explicanda sunt misteria gli enigmi vanno svelati - i.i.s. bruno

EXPLICANDA SUNT MISTERIA
GLI ENIGMI VANNO SVELATI
L’enigma albertiano dell’occhio alato
Un vero e proprio geroglifico dell’età ucante un senso di “terribilità” - è costituito dall’emblema di Leon
Battista Alberti, il famoso «occhio alato» che appare su una medaglia accompagnato dal motto
[ciceroniano] QUID TUM . La speranza che Alberti riponeva in queste e consimili immagini era espressa
(De re edificatoria, VIII, iv) in questi termini :«In tutto il mondo esse potranno essere facilmente capite da
uomini esperti , ai quali soltanto dovrebbero essere comunicati gli argomenti più nobili» Edgar Wind
1) ANULI La soluzione di questi enigmi può costituire una guida sicura ad bene vivendum nel mondo. La
pittura «inscripta» nella prima delle immagini di questa serie è proprio un occhio alato circondato da una
corona. Accennando allo scioglimento dell’enigma, Alberti indica un metodo da seguire ma ci lascia a
metà strada nel momento in cui affida ai docti e ai periti viri il compito di risolvere il mistero; emergono
così due temi fondamentali del suo stile: la simulazione/dissimulazione - una regola di molti suoi
personaggi, primo fra tutti Momus - e la brevitas che spesso sconfina in un’apparente obscuritas. In ogni
caso, Alberti dà alcuni suggerimenti per iniziare. In primo luogo la «corona» è simbolo di un merito, di
un’eccellenza. Corone come questa stanno sulla facciata del Tempio Malatestiano, come citazioni di
ornamenti dell’arco di Augusto di Rimini, segni di una virtus completamente terrena. Poi, l’«occhio» di
cui nulla è più veloce e più degno: tra tutti gli organi dell’uomo, il più eccellente, il «rex» e «quasi deus».
Le «ali» esprimerebbero la mobilità, la onnipresenza, l’ubiquità di dio; i «raggi» che partono dalla
palpebra inferiore, invece, sarebbero raggi solari o fulmini, emblemi della potenza di un dio solare, pagano.
Però Alberti non ci dice che è «deus», ma «quasi deus». L’occhio di dio non potrebbe essere l’emblema di
un uomo: il senso del limite è uno dei temi principali della riflessione dell’Alberti sull’uomo. Semmai,
proprio perché Dio vede tutto, occorre che gli uomini, con la loro vista infinitamente inferiore, siano
circospetti [nella loro libido di potenza] e tendere alla gloria della virtus puntando alle res bonae e divinae.
Fin qui, l’aiuto per la soluzione dell’enigma: occhio umano «e» divino. L’onniscienza di dio e la
circospezione dell’uomo sono rappresentate dalla stessa immagine. Questa ambivalenza di fondo,
costituisce la ricchezza e la vitalità del «simbolo»; sta qui la distinzione tra «simbolo» e «sfinge» perché un
grande simbolo (come in questo caso, secondo E. Wind) “è ancora più vitale quando il suo enigma è stato
risolto”. Ma è stato davvero risolto? ci si chiede . [245-9]
2) MYSTERIA ALBERTIANI Proprio dell’uomo, per Alberti, è indagare le cose nascoste: «Né si truova
chi cerchi sapere le cose palesi … ciascuno desidera più investigare quello che sia occulto». Alberti fin
dagli anni giovanili coltiva il gusto per le cose nascoste come pure per motti e sentenze criptiche di cui il
QUID TUM del suo emblema è l’espressione più significativa. L’interesse per la dissimulazione, l’enigma,
il gioco nascosto, lo accompagnerà per tutta la vita. In particolare Anuli dove l’enigma dell’occhio alato è
solo il primo di dodici; e, pur senza addentrarci nella spiegazione di queste picturae , è forse utile
soffermarsi sul secondo enigma, l’«orecchio dell’elefante» con cui ci ammonisce che il nostro udito
dev’essere avido e capacissimo nell’assorbire le bonae artes: la «sapientia» entra in noi per suo tramite ma,
perché ciò accada, occorre proteggere le nostre orecchie con una «rete» di «ragione» e «intelligenza», nella
quale strette sono le connessioni di cause ed effetti. Un filtro che ci difende dalle invenzioni ingannevoli.
[249-54]
3) AEGYPTIORUM SIGNA Parlando delle iscrizioni apposte nell’Antichità sugli edifici, nel libro VIII
del De re edificatoria Alberti ci dice qualcosa che è proprio del linguaggio figurato dei geroglifici e quindi
anche dell’occhio alato. A differenze delle altre litterae, di cui un giorno si perderà la chiave di lettura, i
signa egizi resteranno sempre comprensibili. Il lato «egizio» ed «ermetico» di Alberti resta, per la critica,
uno dei più enigmatici. Per Eugenio Garin una probabile fonte dell’Alberti è un frammento “ermetico” che
ha per tema centrale l’immagine dell’anima come «pupilla» del cosmo. Create per ammirare la bellezza
del’universo, le anime, macchiatesi di vana curiositas, sono condannate a restare imprigionate nei corpi e
vedranno solo attraverso le anguste lenti degli occhi mortali. Ecco la contrapposizione tra l’illimitata vista
divina e il carattere finito di quella umana che troveremo in un’altra fonte possibile dell’occhio alato, i libri
dell’Antico Testamento. Ma resta da spiegare il motto QUID TUM. [254-56]
4) LO SGUARDO DALL’ALTO All’occhio alato dell’Alberti e dei numerosi protagonisti dei suoi
scritti, si dispiega il grande scenario del theatrum mundi. Ma per veder bene, occorre collocarsi al di sopra
del normale piano in cui gli uomini si trovano a vivere; questa visione dall’alto, che conferma l’importanza
dell’occhio per Alberti, si trova nel Momus e in tre intercenali: Defunctus, Somnium e Fatum et fortuna .
Nel Momus sono gli dei ad osservare dall’alto gli uomini che allestiscono «ludi maximi» in loro onore, per
scongiurare la fine del mondo. Anche quando la nebbia copre loro la visione dello spettacolo scendono e si
sistemano sui tetti delle case: agli dei non basta audire, vogliono anche spectare. Nel Defunctus, invece,
l’occhio «alato» del protagonista ha acquisito dopo morto quella libertas che gli permette di muoversi a suo
agio. Volato sulla cima delle abitazioni vicine, perfino la realtà che osserva attraverso le finestre della sua
casa risulta assai diversa (ridicolmente diversa …) da quella che si sarebbe aspettato: troppo tardi si
accorge di quanto fosse cieco il suo sguardo nel corso della vita terrena. Allo «sguardo ottuso»
ineliminabile da questa vita, si contrappone lo sguardo lucido, «elevato» conferitogli dalla morte. In Fatum
et fortuna, infine il Philosophus si ritrova, in posizione ideale per osservare, sulla cima di un monte
altissimo:ma il suo occhio «alato» non vede tutto anzi scambia per “ombre” quelli che sono “fuochi
celesti”. L’occhio umano, allora, non è in grado di cogliere tutta la realtà, né di scoprire l’origine e il
termine della vita stessa. Non è la speculazione dei philosophi –tranne le rarissime eccezioni Socrate e
Democrito – che permette all’uomo di «conoscere se stesso», ma l’occhio del pittore, vero sapiente perché
lucido osservato re della realtà. E l’occhio del pittore è anche l’occhio della prospettiva. [256 60]
5) L’OCCHIO «ALATO» DEL PITTORE È dunque il pittore e non il filosofo che sa guardare la realtà
che sta dietro le varie maschere e le fictiones – l’occhio «alato» del pittore, forse ancor più dell’architectus,
meglio di ogni altro vede ciò che accade in questo nostro mondo. Vero pittore sarà solo quel philosophus
che riesca a guardare, senza indulgere a impossibili domande ultramondane, ciò che si può fissare con gli
occhi. Su uno dei codici della redazione in volgare del De pictura c’è disegnato un occhio alato circondato
da una corona d’alloro con io motto QUID TUM: forse è soltanto la «firma» dell’autore. Certamente, però,
nelle pagine del trattato la presenza dell’occhio è centralissima. Proprio all’inizio si legge che il campo in
cui si esercita l’attività del pittore, è unicamente quello del «visibile»: la vista dell’uomo è del tutto
«immanente» Ma tutto il De pictura è fondato sulle leggi della prospettiva oculare, della «forza del
vedere». Dipingere è come guardare attraverso una finestra aperta: Principio, dove io debbo dipingere scrivo
uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, el quale reputo essere una finestra aperta per
donde io miri quello che quivi verrà dipinto Queste possono essere semplici generali affinità, ma un
elemento dell’occhio «alato» compare nel trattato: le ciglia che come raggi partono dalla palpebra inferiore
[vedi figura] risultano straordinariamente affini ai «razzi» descritti nelle sue pagine[1]. Ciò non risolve il
problema dei «razzi dell’emblema», la cui forma è simile a quella dei raggi del sole nel timpano della
facciata di Santa Maria Novella: da questo punto di vista, il simbolo dell’Alberti sarebbe un occhio solare e
divino terribilis capace di fulminare ogni omuncolo Se sono invece i raggi del De pictura saremmo di
fronte all’occhio della prospettiva, conscio della forza del vedere, il cui raggio centrico esprime una
potenza quasi divina. Ma se quest’ultima è l’interpretazione giusta, come conciliare la mobilità estrema
dell’occhio alato con la fissità (almeno per Alberti) dell’occhio della prospettiva? [260 62]
6) L’OCCHIO «ALATO» DELL’ARCHITETTO Anche l’occhio dell’architetto dotto e prudente
dev’essere un occhio «alato». Per suo tramite, ci è dato di vedere la bellezza di un oggetto. Chiunque,
anche se non esperto, riconosce le «disarmonie» di un edificio: l’occhio, infatti, è per sua natura avido di
bellezza e concinnitas (eleganza e simmetria). Poiché è dotato di questo “straordinario strumento”,
l’architetto non deve limitarsi a seguire le regole fornite da Vitruvio, ma deve osservare coi propri occhi
ciò che rimane della architettura antica. Il tema ricorre come un leitmotiv in tutto il De re aedificatoria.
Non si contano i passi in cui Alberti riporta osservazioni dirette tratte dai suoi sopraluoghi tra le rovine
della Roma antica e da cui emerge l’importanza, per il trattato, della visione diretta delle cose. L’occhio è
chiamato in causa anche per le correzioni degli errori che intaccano la concinnitas di un’opera, dove si
rendono necessari fictiones e artifici propri dell’arte del pittore, per mascherare le monstri facies prodotte
da architetti incolti ed imprudenti: condividendone l’occhio alato, l’architectus si fa pictor e su queste
indicazioni termina il De re edificatoria. [262 - 64]
7) L’OCCHIO «ALATO» DEL MASSAIO Tutti e quattro i libri del De familia insegnano l’arte di essere
«vigili e «desti» per poter fare buona «masserizia» del tempo e della «roba» in vista del bene beateque
vivendum. È il grande tema della prudenza, una delle virtù fondamentali per l’Alberti. E la prima regola
per poter ottenere tutto ciò, è avere occhi ed orecchi «alati». «Sia il padre di famiglia in mezzo intento e
presto a sentire e vedere il tutto». Occorre cioè guardare coi propri occhi e non affidarsi alle sentenze e alle
esperienze altrui: il grande tema (esposto nel III° libro) della conoscenza come esperienza vissuta in prima
persona: «Cieco per certo sarà colui, il quale non vedrà se non con occhio altrui ». Infine, l’occhio «desto»
e «vigile» è necessario per rendersi ben accetti ai prìncipi (questione su cui si sofferma nel IV° libro). La
facilità con cui i potenti passano dall’amore all’odio dimostra quale prudenza e capacità di dissimulazione
occorrano per mantenere la loro benevolenza. [264 - 67]
8) OCCHI «MOSTRUOSI»: ARGOS, FAMA E POLIFEMO Finora poco si è insistito sull’aspetto
«mostruoso», di terribilità, che vi è nell’occhio alato: monstrum anche nel senso di prodigioso. Di mostri,
nelle opere di Alberti, ne appaiono diversi. Ma sono tre quelli contraddistinti - per difetto o per eccesso –
dalla presenza dell’occhio. –Nella intercenale Discordia in virtù della sua vista straordinaria Argos deve
rintracciare, su mandato degli dei, la dea Iustitia. Ma,per quanto Argos s’impegni, Iustitia resta irreperibile
(almeno sulla Terra, come sempre, secondo Alberti). Un altro terribile monstrum (lo s’incontra nel
Momus) è Fama: nata da uno stupro compiuto da Momus ai danni di Laus di cui era invaghito, Fama si
distingue per due tratti mostruosi: gli occhi molteplici (come le orecchie e le lingue) e le ali che consentono
di raggiungere in tempo brevissimo ogni regione della terra. Vedere (ascoltare e riferire). Creatura strana e
mirabile, Fama sembra una ironica dissimulazione dell’occhio alato, condannato – come l’uomo- a mai
arrestarsi finché non giunga ad ripam mortis. Infine, in un passo del De iciarchia compare Polifemo,
presentato, in un passo dall’intento educativo e maieutico, come paradigma di quella «grandezza» che
Battista non giudica positiva: per lui, infatti, grandezza e diversità non stanno nella moltiplicazione e
potenziamento degli organi, ma nella aurea mediocritas dei suoi avi. [267 - 70]
9) «ALI» ALBERTIANE Occhio e ala nell’immaginario albertiano, dunque. Le «ali» a nostra
disposizione sono la forza dell’ingegno e le doti dell’animo. Nell’intercenale Fatum et fortuna al
Philosophus vengono indicate alcune figure «alate» separate dalla turba degli uomini: sono in numero
ridottissimo e dotate della capacità di volare grazie a calzari alati (talaria) in aggiunta alle ali: le ali sono
simbolo di veritas e di semplicitas , i calzari indicano la capacità d’intendere, in una visione d’insieme,
anche le cose caduche. Questi esseri, semplici e totalmente incorrupti (un motivo del tutto evangelico),
non sono veri dèi, anche se gli uomini li considerano tali [per Alberti, al pari di altri umanisti, non esiste
contraddizione tra fede nei valori cristiani e riscoperta degli Antichi, tra dio e natura]. Al di sotto di questi
esseri semidivini stanno, senza calzari e con ali non del tutto integre, alcune figure degnissime, forse quei
periti viri [v. § 1)], la cerchia di sapienti che noi diciamo «umanisti». Loro compito è recuperare, sparsi tra
gli scogli e sulla riva del tempo, i frammenti delle tabulae e delle bonae artes che l’acume e l’ingenium
degli antichi avevano costruito [270-72]
10) QUID TUM? “Che cosa allora”? La formula, in Cicerone, rappresenta la sospensione all’interno del
discorso retorico, un artificio per creare suspence là dove si chiede la massima attenzione del lettore.
Alberti conosce l’ars rhetorica, e ne fa un uso continuo. Ma il QUID TUM può rappresentare anche la
domanda finale, ineludibile in ogni uomo che rifletta sull’esistenza terrena e sul suo significato, che
s’interroghi, come Socrate e Democrito, sul senso del nostro «faticoso vivere»[2] . Ironico, in tutta la
valenza etimologica dell’aggettivo, risulta dunque il QUID TUM, al tempo stesso quesito supremo e
domanda retorica. Sembra intenzionale, l’ambivalenza: l’interrogazione più alta, forse è nel contempo, solo
un interrogativo retorico. Ma è forse anche la domanda gridata da Giobbe al cospetto di dio. [272]
11) LUCIANO E GIOBBE Come tutta l’opera dev’essere considerata alla luce di quella discordia
concors che caratterizza la personalità dell’umanista, così occorre interpretare il suo stesso emblema.
L’indissolubilità di questi aspetti nell’impresa albertiana trova sostegno in tre fonti della sua formazione:
l’Icaromenippus di Luciano di Samosata [esponente della “seconda sofistica” del II° sec. d. C.] e due testi
vetero-testamentari, i Salmi e il libro di Giobbe. Il dialogo di Luciano espone il tema dello sguardo
dall’alto, ironico e disincantato, necessario per poter rispondere al quesito di Menippo : ”Quale il senso del
cosmo?” - l’albertiano QUID TUM. Per rispondere alla domanda, come il Giove del Momus , Menippo
ricorre dapprima ai filosofi ma, come Zeus, deve ricredersi, irride il loro presunto occhio alato e decide di
cavarsela da solo. Si applica alle spalle un paio di ali (la destra da aquila, la sinistra da avvoltoio) e,
divenuto Icaro - Menippo, vola per tutti i cieli. Si riposa atterrando sulla Luna e da lì, con sguardo alato,
osserva ora una, ora un’altra regione della Terra. Ma l’incontro, sulla Luna, col filosofo Empedocle,risulta
decisivo per ottenere quella vista alata che Menippo portava con sé ma non era in grado di utilizzare:
Luciano/Empedocle collega strettamente fra loro l’occhio destro di Menippo e l’ala dell’aquila, simbolo di
vista acutissima. Il suggerimento è di “fare come i falegnami che si servono di un occhio solo per meglio
segare il legno”. Menippo conquista così la vista alata che gli permette di scorgere le scene ridicole che
quotidianamente si svolgono sulla terra, lo spettacolo carnevalesco di un vero mondo alla rovescia (come
quello del Defunctus dell’Alberti). Per cogliere questa polifonia stridente e risibile, serve un occhio che
sappia muoversi velocemente, come quello dello Zeus omerico. Il testo di Luciano contiene rimandi ai più
tipici atteggiamenti dell’Alberti -sguardo lucido e disincantato sul mondo degli uomini, ironia, moralismo.
Ma questo riguarda solo un aspetto dell’emblema; l’altra faccia, il QUID TUM, a quale fonte rimanda? Sia
l’occhio, sia la terribilità di dio, sia l’aquila di Battista sono con buona probabilità tratte dall’immaginario
biblico e dai Salmi in particolare. L’Antico Testamento, inver, istituisce un confronto continuo tra la
limitatezza dell’occhio umano e l’onniveggenza di quello divino. Nel libro di Giobbe in particolare, il
divario incolmabile tra uomo e Dio si presenta come diverso modo di vedere: l’occhio limitato dell’uomo,
seppure «rex» e «primus» tra gli organi, non può attingere alla mirabile scienza divina, come non può
sottrarsi allo sguardo di Dio, onnisciente e onnipresente, osservatore e inquirente. Ma l’estremo faccia a
faccia tra uomo e dio si traduce in un interrogare crudo, diretto: perché tutto questo, quale il senso del
nostro soffrire? QUID TUM? C’è un brano nel libro di Giobbe decisivo per comprendere la interrogazione
inscritta nell’emblema e, forse anche per intendere quei passi in cui l’Alberti parla del potere perturbatore
dell’uomo verso la natura: ”L’uomo fruga all’estremo limite le rocce nel buio più fondo. Conosce sentieri
sfuggiti all’occhio dell’avvoltoio, spiana montagne e porta alla luce i metalli. Ma la sapienza da dove si
trae? E il luogo dell’intelligenza dov’è?” [Gb., 28 1-28] Questo sembra il senso ultimo anche del QUID
TUM: qual è senso di questo nostro errare, dell’improbus labor, di questo faticoso vivere? La domanda di
Giobbe è fatta propria come un giardino segreto, cifra nascosta di un pensiero – quello di Alberti – che si è
sempre rifiutato di cercare una giustificazione religiosa dell’esistenza umana.
- Alberto Giorgio Cassani, Explicanda sunt mysteria: L’enigma albertiano dell’occhio alato, in Leon Battista
Alberti, Actes du Congrès international (Paris. Sorbonne-Institut de France-Institut culturel italien-Collège de
France. 10-15 avril 1995), Sous les haut patronage des Présidents de la République française et de la République
italienne, et sous les auspices de l’UNESCO et de l’AISLLI. Édités par laSociété Internationale Leon Battista
Alberti sous la direction de Francesco Furlan, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris/Nino Aragno Editore,
Torino (Coll. «Nova Humanistica»), 2000, pp. 245-304
[1] «… i filosafi … affermano misurarsi le superficie con alcuni razzi quali ministri al vedere, chiamato per questo visivi, quali
portano la forma veduta delle cose al senso. E noi imaginiamo i razzi quali essere fili sottilissimi da un capo quasi come una mappa
molto strettissimi legati dentro all’occhio ove diede il senso che vede, e quivi quasi come tronco di tutti i razzi quel nodo estenda
drittissimi e sottilissimi suoi virgulti per insino alla opposita superficie. Ma fra questi razzi si truova differenza …. Alcuni …
giungendo all’orlo delle superficie misurano sue tutte quantità …. Altri … da tutto il dorso della superficie escono sino all’occhio
…. Ecci fra i razzi visivi uno detto centrico. Questo, quando giugne alla superficie, fa di qua e di qua torno a sé angoli retti e equali
…. Adunque abbiamo trovato tre differenze di razzi: estremi, mediani e centrici».
[2] « Niuna cosa si truova più faticosa che ‘l vivere», si legge nei libri De familia Ma innumerevoli sono i risconti in tutti gli scritti
di L.B.A.