Ma quante infezioni negli ospedali italiani (7.800) A quanti capita di entrare in ospedale per curare una malattia e prendere un’infezione? Ogni anno succede a circa 10 italiani su cento ricoverati, colpiti da polmoniti, setticemie, infezioni associate a catetere venoso. Infezioni che spesso si dimostrano resistenti agli antibiotici. E´ la foto istantanea, la più vasta e approfondita sulle infezioni ospedaliere, mai fatta in Italia e in Europa, scattata dal "Progetto Nazionale per la sorveglianza delle infezioni batteriche gravi in ambito comunitario e ospedaliero" condotto in 50 centri ospedalieri italiani e coordinato dall´Istituto Superiore di Sanità, con la supervisione di un Comitato Scientifico, che rappresenta la Federazione delle Società Italiane di Microbiologia. Una fotografia che non si limita a pesarne la consistenza, ma mette a fuoco il fenomeno in ogni suo aspetto: dal numero di persone aggredite dai batteri più pericolosi, al tipo d’infezioni che avvengono nei vari reparti, alla loro incidenza su base geografica, sino agli antibiotici inefficaci e quelli che invece sono ancora efficaci. Uno studio multicentrico che, oltre a sorprendere per le sue dimensioni (ottomila i pazienti già presi in considerazione e si punta ai diecimila), è destinato a dare preziose indicazioni terapeutiche, linee guida e indirizzi non solo per la ricerca di nuovi farmaci (vaccini e immunoterapie), ma anche per le soluzioni "naturali" che contrastano i batteri killer. Già, perché in ospedale, di queste infezioni non solo ci si ammala, ma si può anche morirne. In Italia circa 500 mila pazienti su 9 milioni e mezzo di ricoverati l´anno sono colpiti da un´infezione presa in ospedale. Stiamo parlando di una percentuale compresa tra il 5 e il 17% dei pazienti ricoverati. E di questi il 3% muore. "Il 43% dei soggetti da noi studiati sono entrati in ospedale per curare un´infezione batterica grave, ma oltre la metà del campione (57%) l´ha contratta durante il periodo di degenza, mentre era in cura per altre patologie - spiega Antonio Cassone, Direttore del Dipartimento di Malattie infettive, Parassitarie e Immunomediate dell´ISS -. Si tratta per lo più di uomini (61% contro il 41% delle donne) che, al momento della diagnosi, hanno un´età che varia dai 50 ai 70 anni". Se ci si sofferma invece sull´incidenza geografica si scopre che il Sud e le Isole guidano questa classifica con il 48% dei pazienti che si sono ammalati in ospedale, seguono il Nord (30%) e il Centro (22%). E se si va a vedere nel dettaglio, si scopre come ogni zona abbia una prevalenza di agenti infettivi diversi. Come si spiega? Due i fattori in gioco: "C´è una differenza di fondo tra le regioni nell´uso dei sistemi diagnostici _ spiega il professore -. Non tutti utilizzano gli stessi approcci qualitativi. Il secondo fattore è dato da probabili difformità nell’ aderenza ai protocolli sperimentali da parte dei numerosi laboratori distribuiti su tutto il territorio nazionale che hanno partecipato allo studio. Questo può aver generato variazioni sostanziali che dovremo verificare nel proseguo dello studio". Ma se i numeri sono significativi, le cause che scatenano queste infezioni hanno una "faccia" e un nome. Su quattromila, più della metà (ovvero 2.365) sono causate soltanto da tre specie batteriche: Pseudomonas aeruginosa, Staphylococcus aureus ed Escherichia Coli. Agenti resistenti o refrattari agli antibiotici ad ampio spettro per i quali non c´è ancora un vaccino. La ricerca, la prima attuata con risultati incrociati tra i 50 centri italiani, i tre laboratori di riferimento (Genova, Roma e Catania), e sottoposti al "controllo di qualità" esterno (vale a dire da un´autorità scientifica svizzera), ha riservato delle sorprese. "Una di queste è costituita da Acinetobacter baunmanii, che ci aspettavamo certo di di trovare nei reparti di terapia intensiva , ma non in proporzioni così elevate (quasi 200 casi) _ dice Cassone _. Sapevamo che questo nuovo e pericoloso batterio con un´ampia resistenza ai farmaci è presente in quegli ambienti, ma non nelle dimensioni evidenziate dallo studio. Parliamo di pazienti con patologie gravi. Questa è una situazione preoccupante che va ulteriormente studiata e controllata". Se gli antibiotici spesso dimostrano di essere "armi spuntate" contro questi batteri, lo studio multicentrico fa un passo avanti, spiegandocene le ragioni. ’E pratica diffusa trattare le affezioni febbrili, in particolare quelle del tratto respiratorio, con gli antibiotici, anche se spesso,come sottolinea sempre il professore, si tratta di infezioni virali (ad esempio, in oltre il 50% dei casi ) per le quali il loro uso è inutile e spesso dannoso per lo sviluppo di resistenze.. Insomma basta un´influenza per trovarseli sul comodino invece dell´aspirina. "Sicuramente _ prosegue Cassone _ c´è stato e continua ad esserci un abuso. Ma questo ci offre un suggerimento importante: migliorare la diagnosi delle infezioni al letto del paziente. Oggi disponiamo di tecnologie adeguate che permettono soprattutto al medico di medicina generale di fare una diagnosi rapida per distinguere l´infezione batterica dal virus. Mi riferisco ai mezzi diagnostici ora disponibili, più evoluti e sensibili, per lo Streptococco, il Pneumococco, altri batteri gram positivi, l´Helicobacter per l´ulcera gastrica, etc...". Strumenti che però non sono ancora di uso comune. "I mezzi ci sono ma dobbiamo ampliarli, standardizzarli e saperli offrire soprattutto ai medici che intervengono nelle comunità _ aggiunge il professore _. Solo così riusciremo a limitare le resistenze agli antibiotici. C´è un altro problema importante ed è la scelta dell´antibiotico giusto. Il medico è sempre più chiamato a seguire l´epidemiologia locale, prescrivendo l´antibiotico più efficace". E poi, c´è da dire, un po´ di colpe le hanno anche i malati che una volta a casa non seguono gli schemi terapeutici e gli antibiotici li prendono quando si ricordano. Avviene frequentemente. "Sicuramente, vedono che la febbre passa e smettono di prendere i farmaci per tutto il periodo prescritto- incalza il professore -, questo è un modo per generare resistenza". Che sia finita l´era degli antibiotici? "Assolutamente no - risponde Cassone -. Gli antibiotici non sono al tramonto. Questo studio ci aiuterà molto. C’è tanto da fare, tanto da migliorare. Abbiamo più "armi" a disposizione e dobbiamo usarle. Ci sono nuovi approcci terapeutici su cui lavorare, consentiti dalle nuove conoscenze genomiche e proteomiche. Mi riferisco ai vaccini contro questi batteri. Già esiste per il Pneumococco nei bambini ma è poco utilizzato. I vaccini sono una strada importante da percorrere. Nutriamo molte speranze anche per l´immunoterapia, ossia la capacità di generare grandi quantità di anticorpi umani con la necessaria specificità attraverso l´ingegneria genetica. Un tempo poi si davano i sieri, quelli prodotti da pecore e cavalli, improponibili per la loro pericolosità. Oggi però siamo in grado di produrre anticorpi umani da batteri innocui. Bisogna lavorarci, come bisogna puntare anche sui tanti fattori naturali in grado di combattere i batteri. Abbiamo parecchie sostanze ad azioneantibiotica da piante, animali ed alimenti, anche sintetizzabili in vitro. Si tratta di sostanze naturali con grandi capacità antinfettive. Vaccini, anticorpi, sostanze naturali. Conoscere bene queste difese, impiegarle al meglio. E´ la sfida che ci attende". Lo studio multicentrico però non si ferma qui, l´obiettivo è di prolungarlo per altri due anni, semprechè si rinnovi il sostegno finanziario pubblico-privato del Ministero della Salute e da Pzifer Italia. Nel 2005 e nel 2006 la ricerca intende infatti approfondire quanto sinora si è intravisto. "I prossimi due anni sono necessari per intercettare le variazioni nelle patologie e le resistenze agli antibiotici - conclude il Direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell'Iss -. Ora c´è una fotografia dell´esistente, ci mancano i trends, i batteri si sa evolvono e cambiano nel tempo. Dobbiamo analizzare queste variazioni". Per la buona salute degli italiani che vanno in ospedale. Roberta Rezoalli