Quattro Maestri dell`Architettura

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ISA 2008
Quattro Maestri dell’Architettura
IL CONTESTO SOCIO-POLITICO E CULTURALE
DEI QUATTRO ARCHITETTI
Gli anni compresi tra i primi dell’800 e la metà del ‘900 sono testimoni di
una grande evoluzione economica, sociale e soprattutto tecnologica.
Le attività dell’uomo risentirono notevolmente di questi cambiamenti,
dal piccolo laboratorio a carattere artigianale o familiare, fino ai grandi
complessi che impegnavano migliaia di lavoratori. Lo spopolamento delle
campagne e l’affollamento delle città e la trasformazione dei sobborghi in
anneriti agglomerati industriali, sono indice dei mutamenti di carattere
politico e sociali che in quegli anni hanno reso graduale il processo di
riforma e modernizzazione.
Di fronte a questi fenomeni del tutto nuovi e rivoluzionari, il mondo del
pensiero era nettamente diviso in due: chi considerava necessario ed inevitabile il progresso tecnologico e chi lo accusava di trasformare l’uomo
stesso in una macchina, isolandosi in favore di un ritorno all’artigianato.
Il fatto creativo, o semplicemente la superflua decorazione furono messe
daparte in favore di una progettazione che, al servizio della produzione
industriale, organizzava il lavoro in base al prodotto favorendone la semplicità e una chiarezza formale dettate dalla funzionalità.
Le Corbusier appoggia notevolmente la produzione industriale organizzando il suo lavoro in maniera scientifica, cercando di dimostrare che anche l’architettura poteva essere prodotta in serie.
La Maison Dom-ino e la Maison Citrohen sono il frutto dei primi anni
dello studio di Le Corbusier, nel tentativo di dimostrare come l’applicazione dei suoi postulati poteva risolvere il problema del crescente bisogno di abitazione, dovuto alla rapida espansione delle città.
Il lavoro del maestro tedesco, Mies van der Rohe, si basa sulla convinzione che non può esservi alcuna contraddizione fra architettura e struttura,
che entrambe debbano coesistere armonicamente nella costruzione dell’edificio.
Frank Lloyd Wright - Le Corbusier - Mies Van Der Rohe - Alvar Aalto
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Frank Lloyd Wright si opporrà decisamente alla nuova tendenza europea
della standardizzazione indotta dalla realtà industriale anche nel campo
della produzione edilizia, legando il suo pensiero alla completa integrità
del rapporto con la natura.
Il maestro americano sosteneva che il giusto rapporto tra natura e fantasia da un lato e produzione e meccanizzazione dall’altro, si poteva raggiungere tramite un’educazione progettuale.
La realtà industriale dovrebbe educare a progettare e non ad assemblare
elementi, a riconoscere la vera natura dei materiali e non a sfruttarli in
base al loro valore economico e formale.
Lo stesso Mies van der Rohe, influenzato da una mostra che Wright ha
tenuto a Berlino nel 1910, insisterà sull’importanza della spiritualità dell’architettura rifiutando la standardizzazione, ma rimanendo d’accordo
con Le Corbusier che la forma va pensata fine a se stessa.
Il nord - est dell’Europa trova in Alvar Aalto il migliore mediatore tra le
due scuole di pensiero.
Il compito principale che Aalto si incarica è quello di umanizzare l’era
della meccanizzazione e della standardizzazione, in modo da renderla più
flessibile per ottenere risultati diversi anche partendo da una stessa unità. Alvar Aalto si rende conto, come Le Corbusier, dell’alto valore democratico della standardizzazione, in grado di contribuire al raggiungimento
del benessere della vita, ma come Mies, e in particolare Wright, vuole che
sia l’era della macchina al servizio dell’uomo e non viceversa.
Anche se la rivoluzione industriale e il progresso tecnologico hanno
permesso di accelerare gli spostamenti e le comunicazioni avvicinando e
rendendo sempre di più il mondo un unico spazio per l’uomo, ogni Paese
è riuscito a mantenere, anche se con molte difficoltà, una sua identità storica e culturale che ancora oggi ne testimonia le differenze.
Questi eventi hanno influenzato e caratterizzato la vita dei quattro maestri, ma, sicuramente, e questo è, probabilmente, dovuto anche dal luogo
in cui sono nati e cresciuti, dalle influenze e dal tipo di formazione che
hanno ricevuto.
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Charles Edouard Jeanneret, nasce nel 1887 nella Svizzera francese. I
viaggi, le collaborazioni con i grandi maestri del ‘900 e gli studi affrontati,
non solo in architettura, ma anche nel campo delle arti visive, gli hanno
permesso di sintetizzare l’esperienza in libri come “Verso un’architettura“
e “Precisazioni sullo stato attuale dell’architettura e dell’urbanistica”, diventando l’ultimo trattatista del periodo moderno.
Villa Savoye, nella costruzione geometrica di puro prisma sollevato su
pilotis e tagliato da finestre in lunghezza, è il manifesto della sua poetica,
riassumibile nei cinque punti, formulati per ridare all’architettura quel
rigore intellettuale e uniformità compositiva, che si erano persi con
l’eclettismo del secolo precedente.
L’uso sapiente delle proporzioni, della geometria, della luce della disposizione degli ambienti, fanno di Villa Savoye un unicum spaziale, che governa l’atto creativo.
La nascita del nome Le Corbusier, derivato dalla figura conosciuta nel
Medioevo che aveva il compito di uccidere i corvi che si appollaiavano
sulle guglie delle chiese, è segno del cambiamento da materiale a spirituale che l’architetto stava vivendo.
Il rifiuto del passato è comunque solo apparente. Le Corbusier non si
staccherà mai del tutto dal suo ambiente.
Il fatto che Le Corbusier non sia un rinnovatore a tutti i costi lo dimostra
il progetto della Ville Contemporaine del 1922 per tre milioni di abitanti,
che salvo per le dimensioni e l’uso di alti grattacieli cruciformi, riprende
gli impianti barocchi composto dalla piazza centrale con quattro esedre
contrapposto e piazze secondarie poste sui vertici di convergenza dei due
reticoli ortogonali sfalsati di 45°.
Le Corbusier ha sempre saputo che “il moderno ha un cuore nell’antico”
eanche se le sue architettura si allontanano molto dalla tradizione passata, la matrice formale è testimoniata anche da quegli edifici antichi disegnati nel suo blocco per gli schizzi.
I più critici del Movimento Moderno parlano di Mies van der Rohe, come
il vero affondatore della tradizione e della cultura.
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Mies, nato nel 1886 ad Aquisgrana, è figlio di un muratore scalpellino, e
conserverà il ricordo delle cattedrali gotiche, a cui il padre lavorò per anni come restauratore, per la loro semplicità e chiarezza compositiva.
Nel 1913 apre un suo studio e prende le direzioni del Novembergruppe,
un organismo che ha per scopo la propaganda dell’arte moderna.
Nel 1923-24 è uno dei redattori della rivista ”G” (da Gestaltung, forza
creativa) e nel 1930 Walter Gropius gli offre l’incarico di direttore del
Bauhaus.
La sua diffidenza rispetto ai pensieri contemporanei è evidenziata anche
dai rapporti personali che instaurava con i clienti, considerandoli, a differenza di Le Corbusier e Wright, non attori principali dello spazio da costruire, ma quotidiani abitanti che dovevano adattarsi alla casa.
Nella Villa Tugendhat, a Brno, impone di amare l’unica possibile distribuzione dell’arredamento pensata appositamente in fase di progetto.
Costruita sul pendio della collina, affacciandosi sulla città, riesce ad instaurare un forte legame con il sito, evidenziato ancor di più dalle grandi
vetrate.
Costruita su una rigorosa griglia geometrica, la struttura portante è formata da un sistemi di pilastri cruciformi, che gli permettono di suddividere gli ambienti interni, senza però chiuderli.
Il lavoro per piani e per dettagli che lo contraddistinguono, hanno permesso, non solo di rompere la scatola, ma di costruire un spazio in cui gli
episodi si legano in un gioco perfetto di scambi ed armonia, ed insieme
all’uso sapiente della luce, la villa assume, quasi, un aspetto mistico.
Mies, rimarrà per sempre un ribelle alle mode e agli stili contemporanei,
sempre fedele ai quei principi di una verità strutturale che lo hanno accompagnato fin dalle prime architetture di cui prese contatto.
Ciò che separa Frank Lloyd Wright dall’Europa, dal razionalismo e dall’idea che la produzione seriale può comprendere anche l’architettura,
non è solo la distanza tra i due continenti ma una vita vissuta soprattutto
per la natura e a contatto con essa.
Wright, nato nel 1869 nel Wisconsin,
Nei primi anni del ‘900 gli Stati Uniti sorpassarono l’Inghilterra, che dal
tempo della rivoluzione industriale era rimasta la più grande potenza
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economica, politica e industriale. Nonostante questo, gli Stati americani
non erano riusciti a trovare una loro identità architettonica, uno stile che
rispecchiasse la loro cultura e che invece non fosse una rimanenza manierista dei Paesi europei che per anni l’avevano colonizzata.
Uno stile che rappresentasse gli Stati Uniti non poteva essere altro che di
derivazione europea, dato che l’uomo stesso aveva contribuito quasi a
cancellare e seppellire nella storia dimenticata tutto ciò che aveva preceduto il suo arrivo.
La grande Esposizione Universale del 1893, tenutasi negli Stati Uniti, fu
l’evento che incrinò la ricerca di una propria identità culturale e architettonica.
Copiature e forme di edifici antichi carichi di nuovi ed importanti significati, invadono la produzione architettonica che fu completamente subordinata alla grande operazione commerciale.
Wright si dichiara da subito indipendente, non contesta solo gli aspetti
estetici e formali del neoclassicismo, ma lo considera una maschera classica che non tiene conto della vita e del rispetto verso la natura.
Il suo nuovo atteggiamento non è antistorica, come a volte è identificato,
ma il pensiero organico trae le proprie basi da Lao Tze, un teorico giapponese, vissuto circa cinque secoli prima di Cristo, il quale come Wright
identifica la costruzione non nella struttura fisica, ma in quella spaziale
da questa delimitata.
Non dimenticava mai di ricordare il contributo delle antiche civiltà, i Persiano, i Dori, gli Ioni, i Bizantini, gli Egiziani, i Maya e tutti quei popoli
che si sono creati una propria identità non dall’imitazione ma da intuizioni e dall’istinto naturale.
Non più forme predeterminate (tipo) in grado di essere ripetute ovunque
e svariate volte, ma qualcosa che muta, che si adatta, che definisce lo spazio nello spazio in cui si trova.
Fallingwater è la pura espressione della poetica organica, in cui i volumi,
esplosi dal nodo centrale individuato dal camino, galleggiano liberi nello
spazio.
Concepito come un albero ancorato al suolo, i cui rami (gli sbalzi) si
estendono sulla cascata, costruisce un incredibile saggio di eleganza ed
armonia con la natura.
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Niente è determinato a priori, tutto è regolato e legato alle caratteristiche
del sito, ai materiali del luogo.
Wright si allontana dal tradizionalismo accademico per abbracciare
un’unica ed essenziale tradizione, quella che nasce dalla terra.
Alvar Aalto è un architetto finlandese, diverso per cultura e tradizione da
quello che possiamo ritrovare nel centro - sud dell’Europa.
La Finlandia ha avuto poche opportunità di esprimersi liberamente nella
storia, a causa delle lunghe tirannie subite prima da parte della Svezia e
dalla Russia fino all’indipendenza conquistata nel 1917.
La ricerca di una nuova identità architettonica nazionale, questo è l’ideale per Alvar Aalto, riuscire a formulare un linguaggio che rispecchi la tradizione e la cultura di uno Stato rimasto per molti anni nell’ombra della
storia del continente.
La libertà non è solo fisica, ma anche di pensiero.
Queste correnti di pensiero, il romanticismo - nazionale e il razionalismo
europeo, influenzeranno a pari misura la formazione e maturazione di Alvar Aalto.
Quindi nei suoi progetti è facile trovare riferimenti al passato, ma tutto
riappare in forme nuove.
Villa Mairea può essere considerata il manifesto della poetica aaltiana, in
cui le migliori caratteristiche del pensiero razionalista e di quello organico si fondono in un corpo armonico.
Il sito, il bosco che la circonda, i materiali del luogo e la neve che imbianca l’ambiente nei rigidi inverni, sono per l’architetto i migliori riferimenti da cui trarre la geometria compositiva e il contrasto cromatico tra
il freddo intonaco bianco e il legno, che in gran parte riveste l’edificio.
Volutamente non segue nessuna rigida geometria, nessuna maglia o sistemi a griglia per la struttura a pilastri che, letti individualmente, denunciano chiaramente il dialogo con gli alberi del bosco.
Aalto progetta l’edificio studiando la migliore disposizione degli ambienti
interni e la luce naturale, elemento che assume un ruolo determinante
anche per la forma e la disposizione dei corpi.
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RAPPORTO CON IL SITO:
L’ORGANISMO ARCHITETTONICO.
NEL CONTESTO MORFOLOGICO AMBIENTALE.
L’architettura è qualcosa che nasce da un’idea implicita del costruire, è
quindi un atto creativo, che dà all’uomo la facoltà di lasciare sulla terra
un sedimento resistente, un insieme di segni e cose che testimoniano il
suo passaggio.
L’architettura nasce dal bisogno dell’uomo di possedere un riparo, quindi
pensa e progetta osservando ciò che lo circonda, la natura.
Ancora oggi le parti che formano un edificio sono espressioni di uno
studio più o meno approfondito del mondo in cui viviamo; ma è lecito
innanzi tutto chiedersi in che modo bisogna rapportarsi ad essa.
L’alleanza che ha stretto con la natura lo ha portato a formulare atteggiamenti differenti ma che partono da una stessa base.
Il meno persuasivo dei risultati è aver separato “l’organicità” e “l’astrazione” come due entità polari e aver identificato nella prima la capacità di
ascolto della natura e nella seconda un atteggiamento “classico”, legato
più allo spirito che al mondo che ci circonda.
In entrambe le correnti di pensiero, se pur rimanendo lontane, hanno
alla base lo studio della natura, con la differenza che uno costruisce in
modo da integrare e creare un unicum spaziale con l’ambiente, e l’altro
trae solo le regole, le leggi che la governano, per costruire un mondo artificiale che si stacca dal suolo e si isola da tutto ciò che gli ha dato la facoltà di esistere.
Sono due atteggiamenti differenti che comunque nascono da un solo ente ispiratore, la natura. Le costruzioni sono pensate per un certo luogo
studiando le caratteristiche del sito, dei materiali disponibili nell’ambiente, quasi a “mimetizzare” l’architettura, o meglio, senza disturbare la natura, formando un corpo in piena armonia con l’ambiente. L’altro atteggiamento considera la natura solo una fonte di ispirazione da cui trae le regole geometriche, proporzionali, progettando corpi, che per scelta autoritaria, creano un rapporto con il sito di puro dominio e non di armonia.
Frank Lloyd Wright, influenzato da una vita vissuta a contatto con la natura, riflette nell’architettura l’informalità, l’irregolarità e l’asimmetria,
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sintomi che rivelano un attento studio del sito, una curata definizione dei
materiali e scelte cromatiche.
L’architettura è legata alla “completa integrità di rapporto con la natura”
la cui sintesi viene indicata con il termine organica.
Organico significa che tutte le parti sono legate tra loro nel formare
un’unità che non si distacca dalla natura che lo circonda, ma entrano insieme a far parte di un corpo che nasce e cresce dalla terra e che si lega
intimamente alla vita dell’uomo.
L’edificio è concepito come un essere vivente che non si lega a nessun
tipo di repertorio formale del passato, del presente e del futuro, ma che si
basa sull’esaltazione dei principi della sua costruzione.
Una banca non dovrà più apparire come un tempio greco, un’università
come una cattedrale, ogni edificio dovrà esprimere se stesso, costituendo
un unicum tra forma e funzione.
Rapporto con la natura non significa solo progettare un edificio in mezzo
ad essa o usare i suoi materiali, ma capire come rispettarla, seguendo le
sue linee, i suggerimenti, per concludere artificialmente uno spazio più
adattato alla vita dell’uomo e alla crescita della natura.
Taliesin, “ciglio lucente”, fondata nel Wisconsin al ritorno negli Stati
Uniti dopo la fuga in Europa, viene costruito sul fianco di una collina e
non sulla cima, indice di una gran sensibilità e di rispetto verso un ambiente che non deve essere dominato, ma dove l’uno risulta il prolungamento, l’estensione dell’altro.
Se l’edificio fosse stato costruito in cima, la collina avrebbe perso la sua
punta e l’architettura si sarebbe isolata in mezzo ad un ambiente di semplice cornice.
Questo atteggiamento, tanto criticato da Wright, è invece esasperato da
Le Corbusier, capace di astrarre l’architettura dall’ambiente circostante.
Gli stessi disegni dei due architetti sono tanti diversi quanto testimoniano l’opposto modo di intendere e interpretare il rapporto con la natura.
Quelli di Wright sono la pura espressione della sua poetica, usati come
strumento operativo e critico allo stesso tempo, in grado di comunicare il
percorso ideativo, le qualità formali e espressive di un corpo capace di
esprimere la completa integrità con il sito.
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I disegni di Le Corbusier per Villa Stein a Garches, mostrano nella loro
costruzione isometrica senza ombre, come alla base dell’atto progettuale
ci sia una volontà di astrazione, in cui la natura, gli alberi, i cespugli non
entrano nell’architettura, non si confondono con essa, non si governa da
sola, ma viene obbligata in piccoli ritagli e aperture rigorosamente ortogonali.
Se Wright ha avuto il grande merito di animare l’architettura rendendola un
corpo vivente, organico, Le Corbusier è riuscito a rendere “artificiale” ciò che da
sempre è stato naturale.
Se Taliesin nasce sul fianco della collina, Villa Savoye è un parallelepipedo sulla sua sommità. Se per Wright la natura entra nell’architettura, si
prolunga e si confonde con essa, per Le Corbusier diventa lo sfondo di
un quadro da osservare con ammirazione e stupore, ma sempre da una
certa distanza.
Villa Savoye è un semplice volume in piena campagna, una scatola nell’aria, tagliata tutto intorno, senza interruzioni, da una finestra in lunghezza.
Si impone nel paesaggio con autorevolezza, con il rigore intellettuale e di
proporzioni geometriche tratte dalle leggi della natura.
La casa viene letta come un oggetto su un piedistallo esibito in una vetrina, isolato nel suo bianco splendore ed elevato al di sopra dei suoi pilotis,
che permettono vedute lontane sull’orizzonte ed eliminano tutti gli inconvenienti di “un’erba umida e malsana”.
“La scatola è al centro di un prato, domina il frutteto”.
Villa Savoye non è stata pensata per una particolare condizione ambientale, ma il rapporto con il sito è solo un fattore di secondaria importanza,
perché, come racconta lo stesso Le Corbusier, la casa può essere trasportata ovunque, anche nelle campagne argentine, disponendo venti Villa
Savoye con un sistema di strade ad albero, senza diminuire la qualità degli edifici.
La villa va considerata, dunque, il prototipo della cellula d’abitazione
standard composta da elementi basati su soluzioni standard, su certezze
acquisite dall’esperienza e dalla pratica professionale. Villa Savoye è “una
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macchina per l’abitare”, progettata in uno spazio astratto e inserita in un
ambiente reale.
Fallingwater è l’esatto contrario di ciò che rappresenta Villa Savoye.
“In un bellissimo bosco c’era uno scoglio alto e massiccio, posto al di sopra di una cascata e l’idea più immediata sembrò quella di costruirvi la
casa; proprio a sbalzo sopra la cascata! Considerando che a Bear Run per
la prima volta avevo a disposizione il cemento armato come materiale da
costruzione, la grammatica del progetto poté chiarirsi su quella base. Ma
di non minore importanza per la stesura del progetto fu l’amore di
Kaufmann per il posto e il fatto particolare che gli piacesse il rumore della cascata”.
Un corpo cresciuto dalla formazione rocciosa, seduto sopra una cascata
nel mezzo delle montagne della Pennsylvania.
La mano e lo spirito dell’architetto sembra che siano stati guidati dalla
natura stessa, ottenendo una totale integrazione del corpo artificiale con
la roccia, l’acqua, la vegetazione, il cielo e il sito.
L’irregolarità della spontanea formazione del territorio ha indicato a
Wright le linee delle terrazze aggettanti sul torrente, enfatizzando la natura orizzontale della casa, la composizione di una pianta che non ricalca
nessuna forma geometrica predeterminata, la totale assenza di una legge
che determini a priori la struttura o la formulazione dei profili, non esiste
una facciata principale e una secondaria, le pareti non sono più pareti,
ma elementi rocciosi che si estendono dalla terra per dare vita ad uno
spazio senza precedenti.
Il rapporto tra l’edificio e il sito è evidente nella composizione della pianta, nelle linee che determinano il perimetro dei corpi che si abbracciano
in un insieme armonico.
A nord, dove è posto l’ingresso, spessi muri rivestiti di pietra, seguono il
tracciato irregolare della strada e si contrappongono alla leggerezza delle
grandi terrazze tagliate dalle lunghe vetrate.
La casa appare come ancorata nella roccia per poi esplodere sull’acqua i
suoi volumi dal centro, non geometrico, della pianta individuato dal camino, i cui sbalzi, quasi sfidando le leggi della natura, galleggiano liberi
nello spazio.
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È quasi come se il torrente abbia contribuito all’erosione di una parte
della casa come negli anni ha costruito il suo percorso tra le rocce.
In Fallingwater Wright riesce a sfruttare al massimo le potenzialità del
cemento armato e l’elasticità dell’acciaio che ha reso possibile l’impiego
estensivo dello sbalzo.
Il maestro americano voleva che il materiale esprimesse le sue caratteristiche e fosse immagine del luogo per cui l’edificio veniva pensato.
Pertanto studia la natura dei materiali, imparando a vederli per quello
che sono e per quello che possono dare, cioè mattoni come mattoni e il
legno come legno, nella loro individualità.
Il materiale base usato in Fallingwater è la pietra arenaria di Poottsville,
estratta dalle montagne del luogo, il legno di noce nero del North Carolina per le parti non strutturali, e lastre di pietra grezza per il pavimento
richiamando il colore e l’irregolarità della roccia su cui la casa è costruita.
La struttura dell’edificio è concepita come un albero ancorato sulla cascata, i pilastri sono rivestiti in pietra grezza ed emergono come tronchi
dalla roccia.
Gli elementi verticali riflettono la rocciosità del sito, a differenza dei parapetti orizzontali lisci, creando un forte contrasto tra la parte “più naturale” dell’edificio, compatta e irregolare come la roccia, e la parte “più artificiale” composta da quegli sbalzi che esplosi dal corpo centrale rimangono sospesi sull’acqua.
L’esposizione a Berlino dei disegni di Frank Lloyd Wright nel 1910, suscitarono notevole influenza sul giovane Mies van der Rohe, che, pur essendo uno dei maggiori rappresentanti del razionalismo europeo, è sempre riuscito a distinguersi.
L’eco della poetica di Wright si riflette già nelle prime architetture, nelle
quali rompe il volume bloccato, la scatola statica e ponderata di Le Corbusier con piani isolati nello spazio che fanno del vuoto la vera architettura.
I suoi edifici, dalle rigide forme geometriche e privi di ornamento, devono proprio il particolare aspetto all’uso sapiente delle proporzioni, ai
preziosi materiali scelti (marmo, onice, cromo e travertino) e alla perfezione dei dettagli.
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Il Padiglione Tedesco all’Esposizione di Barcellona, capolavoro del 1929,
è un universo di trasparenze, riflessi e piani colorati, in cui il rapporto
con l’ambiente si manifesta nel dialogo tra interno ed esterno, e non con
l’uso di forme, materiali e colori dettati dallo studio del luogo.
Le prime distanze dal razionalismo sono evidenti già due anni prima,
quando pianifica la seconda esposizione del Deutscher Werkbund, presentando un progetto in cui le case cubiche sulla collina, nella disposizione volumetrica, seguono il movimento delle curve di livello.
Questo progetto, nel quale si denota un attento studio del sito e l’interesse di creare un rapporto tra costruzione ed ambiente, suscita immediatamente le reazioni dei più importanti architetti locali, mettendo Mies in
condizioni di rimettere in discussione il suo piano.
La casa Tugendhat ripete gli stessi schemi del Padiglione, in cui una rigida griglia di pilastri cruciformi rende l’edificio indipendente alla struttura.
I materiali e la struttura influenzano notevolmente l’architettura. Conoscere fino in fondo le caratteristiche di ognuno di essi permette una
maggiore padronanza dei mezzi, rendendoli i maggiori elementi di
espressione architettonica.
Mies van der Rohe ha realizzato costruzioni con materiali diversi, dal cemento armato, l’acciaio, il vetro, il mattone, tenendo sempre conto delle
loro particolari caratteristiche e sviluppando il progetto in base alle loro
potenzialità.
Mies, come Wright, quindi studiava la natura del materiale, essendo elemento determinante nella definizione dell’organismo edilizio, ma con la
differenza che il maestro americano faceva uso del materiale come manifesto, testimonianza del luogo, invece Mies voleva che il materiale fosse
espressione di se stesso e come tale protagonista e modulo espressivo –
compositivo delle sue architetture.
Nel progetto di una casa di campagna, Mies manifesta la convinzione di
come il mattone fosse elemento ordinatore, definendo uno spazio tagliato
da liberi setti portanti separati tra loro da ampie aperture.
I progetti del maestro tedesco testimoniano il profondo valore che dava
alla proporzione e al rapporto tra le parti rispetto all’intero complesso,
obiettivo raggiunto grazie soprattutto a quella chiarezza strutturale, deFrank Lloyd Wright - Le Corbusier - Mies Van Der Rohe - Alvar Aalto
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terminata da una profonda conoscenza, che gli consentiva grande libertà
nell’universo delle regole.
Casa Tugendhat è la perfetta rappresentazione di tutti i principi che formano la poetica di Mies e, per usare le stesse parole dell’ancora giovane
architetto e critico americano Philp Johnson: “la casa di Brno è extra”.
La sua realizzazione scatenerà notevoli polemiche tra i sostenitori del
pensiero razionalista, infatti, non è una casa minimale riproducibile in
serie, ma una grande e lussuosa villa.
La crisi degli alloggi negli anni venti rappresentò un grosso problema per
tutti i Paesi europei, aggravato dal progressivo aumento dei costi.
Ridurre al minimo le dimensioni e utilizzare la prefabbricazione sembravano le migliori soluzioni. Tutto questo, però, andava a gravare sulla qualità e libertà progettuale, portando ad una monotonia e uniformità formale. Mies, da sempre sostenitore dei nuovi mezzi di produzione, riteneva
che, per risolvere il problema estetico, l’industria avrebbe dovuto occuparsi solo degli elementi costruttivi e non dell’intero edificio.
La casa Tugendhat, come Fallingwater, sfrutta le caratteristiche del sito,
legandosi in maniera particolare all’ambiente.
Se Wright la progetta ancorata sulla roccia per creare un poderoso sbalzo
sulla cascata, Mies la costruisce sul pendio del terreno, cancellando così
la verticalità dei tre livelli dell’edificio di cui soltanto il piano superiore
emerge all’altezza della strada.
L’ingresso della casa è al secondo piano, dove si trovano le camere da letto e l’ampia terrazza. Una rampa di scale conduce al primo piano, spazio
principale dell’edificio, nel quale i liberi pilastri cruciformi in acciaio
cromato, esaltano le potenzialità e la chiarezza strutturale.
Questa ampia zona giorno è divisa da solo due pareti libere, l’una in ebano di colore scuro che delimita, con una larga curva, la zona pranzo e l’altra in onice oro fulvo e bianco, che divide il soggiorno.
Il rapporto con il sito non si limita però solo alla particolare posizione
che occupa il corpo sul pendio, determinando particolari soluzioni compositive sia in pianta che in prospetto, ma la continuità tra interno ed
esterno è stabilita dallo sfondamento della visuale ottenuta dalle vetrate.
Dal giardino, il rigido profilo e il bianco intonaco che riveste la villa, la
fanno apparire come una scatola, ma se si considerano le particolari traFrank Lloyd Wright - Le Corbusier - Mies Van Der Rohe - Alvar Aalto
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sparenze e che i pannelli di cristallo possono slittare nel pavimento, trasformando la sala del soggiorno in un’enorme terrazza coperta, non è più
il volume l’elemento ordinatore del progetto, ma lo spazio stesso e le
suggestive prospettive che si aprono verso l’ambiente.
Fritz Tugendhat sottolineava il proprio piacere nell’aprire la grande vetrata scorrevole, “durante le gelate, grazie al vetro abbassato si può stare seduto al sole a guardare il paesaggio innevato, come a Davos”.
Alvar Aalto, facendo parte della terza generazione di architetti moderni,
si
trova di fronte ad un ambiente culturale carico di dogmi, di regole compositive, in cui il razionalismo ha sentito il dovere di chiudersi.
Questo per alcuni aspetti rappresenta un nuovo modo per contrastare i
gravi problemi che la produzione edilizia di massa deve affrontare, ma
per altri è un limite, perché non tiene conto di tutti quei fattori esterni
alle regole generalizzate che entrano a far parte di un progetto nel momento in cui l’idea si concretizza in un ambiente naturale da cui si può
trarre riferimenti espressivi e formali.
Alvar Aalto ha avuto la grande capacità e senso critico di studiare e capire fino in fondo le correnti di pensiero che hanno investito l'architettura
dai primi anni del ‘900, facendosi un’idea personale che risulta l’equilibrio di un processo di armonia tra natura e costruzione edilizia.
Se Wright riesce quasi a mimetizzare Fallingwater per poi farla improvvisamente “esplodere” sull’acqua, e Le Corbusier innalza Villa Savoye sulla
collina come se fosse un oggetto in mostra, Alvar Aalto raggiunge con
Villa Mairea la sintesi formale e concettuale dei due precedenti capolavori, in cui l’armonia con il sito e la moderna concezione dell’abitare diventano le basi della poetica progettuale.
L’architetto è rimasto legato per tutta la vita alla sua terra, alle tradizioni e
ai valori che caratterizzano il popolo finnico.
I viaggi, che compirà nei piccoli paesi della Finlandia, gli consentiranno
di conoscere e capire in modo più diretto come le case e il modo di abitare si sia sviluppati spontaneamente all’interno dei piccoli ambienti domestici, facendo di queste sincere osservazioni, il punto di partenza per la
progettazione di un alloggio, non più dettato da assi di simmetria o moFrank Lloyd Wright - Le Corbusier - Mies Van Der Rohe - Alvar Aalto
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delli prestabiliti, ma rapportando le esigenze dell'abitare al sito e all'uomo, facendo di ogni casa un fatto irripetibile.
L’architettura, per Alvar Aalto, non può essere pensata come modello
astratto e poi inserita, come se fosse un corpo estraneo, nel mondo che la
circonda.
Non è solo un involucro fatto di muri tagliati da piccole o lunghe finestre
che permettono di vedere e assaporare quello che la natura ti offre fuori
dalla scatola, ma l’architettura dovrebbe collegare l’uomo a tutte le bellezze e influenze positive della natura e, al tempo stesso proteggerlo dagli
aspetti negativi dell’ambiente.
Di conseguenza la casa non può essere tipizzata come una macchina,
perché entrano in gioco fattori esterni che contribuiscono a migliorare e
a rendere unica l’architettura.
La missione, che si prepone Alvar Aalto, è quella di armonizzare il mondo
materiale alla vita, di rendere l’architettura più umana, cercando di allargare il concetto di funzionalismo oltre il limite della tecnica.
L’architetto sente nella natura il miglior riferimento su cui affidarsi per la
progettazione, perché la stessa architettura è variazione e crescita come il
mondo organico.
“In un albero da frutta, in piena fioritura primaverile, possiamo constatare che ogni fiore è diverso dall’altro. […] I fiori sono orientati in varie direzioni, perché rami, foglie e fiori contigui li coprono con la loro ombra.
Ecco perché sono diversi. Il posto di ciascun fiore è diverso, diverso è il
suo rapporto con il tronco, coi punti cardinali. Il fiore stesso deve seguire
questa graduatoria di variazioni nell’espletamento del suo compito. Eppure questa incommensurabile ricchezza di funzioni e di forme, questa
infinita diversità, è stata ottenuta con il più disciplinato sistema di standardizzazione. Ogni fiore è composto da milioni di cellule originarie apparentemente uguali, ma caratterizzate dalla possibilità di combinarsi fra
loro nel modo più vario”.
L’abitazione, come Fallingwater, viene realizzata in una foresta, e come
Wright, farà un attento e scrupoloso studio del sito, considerando anche
il più piccolo dettaglio, metro di guida per migliorare le condizioni di
abitabilità.
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Quattro Maestri dell’Architettura
La pianta a L ed il contorno irregolare della piscina suggeriscono una
metafora tra forma artificiale e naturale.
La disposizione dei corpi, della sauna e della piscina, collegati tra loro da
un “vuoto architettonico” coperto da una leggera pensilina, retta da una
struttura di canne di legno, disegna una linea che si chiude in uno spazio
privato, ma grazie al gioco di appartenenze e sottrazioni l’ambiente sfonda la sfera chiusa del luogo isolato per denunciare l’appartenenza dell’edificio al sito e al mondo naturale.
Sperimentale in questa villa è soprattutto l’uso dei materiali: “[…] ho imparato a conversare con le pietre, scoprendone le caratteristiche e vivendo a contatto con un ambiente intatto. Ho studiato l’effetto della vegetazione sul materiale: è incredibile per un architetto vedere d’improvviso
come miriadi di licheni gialli si arrampichino sulla superficie della pietra”. Il legno con il carattere specifico e la disposizione delle fibre, è il
materiale da Aalto preferito, in grado di dare calore all’interno e per connotare all’esterno la funzione delle diverse parti della villa.
Per Alvar Aalto tutte le forme nascono da materiale, da un attento studio,
dalle caratteristiche, capacità e possibilità di utilizzo per l’architettura e
l’uomo.
La dialettica fra le diverse parti dell’edificio e fra interno ed esterno, si
regge soprattutto sull’uso sapiente del materiale e del contrasto cromatico che ne deriva.
Questo atteggiamento, che rappresenta una compresenza di razionalità e
natura, permette di far dialogare gli elementi lignei con il bosco che circonda la casa, e d’inverno, la parte bianca intonacata, di mimetizzarla con
l’ambiente innevato.
La stessa disposizione “disordinata” dei pilastri dimostra la volontà di Alvar Aalto quasi di portare gli stessi alberi all’interno dell’edificio, in modo
da creare un’atmosfera più naturale nell’ambiente artificiale.
Il legno, oltre ad avere importanza come materiale costruttivo e di richiamo alla “naturale” disposizione delle cose, assume valenze simboliche, divenendo il simbolo dell’intimità domestica e del calore della famiglia. “Il tema fondamentale nel progetto di Villa Mairea è […] il dibattito
tra natura e civilizzazione; tra capanna primitiva e l’habitat civile. Entrando in giardino dalla campagna, ci si imbatte in una serie di cose verosimiFrank Lloyd Wright - Le Corbusier - Mies Van Der Rohe - Alvar Aalto
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li, evocanti esplicitamente la rusticità della natura; […] il manto d’erba sul
tetto della sauna, l’acqua della piscina, la piattaforma di legno simile a
quelle che si trovano sulle rive di un lago o di un fiume, la sauna a forma
di capanna primitiva, il grezzo muro perimetrale, o il pavimento d’ardesia”.
Bibliografia.
Frank Lloyd Wright, Il futuro dell’architettura, Zanichelli, 1985.
Willliam Allin Storrer, Frank Lloyd Wright – Il repertorio, Zanichelli, 1997.
M.Allen Brooks, Le Corbusier, Electa, 1993.
Carlo Pazzolo – Riccardo Vio, Sulle tracce di Le Corbusier, Arsenale, Venezia, 1989.
Francesco Tentori – Rosario De Simone, Le Corbusier, Editori Laterza, 1987.
Ludwig Hilberseimer, Mies van der Rohe, Milano, 1993.
Jean Luis Cohen, Ludwig Mies van der Rohe, Editori Laterza, 1996.
Alvar Aalto, Idee di architettura – scritti scelti 1921-1968, Zanichelli, 1987.
Luciano Rubino, Aino e Alvar Aalto, Edizioni Kappa, 980.
Fabio Mangone – Maria Luisa Scalvi, Alvar Aalto, Edizioni Laterza, 1993.
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