ALESSIA SOLERIO UN’ARCHEOLOGIA DEL PENSIERO ANALOGICO (O PROPORZIONALE) Con questo intervento vorrei provare a portare in superficie una di quelle tracce che, volenti o nolenti, ci formano e che costituiscono un aspetto irrinunciabile del nostro stare al mondo. Finora, tra laboratoristi, abbiamo esplorato tratti fortemente visibili da un punto di vista culturale: il cristianesimo, la mentalità scientifica, l’eredità greca, la logica che governa il pensiero. Accanto a questi inalienabili momenti della storia d’occidente, alcuni sentieri hanno perso il diritto di emergere alla soglia della consapevolezza, della teorizzazione intenzionale e della dignità scientifica; ma non per questo ci animano e ci formano in misura minore e, come lascia intendere la letteratura psicopatologica, quel che è rimosso dalla dimensione cosciente costituisce un fattore antropopoietico altrettanto importante che, in assenza delle misure appropriate, sfiora i limiti del demoniaco. Affiancandomi all’intervento di Stefania sulla chiusura logicistica della Grecia antica, vorrei proporre ai laboratoristi di esplorare l’altra faccia della medaglia, ossia la grande rimozione che tale chiusura ha decretato sul pensiero cosciente: quella del pensiero analogico. In filosofia, il metodo che permette di risalire le rimozioni, inevitabilmente prodotte da una storia scritta in prospettiva parziale, si dice archeologico. L’archeologia assomiglia ad una regressione psicoanalitica condotta non nella psiche individuale, ma in quella, per così dire, collettiva o, in altri termini, nel sistema di conoscenza: è un metodo congetturale che permette di regredire dalle nevrosi concettuali che incastrano il pensiero negli stessi giri stereotipati, ai traumi gnoseologici che ne hanno decretato la fissazione; dai concetti statici, cristallizzati in un rigido sistema semantico, al sostrato metaforico originario da cui sono derivati, dinamico e plurisignificante, e di cui si è persa la traccia; dalle parole ingabbiate nello scritto agli eventi evanescenti e sonori che caratterizzano l’oralità; e così via. Il fine dell’archeologia è liberare il pensiero da ciò che lo condiziona tacitamente e di portare in luce quanto è dato per scontato, e quindi è impercettibile, entro un punto di vista specifico. Non è comunque questa la sede in cui trattare l’archeologia da un punto di vista teorico; più rilevante è casomai indicare alcune delle fonti principali da cui muove la nostra regressione, le quali consentiranno di contestualizzare i nodi critici della questione a livello epistemologico e di segnalare le connessioni tra il pensiero analogico, un’epistemologia di ispirazione anarco-antropologica e una genealogia delle scienze della psiche. COORDINATE BIBLIOGRAFICHE Il sito in cui ci troviamo in questa breve esplorazione sta all’incrocio fra tre testi a prima vista piuttosto distanti quanto a contenuti trattati, metodologia e ambito di ricerca, ma che, una volta accostati, si incastrano come i pezzi di un puzzle. Ve li presento nell’ordine in cui sono entrati nella mia esistenza. Il primo e il più recente testo tra i tre è Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza (1975) di Paul Feyerabend, un epistemologo austriaco che fu allievo di Popper e che criticò tanto il falsificazionismo del maestro, quanto il verificazionismo dei neopositivisti. Inserendosi nel dibatto sull’ideale di un metodo scientifico universale, ricamato a partire da quello delle scienze naturali, Feyerabend demolisce uno alla volta i principi metodologici che la filosofia della scienza ha isolato riflettendo sulla conoscenza scientifica (ad esempio, la coerenza delle teorie, la loro compatibilità con i fatti, etc.) mostrando che, a livello pragmatico, gli scienziati agiscono in modo creativo e anti-conformistico e che quindi la scienza è un impresa essenzialmente anarchica. Asserire l’anarchismo della pratica scientifica non equivale però a conclamarne un dilagante disordine, anche se il nostro autore sottolinea il ruolo dell’irrazionalità nell’impresa scientifica; significa, al contrario, discendere dal piano semantico della razionalità normativa a quello pragmatico del senso esistenziale (e del non senso), in cui i suddetti principi svaniscono nella loro aleatorietà. L’anarchismo è il manifesto dadaista dell’epistemologia, destinato a esprimere tanto l’interesse umanitario che viene a mancare nella scienza dogmatica, quanto l’impulso creativo soffocato da ogni ideale di razionalità imposto dall’esterno. Innanzitutto, Feyerabend evidenzia come non esistano “fatti scientifici” in senso stretto, dati sperimentali suscettibili di una lettura univoca, poiché ogni osservazione è costituita da ideologie anteriori, spesso inconsapevoli, ma fortemente vincolanti. L’osservazione, proclamata neutrale e irrevocabile dai neopositivisti, che tentano di ricondurre il linguaggio teorico a quello empirico, a loro avviso universalmente condiviso, non è però mediata dalla teoria (theory laden), come fraintenderanno altri autori successivi, ma da fattori antropopoietici inespressi che ci strutturano dall’interno e che sfuggono ai confini del pensiero teorico; potremmo dire che l’osservazione sia poetry laden, ossia carica di poetica (tradendo un po’ il nostro autore, che non si esprime affatto in questi termini, ma predilige casomai la provocazione). Feyerabend chiama interpretazioni naturali quelle abitudini linguistiche e percettive che conseguono dalla dimensione del senso e che strutturano dall’interno ogni osservazione culturalmente specifica. Nel passaggio dalla scienza aristotelica a quella galileiana, ad esempio, il mutamento radicale riguarda proprio le interpretazioni naturali che intervengono nell’osservazione del fenomeno del moto. L’argomento della torre, usato dagli aristotelici per confutare il moto terrestre (lanciando una pietra da una torre, essa cade perpendicolarmente: quindi la terra non si muove), è interpretato da Galileo come un moto solidale del sasso con la terra, così come avviene all’interno di una nave. Le interpretazioni naturali vengono modificate in modo silente nel passaggio da una cosmovisione all’altra poiché costituiscono dall’interno la prospettiva stessa, l’orizzonte di senso entro il quale andranno a cristallizzarsi i concetti. A partire dal punto di vista che costituiscono, le interpretazioni naturali possiedono due tratti caratteristici. In primo luogo, le interpretazioni naturali sono indubitabili, non perché saltano immediatamente agli occhi come vere, ma perché sono incorporate nell’agire umano culturalmente specifico e forniscono le condizioni pragmatiche di esprimibilità del gioco linguistico a cui danno un senso. In secondo luogo, le interpretazioni naturali sono invisibili poiché, così come l’occhio non vede sé stesso, sono incorporate nel punto di vista che instaurano e dunque sfuggono all’orizzonte percettivo che esse stesse sondano. Per mettere a fuoco le interpretazioni naturali occorre uscire da punto di vista che codificano e di cui costituiscono la metaforica di sottofondo, rispetto al quale sono impercettibili ed indubitabili: esse acquisiscono evidenza solo se messe in contrasto mediante un sistema di pensiero alternativo. Qui entrano in gioco due concetti altamente rilevanti, i quali portano a connotare l’anarchismo epistemologico di Feyerabend in senso antropologico: quello di “incommensurabilità” e quello di “contro-induzione”. Per mettere a fuoco le interpretazioni naturali occorre, infatti, scontrarsi con un’alterità radicale: abbiamo bisogno di un modello di critica esterno, abbiamo bisogno di un insieme di assunti alternativi o, dal momento che questi assunti saranno del tutto generali, di costruire, per dir così, un intero mondo alternativo, abbiamo bisogno di un mondo di sogno al fine di scoprire i caratteri del mondo reale in cui pensiamo di vivere (Feyerabend 1975, 28). Incommensurabile significa radicalmente altro: questo concetto non può essere introdotto con una semplice definizione, ma chiede la presentazione di casi concreti per renderne perspicuo il senso. Poiché tutta la nostra esplorazione sarà dedicata all’incommensurabilità tra il pensiero logico e quello analogico, per ora sorvoliamo sulla questione; in seguito gli esempi abbonderanno. La contro-induzione è un metodo creativo introdotto da Feyerabend per svincolarsi dalle chiusure sistematiche che solitamente affliggono la filosofia della scienza: essa consiste nell’inventare sistemi di pensiero alternativi a teorie ben confermate e ipotesi contraddittorie con fatti ben stabiliti, o nel prendere sul serio le testimonianze antropologiche di altre realtà incommensurabili alla visione scientifica delle cose. Un esempio estremo: il dottor Faustroll, personaggio patafisico fuoriuscito dalla mente di Alfred Jarry, oppone all’ipotesi di una forza di gravità che attira i pesi verso il centro, quella di un fluire inarrestabile del vuoto verso la periferia, togliendo la coltre di ovvietà emanata da un concetto scientifico consolidato! Il fine della contro-induzione è rendere evidenti le interpretazioni naturali, le quali richiedono un punto di vista esterno, essendo invisibili come l’acqua del pesce di Lindton. Incommensurabilità e contro-induzione sono i presupposti che consentono a Feyerabend di introdurre, precorrendo Latour, il metodo antropologico in epistemologia: vale a dire l’atteggiamento che, invece di squalificare l’alterità a partire da un’ideale astratto di scientificità, da una conquista parziale e dogmatica di verità e da un’imposizione unilaterale di conoscenza, ne sfrutta la retroazione, per mettere in luce quanto è dato per scontato nel proprio modo specifico di stare al mondo. La contro-induzione assomiglia a tal proposito allo scandalo antropologico dell’etnocentrismo critico di De Martino. L’analisi demartiniana del mondo magico, invece di squalificare il magismo a pallida credenza, appellandosi al naturalismo implicito alla cosmovisione scientifica, riesce a rendere costruttivo il feedback antropologico e a riconoscere nel proprio modo di guardare e di descrivere l’alterità alcune categorie inconciliabili con il dramma del magismo. Lo scandalo antropologico svela che la categoria di “realtà”, intesa come piano di datità naturale i cui estremi sono un mondo deciso e garantito e un individuo atomico altrettanto fatto e finito, sia una “categoria giudicante”, la cui relatività storica può essere resa evidente solo mediante lo scarto che ci separa dall’alterità. La contro-induzione, al pari dello scandalo antropologico, permette di individuare quelle abitudini linguistiche e percettive non suscettibili di critiche dirette, in quanto invisibili dall’interno del proprio punto di vista, come le categorie di realtà e individuo rispetto il fenomeno del magismo. L’anarchismo introduce lo sguardo errante dell’antropologo in epistemologia e costituisce un antidoto salutare contro ogni chiusura sistematica della conoscenza: invece di reagire alle contraddizioni veicolate da punti di vista alternativi con squalifiche dogmatiche ed etnocentriche, ne sfrutta la retroazione, relativizzando il punto di vista indossato, e così obbliga a mantenere aperti i sistemi di pensiero. Feyerabend fa però una cosa piuttosto sospetta da un punto di vista epistemologico, che rischia di essere tacciata di irrazionalità: invece di arretrare dinanzi ad una contraddizione, squalificando come superstizione le posizioni teoriche inconciliabili con la conoscenza scientifica, sfrutta il valore antropologico insito nell’alterità radicale per mettere in luce i fattori antropopoietici e costitutivi del punto di vista dominante. In generale, anche solo nell’affiancare antropologia ed epistemologia si genera una contraddizione. L’epistemologia ricerca il fondamento normativo della conoscenza: l’episteme è la conoscenza fondata in contrapposizione alla doxa, l’opinione mutevole; epi istemi significa “stare sopra”, “tenersi saldi ad una verità stabile” ed è in contrasto ad esempio con l’ex stasi, l’“uscire fuori”, l’estasi velata di irrazionalità e tecnica di impalpabili conoscenze sciamaniche. L’epistemologia implica sempre una linea di demarcazione tra ciò che è fondato, razionale e giustificato e ciò che non lo è e convoglia in sé l’obbligo di squalificare a opinione soggettiva quanto non sia conforme ai suoi criteri di scientificità. L’antropologia, al contrario, ci offre le innumerevoli varianti culturali del sapere, prescindendo, nella misura in cui è critica, da ogni ideale precostituito di conoscenza. Le esigenze delle due discipline sono quindi in contraddizione e occorre un delicato equilibrio per renderne “umano” il dialogo, evitando il rischio di sottomettere l’antropologia alle esigenze dell’epistemologia, inglobandola in una muta alleanza al progetto di modernizzazione del mondo e del sapere. L’epistemologia è una disciplina che tende alle chiusure sistematiche; essa ha quindi difficoltà a rendere costruttivo il dialogo con l’antropologia poiché, invocando il dualismo tra conoscenza oggettiva e opinione soggettiva, tende a squalificare come superstizioni le variegate testimonianze di saperi-altri che l’antropologia ci offre. Abbiamo trovato nello spazio analogico esplorato da Enzo Melandri un luogo in cui il dialogo tra antropologia ed epistemologia diventa possibile e produttivo per entrambe le discipline. Pur non tematizzandolo esplicitamente, Feyerabend fa largo uso del pensiero analogico, poiché esso è un modo del pensiero che si rivela indispensabile nel confronto di incommensurabilità. L’affinità tra Melandri e Feyerabend, nel modo in cui agguantano il dogmatismo epistemologico per relativizzarlo, è forte al punto da consolidarsi in un’equivalenza semantica. La contro-induzione di Feyerabend, il metodo finalizzato a costituire sistemi di pensiero alternativi, in contraddizione con la conoscenza acquisita, per metterne a fuoco la poetica di sottofondo, è un procedimento che non appartiene al pensiero logico, rispetto al quale risulta irrazionale per l’uso che fa delle contraddizioni, ma a quello analogico. In particolare, la controinduzione è analoga dal punto di vista del funzionamento con quella che Melandri chiama la funzione derazionalizzante dell’analogia. L’analogia ha le sue proprie tautologie che, pur essendo come tali altrettanto razionali che quelle in senso stretto logiche, possono tuttavia costituirsi in sistemi alternativi rispetto a queste ultime (Melandri 1968, 47) La funzione de-razionalizzante dell’analogia o, più carino, la sua funzione antropologica, concerne la possibilità di far girare il pensiero su principi opposti e complementari rispetto a quelli logici; ne consegue una cosmovisione incommensurabile rispetto a quella ereditata dall’epistemologia. In generale, la logica funziona all’interno di un sistema di pensiero come controllore della coerenza degli usi linguistici e della correttezza inferenziale; l’analogia, al contrario, permette la mediazione tra due o più sistemi di pensiero, o di conoscenza, senza inciampare in indesiderati riduzionismi, come implicito nella forma della proporzione: “a sta a b come c sta a d”. Ad esempio, nell’introduzione all’I Ching, Jung sfrutta le potenzialità del pensiero proporzionale per introdurre la mentalità cinese nella sua radicale alterità rispetto a quella occidentale: invece di squalificare la predittività dell’oracolo ricorrendo ai preconcetti della fisica, lo psicologo afferma che “la causalità sta alla scienza come la sincronicità sta alla conoscenza cinese”, indicando ciò che ha valore per le rispettive forme di vita: la regolarità degli eventi VS la loro coincidenza. Il dogma della causalità impedisce di cogliere il senso dell’oracolo divinatorio perché il lancio delle monete non è causalmente connesso con il futuro; mentre, per la mentalità cinese, il lancio, effettuato in un preciso istante dell’esistenza, essendo in armonia o in coincidenza con essa, ne costituisce una traccia interpretabile. Se dunque l’epistemologia si fonda su un ideale logico del pensiero, tramite l’analogia possiamo sopperire alla chiusure sistematiche che tale ideale impone e, attraverso il feedback antropologico, mettere a fuoco le interpretazioni naturali che costituiscono la poetica del pensiero logico. L’analogia introduce il metodo antropologico in epistemologia in modo ancor più profondo rispetto l’anarchismo di Feyerabend, poiché in quest’ultimo l’incommensurabilità si dà al livello dei sistemi di conoscenza, mentre in Melandri l’alterità radicale riguarda proprio i principi formali che sorreggono il pensiero. Il nostro centro di gravità è quindi costituito dall’abissale La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia (1968), un’opera variegata e complessa di quasi mille pagine, tutte dedicate al pensiero analogico. Data la monotematicità dell’argomento, ci si può attendere un inventario enciclopedico sull’analogia, noioso ed estenuante; invece, il testo di Melandri assomiglia più ad un romanzo di avventura (con un po’ di fantasia!). L’autore, usufruendo dell’analogia come di una time machine, ci accompagna in un viaggio a ritroso nel tempo filosofico, permettendoci di assistere ai dibattiti di tempi remoti mediante l’artifizio della partecipazione simpatetica: con lo spirito dell’antropologo demartiniano, o dell’anarco-epistemologo, Melandri porta sì con sé il proprio bagaglio concettuale o, direbbe de Martino, la propria ombra culturale; ma aperto e disponibile com’è allo spaesamento, riesce a rendere costruttivo il feedback antropologico e a sfruttarne la radicale alterità per mettere a fuoco i tratti invisibili ed etnocentrici che connotano la modernità. Questo atteggiamento di umiltà etnografica è indispensabile per recuperare il senso originario dell’analogia, al di là delle squalifiche e dei riduzionismi che l’hanno afflitta nel corso della storia del pensiero d’occidente, impedendo oggi di coglierne la frattale complessità. A partire dall’ideale logico di razionalità che si è cristallizzato nella Grecia antica e che ha continuato, a esercitare il proprio governo sull’epistemologia d’occidente, il pensiero analogico emerge come primitivo, pre-logico e irrazionale. Melandri dunque torna alla filosofia antica, sospendendo il pregiudizio logicistico della conoscenza. Invece di assumere la logica come criterio normativo per discriminare ciò che razionale da ciò che non lo è, egli esplora l’illogico per mostrare come i suoi confini non coincidano con l’irrazionale; l’illogico contiene un momento pragmatico di razionalità che, per essere colto, richiede una modalità di pensiero non-logica. Ammettere che la logica e la razionalità non coincidano senza scarti è solo l’ingresso nella dimensione del pensiero analogico. Riconosciuta la potenzialità del razionale illogico, rimane ancora da vedere come la logica, burattinaia invisibile, muova i fili del nostro pensiero. Sia chiaro fin dall’inizio: non ci interessa qui fare una rivalutazione sentimentale dell’analogia, finalizzata a dimostrarne la misconosciuta razionalità! Oltre all’indesiderato intento scientista di tale proposito, il tema stesso dell’analogia ne uscirebbe tradito. L’analogia è un modo del pensiero che ha sì un’intrinseca razionalità, incommensurabile rispetto a quella logica, ma essa è sempre esposta al rischio di una degenerazione nell’irrazionale, nel regresso all’infinito e nella circolarità. Occorre invece recuperare il senso proporzionale implicito in ogni analogia, il quale è stato compromesso, dall’antichità ai giorni nostri, dalle norme logicistiche della conoscenza. Perdendo il senso proporzionale dell’analogia si finisce per ammettere come legittime analogie sproporzionate, come nel caso dell’esportazione del modello evolutivo in ambito storico o sociologico. Ci interesserebbe, al contrario, scrivere una storia dell’analogia: ma questa impresa, oltre che inutile (che senso avrebbe fare un inventario degli usi dell’analogia che sono stati fatti nella storia del pensiero?), è ostacolata dal fatto che l’analogia è stata estromessa dal pensiero cosciente ad opera di un feedback normativo esercitato dal monopolio della logica sul pensiero; occorre dunque farne una “storia critica” che sia in grado di risalire le rimozioni o, in altri termini, un’archeologia. Ma dove sta il problema dell’analogia? L’essere umano fa uso di analogie da tempi immemori (parrebbe, per quanto concerne il cammino d’occidente, dalla lirica arcaica, almeno secondo il filologo che introdurremo a breve, autore del terzo testo) e, di certo, essa non costituisce uno dei contenuti rimossi dal pensiero cosciente, tant’è che la possiamo nominare, ne possiamo parlare e, soprattutto, ne possiamo fare uso e consumo. Il fatto è che la rimozione dell’analogia non concerne la sua funzione, o la possibilità di utilizzarla, bensì il rapporto che essa intrattiene con il pensiero teorico, in particolare dinanzi a un ideale logico della razionalità, come quello che da Aristotele ai giorni nostri è stato assunto dalla filosofia della conoscenza. La rimozione dell’analogia dall’epistemologia è stata a tal punto tenace da rendere l’analogia un impensabile del mondo moderno, nel senso in cui gli ibridi di Latour risultano impensabili a partire dal dualismo natura/cultura su cui si articola la critica moderna: l’impensabile non è ciò che non è affatto pensabile, ma è ciò che, in base ai concetti su cui si muove il pensiero, risulta pensabile solo al prezzo di drastiche vivisezioni. L’analogia, al pari degli ibridi di Latour dinanzi al dualismo natura/cultura, sfugge ai tagli concettuali su cui opera l’epistemologia contemporanea: quest’ultima, ad esempio, separa categoricamente la materia e la forma della conoscenza, i contenuti empirici, molteplici e sfuggenti, e il logos razionale che tenta di unificarli, mentre l’analogia abita proprio quel luogo di transizione, oscuro ed impensabile, in cui si confondono la ragione e l’esperienza. Dividendo la ragione dall’esperienza, l’epistemologia cristallizza l’analogia in due concetti statici che ne smarriscono il senso proporzionale: l’analogia può essere intesa, prediligendo l’aspetto logico, come omologia strutturale, nel senso in cui questa espressione è usata in biologia (eguaglianza di struttura), o come isomorfismo sintattico, ossia come corrispondenza biunivoca degli elementi o delle proprietà appartenenti a due classi o concetti; prediligendo invece il tratto empirico, l’analogia è declassata a relazione di somiglianza (“a è analogo a b” come espressione sinonimica di “a è simile a b”), ed è così espunta da ogni questione gnoseologica e riportata all’episteme rinascimentale pre-scientifica. La logica che governa l’epistemologia esercita un feedback normativo sul pensiero analogico, sia a livello concettuale, che a livello proposizionale. Per la logica è indispensabile che i concetti abbiano un significato letterale univoco, altrimenti il sillogismo si arena nella fallacia del quaternio terminorum e perde il proprio valore deduttivo; anche le inferenze della logica moderna (logica simbolica) richiedono che uno stesso simbolo abbia sempre lo stesso significato, in ogni sua ricorrenza. I concetti analogici sono invece metafore: essi comportano uno slittamento regolare dall’uso consueto di un termine a un uso improprio poiché, trasferendo un termine di un dato sistema di pensiero ad un altro ambito (ad es. il concetto di “campo” dalla fisica alla psicologia, con Kurt Lewin), il termine subisce una variazione di significato, in quanto non verte più sullo stesso riferimento o sulla stessa classe di fenomeni. Aristotele fu il primo ad escludere la metafora, e con essa l’analogia, dalla scienza, poiché per la sua imprecisione semantica inficiava la teoria sillogistica. Ma ancora oggi l’epistemologia non riesce ad ammettere che la scienza abbia una propria poetica e, qualora venga ammesso un ruolo positivo della metafora, lo si ghettizza come momento pre-scientifico, appartenente al contesto della scoperta, ma insignificante rispetto alle prove e alle giustificazioni razionali che consolidano la conoscenza. In verità, tutti i termini tecnici delle scienze si sono cristallizzati a partire dagli usi metaforici del linguaggio, attraverso un lento progresso di specificazione lessicale, di cui il concetto finale costituisce solo la traccia ultimativa di un processo il cui senso complessivo sfugge. L’ostinazione con cui l’epistemologia si oppone al tema di una metaforica scientifica impedisce di esplorare la dimensione pragmatica della genesi dei significati. Anche da un punto di vista proposizionale, le norme logiche generano una grave incomprensione del pensiero analogico: λογος che oggi tendiamo a tradurre secondo i lessemi “ragione” o “discorso”, significa la divisione matematica, ossia il rapporto, il quale si esprime nella predicazione di identità (predicazione categorica): ‘a è b’ o ‘a sta a b’; άναλογία parola che oggi accogliamo con i significati imprecisi della somiglianza o dell’omologia, significa invece la proporzione, ossia l’eguaglianza di due logoi ο rapporti: ‘a sta in rapporto a b, così come c sta in rapporto a d’, oppure, ‘a/b = c/d’. Poiché nella logica la proposizione standard è la predicazione categorica, ‘a è b’, costituita dallo schema “soggettopredicato”, assumere la logica come ideale normativo degli usi linguistici fa pensare che l’analogia, la quale è invece a quattro termini, sia una specie di connessione esteriore, superaddita e piuttosto vaga tra due proposizioni, ciascuna di due termini; mentre dovrebbe essere chiaro che ogni proporzione costituisce da sola un’unica proposizione. Si tratta allora di una proposizione a quattro termini, e non a due (Melandri 1968, 232) Le grammatiche di logica e analogia si fondano su un’unità proposizionale differente: la predicazione categorica e la proporzione; istituendo la predicazione categorica come norma proposizionale, la proporzione non può più essere intesa nella sua totalità, ma viene scissa in due proposizioni atomiche, estrinsecamente connesse, e se ne smarrisce la componente proporzionale. Logica e analogia sono modi del pensiero che si fondano su principi opposti e complementari. In linea generale, il pensiero logico procede in base a dicotomie radicali, sottomesse al principio di contraddizione esclusa, e concepisce come esistenti solo quelle entità sorrette da un principio di identità elementare. L’analogia, al contrario, in base al principio di di-polarità, traduce ogni dualismo in una transizione continua e graduale tra due poli ideali, che non si oppongono più tra loro come termini contraddittori, per cui l’ammettere l’uno equivale all’escludere l’altro, ma come termini contrari, in eterno conflitto, sorretti da una relazione di proporzionalità inversa. Possiamo pensare al presupposto di continuità tra psiche e cultura in etnopsichiatria e a come Devereux, introducendo il principio di complementarità, sottolinei come la spiegazione psicologica e quella sociologica di un fenomeno umano siano complementari, ossia inversamente proporzionali. Anche al principio logico di identità elementare, per cui non si dà entità senza identità (no entity without identity, è uno slogan di Quine), l’analogia oppone un contro-principio opposto e complementare, coerente con la grammatica proporzionale: quello dell’identità funzionale. In una proporzione analogica, l’eguaglianza non stabilisce un’identità tra due cose, ma tra due rapporti: l’identità analogica, espressa in modo comparativo, è inafferrabile, poiché si basa sul confronto di entità appartenenti a forme di vita differenti e richiede che ogni singolarità sia data entro l’orizzonte di senso che ne codifica il significato esistenziale. Ogni grammatica contiene una cosmologia: alle grammatiche differenti di logica e analogia conseguono dunque due visioni del mondo incommensurabili. Così, il principio logico di identità porta a una concezione atomica dell’esistente, inteso come punto-istante individuabile mediante coordinate spaziotemporali, sempre identico a sé stesso. Mentre da un punto di vista analogico, l’esistenza si trasforma in una grandezza intensiva, suscettibile di gradazione, secondo una transizione da un minimo a un massimo di esistenza: non si tratta più, dunque, da un punto di vista ontologico, di fare un inventario degli esistenti, discriminando ciò che esiste da ciò che non esiste in base al principio logico di identità elementare, ma di trovare un’unità di misura per l’esistente, funzionale alle pratiche che esso attiva e alle credenze che lo animano. Allo stesso modo, in sede epistemologica, nel passaggio da un pensiero logico a uno analogico, si produce un’analoga destrutturazione. Per ogni dualismo, prendiamo quello tra natura e cultura, non si tratterà più di distribuire ogni entità in questi due grossi scatoloni, partendo dal presupposto che i due poli del dualismo siano termini contraddittori (naturale = non-culturale) o, peggio ancora, di vivisezionare ogni entità nelle sue componenti naturali e culturali, come accadeva agli ibridi di Latour; ma si tratterà di trovare una misura per la naturalità delle scienze, o per la loro umanità (Latour ci suggerisce la prima: la naturalità di una scienza risiede nel suo potere di mobilitare la natura; Melandri la seconda, ma la trattazione è lunga e non sta in una parentesi). Né si tratterà più di stabilire dei criteri normativi per discriminare univocamente la conoscenza oggettiva dalle credenze soggettive, in base al principio logico di bivalenza tra vero e falso (vero = non-falso), ma di sostituire a questa dicotomia una “logica del vero”, capace di restituire dignità ai saperi-altri. La conoscenza perde così il suo valore simbolico, di rappresentazione oggettiva di fatti naturali, per acquisirne uno sintomatologico: ogni conoscenza è un sintomo di verità rispetto alla realtà da essa stessa instaurata. In generale, intrecciando il pensiero di Melandri e di Feyerabend, abbandonate dunque le distinzioni categoriche e rifatte le proporzioni, l’epistemologia non sarà più una disciplina normativa, che assume come metro universale la conoscenza occidentale rispetto al quale valutare gli altri sapere, bensì comparativa: essa non porrà più come oggetto una singola scienza, da elevare a modello normativo della conoscenza, ma almeno un minimo di due o più scienze, o saperi-altri. L’oggetto di un’epistemologia comparata, o antropologica, è un’incommensurabilità, e il suo modo privilegiato di pensare è offerto dal pensiero analogico o proporzionale. Il terzo e ultimo testo fondamentale della nostra regressione è La cultura greca e le origini del pensiero europeo (1963) del filologo Bruno Snell, il quale costituisce l’effettivo punto di contatto tra il pensiero di Melandri e quello di Feyerabend. Quest’ultimo alimenta, infatti, la sua trattazione principale del tema dell’incommensurabilità con le analisi del filologo, mostrando la radicale alterità che ci separa dalla Grecia antica e rendendo consistente quel concetto (incommensurabilità) che è un insulto per l’epistemologia classica. Melandri, invece, trova due spunti nel libro di Snell: innanzitutto, l’opposizione tra pensiero logico e pensiero analogico ha basi grammaticali molto accentuate, che il filologo spiega in maniera affascinante, ripercorrendo i poemi dell’antichità e gli scritti filosofici più arcaici; in secondo luogo, tra le tante linee genealogiche tracciate dal filologo nella Grecia antica, una riguarda proprio il pensiero proporzionale. Snell muove da una prospettiva neo-humboltiana, consapevole dell’influenza che la grammatica esercita sul pensiero, ma ne mitiga il determinismo mantenendo una stretta aderenza alla fenomenologia degli usi linguistici, dalla quale ricava tre forme enunciative originarie, onnipresenti in ogni manifestazione linguistica della nostra eredità culturale: la modalità sostantivale, l’aggettivale e la verbale.. Tutte e tre le forme enunciative, secondo Snell, si rapportano in un certo modo all’atto del confrontare. Indicando le cose del mondo con dei sostantivi operiamo dei confronti, nel senso che, chiamando con il nome “cavallo” diverse entità individuali, le riconosciamo, malgrado piccole differenze, come eguali. Si formano per questa via i concetti, i quali costituiscono le categorie universali a cui sussumere le singole entità individuali, come gli oggetti ai nomi comuni. Qui vige una logica binaria, del “si-o-no”, poiché ogni x è un cavallo, oppure non lo è, tertium non datur: la logica conosce solo la bipartizione. L’aggettivo, invece, ammette anche la dimensione della gradualità, poiché l’azzurro, che sfuma nel verde e nel viola, può essere più-o-meno intenso. La gradazione di una qualità può essere fissata mediante comparazione: bianco come la neve, più pallido dell’erba, veloce come un uccello. Se l’aggettivo ha una propria logica, questa non può essere una “logica del nome”, poiché la qualità risalta quando è contrapposta al suo contrario: essa, quindi, include l’escluso, come misura di sé. Infine il verbo, più difficile da caratterizzare, rimanda ad una dimensione di “idealità” o “tipicità”: tra le infinite attività possibili, caratterizziamo mediante verbi solo alcune modalità tipiche e ricorrenti – il “sedere” e lo “sdraiarsi” a scapito di tutte le posizioni intermedie. Il sostantivo, dunque, sta alla bipartizione, come l’aggettivo sta alla gradualità e il verbo sta alla tipicità o idealità. Tra queste tre forme non si dà divisione categorica, poiché sono ammesse ibridazioni tipologiche, ma a seconda della prevalenza tematica che una di queste forme assume sulle altre, ne consegue una “grammatologia” dominante, che governa il modo di pensare. La chiusura logicistica porta in primo piano la semiologia sostantivale, con diverse conseguenze sia sul piano della cosmologia, sia sul feedback normativo esercitato sugli altri modi dell’enunciazione. Ad esempio, un’ontologia sorretta da una semiologia sostantivale porterà a intendere gli esistenti in termini di identità atomiche ed elementari e a sottomettere gli usi aggettivali ad una logica nominale: questo è quanto mai evidente nella “logica delle classi”, in cui i predicati sono intesi come insiemi che contengono, come elementi, le entità che esibiscono quelle proprietà lì. Quest’uso presuppone una logica nominale poiché, data una qualsiasi proprietà P e un qualsiasi individuo x, siamo costretti a dire che “x è P” (x appartiene all’insieme P) o che “x non-è P” ( x non-appartiene all’insieme P), tertium nondatur. La logica delle classi rimuove la gradualità implicita a una semiologia autenticamente aggettivale e sottomette i predicati ad una logica sostantivale, sorretta esclusivamente dalla bipartizione. Logica ed analogia sembrano presupporre, rispettivamente, una semiologia sostantivale ed una aggettivale. La simmetria logica si esprime, infatti, mediante un’opposizione per contraddittorietà: dato il ‘bianco’, il complemento per contraddittorietà (o logico) è ‘non- bianco’. Il rapporto che si genera è di tipo monovalente, in quanto verte su uno stesso riferimento: il bianco. Una simmetria monovalente è rigida e dicotomica poiché oppone sempre, per così dire, l’essere al non-essere e non ammette una terza possibilità: tolto l’ambito di spettanza del nostro referente, tutto il resto del mondo ci appare allora ‘non-bianco’ all’infinito. La simmetria analogica è invece tensionale e di-polare e si esprime mediante un’opposizione per contrarietà: dato il ‘bianco’, il complemento per contrarietà non è più ‘non-bianco’ ma, poniamo, il ‘nero’. Il rapporto che si genera è di tipo bi-valente o, meglio, di-polare, in quanto i riferimenti sono due termini differenti e appartenenti al medesimo genere (in questo caso appartengono al genere dei colori). Tra termini contrari si produce un gioco di forze che possiamo descrivere come un’insanabile conflittualità, mentre due termini in contraddizione stanno in una relazione di esclusione reciproca. Lo svantaggio dell’opposizione per contrarietà è il suo essere approssimativa, poco precisa, in molti casi indefinita: non è sempre possibile indicare il contrario di un dato termine e, anche quando lo troviamo, è necessario indicare la misura comune che regge il rapporto (nel nostro esempio, scegliamo ‘nero’ come contrario di ‘bianco’, per l’opposizione di-polare tra un massimo e un minimo di luminosità). Ma l’opposizione per contrarietà ha anche un’inestimabile vantaggio: essa contente una misura dell’opposizione. Supponiamo di dover descrivere una certa tonalità di grigio nei termini del ‘bianco’ e del suo opposto. Se l’opposizione è di tipo logico (per contradditorietà), dobbiamo dire che l’oggetto in questione è nonbianco e basta. Ma se l’opposizione è di tipo analogico (per contrarietà), allora possiamo dire in che misura non è bianco – poniamo, del 5%. Ma allora implicitamente diciamo sia che è bianco al 95%; sia che è nero al 5%: nel grigio considerato, il bianco e il nero sono inversamente proporzionali. L’opposizione per contrarietà si esprime nella forma “né A, né B”: il grigio in sé non è né bianco, né nero; qui l’esistenza del bianco non esclude quella del nero, anzi la include come misura di sé. Già da queste righe possiamo intendere come la chiusura logicistica della Grecia antica abbia portato in primo piano una semiologia nominale e abbia sottomesso alle proprie regole grammaticali le altre modalità enunciative. A noi però interessa l’altro lato della questione, ossia la rimozione del pensiero proporzionale e della semiologia aggettivale che sottintende; qui Snell ci viene in soccorso, perché percorre quel brevissimo istante della storia d’occidente in cui è emerso il pensiero proporzionale, per essere poco dopo spodestato, con l’avvento dello scritto filosofico, logico e scientifico. In base allo studio del filologo, si può dare una duplice collocazione archeologica all’emergere del pensiero proporzionale: da un lato, esso si situa nel momento di transizione dal mito alla logica, e alla formazione dei primi concetti di tipo scientifico; dall’altro, esso si forma progressivamente nel corso di quel processo che il filologo indica come “scoperta dello spirito”, e che consiste nel ripiegamento riflessivo della coscienza greca su se stessa che, gradualmente, viene a riconoscersi come unita e individuale, separandosi così dal restante contesto naturale. Quella tra un mondo esterno ed una individualità interna è forse la prima forma di incommensurabilità nella storia del pensiero filosofico e, poiché assieme ad essa emerge anche il pensiero proporzionale, riteniamo che la forma della proporzione costituisca il ponte comparativo indispensabile, grazie al quale è possibile mediare tra forme di vita incommensurabili. Da questo punto proseguirà la nostra esplorazione.