 Cfr. E. Paure, F. Herrera, A.-R. Kaddoura, H. Lopes, A. V. Petrovski, M. Rahnema e F. C. Ward, Rapporto sulle strategie dell'educazione, Roma, Armando-Unesco, 1973 322 A. Moles, Sociodinamica della cultura cit., pp 45-46 323 Ivi, pp. 42-43. 320 Pagina 120 di 185 80»), ovvero se ci limitassimo ad attribuire ad un generico progresso lo sviluppo delle spese per l'istruzione, e anche quando precisassimo tale idea di progresso nel senso dello sviluppo della produzione e dei consumi. Così come ci sembra non condivisibile, nella sua ingenuità, l'opinione che «d'ora in avanti» vi sarà «dissonanza tra vita ed educazione», perché questa ipotesi di presunta dissonanza sembra vertere soltanto sui metodi e sugli strumenti del processo educativo, e non sui contenuti, e tanto meno sulle finalità. In realtà, l'attuale situazione educativa nell'età adulta differisce da quella passata (e dalle istituzioni educative per le età pre-adulte), soltanto per la difficoltà del controllo, da parte delle forze dominanti nel loro complesso, sui processi di apprendimento e di adeguamento. Un tempo, questo controllo era diretto e semplice; oggi è indiretto e sostanzialmente in relazione con le crisi cicliche del capitalismo (se, e nella misura in cui, il rapporto educativo con la società adulta è stato efficace lo si misura nello scontro sociale ed economico, negli esiti di tali scontri; ed i risultati non sono immediatamente, e sempre, leggibili). E, d'altra parte, è proprio questa difficoltà del capitale nell'esercizio del controllo che sollecita sia l'incremento dei messaggi e delle occasioni cosiddette culturali (dallo sviluppo della TV, al sostegno al cinema commerciale ecc.), sia l'aumento degli impegni economici per giungere a formalizzare e ad impossessarsi degli interessi e della socialità anche attraverso l'educazione permanente (si può dire, da questo punto di vista, che l'educazione permanente nasce dal bisogno del capitalismo di superare la propria crisi educativa). È attraverso questo incremento e questa formalizzazione dei processi e delle occasioni educative che il politico formal-mente democratico realizza un rovesciamento della prassi; cosi come è vero che è attraverso i «manganellatori» e le bombe che il politico neppure formalmente democratico mira a raggiungere lo scopo educativo (diciamo cosi) dell'intimidazione e lo scopo politico della repressione. L'importante è costituire quell’«atmosfera culturale generale che costituisce il "fondamento" di tutte le situazioni specifiche»324. Sono parole che Kurt Lewin scriveva nel 1936, dopo essere fuggito dalla Germania nazista. Egli spiegava che coloro che «hanno avuto l'opportunità di osservare dappresso il comportamento degli insegnanti nella scuola (per esempio, in Germania... in particolare nel periodo compreso tra il '30 e il '33), si saranno facilmente accorti di come cambiamenti anche minimi della situazione politica generale coinvolgessero, quasi giorno per giorno, non soltanto gli ideali suggeriti, ma anche i metodi educativi impiegati (come il tipo o la frequenza delle punizioni, il numero delle esercitazioni, il grado di libertà e d'indipendenza nell'apprendimento)»; si tratta di una constatazione che ognuno può fare attualmente nel sistema educativo globale della società adulta: dal comportamento del Telegiornale a quello in fabbrica. Questa atmosfera culturale generale è l'humus nella quale un rapporto educativo può fruttificare, e la storia — più o meno recente — lo dimostra. Ma le lotte del movimento operaio in Italia provano che l'instaurazione di un'atmosfera culturale generale di senso conservativo non è un fatto automatico e inevitabile; richiede modi, sedi, strumenti che possono essere controllati nelle loro manifestazioni, anticipati nei loro propositi. Determinanti sono la vigilanza e l'unità, e non solo per la resistenza, ma per costruire un'atmosfera culturale generale di segno opposto, quella che — ad es. — ha permesso al popolo vietnamita la vittoria. In una società come la nostra il rovesciamento della prassi nel politico (e nel culturale) non è, peraltro, lineare né coerente; sia rispetto all'economico-sociale, sia rispetto a se stesso, e talvolta si ha l'impressione che la repressione sia l'altra faccia della permissività, che entrambi 324 K. Lewin, I conflitti sociali. Saggi di dinamica di gruppo, Milano Angeli, 1972, pp. 39-40 Pagina 121 di 185 questi modi d'impossessamento dell'interesse e della socialità operino, con apparente incongruenza, a seconda dei gruppi, dei ceti, degli ambienti. Ma ci sembra che proprio in questa forma di comportamento (in cui ognuno è sollecitato a svolgere il proprio discorso, perfino nella battaglia delle idee) cerchi di realizzarsi quella frammentazione degli interessi di classe sulla quale far prevalere una socialità conservativa. Nella politica culturale del capitalismo monopolistico di Stato questa didattica degli adulti è particolarmente evidente e, per spiegarci meglio, sono sufficienti pochi esempi. Essa viene praticata in riferimento alla collocazione più diversa degli interessi. Innanzi tutto, in relazione ai «livelli culturali»; se è evidente che esistono diversi tipi di coltivazione alla fruizione culturale, al rapporto con i prodotti culturali (non per natura, ma perché classisticamente voluti), l'istituzione pubblica attribuisce loro un carattere di gradi, di livelli, in una scala predeterminata e funzionale alla conservazione della scala medesima; agli interessi dei «livelli superiori» risponde con un determinato impianto bibliotecario, programma musicale, struttura museografica; agli interessi dei «livelli inferiori» con il «Leonardo» e i vecchi «centri di lettura», con le canzonette della radio e i loro festival, ovvero lasciando fare al cinema privato (sostenuto). Di un dato oggettivo che l'«interesse generale», la socialità, dovrebbe superare, si realizza, insomma, un uso strumentale e particolare, privatistico di segno classista. In secondo luogo, in relazione ai bisogni individuali; la suddivisione, ad es., che la Rai-Tv attua nei programmi tra informativo, culturale, ricreativo risponde certo agli interessi più diversi della stessa persona; ma, anche qui, di un dato oggettivo si realizza un uso strumentale, nella misura in cui l'informazione, la cultura, l'occasione di svago diventano un modo per spezzare l'individuo nei suoi interessi, fingendo di rispondere a ciascuno di essi, e, in realtà, tentando di impossessarsi del più profondo, quello di classe. 3.5.7 «Servizi pubblici intellettuali» e «principio associativo» Dalle precedenti riflessioni sul significato dell'intervento dello Stato, in questo stadio del capitalismo monopolistico, sia nel campo del «culturale», sia — nelle loro valenze educative — nei campi economico e amministrativo, sembra a noi che scaturiscano le indicazioni più coerenti in senso progressivo e liberatorio. Esse si rifanno agli appunti di Gramsci sui «servizi pubblici intellettuali», che ci sembra giusto recepire quale messaggio illuminante con un valore estremamente anticipatorio rispetto alle attuali questioni della «politica culturale». Si chiedeva, dunque, Gramsci: «Servizi pubblici intellettuali: oltre la scuola, nei vari gradi, quali altri servizi non possono essere lasciati all'iniziativa privata, ma in una società moderna, devono essere assicurati dallo Stato e dagli enti locali (comuni e province)?». E nell'elenco che cominciava a stendere, anticipando il senso degli attuali problemi ecologici, comprendeva anche i giardini zoologici, gli orti botanici, oltre a biblioteche, musei, teatri ecc. Egli le considerava come «istituzioni che devono essere considerate di utilità per l'istruzione e la cultura pubblica» e che «non potrebbero essere accessibili al grande pubblico... senza un intervento statale». Dopo aver sottolineato la trascuratezza di tali servizi, o la loro impronta commerciale, Gramsci inseriva il problema dei «servizi pubblici intellettuali» nella problematica dell'«egemonia, ossia di democrazia in senso moderno»; partendo dalla constatazione che, rispetto alla scarsità dei servizi pubblici, in Italia sono «abbondanti le opere pie e i lasciti di beneficienza: forse più che in ogni altro paese. Pagina 122 di 185 E dovuti all'iniziativa privata», egli annotava: «Questi elementi sono da studiare come nessi nazionali tra governanti e governati —, Beneficenza elemento di "paternalismo"; i servizi intellettuali elementi di egemonia, ossia di democrazia in senso moderno»325. Ci sembra importante sottolineare, in primo luogo, che questa determinazione dei servizi pubblici nel campo della cultura quali fattori di «egemonia» non solo è la base di consapevolezza da cui muovere per saper valutare e reagire alla «religione della cultura» o alla stessa generica «democratizzazione della cultura»; non solo spiega il valore politico di strumenti che si vorrebbero far ritenere «universali» e «al di sopra del tempo e delle lotte» o «umani» in assoluto, per servirsene in modo indolore nell'instaurazione di una «atmosfera culturale generale» di segno conservativo. Questa determinazione è la base per costruire e per imporre una politica culturale dello Stato che risponda agli interessi del «pubblico», come concetto opposto al privatismo, e cioè come realtà collettiva dei lavoratori nei loro interessi di classe. La sfida, infatti, non è quella luddistica (se cosi si può dire rispetto alle opere del passato) della distruzione dei musei o delle biblioteche, ma il prefigurare questi servizi come reali «elementi di egemonia, ossia di democrazia in senso moderno». Gramsci ci fornisce, a nostro parere, precise indicazioni in proposito. Sia quando parla di «cultura pubblica», una dizione che nel contesto acquista un valore profondamente democratico, sia soprattutto quando definisce le infrastrutture culturali come «servizi pubblici intellettuali». Lo spostamento del servizio e del pubblico dal «culturale» all'«intellettuale» oggettivizza il bisogno; vogliamo dire che a nostro parere egli riconduce alle origini il problema, depurandolo dei sedimenti classisti degli interessi privati, togliendo tutte le incrostazioni culturalistiche, disalienandolo dal soggettivismo delle discussioni sulla «cultura» e riportandolo all'oggetti vita del bisogno di emancipazione come «sviluppo intellettuale della classe operaia». Certo non bastano le parole a risolvere la questione; ma in un campo in cui la raffinatezza delle impostazioni di un discorso, non gestito direttamente dalle masse lavoratrici, ripropone confusioni continue (ad es., negli scontri tra tendenze artistiche diverse, come se questo fosse nella sua globalità, il problema di fondo dell'innovazione), è importante avere un punto fermo cui fare riferimento, un riferimento dialettico reale sul quale impostare la lotta. Perché, allora, si riscontra che nella nostra società i problemi di prospettiva nella battaglia delle idee non sono quelli, sempre all'ordine del giorno, del prevalere di una avanguardia o dell'altra, ma della possibilità reale di crescita dell'intellettualità operaia. Tale possibilità (che è una possibilità di «democrazia in senso moderno») non sembra essere un a priori estetico: «II problema del giusto e dell'errato nell'arte e nella scienza deve essere risolto (...) attraverso il lavoro pratico in questi campi e questo problema non deve essere risolto in modo semplicistico»326. La finalità delle istituzioni pubbliche ossia dei «servizi pubblici intellettuali» è quella di offrire la possibilità di questa pratica, come contributo alla umanizzazione delle circostanze, per dare a ciascuno «la capacità positiva di affermare la sua vera individualità», «il posto di cui ha bisogno per l'estrinsecazione essenziale della sua vita». A tali «circostanze», non si arriva per decreto legge; la stessa loro conquista è un'occasione educativa. A tal fine, proprio per lottare contro il segno tenuamente permissivo del capitalismo monopolistico di Stato e della sua politica culturale, è necessario tener contò del modo di arrivare alle istituzioni, del modo più coerente ai veri interessi e alla vera socialità: il «principio associativo» gramsciano nell'eredità storica del movimento operaio può soccorrerci nel superamento del privatismo e nell'affermazione della «cultura pubblica». Il miglior modo di realizzare «servizi pubblici intellettuali» non è tanto quello di limitarsi a rivendicare che lo Stato risponda — a suo modo — ai bisogni culturali; ma che il movimento 325 326 A. Gramsci, op. cit., pp. 128-129 Mao Tse-tung, op. cit., p. 36. Pagina 123 di 185 operaio anticipi l'iniziativa statale, o risponda a tale iniziativa, legando i problemi politici alle aspirazioni culturali che da tali problemi discendono, sia nelle finalità prospettiche, sia attraverso i metodi storici del movimento stesso, e, in primo luogo, dell'associazionismo, campo nel quale i lavoratori hanno manifestato la «capacità positiva» di affermare la loro vera individualità, la loro forza collettiva, la loro cultura. 3.6 Scienza, tecnica, realtà educativa 3.6.1 Temi di riflessione per un'andragogia della scienza Anche rispetto al rapporto tra scienza, tecnica ed educazione degli adulti ci troviamo di fronte ai problemi che scaturiscono dall'impossessamento strutturale della produzione tecnicoscientifica e, attraverso questo, al tentativo d'impossessamento dell'interesse e della socialità. Ma, in tale ambito, il disvelamento delle forme educative di senso conservativo è reso molto più complesso da alcuni elementi occultanti, particolarmente funzionali allo scopo. Se alcuni, tra essi, sono il frutto educativo più evidente degli attuali rapporti di produzione e di consumo, altri sembrano discendere, sovrastrutturalmente, da aspirazioni secolari, talvolta sembra da essenze metastoriche. Già nelle precedenti considerazioni sulle relazioni tra il lavoro, la scuola e l'educazione nell'età adulta, la configurazione della scienza è emersa nelle caratteristiche che gli attuali rapporti di produzione determinano e che gli attuali strumenti e infrastrutture formative convalidano. Il processo di scissione tra lavoro e scienza, l'«entrare al servizio del capitale» della scienza stessa, la problematicità di un controllo diretto sulla produzione scientifica sono i termini cui ci siamo riferiti. Insieme ad essi, altri elementi falsificanti agiscono nelle dimensioni temporali e spaziali, da una parte superando i limiti della storia e della geografia politica (la scienza nel suo valore universale) e, dall'altro, estendendo all'infinito spazio temporale i termini di un orizzonte che l'individuo è impossibilitato a dominare razionalmente; l'uomo diviene tanto libero in questa dimensione da restare prigioniero della sconfinatezza. Altri, tendono a renderci euforici (l'avventura della conoscenza) sulle orme dell'Ulisse omerico e di quello dantesco (e, oggi, di quello joyciano), preformandoci ad una mitologia delle scienza fin dalle prime età scolari e confermandoci tale percezione dei problemi attraverso le varie occasioni educative che, giorno per giorno, emergono dal lavoro degli scienziati e dei tecnici, occasioni che, attraverso i mezzi di comunicazione, vengono adeguatamente utilizzate ai fini di una statica conferma327. Altri elementi mistificanti si impongono nel rapporto quotidiano con gli utensili che la tecnologia — e l'industria, e il consumismo — pongono a disposizione di larghi strati della popolazione, anche dei meno abbienti; il vantaggio dell'uso — con i suoi risparmi di fatica fisica, di tempo e, talvolta, di denaro - copre il significato educativo dei gadgets, degli strumenti ad uso domestico ed extradomestico, dei robot a gettone, delle automobili, dei treni più veloci, degli aerei; da tale frequenza di rapporti scaturisce una pioggia di valenze educative che tendono a nascondere le realtà strutturali dietro il conforto momentaneo, lo svantaggio dei più rispetto alla consolazione di pochi, la destinazione dei profitti dietro lo sviluppo delle forze produttive. Altri elementi occultanti possono emergere, e pesare sulle nostre possibilità liberatorie, quando, sposando senza adeguata distinzione l'ideologia della scienza nel suo complesso generico, siamo condotti ad accettare qualunque «metodo scientifico», in ogni ambito, di fronte a qualunque problema senza avere l'opportunità di verificarne la scientificità e la direzione. 327 L'esempio più clamoroso di tale pratica è, senza dubbio, l'uso che la Rai-TV fece delle esplorazioni lunari. Pagina 124 di 185 Insomma, in una società capitalistica la scissione tra lavoro e scienza tende a pesare non solo come divisione di lavoro e di potere, ma anche come significato perpetuativo degli attuali rapporti di forza tra capitale e lavoratori. Lo stesso valore dell'«universalità della scienza» o quello dell'«avventura scientifica», gli stessi vantaggi dell'uso quotidiano dei frutti della tecnica o dei metodi scientifici per la conoscenza della natura e dell'uomo, non sono cosi universali o così immediatamente vantaggiosi come potrebbero apparire e come ci sono proposti. La stessa autonomia dello scienziato non può essere ritenuta un bene assoluto, ma tende a divenire uno strumento ideologico di dominio. L'«entrare al servizio del capitale» della scienza comporta, in conclusione, la consapevolezza di tale realtà, e l'organizzazione dei lavoratori per contrastare i processi educativi impliciti in tale appropriazione della scienza (delle sue direzioni e dei suoi frutti), nella proletarizzazione degli scienziati, nel tendenziale asservimento — anche attraverso la scienza delle «masse» (termine quest'ultimo che, in tal senso, acquista il suo preciso disvalore). I problemi da considerare per un esame dell'andragogia della scienza e della tecnica nascono, peraltro, dallo sviluppo delle forze produttive. Come è stato notato328, nel Capitale Marx «concentrò la sua analisi, nell'insieme, sul processo generale di cambiamento nel complesso della forza lavoro, anziché sui suoi aspetti particolari. La sua ricerca riguardava il capitale nel suo insieme e il lavoro nel suo insieme: una situazione in cui quest'ultimo veniva ridotto a mera forza-lavoro media (cioè forza-lavoro impiegata nel semplice lavoro manuale); ciò lo mise in grado di svelare l'essenza del processo capitalistico di acquisizione del profitto». Questa semplificazione analitica di Marx «venne utilizzata da taluni suoi critici per distorcere la sua concezione della classe operaia, che cercarono di descrivere come composta soltanto di lavoratori manuali». Se tale distorsione poteva trovare giustificazione nelle condizioni della «cooperazione capitalistica semplice e della manifattura, allora prevalenti»329, «giacché il lavoro mentalmente creativo era a quel tempo privilegio dell'imprenditore, e l'educazione era monopolio dei padroni», «nella situazione odierna, la produzione a mezzo di macchine richiede una attività mentale che non può essere fornita dai proprietari del capitale da soli. Pertanto la maggior parte della classe operaia acquisisce una formazione complessa ed è impegnata in un 'attività mentale». Ed è un fatto che oggi «la rivoluzione scientifica e tecnica, insieme con le trasformazioni economiche strutturali che ne derivano, hanno prodotto importanti mutamenti qualitativi sia nella composizione che nel livello della formazione e delle qualifiche della classe operaia». Tale sviluppo ha indotto a parlare di una «nuova classe» o di imborghesimento della classe operaia o di parte di essa; ma in realtà la complessità costitutiva della classe operaia nella società contemporanea non può essere ritenuta prova della sua «dissoluzione» in altri strati sociali, bensì piuttosto della sua continua crescita, del suo sviluppo». 328 Cfr. T. Timofeev, Marx e lo sviluppo della classe operaia, in Marx vivo. La presenza di Marx nel pensiero contemporaneo, vol. II ; Sociologia ed economia, Milano, Mondadori, 1969, pp. 181-182 329 « Nel Capitale Marx ha sottolineato come segue i tre stati principali nello sviluppo della produzione fondata sulla utilizzazione su larga scala del le macchine: 1. "Cooperazione semplice di macchine universali", ovvero "cooperazione di molte macchine omogenee". Era questa fondamentalmente la forma di produzione di fabbrica esistente nella seconda metà del secolo scorso; 2. Frazionamento del processo manifatturiero in stadi consecutivi, accompagnato dalla specializzazione delle macchine: "il sistema di macchine... caratteristico della manifattura", "la cooperazione fondata sulla divisione del lavoro", e "la combinazione di macchine singole"; 3. La forma più perfezionata del sistema di macchine: "il sistema di macchine automatiche". Mentre il secondo stadio — produzione di massa, linee di montaggio — ha predominato in molte industrie nel periodo tra le due guerre mondiali, il terzo stadio — linee automatiche di produzione — ha cominciato solo molto recentemente a svilupparsi con rapidità» (T. Timofeev, Marx e lo sviluppo della classe operaia, in Marx vivo. La presenza di Marx nel pensiero contemporaneo, vol. II ; Sociologia ed economia, Milano, Mondadori, 1969, p. 180). Pagina 125 di 185 Per altro verso, questo sviluppo «rende urgenti e importanti le ricerche sui problemi della coscienza di classe, della solidarietà, dell'azione comune da parte dei vari gruppi e delle varie organizzazioni della classe operaia». Se il «crescente livello della coscienza di classe di sempre più vasti settori della classe operaia... porta a comprendere i problemi più complessi di carattere nazionale e internazionale, sociali, economici, politici, e di altro genere», se tra le «tendenze più importanti dello sviluppo di questa classe operaia collettiva si ritrovano una accresciuta attività e capacità di agire...»330, è evidente che il movimento operaio è portato ad innovare profondamente il proprio rapporto con la scienza e con la tecnica. E, per quanto ci riguarda in modo specifico, a riconsiderare in termini dinamici e trasformativi i problemi di un'andragogia della scienza. Tra una tendenza operante di asservimento della scienza da parte delle strutture economiche dominanti e un oggettivo sviluppo delle forze produttive, un'andragogia della scienza dovrebbe proporsi di individuare nuove finalità e nuovi metodi per liberare il lavoro e i lavoratori dalla soggezione tecnoscientifica che tende a perpetuare gli attuali rapporti di forze sia attraverso le condizioni di lavoro, sia attraverso le valenze educative di queste stesse condizioni, sia attraverso quei fattori occultanti culturali che sul piano sovrastrutturale completano il tentativo di globale impossessamento dell'interesse e della socialità. 3.6.2 Considerazioni sul rapporto di divulgazione Per individuare nuove linee di lavoro, è utile riconsiderare il senso delle tradizionali relazioni tra «operaio complessivo» e scienze, e, innanzi tutto, il rapporto di divulgazione, un'eredità che risale agli albori della società industriale, ma che continua ad incidere, nella sua ambivalenza e nella sua ambiguità, sulle possibilità di sviluppo e di modificazione. Lo scopo di questo rapporto, nelle varie forme di gestione assunte storicamente e, nel caso che citiamo, quello delle Università Popolari, veniva riassunto come «tendente a divulgare liberamente nel pubblico, con vari mezzi e con diversa efficacia e fortuna, i tesori della cultura scientifica e letteraria rendendone partecipi specialmente quei ceti che, per le loro condizioni sociali e professionali, si trovano nella impossibilità di avere, sia dalla scuola ufficiale, sia da un tenor di vita spiritualmente elevato, un corredo di conoscenze alquanto superiore al livello minimo della istruzione primaria». Uno scopo che certo appariva «supremamente provvido, umano e civile» che, tuttavia, si realizzava con «diversa efficacia e fortuna» perché «I frequentatori dei corsi furono—e sono tuttora — nella loro grande maggioranza gente delle classi medie... Gli operai o scarseggiano o mancano... per l'influenza atavica d'una vita depressa, tutta fatta di materialità, che produce quasi un'atrofia intellettuale, da cui è assai malagevole sollevarsi e guarire»331. Si tratta di un'eredità — affermavamo — che pesa con i suoi scopi, i suoi metodi, il suo approccio sulle possibilità di innovazione nel rapporto con la scienza; basti pensare che, tra tante percezioni di aggiornate necessità, nello stesso Rapporto sulle strategie dell'educazione si 330 Basti riflettere al movimento degli scioperi a livello internazionale: 1919-1939 1946-1966 Scioperi Scioperanti Scioperi Scioperanti (migliaia) (milioni) (migliaia) (milioni) Tutti i paesi capitalistici 177,4 80,0 297,9 387,6 Nazioni sviluppate 165,6 74,5 259,1 309,8 T. Timofeev, Marx e lo sviluppo della classe operaia, in Marx vivo. La presenza di Marx nel pensiero contemporaneo, vol. II ; Sociologia ed economia, Milano, Mondadori, 1969, p. 185 331 Cfr. Dizionario illustrato di Pedagogia, diretto dai professori A. Martinazzoli e L. Credaro, collaboratori i più distinti cultori delle discipline pedagogiche in Italia, Milano, Vallardi, s.d., vol. Ili: N-Z, p. 610. Pagina 126 di 185 leggono ancora oggi affermazioni che non si distaccano molto da quelle del Dizionario illustrato di pedagogia. A proposito, infatti, della motivazione, «chiave di ogni politica moderna» nel settore educativo, mentre si nota che essa «si ispira, cumulativamente o alternativamente, alla ricerca dell'impiego e alla sete di apprendere, la libido sciendi», si afferma con scandalo: «è stupefacente constatare che il primo aspetto (ricerca dell'impiego) è generalmente privilegiato in rapporto al secondo il cui peso è spesso ritenuto addirittura trascurabile». E si conclude con affermazioni autoconsolatorie e paternalistiche: «E tuttavia rimane vero che la curiosità, il desiderio di comprendere, di conoscere o di scoprire si legano agli impulsi più profondi dell'anima. Ed è vero anche che gli accorgimenti elaborati dalla scienza permettono oggi agli spiriti meno dotati di assimilare concetti la cui scoperta ha richiesto le più grandi doti di genio»332. A noi sembra che anche all'osservatore meno provveduto, cioè privo di consapevolezza delle conseguenze letali del classismo anche sul rapporto con le scienze, apparirà chiaro come sia impossibile trovare varchi per il nuovo quando i presupposti che si scelgono per affrontare le difficoltà chiudono ogni possibilità di sbocco. E certamente arduo, infatti, risolvere positivamente il problema dell'impossessamento della scienza attraverso la divulgazione scientifica, soprattutto quando al «vulgo» si attribuisce un'«atrofia intellettuale», ovvero — il che si eguaglia — quando si ritiene che gli accorgimenti elaborati dalla scienza permettono un'assimilazione anche per gli «spiriti meno dotati». Di fronte a questi presupposti e a queste soluzioni — di ieri e di oggi — si conferma la certezza che, in realtà, il mondo dell'educazione non si sia mai posto e non intenda porsi il compito di restituire all'uomo spossessato, alla classe operaia, quella gestione della scienza e della tecnica, che oggi non le appartiene. Ma qual è la base di questi «accorgimenti», se non la divulgazione, cioè il partire dalla fissa datità della scienza, per giungere alla variabile popolare, ovvero il discendere dal «genio» agli «spiriti meno dotati»? In questo campo, anche le migliori intenzioni destano sospetti. Quelle di J. Dumazedier333, ad esempio, quando, sottolineando la necessità di riservare una parte importante dell'educazione degli adulti alla formazione scientifica, avanzava subito un altro dei presupposti correnti («la scienza è ardua») per spiegare il ridimensionamento o, meglio, la deviazione dai più seri impegni educativi. «Ma la scienza è ardua — egli scriveva — I suoi calcoli ci interessano tutti e tuttavia ben pochi possono comprenderli, sia pure superficialmente. Che fare?». La risposta, partendo da un presupposto tanto bloccato, non può essere altra che la divulgazione, o l'iniziazione alle scienze — com'egli la definisce —, e certo più giustamente perché, qui, la scienza sembra diventare magia, religione per iniziati. Molto significative sono, di conseguenza, quattro tipi di esperienze che egli cita. Innanzi tutto, «l'iniziazione alle scienze comincia con l'iniziazione alle tecniche che ne derivano: il successo in Germania, in Francia, poi dappertutto, dei clubs di aereo-modellismo ne è un esempio. La stessa osservazione si può fare per i clubs dei radioamatori: questi clubs non si limitano all'attività pratica. L'interesse suscitato dal lavoro tecnico solleva questioni teoriche che conducono alla scienza. Così — conclude — si tracciano le vie reali (!) dell'iniziazione scientifica, vie assai diverse (!) dall'ordine logico dei manuali specializzati». La seconda è altrettanto patetica: «Paradossalmente la scienza che presenta dei calcoli aridi apre ai suoi adoratori un mondo meraviglioso. 332 333 E. Faure e altri, op. cit., p. 33 J. Dumazedier, Contenuto dell'educazione degli adulti, in Unesco, L'educazione degli adulti. Tendenze e realizzazioni, Firenze, Marzocco, 1955, pp. 65-67 Pagina 127 di 185 Nell'educazione degli adulti il meraviglioso della scienza viene spesso sfruttato. Ci sono dei geografi che sanno far rivivere in modo esatto, e insieme drammatico, i movimenti della terra, ci sono degli speleologi che sono riusciti ad appassionare gruppi di giovani alle esplorazioni delle grotte preistoriche... Una iniziazione scientifica quasi poetica è forse la più popolare». La terza: «La conoscenza dei risultati della scienza è sempre più collegata alla conoscenza degli sforzi che vi hanno condotto, l'opera scientifica è sempre più collegata col suo creatore. Le evocazioni delle biografie di Pasteur, di Edison o di Pavlov contribuiscono a far amare la scienza». La quarta esperienza suggerita: «Un'altra forma non meno preziosa per destare l'interesse del pubblico per la scienza è di fargli apparire le conseguenze sociali di quest'ultima: pensate al successo di opere di anticipazione scientifica (Jules Verne, H.G. Wells, ecc.) o le conferenze di iniziazione sull'estrazione del petrolio o la bomba atomica. L'essenziale della formazione scientifica — si chiede infine retoricamente — non è forse il suscitare fiducia nel progresso (nonostante il suo sfruttamento nefasto da parte di regimi inumani)? Lo studio di questo progresso tende a dare abitudini di pensiero libero, ostile alle superstizioni ed ai pregiudizi di razza, di civiltà o di religione. La formazione scientifica coincide allora con la più alta formazione umana». In questi accorgimenti, al di là della buona fede, ci sembra si ritrovino condensati: l'infantilizzazione dell'adulto, la poesia della scienza, la sacralizzazione degli scienziati e, infine, esplicitato il fine del «suscitare fiducia nel progresso», ponendo tra parentesi, per inciso, lo «sfruttamento nefasto» da parte di indefiniti «regimi inumani». Un altro assunto giustificativo, parallelo a quello contenuto nell'affermazione «la scienza è ardua», è espresso nella formula dell'attuale «impossibilità di conoscere tutto». La divulgazione scientifica, in quanto tale, scaturirebbe dalla constatazione, ad esempio, di Moles nel quadro della sua «cultura-mosaico»: «L'uomo del nostro tempo deve ammettere prima di tutto che non può conoscere tutto, in seguito che non esiste un cammino privilegiato dell'universo delle conoscenze scientifiche, né una chiave, né segreti, che permettano di integrare la comprensione di una qualsiasi cosa in qualche formula magica. Di conseguenza, deve (!) accettare esplicitamente di ricorrere allo specialista in qualsiasi settore, anche se, mediante la volgarizzazione, ha già capito ciò che lo specialista sta per fare. Nel campo di una cultura-mosaico, l'individuo isolato si sente perduto ed anche se in prospettiva riesce a raggiungere alcune alte vette di questa cultura, deve ammettere tuttavia la sua incapacità di collegarle in una rete armonica di vie di comunicazione, come pretendeva la vecchia cultura umanista. Detto ciò, non gli viene proibito — ed è proprio quanto gli propone l'educazione adulta — di approfondire un piccolo settore speciale, che lo interessi o lo attiri». E, per concludere, Moles cita un altro accorgimento: «Il crescente intervento dell'istruzione programmata, che scompone metodicamente, illustrando la tesi strutturalista, ogni conoscenza in "items" di analoga difficoltà di apprendimento, apre una nuova prospettiva a questa educazione permanente»334. Indubbiamente, partendo dalle premesse di una ammissione di impotenza a conoscere, di accettazione esplicita dello specialista, di incapacità a connettere i frammenti delle 334 A. Moles, op. cit., p. 268. Per Moles, la cultura-mosaico sarebbe quella che attualmente si presenta « essenzialmente aleatoria, come un insieme di frammenti giustapposti senza costruzione, senza punto di riferimento, in cui nessuna idea è necessariamente generale, ma molte idee sono importanti (idee forza, parole chiave, ecc.)». Essa discenderebbe da un «sistema fibroso, & feltro: i frammenti della nostra conoscenza sono minuzzoli senza ordine, legati a caso da semplici relazioni di prossimità, di epoca di acquisizione, di assonanza, di associazione d'idee, senza una struttura definita, dunque, ma con una coesione che può... assicurare una certa densità dello schermo delle nostre conoscenze, una sua compattezza pari a quella dello schermo-tessuto propostoci dall'educazione umanistica» (ivi, pp. 42-43). Pagina 128 di 185 conoscenze, si giunge ad accettare una realtà strutturale in cui la scissione tra scienza e lavoro si occulta in termini educativi dietro la divulgazione scientifica. Peraltro, Moles pone in luce la sostanza commerciale dell'operazione, e, cioè, l'impossessa-mento dell'interesse scientifico e della socialità. Egli, infatti, parla di un «sistema di comunicazione interamente nuovo, nato formalmente al massimo trenta anni fa (!) e che è ancora in cerca delle sue norme e della sua regolamentazione: si tratta della divulgazione scientifica che assomiglia sempre più ad un immenso sistema di educazione adulta, che ribadisce l'educazione tradizionale, ma la continua fino all'età, sempre più avanzata, in cui l'uomo rinuncia a conoscere e a capire il mondo in cui vive»335. Ricade peraltro nel generico, quando afferma che queste pubblicazioni «fanno intervenire nel quadro culturale la nozione fondamentale di interesse o di passione, e agiscono come diffusori della cultura...»336, pur avendo posto in rilievo, poco avanti, che la «maggior parte delle riviste e delle collane di divulgazione sono state create per attirare lettori e di conseguenza per guadagnare denaro»337. Ci sembra di poter notare che se alla «cultura-mosaico» venisse attribuito il significato che essa contiene, ed esprime, proprio attraverso quella struttura che la costituisce («frammenti giustapposti senza costruzione»338), anche la divulgazione scientifica rivelerebbe, senza veli, il proprio senso occultativo. La «cultura-mosaico», infatti, rappresenta il sistema educativo nell'età adulta di quell'uomo unidimensionale che è il risultato, tra l'altro, della scissione tra scienza e lavoro; una frammentazione della cultura e una scissione che certo non sono e non possono essere ricomposte attraverso l'incremento della divulgazione scientifica. Gli equivoci che possono trasparire dalla considerazione distaccata del sociologo si ritrovano, d'altra parte, nel comportamento degli educatori. Come notava F.J. Rutherford: «Quando si tratta dell'insegnamento delle scienze la nostra posizione, come insegnanti di scienze, educatori scientifici, o scienziati, è chiara: siamo decisamente contrari al meccanico apprendimento mnemonico dei fatti e delle minuzie delle scienze. Incoraggiamo invece il metodo scientifico, il pensiero critico, l'atteggiamento scientifico, il metodo nel risolvere problemi, il metodo di scoperta e, di interesse particolare, il metodo di ricerca. In breve, sembra che siamo d'accordo sulla necessità d'insegnare la scienza come processo o come metodo, piuttosto che come contenuto. Se si giudicasse, però, da quello che si vede in molte, anche se non nella maggior parte, delle classi, e dai tipi di esami svolti, potremmo concludere con ragione che c'è una grande divergenza fra la pratica e le nostre convinzioni». Tra i fattori che sono alla base di questa contraddizione, Rutherford indica «la tendenza degli insegnanti di scienze ad essere conservatori», l'incapacità da parte di chi vuoi cambiare a fornire indicazioni efficaci, ma soprattutto il fatto che «la connessione organica tra processo e contenuto, nelle scienze, non è mai stata riconosciuta e presa in considerazione». Egli conclude affermando come «la ricerca scientifica sia parte integrante della scienza stessa. Il risultato della separazione concettuale del contenuto scientifico dalla ricerca scientifica è che lo studente non può capire bene né l'uno né l'altro. Da questo si arriva a una conclusione inevitabile riguardo alla possibilità dell'insegnamento della scienza come ricerca: gli insegnanti di scienze devono avere una conoscenza della ricerca come è di fatto realizzata nelle scienze. 335 Ivi, p. 264 Ivi. 337 Ivi. 338 Ivi, p. 43 336 Pagina 129 di 185 Finché gli insegnanti di scienze non avranno acquisito una buona conoscenza della storia e della filosofia della scienza che insegnano, non potranno avere questa conoscenza, in tal caso non potremo aspettarci molti progressi nell'insegnamento della scienza come ricerca»339. Senza entrare nel merito dei problemi relativi all'insegnamento scientifico scolastico di cui si occupa il Rutherford, potremmo ritenerci soddisfatti di queste impostazioni nel campo dell'educazione degli adulti? Possiamo ritenere che esse siano sufficienti a superare la mistificazione o l'inadeguatezza della divulgazione scientifica considerata quale rimedio alla difficoltà oggettiva della scienza (Dumazedier) o alla nostra soggettiva e storica inadeguatezza (Moles)? Pur ritenendo che Rutherford ponga giustamente in luce la carente considerazione del rapporto tra processo e contenuto, ci sembra che le sue osservazioni vadano sviluppate fino in fondo. Nel campo dell'educazione adulta, l'affermata e condivisibile necessità di considerare «la connessione organica tra processo e contenuto nelle scienze» deve essere riferita alla connessione organica tra processo e contenuto nell'andragogia della scienza. Da chi, da dove, come — infatti — inizia il processo d'insegnamento delle scienze; da chi, da dove, come la ricerca scientifica entra a far parte integrante dell'insegnamento delle scienze; quali rapporti esistono tra tale insegnamento e il lavoro; quali sono gli sbocchi di tali rapporti rispetto alla scissione tra scienza e lavoro; a chi giova l'intervento educativo? Se trascurassimo il rapporto tra scienza e organizzazione del lavoro; se limitassimo il nostro esame all'interno della scienza (ai suoi processi, alla sua ricerca, ai suoi contenuti e ai nessi tra l'uno e l'altro aspetto), rischieremmo di trascurare i reali problemi di una andragogia della scienza e della tecnica. Cosa avremmo risolto, in altre parole, pur se gli operatori culturali avessero «una conoscenza della ricerca come è di fatto realizzata nelle scienze», e anche se avessero acquisito «una buona conoscenza della storia e della filosofia della scienza che insegnano»? Tale bagaglio di conoscenze non sarebbe sufficiente, di per sé, ad innovare rispetto all'attuale rapporto tra divulgazione scientifica ed educazione degli adulti; esso, nel caso, perfezionerebbe un tipo di rapporto tradizionale, proprio come impostato nelle antiche, e limitate, Università Popolari; esso non apporterebbe alcun contributo di trasformazione, né di soluzione all'attuale scissione tra scienza e lavoro. E proprio riscontrando la valenza di tali acquisizioni negli attuali, aggiornati modi di svolgere divulgazione scientifica abbiamo la possibilità di soppesarne il significato; non si potrebbe certo negare, infatti, che i redattori scientifici delle pubblicazioni, delle riviste, delle rubriche televisive siano in possesso di quelle conoscenze. Ma quale uso possono farne? All'interno di una logica divulgativa tradizionale, quanto raffinata nei suoi aggiornamenti, essi possono, inevitabilmente, soltanto mistificare il problema; essi, infatti, sono obbligati a soddisfare illuministicamente un interesse informativo superficiale (o meramente professionale), mentre l'uso materiale della scienza e della tecnica è già in possesso delle forze economiche che asserviscono al loro interesse di classe la scienza, la tecnica e — quindi — la stessa divulgazione scientifica. Ben altri, dunque, sono i compiti dell'educazione degli adulti di fronte ai problèmi della scienza e della tecnica; essi non si risolvono nella pura e semplice divulgazione del risultato scientifico, e neppure del processo che ha condotto a quel risultato, quando risultato e processo siano presi a se stanti, come eventi sia pur meravigliosi ed esaltanti della conoscenza umana. Risultati e processi debbono — innanzi tutto — essere considerati non in modo autogeno, ma nella società che li genera; come già affermava Dewey: «Quale possa essere la 339 F. J. Rutherford, The Role of Inquiry in Science Teaching, in «Journal of Research in Science Teaching» II, 1964, pp. 80-84, tr. in La formazione per l'insegnamento delle scienze, ricerca di E. Gelpi, Roma, QF, 1971, pp. 237-244 Pagina 130 di 185 scienza per lo specialista, essa per i fini educativi è la conoscenza delle condizioni dell'azione umana. Conoscere l'ambiente in cui si svolgono le relazioni sociali, e i mezzi e gli ostacoli per il suo graduale sviluppo è possedere una conoscenza di carattere schiettamente umanistico»340. Ciò vuoi dire, in modo più preciso, dal nostro punto di vista, sia la conoscenza della realtà delle condizioni di lavoro, sia la consapevolezza attiva del rapporto tra conoscenza e trasformazione, tra scienza e uso della scienza stessa. In altre parole, attraverso una conoscenza delle condizioni dell'azione umana (cioè una crescente consapevolezza del nostro agire all'interno degli attuali rapporti di produzione), nostro compito è quello di contribuire allo spossessamento dei privati detentori della scienza e della tecnica. 3.6.3 Abito scientifico e capacità di trasformazione Cosa può significare l'acquisizione di un abito scientifico rispetto al primario compito di un'andragogia della scienza che tenda a costituire una consapevolezza attiva del rapporto tra conoscenza e trasformazione? Si è sottolineato, finora, la particolare e precisa valenza conservativa dell'educazione all'attuale scissione tra lavoro e scienza; sia nei processi educativi di fatto operanti nella produzione (divisione del lavoro, parcellizzazione) e nel consumo (induzione di bisogni, soddisfacimento dei bisogni di sopravvivenza); sia nei processi educativi intenzionali (dalla «divulgazione scientifica», come pratica tradizionale dell'educazione adulta, all'«ideologia della scienza» utilizzata quale strumento di legittimazione341 degli attuali rapporti e della stasi). Abbiamo, sia pur sinteticamente, esaminato l'arco dei principali proponimenti e atti tendenti a condizionare l'adulto anche attraverso la scienza e la tecnica, o, meglio, attraverso una determinata pratica di queste attività umane. Ed anche questa è una tecnica che si serve dei risultati della scienza per perpetuarne la scissione dal lavoro. Rispetto a questa circola-rità — non indifferente né olimpica — di rapporti tra scienze ed applicazioni tecniche, tra scienziati e non scienziati, tra ricerca, produzione e consumo della scienza, l'educazione degli adulti che voglia criticamente porsi rispetto a se stessa e alla società in cui opera non può restare né indifferente, né olimpica. Essa deve contribuire a interrompere i circuiti di riproduzione degli attuali rapporti. Vorremmo riflettere, in proposito, a due aspetti, strettamente interrelati, di consolidata pratica riproduttiva. Uno si riferisce alla considerazione del nostro rapporto con la scienza pura, come si dice. L'altro ai modi d'intendere, e di far intendere, i significati dell'abito scientifico, ovvero delle attitudini scientifiche. Circa il primo, si verifica non di rado il caso che, per un verso, la scienza venga situata al di là del piano fisico, materiale; e, per converso, che l'uomo venga posto al di qua della sua stessa umanità. Per un verso, dunque, la scienza viene intesa come assoluta conoscenza e, poiché a questa si attribuisce immediatamente una capacità di trasformazione, si tende a ritenere, e a far ritenere, sia che la scienza è di fatto autonoma per principio, sia che la scienza è di fatto trasformativa; inoltre, tale proprietà innata e aprioristica viene esaltata attraverso l'attribuzione alla scienza pura di qualità mistiche, di un distacco dalla realtà, dalla praticità, e non a caso spesso si sente ripetere che la matematica altro non sarebbe che contemplazione; da qui l'induzione di processi di accettazione e di remissività rispetto alla condizione attuale della scienza, proprio perché il suo mondo non sarebbe questo, ma un altro, un mondo a parte; proprio perché la giustificazione dell'attuale scienza non sarebbe qui, ma fuori di qui. 340 341 J. Dewey, Democrazia e educazione, Firenze, La Nuova Italia,1961 Cfr. J. Habermas, La tecnica e la scienza come ideologie, in Marx vivo cit., vol. I, pp. 145-178 Pagina 131 di 185 .Per l'altro verso, si diceva, l'uomo, in quanto tale e in astratto, viene destituito della sua umanità e considerato in regressione involutiva, oppresso da bisogni primari disprezzabili; ovvero carico di scorie rispetto alla scienza pura; ovvero influente non limpidamente sulla cristallinità della ricerca scientifica, con il peso lordo del suo «fattore umano». Sorprende che in equivoci del genere siano potuti cadere anche politici che si sono posti i problemi strategici dell'educazione in chiave di apprendre a étre; come abbiamo constatato, E. Paure si stupisce nel constatare che la ricerca dell'impiego sia generalmente privilegiata in rapporto alla libido sciendi, il cui peso è, spesso, ritenuto addirittura trascurabile. Non a caso, è un luogo comune abbastanza diffuso attribuire al camice bianco un significato che va al di là della mera funzione igienica; esso diviene il simbolo di un disancorarsi dell'uomo dal fondo delle emozioni, quasi l'ammantarsi di vestimenti rituali di purificazione; nulla di improprio, se da questa rappresentazione di comodo non si facessero discendere processi di accettazione nei confronti dei delegati alla scienza intesa come religione orfica e — per converso — processi di accettazione della condizione di oggetti o di passivi spettatori per gli altri mortali in tuta. Peraltro, rispetto alla soluzione positiva dei «fenomenisti odierni (ordinariamente raccolti sotto la qualifica alquanto generica di "neopositivisti")» i quali — come scrive L. Geymonat — sosterrebbero «che la ricerca scientifica si esaurirebbe per intero nell'ambito dell'attività soggettiva, cioè si ridurrebbe a una mera elaborazione logico-linguistica dei dati che il soggetto percepisce (senza il benché minimo riferimento ad alcunché di altro da lui)»342, dobbiamo sì riconoscere rilievo a una «interpretazione che viene senza dubbio ad evidenziare l'importanza del fattore umano nella ricerca scientifica, in quanto sottolinea la funzione essenziale spettante — in questa ricerca — sia alla esatta formulazione delle regole logiche che collochiamo alla base del linguaggio da essa usato, e di quelle con cui fissiamo i rapporti tra alcuni termini teorici e certi ben determinati dati osservativi, sia alle procedure che adoperiamo per verificare una teoria e alla determinazione dei limiti di validità di tale verificazione, ecc.», ma non al di là del riconoscimento dell'«importanza di questo fattore umano»343. Ci sembra, infatti, che la necessità di rifiutare «i tentativi di assolutizzare la conoscenza scientifica» debba andare di pari passo con quella di cautelarsi dal soggettivismo, perché «come è ben noto, il prendere atto della non assolutezza delle nostre conoscenze ha quasi sempre aperto la via al relativismo filosofico e quindi, in ultima istanza, all'agnosticismo»344. Infatti, se ben comprendiamo, enfatizzando il «fattore umano» si può rischiare di respingere indietro — sia pur con scientifica affermazione positiva — la constatazione che «lo sviluppo della scienza riesce in taluni casi a realizzare un effettivo accrescimento del nostro patrimonio conoscitivo, ossia non è qualcosa di caotico, ma un vero e proprio sviluppo dialettico (uno sviluppo fornito di una sua intrinseca razionalità)»345. In realtà, per noi, non è comprimendo né enfatizzando l'uomo — quando inteso come «fattore umano» rispetto alla scienza — che si affrontano e risolvono i problemi relativi al rapporto tra educazione adulta e scienza. Sia perché, dal nostro punto di vista, non possiamo in teoria considerare l'uomo come variabile della scienza, sia perché nella pratica educativa dobbiamo partire da un uomo storico nella globalità della sua dinamica sociale, non da un uomo visto come variabile dipendente da una scienza «autonoma» capace di procedere per proprio conto. Anche in educazione degli adulti dobbiamo tendere alla «sdogmatizzazione del concetto di conoscenza, e quindi all'abbandono dell'interpretazione metafisica di esso», assumendo anche noi, operatori culturali, «la piena consapevolezza» dell'importanza della nozione di «conoscenza per approssimazioni successive», consapevolezza che, afferma Geymonat, «è 342 L. Geymonat, Neopositivismo e materialismo dialettico, in «Critica marxista», Quaderno 6; Sul marxismo e le scienze, supplemento al n. 4, 1972 343 Ivi, p. 29. 344 Ivi, p. 34 345 Ivi. Pagina 132 di 185 forse (almeno cosi ci sembra) l'apporto più significativo di Lenin nel campo della problematica gnoseologica». Essa derivava a Lenin «dalla ferma convinzione che la nozione di "conoscenza per approssimazioni successive" ci offre l'unica via per ammettere, da un lato, l'alta funzione spettante al momento teoretico della ricerca scientifica (senza ridurlo a momento ancillare rispetto al momento pratico), dall'altro per riconoscere alla prassi il fondamentale compito di convalidare, correggere, stimolare il pensiero astratto»346. Un altro aspetto di tecnica riproduttiva sul quale vorremmo soffermarci è relativo ai modi di considerare l'abito scientifico, come se anch'esso, in consonanza con una pratica di autonomia della scienza, potesse staccarsi dalla condizione materiale dell'adulto. Rispetto alla complessità e alla raffinatezza delle attuali problematiche epistemologiche, ma soprattutto rispetto alle attuali condizioni di scissione tra scienza e lavoro — sempre più complesse nella realtà e nella rappresentazione sociale —, soltanto con estrema debolezza l'educazione degli adulti potrebbe attestarsi sulla trincea dell'opposizione e della lotta alla magia con la costituzione dell'abito scientifico o degli atteggiamenti scientifici. Ci sembra che anche nel nostro campo bisogna cominciare a guardarsi da una sorta di superstizione nei confronti della scienza nel suo complesso articolarsi di finalità, strutture, metodi. Filosofi, sociologi, economisti, ecologi conservatori tendono a sottolineare l'infrenabilità dei processi scientifici e tecnici perché la scienza e la tecnica costituirebbero un mondo di per sé, non strumenti in possesso delle strutture economiche che le usano; un cosmo che agirebbe con la propria forza e dinamica, senza la possibilità di un controllo347. Strettamente correlata a tale forma di superstizione scientista, è l'impostazione secondo cui il progresso scientifico e tecnologico avrebbe una propria autonoma logica, indipendente dai rapporti di produzione e dalle organizzazioni politiche. Ma, certo, la forma più drammatica di una classista irrazionalità (estremamente funzionale alla ratio conservativa) è la proposta del blocco dei processi di sviluppo (zero growth)348, come se tutti i popoli possedessero in eccesso i mezzi di sussistenza e di sviluppo, e il problema non fosse quello di una diversa realtà dei rapporti di produzione e di consumo, e — cioè — di un diverso uso della scienza e della tecnica. Ci sembra, quindi, che oggi non possiamo più accontentarci di perseguire nel lavoro educativo per l'età adulta il fine relativo all'acquisizione di un abito scientifico, di atteggiamenti scientifici. Anche possedendo atteggiamenti quali «la curiosità intesa come stimolo alla ricerca»; «la razionalità cioè la capacità di far discendere eventi naturali da cause naturali; la disponibilità a sospendere il giudizio cioè a riconoscere la natura sperimentale delle ipotesi e il carattere provvisorio della nostra conoscenza; l'apertura mentale cioè la capacità di apprendere che la nostra idea di ciò che è vero può cambiare; la mentalità critica cioè la capacità di cercare prove e argomenti che dimostrino le asserzioni di altre persone; l'oggettività nel raccogliere e interpretare i dati; l'onestà nel comunicare i risultati; l'umiltà cioè la capacità di riconoscere i limiti personali e quelli della scienza»349, tali atteggiamenti stessi saranno dimezzati senza un rapporto, a sua volta, scientifico con la natura e con la società. Per essere scientifici, tali atteggiamenti, tale abito, dovranno avere per oggetto non la natura in sé ma il rapporto uomo-società. 346 Ivi, p. 38 Cfr. H. Marcuse, The Problem of Social Change in the Technological Society, in Le développement social, Paris, Mouton, 1965 348 Cfr. la bibliografia ragionata L'idea dello sviluppo nella letteratura degli ultimi 20 anni, Roma, Censis, 1966. 349 Sono gli atteggiamenti descritti nel testo di D. Krathwohl e altri, Taxonomy of Educational Objectives, II: Affective Domain, New York, Mc-Kay, 1964, p. 36; cit. in E. Gelpi, op. cit., pp. 56-58 347 Pagina 133 di 185 Il taglio più carente, in termini innovativi, della divulgazione scientifica per gli adulti è proprio il prendere a oggetto, a valle, i risultati; o, a monte, i temi di filosofia della scienza, o, nell'iter conoscitivo, i metodi e gli strumenti. Risultato appariscente di questa pratica sembra essere l'induzione di un atteggiamento complessivo di rapporto stretto, si direbbe miope, tra uomo e scienza, dove tutti i problemi appaiono accentrati sulla conoscenza, come libido sciendi, e dove i problemi della trasformazione sono decentrati ad altri ambiti (il politico, il sindacale), accreditando — ancora una volta — la scissione tra cultura e politica. Un altro risultato, non sempre evidente, ci sembra sia quello di atomizzare il rapporto uomo-scienza, suggerendone una visione soggettivistica, di capacità o di incapacità individuali a stabilire un rapporto di comprensione e di controllo; la scienza diviene allora una questione di genialità o di quoziente intellettuale ai minimi livelli. Una realtà di differenze socialmente controllabile diviene un'essenza incontrollabile, metafisica; come se, in termini scientifici, il significato della presenza dello scienziato e del nonscienziato non fosse da verificare e valutare in una determinata società e in un processo storico che ha prodotto le attuali deformazioni. Ci sembra evidente che per l'educazione degli adulti è tempo di rifiutare gli assoluti dell'abito scientifico, del metodo scientifico e di cominciare a chiedersi, nel lavoro quotidiano, quale abito e quale metodo «scientifici». È necessario porre in relazione storica e strutturale la scienza e la società, promuovere processi di consapevolezza sulla scissione tra lavoro e scienza, tra strutture economiche e scienza, tra classe operaia e scienziato, tra conoscenza e trasformazione. 3.6.4 Lavoro, scienza ed educazione degli adulti Il problema relativo alla funzione dell'educazione degli adulti rispetto al rapporto lavoroscienza si imposta come contributo dell'andragogia e del lavoro culturale al movimento di appropriazione critica della scienza da parte della classe operaia. Questo movimento non ha certo origine dalla divulgazione, ma dalle valenze educative delle lotte operaie. Sono state queste, in particolare dalla fine degli anni '60, che «hanno contribuito a mettere in crisi — attraverso rivendicazioni e conquiste di tipo nuovo — i vecchi schemi di organizzazione del lavoro, e così facendo hanno incrinato il mito dell'"oggettività" della scienza, la concezione di una scienza e di una tecnologia che si volevano definitivamente incorporate nel capitale. È emersa così la fondamentale ambiguità dell'uso della scienza nella produzione capitalistica, e si sono affacciate possibilità del tutto nuove, per la classe operaia, di intervenire in modo autonomo per condizionare e trasformare l'intiero processo. Ma l'aver dato uno scossone al "dominio esclusivo" della scienza, al suo presentarsi — nella organizzazione capitalistica — come una "forza estranea e ostile" all'uomo (per dirla con Marx), ha contribuito a sua volta a liberare nella classe operaia nuove energie intellettuali e a far nascere un nuovo bisogno di analisi e di cultura»350. Il problema, dunque, si definisce non nel rapporto individuale con la scienza, né con la regressione fantascientifica e reazionaria al grado zero dello sviluppo, ma nel rapporto collettivo della classe operaia con la scienza; nella promozione di «uno sviluppo scientifico complessivo collegato ai processi di sviluppo delle forze produttive e del movimento di emancipazione»351. Rispetto alle valenze educative del movimento in atto, si tratta di elaborare una linea di intervento consapevole che costruisca nella esperienza sociale, e sulla base della esperienza 350 351 A. Minucci, Scienza, produzione e lavoro umano, in «l'Unità», 14 giugno 1973 Cfr. la relazione di G. Berlinguer e A. Minucci al convegno «Scienza e organizzazione del lavoro», Torino, 8-10 giugno 1973 Pagina 134 di 185 sociale, un definito universo andragogico nel quale controllare e sviluppare i processi conoscitivi. Ciò significa, anche per l'educazione degli adulti, elaborare nella lotta, una volontaria occasione di autoformazione inerente ai rapporti di struttura e sovrastruttura, una scuola — vorremmo dire — del movimento operaio che sappia collegare il momento pratico a quello teorico, che sappia stabilire un nuovo circuito tra scienza e tecnica, e chiudere i vecchi circuiti. Uscire dalla naturalità educativa delle forme sempre più affinate di sfruttamento; usare in tutte le loro determinazioni le valenze educative delle lotte: tutto ciò postula l'impianto di intenzionali e finalizzate occasioni, regole e punti di osservazione, di verifica, di definizione. Un impianto scientifico tanto organico all'esperienza sociale da essere fine e mezzo dell'intervento, nonché controllo dell'intervento stesso. Un modo definito di impostare, nella fabbrica e nella società, un rapporto di conoscenza e trasformazione, per iniziativa del movimento operaio cui l'educazione degli adulti, — anche come problema — deve le più progressive ragioni della propria esistenza e della propria funzione. La costruzione di questa linea d'intervento come forma di appropriazione critica della scienza rappresenterebbe una modalità operativa per il superamento delle contraddizioni esistenti nel rapporto tra produzione, conoscenza, formazione e trasformazione. Un procedimento volontario, e non necessitato, che muove dalle condizioni dei rapporti di produzione: per contare sui processi conoscitivi dalle situazioni di partenza, non sugli arrivi; per formarsi nella dialettica tra la presente logica produttiva e correlativa logica di ricerca scientifica e di applicazione tecnologica, e logica di uno «sviluppo scientifico complessivo collegato ai processi di sviluppo delle forze produttive e del movimento di emancipazione»; e, quindi, per indirizzare, sollecitare, organizzare i processi di trasformazione delle attuali strutture economiche. Sembra molto importante, soprattutto per noi operatori culturali, tendenzialmente immersi nella corrente della proletarizzazione, muoversi su una linea che potrebbe fattivamente contribuire alla lotta contro la scissione tra scienza e lavoro, e alla saldatura tra conoscenza e trasformazione. Noi, in particolare, per i limiti intrinseci al tipo di lavoro educativo che svolgiamo e per gli strumenti che utilizziamo, dobbiamo essere molto attenti al dualismo — in cui possiamo muoverci — tra lotta sociale e ricerca, e risolverlo, invece, in una operante saldatura tra i due momenti. Dobbiamo, in altre parole, opporci alle quotidiane eventualità che «possa ripresentarsi un dualismo tra la elaborazione della concezione marxista che è propria della nostra tradizione, che nasce e si riconferma con l'esperienza della lotta politica, ed una elaborazione che viene avanti per altra strada, sulla base della ricerca scientifica, ma senza che vi sia tra i due momenti la necessaria saldatura. Quella saldatura che consente di evitare il pericolo di ritornare a quelle fondazioni speculative del marxismo che tutta la nostra tradizione — da Labriola a Gramsci — giustamente combatte. Il dualismo tra le due culture opererebbe all'interno del marxismo»352, e, potremmo aggiungere, all'interno del movimento operaio, almeno di quel non secondario aspetto che è l'educativo. La ricerca operativa, in uno stretto rapporto di prassi-teoria, è aperta per il superamento dell'attuale scissione tra lavoro e scienza, per l'individuazione del nostro contributo al costituirsi di nuove istituzioni di educazione degli adulti (altro che descolarizzazione!), che scaturirebbero dalla traduzione dei processi educativi esistenti di fatto, a livello naturale, in consapevolezza, interpretazione, formazione opposta, e in organizzazione di tutto questo complesso modo di rispondere scientificamente. 352 L. Gruppi, Unità tra materialismo e dialettica, in «Rinascita» 19, 11 maggio 1973, pp. 21-22. Pagina 135 di 185 Gli scopi educativi che il movimento operaio già persegue sono sintetizzati in una incisiva pagina del Gramsci dell’Ordine nuovo che è molto vantaggioso tener presente: «L'operaio — egli scriveva — può concepire se stesso come produttore, solo se concepisce se stesso come parte inscindibile di tutto il sistema di lavoro che si riassume nell'oggetto fabbricato, solo se vive l'unità del processo industriale che domanda la collaborazione del manovale, del qualificato, dell'impiegato d'amministrazione, dell'ingegnere, del direttore tecnico (potremmo aggiungere: dello scienziato). L'operaio può concepire se stesso come produttore se — dopo essersi inserito psicologicamente nel particolare processo produttivo di una determinata officina (per es. a Torino, di una officina automobilistica) e dopo essersi pensato come un momento necessario e insoppri-mibile dell'attività di un complesso sociale che produce l'automobile — supera questa fase e vede tutta l'attività torinese dell'industria produttrice di automobili, e concepisce Torino come una unità di produzione che è caratterizzata dall'automobile e concepisce una grande parte dell'attività generale del lavoro torinese come esistente e sviluppantesi solo perché esiste e si sviluppa l'industria dell'automobile, e quindi concepisce i lavoratori di queste molteplici attività generali come anch'essi produttori della industria dell'automobile, perché creatori delle condizioni necessarie e sufficienti per l'esistenza di questa industria»353. Rispetto a questi scopi formativi, la scienza esce dalla sua presunta oggettività ed entra in una «unità del processo produttivo», dalla «fabbrica, alla nazione, al mondo»354; la sua autonomia entra nei circuiti del controllo operaio, dalla fabbrica alla società. Quanti operiamo nel campo dell'educazione degli adulti dobbiamo considerare attentamente non solo le negazioni del movimento operaio alla esistente scissione tra lavoro e scienza, ma le proposizioni affermative, nelle quali s'inverano gli scopi educativi del movimento stesso. Tali proposizioni sono presenti negli interventi e nei disegni più ampli e in quelli locali o settoriali, ma non meno rilevanti come segni concreti del cambiamento. Innanzi tutto i «Consigli di zona» che possiamo valutare come superamento della fase d'inserimento «nel particolare processo produttivo di una determinata officina» e concezione pratica dell'unità del processo produttivo. Il significato che il «Consiglio di zona» potrebbe acquistare rispetto al problema della scienza e della tecnica viene così esemplificato: «laddove l'esigenza di affermare un modo nuovo di produrre si incontra e si fonde con quella di produrre le cose genuinamente volute dalle masse popolari e da esse democraticamente scelte, si può realizzare la saldatura di grandi forze sociali in un fronte di lotta che modifica profondamente i rapporti di forza e può vincere il confronto con la linea di sviluppo capitalista»355. I «Consigli di zona» configurano una istituzione nuova che si è sviluppata dalle grandi lotte politiche sindacali del 1968-69, a partire dall'«azione articolata» e dalla «ricerca di nuove forme di organizzazione e di azione» che fecero assumere alla figura del «delegato» «le caratteristiche del risultato di un profondo processo di maturazione sindacale, politica e culturale, che giungerà (a Torino) a rovesciare la situazione all'interno della FIAT e a ridare al sindacato dignità di protagonista reale e determinante»356. Sul piano di un nuovo tipo di ricerca e di lavoro teorico, estremamente interessante, e anche sul piano dell'educazione degli adulti, il convegno su «Scienza e organizzazione del lavoro»357, sia per i suoi contenuti come per i suoi metodi di intervento rispetto ai problemi della riorganizzazione del lavoro alla FIAT, al superamento del taylorismo, ai rapporti con lo sviluppo della scienza e della tecnologia in relazione all'organizzazione del lavoro (trasformazioni 353 Sindacalismo e Consigli, in «L'Ordine Nuovo», 8 novembre 1919. Ivi. 355 G. Guerra, I Consigli di zona nell'evoluzione delle strutture e del l'unità sindacale, in Quaderni di «Rassegna Sindacale», I Consigli di Zona, anno XI, nn. 39-40, novembre 1972-febbraio 1973, p. 49 356 Ivi, pp. 39-40. 357 Cfr. gli Atti in Istituto Gramsci, Scienza e organizzazione del lavoro, Roma, Editori Riuniti, 1973 354 Pagina 136 di 185 tecnologiche, orientamenti delle diverse discipline: sociologia, economia politica, cibernetica, informatica, ergonomia, medicina, psicologia ecc.); è da sottolineare che i lavori vennero «impostati in modo da non disgiungere i problemi dell'organizzazione del lavoro dai problemi del rapporto tra politica ed economia, tra direzione politica e sviluppo economico, sviluppo delle forze produttive e dei rapporti sociali complessivi». Un impegno siffatto costituisce una solida base per il rinnovamento dell'educazione scientifica degli adulti (e anche dei ragazzi), nella misura in cui rompe il nesso obbligante scienza-divulgazione, ed una classe operaia consapevole — già «vulgo» —, capovolge quel flusso connesso alla divisione del lavoro affermandosi come «soggetto che nel processo di produzione non si presenta in forma veramente naturale, primitiva, ma come attività regolatrice di tutte le forze naturali»358. Ugualmente significativi appaiono, per i processi formativi, alcune iniziative che tirano la scienza e il suo apprendimento dentro le questioni del «vivo», sia a livello dei problemi, sia a livello degli implicati (specialisti e operai). Ci riferiamo alla filmina su «L'ambiente di lavoro» realizzata nel 1971 dalla Federazione Lavoratori Metalmeccanici, come risultato di una esperienza di elaborazione — da parte di un gruppo di operai, sindacalisti, medici, psicologi, grafici — di una ricerca sulla nocività ambientale; attraverso una collettiva destrutturazione della situazione emergono — proprio per il modo nuovo di studiare la scienza — questioni dall'interno e proiezioni sull'esterno che nessuna raffinata didassi nel chiuso della divulgazione ha mai potuto offrire. Altre iniziative di rilievo per l'avvio a soluzione dei problemi sul tappeto sono quelle connesse ai corsi di scuola media per lavoratori; le più innovanti come logica di studio sono proprio quelle che hanno inteso stabilire, su basi diverse dal tradizionale programma, un rapporto socialmente precisato con la scienza. Tra tante, citiamo quella documentata nel resoconto «Allora, più si studia più si diventa amici del padrone?»359, e svoltasi presso l’ ITI «Fermi» di Modena, per iniziativa del Consiglio di fabbrica della Maserati con studenti e insegnanti del «Fermi». Si tratta di contributi vivificanti non solo all'innovazione pedagogica, nella tradizione della più progressiva educazione degli adulti360, ma è da ritenere anche a nuovi modi di agire, di costruire consapevolezza rispetto al rapporto attuale tra lavoro e scienza. A noi sembra che è dalle diverse iniziative citate — come da tante altre — che dobbiamo trarre indicazioni affinché le strutture pubbliche, esistenti o da creare, modifichino il senso del loro operare che è rinforzativo all'attuale rapporto di scissione. Le istituzioni educative, immediatamente o mediatamente tali (dalle iniziative di educazione degli adulti alla televisione, dalle strutture cinematografiche statali alle biblioteche comunali, dai corsi di formazione professionale alle iniziative di aggiornamento ricorrente delle aziende a partecipazione statale) dovrebbero essere sollecitate a modificare — laddove la situazione sia inerte — l'ottica, e la pratica del loro modo di vedere e svolgere il rapporto tra lavoratori e educazione scientifica. La pratica del distacco è talmente forte, infatti, che soltanto un intervento massiccio di segno contrario può contribuire a iniziare, per tutti noi, una rieducazione alla educazione delle scienze, campo che, anche nelle strutture scolastiche, è uno dei più condizionati dagli attuali rapporti di produzione. 3.6.5 L'uso sociale della scienza 358 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica cit., p. 279 Roma, Edizioni Lega per le autonomie e i poteri locali, 1972 360 «L'educazione extrascolastica, e particolarmente l'educazione degli adulti, in certi paesi soprattutto, ha fatto nascere idee e relazioni nuove che hanno poi influito sull'insieme dell'azione educativa» (cfr. P. Lengrand, Introduzione all'educazione permanente, Roma, Armando, 1973, p. 170). 359 Pagina 137 di 185 Se dalle lotte operaie contro le realtà scientifiche di sfruttamento della scienza scaturiranno dentro la fabbrica e nella società le nuove occasioni formative capaci di affrontare in modo innovativo il rapporto con la scienza, merita soffermarsi sulla funzione che gli scienziati possono svolgere nell'arco delle proposizioni e degli interventi relativi all'andragogia delle scienze. La figura del’ing. Taylor è, in proposito, emblematica, se è vero, com'é vero, che dal taylorismo è scaturito «un rafforzamento enorme del potere del capitale e un impoverimento culturale, politico, anche psico-fisico, delle possibilità dei lavoratori di emanciparsi»361. Come ricorda G. Friedmann362, Taylor si è presentato per tutta la vita come un ingegnere e niente altro che un ingegnere; ha sempre proclamato la propria indifferenza per la politica e la propria neutralità nelle lotte tra lavoro e capitale. Eppure, dal nostro punto di vista, può paradossalmente essere ritenuto il massimo pedagogista del capitalismo, e non solo nord-americano. La situazione è indubbiamente cambiata, per varie ragioni. Innanzi tutto per i processi di proletarizzazione. Con «lo sviluppo del capitalismo monopolistico, soprattutto nella sua forma di capitalismo di stato, aumenta il numero e la porzione degli intellettuali salariati e, tra loro, degli intellettuali tecnici. Cosi, negli Stati Uniti, nel 1870, il 38% degli intellettuali lavoravano per proprio conto. Nel 1954, essi non erano più del 15,6%. In Inghilterra, nel 1954, l'87,7% di tutti i lavoratori intellettuali erano salariati... In Francia, il 100% degli ingegneri..., più del 94% degli insegnanti, dei lavoratori delle istituzioni mediche e sociali e il 92% dei lavoratori della scienza e delle lettere sono salariati363. Ma la situazione si è modificata anche per «il nuovo rapporto fra classe operaia e forze della scienza attraverso il recupero, nella fabbrica, del tecnico a un ruolo creativo di contestazione culturale dell'esistente», come osserva B. Trentin364. Si sviluppano i processi di sindacalizzazione (ad es., la costituzione — maggio '73 — del Sindacato unico della ricerca, aderente alla CGIL, nel quale sono confluite le organizzazioni già operanti nel Consiglio nazionale delle ricerche, nel Comitato nazionale per l'energia nucleare, nell'Istituto nazionale di fisica nucleare; oppure lo sviluppo dei sindacati della scuola di contro all'impoverirsi delle associazioni corporative). Oggi, insomma, non è più discusso «l'allargamento della condizione operaia ai tecnici e agli scienziati, come forze interessate al superamento di questo intralcio — scrive N. Badaloni — che è storicamente diventato il modo capitalistico di produzione. Corrispondentemente il carattere della società superiore come società razionale, diventa un bisogno, e non in relazione ad un modello astratto e meramente ideale, ma in relazione alla necessità di liberare forze già in sé razionalmente costituite e che la società presente sottomette all'irrazionale»365. L'educazione degli adulti si trova, oggi, inserita in processi ed acquisizioni di incisiva capacità trasformativa; si potrebbe sostenere che la sua direzione, un tempo diretta paternalisticamente verso i miseri e gli analfabeti, debba essere attualmente rivolta verso le esigenze di strati sociali depauperati, in preda alla crisi di una perdita di ruolo, privi di una prospettiva di cambiamento o esitanti rispetto a scelte definite per la costruzione di una «società superiore». 361 G. Berlinguer in un'intervista a G. Angeloni, La moderna organizzazione del lavoro, in «l'Unità», 6 giugno 1973 G. Friedmann, Problemi umani del macchinismo industriale, Torino, Einaudi, 1949, pp. 28-29. 363 Cfr. V. Tcheprakov, op. cit., pp. 405-406, che trae questi dati da A.Gramsci, Capitalism, Socialism and the Middle Class, in «Marxism Today» 3, marzo 1958, p. 76, e da P. Bleton, Mouvement économique et évolution sociale, in «Economie et humanisme» 92, p. 11. 364 Intervento al Convegno su «Scienza e organizzazione del lavoro»; cfr. anche «Rinascita» 26, 29 giugno 1973, p. 27 365 Ivi; e «Critica marxista» 4-5, 1969 362 Pagina 138 di 185 Rispetto ai temi, ai problemi, alle soluzioni da trovare per un uso sociale della scienza, la funzione di educatore è una delle più pressanti necessità. Per gli intellettuali, questa necessità si esplicita verso se stessi, per il superamento della crisi che l'intellettuale, come figura storica, attraversa; affinché, destrutturando i propri privilegi, possa emergere una nuova intellettualità, realmente corrispondente allo sviluppo delle forze produttive. Ed è un impegno che deve essere rapidamente soddisfatto, prima che i processi educativi di recupero abbiano la possibilità di offrire ossigeno ad un sistema di vita e ad una cultura moribondi. Questo ossigeno può essere diretto (ed è diretto) a sostenere le condizioni materiali dell'intellettuale salariato, proprio per continuare a differenziarlo e a distanziarlo, nel suo status di vita, dal salariato operaio o contadino. Ovvero può essere indirizzato (com'è già indirizzato) alla conquista del suo consenso attraverso le vie contradittorie (sempre più settorialmente raffinate o, nello stesso tempo, sempre più soffocanti nella passività) dell'industria culturale. E, a tal fine, servendosi di un ventaglio in continua espansione quantitativa di sottili specializzazioni all'interno del già nutrito ambito delle specializzazioni scientifiche. La scienza, così, rischia di divenire scientismo, parcellizzazione estrema della conoscenza. Il proposito sembra essere quello di indurre lo smarrimento, la perdita di una visione unitaria del rapporto scienza-lavoro, l'esitazione di fronte ai modi della trasformazione. Dobbiamo essere consapevoli che anche l'educazione degli adulti, come altre «discipline» (dalla chimica alla linguistica), tutte, possono essere strumentalizzate. Per quanto riguarda l'uso cui possiamo essere aggiogati nostro malgrado, è sufficiente tener conto dell'ambiguità delle nostre origini; delle strutture nelle quali agiamo; del rapporto che vogliamo e possiamo stabilire con la realtà; della nostra risposta all'antica domanda: «chi educherà gli educatori?». 3.6.6 Il contributo di scienza e tecnica all'educazione degli adulti Per riflettere al contributo che scienza e tecnica possono fornire ad una nuova educazione degli adulti (rifondata nella sua teoria e nella sua pratica al livello dello sviluppo del movimento operaio e delle stesse scienze), dobbiamo situare l'ambito del nostro lavoro in un quadro scientifico complessivo; dobbiamo correlarlo ad altri ambiti di conoscenza e di trasformazione per esaminare la sua collocazione, i suoi rapporti, la sua funzione. Per soddisfare la prima esigenza, potremmo compiere il tentativo di partire, come si accennava prima, dalla «disciplina», per individuare il suo posto nell'albero della scienza percorrendo i sentieri dell'interdisciplinarità, della multidisciplinarità, della transdisciplinarità; ma probabilmente rischieremmo di essere didascalici, senza risolvere il problema dell'unità del sapere. Saremmo, peraltro, molto imbarazzati nel coniugare la bioingegneria con l'antropologia culturale, la fluidica con la cibernetica. Rifiutando anzi la tradizionale suddivisione tra scienze fisico naturali e scienze dell'uomo, cerchiamo di muoverci sulla necessità di una fondazione scientifica della conoscenza, partendo da una prima constatazione. «Nella società umana — scrive F. Graziosi366 — sono all'opera due programmi distinti e reciprocamente condizionantisi: il programma genetico iscritto in codice universale nei nuclei delle cellule, che affonda le sue radici nelle profondità di un lontanissimo passato e negli eventi chimici della crosta terrestre, ed un programma sociale, la eredità culturale, che riassume tutta la storia dell'umanità cristallizzata nell'ambiente sociale e nell'educazione. 366 F. Graziosi, prefazione a N. Dubinin, La genetica e il futuro del l'uomo, Roma, Editori Riuniti, 1973 Pagina 139 di 185 Non poteva darsi evoluzione sociale e culturale dell'uomo indipendentemente dalle sue peculiari strutture genetiche e fisiologiche; non poteva darsi una cosi peculiare struttura genetica e fisiologica senza l'interazione sociale e culturale». Graziosi critica le deformazioni dell'eugenetica («quella somma di conoscenze teoriche e di esperienze mediante le quali è possibile migliorare le caratteristiche di animali e di piante utili all'uomo e dell'uomo stesso»), quando si propongono «come biologicamente strutturate le differenze sociali tra gli uomini». Egli sottolinea, invece, i termini di un'analisi che «porta alla identificazione di un meccanismo ereditario culturale, distinto da quello strettamente genetico, iscritto nei circuiti nervosi del cervello con meccanismi che ancora siamo lungi dal conoscere e perpetuantesi attraverso le molteplici vie della elaborazione, della conservazione e della trasmissione dell'informazione culturale elaborate nel corso dello sviluppo storico dell'umanità». Spiega ancora Graziosi che questo meccanismo ereditario, trasmesso da una generazione all'altra attraverso il linguaggio e l'educazione, a differenza di quello genetico, non è irreversibilmente codificato in rigide strutture chimiche e pertanto, esso si modifica, si complica e si amplia rapidamente sotto la pressione della dinamica della società umana, che appunto mostra ritmi di evoluzione culturale più veloci di quelli genetici, legati allo scorrere delle generazioni ed alla selezione naturale. In-somma: «il fenotipo dell'uomo, a differenza di quello delle altre specie, si realizza nelle estrinsecazioni delle potenzialità genetiche in un ambiente che non è in sostanza quello fisico-chimico, geografico e climatico, ma quello della cultura nella accezione più larga di questo termine»367. Come nota Z. Bauman: «L'esistenza della cultura sociale non annulla la natura biologica dell'uomo. Ogni uomo è un organismo vivente e come tale può essere oggetto di studi biologici, chimici, che indagano la composizione chimica delle cellule, il decorso delle reazioni che si verificano nel processo di ricambio della materia, o di studi fisici... Tuttavia, in virtù della cultura la natura biologica dell'uomo subisce una specie di metamorfosi. L'uomo, in questo simile all'animale, essendo anche organismo biologico vivente, possiede bisogni elementari...»368. Sappiamo che è la produzione dei mezzi di sussistenza che distingue gli uomini dagli animali: «Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole — si legge nell'Ideologia tedesca — ; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale»369. Come commenta Bauman: a differenza dell'animale che "sparisce", fra l'uomo e la natura vi sono i prodotti dell'uomo stesso, "artificiali" nei confronti della natura; e l'ambiente che circonda l'uomo perde "il suo carattere naturale puramente biologico, viene trasformato da quel fattore intermedio che è la produzione»370. Abbiamo ripreso questi temi essenziali proprio per sottolineare la valenza che acquista l'educazione degli adulti, in particolare, nella società industriale (e «postindustriale»), in una struttura capitalistica. Essa si presenta, alla luce dei rapporti di produzione, come processo formativo artificiale, rispetto alla cultura intesa come «tesaurizzazione sociale delle esperienze»371. Un processo che l'istituzione scolastica ha definito e schematizzato nelle forme più diverse (dalla «scuola materna» alla «formazione professionale», dalla «liceale» al «corso 367 Ivi. Z. Bauman, Lineamenti di una sociologia marxista, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 7. 369 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 8. 370 Z. Bauman, Lineamenti di una sociologia marxista, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 16 371 Z. Bauman, Lineamenti di una sociologia marxista, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 8 368 Pagina 140 di 185 serale») senza alcuno sforzo d'occultamento, perché il consenso era generato non solo dalla necessità produttiva, ma dall'aspirazione di ognuno all'acquisizione del sapere per le età infantili, adolescenziali e per il recupero dell'adulto deprivato. Ma un processo che nell'età adulta si è sempre tentato di mistificare quale processo formativo naturale. «Quanto tempo — si chiedeva ad esempio Kant — deve durare l'educazione? Sino al tempo — rispondeva —, in cui la natura ha stabilito che l'uomo si guidi da sé, ossia sino al tempo in cui si sviluppa in lui l'istinto del sesso, e, potendo divenire padre, deve essere a sua volta educatore: approssimativamente, fino ai sedici anni. In seguito, si possono ancora adoperare accorgimenti educativi e una disciplina che non sia appariscente, ma non più un'educazione sistematica»372. Il dettato del filosofo tedesco è valso, di fatto, per l'educazione degli adulti più di quanto non sia valso quello dell'Emilio per l'infanzia e la giovinezza373. Sono state le necessità dello sviluppo complessivo delle forze produttive nello stadio del capitalismo monopolistico a far emergere l'iceberg dell'educazione permanente, ricorrente, formalizzata, sistematica e, in modo appariscente, conclamata urbi et orbi attraverso organismi internazionali. E non è certo da dolersi del fenomeno. Ma dobbiamo considerare che è indispensabile studiare, valutare l'amplissimo settore (senza fine davvero, grazie ai moderni strumenti), in cui l'educazione degli adulti come processo formativo artificiale — con innumerevoli «accorgimenti» e con «disciplina non appariscente» — viene fatto passare come processo formativo naturale, destinato a «sparire» nel «tempo libero», nel valore di scambio, nelle malattie professionali (anche queste, oltre al danno fisico, funzionano come kantiani accorgimenti educativi). A nostro parere, è proprio nel trasformarsi della rappresentazione dell'educazione degli adulti (da processo formativo naturale ad artificiale) che si impone l'imprescindibilità di un contributo scientifico che, da diverse angolazioni, valga a destrutturare la presunta naturalità e a dimostrare la reale artificialità che funziona ai fini conservativi delle attuali strutture economiche e ai fini perpetuativi dell'attuale cultura. Se, infatti, la «tesaurizzazione sociale delle esperienze», ovvero la banca della cultura, rende ai suoi detentori attuali attraverso la gestione del processo formativo artificiale (tramite l'educazione degli adulti; ma non solo attraverso questa), è in tali occasioni che occorre incrementare il controllo. Il movimento operaio, di fronte agli attuali strumenti educativi, non si limita alle battaglie strutturali; ha acquisito consapevolezza che ciò che si guadagna in fabbrica può essere perduto nella società. È necessario che anche la scienza (dalla biologia alla sociologia) scenda sul terreno dell'educazione, si misuri sempre maggiormente con i processi formativi in atto. Il considerare che l'educazione degli adulti è nata dalla stessa matrice strutturale del movimento operaio può indurre fruttuose riflessioni per l'innovazione della scienza e della tecnica nel loro potenziale contributo allo sviluppo e all'affermazione di processi formativi volontari di senso opposto ai correnti. Occupandosi del «tentativo di fondazione "galileiana" della conoscenza sociale moderna», U. Cerroni374 affermava che il discorso di Marx è in pari tempo sulla metodologia, sulla logica e sulla conoscenza del reale e che questa unificazione del discorso è stata tanto una scoperta scientifica, quanto il portato della peculiarità che caratterizza la società 372 E. Kant, La pedagogia, Roma, Signorelli, 1963, p. 56. Il corsivo è nostro Non sappiamo se far risalire a quelle antiche indicazioni di Kant, o ad altra valutazione (ad es., il ritenere l'adulto come «compiuto» rispetto all'incompiutezza dell'età infantile) l'autentica idiosincrasia che alcuni dimostrano rispetto alla dizione di «educazione degli adulti», e alla oggettività del problema. Si tratta di una spia interessante a livello di costume: da dove nasce questa non sopportazione dei confronti della riflessione su un processo in atto? 374 Cfr. O. Cecchi, La ricerca marxista oggi in Italia: il marxismo e le scienze sociali, inchiesta-colloquio con U. Cerroni, in «Rinascita» 29, 16 luglio 1971, p. 20 373 Pagina 141 di 185 capitalistica come società in cui si realizza un processo storicamente inedito di reificazione dei rapporti sociali e perciò di ipostatizzazione pratico-istituzionale. Aggiungeva Cerroni: «Proprio per questi motivi la teoria moderna non è la metafisica tradizionale ma la filosofia ipostatizzante, "razionale", speculativa di Kant e di Hegel. E per lo stesso motivo la critica marxiana delle ipostasi teoriche diventa ipsofacto identificazione e critica delle ipostasi storico-pratiche: critica dello Stato, critica del diritto, critica della politica, critica dell'economia politica, e non più soltanto critica della filosofia o della religione». Anche l'educazione degli adulti, nelle infrastrutture formali e nelle realtà informali, rientra tra le ipostasi storico-pratiche; e, in un senso o nell'altro, deve impegnarsi in una critica del proprio processo costitutivo e della propria attuale consistenza. Per prodursi in questo impegno, necessita del contributo scientifico e tecnico che faccia diventare palesi i processi naturali in cui essa stessa è trascinata. Una critica praticata dal soggetto educativo. Ma il rapporto dell'andragogia con altri campi di ricerca e di studio non è soltanto recettivo. Sappiamo, infatti, che è stato «un esteso focolare di interessi di natura pratica»375, economici, pedagogici, politici, religiosi, sanitari, a richiedere il sorgere delle nuove scienze. «Tutte le "arti" del guidare o curare gli uomini, nel prorompente sviluppo del pensiero scientifico moderno, sentirono il bisogno di consolidarsi con tecniche più sicure e di più larga influenza»376. Sappiamo — soggiunge A. Massucco Costa — che ciò «che caratterizza l'uomo è il suo modo di vivere e di operare nella società, in un mondo culturale che si sviluppa come prodotto storico, ricevendo l'apporto di ognuno e incidendo su ognuno. Dalla stessa analisi delle spinte sociali collettive e delle interpretazioni individuali che ciascuno da alla storia di cui partecipa, viene all'uomo uno degli aspetti più alti della sua umanizzazione, la presa di coscienza della propria realtà storica e della propria responsabilità»377. Ed è per accertare il fine di quegli «interessi di natura pratica» e per perseguire la propria «umanizzazione» che l'uomo adulto (ma anche il bambino e l'adolescente, nei loro modi) deve essere in grado di controllare il processo formativo, esplicito o implicito, che le varie «arti» di guidare o curare mettono in moto con le loro tecniche sempre più sicure e di più larga influenza. A noi sembra che è nello scambio intensificato di critica dell'educazione degli adulti e di critica della psicologia (o della medicina) che è possibile contribuire al mutamento, sulla base di un autentico progresso scientifico; non è accettandosi come dati compiuti, come fenomeni irreversibili che si giova allo sviluppo delle nuove scienze e delle loro applicazioni. Il ristagno dell'educazione degli adulti è il risultato storico e sociale di un tentativo d'appropriazione che incombe per frenare il cambiamento strutturale. L'educazione degli adulti è stata bloccata nel suo evolvere proprio attraverso una interessata ipostatizzazione. Per divenire scienza — com'é necessario — essa dovrà ricercare nell'oggettività dei rapporti sociali la propria funzione storica e le proprie prospettive. 375 A. Massucco Costa, La psicologia oggi, Roma, Editori Riuniti, 1962, p. 13. « Questa spinta pratica, tipica dei paesi a economia industriale, è stata maggiore, agli inizi, nei paesi anglo-americani e in quelli europei». 376 A. Massucco Costa, La psicologia oggi, Roma, Editori Riuniti, 1962, p. 13. 377 A. Massucco Costa, La psicologia oggi, Roma, Editori Riuniti, 1962, p. 15. Pagina 142 di 185 4 Compiti e prospettive dell’educazione degli adulti 4.1 Premessa Le prospettive e i compiti dell'educazione degli adulti come intervento organizzato scaturiscono dall'analisi dei problemi relativi ai rapporti tra andragogia e "società industriale", e lavoro, e scuola, e istituzioni pubbliche, e scienze e tecniche, e strumenti di comunicazione. Scaturiscono dall'esame del processo storico dell'educazione degli adulti in relazione ai processi strutturali (analisi che svolgeremo in altra occasione). In questa conclusione, con un taglio esplicitamente partigiano (vogliamo dire: non mistificato) intendiamo riassumere le ipotesi complessive che ci sembra emergano dall'esame svolto. E sottolineiamo il valore ipotetico delle indicazioni che ci proviamo a trarre dalle considerazioni precedenti, perché ci rendiamo perfettamente conto della necessità teoricopratica di ulteriori verifiche, anche sulla base di altre ipotesi. Nei limiti — tuttavia — del nostro contributo, nella consapevolezza di riflettere e di agire come minima particella in un processo educativo che riguarda ben altre forze, dobbiamo tendere a condurre in porto le nostre opzioni, provvisorie e processive che esse siano. Cercheremo di riassumere, quindi, i significati che emergono, dal nostro punto di vista, dallo studio dei problemi dell'educazione degli adulti. Ci sforzeremo di porre in relazione tali significati con i problemi di oggi e con quelli che appaiono all'orizzonte, in un futuro non troppo lontano per molti aspetti. Su questa base, ci impegneremo nell'individuare i compiti dell'educazione degli adulti come intervento organizzato e da organizzare rispetto alla considerazione del rapporto più ravvicinato tra finalità e forme di lavoro. Non mancheremo di considerare i modi organizzativi di un rinnovato sviluppo dell'educazione degli adulti; e, sostanzialmente, quali conseguenze discendono da scelte coerentemente diverse, in quanto rapportate al «lavoro», come fulcro di qualsiasi discorso andragogico, rispetto alle strutture scolastiche, alle istituzioni culturali pubbliche, ai problemi delle scienze e delle tecniche, agli strumenti di comunicazione. 4.1.1 L'educazione degli adulti nella «società dell'educazione» II primo punto che, a nostro parere, emerge con forza dalla riflessione sui problemi dell'educazione degli adulti riguarda la conferma dell'utopia educativa, inserita in una prefigurazione globale di nuova società. Ma, possiamo chiederci, questa utopia di una «società dell'educazione», come superamento della «società della produzione» e della «società dei consumi», non è una fantasia assurda nelle presenti, dure condizioni in cui viviamo? L'obiezione avrebbe senso se l'utopia - l'aspirazione alla «felicità» — rimanesse chiusa nella propria orbita, non correlata, appunto, con le condizioni della sua realizzabilità. Quali sono, allora, queste condizioni, e quale dovrebbe essere il nostro atteggiamento? Innanzi tutto — notava Suchodolski — la condizione prima del realizzarsi dell'educazione permanente, e, in essa dell'educazione degli adulti, è il realizzarsi della «società dell'educazione»; in questa, l'educazione, largamente intesa come l'intensificazione dello sviluppo umano, diverrebbe il valore primario e universale. Pagina 143 di 185 In altre parole, aggiunge più avanti il pedagogista polacco, una delle condizioni essenziali dell'educazione permanente è la lotta vittoriosa e costante contro l'alienazione; senza il raggiungimento di questa prospettiva, ogni possibilità di un'educazione permanente, globale e autentica sparisce; restano, al massimo, i corsi di perfezionamento. D'altra parte, e inversamente, conclude Suchodolski, lo stesso impegno per l'educazione permanente (e, noi aggiungiamo, per l'educazione degli adulti), costituisce la prova che l'alienazione e l'ostilità del mondo sociale sono dominabili, che l'uòmo acquisisce «il sentimento di essere un creatore responsabile la cui ricchezza intellettuale si realizza nella ricchezza della vita»378. Anche noi, insomma, se ci chiedessimo: siamo effettivamente alle soglie della società educativa? Questa società si forma veramente nella nostra epoca come un modello nuovo e specifico della vita sociale e individuale, in opposizione alle società della produzione e dei consumi? Anche noi, con Suchodolski, dovremmo rispondere che non è agevole dare a queste questioni una risposta interamente ottimista. Dobbiamo — in primo luogo — impegnarci a rimuovere gli ostacoli al realizzarsi di una società dell'educazione, anche attraverso il nostro lavoro educativo. In secondo luogo, dobbiamo tener conto che il tendere verso una società dell'educazione non è un problema che riguardi soltanto la pedagogia e l'andragogia, o i suoi operatori. Il tendere verso l'uomo onnilaterale, e cioè verso le condizioni capaci di rendere l'uomo «universale, totale, multilaterale, sviluppato completamente, pienamente, liberamente, in tutti i sensi»379, ovvero il contrapporsi all'attuale realtà dell'uomo unilaterale, sono compiti storicamente assunti dal movimento operaio. E, abbiamo ripetutamente sottolineato, l'educazione degli adulti, sciogliendo l'ambiguità delle proprie origini con una scelta di campo precisa e conseguente, può ravvicinare l'utopia educativa, o, almeno, dare un senso progressivo al nostro lavoro e alle nostre speranze, anche nei momenti più oscuri del nostro modesto operare. In terzo luogo, dobbiamo essere consapevoli del rilievo e del ruolo dell'educazione degli adulti nell'impegno di «sviluppo intellettuale della classe operaia». Se, come scriveva Gramsci, «È attraverso la critica della civiltà capitalistica che si è formata o si sta formando la coscienza unitaria del proletariato, e critica vuoi dire cultura, e non già evoluzione spontanea e naturalistica»380; se, quindi, l'intervento volontario deve sapersi opporre con armi sempre più affinate all'indottrinamento naturale in atto e in fieri, un'educazione degli adulti che abbia operato la sua scelta può avvicinare il proprio ideale educativo, la propria utopia, contribuendo ad accelerare l'acquisizione generalizzata, di massa, degli strumenti critici. In quarto luogo, dobbiamo tener conto delle tendenze oggettive allo sviluppo quantitativo e qualitativo dell'istruzione; non è una tendenza automatica, e bisogna addirittura spingerne i tempi e i modi di attuazione; né è una tendenza di per se positiva: bisogna che il «lavoro» la educhi verso direzioni positive. E tuttavia la forza che preme è ingente; basti pensare che oggi si parla della comunicazione come sostituto dell'energia, nel senso che un miglioramento nell'uso dell'informazione può ridurre i bisogni di energia381; basti tener conto delle ipotesi -che riferiremo a titolo di cronaca — inclini a spiegare i problemi della crisi anche in termini di «inflazione qualitativa»; questa sarebbe dovuta al fatto che il sapere sotto tutte le sue forme 378 B. Suchodolski, op. cit., p. 8. M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 9 380 A. Gramsci, Socialismo e cultura, in «II grido del popolo», 25 gennaio 1916 381 Ad es., secondo i calcoli effettuati dalla Cornell University, un viaggio intercontinentale consuma energia dieci volte superiore all'energia che richiede lo svolgimento di una conversazione della stessa durata (otto ore) con il video-telefono. Tuttavia, dopo lo scandalo Watergate, è lecito chiedersi se il risparmio di energia è considerato in rapporto anche alla segretezza 379 Pagina 144 di 185 (brevetti, ricerche, numero crescente di agenti economici ad alto livello d'istruzione) tenderebbe a giocare un ruolo sempre più importante e a soppiantare il capitale come fattore di produzione essenziale382! A prescindere, comunque, da certe illazioni, è constatazione comune (basti riferirsi allo sviluppo dei calcolatori elettronici, preso come termine di misura del livello di sviluppo di una società) che l'aumento dell'istruzione, come l'accrescersi della richiesta di istruzione, è un dato di fatto essenziale della nostra epoca. Determinare le direzioni dell'istruzione è compito di un movimento educativo che deve avere nell'utopia di una «società dell'educazione» il proprio orientamento specifico, nel quadro di un progetto societario complessivo. Ma, e infine, il ragionare e l'operare in termini di utopia educativa non corrisponde soltanto ad un moto soggettivo, ma ad una necessità che emerge, potremmo dire anche noi, «in una situazione in cui lo sviluppo delle forze produttive (soprattutto industriali) in presenza di un non risolto antagonismo con i rapporti di produzione, ha palesato, proprio nei Paesi maggiormente "sviluppati" tutta la inumanità di una realtà che si vuole interamente conclusa entro un orizzonte produttivistico e tecnocratico; in cui cioè gli uomini, e i rapporti tra gli uomini, sempre più sono asserviti, in tutte le loro manifestazioni di vita, alla tirannia delle cose: «le merci e la produzione di merci» ovvero da « quel!'ampliarsi dell'orizzonte rivoluzionario che va di pari passo con l'estendersi e l'approfondirsi delle conseguenze del dominio del tardo capitalismo impcrialistico su scala mondiale»383. Alle ragioni che ci sembrano confermare l'importanza e l'attualità dell'utopia educativa si aggiunge, peraltro, la consapevolezza, più volte sottolineata, dei processi formativi in atto ad opera delle agenzie del potere (da quelle economiche a quelle del divertimento di genere neocapitalistico) che agiscono con la incidenza della societas rerum. Come sottolineava Gramsci, anche per gli adulti si può dire che «la scuola, cioè l'attività educativa diretta, è solo una frazione della vita dell'alunno, che entra in contatto sia con la società umana, sia con la societas rerum e si forma criteri da queste fonti "extrascolastiche" molto più importanti di quanto comunemente si creda»384. Rispetto alla presente e operante società educativa, con le sue valenze inumane e barbariche, le agenzie educative progressiste-devo-no saper opporre, in termini operativi e in termini utopici, una «società dell'educazione» capace di rovesciare, più che di sviluppare, l'attuale corso, oscuramente medievale; in grado di affermare una democrazia educativa nella quale l'educazione non sia vista come qualche cosa che si sovrappone alla vita, «qualche cosa che viene dal di fuori», «bene da procacciarsi», ma, «per servirsi del linguaggio dei filosofi», dice Lengrand, qualcosa che «non rientra nel campo dell'avere, ma in quello dell'essere»; nella quale — appunto — «il vero soggetto dell'educazione» sia considerato «l'essere nelle sue differenti tappe e modalità»385. Peraltro, la certezza che questa utopia sia già in cammino è dimostrato dal diverso modo di educarsi dei lavoratori. «Quali sono i modi, quali gli organismi che meglio rispondono alla educazione degli adulti», si chiedeva L. Lombardo Radice commentando l'inchiesta presentata nel libro L'educazione degli adulti di R. Bauer386. «L'inchiesta - rispondeva — ha dimostrato che sono "circondate da disinteresse, in generale, le attività 'ufficiali' di educazione degli adulti", cioè i corsi popolari, i centri di lettura, i centri sociali per la integrazione degli immigrati meridionali nel Settentrione. 382 Ne parla Bommensath in «Hommmes et Techniques», ottobre 1973; cfr. «Le Monde», 14 marzo 1974, p. 1 M. Spinella esprime il proprio parere sull'attualità dell'utopia in relazione al rinnovato interesse per l'opera di Fourier; cfr. «l'Unità», 20 gennaio 1973, p. 3 384 A. Gramsci, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Torino, Einaudi, 1949, pp. 119-120 385 P. Lengrand, op. cit., p. 96; anche Suchodolski, in op. cit., p. 6, ritiene riferendosi alle affermazioni di Lengrand che «oggi bisogna concepire altrimenti il principio stesso dell'educazione». 386 R. Bauer (a cura di), con la collaborazione di L. Conti, L. Diena, M.Melino, D. Mezzacapa, T. Savi, G. Tassinari, L'educazione degli adulti, 13° ricerca sulla scuola e la società italiana in trasformazione, Bari, Laterza,1964 383 Pagina 145 di 185 È stata "clamorosamente confermata" dall'indagine l'ipotesi della "forte interdipendenza tra educazione e azione sociale". Ci si "integra" nella azione, non nella conoscenza; vi è educazione là dove c'è "mercato di idee" e "colorazione ideologica marcata". Paternalismo e democraticismo generico fanno fallimento. Non vi è altro modo di prepararsi a partecipare alla cultura, alla vita democratica, che partecipare ad esse — sottolineava ancora Lombardo Radice — ; non vi sono scuole preparatorie di cultura, di democrazia, che precedano il vivo, diretto, personale impegno ideale, culturale, politico. Il "dato di fatto fondamentale" nella educazione degli adulti dell'Italia di oggi, è l’impegno alla trasformazione dei rapporti sociali nei quali viviamo". Le esperienze più valide sono state quindi trovate dai ricercatori nei partiti operai e popolari democraticamente organizzati (in particolare nel Partito comunista), nelle associazioni di lavoratori rette dai lavoratori...»387. Certamente i risultati della ricerca svolta più di un decennio fa, e le indicazioni che da essi scaturivano, vanno rapportati alla nuova situazione storica. E, ad es., circa il problema della scuola, il concetto di educazione permanente deve essere -come abbiamo visto — depurato degli equivoci marcianti; se riferiamo tale concetto alle determinazioni scaturenti da quella lontana ricerca, dobbiamo ribadire che esso non deve risultare una fuga nel tempo, ma un impegno globale, oggi, nello spazio educativo. Oppure, rispetto ai problemi degli strumenti di comunicazione, dobbiamo essere in grado di arricchire la nostra azione sociale di motivazioni e di modi d'intervento che permettano di superare gli oggettivi ritardi. E, infine, nel campo del lavoro culturale dobbiamo riconfermare, in ogni occasione e nei modi più pertinenti, la valenza educativa dell'associazionismo, come banco di prova di qualsiasi innovazione — o pseudoinnovazione -- nell'ambito degli strumenti, dei metodi, delle strutture culturali. 4.1.2 L'associazionismo: elemento di riflessione emergente dall'analisi dei problemi dell'educazione degli adulti La priorità dell'associazionismo democratico ci sembra il dato emergente dall'esame, pur essenziale, dei problemi dell'educazione degli adulti. Prima di affrontare le questioni relative al significato generale e operativo che l'associazionismo assume per una ipotesi dei compiti e delle prospettive del nostro lavoro, è opportuno riflettere su alcuni temi. Innanzi tutto, ponendo ancora una volta in evidenza che l'affermarsi del «principio associativo» si svolge, nel nostro Paese, attraverso un processo di enorme ricchezza, anche da un punto di vista educativo; dobbiamo esaminare alcune questioni sulle modalità di tale processo. In un secolo in cui, ad esempio, riecheggiano le concezioni educative di un Durkheim, i lavoratori accrescono la loro forza politica e la loro consapevolezza attraverso la loro «azione in comune», le loro lotte, la «discussione», le loro prime strutture organizzative. Essi riescono a maturare convinzioni opposte a quelle del «non aver diritto ad avere di 388 più» o al «senso del dovere»389 asservito alla classe dominante. 387 L. Lombardo Radice, L'educazione degli adulti, in «l'Unità», 9 ottobre 1964 «Ciò che è necessario perché l'ordine sociale regni è che la maggior parte degli uomini si accontenti della propria sorte; ma ciò che è necessario perché se ne accontentino non è che posseggano più o meno, ma che siano convinti di non aver diritto ad avere di più» (cfr. È. Durkheim, Il socialismo: definizione, origini, la dottrina saint-simoniana, Milano, Angeli, 1973) 389 «II senso del dovere, ecco, infatti, quale è, per il fanciullo e per lo stesso adulto, lo stimolante dello sforzo per eccellenza. Lo stesso amor proprio lo suppone. Perché, per essere sensibile come è necessario, alle punizioni 388 Pagina 146 di 185 Ma quali sono le occasioni ed i modi di maturazione? J. Droz, affrontando l'annosa controversia se, nello sviluppo del movimento operaio, sia stato decisivo il processo acquisitivo interno al movimento operaio, oppure l'apporto esterno, scrive che non gli sembra possibile accettare «la soluzione semplicistica secondo la quale una classe operaia non può essere che tradeunionista e che occorre insegnarle il socialismo dall'esterno; al contrario il socialismo può nascere solo dalla prassi operaia»390. Cosi espressa, anche questa può sembrare una risposta semplificante; e, infatti, come osserva G. Manacorda, se questa impostazione fosse corrispondente alla realtà storica, perché allora dedicare in questa Storia del socialismo un capitolo intero al Capitale come all'espressione la più alta della coscienza socialista? «Forse che il Capitale sarebbe mai potuto scaturire "solo dalla prassi operaia"?»391. In realtà, riferendoci alle determinazioni di Marx e Engels del Manifesto a proposito dei «conflitti in seno alla vecchia società» che favoriscono in più modi il processo di sviluppo del proletariato, e, segnatamente, attraverso il contributo degli «i-deologi borghesi»; tenendo ben presente l'elaborazione leninista del Che fare?, non possiamo valutare il processo in parola nei termini polemici in cui il problema è posto da Droz. Dal nostro punto di vista, possiamo peraltro percepire, e comprendere, il senso metodologico dell'affermazione. Ci sembrano, infatti, da rifiutare le tendenze interpretative (sempre riemergenti) a giustificare, se non a teorizzare, l'indottrinamento, come sbrigativa accezione dell'intervento dall'esterno. E ciò, sia per riferimenti storici, in quanto le scelte indottrinanti hanno soltanto rallentato il processo di sviluppo del proletariato, soprattutto in quanto «sviluppo intellettuale della classe operaia». Sia, vorremmo dire, per un principio deontologico del nostro mestiere, in quanto la pratica dell'indottrinamento non solo non permette, ma ostacola, una modificazione profonda e autenticamente liberatoria. Sia per ragioni legate alle nostre esperienze pratiche, in quanto le tentazioni indottrinanti o si sono verificate illusoriamente acceleranti oppure sono state immediatamente respinte. È necessario, dunque, distinguere tra necessità storica dell'intervento dall'esterno, e tendenze di comodo a rendere perenne tale contributo; ciò che era utile e necessario nel!' '800, o nei primi del '900, o ancora oggi, non è detto che debba perdurare in eterno. E, tuttavia, ci sembra che il problema, ripreso da Droz, possa essere risolto, almeno dalla nostra angolazione, sfuggendo alla rigida contrapposizione interno-esterno. Sia, secondo le specificazioni marxiane, perché l'intervento dall'esterno deve contenere «reali elementi di educazione»392 e perché, come ricorda Manacorda, « quando siffatte persone provenienti da altre classi aderiscono al movimento proletario, la prima esigenza è che non portino con sé nessun residuo di pregiudizi borghesi, piccolo-borghesi, ecc., ma che facciano proprio senza riserve il modo di considerare le cose del proletariato»393. Sia, e ovviamente, perché bisogna anche distinguere tra le qualità dei contributi individuali: quelli dei Marx, dei Lenin, dei Gramsci, e quelli di altri, compreso il nostro di operatori culturali. Sia, e per quanto ci interessa e intendiamo mettere in luce, per le specificità educative della «prassi operaia». ed alle ricompense, occorre già aver coscienza della propria dignità e, conseguentemente, del proprio dovere. Ma il fanciullo non può conoscere il dovere che per il tramite dei suoi maestri o dei suoi genitori. Non può sapere quello che è se non attraverso la maniera nella quale glielo rivelano, mediante il loro linguaggio e la loro condotta. E’ quindi necessario che essi siano, per lui, il dovere incarnato e personificato» (È. Durkheim, La sociologia dell'educazione, Roma, Newton Compton Italiana, 1971, pp. 58-59). 390 J. Droz, Storia del socialismo, Dalle orìgini al 1875, vol. I, Roma, Editori Riuniti, 1973. 391 G. Manacorda, Una storia del socialismo, in «l'Unità», 6 aprile 1974 392 Ivi; il brano di Marx è tratto da una lettera a Bebel e altri, del 1879 393 Ivi. Pagina 147 di 185 Se, infatti, nella prassi operaia comprendessimo — come ci sembra storicamente corretto — anche i processi di acquisizione del contributo degli «ideologi borghesi», attribuiremmo una valenza più adeguata e precisa all'affermazione che «il socialismo può nascere solo dalla prassi operaia». Una prassi che, fondandosi sull'«azione in comune» e sulla «discussione», per un verso riconduce i contributi individuali (esterni) alla verifica e all'acquisizione attraverso il lavoro collettivo e i metodi del lavoro (interno) in comune e, per l'altro, spiega ed esalta l'associazionismo come campo educativo essenziale. Sulla base di questa interpretazione, il movimento di educazione degli adulti individua o conferma hello sviluppo dell'associazionismo il proprio compito primario. Sviluppo, sembra utile precisare, non solo nel rafforzamento delle strutture organizzative politiche e sindacali attraverso l'apporto culturale (compito spettante a politici e sindacalisti in quanto educatori); ma nel rafforzamento o nella creazione di tutte quelle occasioni associative nelle quali «la lotta teorica» possa svolgersi insieme e accanto al lavoro politico e sindacale. «Ricordiamo — scriveva Lenin — le osservazioni di Engels, risalenti al 1874, sull'importanza della teoria nel movimento socialdemocratico. Engels riconosce non due forme della grande lotta socialdemocratica (la politica e l'economia) -come si fa abitualmente da noi — ma tre, poiché accanto a queste egli pone anche la lotta teorica»394. E sottolineava il brano in cui Engels puntualizzava i due vantaggi essenziali degli operai tedeschi. Se il secondo consisteva nell'essere «arrivati quasi ultimi nel movimento operaio dell'epoca», il primo risiedeva nel fatto che gli operai tedeschi appartenevano «al popolo dell'Europa più portato alla teoria... Senza il precedente della filosofia tedesca e precisamente della filosofia di Hegel, il socialismo scientifico tedesco — l'unico socialismo scientifico che sia mai esistito —, non sarebbe mai nato. Se tra gli operai non ci fosse stato questo senso teorico, il socialismo scientifico non si sarebbe mai cambiato in sangue e carne in cosi grande misura come è effettivamente accaduto. E — continuava Engels nel 1875 — quale incommensurabile vantaggio sia questo, si rivela da una parte se si tenga presente l'indifferenza verso tutte le teorie, che è una delle cause principali per cui il movimento operaio inglese, malgrado tutta la notevole organizzazione dei singoli sindacati, avanza cosi lentamente, e, dall'altra, se si tengano presenti la confusione e le storture che il proudhonismo ha provocato, nella sua forma originaria nei francesi e nei belgi, e, più tardi, nella caricatura che ne fece Bakunin, negli spagnuoli e negli italiani»395. Contribuire all'acquisizione di questo «senso teorico», nella prassi operaia associativa, è, dunque, il compito essenziale dell'educazione degli adulti, per lo «sviluppo intellettuale della classe operaia». Un altro tema che scaturisce dall'analisi dei problemi dell'educazione degli adulti riguarda l'aspetto più propriamente metodologico delle modalità associative di maturazione, sia come riflessione sulle lotte, sia come acquisizione dei contributi esterni. Ed è un argomento strettamente interrelato al precedente. Ma, mentre per l'antico problema posto da Droz non mancano davvero riferimenti, per quanto riguarda le modalità associative di educazione incontriamo lacune conoscitive difficilmente colmabili; in questo settore, dobbiamo davvero commentare con Dolléans che il «mistero» della storia del movimento operaio potrebbe «essere messo in luce solo in virtù degli umili artefici di questa epopea»396. Anche se in questa sede non intendiamo affrontare i problemi metodologici dell'educazione degli adulti, tuttavia dobbiamo porre in risalto le nostre carenze (e le loro 394 V. I. Lenin, Che fare? cit., pp. 28-29 395 V. I. Lenin, Che fare? cit., pp. 28-29 396 E. Dolléans, Storia del movimento operaio, vol. II: 1871-1920, Firenze, Sansoni, 1968, p. x Pagina 148 di 185 conseguenze) che si ripercuotono anche sui modi in cui riusciamo a percepire intellettualmente l'«energia operaia», cioè «la cultura di se stessa»397; ad esempio, che agli aspetti metodologici del lavoro collettivo venga dato scarso risalto documentativo, sicché è arduo ricostruire i modi di svolgimento assembleari, le discussioni generali in sé e nel loro rapporto con le relazioni introduttive, i procedimenti per giungere alle conclusioni, ecc. E, per converso, che il rilievo attribuito all'impegno delle singole personalità finisca con l'assorbire tutta la nostra attenzione, anche perché tale interesse cresce e si diffonde in progressione geometrica. Il rilevare tale conseguenza non intende — né potrebbe — esprimere inviti ad essere iconoclasti; tende anzi a sottolineare l'importanza specifica e singolare degli apporti individuali, in relazione a quella dei contributi collettivi. Il nostro compito, infatti, non è quello di riconoscere meriti e attribuire ricompense; dobbiamo molto semplicemente trovare i modi per operare. E, a tal fine, individuare le possibilità di sviluppare capacità espressive, creative, critiche nella realtà quotidiana della non eccezionaiità individuale e della potenzialità del lavoro in comune. Dalla conoscenza delle personalità che ammiriamo possiamo trarre l'esemplarità dei comportamenti, il modello dei metodi; ma non i modi di generalizzare la singolarità. Dalla conoscenza dello svolgersi dei lavori collettivi, possiamo — invece — individuare le costanti metodologiche da acquisire o da affinare o da rifiutare; possiamo effettuare un controllo, verificabile, delle modalità associative, quelle che ci è dato ripetere. Concludendo, dall'attuale carenza, e dalle sue conseguenze, scaturisce un altro compito dell'educazione degli adulti: raccogliere, studiare, analizzare le passate, recenti ed attuali esperienze di lavoro collettivo, in modo da far emergere — nelle applicazioni concrete e quotidiane — i metodi usati, in modo che sia possibile valutare la consapevolezza — generale o meno — dell'uso di metodi, il cui possesso collettivo è essenziale per lo sviluppo dell'associazionismo. Nell'analizzare i problemi dell'educazione degli adulti nel nostro Paese, non abbiamo dato rilievo alle polemiche svoltesi all'interno del movimento educativo, o tra questo ed altre istanze, associative o istituzionali. Sia perché la descrizione delle posizioni avrebbe richiesto spazio eccessivo rispetto alla capacità chiarificatrice delle polemiche stesse; sia perché non ci sembra che, sul piano nazionale, fin dalle origini, siano emersi contrasti di rilievo pari al conflitto verificatosi, ad esempio, in Gran Bretagna, e nei primordi della storia dell'educazione dei lavoratori, «circa gli scopi a cui tale educazione avrebbe dovuto servire, e circa i principi fondamentali a cui avrebbe dovuto ispirarsi»398. La controversia tra rivoluzionari ed evoluzionisti, svoltasi all'interno del movimento operaio, non ha riguardato se non indirettamente il campo dell'educazione degli adulti, e, nel caso, alcune personalità, in alcuni periodi. Ben poco, comunque, è emerso di rilevante e tra le più significative associazioni o strutture. Non ci sembra, insomma, che nel campo specifico vi siano mai stati scontri aperti tra conservatori ed innovatori. Se critiche e polemiche vi sono state, esse non hanno mai registrato un interesse amplio, tanto da raggiungere — per quanto ci interessa — un'intensità di rapporto problematico tra strutture organizzative del movimento operaio e associazioni, operatori dell'educazione degli adulti. 397 Come si esprimeva M. Pelloutier; cfr. Dolléans, op. cit., p. 25 398 «II conflitto si svolse tra coloro che consideravano l'educazione dei lavoratori come un movimento per aiutare il lavoratore a migliorare le proprie nozioni tecniche e sociali, e migliorarne così la posizione nell'ordine economico e sociale esistente, e coloro che invece volevano rovesciare quell'ordine ed educare il lavoratore ad assumere una parte più attiva nel compiere questo rovesciamento e nel sostituirvi un sistema radicalmente diverso»; cfr. G. D. H. Cole, L'educazione dei lavoratori nel Regno Unito, in «Bollettino B. C.», marzo-aprile 1958, p.4 Pagina 149 di 185 Spiegarsi, oggi, tale aconflittualità del movimento di educazione degli adulti non è semplice. Si può ipotizzare, ad esempio, che nelle zone e nei periodi in cui il movimento operaio stesso ebbe a creare e a gestire le proprie occasioni educative, le ricerche e le contraddizioni siano rimaste nell'ambito del movimento stesso. Analogamente, si può pensare che nei periodi e nelle occasioni in cui il movimento operaio ebbe sostanzialmente a delegare, sulla base delle proprie indicazioni e con l'apporto dei propri uomini, il lavoro educativo i contrasti si siano risolti nella delega stessa, o non siano emersi per nulla, nella omogeneità delle prospettive. Si può, infine, constatare che, in alcuni periodi o in alcune zone, la scarsità di esperienze nel settore particolare ha impedito, nel quadro di un pluralismo di visioni del mondo e — anche — dell'educazione degli adulti, gli scontri-incontri necessari a sviluppare il movimento educativo stesso. Il risultato di questa sospetta quiete può apparire, in fondo, come la conferma di una apoliticità dell'educazione degli adulti, o, meglio, di una sua politica ambigua. Fatto è che, a livello collettivo, non possiamo registrare, salvo eccezioni, una continuità di riflessioni autocritiche (come quelle — ad es. — svolte da «Peuple et Culture» nel'56: «Bisogna chiederci se l'educazione popolare non sia stata troppo "letteraria" nel corso di questi ultimi anni», e negli anni della contestazione). Anche a questo proposito non è facile fornire spiegazioni; ma l'importante, a nostro parere, non è individuare le ragioni della riservatezza passata, ma -per il futuro — socializzare le questioni emergenti dalla pratica quotidiana, provocare occasioni di studio e di riflessione, affrontare apertamente problemi che non possono essere contenuti e risolti nel chiuso delle associazioni e degli enti, adoperarsi — in tal modo — affinchè i temi dell'educazione degli adulti entrino, con il rilievo che meritano, nel circuito e nella battaglia delle idee. Lo sviluppo dell'associazionismo potrà realizzarsi soltanto nello spazio più vasto di un movimento non soltanto, e in senso stretto, educativo, quanto politico. Le premesse storiche — nei riferimenti più lontani — non mancano, a tal fine, e ci riferiamo agli elementi di consanguineità, di affinità, di analogia riscontrabili tra movimento operaio, nel suo complesso svolgersi, e movimento educativo per l'età adulta. Ma sono molto più reali e salde le prospettive, basate sulla realtà più recente ed attuale nella quale i problemi della cultura, come problemi dello sviluppo della democrazia nel nostro Paese, sono stati assunti dal movimento dei lavoratori con una coerenza ed una superiorità di visione che, mentre testimoniano la maturità della classe operaia rispetto alle origini della sua consapevolezza, dall'altra comprovano il nostro ritardo nell'individuare l'urgenza ed i modi di un'articolazione più conseguente tra lavoro educativo (e non solo dell'educazione degli adulti) e lavoro politico-sindacale. Una coerenza che ha condotto il movimento operaio a scegliere il terreno della democrazia per impostare e realizzare le proprie battaglie: dalla conquista della Repubblica alle battaglie contro la legge-truffa del '53, contro il tentativo tambroniano, contro i conati più reazionari della recente cronaca; dalla difesa delle autonomie locali nelle loro prerogative alle responsabilità del Parlamento; dalle lotte per la libertà degli operai sul luogo di lavoro a quella dei giornalisti, dei cineasti, degli insegnanti, degli operatori della televisione, alla difesa della cultura stessa, affinchè - nell'attuale crisi economica — non sia «messa all'ultimo posto»399; fino agli impegni sul diritto dei popoli all'autodeterminazione. Si tratta di un terreno e di una coerenza che, mentre mettono a dura prova le forze dominanti, provocano spostamenti continui negli orientamenti politici e culturali. Una superiorità di visione — bisogna aggiungere — che recepisce concretamente gli insegnamenti di Marx quando dimostrava che «le lotte della classe operaia per il livello dei salari sono fenomeni inseparabili da tutto il sistema del salario, che in 99 casi su 100 gli sforzi 399 Cfr. «l'Unità», 24 luglio 1974, intervista con G. Napolitano Pagina 150 di 185 per l'aumento dei salari non sono che tentativi per mantenere integro il valore dato del lavoro, e che le necessità di disputarsi con il capitalista per il prezzo del lavoro dipende dalla sua condizione, dal fatto che essa è costretta a vendersi come mercé»; da cui la necessità di non «lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dai mutamenti del mercato» e di «comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per una ricostruzione economica della società»400. Una superiorità di visione, dunque, che risale dagli effetti alle cause, e che, su questa percezione dei problemi, si muove, come movimento politico e sindacale, per rafforzare lo schieramento antimonopolistico e democratico e per aprire nuove strade e nuove realtà educative alla nostra società. Nella individuazione e nella costruzione di nuove realtà formative, l'educazione degli adulti è chiamata anche in un ambito scarsamente frequentato nel passato: quello relativo alle scienze. Ciò, a nostro parere, non tanto (o, per altre posizioni, non solo401) per quanto riguarda la divulgazione, ma per quanto concerne i rapporti con quella che viene definita la «società degli scienziati». La distanza tra scienziati ed educatori (non solo degli adulti) è, infatti, allo stato delle cose, incolmabile attraverso un rapporto di mera assunzione di un ruolo di mediazione, per una spiegazione al popolo, assunto dagli educatori o dagli stessi scienziati. Non a caso, negli anni più fiduciosi nel «progresso» scientifico e tecnologico la divulgazione veniva praticata con un'intensità relativamente più rilevante di quanto non si verifichi oggi; soprattutto verso gli strati popolari. Oggi la fiducia nel progresso è fortemente caduta, almeno come religione positiva; ad essa è subentrata, al contrario, una angoscia impulsiva che, quando non è razionalizzata, assume le caratteristiche di una vaga e paurosa fede. Per gli artisti contemporanei più dotati tale angoscia sembra costituire la costanza d'ispirazione402. Per ognuno di noi, un alone di presentimenti che ci accompagna altrettanto costantemente e misteriosamente. Si può ritenere che sia la carenza di conoscenze scientifiche a provocare i nostri incubi? Basterebbe essere informati di più, o almeno nell'essenziale, sulla neuropsicologia, sulla biologia, sulla fisica per dominare la paura? A parte la considerazione sull'impossibilità di divenire tutti dei Leonardo Da Vinci, almeno in questo regno della necessità, e a parte la ovvia considerazione che — anche nelle più favorevoli condizioni sociali — un'esistenza intera sarebbe del tutto insufficiente per acquisire un possesso elementare dell'attuale scienza, sappiamo bene che a provocare le attuali oppressioni è la mancanza, nella società capitalistica, di un controllo sociale sulla scienza e sulla tecnologia, e sul loro uso. L'educazione naturale di questa società causa, in proposito, deformazioni e comportamenti deformati estremamente significativi. Ad es., una ricerca dell'«Institut français d'opinion publique» ha evidenziato che la percezione delle minacce incombenti403 è, attualmente, abbastanza problematica: «i francesi di oggi — commenta J. Lacouture — individualizzano fortemente le loro inquietudini e privilegiano tutto ciò che tocca le loro persone (incidenti o nevrosi) in rapporto a ciò che interessa la 400 K. Marx, Salario, prezzo e profitto cit., pp. 76-77 Come abbiamo visto nel capitolo 6. 402 Insieme alla intensa preoccupazione, abbastanza diffusa, per un nuovo rapporto con il «pubblico»; tendenze particolarmente vive — e sulle quali purtroppo non possiamo soffermarci in questa occasione — nelle arti figurative, nella musica, nel teatro, negli audiovisivi. 403 Sul tema è stato svolto, a cura dell'Unesco, anche un colloquio internazionale (29 novembre-1° dicemb re 1973). 401 Pagina 151 di 185 collettività...»; questi stessi francesi tendono a non assumersi responsabilità nei confronti dei pericoli, ma a dirottare ogni responsabilità allo Stato; «da qui la minimizzazione quasi assurda di tutto ciò che minaccia al di fuori dell'universo quotidiano, immediatamente percettibile». Tra le minacce «probabili», gli incidenti stradali, le nevrosi, la degradazione della natura. Tra quelle «gravi»: la degradazione della natura, le nevrosi, gli incidenti stradali; e il 54% degli interrogati ha indicato i lavoratori immigrati. Tra le minacce «capaci di mobilitare»: la crisi della famiglia, la degradazione della natura, le nevrosi. La minaccia dei bombardamenti atomici figura, tra le «probabili», con il 19% delle risposte; tra le «gravi», in posizione secondaria. Da un altro questionario risulta che «la paura degli armamenti atomici» è ritenuto il freno alla guerra. Di fronte a questa concezione della paura capace di fermare la paura, di fronte a questo chiudersi nella propria individualità o nel proprio guscio familistico — dai quali si esce solo per affrontare il terrore delle autostrade —, ci sembra che i compiti dell'educazione degli adulti siano ben diversamente determinabili da quelli puri e semplici dell'aggiornamento informativo. Un esempio indicativo, ed estremamente probante, delle linee più complesse sulle quali è possibile muoversi, ci è venuto dalla Conferenza internazionale di Bucarest sui problemi demografici; qui le tendenze «scientifiche» che riflettevano gli interessi del mondo capitalistico sono state sconfitte: «La base per una soluzione effettiva dei problemi della popolazione è soprattutto la trasformazione socio-economica», si dice nel comunicato finale. Ma, senza l'intervento dei paesi socialisti, e degli scienziati di tali paesi,- quali esiti avrebbe avuto la Conferenza? Il neo-malthusianesimo avrebbe visto trionfare non solo le sue opzioni scientifiche, ma le ragioni economiche dell'imperialismo. Nel nostro Paese, un esempio pieno di prospettive — di fronte alla drammaticità di 200 mila ricoverati nei manicomi — ci viene dal movimento degli psichiatri che, nei confronti della «scientificità» giustificante le attuali istituzioni segreganti, sviluppa un'azione tendente a costruire una alternativa scientifica coerente con le aspirazioni alla liberazione dell'uomo, e contro le pratiche della esclusione, della segregazione. Nell’un caso, come nell'altro, sono gli stessi scienziati, una parte della «società degli scienziati», che non solo dimostrano scelte opposte a quelle correnti, ma, in questo loro agire alla luce del sole, socializzano i più ardui problemi scientifici nel riscontro con i problemi strutturali. I compiti dell'educazione degli adulti, rivolta verso il mondo della scienza, sono quindi da intendersi come rivolti a dialettizzare una realtà che altrimenti ci apparirebbe come una monade metafisica. I campi nei quali muoversi -dalla biologia alla genetica alle stesse scienze umane — sono numerosi; ed ognuno richiede una particolarità d'intervento, in relazione alla specificità sociale della scienza stessa. Ma, nonostante le difficoltà, è necessario uscire dalle percezioni individualistiche dei pericoli reali cui andiamo incontro. Il contributo dell'educazione degli adulti può basarsi proprio, attraverso lo sviluppo dell'associazionismo, sul superamento dell'angoscia dei non-scienziati e dei particolarismi degli scienziati. Se, oggi, le aggregazioni intorno ai problemi della degradazione della natura sono in rilevante sviluppo (anche nell'inchiesta francese, questo risulta essere il solo tema rilevato di preminente interesse collettivo), ciò non può certo significare che esso sia in assoluto il più importante; ma che intorno ad esso è stata creata una opinione pubblica; che tale movimento ha sollecitato il costituirsi di associazioni; che dipenderà anche dalla forza e dalla costanza di tali aggregazioni se il movimento potrà affermarsi anche a livello delle decisioni politiche. Per quanto riguarda gli scienziati, il compito dell'educazione degli adulti dovrebbe tendere a rompere i corporativismi, attraverso la sollecitazione al costituirsi di associazioni Pagina 152 di 185 democratiche le quali, con la loro azione sociale, potrebbero rendere percepibili i problemi scientifici nella loro dimensione reale, nella conflittualità — si vuoi dire — degli opposti usi della scienza e della tecnica. 4.1.3 Compito primario dell'ed.degli adulti: lo sviluppo dell'associazionismo Si affermava, in relazione alla specificità educativa della «prassi operaia», che il movimento di educazione degli adulti individua o conferma nello sviluppo dell'associazionismo il proprio compito primario, per «lo sviluppo intellettuale della classe operaia». Per esaminare in quale senso, è necessario riflettere intorno ad alcuni problemi connessi alla tematica, vasta e complessa, dell'associazionismo, in relazione ai problemi educativi dell'età adulta. Una tematica vasta perché, per quanto riguarda l'epoca moderna, risale al Fourier404. Complessa perché abbraccia, da una parte, tutta l'evoluzione storica del movimento operaio e, dall'altra, la storia della società borghese nella quale — per esprimersi con Tocqueville — i «governi» considerano le associazioni politiche «allo stesso modo come i sovrani del Medio Evo guardavano i vassalli: ne rifuggono istintivamente e li combattono ad ogni incontro. In compenso, vi è benevolenza per le associazioni civili, essendosi compreso che esse forniscono distrazioni efficaci dagli affari pubblici, mentre impegnano in iniziative che devono per forza accompagnarsi alla pace sociale»405. È evidente che in un terreno tanto denso ed articolato dove incontriamo, rispetto ai problemi della società industriale capitalistica, l'utopia, la costruzione di un movimento di opposizione e di superamento, l'elaborazione di una società del consenso, in questo territorio — tutt'altro che arato, almeno dalla nostra angolazione — non è agevole muoversi. D'altra parte, se l'educazione degli adulti può acquisire Fourier, come riferimento utopico verso una «società dell'educazione», deve definire i propri compiti nella problematica attuale dell'associazionismo, come campo primario d'intervento. La complessità risiede nel constatare che lo sviluppo dell'associazionismo è un fenomeno contemporaneo, nella società borghese, sia agli strati sociali che tendono a realizzare tale società, sia al proletariato che inizia a contestarne le premesse e il consolidamento. Testimone, negli Stati Uniti, di quel processo fu il Tocqueville: «gli americani di ogni età, di ogni condizione, di ogni livello culturale si uniscono senza posa — notava nel 1831 —. Non solo hanno associazioni commerciali e industriali, delle quali tutti fanno parte, ma ne hanno migliaia d'altra specie, religiose, morali, serie, futili, generali e particolarissime, di immense proporzioni come di minuscola entità. Gli americani — aggiungeva — si associano per organizzare una festa, per fondare un seminario, per costruire un albergo o una chiesa, per divulgare i libri, per inviare missioni fino agli antipodi, per creare ospedali, prigioni e scuole. E si associano anche per mettere in luce una verità o per sviluppare un sentimento necessario appoggiandolo all'esempio di molti. A capo di una nuova impresa, in Francia si trova il governo, in Inghilterra un gran signore: negli Stati Uniti troverete un'associazione»406. 404 Prima nel Traile de l'association domestique et agricole (1822) e poi in Théorie de l'unite universelle (1841, postumo; apparso in traduzione italiana nel 1894), Francois-Marie-Charles Fourier (1772-1837) basa la propria visione sulla realizzazione di un «falansterio» dove, tra gli altri, anche i benefici dello studio sono in comune. Cfr. L'armonia universale, a cura di M. Larizza, Roma, Editori Riuniti, 1971. 405 A. de Tocqueville, La democrazìa in America, Bologna, Cappelli, 1962, pp. 208-209 406 A. de Tocqueville, La democrazìa in America, Bologna, Cappelli, 1962, pp. 205 Pagina 153 di 185 L'associazionismo liberaldemocratico va posto anche in relazione con quanto notava Tocqueville: «Le passioni che agitano più profondamente gli americani sono commerciali e non politiche, o per meglio dire essi trasportano nella politica le abitudini del negozio»407. «La democrazia non offre al popolo il governo più abile, ma fa ciò che il più abile dei governi è spesso incapace di fare; essa diffonde in tutta la compagine sociale un'attività inquieta, una forza sovrabbondante, una energia capace di suscitare prodigi»408. Caratteristiche, queste ultime, che si ritrovano — con altro e opposto senso — nell'analisi della borghesia che Marx e Engels svolgeranno nel Manifesto409. Le prime associazioni operaie, i primi giornali operai hanno origine in analoghe strutture societarie, e pur con le evidenti differenze («Lo sviluppo di una nuova classe, la sua rivolta contro le condizioni di un'esistenza miserabile, sono queste le cause economiche e psicologiche da cui tra il 1830 e il 1836 nasce il movimento operaio»410 in Francia e in Gran Bretagna). Certamente i limiti delle prime aggregazioni dei lavoratori sono rilevanti («il primo terzo del XIX secolo ha visto sorgere numerose coalizioni, nessuna delle quali ha il triplice intento che avranno in seguito: la lotta corporativa per la difesa dei salari e delle condizioni economiche; la rivendicazione del diritto operaio; l'azione creatrice e distruttiva»411; «le categorie professionali che aderiscono alle società operaie non hanno alcun senso della solidarietà operaia. Al contrario sono in preda a continui rancori. L'antagonismo tra le diverse società operaie eguaglia l'ingiustizia con la quale, in ogni società, i compagni trattano gli aspiranti che vengono sottomessi alle più crudeli vessazioni»412. Eppure, già si intravedono altri segni («alcune società di mutuo soccorso si occupano di questioni salariali, istituendo a tale scopo delle Casse ausiliarie che prendono già il nome di Borse. Sotto il pretesto di soccorrere gli operai vittime della disoccupazione, si costituiscono delle vere società di resistenza che sono in generale dipendenti, ma qualche volta indipendenti dalle società di mutuo soccorso»413). Pur nella contemporaneità dello svolgersi del fenomeno, le differenze tra una forma e l'altra di associazionismo sono evidenti. Pur empiricamente, possiamo rilevare che i contenuti sociali, gli scopi delle due forme associative sono opposti; mentre le prime — le «associazioni civili» — tendono ad inserirsi in una «compagine sociale», e a concreare tale «compagine», le cui caratteristiche sono «un'attività inquieta, una forza sovrabbondante, una energia capace di suscitare prodigi», le associazioni operaie tendono alla lotta per la difesa dei salari, alla «rivendicazione del diritto operaio», all'«azione creatrice» di una società utopica e dell'azione «distruttiva» della incipiente e già barbarica società borghese. Sempre empiricamente, possiamo riscontrare storicamente quali esiti abbiano avuto le due forme associative: l'una senza prospettive di fondata risposta alle pur sincere aspirazioni innovative degli organizzatori e membri dei «comitati» ancora oggi in auge negli Stati Uniti (e del «lavoro di comunità» d'ispirazione. statunitense); l'altra, nonostante contraddizioni ed errori, autrice di modificazioni liberatorie nelle strutture, nella base di una società nuova. Ma, esaminando il fenomeno dalle opposte visioni del mondo, possiamo individuare caratteri differenzianti sui quali conviene riflettere. Come nota R. Cavallaro414, riferendo opinioni 407 A. de Tocqueville, La democrazìa in America, Bologna, Cappelli, 1962, pp. 123 A. de Tocqueville, La democrazìa in America, Bologna, Cappelli, 1962, pp. 107 409 Ci siamo soffermati sul «continuo rivoluzionamento della produzione, l'incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali ecc.» nel cap. «La società industriale e l'educazione degli adulti». 410 E. Dolléans, op. cit., vol. I: 1830-1871, p. 21 411 E. Dolléans, op. cit., vol. I: 1830-1871, p. 33 412 E. Dolléans, op. cit., vol. I: 1830-1871, p. 33 413 E. Dolléans, op. cit., vol. I: 1830-1871, p. 33 414 R. Cavallaro, Dall'individualismo al controllo democratico: aspetti del pensiero di Alexis de Tocqueville sull'associazionismo volontario, «La Critica Sociologica» 28, inverno 1973-1974, pp. 99-125 408 Pagina 154 di 185 di S. M. Lipset415 e di L. A. Coser416, «condizione essenziale per una democrazia stabile è il manifestarsi, all'interno di una società, di un "conflitto" nel senso che è necessaria una "tensione" tra forze sociali contrastanti per procedere alla conquista di posizioni di potere e di prestigio. All'interno della società liberaldemocratica di Tocqueville vettori di questi opposti atteggiamenti possono essere considerati i raggruppamenti volontari i quali, insieme all'autogoverno locale, divengono gli istituti necessari a combattere la nascita di uno Stato assoluto, producendo all'interno della società un momento di equilibrio»417. Insomma, in questo quadro, le associazioni sono funzionalizzate, con i conflitti stessi e le tensioni, al permanere di uno status qua; il che è condivisibile per «combattere la nascita di uno Stato assoluto», e cioè per evitare di tornare indietro, ma è meno accettabile quando ci propone di andare avanti. E, infatti, quale dato risultava già al Tocqueville? Che in fondo, queste associazioni, così strumentalizzate dalla società borghese, «invece di dirigere lo spirito dei cittadini verso la cosa pubblica, servono a distrarlo e, interessandoli sempre più in progetti che senza la pace sociale non possono compiersi, lo distolgono dalla rivoluzione». In sostanza, spiega Cavallaro: «La teoria delle associazioni volontarie, che da Tocqueville in poi ha avuto largo seguito e tenaci sostenitori nei fautori di una società liberaldemocratica, ha un tono suggestivo (problema dell'eguaglianza e della libertà), ma a volte tendenzioso, in quanto il controllo democratico (diffusione del potere che le associazioni svolgono), determina una "eguaglianza umanitaria" (cfr. G. Della Volpe: Rousseau e Marx, Bologna 1961, pp. 196-198) che tende a favorire lo sviluppo di forze sociali controllate (come afferma K. Mannheim, la "direzione di conflitti è un metodo speciale per controllare le situazioni"; cfr. Uomo e società in un'età di ricostruzione, Roma 1972, p. 276) in una "democrazia delle illibertà" (cfr. la "Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico" di Marx, in Opere filosofiche giovanili, Roma 1971, e U. Cerroni: Marx e il diritto moderno, Roma 1968)». In conclusione, la constatazione del Tocqueville sulla realtà associativa della società borghese più coerente (e quella che ha prodotto i risultati più colossali), la visione che lo sollecita a dettare che « presso i popoli democratici le associazioni debbano tenere il posto dei privati potenti» che l'eguaglianza delle condizioni ha fatto sparire, tale constatazione e tale visione confermano il ruolo strumentale, distraente, conservativo dell'«associazionismo civile» all'interno di «una struttura societaria ripartita non solo in classi vere e proprie, ma anche in gruppi di classe i quali risolvono spesso ambiguamente i meccanismi del conflitto sociale»418. Peraltro, anche osservando il fenomeno associativo da un opposto progetto societario, bisogna essere consapevoli dei rischi che l'associazionismo corre, pur nascendo da ipotesi oppositive alla società di classe. Ricordiamo quanto scriveva l’Ordine Nuovo nel 1919 (e si riferiva a partiti e sindacati, i pericoli per altre strutture associative sono ben maggiori): «L'associazionismo può e deve essere assunto come il fatto essenziale della Rivoluzione proletaria. Dipendentemente da questa tendenza storica sono sorti nel periodo precedente all'attuale (che possiamo chiamare periodo della prima e seconda Internazionale o periodo di reclutamento) e si sono sviluppati i Partiti Socialisti e i Sindacati professionali. Lo sviluppo di queste istituzioni proletarie e di tutto il movimento proletario in genere non fu però autonomo, non ubbidiva a leggi proprie immanenti nella vita e nella esperienza storica della classe lavoratrice sfruttata. 415 S. M. Lipset, L'uomo e la politica, Milano 1961 L. A. Coser, Le funzioni del conflitto sociale, Milano 1967 417 Cfr., per un'analisi delle «ambiguità di un sistema alto borghese», il saggio di U. Cerroni in «Rinascita» 33, 23 agosto 1974, pp. 16-17 418 Cfr. R. Cavallaro, op. cit., pp. 122-124. 416 Pagina 155 di 185 Le leggi della storia erano dettate dalla classe proprietaria organizzata nello Stato... In questo periodo il movimento proletario fu solo una funzione della libera concorrenza capitalistica. Le istituzioni proletarie dovettero assumere una forma non per legge interna, ma per legge esterna, sotto la pressione formidabile di avvenimenti e di coercizioni dipendenti dalla concorrenza capitalistica». Nonostante tali evenienze, e nonostante tali rischi permanenti, — che L'Ordine Nuovo poneva polemicamente in risalto — l'associazionismo «può e deve essere assunto come il fatto essenziale della Rivoluzione proletaria»; e ciò in quanto «il principio associativo e solidaristico diventa essenziale della classe lavoratrice, muta la psicologia degli operai e contadini. Sorgono — scriveva L'Ordine Nuovo - istituti e organi nei quali questo principio si incarna; sulla base di essi si inizia il processo di sviluppo storico che conduce al Comunismo dei mezzi di produzione e di scambio». In questo senso, la formula «conquista dello Stato» deve essere intesa come «creazione di un nuovo tipo di Stato, generato dalla esperienza associativa della classe proletaria, e sostituzione di esso allo Stato democratico parlamentare»419. Dall'analisi delle analogie, delle opposizioni, delle prospettive delle due forme di associazionismo, ci sembra di poter ricavare l'ipotesi che l'antagonismo tra le «associazioni civili» e le « associazioni operaie » non debba essere ritenuto assoluto e pregiudiziale, ma relativo al processo storico della lotta di classe. L'ipotesi, cioè, che il voler contrapporre le due forme di associazionismo, all'interno della società borghese, tenda a mascherare lo scontro tra proletariato e capitalismo. In realtà, è dall'andamento di tale battaglia che discende la funzione dell'associazionismo, comunque configurato. Laddove prevale, e nella misura in cui prevale, la forza delle strutture borghesi (e della loro educazione), le associazioni legittimano, anche attraverso la loro vita, la loro vivacità, la loro conflittualità, lo status quo. E viceversa: laddove le associazioni non si lasciano addomesticare in funzione conservativa esse riescono a porre in crisi il sistema nel cui seno — e dalle cui deformazioni educative — hanno origine oppositiva. Nel primo caso, le associazioni rafforzano la divisione tra società politica e società civile; nel secondo, sulla base delle determinazioni marxiane, contribuiscono allo svolgersi di un processo che condurrà alla caduta della dicotomia tra sfera politica e sociale. Se, dunque, non fosse riscontrabile antagonismo pregiudiziale tra «associazioni operaie» e «associazioni civili» (e, a maggior ragione, se per altre opinioni tale assoluta contrapposizione fosse un dato acquisito), dovremmo tuttavia definire le differenze tra le due forme; dovremmo — innanzi tutto — individuare quali contenuti scaturiscono dalla diversità della composizione sociale nelle due forme associative. Tali contenuti sono storicamente estraibili dalla capacità di modificazione che hanno dimostrato di possedere le «associazioni operaie», nelle diverse forme in cui sono apparse ed hanno agito: da quelle mutualistiche, a quelle di resistenza, a quelle sindacali, a quelle cooperative fino al partito. Una energia di mutazione — interna ed esterna — che, possiamo dire, tende a rendere esistenti, percepibili e realizzabili le utopie più anticipatrici. Non a caso -vogliamo sottolineare — nello studio storico dell'educazione degli adulti bisogna partire dalle prime società operaie, dalla loro pratica associativa, e non dalle idee individuali, pur se premonitrici, di filosofi o letterati. La constatazione storica di questi contenuti innovativi agenti nelle e dalle «associazioni operaie» ci induce a ritenere, con molta fermezza, che le ambiguità che storicamente hanno agito nelle «associazioni civili» possono essere risolte, nei modi più legittimi, considerando tali 419 La conquista dello Stato, «L'Ordine Nuovo», 12 luglio 1919. Il corsivo è nostro Pagina 156 di 185 associazioni non quali corpi intermedi e separati, esposti — nella stessa misura degli individui al potere delle strutture dominanti, ma come aggregazioni che articolano la loro presenza con la forza del movimento operaio organizzato. In tal senso, la loro funzione — emergente da interessi e aspirazioni non coperte, o non coperte ancora, dalle strutture del movimento operaio — si inquadra nell'impegno ricompositivo della dicotomia tra sfera politica e sfera sociale, acquista, cioè, una valenza politica precisa; e non confonde lo scopo della soddisfazione di una determinata aspirazione con la finalità ultima; non presta il fianco alle capacità riassorbenti delle strutture dominanti. In termini educativi, realizzare nei fatti tale considerazione ipotetica significa — a nostro parere — che l'«associazionismo civile» deve riqualificare le proprie finalità generali, i propri metodi, andando a scuola vorremmo dire — dall'«associazionismo operaio». In questo modo, le «associazioni civili» svolgeranno, o aumenteranno, la loro provvida funzione di humus sociale e culturale, di terreno di pratica associativa, analogamente alla funzione svolta — fin dalle origini — dalle «associazioni operaie». Il movimento operaio, nella sua struttura portante politica, il partito, è consapevole — rispetto alle necessità di autonomia per lo svolgimento delle più diverse istanze, e principalmente di quelle culturali - che non si tratta «di porre limiti alla libertà della ricerca e della espressione artistica e scientifica, ma — come scriveva acutamente L. Gruppi — di aggiungere alla libertà la lotta delle idee e di essere, in questa lotta, i più capaci. Insomma, la funzione d'avanguardia del partito non può essere "decretata" una volta per tutte e poi amministrativamente difesa, ma ogni giorno conquistata nello scontro politico, nella capacità di affrontare e risolvere i problemi»420. In conclusione, si tratta di riconvertire l'«associazionismo civile» (e, in particolare, per quanto ci riguarda, quello educativo, culturale, sociale) diradando l'alone liberaldemocratico che lo avvolge e impegnandosi a inserirlo in una cornice democratica, in questa realtà classista; a noi sembra che soltanto muovendosi in questa direzione sia possibile avvicinarci alla libertà cui aspiriamo, anche attraverso il contributo del lavoro culturale. Se, infatti, L’«associazionismo civile» è stato ed è normalmente in grado di chiamare i gruppi intellettuali, dobbiamo tener presente che «in tutti i paesi, sia pure in misura diversa, esiste una grande frattura tra le masse popolari e i gruppi intellettuali, anche quelli più numerosi e più vicini alla periferia nazionale, come i maestri e i preti. E — aggiungeva Gramsci — che ciò avviene perché, anche dove i governanti ciò affermano a parole, lo Stato come tale non ha una concezione unitaria, coerente e omogenea, per cui i gruppi intellettuali sono disgregati tra strato e strato e nella sfera dello stesso strato»421. Una riconversione delle «associazioni civili» apre, quindi, una possibilità di riaggregazione di potenzialità innovative altrimenti facilmente annientabili. Inoltre, se anche noi ci chiedessimo: «Perché e come si diffondono, diventando popolari, le nuove concezioni del mondo?»422, ed è una questione che in educazione degli adulti non possiamo evitare di considerare, troveremmo risposte pertinenti e significative, anche per quanto riguarda il rapporto nuovo da stabilire tra «associazioni civili» e «associazioni operaie». Gramsci è molto cauto sul «processo di diffusione»423 (afferma che molto spesso si tratta di «combinazione tra il nuovo e il vecchio»; che le masse popolari «più difficilmente mutano di concezioni, e che non le mutano mai, in ogni caso, accettandole nella forma "pura", per dir così, ma solo e sempre come combinazione più o meno eteroclita e bizzarra»424). Nota, comunque, che su tale processo influiscono: la «forma razionale» in cui la concezione è esposta; l'«autorità» dell'espositore, ma, soprattutto «l'appartenere alla stessa 420 L. Gruppi, La funzione dirigente del Partito, in «l'Unità», 2 agosto 1968, p. 3. A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 19. 422 A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 15 e ss. 423 A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 15 e ss. 424 A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 15 e ss. 421 Pagina 157 di 185 organizzazione di chi sostiene la nuova concezione»425; sicché scrive che: «il processo di diffusione delle concezioni nuove avviene per ragioni politiche, cioè in ultima istanza sociali, ma che l'elemento formale, della logica coerenza, l'elemento auto-ritativo e l'elemento organizzativo hanno in questo processo una funzione molto grande subito dopo che l'orientamento generale è avvenuto, sia nei singoli individui che in gruppi numerosi»426. In questo brano dei «quaderni» Gramsci sottolinea altri due elementi che, anche nella nostra sintesi, non possiamo trascurare: primo, che nella «posizione intellettuale di un uomo del popolo»427, l'elemento più importante è la fede «nel gruppo sociale al quale appartiene in quanto la pensa diffusamente come lui»428. Secondo, che «per ogni movimento culturale che tenda a sostituire il senso comune e le vecchie concezioni del mondo in generale», è necessario «lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, cioè per dare personalità all'amorfo elemento di massa, ciò che significa, di lavorare a suscitare élites di intellettuali di un tipo nuovo che sorgano direttamente dalla massa pur rimanendo a contatto con essa per diventare le "stecche" del busto». Questa necessità — conclude Gramsci — «se soddisfatta, è quella che realmente modifica il "panorama ideologico" di un'epoca»429. Decadono, ci sembra, sulla base di tali indicazioni le vetuste funzioni indottrinanti e illuministiche delle «associazioni civili», e culturali, ed il ruolo paternalistico che nel loro seno e dal loro piedistallo svolgevano superati tipi di intellettuali; ed emergono, invece, nuove e preziose funzioni, che postulano la riconversione dell'«associazionismo» non operaio. Impegnandosi nel lavoro di sviluppo di un associazionismo riconsiderato nelle sue prospettive, l'intervento di educazione degli adulti deve tener conto di tre elementi politici che dobbiamo correlare al lavoro culturale. Innanzi tutto, che l'intervento associativo tende a superare «L’assorbimento individuale (affine al consumo) di tutta la somma di conoscenze, capacità e facoltà». Per Marx430, infatti, «ciò che contava era proprio la partecipazione del concreto individuo all'appropriazione e allo sviluppo creativo della cultura accanto a tutti gli altri individui, insieme con essi e per mezzo di essi. Il problema infatti è che l'individuo s'appropri di quel suo contenuto sociale di cui possono appropriarsi soltanto tutti gli individui insieme. Altrimenti quel concreto si priva semplicemente di senso. Perché la sua essenza sta nel suo essere contenuto sociale immediato, "non appropriarle" da parte di alcun individuo se non per mezzo dell'associazione. Perciò — spiega Davydov -non si tratta di appropriarsi di questo contenuto così come, diciamo, nella rivoluzione borghese i contadini "s'appropriano" della terra (trasformando i suoi appezzamenti in proprietà privata d'ogni individuo), ma di mutare la forma sociale, nella quale di esso ci si appropria: si tratta di mutarla da collettività inconscia e naturale in collettività conscia e volontaria». Nella pratica associativa — nelle condizioni strutturali in cui operiamo — questo elemento deve essere tenuto sempre presente; dobbiamo tendere a realizzare nell'associazione un'occasione educativa «nella quale le conoscenze di ogni "altro" individuo siano non il limite, ma una continuazione delle mie conoscenze, e le capacità di ogni "altro" individuo siano non il limite, ma la continuazione delle mie proprie capacità, e le facoltà di ogni altro individuo siano non il limite, ma la continuazione delle mie facoltà individuali». 425 A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 15 e ss. A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 15 e ss. 427 A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 15 e ss. 428 A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 15 e ss. 429 A. Gramsci, Il materialismo storico cit., p. 15 e ss. 430 Cfr. per queste considerazioni J. Davydov, op. cit, pp. 132-134. 426 Pagina 158 di 185 Un altro elemento sul quale riflettere riguarda le motivazioni all'associarsi; considerando il lavoro come termine di riferimento essenziale, dobbiamo tener conto della qualità del «pensiero o sentimento» che emergono e agiscono nelle condizioni lavorative. Nella fabbrica, notava Engels, «l'operaio non svolge un'attività che esiga da lui uno sforzo di pensiero e, d'altro lato, questo tipo di lavoro gli impedisce di occupare la mente con altre cose... In verità non è facile trovare un metodo migliore per inebetire un uomo, di quello che è il lavoro in fabbrica». Come, allora, nonostante questa condizione, la situazione è potuta cambiare e potrà cambiare? Spiegava Engels: «se gli operai di fabbrica sono riusciti tuttavia non soltanto a salvare il loro intelletto, ma a svilupparlo e affinarlo anche più degli altri, ciò è stato possibile soltanto per la loro rivolta contro il destino e contro la borghesia, l'unico pensiero o sentimento che in tutti i casi potevano coltivare durante il lavoro»431. Tale unicità di «pensiero o sentimento» è la base per la costruzione di associazioni volte al cambiamento. Essa non riguarda, soltanto il lavoro in fabbrica, ma, nel tardo capitalismo, ogni condizione lavorativa. Si tratta di rendere socialmente agente questo «pensiero o sentimento», di farlo emergere laddove sia seppellito, di farlo divenire consapevole motivazione; in caso contrario, quando, per esprimersi con Engels, «l'indignazione contro la borghesia non diviene il sentimento predominante nell'operaio, ci troviamo di fronte all'inevitabile conseguenza» che, allora, era l'ubriachezza, che allora, e oggi, è il «rilassamento mentale». È evidente che alla base del rapporto tra associazionismo operaio ed impegno a sviluppare ed affinare il proprio intelletto vi è, e vi è sempre stato, un nesso politico strettissimo; la rilevanza e la qualità di tale nesso deve essere continuamente ricercata, come componente essenziale di un processo educativo nell'età adulta. Dinanzi all'unicità del «pensiero o sentimento» operante nella condizione lavorativa, è chiaro che andrebbe riarticolata la consapevolezza, o la realtà, di altri pensieri o sentimenti agenti in altri momenti e in altre occasioni di relazione. In tal modo, ogni sollecitazione privata può tendere ad assumere una dimensione sociale, ad avere una possibilità di soluzione sociale; e, evidentemente, se non nell'immediato, nel futuro delle generazioni che verranno. In questo senso, l'educazione degli adulti impegnata nel lavoro associativo ci appare nella sua tensione socialmente rieducativa, nella sua cooperazione al superamento di comportamenti scaturiti dalla realtà dei rapporti di produzione capitalistici. Gli operatori culturali non debbono arrestarsi, intimoriti, di fronte alle prospettive generazionali; se il lavoro culturale — come sottolineava del resto Lenin432 - ha tempi diversi da quelli delle trasformazioni strutturali, dobbiamo tener conto del processo, delle valenze educative del processo, della solidità delle acquisizioni di nuove concezioni del mondo. Del resto, la stessa storia dell'associazionismo operaio ci rappresenta i modi di svolgimento della realtà di sviluppo: «Dapprima lottano i singoli operai ad uno ad uno, poi gli operai di una fabbrica, indi quelli di una data categoria in un dato luogo contro il singolo borghese che li sfrutta direttamente... In questo stadio gli operai formano una massa dispersa per tutto il paese e sparpagliata dalla concorrenza. Il loro raggrupparsi in masse non è ancora la conseguenza della loro propria unione, ma è dovuta alla unione della borghesia... Ma con lo sviluppo dell'industria il proletariato non cresce soltanto di numero; esso si addensa in grandi masse, la sua forza va crescendo, e con la forza la coscienza di essa... i conflitti fra singoli operai e borghesi singoli vanno sempre più assumendo il carattere di conflitti fra due classi. 431 432 F. Engels, op. cit., pp. 138-140. Cfr. M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, pp. 236-237 Pagina 159 di 185 È cosi che gli operai incominciano a formare coalizioni contro i borghesi, riunendosi per difendere il loro salario. Essi fondano persine associazioni permanenti per approvvigionarsi per le sollevazioni eventuali... Questa organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico, viene ad ogni istante nuovamente spezzata dalla concorrenza che gli operai si fanno fra loro stessi. Ma essa risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente»433. Rispetto a questo svolgimento — che oggi ci appare nel suo travolgente andamento esponenziale, ma che ai contemporanei apparve nella drammaticità quotidiana delle difficoltà e delle lotte —, l'educazione degli adulti deve considerare il processo nella sua globalità, più che nei suoi momenti: «II vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma l'unione sempre più estesa degli operai»434. Il controllo del processo associativo costituisce un'opportunità educativa densa di significati; si tratta, infatti, di valutare l'esperienza associativa come un addestramento a passare dalla naturalità dei rapporti tra gli uomini alla volontarietà. «Gli individui — si legge nell'Ideologia tedesca — sono sempre e in ogni circostanza "partiti da se stessi", ma poiché non erano unici nel senso di non aver necessità di relazioni reciproche, poiché i loro bisogni, e quindi la loro natura e il modo di soddisfarli, li metteva in relazione tra di loro... essi dovettero entrare in rapporti... che a loro volta determinavano la produzione e i bisogni» e «fu proprio la condotta personale... che creò e che ricrea ogni giorno i rapporti esistenti... Da ciò indubbiamente risulta che lo sviluppo di un individuo è condizionato dallo sviluppo di tutti gli altri, con i quali egli è in rapporto diretto o indiretto... »435. In una società nella quale la vita di relazione è estremamente frantumata, se non impedita dalle condizioni materiali (gli spostamenti di popolazione, la realtà dell'urbanesimo, il pendolarismo, la televisione, la motorizzazione e — soprattutto — l'accresciuta tensione sul lavoro), l'associazionismo, anche come controllo sociale sulla «condotta personale», può contribuire a rendere palese la ricchezza del rapporto umano, della comunità umana, e delle loro valenze educative. Nelle condizioni di vita della società industriale capitalistica, dobbiamo riflettere alle scelte di campo dell'associazionismo. In generale, siamo sollecitati alla settorialità dell'intervento (ad es. nel campo della «ricreazione» o del cosiddetto «tempo libero»). L'educazione degli adulti, consapevole delle valenze politiche di ogni e qualsiasi esperienza associativa, non deve accettare questa spinta alla settorializzazione; deve impegnarsi nel ricondurre ad unità le diverse e svariate occasioni di divertimento. E, soprattutto nel caso di attività di scarsa rilevanza intrinseca, tendere a superare la mera soddisfazione ai bisogni primari della distensione e dello svago. Il lavoro culturale dovrebbe proporsi di superare la settorialità — una sorta di divisione dei compiti nel tempo extralavorativo — attraverso una intensificazione della vita associativa (anche con i suoi scontri, auspicabili); l'unità, infatti, alla quale ricondurre costantemente e testardamente la singola attività (e la considerazione dei suoi affezionati) è quella dell'esistenza dell'associazione. Senza tale persistenza del segno associativo, senza tale chiamata alla corresponsabilità, la singola attività settoriale trascina, o rischia di trascinare, nella palude della provvisorietà il complesso delle attività dell'associazione, ovvero l'associazione nel suo complesso articolarsi. Superare la settorialità significa rifiutare il configurarsi dell'associazione come gestione di un servizio nel cui esercizio ritornano e si consolidano il costume e l'atteggiamento consumistico; vogliamo dire che, se nell'attuale realtà sarebbe assurdo pensare ad isole 433 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 68 ss 434 K.Marx-F.Engels, Manifesto del Partito comunista, Introduzione di P.Togliatti, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 70 435 K. Marx-F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma, Editori Riuniti,1967, p. 429. Pagina 160 di 185 economi-che, è vero anche che il valore dell'associazione (e del «principio associativo») non può essere ridotto alla mercificazione. Non dobbiamo pensare, infatti, che le scelte di campo del lavoro associativo possano essere aprioristiche, corrispondenti alla spinta che l'operatore culturale riceve dal proprio livello di scolarizzazione, dalle occasioni culturali di cui usufruisce, dalle condizioni in cui vive, dagli interessi politici che nutre. Esse devono corrispondere allo « stadio di sviluppo raggiunto dalla coscienza popolare», devono corrispondere ad una realtà che non può essere stravolta; soltanto a queste condizioni, è possibile operare per far «avvertire al popolo più vivamente i suoi bisogni», come si esprime Borghi436. Non è quindi la singola attività intrinsecamente povera che può o deve suscitare apprensione; ma l'accettazione incosciente della sua settorialità, dell'offerta commerciale del servizio, la sua sostanziale estrapolazione dalle finalità associative (dalla pratica associativa) che debbono preoccuparci. Le riflessioni di Togliatti437 sul «Dopolavoro» fascista mantengono, a nostro parere, tutta la loro attualità rispetto a questi problemi. D'altro canto, la sostanza politica del lavoro di educazione degli adulti si può risolvere nell'associazionismo attribuendo un valore di cultura critica alle iniziative che organizziamo rispetto alle più diverse esigenze. Non essendoci concesso pregiudizialmente di poter scegliere, nelle più diverse situazioni e zone, il «pacifico lavoro organizzativo "culturale"»; né di poter spostare il «centro di gravità»438 del nostro intervento nei vari campi dell'associazionismo; dovendo — anzi — tendere a coprire tutti gli spazi vuoti, o quelli riempiti di vecchio; volendo tener conto delle inclinazioni individuali o di gruppi ristretti, delle necessità cronologiche, e di mille contingenze, l'unico modo per poter superare l'atomizzazione e lo sconcerto rispetto alle grandi scelte globali è quello di nutrire di cultura critica l'impostazione e la realizzazione di ogni attività. Se tale attribuzione è, a livello individuale, di enorme se non insuperabile difficoltà (richiede, infatti, un controllo e una capacità raramente presenti), a livello associativo, nel reciproco controllo del lavoro collettivo, leggere criticamente la realtà che ci circonda, anche quella meno espressiva, diviene un esercizio culturale non solo realizzabile, ma capace di arriccchirci anche attraverso le occasioni di vita più alone e sorde. Tale attribuzione di cultura critica, peraltro, si articola con quel controllo sui processi formativi che è uno degli scopi principali dell'educazione degli adulti. Per valutare le capacità educative, e le direzioni educative, dello stare insieme, delle associazioni meno riconoscibili da un punto di vista «culturale», dobbiamo saper valutare — prendendo esempio dall'associazionismo operaio — la coerenza interna di tali occasioni, una coerenza talmente profonda tra fini e mezzi che esalta ogni momento dell'esistenza collettiva. Vi è una pagina molto nota di Marx in proposito: «Quando operai comunisti si riuniscono — egli racconta —, loro scopo è innanzi tutto la dottrina, la propaganda ecc. Ma al tempo stesso acquistano con ciò un nuovo bisogno, il bisogno della società, e quel che appare un mezzo diventa uno scopo. Questo movimento pratico lo si vede nei suoi risultati più stupendi quando si osservano degli ouvriers socialisti francesi riuniti. Fumare, bere, mangiare, ecc. non sono più ivi mezzi di unione o associativi: l'amore, l'unione, la conversazione, che la loro società ha per scopo, bastano loro, la fraternità umana non è una frase, ma la verità presso di loro, e la nobiltà dell'umanità ci splende incontro da quelle figure indurite dal lavoro»439. 436 L. Borghi, Educazione e sviluppo sociale cit., p. 172. Cfr. Lezioni sul fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 97 ss 438 M. A. Manacorda, II marxismo e l'educazione, Roma, Armando, 1964, vol. I, p. 246 439 K. Marx, Opere filosofiche giovanili, traduzione e note di G. della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 242. 437 Pagina 161 di 185 La nostra attenzione deve essere rivolta a questo «movimento pratico» che, spesso, nello svolgersi della vita associativa, è più importante dello stesso scopo sociale. Un altro aspetto significativo per valutare la rilevanza politica del movimento associativo, nei più diversi campi, è la inclinazione al cambiamento; non si tratta di un'equazione, ma, ripetiamo, di una tensione che contraddistingue le associazioni democratiche. Nessuno — infatti — potrebbe affermare che tutte le associazioni (o ciascuna nei diversi momenti della propria esistenza) posseggano ed usino le chiavi miracolose dell'innovazione per il fatto stesso di esistere; tuttavia è rilevabile che, proprio per il fatto di esistere, esse danno luogo a processi educativi per ciascuno dei suoi membri. Gli incontri e gli scontri che avvengono all'interno dell'associazione conducono, nella loro occasione formativa, a riflettere, a riesaminare, a voler conoscere, a cambiare. Sarebbe interessante una ricerca sulle occasioni formative che hanno contribuito a maturare, a sollecitare verso scelte più precise, verso assunzioni di responsabilità; ognuno di noi, probabilmente, ritroverebbe un'associazione, magari modesta culturalmente o politicamente, eppure rivelatasi più capace di arricchirci di altre agenzie educative (dalla scuola alla famiglia). Ma, al di là del riferimento ai processi di sviluppo individuale, ci sembra che le associazioni — nel loro nascere, scindersi, confutarsi reciprocamente, deperire, accrescersi — operino attraverso un «movimento pratico» che, nel complesso, accresce la società di una consapevolezza che, alla distanza, darà i suoi frutti. Infine, un ultima osservazione sulla rilevanza del rapporto tra lavoro associativo e ceti medi, questione440 che riguarda «l'intero schieramento democratico e antifascista» in quanto nel nostro paese non è «pensabile un allargamento del fronte unitario di lotta senza la diretta partecipazione della maggioranza di questi ceti». Mentre nel campo economico, la presenza di «un forte movimento cooperativo, di organizzazioni sindacali, autonome e unitarie degli esercenti e degli artigiani, di associazioni consortili che accomunano il settore agricolo al commerciale, testimonia delle possibilità concrete che questi ceti hanno di dar vita e prospettive, insieme al movimento operaio, a forme nuove e originali di gestione economica non vincolate e in contrapposto al potere monopolistico», nel campo culturale l'associazionismo deve produrre i risultati intensi che potenzialmente può generare. Nel campo della produzione, si rileva attualmente un impegno della Lega delle Cooperative, verso la costituzione di cooperative di scrittori, di cineasti. Molto è possibile realizzare in questo e nei campi della distribuzione e del consumo. Data la situazione italiana, caratterizzata dalla presenza di una così vasta fascia di strati intermedi, e considerato che «si tratta — come diceva Togliatti — di un lavoro complesso, un tema difficile, un impegno di non poco conto», l'impegno associativo del movimento di educazione degli adulti può andare incontro alle multiformi esigenze, alle aspirazioni di un ceto medio bombardato dalla pressione educativa agente nell'ambiente, con scarse possibilità di recupero nella realtà del lavoro. Sviluppo dell'associazionismo significa incrementare le occasioni d'innovazione, moltiplicare la conoscenza delle opzioni possibili, offrire — soprattutto — la possibilità di una «pratica associativa» che, altrimenti, non esisterebbe. Lo sviluppo del movimento operaio, basato su tale pratica, deve insegnarci qualcosa per il nostro lavoro educativo. 4.1.4 Prospettive dell'educazione degli adulti 440 Cfr. il commento di D. Rinaldi («l'Unità», 22 settembre 1973) alla ristampa di una conferenza di Togliatti (La questione dei ceti medi, Roma, Editori Riuniti, 1973). Pagina 162 di 185 Le prospettive dell'educazione degli adulti sono strettamente legate ai problemi di crescita del nostro Paese; sono organicamente connesse allo sviluppo e all'affermazione del movimento operaio italiano e internazionale. Dall'esame dei problemi, quel legame e, soprattutto, questa connessione, sono chiaramente emersi. Ma, almeno nel nostro campo, vi è sempre stata una piena consapevolezza di tale relazione organica? Vi è sempre stata nelle strutture organizzative del movimento operaio una conoscenza delle questioni e delle potenzialità dell'educazione degli adulti? Altrove, abbiamo accennato al nostro ritardo nell'acquisizione di essenziali rapporti, o nella pratica di tale acquisizione. Sul piano educativo, è ancora problematica la conquista dell'«intrinseco rapporto che unisce la scuola alla società». «Affermato — osservava Borghi — fin dalla fine del secolo XIX a proposito dell'educazione dei fanciulli, esso ha tardato a trovare riconoscimento nel campo dell'educazione degli adulti. Ma anche nell'ambito dell'educazione scolastica la sua affermazione è stata per lungo tempo principalmente teorica. Soltanto negli ultimi anni, sotto la spinta dell'esplosione scolastica dovuta alla richiesta di educazione da parte dell'intera società, si è diffuso il convincimento che i modi di essere e di svilupparsi degli individui sono in rapporto di reciproca dipendenza coi modi d'essere e di svilupparsi della vita sociale e che la soluzione dei problemi sociali riveste di per sé una profonda portata educativa. Vorrei insistere — soggiungeva Borghi -sulla portata formativa di un'educazione che ponga l'accento sulle prospettive dello sviluppo e della trasformazione dei modi d'essere della società»441. L'educazione degli adulti, dunque, deve trarre le conseguenze dalla consapevolezza di questo rapporto al cui positivo sviluppo essa può contribuire in un settore, quale quello culturale, che oggi ha assunto «una dimensione di massa»442, uno spessore mai conosciuto in Italia, e, quindi, un rilievo globalmente politico, prima che educativo in senso stretto. Non a caso «i problemi della scuola» dal primo posto nella politica culturale sono stati portati a uno dei primi posti nella politica generale del Pci. Non a caso «il problema del rapporto classe operaia-forze intellettuali è ormai all'ordine del giorno della politica dei partiti comunisti dell'Europa occidentale»443. Non a caso i temi della politica culturale sono in primo piano in tutta la sinistra europea (basta pensare al programma Mitterrand). Non a caso, Napolitano rileva che l'«esigenza che le forze più sensibili impegnate in questo campo profondamente avvertono è quella di un rapporto reale con le masse lavoratrici e popolari, con un pubblico nuovo, che sappia farsi protagonista attivo e consapevole della vita culturale del paese. È la ricerca di questo rapporto che va favorita e valorizzata...»444. L'impegno che il movimento di educazione degli adulti ha oscuramente e modestamente dedicato ai temi dello sviluppo culturale e, nei momenti migliori, allo «sviluppo 441 L. Borghi, Aspetti e problemi dell'educazione degli adulti in Italia oggi, relazione al Convegno italo-sovietico sul tempo libero, Mosca, 14-16 aprile 1969; in «La Cultura Popolare», 2-3, giugno 1969, p. 96. 442 G. Napolitano, Sul problema della direzione culturale, in «Rinascita», 44, 9 novembre 1973, pp. 19-20: in una definizione chiara quanto esplicita e coerente dei problemi, Napolitano osserva che il contesto del lavoro culturale oggi è cambiato sotto due profili: «sotto il profilo dell'espansione e del mutamento di natura del lavoro intellettuale e degli strati intellettuali, e sotto il profilo di una radicale rottura — a seguito dei processi di secolarizzazione, di diffusione della TV, di dilatazione dell'attività editoriale — dai limiti entro cui si svolgeva ancora negli anni cinquanta la vita culturale». 443 G. Napolitano, Sul problema della direzione culturale, in «Rinascita», 44, 9 novembre 1973, pp. 19-20 444 G. Napolitano, Sul problema della direzione culturale, in «Rinascita», 44, 9 novembre 1973, pp. 19-20 Pagina 163 di 185 intellettuale della classe operaia» può coagularsi in un contributo specifico, sulla base delle proprie esperienze, proprio nell'ambito dell'esigenza in parola. Se si ritiene che sia «venuto il momento di eliminare l'impressione che il partito consideri compito della propria politica culturale solo la lotta per la libertà di espressione e quella per la riforma delle istituzioni culturali» e che, tra i nuovi impegni del movimento operaio, si affermi quello di favorire e valorizzare la ricerca di un rapporto reale con un pubblico nuovo, è da ritenere che per il movimento di educazione degli adulti sia giunto il momento di uscire dalla ricerca «di tecnica culturale» di tale rapporto e di sviluppare una ricerca «di politica culturale»445. Soltanto così sarà possibile, per noi operatori culturali, estendere, qualificandolo, il nostro lavoro in risposta a quella «dimensione di massa» della questione culturale che, a differenza di precedenti periodi, ha acquisito una valenza politica primaria. Se un tempo, in condizioni di estrema arretratezza culturale del Paese, gli operatori dell'educazione degli adulti apparivano, e non per .loro colpa, come missionari in un deserto, oggi la consapevolezza diffusa dell'«intrinseco rapporto» tra «modi di essere e di svilupparsi degli individui» e «modi d'essere e di svilupparsi della vita sociale», la certezza sulla «portata formativa di un'educazione che ponga l'accento sulle prospettive dello sviluppo e della trasformazione dei modi d'essere della società », possono realizzare un'unità di forze capace di accelerare quello .«sviluppo intellettuale della classe operaia» nel quale Marx «confidava unicamente ed esclusivamente» per «la vittoria finale delle tesi enunciate nel Manifesto». La realizzazione di tale unità è tra le nostre maggiori responsabilità, se è vero, come anche noi riteniamo con De Bartolomeis, che «in fondo non è difficile dire che cosa dovrebbe mutare; è difficile invece individuare e coalizzare le forze in grado di lavorare per il mutamento»446. I problemi di crescita del Paese sono riscontrabili, rispetto alla fase di attuazione della Costituzione; come è stato rilevato, «completatasi ormai la fase di istituzione degli organi previsti dalla Costituzione (ultime le Regioni), la nuova fase di crescita della Repubblica non può non essere condizionata dal tipo di modello (liberal-democratico, autoritario-corporativo, socialista) che le varie forze politiche e sociali sapranno elaborare e riusciranno ad avallare con il consenso popolare»447. Rispetto al rapporto Stato-società civile, e in relazione ai problemi dell'associazionismo come compito primario dell'educazione degli adulti, la Costituzione «ha tentato di dare al problema una risposta avanzata nel senso della democrazia attraverso: il pluralismo nell'organizzazione politica e sociale, la subordinazione della proprietà privata all'interesse pubblico, il riconoscimento della necessità di «rimuovere tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese»; l'introduzione del concetto di "persona" in luogo del tradizionale concetto di individuo»448; (e, ci sembra importante aggiungere, l'introduzione del concetto di «lavoratori» in luogo di «cittadini»). Il concetto di persona, continua Brienza: «è particolarmente interessante, soprattutto in tema di associazionismo. Nel concetto di "persona" — infatti — è implicito (al di là delle diverse motivazioni ideologiche che ne hanno permesso l'ingresso nel testo costituzionale) il riconoscimento che lo sviluppo della personalità del cittadino è un'operazione sociale, non soltanto nel senso che dipende in gran parte dal contesto sociale in cui il cittadino vive ed agisce, ma anche nel senso 445 A. Gramsci, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura cit., p. 139. F. De Bartolomeis, Scuola a tempo pieno, Feltrinelli, Milano, 1972, p. 15. 447 U. Cerroni, Istituzioni e partiti nella Repubblica probabile, in «Rinasccita» 34, 1° settembre 1972, pp. 21-22. 448 R. Brienza, L'associazionismo, relazione al VII Congresso dell'Unione Italiana della Cultura Popolare e della Federazione Italiana Biblioteche Popolari, Roma, 8-10 dicembre 1967; in «La Cultura Popolare», 1,1968. pp. 4041. 446 Pagina 164 di 185 che la completa realizzazione della sua personalità interessa ed avvantaggia la comunità nazionale. Il riconoscimento di questo dato, proprio perché immanente alla nostra realtà, potrebbe sembrare ovvio e scontato, ma la sua incorporazione nel testo Costituzionale ha un significato preciso. Innanzi tutto viene ribadito il dovere dello Stato di assicurare ad ognuno, in tutti i momenti dell'esistenza, situazioni ed opportunità pienamente confacenti al rispetto della dignità ed allo sviluppo della personalità umana. In secondo luogo viene riconosciuto che l'area del "pubblico" si estende ormai in ambiti tradizionalmente "privati" e si pone il problema di definire i compiti ed il ruolo che — al suo interno — spettano al "potere pubblico" e quelli che appartengono, invece, all'azione volontaria e spontanea della società civile»449. Nella battaglia per la definizione di tali compiti e di tale ruolo si possono individuare, e concretizzare, le prospettive di lavoro dell'educazione degli adulti. Innanzi tutto per quanto riguarda l'ambito (e, cioè, dentro al movimento operaio organizzato; e, fuori, nella società); in secondo luogo, per quanto interessa le funzioni che essa tende a svolgere rispetto ai processi formativi in atto e rispetto alle istituzioni e strutture culturali. Sul lavoro nell'ambito del movimento operaio, l'educazione degli adulti deve contribuire all'impegno teso ad « espandere le forme nuove della democrazia dentro al movimento proprio perché questo diventa sempre di più un modo di farle crescere e di imporle fuori del movimento e cioè nello Stato stesso»450. E, in proposito, deve trovare i modi per articolare un rapporto organico con le strutture organizzative del movimento operaio, con la finalità di passare criticamente il patrimonio di esperienze acquisite nel passato, e di svilupparlo entro nuove dimensioni. Circa l'intervento nella società nel suo complesso, abbiamo sottolineato la priorità del lavoro associativo tra i compiti dell'educazione degli adulti. Ma, dobbiamo chiederci, con quali funzioni specifiche e proprie, tali da caratterizzare le prospettive d'intervento dell'educazione degli adulti nei prossimi anni? Cercheremo di pun-tualizzare, anche a costo di apparire schematici, quale contributo è ricavabile dall'intervento educativo nell'età adulta sia nello sviluppo dell'associazionismo, sia nelle associazioni, sia nelle istituzioni educative e culturali pubbliche, e per la creazione di tali strutture. L'educazione degli adulti si inserisce nell'ambito del controllo operaio, nella tensione al controllo sociale, che caratterizza il movimento democratico e popolare nei confronti degli effetti plurimi, complessi, mistificati degli attuali rapporti di produzione, della distribuzione del potere, dell'organizzazione classista, funzionale alla proprietà privata dei mezzi di produzione, e delle caratteristiche che tali effetti assumono nel luogo di lavoro, nella scuola, nell'uso degli strumenti pubblici di comunicazione, nella scienza e nella tecnica, nella vita quotidiana. Un controllo sociale che equivale — nelle diverse occasioni, fasi, zone — alla difesa degli interessi immediati delle classi popolari, alla tutela delle libertà democratiche sempre rimesse in discussione e rosicchiate, alla salvaguardia delle istituzioni conquistate con la lotta antifascista e con la Resistenza, alla costruzione di organismi associativi in grado di affrontare il senso gerarchico e verticistico ereditato dalla vecchia cultura, alla elaborazione dei fondamenti di una società basata sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e, per quanto ci riguarda, di formazione. 449 «Non già — continua Cerroni (U. Cerroni, Istituzioni e partiti nella Repubblica probabile, in «Rinascita» 34, 1° settembre 1972, pp. 21-22) — perché si debba "prefigurare" nel partito l'immagine dello Stato nuovo di domani (questa è soltanto una vezzosa fantasia da esteti della politica), ma perché lo Stato di domani — il probabile volto politico dell'Italia socialista — è condizionato proprio dalla crescita odierna del movimento socialista organizzato». 450 U. Cerroni, Istituzioni e partiti nella Repubblica probabile, in «Rinascita» 34, 1° settembre 1972, p p. 21-22 Pagina 165 di 185 Quanto dire, un controllo della classe operaia sulla produzione, sullo scambio, sulla distribuzione, sul consumo e, ancora, sulla formazione, come sovrastruttura che mai, come in questi anni — e sempre di più nel futuro —, interagisce — e interagirà — con i rapporti economici. O, per meglio dire, che ieri si svolgeva attraverso modi e agenzie (dalla Chiesa alle forme feudali di dominio) che oggi ci appaiono controllabili; e che attualmente si manifesta attraverso agenzie, metodi, strumenti che non sempre — o sempre meno — impongono l'assenso con le armi o con il terrore dell'inferno, ma tendono a farci introiettare la scoperta, il piacere del consenso. Organicamente in rapporto con le strutture organizzative del movimento operaio e democratico che attuano, e tendono a realizzare sempre più incisivamente, il controllo sociale sulla produzione — e su tutti i momenti all'interno della globalità produttiva —, l'educazione degli adulti si è proposta, e intende realizzare sempre più intensamente ed estensivamente, un controllo sui processi formativi. Intendiamo sottolineare l'esigenza di una estensione dell'intervento di educazione degli adulti nel senso che non bisogna attribuire tale responsabilità solo all'intervento educativo in senso stretto delle associazioni, degli enti, degli organismi operanti nel settore. È necessario, a nostro parere, e ci sembra scaturisca chiaramente dalle precedenti pagine, che il controllo sulla dimensione educativa della realtà di fabbrica o dello scontro politico o della più laconica realtà quotidiana venga assunto dalle stesse forze associative primarie (i partiti, i sindacati). Di fronte ad una situazione sociale in cui le vie del consenso sono infinite, sarebbe impropria (e storicamente superata) una delega. Tanto più che tale delega, affidata piattamente, spingerebbe le istituzioni specializzate a rifugiarsi nelle vecchie pratiche, magari aggiornate, del «rimedio», dell'educazione degli adulti settorializzata alla «diffusione culturale», ali'«elevamento della cultura». Ciò, storicamente, si è già verificato; e non è stato molto utile e produttivo per il movimento. Da una socializzazione delle responsabilità dei problemi educativi dell'età adulta, da una compenetrazione di interventi diretti e indiretti, lo stesso lavoro delle istituzioni più antiche riceverebbe una spinta al cambiamento, all'adeguamento alle nuove necessità. Il progetto dell'«educazione permanente», come idea-forza che a livello internazionale ha messo in movimento le strutture più stanche, si può realizzare seriamente, e come avvio alla «società dell'educazione», soltanto se l'impegno sui problemi educativi si estende: dalla riforma del sistema scolastico alla rivoluzione del sistema formativo. Sembrano parole grosse, queste; ma, come abbiamo visto451, se le stesse strutture dominanti sono pronte o obbligate a cambiare tutto pur di non modificare nulla, forse la miglior difesa è ancora una volta l'attacco. Ma una offensiva che — appunto — deve essere complessiva per avere speranze di vittoria. Non è un compito facile questo controllo sociale sulla formazione; non si tratta di un aumento di salario o dell'approvazione di una legge di cui è immediatamente valutabile la portata. I risultati si vedono alla distanza; talvolta relativamente ravvicinata (ad esempio, l'esito del referendum sul divorzio, evento sul quale è necessario insistere proprio per le valenze educative e gli insegnamenti che contiene), talaltra distanziata, ed estremamente distanziata, tanto da far perdere perfino le tracce (la partecipazione ad una manifestazione, un articolo di Gramsci, una poesia di Brecht, la discussione in un'assemblea; o, per converso, una trasmissione televisiva, uno scontro tra amici che non abbiamo compreso) dell'influenza educativa sui nostri atteggiamenti e comportamenti attuali. Ma proprio questa difficoltà comporta un maggiore sforzo; perché è in queste angustie che s'inserisce di prepotenza l'influenza delle forze economicamente prevalenti. 451 Cfr. il capitolo «La scuola nel rapporto tra produzione e formazione». Pagina 166 di 185 Per riflettere, analiticamente, sulle difficoltà relative al controllo sociale della formazione, sarebbe sbagliato — a nostro avviso — esaminare partitamente: da una parte il controllo sociale sui processi formativi in atto nelle realtà non direttamente formative; e, dall'altra, il controllo sociale sulle strutture, occasioni, strumenti direttamente formativi. Si tratterebbe di una distinzione comoda, ma schematica, nella misura in cui abbiamo acquisito che esiste ed opera un «intrinseco rapporto» tra «scuola dell'adulto» e «società educante» (usiamo la dizione in senso fenomenico). Una analisi fondata può essere iniziata e incrementata in relazione ai problemi di gestione dei processi formativi, nella dialettica che — anche in tale momento — oppone forze dell'innovazione e forze della conservazione, nella lotta che impegna i due fronti nella gestione del senso educativo delle realtà formative di fatto (nella fabbrica, nell'ambiente), e di quelle formative per principio (nella scuola, nella biblioteca). Il problema, infatti, non è di andare a scoprire se una determinata realtà contenga o non contenga valenze educative, ma rilevare di quale segno sia la realtà educativa operante, per realizzare un effettivo controllo sociale. Per noi operatori culturali, è di primario rilievo riscontrare le direzioni della realtà formativa di fatto; e non solo perché è quella che meno conosciamo, ma, soprattutto è quella che è più ricca d'insegnamenti per comprendere il rapporto tra agenzie del potere ed educazione. Ci riferiamo, in primo luogo, alla realtà di fabbrica dove non rinveniamo mai il bengodi pedagogico che talvolta elaboriamo per la scuola o per la biblioteca; ma l'incarnazione degli scontri che ci viene chiesto — normalmente — di lasciar fuori dell'istituzione formativa, per non turbare, magari, il commercio di una cultura disinteressata, per ragionare in modo distaccato dalle passioni sociali del tempo. L'educazione degli adulti, nata nel mondo del lavoro, deve tornare al lavoro. In due accezioni. Innanzi tutto per iniziativa delle strutture operaie (Consigli di fabbrica, Consigli di zona, sindacati) allo scopo di far emergere più nitidamente le valenze educative della organizzazione del lavoro, come dire allo scopo di approfondire la conoscenza dei modi di formazione della coscienza operaia sul posto di lavoro e acquistare forza non solo nella lotta per il controllo della produzione, ma per la gestione dei processi formativi che l'organizzazione scientifica padronale tende continuamente a recuperare per poter imporre, nel modo meno percepibile, nuovi processi di produzione (e nuovi processi educativi). Non alludiamo al comportamento del capitalismo meno agguerrito che ricorre al «lavoro nero» delle prestazioni a domicilio e straordinario o alla costituzione di aziende di comodo che lavorano su commessa. Ma a quello che pratica, nei modi più aggiornati, le «relazioni umane» (quelle relazioni, cioè, tra operai e padroni «non regolamentate e che cosi assumono un carattere morale e psicologico»452), con tendenza — molto debole finora in Italia — a realizzare modelli svedesi: la fabbrica Volvo di Kalmar, un modello di persuasione per gli operai ad accontentarsi di livelli più alti di razionalizzazione nel mercato della forza-lavoro e nell'uso intellettuale di tale forza. Nei confronti di tali propensioni — che vanno interpretate come risposte padronali alle nuove forme di lotta, «finalizzate alla ricostituzione di un potere di controllo ed in definitiva alla riaffermazione alla supremazia, anche ideologica, della classe dominante»453, è utile tener conto che tutte le azioni innovative del padronato nel campo della ricerca, delle nuove tecnologie, dei mutamenti nella divisione del lavoro rifluiscono, nella formazione o hanno, come denominatore comune, la formazione. Non a caso proprio in questo settore base, vengono rilevate454 diverse iniziative: nel settore privato, l'istituzione di centri aziendali per la formazione dei quadri (nella Fiat, nella Olivetti, nella Montedison, nella Pirelli) e iniziative di formazione su problemi aziendali (Iseo, 452 N. Bogomolova, La théorie des «relations humaines»: instrument idéologique des monopoles, Mosca, Éditions du Progrès, 1974, p. 4 453 F. Chiaromonte, Sta già crescendo un'avanguardia operaia?, in «Rinascita», 15, 12 aprile 1974, pp. 12-13. 454 F. Chiaromonte, Sta già crescendo un'avanguardia operaia?, in «Rinascita», 15, 12 aprile 1974, p. 13. Pagina 167 di 185 Cegos, Forrad); nel settore a partecipazione statale, lo sviluppo dell'Ifap per le aziende Iri e la ricostituzione dello lafe dell'Eni. Strettamente collegata alla formazione, la ricerca, sia nel settore privato, come in quelli della partecipazione statale e pubblica, dove si riscontra il potenziamento di uffici per le ricerche di sociologia del lavoro, per lo studio delle «nuove forme» di progettazione e di organizzazione del lavoro, di insegnamenti riguardanti i problemi dell'organizzazione del lavoro, dei conflitti industriali. Se è vero, come sottolinea Chiaromonte, che «la forza-lavoro che il capitale utilizza in questi istituti (gli intellettuali che gestiscono queste attività) sta in una sua parte consistente rifiutando un ruolo di subordinazione e quindi di semplice trasmissione delle ideologie capitalistiche per rivendicare una propria autonomia scientifica e scoprire in tal modo la necessità di un proprio collegamento organico con la classe operaia» e, quindi, si verifica che «la cultura aziendale e organizzativa che questi intellettuali trasmettono ai quadri è spesso un fatto di demistificazione e di "crescita politica" in senso lato»455, è anche fondata la necessità, come aggiunge Chiaromonte, che «il sindacato eserciti un attento controllo per evitare che la "doppia valenza", caratteristica di queste tecniche organizzative, si risolva in un vantaggio per il padrone»456. Nell'esercizio di questo controllo — che andrebbe intensificato non solo, o non tanto, nel momento isolato della formazione, quanto sui rapporti tra formazione e applicazione di nuove tecnologie, tra formazione e mutamenti nella divisione del lavoro, cioè sugli effetti della formazione nella realtà produttiva di fabbrica — l'utilizzazione dell'educazione degli adulti, del suo patrimonio come del nuovo e diverso da costruire sulle passate esperienze, è un elemento da considerare. Nel senso, ci sembra, che questo concetto e questa pratica potrebbero contribuire a rovesciare l'uso «aziendale» della sociologia, della psicologia e, in generale, delle scienze umane, disvelandone la reale funzione educativa. L'educazione degli adulti, insomma, anticiperebbe i risultati applicativi degli studi sulle risorse umane o sui conflitti opponendo sia una cognizione degli effetti strumentalmente formativi, sia pratiche di risposta educativa agli studi commissionati dalla parte padronale. La seconda accezione dell'auspicato e indispensabile ritorno dell'educazione degli adulti alla realtà del lavoro riguarda gli operatori culturali. Oltre agli insegnamenti generali ricavabili dalla realtà della fabbrica, dobbiamo tener conto di alcuni aspetti educativi della condizione operaia, particolarmente significativi per noi. Ci riferiamo al rapporto tra defraudazione dell'intellettualità e riappropriazione della socialità che opera nella produzione industriale. Per spiegarci, da una parte abbiamo l'assoggettamento alla macchina, le mansioni ripetitive, le operazioni parcellizzate, la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale con tutte le caratteristiche dequalificanti ben note che privano l'operaio dell'intellettualità del suo lavoro quotidiano e, alla lunga, non possono non incidere sulla sua personalità. Dall'altra, la situazione di fabbrica connette le «unicità» di pensiero degli operai e, su questa base, induce a trovare interessi comuni, a definire obiettivi generali, a superare le individualità, ad accettare la diversità di scelte politiche, e, in breve, tende a stabilire posizioni unitarie. Per comprendere il rilievo, per noi, formativo, di tale rapporto basti pensare che in nessuna situazione della vita quotidiana esterna alla fabbrica si trova una defraudazione della nostra intellettualità somigliante a quella operante nella condizione operaia quotidiana. Basti ricordare che stati felici di spinta alla socialità, pari a quelli agenti nella pratica collettiva della fabbrica, si incontrano nella società esterna soltanto in occasione di inondazioni, di terremoti, di calamità naturali. 455 456 F. Chiaromonte, Sta già crescendo un'avanguardia operaia?, in «Rinascita», 15, 12 aprile 1974, p. 13 F. Chiaromonte, Sta già crescendo un'avanguardia operaia?, in «Rinascita», 15, 12 aprile 1974, p. 13 Pagina 168 di 185 Per noi il rapporto tra il lavoro intellettuale e la socialità normalmente si presenta in termini integrati; mai in termini così intensamente oppositivi. Talvolta, nei momenti particolarmente fervidi di attività, riteniamo addirittura di essere riusciti a superare condizioni strutturali, e possiamo perfino giungere a ritenere lenta e impacciata l'azione operaia rispetto alle esigenze del momento che appaiono cosi «chiare». Un ritorno alla realtà del lavoro, dunque, significa, per noi operatori culturali, ritoccare la terra, cioè liberarsi di facili illuminismi, individuare interventi concreti per contribuire alla modificazione, tenendo conto delle predominanze negative e delle potenzialità, del rapporto conflittuale tra le une e l'altra, dell'intenso impegno per realizzare una gestione del senso educativo di questa lotta. Ma, soprattutto, dell'importanza di operare per «lo sviluppo intellettuale della classe operaia», affinchè, nel mondo dove il valore della socialità è cosi elevato, agisca un'intellettualità pienamente liberata dalle pratiche di defraudazione della parte intellettuale del lavoro. Per un incremento della gestione sociale del senso educativo della realtà formativa di fatto, il prioritario riferimento al lavoro non esclude quello all'ambiente extralavorativo. Postula, anzi, un incremento anche in questo ambito, una revisione dei modi di controllo normalmente effettuati. Una correzione indispensabile, dopo il Referendum sul divorzio. Bisogna tener conto che, dopo aver subito l'amministrazione delle scomuniche in tempi non troppo lontani (quella contro il Comunismo; quella del vescovo di Prato), nonché quella delle condanne all'indice (nel '50 quella de La pelle di C. Malaparte; nel '52 quella delle opere di A. Moravia), nonché i vari moniti, richiami, notificazioni su questioni etiche, era la prima volta che la popolazione italiana veniva chiamata a pronunciarsi democraticamente su un problema morale e civile. Ed era la prima volta che s'ingaggiava una battaglia aperta tra i grandi schieramenti politici e culturali, venti anni dopo (1954) la proposta alla Camera del «piccolo divorzio» presentata dal socialista Sansone. Mentre la destra dello schieramento aveva sempre praticato questi ambiti, ma in modo gerarchico e mistifica-torio dei problemi strutturali (basti ricordare la « Chiesa del silenzio» o l'uso strumentale della «libertà»), la sinistra affrontava per la prima volta, e in quanto tale, una questione legata alla gramsciana «riforma intellettuale e morale». Si comprendono, quindi, le sottovalutazioni, gli scetticismi, le difficoltà nel muoversi su un terreno non sconosciuto idealmente, ma mai esperito concretamente. Tali elementi di perplessità, poi travolti da un'opinione pubblica matura e responsabile, tradiscono, come dicevamo, la necessità e l'urgenza di rivedere i modi di controllo sulla gestione del senso educativo della realtà formativa di fatto. È evidente che, se nel passato vi fosse stata una prevalenza della sinistra nella gestione in parola, la lotta su opzioni etico-civili, il muoversi complesso tra i mores di una popolazione fortunatamente non ancora ridotta all'uniformità culturale, avrebbero avuto un andamento basato sul calcolo più preciso delle possibilità e delle difficoltà, e meno affidato ad un rischio non valutabile. Probabilmente, la percentuale dei «si» (ammontante a ben 13 milioni di cittadini) sarebbe scesa a quote meno preoccupanti. Da qui, la riflessione sul contributo che l'educazione degli adulti potrà offrire per incrementare nella vita quotidiana — non solo nei momenti alti delle lotte e dei confronti elettorali — il potere popolare di gestione del senso educativo della realtà formativa di fatto. E le prospettive di una rinnovata educazione degli adulti che svolga i suoi discorsi ispirati, già da anni, ad una visione moderna della cultura —, in una dimensione non solo meno ristretta di quella usualmente accordatale o assegnatale, ma in una qualità politica rispondente al rilievo assunto, nella fase di sviluppo della nostra società, dai problemi culturali nelle loro interrelazioni con quelli strutturali. Non si tratta, infatti, di fronte al prorompere di tali problemi ed al loro accentuarsi nei prossimi anni (si ipotizza, ad esempio, che negli anni '80 la popolazione italiana impegnata, nei Pagina 169 di 185 diversi ruoli, nella scuola ammonterà a 17 milioni di persone; proviamoci ad immaginare gli effetti dello sviluppo dei mezzi di comunicazione: dall'uso dei videoregistratori alla televisione via cavo), non si tratta — dicevamo — di spostare l'attenzione dai temi strutturali a quelli culturali, come incliniamo spesso a fare noi operatori, trascinati dal nostro settorialismo. Ma di considerare il nesso tra sviluppo (o crisi) delle forze produttive e sviluppo (o crisi) nella gestione del senso educativo della realtà formativa di fatto. Ci sembra da sottolineare, ad esempio, quanto notava G. Mori457 a proposito di alcune posizioni degli inizi del secolo (quando P. Chiesa e G. Murialdi, ad es., scrivevano che «non dalla rovina e dallo sfacelo della produzione capitalistica deve uscire la nuova società, ma dal suo completo sviluppo e perfezionamento»; e, da qui, l'ovvia constatazione della necessità di essere molto prudenti nella proclamazione degli scioperi per evitare che essi rallentassero quello sviluppo e quel perfezionamento: «...Per noi questa condizione - la possibilità economica di concedere i miglioramenti richiesti da parte dell'industria — è indispensabile per promuovere qualunque agitazione...»458). Queste posizioni — scriveva Mori —, non tenevano sufficientemente presente « che quello sviluppo avrebbe significato certamente il rafforzamento delle condizioni oggettive per il passaggio al socialismo cosi come il loro Marx sembrava dettare, ma che, nel suo divenire, esso avrebbe anche generato e consolidato sovrastrutture di tipo e di complessità tali (rafforzamento dello stato e del suo apparato burocratico, di prevenzione e di repressione, da utilizzare in direzione opposta, penetrazione di ideologie estranee in strati di lavoratori di variabile ampiezza e loro conquista di notevoli gruppi di intellettuali, nascita di aristocrazie operaie, ecc.) da creare ostacoli e da innalzare barriere più solide, proprio perché più flessibili, all'avvento del socialismo»459. Per non ripetere errori dell'epoca giolittiana, si impone per l'educazione degli adulti la considerazione del rapporto tra sviluppo (o crisi) delle forze produttive e andamento della lotta ideale per la conquista dell'egemonia nel controllo dei processi educativi, sia nella realtà formativa di fatto, come nelle realtà formative per principio (scuola, strutture culturali). Una battaglia che, se per i risultati si valuta nelle lunghe distanze, per il suo svolgimento deve essere considerata nella continuità dell'impegno giornaliero, nella coerenza metodica delle occasioni formative da predisporre in alternanza a quelle di segno conservativo, nell'abbandono delle illusioni che soltanto i momenti intensi producano passi avanti, nell'acquisita certezza che tali momenti non nascono dal nulla e dalla spontaneità, ma dalla preparazione e dall'organizzazione, dall'esercizio pratico della gestione della formazione, entro e fuori del movimento operaio, in relazione all'espansione (o alla crisi) del sistema economico. Dobbiamo riferirci all'esercizio pratico dell'educazione degli adulti perché talvolta sembra di rilevare un distacco tra il modo in cui le scienze dell'educazione oggi tendono a prevedere e a valutare i processi educativi nell'ambito delle istituzioni formative460, e il modo in cui l'educazione degli adulti affronta i propri compiti, sia nella realtà educativa di fatto che in quelle formali. In relazione al primo ambito, si percepisce talvolta un situarsi dell'educazione degli adulti analogo a quello che Gobetti rilevava nel Vico il quale «deve accontentarsi di risognare il mondo della praxis intuito da Machiavelli e, non trovando eco alcuna nella realtà, deve rifuggire dalla politica e votarsi a una elaborazione ascetica di concetti storici»461. 457 G. Mori, L'industria toscana fra gli inizi del secolo e la guerra di Libia, in La Toscana nell'Italia unita. Aspetti e momenti di storia toscana, 1861-1945, Firenze, Unione Regionale delle Province Toscane, 1962, pp. 316-317 458 P. Chiesa e G. Murialdi, L'organizzazione economica del proletariato industriale, in «La critica sociale», a. XII, 1902, pp. 309-310. 459 G. Mori, L'industria toscana fra gli inizi del secolo e la guerra di Libia, in La Toscana nell'Italia unita. Aspetti e momenti di storia toscana, 1861-1945, Firenze, Unione Regionale delle Province Toscane, 1962, pp. 316-317 460 E, in relazione allo «sfondo sociale del problema», cfr. A. Visalberghi, Misurazione e valutazione nel processo educativo, Milano, Edizioni di Comunità, 1955, pp. 19-28 461 P. Gobetti, La rivoluzione liberale, Torino 1964, p. 13 Pagina 170 di 185 Tradizione, certo, nobile; ma non corrispondente alle necessità e alle possibilità reali, nelle quali non l'eco, ma un solido blocco politico è in grado di opporre all'educazione naturale (di fatto) una educazione volontaria, alla perpetuazione monosensica dell'educazione un'articolazione innovante, alla magia delle intuizioni educative una consapevolezza sempre più concreta. Tale «elaborazione ascetica» non è relativa a «concetti storici», ma a pseudoconcetti ricavati dalla psicologia, dalla sociologia, dall'antropologia culturale, con noncuranza rispetto alle acquisizioni di tali discipline, e con propensione a mitizzarne alcune tematiche; sicché sembra di poter constatare che il loro uso, invece di aprire nuovi orizzonti, chiuda l'educazione degli adulti in un mondo dell'arbitrario, dell'incognito, dove la gestione del senso educativo non diviene sociale, ma rimane strettamente individuale. Un esercizio pratico dell'educazione degli adulti -dobbiamo ricavare da queste considerazioni — è tale quando è compiutamente attrezzato, quando predispone gli elementi di una verifica e di una ripetibilità, in altre parole quando è premunito di una apparecchiatura scientifica. Nonostante, insomma, le difficoltà in cui, oggi, naviga l'educazione degli adulti per la mancanza di rapporti precisi e previsti con le scienze umane, non dobbiamo abbandonarci nella condizione tradizionale di povertà dell'educazione degli adulti, situazione che in Italia ha impedito — non a caso — la nascita di centri di studio e di ricerca su tali connessioni462. Ad es., quando riteniamo che un esercizio pratico possa di per sé coprire le carenze in atto, copriamo con la nostra buona volontà una realtà inequivocabilmente politica, e non dobbiamo «rifuggire dalla politica», cioè dalla denuncia aperta della situazione. Dobbiamo porre in rilievo — in ogni occasione — che le prospettive dell'educazione degli adulti dipendono anche dal modo e dall'intensità con i quali passeremo, in generale, da un lungo esercizio pratico ad un possesso scientifico della nostra pratica. Ad es., se riteniamo, giustamente, che «uno dei migliori servizi che l'educazione possa rendere alla società ed agli adulti è di insegnar loro a organizzarsi in gruppi ed a agire efficacemente attraverso di essi», non possiamo replicare che «tuttavia è questa una delle molte cose che si imparano, ma non possono essere insegnate» e, inoltre, che «la soluzione perciò sarà che l'educatore aiuti gli adulti ad organizzare dei gruppi...»463. Perché, soprattutto, ciò equivale a rendere sempiterna la figura magica dell'operatore culturale, dando per certo una impossibilità d'insegnamento di metodi e tecniche dell'educazione degli adulti. Abbiamo percorso i problemi relativi alla realtà formativa di fatto, cercando di enucleare le difficoltà e le potenzialità nella gestione del senso educativo operante nelle diverse realtà, e, principalmente, nel lavoro. Già occupandoci dei problemi della scuola, delle istituzioni culturali pubbliche, degli strumenti di comunicazione abbiamo esaminato le questioni specifiche ai singoli terreni di lavoro. Dobbiamo, ora, riesaminare globalmente tali campi, ponendoli unitariamente in relazione con i problemi di gestione dei processi formativi, e con la battaglia politica quotidiana che si svolge nella nostra società tra forze dell'innovazione e forze della conservazione. Come abbiamo precisato, la nostra analisi deve svolgersi alla luce di questa dialettica, e non rispetto a suddivisioni di comodo. 462 Secondo A. Leon, la «psicopedagogia degli adulti» (della quale si occupa nel libro omonimo, Roma, Editori Riuniti, 1974) «rappresenta oggi un insieme piuttosto eterogeneo e piuttosto sconcertante, sia sul piano teorico che sul piano metodologico e pratico» (p. 179); ciò è dovuto anche al fatto che «lo studio sistematico delle capacità intellettuali degli adulti risale a un passato relativamente recente. Infatti i primi tests per adulti (army alpha) sono stati applicati nel 1917 alle reclute dell'esercito americano» (p. 77). Sui problemi specifici, cfr. D. Wechsler, The Measurement of Adult Intelligence, Baltimore, Williams and Wilkins, 1944; ed. francese La mesure de l'intelligence de l'adulte, Paris, Presses Universitaires de France, 1973. 463 W.C. Hallenbeck, Metodi: tentativo di una definizione, in Unesco, L'educazione degli adulti; tendenze e realizzazioni, Firenze, Marzocco, 1955, p. 104 Pagina 171 di 185 Un riorganizzarsi — teorico ed operativo — dell'educazione degli adulti può scaturire soltanto da un'ipotesi non meramente funzionale al buon andamento delle istituzioni, ma correlata alle finalità globali del movimento operaio e specifiche degli organismi culturali. In particolare, una organizzazione dell'educazione per l'età adulta rispondente alle prospettive deve ricavare il proprio volto dalle risultanze di ricerche storiche, dall'analisi dei problemi dello spazio formativo in cui l'adulto attualmente si trova, da un progetto generale, anche utopico, cui riferirsi, emergente dalla volontà di modificare le strutture formative dominanti. Se la lettura dei problemi strutturali e culturali dell'educazione degli adulti risultasse utilizzabile, almeno per suggerire altre direzioni di ricerca, dovremmo, subito, porre le basi — anche legislative — per garantire la possibilità del lavoro teorico e pratico. Essendo l'educazione degli adulti strettamente legata alla società — vogliamo dire alle minime perturbazioni del clima politico — senza una certezza conquistata di poter operare, ogni auspicabile approfondimento nel campo teorico, e tanto più nel campo pratico, sarebbe seriamente compromesso. Soltanto allo scopo di saperci muovere con qualche sicurezza in una materia estremamente complessa (sia allo scopo di acquisire nuove possibilità, sia al fine di confermare quelle esistenti), tentiamo di indicare quelle che per noi sembrano essere le premesse di cui tener conto. Definire i presupposti dai quali possono scaturire le direzioni del nostro lavoro, significa, per un verso, enucleare le basi costituzionali sulle quali tendere alla realizzazione dei diritti educativi dei lavoratori; e, per l'altro, estrarre dall'esame dei problemi e del processo storico le costanti di sviluppo di questo intervento, le sue basi formative. Quale può essere, attualmente, una chiave di lettura, dal nostro punto di vista, del dettato costituzionale? Non certo quella della distinzione tra «norme programmatiche», «norme precettive di applicazione immediata» e «norme precettive di applicazione differita», che esulerebbe dalle nostre zone d'interesse; ma, diremmo, quello della valenza educativa che scaturisce da questa stessa distinzione: la necessità della crescita di una forza dei lavoratori per rendere meno differite, più immediate e non soltanto programmatiche le norme di una Repubblica «fondata sul lavoro». Ma in che rapporto è tale crescita con l'articolazione delle norme costituzionali che, stabilendo diritti e doveri dei cittadini, nei rapporti civili, etico-sociali, economici e politici, riconoscono diritti fondamentali: la libertà personale, di riunione, di associazione, di espressione? Il rafforzarsi del movimento educativo tendente allo «sviluppo intellettuale della classe operaia» trova, innanzi tutto, in queste conquiste democratiche, le sue possibilità, almeno formali, di esplicitazione; nello stesso tempo, il «compito della Repubblica» di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica e sociale del Paese» (art. 3) presenta un riferimento programmatico preciso per l'educazione degli adulti. L'articolazione di tali diritti e di tale «compito» si svolge oggi in un quadro di riferimento in cui domina un «nuovo tipo di autoritarismo», rispetto al quale emergono linee di lavoro complessive. In un'analisi di cui possiamo riferire solo i termini essenziali, ma alla quale rinviarne, A. Minucci464 tende a individuare, come scaturente dallo scontro a livello anche internazionale, un caratterizzarsi della rivoluzione «essenzialmente come unità, come azione rivolta a esprimere e a radicalizzare la spinta all'unità già presente nei processi sociali». Insomma, se «nel suo primo mezzo secolo di espansione il movimento rivoluzionario si è caratterizzato essenzialmente come rottura del processo storico reale quale si è venuto 464 A. Minucci, L'egemonìa della classe operaia, in «Rinascita», 9, 26 febbraio 1971, pp. 29-31 Pagina 172 di 185 configurando nelle società più arretrate, oggi, nella misura in cui pone l'esigenza di investire le società capitalistiche più mature», l'individuazione di una spinta unitaria presente nel « processo storico di rivoluzione sociale» permette di «innestare la "partecipazione cosciente", l'azione politica dell'avanguardia rivoluzionaria, nel movimento più profondo e oggettivo delle forze produttive». Ciò significa, spiega Minucci: «far corrispondere alla socializzazione del lavoro, della produzione, dei processi sociali in genere, una socializzazione della vita politica e delle decisioni in cui essa si esplica: vale a dire, un'espansione continua e capillare della "partecipazione" delle masse e della democrazia. È in questa fase, appunto, che la democrazia diviene il terreno stesso dell'azione rivoluzionaria»465. In riferimento a queste tendenze socializzanti, la razionalizzazione capitalistica non sarebbe «altro che un processo di unificazione-disgregazione, attraverso il quale distorce lo sviluppo nell'atto stesso in cui lo determina»; esemplificando, Minucci cita l'introduzione della scienza nella produzione e la «scuola di massa»; ma, nota, che «in tutti i settori il capitalismo risponde a una domanda oggettiva di consumo sociale esasperando la "socializzazione" mistificata dal consumo privato». Le conseguenze del fatto che «il capitalismo è "costretto" a creare le premesse del suo superamento, mentre avverte più acuto il pericolo che i processi di sviluppo e le spinte all'unità comportano per la sua stessa sopravvivenza» appaiono particolarmente interessanti per i processi di inclusione di tale andamento. Dalla «sfasatura» storica con i processi effettivi, deriva — per Minucci — «l'accentuazione del carattere artificiale del dominio monopolistico. Il generalizzarsi dell''autoritarismo su tutta la sfera dei rapporti sociali non» sarebbe «altro che il tentativo di ricomporre "artificialmente" tale sfasatura»; «l'alienazione capitalistica— scrive Minucci — non si presenta più nella forma classica di esclusione della personalità del lavoratore dal processo produttivo e sociale, ma tende a tradursi in una inclusione forzata dell'operaio, e più in generale dell'uomo, in un processo che pure continua intimamente a escluderlo. Questo nuovo tipo di autoritarismo, tuttavia, diviene più vulnerabile nell'atto stesso in cui si generalizza. Un movimento politico della classe operaia, che sappia imporre uno sviluppo costante della democrazia, demistifica e mina alla base il meccanismo del dominio monopolistico»466. Nei limiti politici della propria iniziativa, il movimento di educazione degli adulti trova nel rapporto tra il dettato costituzionale, le tendenze oggettive alla «socializzazione dei processi 465 A. Minucci cita un passo di Stato e rivoluzione (scritto nel 1917,nell'immediata vigilia della Rivoluzione d'ottobre) nel quale Lenin nota che «in una macchina più democratica», «la "quantità" si trasforma in "qualità"; arrivata a questo grado, il sistema democratico esce dal quadro della società borghese e comincia a svilupparsi verso il socialismo. Se tutti gli uomini partecipano realmente alla gestione dello Stato, il capitalismo non può più mantenersi. E lo sviluppo del capitalismo crea a sua volta le premesse necessarie a che "tutti" effettivamente possano partecipare alla gestione dello Stato...». Tra queste premesse, Lenin cita espressamente «l'istruzione generale». Cfr. Lenin, Stato e rivoluzione, in Opere, vol. XXV, 1967, pp. 443-444; ovvero Stato e rivoluzione, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 176-177. 466 Minucci trae dalla propria analisi alcune considerazioni relative alla funzione del partito che interessano l'educazione degli adulti nel partito, come problema del rapporto tra partito e processi educativi: «Ecco perché l'avanguardia rivoluzionaria — il partito — tende sempre più ad assumere come proprio compito essenziale quello di stimolare, promuovere e guidare la partecipazione consapevole delle masse alla lotta politica e alla costruzione di una più vasta e articolata vita democratica. Il fatto che la collocazione attuale della classe operaia nel processo di sviluppo delle forze produttive non si traduca più, necessariamente, in una spontaneità di contenuto "tradeunionista" o puramente economico-sindacale, ma al contrario postuli una saldatura tendenziale tra spontaneità e partecipazione rivoluzionaria, rende più immediato e organico il nesso tra l'azione del partito volta a cogliere tutte le spinte e le autonome articolazioni della società, e il suo ruolo di sintesi unitaria, di "coscienza esterna" ai processi oggettivi (intesa, questa, ultima, come elemento di direzione formatosi nell'accumulazione critica delle esperienze storiche, nell'analisi marxista della società e della storia» (ivi, p. 31). Pagina 173 di 185 sociali», il proprio impegno storico allo «sviluppo costante della democrazia» i presupposti per la propria azione, in termini, vorremmo dire, di socializzazione della realtà educativa, di controllo sociale sulla gestione del senso educativo delle occasioni formali e informali. Riprendendo il tema dell'associazionismo — inteso quale compito primario dell'educazione degli adulti — esaminiamo come si pongono questi presupposti in relazione a questo campo specifico d'intervento. Da tale analisi possono scaturire, a nostro avviso, le determinazioni da assumere rispetto ai problemi di politica culturale dello Stato. Come si deduce dall'analisi citata, se il capitalismo è «costretto» a creare le premesse del suo superamento — e cioè, nel nostro campo, oltre all'«avvento di una scuola di massa», anche la realizzazione di strutture culturali di massa «per accelerare e unificare il processo di formazione della forza-lavoro» —, si tratta, per un verso, di sollecitare questa realizzazione, e, per l'altro, di attrezzarsi per controllare il senso educativo agente nelle nuove strutture, attraverso «uno sviluppo costante della democrazia», appoggiato sul dettato costituzionale. In altre parole, si tratta di imporre lo svolgersi compiuto di un processo in fieri, attraverso un intervento che non si concluda nell'«inclusione forzata», ma che si sviluppi nella valenza educativa democratica di questo impegno, oltre l'occasione stessa di tale impegno. Un esempio, a nostro parere, indicativo di questa problematica è rinvenibile nelle vicende della «Biennale» veneziana, almeno fino agli attuali (agosto 1974) sviluppi. In questo caso, una infrastruttura culturale rispondente ad una realtà sociale ed economica di altre epoche (basti ricordare le sue origini di epoca fascista; la sua promozione ad opera del capitalismo dell'epoca) risulta, rispetto ai processi di sviluppo della penisola, un cadavere che sopravvive a se stesso, ma non si decide a morire; la contestazione delle associazioni democratiche (dall'Anac ai Sindacati) accelera e consacra una fine ingloriosa; nella ricostituzione, l'infrastruttura non solo deve tener conto dell'ideologia antifascista e democratica, ma deve acquisire una funzione non più elitaria, aperta ai problemi di un nuovo pubblico; in tal modo — a prescindere dai futuri andamenti della Biennale — si afferma e si socializza un discorso come quello del pubblico che, anteriormente, risultava essere limitato ad alcuni settori dell'educazione degli adulti, e, in particolare, alla Federazione Italiana dei Circoli del Cinema. Evidentemente, la battaglia per la Biennale non termina a questo punto; ma esistono le premesse per controllare il senso educativo delle sue future attività; e, cioè, una forza associativa rilevante (dai Sindacati, sempre più attenti ai problemi della cultura, fino alle associazioni degli autori e degli attori, alle associazioni culturali), capace di gestire socialmente — in termini sostanziali — le attività di una istituzione pubblica culturale. Ma, al di là della Biennale, una più generalizzata acquisizione dei problemi del «pubblico» — acquisizione che noi riteniamo fondamentale per il perfezionarsi e il diffondersi del lavoro di educazione degli adulti con finalità di «sviluppo intellettuale della classe operaia» — può agire anche nei confronti di altre infrastrutture. Non basta, tuttavia, tale acquisizione per la modificazione di altre realtà formative; ciò che è essenziale è il costituirsi di un movimento associativo intorno a questioni che non riguardano soltanto una zona e, grosso modo, un periodo, ma l'intero territorio nazionale e la continuità del lavoro culturale; alludiamo al problema delle biblioteche, che, insieme alle scuole, costituiscono la base essenziale per i processi educativi. È storicamente dimostrato che senza un movimento che soggettivamente costringa il capitalismo a creare le premesse del proprio superamento, prevarrà il ritardo e l'inerzia, per l'avvertito «pericolo che i processi di sviluppo e le spinte all'unità comportano per la sua (del capitalismo) sopravvivenza». Le due esigenze (la costituzione di infrastrutture culturali come «premessa» del superamento di una società capitalistica; il rafforzarsi dell'associazionismo) devono essere esaminate attentamente. Sappiamo che la prima esigenza risponde ad una tendenza oggettiva nell'ambito del capitalismo maturo e che la seconda emerge soggettivamente dal movimento operaio come Pagina 174 di 185 aspirazione al controllo sociale e alla gestione sociale delle infrastrutture culturali, come affermazione orientata della «socializzazione dei processi sociali in genere». Se, quindi, per rispondere alla prima esigenza, è necessario lottare per sollecitare lo svolgersi di processi tendenziali, per la seconda è indispensabile creare un'articolazione democratica in grado di far emergere problemi, aggregare gli interessati, andare alla lotta sia per l'istituzione delle infrastrutture, sia per il controllo del loro senso educativo. Nel campo culturale — peraltro — le associazioni vivono processi di nascita, di svolgimento e di esaurimento estremamente complessi; esigono un autocontrollo continuo; un impegno creativo incessante, rispondente agli interessi mutevoli, e tali, per l'evoluzione stessa dei processi di consapevolezza all'interno dell'aggregazione, sia a livello individuale che collettivo. Esse corrispondono, nella loro mutevolezza, e nella loro molecolarità, ai processi di modificazione culturale in corso nella più vasta società. Esse si differenziano, attualmente, dalle strutture associative del movimento operaio non solo per la diversità di composizione sociale, ma per il legame stretto che partiti e sindacati del movimento operaio hanno con la situazione strutturale; ed il collegamento organico delle associazioni culturali con le strutture operaie è indispensabile proprio per questa diversità, e per l'aderenza strutturale dell'associazionismo operaio. D'altra parte, le associazioni culturali si sono dimostrate capaci di aggregare le aspirazioni più diverse, e, in particolare, quelle relative a temi e problemi che, a causa di precedenti storici vessatori, sono state meno presenti tradizionalmente nelle associazioni operaie. Creare e sviluppare, quindi, un movimento associativo rispetto ai problemi delle infrastrutture culturali, un movimento che estenda e modifichi la propria base sociale, nella misura in cui i temi culturali divengono — e devono divenire — sempre più materia primaria per il movimento operaio, significa operare per lo «sviluppo costante della democrazia». Bisogna, dunque, che il movimento di educazione degli adulti si muova in termini di politica culturale delle istituzioni pubbliche, sia nel senso di accelerare la costituzione di infrastrutture culturali nuove, quantitativamente rispondenti allo sviluppo della società, come nella modificazione di quelle esistenti in senso democratico. Sia, in modo più preciso e convinto, per la promozione ed il rafforzamento dell'associazionismo, rivendicando, anche, un sostegno pubblico alle difficoltà di questo lavoro; esistono precedenti in materia467, e collegamenti analogici ci sembra possano essere trovati con le recenti norme legislative relative al finanziamento pubblico dei partiti. Si tratta, inoltre, per il movimento di educazione degli adulti di differenziare l'istituzione di infrastrutture culturali pubbliche dallo sviluppo dell'associazionismo. Uscendo dalle ambiguità di precedenti esperienze468, vorremmo si specificasse che mentre lo strutturarsi come servizio pubblico delle sedi culturali dovrebbe rispondere a esigenze indifferibili di socializzazione delle conoscenze, — anche come consolidamento delle condizioni materiali — l'incentivazione dell'associazionismo dovrebbe sviluppare quella realtà pluralistica che è di fondamentale presenza nella nostra Costituzione. Nell'articolarsi delle strutture e occasioni oggettive di conoscenza, diffusione, produzione culturale con una realtà associativa avanzata e pluralistica possono essere risolti problemi altrimenti destinati ad accavallarsi, a soggiacere alla capacità di controllo conservativo del senso educativo delle più efficienti infrastrutture culturali. Intendiamo dire che la «promozione sociale» non nasce dal servizio pubblico, ma dalla capacità delle forze emergenti di affermare e far prevalere le proprie ragioni economiche ed ideologiche. In tal senso, ribadiamo la nostra 467 468 Ad es., gli stessi contributi del Ministero della Pubblica Istruzione per attività di educazione degli adulti. Quelle, ad es., nate ambiguamente, come i «Centri di servizi culturali» nel Mezzogiorno, che non sono risultati essere né strutture culturali di servizio pubblico, né contributi allo sviluppo pluralistico dell'associazionismo culturale. Cfr. A. Lorenzetto, La scuola assente, Bari, Laterza, 1969, p. 248. Pagina 175 di 185 indicazione a considerare le infrastrutture culturali non in se stesse, ma in relazione al «pubblico», all'uso che un determinato «pubblico» può realizzare di tali strutture. Da questa angolazione, l'associazionismo ci sembra essere lo strumento realmente alternativo per penetrare nei «templi della cultura». Concludendo, dobbiamo considerare che nell'iniziare queste riflessioni sull'educazione degli adulti in Italia, non siamo partiti da una definizione. Non era semplice, e, comunque, non ci sembrava corretto; saremmo stati inconsciamente indotti a costringere in un guscio di noce una realtà educativa complessiva che non solo non sarebbe stato possibile ridurre nei confini di vecchie locuzioni, o dell'ovvio, ma che era necessario tenere presente nelle sue molteplicità per ricavare dal maggior numero di elementi nuove indicazioni. Alla resa dei conti, dobbiamo affermare con Laporta che tutta la nostra storia sociale «è storia non tanto di educazione degli adulti quanto di educazione fra adulti: da essa, dalla fusione di culture tanto disparate quanto quella dei borghesi passati alla cultura della rivoluzione, dei credenti passati alla fede nel progresso materiale dell'uomo come premessa alla sua evoluzione spirituale, dei contadini emersi via via dalla propria incosciente abiezione, attraverso prospettive di benessere immediato, a valori morali di solidarietà, di responsabilità, di civiltà. Da tutte queste forme di cultura, faticosamente elaborata nella coscienza, sanguinosamente testimoniata nelle piazze, trae origine e motivo anche la nostra azione di oggi»469. Da queste constatazioni, emergono non solo il senso e la finalità di un intervento nato nella «società industriale», ma la necessità di definire l'educazione degli adulti per i compiti che l'attendono nelle attuali contingenze e nelle prospettive. Dalla vastità dei temi affrontati e dalle loro articolazioni, si afferma non solo il rifiuto delle dispersioni e delle confusioni di obiettivi, ma può costruirsi, nel senso più stretto, una definizione rispondente alle aspirazioni, si possono elaborare strutture adeguate, perfezionare quelle esistenti, ricercare ed acquisire strumenti e metodi coerenti. È opportuno, dunque, chiudere con un tentativo di definizione dell'educazione degli adulti, come un'ipotesi sulla quale lavorare non solo teoricamente, ma nella costruzione di istituzioni educative, nello svolgimento del nostro lavoro. Riconducendo ad una sintesi le analisi e le riflessioni precedenti, ci sembra di poter affermare che l'educazione degli adulti appare oggi, in generale, come un modo di porsi rispetto ai problemi della mutazione; in particolare, come raffermarsi di un controllo sociale organizzato sui processi formativi agenti nella società. Tale manifestazione volontaria e positiva si svolge — e dovrà svolgersi sempre più intensamente — in uno spazio estremamente articolato: attraverso le istituzioni educative in senso stretto, formali; e attraverso l'impegno d'intervento specifico nelle altre realtà non immediatamente e palesemente educative, attraverso un suo realizzarsi negli ambiti più diversi (dalle condizioni di lavoro alla vita quotidiana). La molteplicità degli interventi necessari e possibili non deve, tuttavia, farci smarrire l'unità della visione, e cioè la determinazione ad operare affinchè l'educazione degli adulti, fuori della gabbia tradizionalista, acquisti sempre maggiore forza nella sua definizione di controllo sociale organizzato sui processi formativi. Soltanto dall'acquisizione operante di tale specificazione possono scaturire le possibilità di appropriazione democratica delle infrastrutture culturali nel loro funzionare (da quelle di sviluppo a quelle di trasformazione) e un continuo accrescersi di consapevolezza in ogni ambito e momento. 469 Cfr. Relazione di R. Laporta al VII Congresso dell'Unione Italiana della Cultura Popolare, Bologna, 19-21 marzo 1965; in «La Cultura Popolare», 3, 1965. Pagina 176 di 185 5 Lode dell'imparare di Bertolt Brecht Impara quel che è più semplice! Per quelli il cui tempo è venuto non è mai troppo tardi! Impara l'a b c; non basta, ma imparalo! E non ti venga a noia! Comincia! Devi saper tutto, tu! Tu devi prendere il potere. Impara, uomo all'ospizio! Impara, uomo in prigione! Impara, donna in cucina! Impara, sessantenne! Tu devi prendere il potere. Frequenta la scuola, senzatetto! Acquista il sapere, tu che hai freddo! Affamato, afferra il libro: è un'arma. Tu devi prendere il potere. Non aver paura di chiedere, compagno! Non lasciarti influenzare, Verifica tu stesso! Quel che non sai tu stesso, non lo saprai. Controlla il conto, sei tu che lo devi pagare. Punta il dito su ogni voce, chiedi: e questo, perché? Tu devi prendere il potere. Pagina 177 di 185 6 Bibliografia 1. 2. 3. 4. Adult Éducation Committee, Ministry of Reconstruction, Great Britain, 1919 Althusser, Per Marx, Roma, Editori Riuniti, 1967 Avanti!, 23 luglio 1965 Avanti!, 22 maggio 1968 5. Balbo C., Dalla storia d'Italia dalle origini fino ai nostri tempi, Sommario, Torino, Unione TipograficoEditrice, 1862 Bauer R. 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W............................ 99; 190 Alasia G. .................................... 51; 189 Althusser L. ............................. 100; 187 Angeloni G. ............................. 144; 187 Antioch College................................. 75 Auerbach E. ....................................... 89 B Badaloni N................................. 10; 144 Bakunin M. ...................................... 156 Balbo ......................................... 91; 187 Bari .4; 89; 92; 124; 153; 184; 187; 188; 190; 191; 192 Baskin S............................................. 75 Baudelaire Ch. ................................... 91 Bauer R...................... 4; 5; 31; 153; 187 Bauman Z. ................. 43; 146; 147; 187 Bebel A............................................ 155 Bechelloni G............................ 124; 187 Belloin G. ................................ 123; 187 Benigni L. .................................. 51; 189 Benjamin W......................... 88; 91; 187 Bergoglio P................................ 51; 189 Berle A. ................................... 111; 187 Berlinguer G. ................... 140; 144; 187 Bernini L............................................ 90 Berthelot M........................................ 46 Biennale........................................... 182 Bini G. ....................................... 65; 187 Bleton P. .................................. 144; 187 Bogomolova N......................... 175; 187 Bologna ......76; 92; 114; 124; 160; 161; 163; 184; 187; 189; 190; 193 Bommensath D. ............................... 152 Bonifacci R................................ 59; 187 Borghi L. ..2; 4; 29; 110; 120; 168; 171; 187 Bourdieu P. ...................... 102; 120; 187 Brecht B............................... 3; 174; 186 Brienza R. ................................ 172; 187 Bucarest (Conferenza di) ............. 7; 159 Burnham J........................................ 111 Chiarante G................................74; 188 Chiaromonte F. ................175; 176; 188 Chiesa A. ...................................51; 189 Chiesa P. ..................................178; 188 Cole G.D.H. .............................157; 188 Comba L.J................................124; 190 Comenio.......................................68; 71 Comunismo..............................163; 177 Comunità Economica Europea...........58 Condorcet M.J.A.N............................90 Conti L.............................................153 Cornell University............................151 Coser L.A.................................162; 188 Costa A. ...............................................4 Credaro L.........................................132 Cristina di Svezia ...............................90 Cuba...................................................85 D Danimarca............................................4 Dante................................................130 Darbel A. .................................120; 187 Davico Bonino G. ......................94; 188 Davydov J. .......34; 36; 37; 40; 166; 188 De Bartolomeis F. ....................172; 188 De Francesco G.M. ..................117; 188 De Gaulle Ch. ............................91; 112 De Mauro T................................89; 188 De Sanctis F.1; 5; 6; 7; 8; 9; 10; 92; 188 Della Volpe G. 25; 32; 33; 34; 121; 163; 169; 191 Dewey J. .. 5; 6; 8; 9; 20; 68; 75; 76; 94; 110; 136; 188 Diena L. ...................................153; 187 Dimitrov G.......................118; 119; 188 Dolléans E................156; 161; 162; 189 Domenach J. ..............................38; 189 Doutrelant P...............................60; 189 Drago R....................................116; 189 Droz J.......................154; 155; 156; 189 Dubinin N. ...............................145; 190 Dubuffet J. ...............................123; 189 Dumazedier J. ..108; 120; 133; 135; 189 Durkheim E..............................154; 189 E C Cafiero ................................................. 4 Cammeo F. .............................. 116; 188 Cantimori Mezzomonti E................... 17 Carlo V .............................................. 90 Carnegie............................................. 75 Cassese S. ................ 116; 117; 118; 188 Cavallaro R...................... 162; 163; 188 Cavour C.B. ............................... 61; 192 Cegos ............................................... 175 Cerroni U. 148; 162; 163; 172; 173; 188 CGIL................................................ 144 Charpenteau J. ......................... 123; 188 Checchi O. ............................... 148; 188 Chevallier J...................... 114; 115; 188 Edison T.A.......................................133 Emilio ..............................................147 Engels F. ...7; 13; 14; 15; 16; 17; 18; 21; 23; 24; 25; 27; 31; 34; 35; 36; 39; 43; 50; 51; 52; 58; 64; 83; 92; 93; 106; 112; 146; 154; 155; 161; 166; 167; 168; 189; 191; 192 Erfurt................................................112 Esposto A...................................59; 189 Fauvet J............................................122 Federbraccianti...........................59; 192 Ferretti G.C. .............................124; 189 FIAT ........................................142; 175 Firenze 5; 20; 49; 76; 90; 95; 96; 97; 98; 99; 101; 102; 103; 104; 105; 110; 116; 120; 133; 136; 156; 178; 179; 187; 188; 189; 190; 191; 192 Foa V. ........................................51; 189 Ford..............................................19; 75 Ford H..........................................19; 75 Fornari F. ...........................................98 Forrad...............................................176 Forte F........................44; 112; 123; 189 Fortunato G. .......................................61 Fourier F.M.Ch. .......152; 160; 161; 189 Francia ....42; 43; 89; 91; 116; 122; 123; 133; 144; 161 Friedmann G. ...........8; 46; 56; 144; 189 G Garapon R..................................89; 190 Gaudibert P. .............108; 122; 123; 189 Gelpi E. ............................135; 139; 192 Gentile G....................................76; 189 Germania............42; 112; 118; 127; 133 Geymonat L. ............................138; 189 Giannini M.S....................116; 117; 189 Giolitti G. ...........................................43 Giorgi G. ..................................116; 189 Gobetti P. ...........................94; 179; 189 Goethe J.W.........................................92 Goodman P. .......................................71 Gramsci A. . 8; 9; 12; 31; 60; 61; 64; 92; 93; 94; 95; 111; 112; 113; 124; 128; 141; 142; 144; 151; 152; 155; 165; 166; 172; 174; 188; 189; 190; 192 Gran Bretagna .... 16; 31; 55; 71; 89; 91; 112; 144; 157; 161; 187; 189 Graziosi F.........................145; 146; 190 Gruppi L...........................141; 165; 190 Guerra G. .................................142; 190 H Habermas J.........................89; 137; 190 Hallenbeck W.C.......................179; 190 Hassenforder J..........................120; 189 Hegel G.W.F. .....................25; 148; 155 Heller A. ..............................................7 Hely A.S.M. .........................13; 15; 190 Hennequin E. .....................................92 Herrera F. .................................126; 192 Hitler A. .............................................90 Horkheimer M............................99; 190 Huizinga J. ...........21; 39; 121; 122; 190 Huxley A............................................84 F I Fabris G. ....................................98; 189 Falaschi C. .................................42; 189 Faure E.............................................132 Illich I.......................71; 72; 73; 75; 190 ISEO ................................................175 Pagina 183 di 185 Italia4; 5; 11; 20; 30; 42; 55; 58; 61; 76; 85; 90; 91; 92; 94; 95; 96; 97; 98; 99; 101; 102; 103; 104; 105; 107; 110; 111; 112; 114; 116; 118; 120; 123; 124; 125; 127; 128; 132; 136; 148; 153; 171; 173; 175; 178; 179; 184; 187; 188; 189; 191; 192 J Jervis G.................................... 124; 190 Jouvenel (de) B.................................. 84 Joyce J. ............................................ 130 K Kaddoura A.R.......................... 126; 192 Kant E.............................. 147; 148; 190 Kotasek J. .................................. 71; 190 Krathwohl D. ........................... 139; 190 Kyòstiò O.K..76; 77; 78; 79; 80; 81; 82; 83; 190 Maserati ...........................................143 Massucco Costa A. ..................148; 191 Mazzini G. .....................................4; 92 Melino M. ................................153; 187 Meucci L..................................116; 191 Mezzacapa D. ..........................153; 187 Mezzogiorno ........................59; 61; 184 Milano.......25; 43; 44; 71; 98; 108; 114; 116; 117; 122; 127; 130; 131; 132; 154; 162; 172; 178; 187; 188; 189; 190; 191; 192; 193 Mills C.W. ...............................111; 193 Minucci A. .......140; 181; 182; 187; 192 Mitterrand ........................................171 Modena ............................................143 Moinot P. .................................108; 192 Moles A. ..........................126; 134; 135 Montedison ......................................175 Moravia A........................................177 Mori G. ....................................178; 192 Moro T...............................................22 Murialdi G. ..............................178; 188 N L La Bruyére (de) J. ...................... 89; 190 Labriola A........................................ 141 Lacouture J. ..................... 122; 159; 190 Laeng M. ................................... 71; 190 Laporta R. ................................ 184; 190 Larizza M................................. 160; 189 Lengrand P..... 67; 68; 70; 143; 152; 191 Lenin V.I...17; 23; 24; 36; 95; 113; 138; 155; 156; 167; 181; 191 Leon A. .................................... 179; 191 Leonardo Da Vinci .......................... 159 Levi Arian G.............................. 51; 189 Lewin K. .............................. 9; 127; 191 Libia......................................... 178; 192 Lipset S.M. .............................. 162; 191 Lombardo Radice L. .......... 72; 153; 191 Lopes H. .................................. 126; 192 Lorenzetto A. ........................... 184; 191 Luperini R................................ 124; 191 M Maheu R. ......................................... 108 Malraux A................................ 122; 123 Manacorda G.23; 31; 37; 47; 51; 52; 53; 54; 62; 151; 154; 155; 167; 169 Mantova............................................. 90 Mao Tse Tung............................ 24; 191 Marcuse H. ...................... 101; 139; 191 Marivaux (de) P.C. ............................ 91 Marshall A. ........................................ 44 Martinazzoli A................................. 132 Marx K. ..5; 6; 7; 12; 13; 14; 15; 16; 17; 18; 21; 23; 24; 25; 27; 31; 32; 33; 34; 35; 36; 37; 39; 41; 43; 44; 46; 47; 50; 51; 52; 53; 58; 62; 63; 64; 65; 83; 93; 94; 95; 96; 97; 98; 99; 100; 101; 102; 103; 104; 106; 112; 113; 121; 130; 131; 137; 140; 143; 146; 148; 154; 155; 158; 161; 163; 166; 167; 168; 169; 172; 178; 187; 190; 191; 192; 193 Napolitano G............158; 171; 192; 193 New York .....20; 49; 75; 111; 139; 187; 188; 190; 192; 193 O Olivetti .............................................175 Omero ..............................................130 Orwell G. ...........................................84 Osimo A...............................................4 Owen R. .......................................52; 54 P Pajetta G.C.........................................87 Parigi.17; 67; 68; 69; 70; 71; 89; 90; 92; 108; 114; 116; 120; 123; 139; 179; 187; 188; 189; 190; 191; 192; 193 Partito Comunista Italiano ....13; 14; 15; 16; 17; 18; 21; 23; 24; 25; 27; 39; 52; 87; 125; 153; 167; 191; 193 Passeron J.C.............................102; 187 Pasteur L. .........................................133 Pavlov I.P.........................................133 Peers R.......................................15; 192 Pelloutier M. ....................................156 Petòfi A..............................................91 Petrovski A.V. .........................126; 192 Piccone Stella S. ......................124; 192 Pirelli ...............................................175 Pirodda G...................................92; 192 Pisoni I.......................................49; 192 Pomari F. ...................................98; 192 Prato.................................................177 Progetto 80......114; 122; 123; 125; 126; 192 R Rago M. .....................................93; 192 Rahnema M..............................126; 192 Reimer E. ...................................71; 192 Richmond W.K. .........................71; 190 Rinaldi D..................................170; 192 Ripellino A.M. ...................................90 Rogers C. ...................................49; 192 Roma.. 5; 13; 14; 15; 16; 17; 18; 21; 23; 24; 25; 27; 31; 32; 33; 34; 35; 36; 37; 39; 43; 44; 46; 47; 50; 51; 52; 53; 54; 58; 59; 62; 63; 64; 65; 68; 71; 87; 90; 100; 108; 114; 121; 122; 126; 135; 139; 142; 143; 145; 146; 147; 148; 151; 154; 160; 163; 167; 168; 169; 170; 172; 179; 181; 187; 188; 189; 190; 191; 192; 193 Romano G. .........................................90 Romano S.........................................116 Rossitto F. ............................59; 60; 192 Rostow W.W....................................111 Rousseau J.J. ....................................163 Rutherford F.J. .........................135; 192 S Sabbatini M..............................124; 192 Salinari C. ..................................93; 192 Salvadori M.L. ...........................61; 192 Salvemini G. ..................................4; 65 Sangallo (da) A. .................................90 Sansone L.R. ....................................177 Savi T.......................................153; 187 Scientific Management ................38; 56 Sereni E............................111; 112; 192 Sicilia ...................................................4 Slichter S.H......................................111 Socrate ...............................................68 Somalia ..............................................85 Spinella M................................152; 192 Stati Uniti... 5; 55; 59; 72; 75; 144; 161; 162 Stefanelli R. .........................42; 57; 193 Strachey J.........................................112 Suchodolski B. ... 9; 68; 69; 70; 74; 150; 151; 152; 193 Svezia.................................................90 T Tassinari G...............................153; 187 Taylor F. .... 8; 38; 46; 56; 59; 142; 143; 144 Tcheprakov V. 109; 110; 111; 112; 144; 193 Teissier G.........................................114 Tenca C. .....................................92; 192 Terracini U...........................9; 125; 193 Thompson W..............................47; 193 Timofeev T. .....................130; 131; 193 Tocqueville (de) A. .....9; 160; 161; 162; 163; 188; 193 Togliatti P. ... 13; 14; 15; 16; 17; 18; 21; 23; 24; 25; 27; 39; 52; 122; 167; 169; 170; 191; 193 Torino17; 18; 21; 34; 44; 46; 51; 61; 64; 87; 88; 91; 92; 94; 99; 101; 113; 116; 121; 140; 141; 142; 144; 152; 179; 187; 188; 189; 190; 191; 192; 193 Toscana ....................................178; 192 Touraine A. ................................76; 193 Pagina 184 di 185 Trentin B.................................... 57; 144 Turati F. ............................................... 4 Vico G.B..........................................179 Visalberghi A...................................178 Y Yellow Springs ..................................75 U Unione Sovietica................................ 88 V Vasari G............................................. 90 Venturi F.................................... 91; 193 Verne J............................................. 133 W Waller R.D.................................22; 192 Ward F.C. ................................126; 192 Watergate.........................................151 Wechsler D. .............................179; 193 Wellek R. ...................................92; 193 Wells H.G. .......................................133 Winckelmann J.J..............................122 Z Zamjatin E..........................................84 Zasulic V..............................................7 Zucconi A. ...............................114; 193 Pagina 185 di 185