La Santa Sede

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La Santa Sede
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI RETTORI E AGLI ALUNNI
DEI PONTIFICI COLLEGI E CONVITTI DI ROMA
Aula Paolo VI
Lunedì, 12 maggio 2014
Buongiorno, e vi ringrazio tanto di questa presenza. Ringrazio il Cardinale Stella per le parole, e
mi scuso del ritardo. Sì, perché ci sono i Vescovi messicani in visita ad Limina … e quando uno
sta con i messicani, sta tanto bene, tanto bene, che il tempo passa e uno non se ne accorge! Ai 146 di voi che siete dei Paesi del Medio Oriente, anche alcuni di voi dell’Ucraina, voglio dire che
vi sono molto vicino in questo momento di sofferenza: davvero, molto vicino, e nella preghiera. Si
soffre tanto, nella Chiesa; soffre tanto, la Chiesa, e la Chiesa sofferente è anche la Chiesa
perseguitata in alcune parti, e vi sono vicino. Grazie. E adesso vorrei che… C’erano delle
domande, io le ho viste, ma se voi volete cambiarle o farle un po’ più spontanee, non c’è
problema, con tutta libertà!
D. – (seminarista)
Buongiorno, Santo Padre. Mi chiamo Daniel, vengo dagli Stati Uniti, sono diacono e sono del
Collegio Nordamericano. Noi siamo venuti a Roma soprattutto per una formazione accademica e
per mantenere fede a questo impegno. Come non trascurare una formazione sacerdotale
integrale, sia a livello personale che comunitario? Grazie.
R. – (Papa Francesco)
Grazie per la domanda. E’ vero: lo scopo principale di voi, qui, è la formazione accademica: fare la
laurea in questo, in quello… Ma c’è il pericolo dell’accademicismo. Sì, i Vescovi vi inviano qui
perché abbiate una laurea, ma anche per tornare in diocesi. Ma in diocesi dovete lavorare nel
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presbiterio, come presbiteri, laureati presbiteri. E se uno cade in questo pericolo
dell’accademicismo, torna non il padre, ma il ‘dottore’. E questo è pericoloso. Ci sono quattro
pilastri nella formazione sacerdotale: questo l’ho detto tante volte, forse voi lo avete sentito.
Quattro pilastri: la formazione spirituale, la formazione accademica, la formazione comunitaria e la
formazione apostolica. E’ vero che qui, a Roma, si sottolinea – perché per questo siete stati inviati
– la formazione intellettuale; ma gli altri tre pilastri si devono coltivare, e tutti e quattro
interagiscono tra di loro, e io non capirei un prete che venga a fare una laurea qui, a Roma, e che
non abbia una vita comunitaria, questo non va. O non cura la vita spirituale – la Messa quotidiana,
la preghiera quotidiana, la lectio divina, la preghiera personale con il Signore –; o la vita
apostolica: nel fine settimana fare qualcosa, cambiare un po’ d’aria, ma anche aria apostolica, fare
qualcosa lì… E’ vero che lo studio è una dimensione apostolica; ma è importante che anche gli
altri tre pilastri siano curati! Il purismo accademico non fa bene, non fa bene. E per questo mi è
piaciuta la tua domanda, perché mi da l’opportunità di dirvi queste cose. Il Signore vi ha chiamati
ad essere sacerdoti, ad essere presbiteri: questa è la regola fondamentale. E c’è un’altra cosa che
vorrei sottolineare: se soltanto si vede la parte accademica, c’è pericolo di scivolare sulle
ideologie, e questo fa ammalare. Fa ammalare anche la concezione di Chiesa. Per capire la
Chiesa c’è bisogno di capirla dallo studio ma anche dalla preghiera, dalla vita comunitaria e dalla
vita apostolica. Quando noi scivoliamo su una ideologia, e andiamo su quella strada, avremo una
ermeneutica non cristiana, un’ermeneutica della Chiesa ideologica. E questo fa male, questa è
una malattia. L’ermeneutica della Chiesa dev’essere l’ermeneutica che la Chiesa stessa ci offre,
che la Chiesa stessa ci dà. Capire la Chiesa con occhi di cristiano; capire la Chiesa con mente di
cristiano; capire la Chiesa con cuore cristiano; capire la Chiesa dall’attività cristiana. Al contrario,
la Chiesa non si capisce, o si capisce male. Per questo è importante sottolineare, sì, il lavoro
accademico perché per questo siete stati inviati; ma non trascurare gli altri tre pilastri: la vita
spirituale, la vita comunitaria e la vita apostolica. Non so se questo risponde alla tua domanda …
Grazie.
D. – (seminarista)
Buongiorno, Santo Padre. Sono Tommaso, dalla Cina. Sono seminarista del Collegio Urbano. A
volte, vivere in comunità non è facile: cosa ci consiglia, partendo anche dalla Sua esperienza, per
fare della nostra comunità un luogo di crescita umana e spirituale e di esercizio di carità
sacerdotale?
R. – (Papa Francesco)
Una volta, un vecchio vescovo dell’America Latina diceva: “E’ molto meglio il peggiore seminario
che il non-seminario”. Se uno si prepara al sacerdozio da solo, senza comunità, questo fa male.
La vita del seminario, cioè la vita comunitaria, è molto importante. E’ molto importante perché c’è
la condivisione tra i fratelli, che camminano verso il sacerdozio; ma ci sono anche i problemi, ci
sono le lotte: lotte di potere, lotte di idee, anche lotte nascoste; e vengono i vizi capitali: l’invidia, la
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gelosia… E vengono anche le cose buone: le amicizie, lo scambio di idee, e questo è l’importante
della vita comunitaria. La vita comunitaria non è il paradiso, è almeno il purgatorio - no, non è
quello… [ridono], ma non è il paradiso! Un santo dei gesuiti diceva che la maggiore penitenza, per
lui, era la vita comunitaria. E’ vero, no? Per questo credo che dobbiamo andare avanti, nella vita
comunitaria. Ma come? Ci sono quattro o cinque cose che ci aiuteranno tanto. Mai, mai sparlare
degli altri. Se io ho qualcosa contro l’altro, o che non sono d’accordo: in faccia! Ma noi chierici
abbiamo la tentazione di non parlare in faccia, di essere troppo diplomatici, quel linguaggio
clericale… Ma, ci fa male, ci fa male! Io ricordo una volta, 22 anni fa: ero appena nominato
vescovo, e avevo come segretario in quella vicarìa – Buenos Aires è divisa in quattro vicarìe – in
quella vicarìa avevo come segretario un sacerdote giovane, recentemente ordinato. E io, nei primi
mesi, ho fatto qualcosa, e ho preso una decisione un po’ diplomatica – troppo diplomatica – e con
le conseguenze che vengono da queste decisioni che non si prendono nel Signore, no? E alla
fine, ho detto a lui: “Ma guarda che problema, questo, non so come sistemarlo …”. E lui mi ha
guardato in faccia – un giovane! – e mi ha detto: “Perché Lei ha fatto male: Lei non ha preso una
decisione paterna”, e mi ha detto tre o quattro cose di quelle forti! Molto rispettoso, ma me le ha
dette. E poi, quando se n’è andato, io ho pensato: “Questo non lo allontanerò mai dal posto di
segretario: questo è un vero fratello!”. Invece, quelli che ti dicono le cose belle davanti e poi da
dietro non tanto belle… E’ importante questo… Le chiacchiere sono la peste di una comunità; si
parla in faccia, sempre. E se non hai il coraggio di parlare in faccia, parla al superiore o al
direttore, e lui ti aiuterà. Ma non andare per le stanze dei compagni per sparlare! Si dice che
chiacchierare è cosa di donne, ma anche di maschi, anche di noi! Noi chiacchieriamo abbastanza!
E questo distrugge la comunità. Poi, un’altra cosa è sentire, ascoltare le diverse opinioni e
discutere le opinioni, ma bene, cercando la verità, cercando l’unità: questo aiuta la comunità. Il
mio padre spirituale una volta – ero studente di filosofia; lui era un filosofo, un metafisico, ma era
un buon padre spirituale –, io sono andato da lui ed è uscito il problema che io avevo rabbia contro
di uno: “Ma, contro questo, perché questo, questo, questo…”; ho detto al padre spirituale tutto
quello che avevo dentro. E lui mi ha fatto una sola domanda: “Dimmi, tu hai pregato per lui?”.
Niente più. E io ho detto: “No”. E lui è rimasto zitto. “Abbiamo finito”, mi ha detto. Pregare, pregare
per tutti i membri della comunità, ma pregare principalmente per quelli con cui ho problemi o per
quelli a cui io non voglio bene, perché non volere bene ad una persona alcune volte è una cosa
naturale, istintiva. Pregare, e il Signore farà il resto, ma sempre pregare. La preghiera comunitaria.
Queste due cose – non vorrei dire tanto – ma vi assicuro che se voi fate queste due cose, la
comunità va avanti, si può vivere bene, si può parlare bene, si può discutere bene, si può pregare
bene insieme. Due piccole cose: non sparlare degli altri e pregare per quelli con i quali io ho
problemi. Posso dire di più, ma credo che questo sia sufficiente.
D. – (seminarista)
Buongiorno, Santo Padre.
R. – (Papa Francesco)
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Buongiorno.
D. – Mi chiamo Chabrel, sono un seminarista dal Libano e mi sto formando nel Collegio Sedes
Sapientiae. Prima di fare la domanda, vorrei ringraziarLa per la Sua vicinanza al nostro popolo in
Libano e in tutto il Medio Oriente. La mia domanda è questa: l’anno scorso, Lei ha lasciato la Sua
terra e la Sua patria. Cosa ci raccomanda per gestire meglio il nostro arrivo e soggiorno a Roma?
R. – Ma, è differente… l’arrivo vostro a Roma, rispetto al trasferimento di diocesi che hanno fatto a
me: è un po’ differente, ma va bene… Ricordo la prima volta che ho lasciato [la mia terra] per
venire a studiare qui… Prima c’è la novità, è la novità delle cose, e dobbiamo essere pazienti con
noi stessi. I primi tempi è come un tempo di fidanzamento: è tutto bello, ah, le novità, le cose…;
ma questo non dev’essere rimproverato, è così! A tutti accade questo, a tutti succede che le cose
siano così. E poi, tornando a uno dei pilastri, prima di tutto l’integrazione nella vita della comunità
e nella vita dello studio, direttamente. Sono venuto per questo, a fare questo. E poi, cercare un
lavoro per il fine settimana, un lavoro apostolico, è importante. Non rimanere chiusi e non essere
dispersi. Ma i primi tempi è il tempo delle novità: “io vorrei fare questo, andare a quel museo, o
questo film, o questo, quello…”. Ma avanti, non preoccupatevi, è normale che succeda questo. Ma
poi, fare sul serio. Cosa sono venuto a fare? Studiare. Studia sul serio! E profittare delle tante
opportunità che ci da questo soggiorno. La novità della universalità: conoscere gente di tanti posti
diversi, di tanti Paesi diversi, di tante culture diverse; l’opportunità del dialogo tra voi: “Ma, com’è
nella tua patria questo? E com’è quello? E la mia è…”; questo scambio fa tanto bene, tanto bene.
Credo che semplicemente non direi di più. Ma non spaventarsi per quella gioia delle novità: è la
gioia del primo fidanzamento, prima che incomincino i problemi. E avanti. Poi, fare sul serio.
D. – (seminarista)
Buongiorno, Santo Padre. Sono Daniele Ortiz e sono messicano. Qui a Roma abito nel Collegio
Maria Mater Ecclesiae. Sua Santità, nella fedeltà alla nostra vocazione abbiamo bisogno di un
costante discernimento, vigilanza e disciplina personale. Lei, come l’ha fatto, quando era
seminarista, quando era sacerdote, quando è stato vescovo e adesso che è Pontefice? E che
cosa ci consiglia al riguardo? Grazie.
R. – (Papa Francesco)
Grazie. Tu hai detto la parola vigilanza. Questo è un atteggiamento cristiano: la vigilanza. La
vigilanza su se stesso: cosa succede nel mio cuore? Perché dove è il mio cuore è il mio tesoro.
Cosa succede lì? Dicono i Padri orientali che si deve conoscere bene se il mio cuore è in una
turbolenza o il mio cuore è tranquillo. Prima domanda: vigilanza sul tuo cuore: è in turbolenza? Se
è in turbolenza, non si può vedere cosa c’è dentro. Come il mare, no? Non si vedono i pesci,
quando il mare è così… Il primo consiglio, quando il cuore è in turbolenza, è il consiglio dei Padri
russi: andare sotto il manto della Santa Madre di Dio. Ricordatevi che la prima antifona latina è
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proprio questa: nei tempi di turbolenza, cercare rifugio sotto il manto della Santa Madre di Dio. E’
l’antifona “Sub tuum presidium confugimus, Sancta Dei Genitrix”: è la prima antifona latina della
Madonna. E’ curioso, no? Vigilare. C’è turbolenza? Prima di tutto, andare là, e là aspettare che ci
sia un po’ di calma: con la preghiera, con l’affidamento alla Madonna… Qualcuno di voi mi dirà:
“Ma, Padre, in questo tempo di tanta modernità buona, della psichiatria, della psicologia, in questi
momento di turbolenza credo che sarebbe meglio andare dallo psichiatra che mi aiuti…”. Non
scarto questo, ma prima di tutto andare alla Madre: perché un prete che si dimentica della Madre,
e soprattutto nei momenti di turbolenza, qualcosa gli manca. E’ un prete orfano: si è dimenticato di
sua mamma! E nei momenti difficili, è quando il bambino va dalla mamma, sempre. E noi siamo
bambini, nella vita spirituale, questo non dimenticarlo mai! Vigilare su come sta il mio cuore.
Tempo di turbolenza, andare a cercare rifugio sotto il manto della Santa Madre di Dio. Così dicono
i monaci russi, e in verità è così. Poi, cosa faccio? Cerco di capire quello che succede, ma sempre
in pace. Capire in pace. Poi, torna la pace e posso fare la discussio conscientiae. Quando sono in
pace, non c’è turbolenza: “Cosa è accaduto oggi nel mio cuore?”. E questo è vigilare. Vigilare non
è andare alla sala di tortura, no! E’ guardare il cuore. Noi dobbiamo essere padroni del nostro
cuore. Cosa sente il mio cuore, cosa cerca? Cosa oggi mi ha fatto felice e cosa non mi ha fatto
felice? Non finire la giornata senza fare questo. Una domanda che io facevo, come vescovo, ai
preti è: “Dimmi, come vai a letto, tu?”. E loro non capivano. “Ma cosa vuol dire?”. “Sì, come finisci
la giornata?”. “Oh, distrutto, Padre, perché c’è tanto lavoro, la parrocchia, tanto… Poi ceno un po’,
prendo un boccone e vado a letto, guardo la tv e mi rilasso un po’…”. “E non passi dal
tabernacolo, prima?”. Ci sono cose che ci fanno vedere dov’è il nostro cuore. Mai, mai – e questa
è vigilanza! – mai finire la giornata senza andare un po’ lì, davanti al Signore; guardare e
domandare: “Cosa è successo nel mio cuore?”. In momenti tristi, in momenti felici: com’era quella
tristezza?, com’era quella gioia? Questo è vigilanza. Vigilare anche sulle depressioni e sugli
entusiasmi. “Oggi sono giù, non so cosa succede”. Vigilare: perché sono giù? Forse dovrai andare
da qualcuno che ti aiuti?... Questo è vigilanza. “Oh, sono gioioso!”. Ma perché sono gioioso, oggi?
Cosa è successo nel mio cuore? Questo non è una introspezione sterile, no, no! Questo è
conoscere lo stato del mio cuore, la mia vita, come cammino nella strada del Signore. Perché, se
non c’è la vigilanza, il cuore va dappertutto; e l’immaginazione viene dietro: “vai, vai…”; e poi si
può finire non bene. Mi piace la domanda sulla vigilanza. Non sono cose antiche, queste, non
sono cose superate. Sono cose umane, e come tutte le cose umane sono eterne. Le porteremo
sempre con noi. Vigilare il cuore era proprio la saggezza dei primi monaci cristiani, insegnavano
questo, a vigilare sul cuore.
Posso fare una parentesi? Perché ho parlato della Madonna? Io vi consiglierò questo che ho detto
prima, cercare rifugio… Un bel rapporto con la Madonna; il rapporto con la Madonna ci aiuta ad
avere un bel rapporto con la Chiesa: tutte e due sono Madri… Voi conoscete il bel brano di
Sant’Isacco, l’abate della Stella: quello che si può dire di Maria si può dire della Chiesa e anche
della nostra anima. Tutte e tre sono femminili, tutte e tre sono Madri, tutte e tre danno vita. Il
rapporto con la Madonna è un rapporto di figlio… Vigilate su questo: se non si ha un bel rapporto
con la Madonna, c’è qualcosa di orfano nel mio cuore. Io ricordo, una volta, 30 anni fa, ero nel
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Nord Europa: dovevo andare lì per l’educazione dell’Università di Cordova, nella quale io ero in
quel momento vice-cancelliere. E mi ha invitato una famiglia di cattolici praticanti; un Paese un po’
troppo secolarizzato era quello. E a cena, avevano tanti bambini, erano cattolici praticanti, tutti e
due professori universitari, tutti e due anche catechisti. A un certo punto, parlando di Gesù Cristo –
entusiasti di Gesù Cristo!, parlo di 30 anni fa – hanno detto: “Sì, grazie a Dio abbiamo superato la
tappa della Madonna…”. E com’è questo?, ho detto. “Sì, perché abbiamo scoperto Gesù Cristo, e
non ne abbiamo più bisogno”. Io sono rimasto un po’ addolorato, non ho capito bene. E abbiamo
parlato un po’, su questo. E questa non è maturità! Non è maturità. Dimenticare la madre è una
cosa brutta… E, per dirlo in un’altra maniera: se tu non vuoi la Madonna come Madre, sicuro che
l’avrai come suocera! E questo non è buono! Grazie.
D. – (seminarista)
Viva Gesù, viva Maria! Grazie, Santo Padre, per le tue parole sulla Madonna. Mi chiamo don
Ignacio e vengo da Manila, Filippine. Sto seguendo il mio dottorato in mariologia presso la
Pontificia Facoltà Teologica Marianum, e risiedo al Pontificio Collegio Filippino. Santo Padre, la
mia domanda è: la Chiesa ha bisogno di pastori capaci di guidare, governare, comunicare come ci
richiede il mondo di oggi. Come si impara e si esercita la leadership nella vita sacerdotale,
assumendo il modello di Cristo che si è abbassato assumendo la croce, la morte in croce?,
assumendo la condizione di servo fino alla morte in croce? Grazie.
R. – (Papa Francesco)
Ma il tuo vescovo è un grande comunicatore!l'
D. – E’ il Cardinale Tagle…
R. – La leadership… questo è il centro della domanda… C’è una sola strada – poi parlerò dei
pastori – ma per la leadership c’è una sola strada: il servizio. Non ce n’è un’altra. Se tu hai tante
qualità – comunicare, ecc. - ma non sei un servitore, la tua leadership cadrà, non serve, non è
capace di convocare. Soltanto il servizio: essere al servizio… Ricordo un padre spirituale molto
buono, la gente andava da lui, tanto che alcune volte non poteva pregare tutto il breviario. E alla
notte, andava dal Signore e diceva: “Signore, guarda, non ho fatto la tua volontà, ma neppure la
mia! Ho fatto la volontà degli altri!”. Così, tutti e due – il Signore e lui – si consolavano. Il servizio è
fare, tante volte, la volontà degli altri. Un sacerdote che lavorava in un quartiere molto umile –
molto umile! – una villa miseria, una favela, disse: “Io avrei bisogno di chiudere le finestre, le porte,
tutte, perché a un certo punto è tanto, tanto quello che vengono a chiedermi: questa cosa
spirituale, questa cosa materiale, che alla fine avrei voglia di chiudere tutto. Ma questo non è del
Signore”, diceva. E’ vero: quando non c’è il servizio, tu non puoi guidare un popolo. Il servizio del
pastore. Il pastore deve essere sempre a disposizione del suo popolo. Il pastore deve aiutare il
popolo a crescere, a camminare. Ieri, nella Lettura mi sono incuriosito perché nel Vangelo si
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diceva il verbo “spingere”: il pastore spinge le pecorelle perché escano a cercare l’erba. Mi sono
incuriosito: le fa uscire, le fa uscire con forza! L’originale ha un certo tono di questo: fa uscire, ma
con forza. E’ come caccia via: “vai, vai!”. Il pastore che fa crescere il suo popolo e che va sempre
con il suo popolo. Alcune volte, il pastore deve andare avanti, per indicare la strada; altre volte, in
mezzo, per conoscere cosa succede; tante volte, dietro, per aiutare a quegli ultimi e anche per
seguire il fiuto delle pecore che sanno dove c’è l’erba buona. Il pastore… Sant’Agostino,
riprendendo Ezechiele, dice che dev’essere al servizio delle pecore e sottolinea due pericoli: il
pastore che sfrutta le pecore per mangiare, per fare soldi, per interesse economico, materiale, e il
pastore che sfrutta le pecore per vestirsi bene. La carne e la lana. Dice sant’Agostino. Leggete
quel bel sermone De pastoribus. Bisogna leggerlo e rileggerlo. Sì, sono i due peccati dei pastori: i
soldi, che diventano ricchi e fanno le cose per soldi – pastori affaristi –; e la vanità, sono i pastori
che si credono in uno stato superiore al loro popolo, distaccati… pensiamo, i pastori-principi. Il
pastore-affarista e il pastore-principe. Queste sono le due tentazioni che sant’Agostino,
riprendendo quel brano di Ezechiele, dice nel suo sermone. E’ vero, un pastore che cerca se
stesso, sia per la strada dei soldi sia per la strada della vanità, non è un servitore, non ha una vera
leadership. L’umiltà dev’essere l’arma del pastore: umile, sempre al servizio. Deve cercare il
servizio. E non è facile essere umile, no, non è facile! Dicono i monaci del deserto che la vanità è
come la cipolla: tu, quando prendi una cipolla, cominci a sfogliarla, e tu ti senti vanitoso e
incominci a sfogliare la vanità. E vai, e vai, e un’altra foglia, e un’altra, e un’altra, e un’altra… alla
fine, tu arrivi a… niente. “Ah, grazie a Dio, ho sfogliato la cipolla, ho sfogliato la vanità”. Fai così, e
hai l’odore della cipolla! Così dicono i padri del deserto. La vanità è così. Una volta ho sentito un
gesuita – buono, un buon uomo –, ma era tanto vanitoso, tanto vanitoso… E tutti noi gli dicevamo:
“Tu sei vanitoso!”, ma lui era tanto buono che lo perdonavamo tutti. E se n’è andato a fare gli
esercizi spirituali, e quando è tornato ci ha detto, a noi, nella comunità: “Che begli esercizi! Ho
fatto otto giorni di Cielo, e ho trovato che io ero tanto vanitoso! Ma grazie a Dio, ho vinto tutte le
passioni!”. La vanità è così! E’ tanto difficile togliere la vanità da un prete. Ma il popolo di Dio ti
perdona tante cose: ti perdona se hai avuto una scivolata, affettiva, te lo perdona. Ti perdona se
hai avuto una scivolata con un po’ più di vino, te la perdona. Ma non ti perdona se sei un pastore
attaccato ai soldi, se sei un pastore vanitoso che non tratta bene la gente. Perché il vanitoso non
tratta bene la gente. Soldi, vanità e orgoglio. I tre scalini che ci portano a tutti i peccati. Il popolo di
Dio capisce le nostre debolezze, e le perdona; ma queste due, non le perdona! L’attaccamento ai
soldi non lo perdona, nel pastore. E non trattare bene loro, non lo perdona. E’ curioso, no? Questi
due difetti, dobbiamo lottare per non averli. Poi, la leadership deve andare nel servizio, ma con un
amore personale alla gente. Di un parroco, una volta ho sentito questo: “Quell’uomo conosceva il
nome di tutta la gente del suo quartiere, anche i nomi dei cani!”. E’ bello! Era vicino, conosceva
ognuno, sapeva la storia di tutte le famiglie, sapeva tutto. E aiutava. Era tanto vicino… Vicinanza,
servizio, umiltà, povertà e sacrificio. Ricordo i vecchi parroci di Buenos Aires, quando non c’era il
telefonino, la segreteria telefonica; dormivano con il telefono accanto a loro. Non moriva nessuno
senza i Sacramenti. Li chiamavano a qualsiasi ora: si alzavano e andavano. Servizio, servizio. E
da vescovo, soffrivo quando chiamavo in una parrocchia e mi rispondeva la segreteria
telefonica… Così non c’è leadership! Come puoi condurre un popolo se non lo senti, se non sei al
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servizio? Queste sono le cose che mi vengono così, un po’… non in ordine, ma per rispondere
alla tua domanda…
D. – (seminarista)
Buongiorno, Santo Padre.
R. – (Papa Francesco)
Buongiorno.
D. – Mi chiamo don Sèrge, vengo dal Cameroun. La mia formazione si svolge nel Collegio San
Paolo Apostolo. Ecco la domanda: quando ritorneremo nelle nostre diocesi e comunità, saremo
chiamati a nuove responsabilità ministeriali e a nuovi compiti formativi. Come possiamo far
convivere in modo equilibrato tutte le dimensioni della vita ministeriale: la preghiera, gli impegni
pastorali, i compiti formativi senza trascurare nessuna di esse? Grazie.
R. – C’è una domanda alla quale io non ho risposto: se n’è andata, forse - l’incosciente è
disonesto! - e voglio collegarla a questa. Mi domandavano: “Come lei fa, da Papa, queste cose?”.
Anche la tua… Io risponderò alla tua, raccontando, con tutta semplicità, cosa faccio io per non
trascurare le cose. La preghiera. Io cerco, al mattino, di pregare le lodi e anche di fare un po’ di
preghiera, la lectio divina, con il Signore. Quando mi alzo. Prima leggo i “cifrati”, e poi faccio
questo. E poi, celebro la Messa. Poi, incomincia il lavoro: il lavoro che un giorno è di un tipo, un
giorno di un altro… cerco di farlo in ordine. A mezzogiorno pranzo, poi un po’ di siesta; dopo la
siesta, alle tre – scusatemi – dico i Vespri, alle tre… Se non si dicono a quell’ora, non si diranno
più! Sì e anche la lettura, l’Ufficio di lettura del giorno dopo. Poi il lavoro del pomeriggio, le cose
che devo fare… Poi, faccio un po’ di adorazione e prego il Rosario; cena, e finisce. Questo è lo
schema. Ma alcune volte non si può fare tutto, perché io mi lascio portare per esigenze non
prudenti: troppo lavoro, o credere che se io non faccio questo oggi, non lo faccio domani… cade
l’adorazione, cade la siesta, cade questo… E anche qui, la vigilanza: voi tornerete in diocesi e vi
succederà questo che succede a me: è normale. Il lavoro, la preghiera, un po’ di spazio per
riposare, uscire da casa, camminare un po’, tutto questo è importante… ma dovrete regolarlo con
la vigilanza e anche con i consigli... L’ideale è finire la giornata stanchi: questo è l’ideale. Non
avere bisogno di prendere le pastiglie: finire stanco. Ma con una buona stanchezza, non con una
stanchezza imprudente, perché quello fa male alla salute e alla lunga si paga caro. Io guardo la
faccia di Sandro, che ride e dice: “Ma lei non fa questo!”. E’ vero. Questo è l’ideale, ma non
sempre lo faccio, perché anche io sono peccatore, e non sempre sono tanto ordinato. Ma questo
devi fare…
D. – Buongiorno Santo Padre, io sono Fernando Rodriguez, sono un novello sacerdote dal
Messico, sono stato ordinato un mese fa, e abito al Collegio messicano. Santo Padre, lei ci ha
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ricordato che la Chiesa ha bisogno di una nuova evangelizzazione. Addirittura nell’Evangelii
gaudium, Lei si è soffermato sulla preparazione della predicazione, sull’omelia e sull’annuncio
come forma di un dialogo appassionato tra un pastore e il suo popolo. Potrebbe tornare su questo
tema della nuova evangelizzazione? E pure, Santità, ci chiediamo come dovrebbe essere un
sacerdote per la nuova evangelizzazione. Quale o quali dovrebbero essere i suoi tratti
caratteristici? Grazie.
R. – Quando san Giovanni Paolo II parlò - io credevo che fosse la prima volta, ma dopo mi hanno
detto che non era la prima volta - sulla nuova evangelizzazione, è stato a Santo Domingo nel ’92.
E lui ha detto che deve essere nuova nella metodologia, nell’ardore, nello zelo apostolico, e la
terza non mi ricordo... Chi ricorda? L’espressione! Cercare un’espressione che si accordi
all’unicità dei tempi. E, per me, nel Documento di Aparecida è molto chiaro. Questo Documento di
Aparecida sviluppa bene questo. Per me l’evangelizzazione richiede uscire da se stesso; richiede
la dimensione del trascendente: il trascendente nell’adorazione di Dio, nella contemplazione, e il
trascendente verso i fratelli, verso la gente. Uscire da, uscire da! Per me questo è come il nocciolo
dell’evangelizzazione. E uscire significa arrivare a, cioè vicinanza. Se tu non esci da te stesso, mai
avrai vicinanza! Vicinanza. Essere vicino alla gente, essere vicino a tutti, a tutti quelli a cui noi
dobbiamo essere vicini. Tutta la gente. Uscire. Vicinanza. Non si può evangelizzare senza
vicinanza. Vicinanza, ma cordiale; vicinanza d’amore, anche vicinanza fisica; essere vicino-a. E tu
hai collegato l’omelia lì. Il problema delle omelie noiose - per così dire - il problema delle omelie
noiose è che non c’è vicinanza. Proprio nell’omelia si misura la vicinanza del pastore col suo
popolo. Se tu parli nell’omelia, pensiamo, 20, 25 o 30, 40 minuti - queste non sono fantasie,
questo succede! - e parli di cose astratte, di verità della fede, tu non fai un’omelia, fai scuola! E
una cosa diversa! Tu non sei vicino alla gente. Per questo è importante l’omelia: per calibrare, per
conoscere bene la vicinanza del prete. Credo che in genere le nostre omelie non siano buone,
non sono proprio del genere letterario omiletico: sono conferenze, o sono lezioni, o sono
riflessioni. Ma l’omelia - e questo domandatelo ai professori di teologia - l’omelia nella Messa, la
Parola è Dio forte, è un sacramentale. Per Lutero era quasi un sacramento: era ex opere operato,
la Parola predicata; per altri è ex opere operantis, soltanto. Ma credo che sia nel centro, un po’ di
tutte e due. La teologia dell’omelia è un po’ un sacramentale quasi. E’ diverso dal dire parole su
un tema. E’ un’altra cosa. Suppone preghiera, suppone studio, suppone conoscere le persone a
cui tu parlerai, suppone vicinanza. Sull’omelia, per andare bene nell’evangelizzazione, dobbiamo
andare avanti abbastanza, siamo in ritardo. E’ uno dei punti della conversione di cui oggi la
Chiesa ha bisogno: aggiustare bene le omelie, perché la gente capisca. E, poi, dopo otto minuti,
l’attenzione se ne va. Un’omelia di più di otto, dieci minuti non è giusta. Deve essere breve, deve
essere forte. Io vi consiglio due libri, dei miei tempi, ma sono buoni, per questo aspetto dell’omelia,
perché vi aiuteranno tanto. Primo, “La teologia della predicazione”, di Hugo Rahner. Non di Karl, di
Hugo. Si può leggere bene Hugo, Karl è difficile da leggere. Questo è un gioiello: “Teologia della
predicazione”. E l’altro è quello del padre Domenico Grasso, che ci introduce in che cosa sia
l’omelia. Credo che abbia lo stesso titolo: “Teologia della predicazione”. Vi aiuterà abbastanza
questo. La vicinanza, l’omelia… C’è un’altra cosa che volevo dire… Uscire, vicinanza, l’omelia
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come misura di come io sono vicino al popolo di Dio. E un’altra categoria che a me piace usare è
quella delle periferie. Quando uno esce non deve andare a metà cammino soltanto, ma andare
fino alla fine. Alcuni dicono che si deve incominciare l’evangelizzazione dai più lontani, come
faceva il Signore. Questo è quello che mi viene da dire sulla tua domanda. Ma questo dell’omelia
è vero: per me è uno dei problemi che la Chiesa deve studiare e convertirsi. Le omelie, le omelie:
non sono fare scuola, non sono conferenze, sono un’altra cosa. A me piace quando i preti si
riuniscono due ore per preparare l’omelia della prossima domenica, perché si dà un clima di
preghiera, di studio, di scambio di opinioni. Questo è buono, fa bene. Prepararla con un altro,
questo va benissimo.
D. – Sia lodato Gesù Cristo! Mi chiamo Voicek, abito nel Pontificio Collegio Polacco, studio
Teologia morale. Santo Padre, il ministero presbiterale al servizio del nostro popolo sull’esempio
di Cristo e della sua missione, che cosa ci raccomanda per rimanere disposti e lieti nel servizio del
popolo di Dio? Quali qualità umane ci consiglia e ci raccomanda di coltivare per essere immagine
del Buon Pastore e vivere quella che Lei ha chiamato “la mistica dell’incontro”?
R. – Ho parlato di alcune cose che si devono fare nella preghiera, principalmente. Ma ti prendo
l’ultima parola per parlare di una cosa, da aggiungere a tutte quelle che ho detto, che sono state
dette e che portano proprio alla tua domanda. “La mistica dell’incontro”, tu hai detto. L’incontro. La
capacità di incontrarsi. La capacità di sentire, di ascolto delle altre persone. La capacità di cercare
insieme la strada, il metodo, tante cose. Questo incontro. E significa anche non spaventarsi, non
spaventarsi delle cose. Il buon pastore non deve spaventarsi. Forse ha timore dentro, ma non si
spaventa mai. Sa che il Signore lo aiuta. L’incontro con le persone per le quali tu devi avere cura
pastorale; l’incontro con il tuo Vescovo. E’ importante l’incontro con il Vescovo. E’ importante
anche che il Vescovo si lasci incontrare. E’ importante… perché, sì, alcune volte si sente: “Tu, hai
detto questo al tuo Vescovo? Sì, ho chiesto udienza, ma da quattro mesi ho chiesto udienza. Sto
aspettando!”. Questo non è buono, no. Andare a trovare il Vescovo e che il Vescovo si lasci
trovare. Il dialogo. Ma soprattutto vorrei parlare di una cosa: l’incontro fra i preti, fra voi. L’amicizia
sacerdotale: questo è un tesoro, un tesoro che si deve coltivare fra voi. L’amicizia fra voi.
L’amicizia sacerdotale. Non tutti possono essere amici intimi. Ma che bella è un’amicizia
sacerdotale! Quando i preti, come due fratelli, tre fratelli, quattro fratelli si conoscono, parlano dei
loro problemi, delle loro gioie, delle loro aspettative, tante cose… Amicizia sacerdotale. Cercate
questo, è importante. Essere amici. Credo che questo aiuti molto a vivere la vita sacerdotale, a
vivere la vita spirituale, la vita apostolica, la vita comunitaria e anche la vita intellettuale: l’amicizia
sacerdotale. Se io trovassi un prete che mi dice: “Io mai ho avuto un amico”, penserei che questo
prete non ha avuto una delle gioie più belle della vita sacerdotale, l’amicizia sacerdotale. E’ quello
che io auguro a voi. Vi auguro di essere amici con quelli che il Signore ti mette avanti per
l’amicizia. Auguro questo nella vita. L’amicizia sacerdotale è una forza di perseveranza, di gioia
apostolica, di coraggio, anche di senso dell’umorismo. E’ bello, bellissimo! Questo è ciò che
penso.
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Vi ringrazio della pazienza! E adesso possiamo pregare la Madonna, chiedere la benedizione…
Regina Caeli…
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