ELEMENTI DI SOCIOLOGIA, PSICOLOGIA DELL'UTENZA E PATOLOGIE COMUNICATIVE DISPENSA a cura di Rosalia Olivieri Definizioni di modello 1. Termine di riferimento ritenuto valido come esempio o prototipo e degno d'imitazione; cosa o persona assunta come soggetto per un ritratto, un disegno, una costruzione ecc. @ esempio, esemplare, campione: seguire il m.; un m. da imitare; un nuovo m. di sviluppo; un m. di bontà. MODELLI E SERVIZIO SOCIALE: modelli teorici quali schemi teorico-orientativi per: 3.1. l’esplorazione della realtà 3.2. la ricerca di relazione tra dati 3.3. la pratica (conoscere per orientare l’operatività) 2.3 Variabili considerate nei modelli del servizio sociale 1. chi ha il problema/chi è l’utente 2. cos’è il bisogno/problema 3. cause del problema 4. area d’azione del servizio sociale 5. livelli a cui opera il servizio sociale 6. chi e con chi opera l’assistente sociale 7. obiettivi 8. risorse 9. fasi 10. mezzi (attraverso cui opera l’ass.soc) 1 MODELLO PSICO-SOCIALE (Hollis 1964) 1. fonti teoriche in filone scuola “diagnostica” (studio – diagnosi – trattamento) influenzato da neofreudiani (A. Freud, Erickson) e psicologia umanistica; riferimenti Hollis a teoria dei sistemi 2. chi ha il problema/chi è l’utente individuo 3. cos’è il bisogno/ 4. problema - bisogno = “manifestazione di un problema di adattamento sociale, discrepanza nel reciproco adattamento tra l’individuo e le altre persone a cui è legato” (ovvero risposta inadeguata a pressioni ambientali conseguente disfunzioni nel processo di adattamento e integrazione fra l’individuo e la sua situazione sociale) 5. cause del problema Cause pregresse, spesso risalenti all’infanzia (teorie psicanalitiche) 6. livelli a cui opera il serv.soc. Trattamento diretto (utente)* e indiretto (ambiente) mediazione, chiarificazione, informazione, influenza su persone significative 7. con chi opera l’ass.soc.: Individui 8. obiettivi • “cambiamento nell’individuo/i o nella situazione o in entrambi” • Riflessione sugli aspetti dinamici ed evolutivi dei propri modelli comportamentali + Cura percezioni distorte di sé e delle situazioni insight (presa di coscienza configurazione individuo-situazione aiuto a comprensione propri pensieri ed emozioni) 9. fasi 1. f. iniziale (capire ragioni 1° contatto, stabilire rapporto, impegnare utente nel trattamento, inizio trattamento, studio psicosociale) 2. valutazione dell’utente nella sua situazione (programmazione obiettivi e trattamento) 10. mezzi (attraverso cui opera ass.soc.): Comunicazione (sostegno, influenza diretta, catarsi, esplorazione, comunicazione riflessiva)* • esplorazione continua • verbalizzazione in accettazione 2 • considerazione riflessiva su complesso individuo-situazione • sostegno verbale • comunicazione di tipo direttivo 11. efficacia : Settore medico e psichiatrico PSICOLOGIA DEL CICLO DI VITA ''Arco di vita'', ''corso di vita'' e ''ciclo di vita'' sono espressioni centrali nel recente dibattito intorno alla natura e alle caratteristiche dello sviluppo psicosociale dell'uomo, e vengono a volte usate in modo intercambiabile. ''Arco di vita'' e ''corso di vita'' sono principalmente impiegate dalla psicologia dello sviluppo la prima, e dalla sociologia la seconda, come metafore di evoluzione della vita individuale, mentre l'espressione ''ciclo di vita'' viene usata per indicare l'evolvere nel tempo sia dell'individuo che della famiglia. In psicologia, questi concetti confluiscono nell'approccio definito life-span psychology. I tratti costitutivi della prospettiva life-span sono (Baltes e Reese 1984; Baltes 1987) i seguenti: l'estensione dello sviluppo ontogenetico a tutta la vita, e non più relegato agli anni dell'infanzia o ad altre fasce di età; l'esistenza di una notevole variabilità individuale a proposito degli schemi di evoluzione e cambiamento; l'elevata complessità del processo di sviluppo che trova la propria formalizzazione non tanto e non più in termini di crescita-maturità-declino, bensì in un'organizzazione flessibile di fasi o stadi. Secondo questa impostazione, ciascuna fase è caratterizzata da momenti di crescita e di declino, intesi come processi congiunti, lo sviluppo psicologico è co-determinato da fattori interni, familiari, ambientali, e assume forme diverse in funzione delle varie condizioni di vita storiche, sociali, culturali. Ne deriva pertanto l'esigenza di un approccio interdisciplinare di ricerca in cui vengono privilegiati gli aspetti processuali e di reciproca interazione delle variabili in gioco. Così, per es., la psicologia dello sviluppo pone attenzione ai processi evolutivi entro il quadro emotivo-cognitivo e relazionale del soggetto, mentre la sociologia li colloca nella coorte di appartenenza, anello di congiunzione tra individuo e società, e la psicologia sociale della famiglia ne studia il plurimo intrecciarsi all'interno delle dinamiche del gruppo familiare. In questa prospettiva di studio, lo sviluppo è scandito in più fasi evolutive di cui alcuni autori sottolineano specie gli aspetti di continuità tra l'una e l'altra, mentre altri ne evidenziano gli elementi di discontinuità. Nel primo caso si privilegiano i fattori maturativi e intraindividuali, nel secondo si enfatizza l'incidenza delle cause prossimali sul cambiamento e sullo sviluppo. 3 Tra i modelli classici fondati sul concetto di ciclo di vita vanno ricordati quelli di E. Erikson (1951) e di D. Levinson (1978). Il modello eriksoniano coniuga in modo originale la prospettiva clinica con quella sociale e si presta perciò all'integrazione di contributi provenienti dall'antropologia, dalla sociologia e dalla storia. Secondo questo autore, gli stadi del ciclo individuale − primi anni di vita, prima infanzia, età dei giochi, età scolare, adolescenza, giovinezza, maturità, vecchiaia − sono caratterizzati da specifiche crisi psico-sociali, veri e propri propulsori e organizzatori della dinamica evolutiva: infatti, esse sono determinate dalla risoluzione, più o meno adattativa, dell'antagonismo delle due forze (definite anche qualità) predominanti in quello stadio evolutivo. Così, il primo stadio della vita umana è caratterizzato dal conflitto tra la fiducia e la sfiducia di base, mentre crescendo il bambino si trova ad affrontare tematiche centrate sulle polarizzazioni di autonomia e vergogna; iniziativa e colpa; industriosità e inferiorità. Se supera questi primi conflitti, il bambino, accompagnato da sentimenti di fiducia, stima di sé e delle proprie capacità, può affrontare la crisi adolescenziale, al bivio tra identità e confusione d'identità. Le crisi centrali dell'età adulta si giocano tra capacità d'intimità e pericolo dell'isolamento, e tra capacità di generatività - intesa in senso lato come tendenza a generare prodotti e idee − e rischio della preoccupazione esclusiva di sé o stasi. L'età adulta, anello di congiunzione dell'individuo con la generazione passata e quella futura, è così momento decisivo di trasmissione storica. Una persona è adulta, infatti, quando "è pronta ad investire le proprie energie per il mantenimento del mondo nello spazio e nel tempo storico". La vecchiaia, infine, è vissuta sui temi dell'integrità in opposizione alla disperazione. Interessante è l'apertura del modello eriksoniano alla dimensione sociale, soprattutto in termini intergenerazionali e storici. Infatti, qualsiasi realizzazione del ciclo di vita individuale s'inserisce nel "ciclo corrente delle generazioni", il quale è, a sua volta, d'importanza vitale per il mantenimento delle strutture sociali in evoluzione. A tal proposito, Erikson riprende la considerazione già di S. Freud (1912-14), secondo cui "l'individuo conduce una doppia vita, come fine a se stesso e come anello di una catena di cui è strumento contro o comunque indipendentemente dal suo volere". Tale potenziale apertura del concetto di ciclo di vita alla dimensione sociale emergerà, come vedremo, nell'interesse per le concettualizzazioni sul ciclo di vita familiare. Prendendo le mosse da Erikson, anche Levinson ha studiato le fasi della vita, occupandosi in particolare della vita adulta. Nel suo schema, la struttura di vita evolve secondo una sequenza relativamente ordinata. Tale struttura consiste in una serie di periodi di stabilità −dedicati alla sua costruzione − alternati a periodi di transizione, durante i quali essa muta. Quando i compiti evolutivi che caratterizzano una determinata fase vengono affrontati adeguatamente, allora si perviene a una struttura ''soddisfacente'', vale a dire appropriata all'individuo e vivibile nel contesto sociale in cui 4 egli è collocato, anche se non priva di qualche elemento di disordine e di frammentazione, elementi che, con il tempo, innescheranno ulteriori cambiamenti. Levinson sottolinea il fatto che i compiti evolutivi consistono essenzialmente nell'operare delle scelte, nell'attuarle e nell'accettarne le conseguenze, tenendo conto del passato, del presente e del futuro di un individuo, ma anche del mondo che lo circonda. In questo senso, le scelte vengono a essere la componente principale della struttura di vita. Durante i periodi di stabilità, che possono durare da sei a dieci anni al massimo, un individuo cerca di creare una struttura soddisfacente per lui, conformemente alle scelte-chiave fatte nel periodo di transizione. Dopo alcuni anni, tuttavia, questa struttura comincia a dar segni d'instabilità, mostrando così che è venuto il momento di modificarla, in tutto o in parte. Si entra, in questo modo, in un nuovo periodo di transizione, che può durare anche quattro o cinque anni, e che mette fine alla struttura di vita esistente ponendo le basi per una nuova. Levinson distingue così, nell'età adulta, una prima transizione che va dall'età preadulta alla prima età adulta (17÷22 anni), la prima struttura di vita adulta (22÷28 anni), la transizione dei trent'anni (28÷33 anni), la seconda struttura di vita adulta (30÷40 anni), la transizione della metà della vita (40÷45 anni), la media vita adulta (45÷50 anni) e così di seguito. L'ambito nel quale è stato ravvisato il primo passaggio dall'accezione individuale del ciclo di vita a quella sociale è il nucleo familiare, in quanto contesto primario d'apprendimento e luogo di quella ''trattativa'' che, in qualità d'impresa congiunta tra genitori e figli e altre generazioni contigue, si deve ingaggiare costantemente per affermare la propria identità. Il concetto di ciclo di vita della famiglia, di derivazione sociologica, compare in psicologia negli anni Settanta ad opera di J. Haley, e sottolinea la stretta interdipendenza dei vari cicli vitali individuali dei componenti una famiglia. Da allora, il concetto ha subito modificazioni e approfondimenti, sia per quanto riguarda le fasi in cui viene scandito, sia soprattutto nei termini di una sua sempre maggior emancipazione dall'area sociologica, verso un'identità psico-sociale meglio definita e spesso supportata dall'applicazione clinica. In particolare, Haley (1973) focalizza l'attenzione sulle crisi di transizione da una fase all'altra del ciclo vitale familiare e legge l'emergere del sintomo nella generazione dei figli come una difficoltà della famiglia nel superare la fase di sviluppo. Recentemente, E. Carter e M. McGoldrick (1986; Carter, Heiman, McGoldrick 1993) ed E. Scabini (1985) hanno elaborato modelli più sistematici del funzionamento familiare nelle varie fasi del suo ciclo vitale. Carter e McGoldrick presentano un modello organizzato intorno al concetto di ciclo vitale della famiglia concepito in termini di connessioni intergenerazionali. Il movimento della famiglia lungo il proprio ciclo di vita non è certo lineare, essendo soggetto ad avanzate e arresti continui: da questo fatto deriva la necessità di tener conto delle difficoltà sollevate dall'incrocio di 5 desideri, aspettative e movimenti delle tre, o a volte quattro, generazioni che vivono contemporaneamente. Le autrici suddividono il ciclo di vita della famiglia in sei stadi: il giovane adulto tra due famiglie, la giovane coppia, la famiglia con bambini piccoli, la famiglia con adolescenti, la famiglia ''trampolino di lancio'' per i figli, la famiglia in tarda età. Per ogni stadio, vengono individuati i processi di transizione e i mutamenti di secondo ordine, cioè i cambiamenti più profondi e strutturali, indispensabili affinché il nucleo proceda adeguatamente verso la fase successiva. Per es., i cambiamenti di secondo ordine richiesti dalle autrici per attuare la transizione dalla fase della giovane coppia a quella della famiglia con figli piccoli prevedono: a) la modificazione del sistema coniugale per ''far spazio'' al bambino; b) l'assunzione dei ruoli genitoriali; c) il riadattamento delle relazioni nell'ambito delle famiglie estese per includervi i ruoli di genitori e di nonni. Pertanto, il principale processo sotteso alle dinamiche familiari e che richiede una costante negoziazione tra i componenti è l'espansione-contrazione-riallineamento del sistema di relazioni, al fine di favorire l'ingresso, lo sviluppo e l'uscita dei membri della famiglia. Il modello di Carter e McGoldrick si completa poi con l'esplorazione dei problemi che il divorzio ed eventuali matrimoni successivi comportano in relazione al ciclo di vita. Un certo spazio è dedicato anche al ciclo di vita della famiglia povera, a quella appartenente a diversa tradizione, cultura e religione o a gruppi etnici differenti da quello per il quale è stato pensato il modello. Scabini (1985) focalizza l'attenzione sull'identità organizzativa della famiglia che viene definita come un'organizzazione complessa di relazioni di parentela che ha una storia e che crea storia. L'identità organizzativa della famiglia viene analizzata nei suoi aspetti sia di struttura che di processo. Tra i primi, gli elementi basilari sono l'ampiezza e i ruoli, e le caratteristiche dei legami. Essi, dal punto di vista schiettamente psicologico, si presentano come fortemente vincolati, gerarchicamente strutturati e definiti da diverse modalità di ''attaccamento'' e da vincoli di ''lealtà'' tra le generazioni. Il tempo è una componente fondamentale della famiglia, che, in quanto gruppo con storia, ha sempre un passato, un presente e una prospettiva futura. Ogni famiglia di nuova costituzione si colloca infatti all'intersezione di due storie familiari che affondano le radici in un complesso albero genealogico e, d'altra parte, ogni nucleo familiare si proietta nel futuro che riempie di aspettative e programmi secondo uno scadenzario in gran parte socialmente normato. 6 Le fasi del ciclo di vita sono definite a partire dagli eventi critici prevedibili (nascita dei figli, adolescenza, pensionamento) e imprevedibili (malattia, problemi economici, ecc.). Essi sono induttori di crisi e innescano le transizioni da una fase del ciclo vitale della famiglia a quella successiva; di conseguenza, impongono al nucleo dei compiti di sviluppo tipici, il cui obiettivo comune è comunque la costituzione e lo sviluppo del tipo di relazione adeguato alla specifica fase del ciclo vitale familiare. La natura dello sviluppo familiare risulta quindi peculiare, in quanto procede per successivi superamenti di crisi, attraverso un costante processo di riaggiustamento, riorganizzazione, momenti di morfostasi e di morfogenesi. Tra gli aspetti processuali, relativi al funzionamento del sistema familiare, Scabini sottolinea la regolazione delle distanze, che concerne il tipo di legame e il dinamismo dei ruoli; le distanze, a cui ogni fase del ciclo impone modificazioni e riadattamenti, sono quelle interpersonali, quelle della famiglia in rapporto all'ambiente esterno e quelle intergenerazionali. A un meta-livello, invece, si pone la specifica abilità familiare, definita sensibilità, di cogliere e rispondere con prontezza, flessibilità e pertinenza, a esigenze e mutamenti che si presentano sia sul versante dei compiti di sviluppo che su quello del contesto ambientale. In conclusione, il concetto di ciclo di vita individuale o familiare risponde all'esigenza, diffusasi recentemente nelle scienze sociali e umane, di dedicare maggior attenzione ai processi che non ai risultati, alle indagini longitudinali piuttosto che esclusivamente a quelle trasversali, nel riconoscimento della complessità delle variabili che concorrono a definire lo sviluppo dell'uomo e dei sistemi umani. L'invecchiamento fisico L'aumento della popolazione anziana rappresenta un fenomeno importante della nostra società. Rispetto al passato non è variata la durata massima della vita umana, ma quello che si è modificato drasticamente è la percentuale degli individui che raggiungono l'età avanzata. Il numero di anziani in Italia di età compresa fra i 65 e 74 anni è 8 volte maggiore rispetto l'inizio del secolo scorso, mentre gli anziani con età superiore a 85 anni sono aumentati di oltre 24 volte. A conferma di ciò studi compiuti in America, sempre nel secolo scorso, stimavano che solo il 2% della popolazione superasse i 65 anni, mentre attualmente la percentuale è dell'11%, e questa percentuale è destinata ad aumentare. Gli anziani sono sempre più numerosi e raggiungono la vecchiaia in migliori condizioni di salute, merito del progresso sia delle conoscenze scientifiche (riduzione della mortalità per malattie infettive) che delle condizioni socio-economiche (miglioramento dell'igiene e 7 dell'alimentazione). L'aumento della popolazione anziana ha determinato la nascita di nuove discipline: Glossario la geriatria (dal greco geros=vecchio, iatros=medico): branca della medicina che si occupa non solo della prevenzione e del trattamento delle patologie dell'anziano, ma anche dell'assistenza psicologica, ambientale e socio-economica. la gerontologia : scienza che studia le modificazioni derivanti dall'invecchiamento. la geragogia : scienza che studia tutte le possibilità per invecchiare bene. Esiste tutt'oggi difficoltà a stabilire l'inizio del processo di invecchiamento, processo caratterizzato dall'aumento dei processi distruttivi su quelli costruttivi a carico del nostro organismo. Si usa comunemente considerare le seguenti fasce di età: età di mezzo o presenile 45-65 anni : gli eventi biologici caratteristici sono la menopausa per la donna e l'andropausa per l'uomo, importanti per le modificazioni bio-umorali (aumento dei grassi nel sangue, della glicemia, predisposizione all'ipertensione arteriosa). senescenza graduale, 65-75 anni : comunemente si indica l'età corrispondente all'inizio della vecchiaia a 65 anni. senescenza conclamata, 75-90 anni : in passato individui di età superiore ai 65 anni mostravano riduzione dell' efficienza psicofisica, ai giorni nostri si assiste alla comparsa di ultrasessantacinquenni efficienti, e si può ridefinire anziano l'ultrasettantacinquenne. In questo periodo le malattie che insorgono tendono a cronicizzarsi ed a determinare interventi assistenziali sociali e riabilitativi. Biologicamente si assiste ad una generale riduzione del numero delle cellule (atrofia) ed una diminuzione dell'efficienza funzionale, accompagnata da modificazioni organiche e predisposizione ad una serie di disturbi. 8 FATTORI INDIVIDUALI E AMBIENTALI DELL’INVECCHIAMENTO L'invecchiamento psichico La psicologia dell'invecchiamento si occupa dell'anziano nella sua globalità: analogamente ad ogni fase della vita umana non si può prescindere dall'importanza della componente affettiva che determina la modalità di risposta agli eventi della vita. Si è visto che la vecchiaia è caratterizzata da modificazioni in senso peggiorativo, ma si può affermare che non esiste un parallelismo fra le modificazioni delle funzioni in individui diversi (eterocronia dal greco eteros=diverso e cronos=tempo). La modalità di invecchiamento non può prescindere dalla personalità e dalle esperienze, la vecchiaia rappresenta la sintesi del significato dell'esistenza: è nella vecchiaia che si può raggiungere la saggezza. Già nell'antichità si riteneva che la vecchiaia fosse sempre accompagnata da deterioramento mentale permanente, in particolare dal declino patologico delle capacità intellettuali e dell'adeguato controllo dell'emotività (demenza). Leggendo S. Antonio da Padova si trova il termine senescere inteso come perdere la cognizione di sé, mentre personaggi come Cicerone (nel De Senectute), Catone e Seneca parlando di vecchiaia mostrano una visione più positiva: la vecchiaia non è solo un processo necessariamente legato al decadimento globale dell'organismo umano. In particolare Catone e Cicerone sottolineavano l'importanza di coltivare molti interessi, fonte di frutti meravigliosi. Recenti ricerche hanno evidenziato la possibilità di sviluppare situazioni creative proprio nella vecchiaia ; studi condotti con modalità diverse hanno dato risultati diversi rispetto al passato: l'anziano può mantenere la sua efficienza psichica globale se sfrutta le risorse residue, ad esempio mediante l'allenamento mentale, e se motivato. Studi anatomo-patologici sul cervello mostrarono che nell'invecchiamento si ha una sclerosi progressiva. Eppure esistono dei casi in cui non sono presenti modificazioni cerebrali. Ciò a conferma della variabilità del processo di invecchiamento (eterocronia) fra gli individui. Attualmente si ritiene possibile un recupero delle funzioni cerebrali (fenomeno detto sinaptogenesi). Le numerose scale di invecchiamento, dal 1950 in poi, dimostrarono che con l'avanzare dell'età diminuiscono funzioni quali la memoria e la capacità di concentramento, frequentemente compaiono alterazioni dello stato emozionale, come avviene nella depressione. Attualmente si è 9 dimostrato che l'anziano è più lento, riflessivo, ma non meno efficiente: i test utilizzati in passato erano caratterizzati da tempi brevi di risposta, ecco che l'anziano non aveva il tempo di risolvere i problemi sottoposti. La biografia di personaggi illustri mostra individui con conservata funzionalità cerebrale anche nella senescenza, anzi molte opere di scrittori, filosofi, artisti, compiute alla fine dell'esistenza, rappresentano il coronamento di tutti i lavori precedenti. Da notare anche la diversità dei risultati ottenuti da studi trasversali, in cui si confrontano individui di diverse età, e studi longitudinali, in cui si controlla un campione di individui per un lungo periodo di tempo. E' intuitivo comprendere come lo studio longitudinale sia particolarmente difficile da portare a termine, sia per l'intervallo di tempo sia per la graduale perdita o rinuncia dei soggetti campione. Gli studi longitudinali confermano che non è la senescenza la condizione patologica, piuttosto sono gli eventi morbosi a creare le condizioni del rapido declino psicofisico. Ma quali sono i fattori che influenzano i processi di invecchiamento? Fattori genetici , anche il sesso può essere un fattore predisponente (il maschio invecchia più precocemente). Educazione e livello culturale che consentono di trovare più facilmente delle alternative di vita alla pensione, di creare delle strategie di sopravvivenza. Benessere economico Interazione e comunicazione Comparsa di malattie invalidanti : l'anziano vive come intrinseca la sua malattia, il suo vissuto è che la malattia appartenga al suo destino. Stile personale di vita , cioè subire o vivere la vita. Appartenenza ad un nucleo socio-familiare, cioè il gruppo, mediante atteggiamenti di conferma o svalutativi, evidenzia gli aspetti positivi e negativi della condizione di vecchiaia. Eventi drammatici: ad esempio la scomparsa di figure di riferimento. Sradicamento dal proprio luogo di origine. E' evidente l'importanza dei fattori sociali. 10 La percezione è la capacità di raccogliere le informazioni esterne attraverso i canali sensoriali. E' quindi legata a due fattori: l'integrazione delle informazioni che avviene a livello del sistema nervoso centrale e l'assimilazione legata al sensi (sistema nervoso periferico). La vista e l'udito sono spesso ridotte e influenzano negativamente la capacità percettiva. Sulla base del principio di costanza percettiva, che dice che la percezione si mantiene costante nel processo di invecchiamento, il cervello cerca di compensare la difficoltà percettiva legata ad una perdita sensoriale stimolando i sensi rimasti integri (principio di conservazione). Con l'avanzare degli anni si affina la capacità di rispondere alla diminuzione di alcune funzioni psicofisiche utilizzando le conoscenze e le esperienze apprese nella vita. E' stato dimostrato che l'attività percettiva migliora se migliorano le condizioni in cui si svolge la stessa: l'ambiente esterno (la società, ma soprattutto il gruppo familiare) può stimolare l'interesse, dare spazio di espressione, non negare le possibili potenzialità dell'anziano. La comunicazione , e quindi le relazioni interpersonali che permettono una vita sociale, dipendono dalla possibilità di percezione. Altro elemento fondamentale è la motivazione . La motivazione, in tutte le età, è la spinta propulsiva fondamentale del comportamento, insostituibile strumento di apprendimento. Persino l'utilizzo del computer, strumento estraneo alla cultura dell'anziano, può essere appreso qualora l'anziano sia motivato a farlo. Il pensiero e il linguaggio possono essere conservati, ma per mantenere l'interazione con l'ambiente esterno, l'anziano deve essere in grado di comunicare. Perché ciò avvenga non si può prescindere dall'importanza dell'affettività , del riconoscimento del suo valore all'interno del nucleo sociale in cui vive. Gli affetti giocano un ruolo essenziale nell'agire quotidiano, nell'essere al mondo. La depressione, espressione di profondo disagio, sofferenza psicologica più frequente nell'età senile, comporta la rinuncia alla vita: l'aspettativa di vita è statisticamente limitata, la società invia messaggi di inutilità, si comprende come la volontà di vita dell'anziano per essere mantenuta necessita dell'affetto dei propri cari che affermano l'importanza della sua esistenza. La sessualità dal punto di vista psicologico si può conservare fino ad età avanzata, ma questo è vero anche dal punto di vista fisiologico. Ebbene, l'esercizio sessuale è fondamentale, come l'esercizio di qualsiasi altra funzione organica ; tuttavia appare ancora diffuso il pregiudizio culturale che considera la sessualità in età senile come indecorosa, come se l'anziano non potesse sentire e vivere le proprie emozioni. 11 Creativita': per invecchiare senza sviluppare demenza (vedi sopra) è necessario che l'anziano mantenga attive le funzioni cerebrali. Per creatività si intende l'espressione di sé stesso, le cui modalità di esecuzione sono vastissime. Un esempio storico eclatante è Sofocle che morì a 80 anni: Iofone, figlio legittimo, per avere l'eredità prima della sua morte lo portò in tribunale dichiarandone l'infermità di mente. Ebbene Sofocle diede esempio di grande creatività quando, per mostrare la sua lucidità, recitò a memoria dei versi. Ancora, si pensi a Giuseppe Verdi, Alessandro Manzoni, che nella vecchiaia produssero le loro opere migliori, Monet, Picasso, Goja, Rembrandt, Charlie Chaplin. Nel mondo dell'arte è facile trovare vecchi creativi. La creatività è caratteristica del mondo evolutivo del bambino. E' fondamentale per la sua crescita. Ma la creatività diminuisce sempre di più in un società ratiomorfa, come la nostra, che privilegia la forma, il pensare secondo una logica comune, non il differenziarsi. Nell'età senile la funzione della creatività si può manifestare nelle piccole azioni quotidiane , come ad esempio nella creazione di pietanze originali. Questo può valere in diverse condizioni di aggregazione: all'interno della coppia, del gruppo, ma anche individuale. Al riguardo molto interessanti sono le iniziative culturali della università della terza età. Lo specialista psicologo può rappresentare un valido aiuto per l'anziano nel riconoscere e svelare le potenzialità creative. Qualora vengano evidenziate le capacità creative, la qualità della vita migliorerà radicalmente. Molto stimolante è il rapporto nonno-nipote . Esiste spesso la difficoltà di esprimersi dei bambini con i propri genitori impegnati a lavorare; la relazione fra nonno e nipote faciliterà la possibilità di espressione di entrambi: il nonno è un interlocutore che interagisce raccontando eventi del passato modificati per facilitarne la comprensione, rendendoli più piacevoli con un pizzico di invenzione. Il racconto di eventi passati diventa strumento per stimolare la funzione creativa. L'interazione nonnonipote diventa un elemento utile ad entrambi. Relegare gli anziano non rappresenta una soluzione utile. Le soluzioni per il futuro degli anziani dovrebbero essere concordate e scelte in chiave positiva, evidenziando cioè le qualità residue utili al fine di esprimere se stessi. L'anziano dovrebbe essere sempre posto nelle condizioni di sviluppare la creatività, tramite fatti-azioni concreti. 12 Speranze e timori Il timore più grande per l'anziano non è la morte, che magari rifiuta inconsapevolmente, piuttosto la malattia, l'abbandono, il disprezzo delle persone con cui ha sempre vissuto, il rifiuto da parte del suo nucleo familiare. Le soluzioni di ieri non sono più attuali, le scoperte scientifiche allungano sempre più la durata della vita. Nei paesi industrializzati la popolazione anziana rappresenta sempre più una percentuale importante: è indispensabile che la longevità sia caratterizzata da anni di salute e non di malattia, invalidità e indipendenza. Bisogna considerare tre aspetti, intimamente collegati fra di loro: Preventivo: una buona prevenzione ha il compito di proteggere e mantenere le risorse psicofisiche, quindi di ridurre le necessità di trattamento (prevenzione medica) e di riabilitazione. E' necessario stimolare i rapporti con l'esterno, insegnare la geragogia, inserire nel mondo del lavoro la possibilità di avere l'età di pensionamento flessibile, stimolare il volontariato, non solo verso coetanei della terza età, ma anche utilizzando l'esperienza dell'anziano utili per l'inserimento dei giovani nel mondo del lavoro (esperienza già svolta con successo da 5 anni ad Ivrea). Si potrà allora affermare che invecchiare è un crescere ancora, un recuperare la propria espressione. Terapeutico: l'anziano presenta spesso la compromissione di più organi, la cui terapia consiste nella somministrazione di più farmaci. Diversi studi hanno evidenziato un abuso farmacologico, in particolare di psicofarmaci: analogamente ai bambini irrequieti, agli anziani depressi vengono somministrati sostanze farmacologiche. Attualmente si è mostrata efficace associare (o sostituire, quando possibile alla terapia con psicofarmaci) la psicoterapia sistemica , che aiuta a creare forme di strategie comportamentali più adatte ai bisogni individuali: la depressione è la reazione ad una situazione che appare senza via di uscita, ed esistono tecniche che vengono proposte per riportare l'anziano ad una realtà che può ancora arricchire. Riabilitativo: le strutture di riabilitazione svolgono un ruolo importante nel ridurre i tempi di degenza nei reparti ospedaliero con sollievo per il paziente anziano e contenimento dei costi per la sanità. Ogni volta che un anziano si ammala e viene ricoverato si mette a dura prova il suo fragile equilibrio . L'allontanamento dalle mura domestiche gli fa perdere il senso e i confini della realtà, il ricovero appare come un evento drammatico che può comportare la morte. Gli anziani che necessitano di un intervento riabilitativo dopo la fase acuta di una malattia possono venire seguiti a livello extraospedaliero mediante il servizio dell'Assistenza Domiciliare Integrata ; nel caso di grave compromissione psicofisica negli istituti di lungodegenza riabilitativa e nelle residenze sanitarie assistenziali. 13 I DISTURBI COGNITIVI I DISTURBI COGNITIVI sono tutte le alterazioni o disfunzioni nelle funzioni cognitive di cui si occupa il neuropsicologo. Le funzioni cognitive sono: attenzione, memoria, percezione, ragionamento. Vediamo brevemente le funzioni cognitive di base: attenzione è la funzione che permette di isolare le informazioni pertinenti e rilevanti rispetto a un problema da risolvere o a un contesto, considerando le infinite informazioni in arrivo sia da dentro sia da fuori di noi; memoria è la funzione che riceve dai sistemi di apprendimento, ordina e archivia, recupera, ogni tipologia di informazione; percezione è la funzione che elabora gli stimoli interni e esterni che arrivano dai canali sensoriali; ragionamento è la funzione responsabile dei processi logici, tra cui importantissimo è il linguaggio. Da queste funzioni basiche derivano le funzioni cognitive complesse: orientamento nello spazio, nel tempo, nelle relazioni con sè e con gli altri; linguaggio come competenza di gestire sistemi logici e simbolici; abilità prassiche sia come pianificazione, sia come esecuzione di prodotti finiti; funzioni esecutive che supervisionano tutte le funzioni cognitive dei livelli inferiori, e che, qualora danneggiate, causano gravi disturbi della intenzionalità; intelligenza è in realtà molte intelligenze ovvero molte funzioni che risolvono problemi complessi. Il Q.I. è una misura dell’intelligenza scolastica, e non una misura delle intelligenze artistiche e tecniche. Data questa definizione, è chiaro che i disturbi cognitivi sono: [partendo dalle prime età del ciclo di vita per arrivare infine alla terza & quarta età] l’autismo, i disturbi specifici dell’apprendimento (es. dislessia), il disturbo da deficit di attenzione e iperattività, le sequele di incidenti stradali o lavorativi, i comportamenti associati alla dipendenza da 14 sostanze o dal gioco d’azzardo, le pseudodemenze a base depressiva, le demenze nelle loro varie tipologie. Un interessante caso di disturbo cognitivo – generalmente non considerato tale – è la falsa testimonianza inconsapevole, che interessa: attenzione, memoria, percezione, ragionamento. Oltre 2.000 studi scientifici (dato del 2013) hanno dimostrato che i resoconti e le identificazioni dei testimoni oculari sono falsi per un terzo del totale esaminato. Il ricordo e la testimonianza sono perciò temi delicatissimi in psicoterapia, dove può accadere che il paziente creda vere situazioni traumatiche che possono benissimo non essere mai accadute. E nel caso di consulenze / perizie giuridiche è altrettanto importante che lo psicologo sappia valutare i rischi di una falsa testimonianza inconsapevole ma convincente, dato che la memoria umana è suggestionabile in base a criteri ben noti alla psicologia cognitiva. TEORIA DEL DISIMPEGNO E DELL’ATTIVITA’ Chi è l'anziano. L'anziano è la sua storia, l'anziano e la sua storia Premessa Il presente lavoro si inserisce nel più generale impegno del Cesvol di fornire ai volontari che operano nei vari ambiti della solidarietà strumenti e competenze per migliorare efficacemente la propria azione solidale. "Chi è l'anziano. L'anziano è la sua storia, l'anziano e la sua storia" è il titolo di un interessante modulo formativo affidato al Dr. Giuseppe Lofrumento all'interno un corso rivolto a volontari impegnati con gli anziani, realizzato a Bastia nel 2003 in collaborazione con l'Associazione di volontariato la Zattera. La spinta a realizzare questo tipo di formazione parte dalla constatazione unanimemente condivisa che esistono particolari settori di intervento dell'associazionismo (dalla tossicodipendenza fino alla disabilità ma anche l'infanzia) per i quali non è sufficiente "avere" voglia di fare volontariato, di dedicare parte del proprio tempo libero a chi vive situazioni di disagio. L'esperienza positiva dei 15 gruppi di auto mutuo aiuto, che stanno praticamente proliferando in vari settori (dall'alcol alla depressione) dimostra che per essere utili a qualcuno è necessario mettersi nei suoi panni. Questi corsi si pongono proprio l'obiettivo di contestualizzare, definire e caratterizzare al massimo tutti gli aspetti, i problemi, i conflitti, etc. che fanno parte di un determinato contesto di disagio, al fine di conoscerli ed affrontarli nel migliore nei modi e, soprattutto, senza traumi per il destinatario finale (per il disabile o l'anziano non autosufficiente). Considerato che è compito del centro servizi operare proprio in questa direzione, i corsi di formazione per figure di volontari rispondono alle seguenti finalità: • fornire proposte qualificate ed adeguate di formazione rivolte al volontario • valorizzare la cosiddette buone pratiche e le esperienze già esistenti all'interno dell'associazionismo • favorire la messa in rete e la condivisione di tali esperienze nella progettazione e nella realizzazione dei corsi • rendere tali corsi accessibili a tutti, anche a chi non sia iscritto o faccia parte delle Associazioni proponenti I quaderni del volontariato si pongono l'obiettivo di "mettere per iscritto" una serie di contenuti trattati ed esposti con la formazione, al fine di renderli disponibili a tutti coloro i quali volessero intraprendere la strada della solidarietà con livelli di consapevolezza e conoscenza che devono necessariamente entrare a far parte delle buone pratiche dell'associazionismo. L'invecchiamento o senescenza consiste nel processo che conduce alla condizione di vecchiaia e pertanto si connota in termini dinamici. Premesso che convenzionalmente si colloca l'inizio dell'invecchiamento intorno al 65° anno di età, è importante precisare che in tale processo esistono tre aspetti non omogenei: biologico (il mutare e il decadere del corpo), psicologico (il modificarsi dell'adattamento alla vita quotidiana), sociale (il cambiamento del ruolo dell'anziano nella società), in contemporaneo e non coincidente movimento. Tradizionalmente, l'invecchiamento implica quasi sempre un significato negativo, di perdita, di decadimento, tale per cui le conseguenze dell'invecchiamento sono spesso considerate soltanto in termini deficitari. In ambito biologico, è stato frequentemente usato il termine di invecchiamento per designare il processo che implica il modificarsi dell'essere vivente nel periodo compreso fra la cessazione della 16 sua attività riproduttiva e la morte. Se riferito all'uomo, il sostantivo viene impiegato a indicare il complesso delle modificazioni cui l'individuo va incontro, nelle sue strutture e nelle sue funzioni in relazione al progredire dell'età. Esso assume un significato che ha una base comune con quello di accrescimento o di maturazione -pure esprimente le modificazioni in rapporto con l'età- ma se ne distingue per un'implicazione regressiva e distruttiva rispetto a una progressiva e costruttiva. L'accrescimento viene infatti considerato come il processo attraverso il quale l'individuo aumenta quantitativamente le proprie strutture e funzioni e perde progressivamente le proprie funzioni. Anche accettando questo modo di intendere i due processi, si è dovuto riconoscere come essi si svolgano in due fasi distinte della vita dell'uomo, ma senza presentare soluzioni di continuità, costituendo le due modalità del processo di sviluppo, che inizia dal momento in cui comincia a formarsi un essere vivente fino al momento della sua morte. Il passaggio senza soluzione di continuità dall' accrescimento alla senescenza può avvenire ad età cronologiche differenti non soltanto per i diversi individui ma anche per le singole funzioni all'interno di uno stesso individuo. E ciò in relazione a quella che è stata indicata come l'eterocronia di accrescimento e di senescenza. L'accrescimento comporta non soltanto aumenti quantitativi e differenziazioni qualitative, ma anche arresti o diminuzioni quantitative e decadimento di funzioni. La senescenza implica non soltanto la diminuzione di certe strutture ma anche conservazione di altre, non solo perdita di certe funzioni, ma anche perfezionamento di altre. L'invecchiamento umano, anche se generalizzato a tutti gli individui, si svolge con modalità, ritmi, conseguenze estremamente variabili da individuo a individuo, in relazione a fatti preesistenti e a condizioni contingenti nonché alle linee che avranno caratterizzato l'accrescimento di ciascuno. Vita media uomini: 75 anni Vita media donne: 85 anni Invecchiamento bio-psico-sociale: 25 anni >inizio declino biologico-psicologico 65 anni > inizio vecchiaia 65/74 anni > giovane -vecchio 17 75/84 anni > vecchio - vecchio 84 anni in poi > vecchio - molto vecchio - ultracentenario Biologia dell'invecchiamento Le ipotesi biologiche formulate fino a oggi sull'invecchiamento sono numerosissime e propongono una complessa interazione di fattori genetici, immunitari e neuroendocrini. Nella sostanza, tuttavia, esse possono suddividersi in due gruppi. Al primo appartengono tutte quelle che considerano l'invecchiamento come un processo passivo dovuto all'accumulo di prodotti tossici, o a una sorta di esaurimento funzionale, o, ancora, a un equivoco biologico, una sommatoria negativa di errori che l'organismo commette dal concepimento in poi. Ne sono un esempio le teorie biologiche che chiamano in causa fattori genetici, come alterazioni nella duplicazione del DNA. Si ritiene che il processo di invecchiamento dell'organismo sia regolato dal sistema nervoso centrale: le alterazioni cerebrali darebbero il via a una cascata di eventi metabolici e fisiologici che porterebbero, gradatamente, organi e tessuti a una perdita di efficienza funzionale, per cui questi ultimi resisterebbero sempre meno all'azione disgregatrice dell'ambiente. Si pensa, in un'ottica biologica, che lo studio dei processi di invecchiamento cerebrale possa chiarire i meccanismi generali della senescenza, ancora in larga misura ignoti. Al secondo gruppo fanno capo quei gerontologi per i quali l'invecchiamento sarebbe un processo attivo, dovuto a un'autodistruzione programmata, che procederebbe silenziosa, dal concepimento alla morte. Il termine "programmata" viene utilizzato nel senso di "guidata e controllata da geni particolari", che si attiverebbero quando l'organismo è giunto a maturazione. Tali geni sarebbero stati conservati nel corso dell'evoluzione, in quanto, accanto agli effetti distruttivi, ne avrebbero altri utili e attivati precocemente. In altre parole, le cellule dell'organismo, continuamente esposte ad agenti potenzialmente danneggianti di origine endogena ed esogena, per mantenere la propria integrità, hanno sviluppato una serie di meccanismi di difesa, tra cui la morte cellulare programmata (o apoptosi) e finalizzata ad eliminare cellule gravemente danneggiate e/o mutate e sono in grado di attivare meccanismi di riparazione del DNA. La loro contemporanea messa in funzione costituirebbe quel "network di difesa" che rappresenterebbe il principale sistema anti-invecchiamento dell'organismo. Il livello complessivo della funzionalità ed efficienza del network sarebbe controllato geneticamente ed in modo quantitativamente diverso nei singoli individui di una determinata specie, rendendo ragione, almeno in parte, della differente longevità dei diversi individui e della apparente "familiarità" della 18 longevità. Quello che determinerebbe la longevità sarebbe dunque il risultato di un bilanciamento, modificatosi con l'evoluzione, tra meccanismi pro-invecchiamento, che tendono a destabilizzare il DNA, e meccanismi anti-invecchiamento (in primo luogo quelli del network di difesa), che tendono a conservare integrità e correttezza dell'informazione genetica, eliminando le cellule e le molecole alterate e mutate. Invecchiamento: ipotesi psicologiche alternative In analogia con le ipotesi biologiche, anche in ambito psicologico si possono individuare due filoni interpretativi ben rappresentati dalla teoria del disengagement e da quella dell'activity . La teoria del disengagement (del disimpegno), proposta da Cumming e Henry nel 1961, vede nell'invecchiamento una riduzione progressiva delle funzioni individuali e interpersonali. Secondo tale prospettiva, l'invecchiamento comporta inevitabilmente un soggettivo e un obiettivo disimpegno sul piano fisico, psicologico e sociale, con la conseguente incapacità di rispondere alle esigenze sempre più rapidamente rinnovate di un mondo in continua trasformazione. È un "lasciarsi andare alla deriva": conseguenza in parte della reale riduzione delle capacità e delle abilità preesistenti, in parte di un volontario ritiro dal mondo, favorito e dal pregiudizio soggettivo che "invecchiare significa morire" e da quello sociale secondo cui il vecchio è "oggetto" residuale e marginale di un'organizzazione in cui competizione ed efficienza sono i valori dominanti. Alla perdita del funzionamento biologico, si aggiunge, così, quella del funzionamento psicologico. Alla teoria del disengagement si contrappone quella elaborata da Havighurst, nota come teoria dell'activity, secondo la quale il disimpegno non è inevitabile e molti anziani non mostrano di disimpegnarsi, né sul piano fisico, né sul piano psicologico, né su quello sociale. Havighurst ha tentato di individuare le caratteristiche "dell'invecchiare con successo", per facilitare in tutti gli anziani l'insorgere del feeling of happiness e aumentare il loro livello di soddisfazione e di benessere psicologico. Tali caratteristiche consisterebbero nella capacità di mantenersi attivi fino ad età avanzata, impegnandosi nelle attività più diverse, a seconda delle differenti opportunità. Aspetti cognitivi dell'invecchiamento Come è noto, nell'età senile, al normale decadimento cui vanno incontro tutte le persone viene contrapposto il deterioramento patologico. Il progressivo deterioramento delle funzioni cognitive 19 viene ricondotto principalmente alle modificazioni che il cervello umano subisce nel corso della vita e che trovano la loro massima espressione psicopatologica durante l'invecchiamento. Esistono infatti prove certe della stretta dipendenza tra alterazioni strutturali e alterazioni funzionali del cervello. Tali alterazioni possono essere contrastate o agevolate dalle condizioni ambientali in cui l'anziano vive. Peraltro non esiste una correlazione diretta fra l'involuzione fisiologica cerebrale e il mutare psicologico della persona. La minore interconnessione nel cervello degli anziani (cui sono correlate le alterazioni nei meccanismi della trasmissione sinaptica) viene evidenziata dalla riduzione della ramificazione dendritica e dal declino di neurotrasmettitori quali acetilcolina, dopamina e noradrenalina. Più che lo spopolamento, nei fenomeni dell'invecchiamento cerebrale, sembra avere sempre maggiore peso il depauperamento dei neurotrasmettitori. Le ricerche condotte post-mortem nell'uomo hanno evidenziato livelli ridotti di dopamina (DA) e noradrenalina (NA) in rapporto con l'età e in specifiche aree cerebrali. In condizioni fisiologiche lo spopolamento neuronale dell'encefalo dell'anziano è ben lontano dall'inficiare seriamente il suo funzionamento cerebrale. Infatti le "perdite" possono essere in parte contrastate e compensate dal fenomeno della plasticità neuronale e dalla continua e mirata stimolazione ambientale. Una sintesi dei dati più recenti della ricerca in tema di funzioni cognitive documenta l'esistenza di alcune modificazioni positivamente correlate con l'età, e cioè: - un crescente e tendenzialmente globale rallentamento sia psicosensoriale, sia motorio, il quale si traduce in un rallentamento nella elaborazione cognitiva e nella produzione di risposte. Il deficit sensoriale, così come quello motorio possono causare deficit della stimolazione cognitiva, sia direttamente, sia tramite l'isolamento. I sensi sono infatti gli indispensabili mediatori per una gran parte dell'input cerebrale e una loro compromissione comporta inevitabilmente una flessione delle afferenze sensoriali. Si pensi agli anziani che non possono più leggere il giornale o guardare la televisione per un deficit visivo; i difetti uditivi producono imbarazzo, vergogna e limitano conseguentemente le interazioni sociali; anche i difetti motori, molto frequenti negli anziani, diminuiscono l'autonomia del soggetto, la sua disponibilità esplorativa, la sua probabilità di rapporti interpersonali. A questo proposito, una riduzione sensoriale e minore efficienza motoria possano determinare difficoltà di decodificazione degli stimoli e limitazione delle possibilità manipolative 20 sull'ambiente. Tutto ciò può portare, a sua volta, a un restringimento dello spazio fisico e quindi di quello psicologico, con l'aumento della tendenza all'introversione e all'isolamento: - un aumento della componente cristallizzata (utilizzo del patrimonio di esperienze e di conoscenze) dell'intelligenza rispetto alla componente fluida (capacità adattiva e creativa di fronte a stimoli nuovi). Si rileva inoltre una prevalenza di meccanismi di coping (affrontare difficoltà) passivi e poco mirati. - una graduale compromissione delle capacità mnesiche. Uno dei segnali di allarme del decadimento delle funzioni cognitive è la perdita di memoria; in questi casi è opportuno differenziare se il fenomeno fa parte di un'involuzione fisiologica o è il primo sintomo di una situazione patologica di tipo demenziale (alla cui base ci sarebbe un abbassamento dell'acetilcolina). Tuttavia, resta il fatto che per una percentuale di persone, seppur ridotta, il decadimento mentale è talmente lieve da non compromettere le funzioni psichiche fondamentali. La prima causa di perdita della memoria è la mancanza di esercizio: "Il cervello deve essere mantenuto continuamente in allenamento, perché i neurotrasmettitori e le connessioni sinaptiche funzionino in modo efficiente. Possono, inoltre, interferire con la memoria stati di ansia e di depressione, disinteresse, mancanza di stimolazione, tutte situazioni che impediscono il lavoro dei complessi sistemi neurotrasmettitoriali che permettono di fissare, immagazzinare e richiamare le informazioni. Ma in molti individui può verificarsi una situazione patologica dovuta a deficit di uno o più neurotrasmettitori, il che comporta più o meno evidenti disturbi della memoria. Tra i diversi neurotrasmettitori l'acetilcolina è risultata svolgere, anche in tarda età, il ruolo di maggior rilievo nei processi di apprendimento e di memoria e a una sua sostanziale riduzione sono attribuiti gran parte dei deficit neuropsicologici caratteristici del decadimento cerebrale patologico". Oltre a fattori organici si pensa che il calo della memoria possa essere collegato anche a componenti psicologiche (rimozione, stati confusionali con finalità difensive). Maggiormente colpita sembra essere la memoria a breve termine, mentre quella a lungo termine appare in genere conservata ed è comunque l'ultima a venire intaccata dal deterioramento patologico; - una graduale compromissione delle capacità di apprendimento, soprattutto in funzione della sua rapidità. A tale proposito, ricerche recenti hanno messo in luce come negli anziani avvenga un restringimento dello spazio di vita personale e un aumento delle difficoltà di adattarsi a realtà estranee. 21 La capacità mnemonica si ridurrebbe, quindi, non tanto per l'impossibilità di memorizzare, ma piuttosto per un certo disinteresse verso contenuti che non rientrano in uno spazio vitale noto e collaudato e che va progressivamente restringendosi. Al contrario, la capacità di apprendere elementi nuovi e pertinenti alle aree nelle quali il comportamento va sempre più circoscrivendosi si mantiene e aumenta. La motivazione costituisce pertanto un aspetto fondante la capacità di apprendimento, non solo negli anziani; accanto ad essa in letteratura si attribuisce, anche per quanto riguarda gli anziani, un ruolo centrale all'autostima. Rispetto ai giovani, inoltre, è noto come negli anziani l'apprendimento sia favorito da tecniche fondate sull'azione (by doing), piuttosto che sulla memorizzazione (by memorizing). "Vicarianza delle attitudini": un soggetto anziano è in grado di supplire i deficit connessi al decadimento di alcune capacità, utilizzando altre abilità e funzioni. Alla riduzione della rapidità senso-motoria, ad esempio, si affianca la conservazione e spesso il miglioramento di precisione e accuratezza; l'efficienza intellettiva diviene più lenta, ma anche più riflessiva. Con l'avanzare dell'età, in sintesi, diminuisce la possibilità di fornire prestazioni eccezionali, ma è conservata quella di ottenere prestazioni medie abituali. Si restringerebbe inoltre la gamma delle attività, ma non l'efficienza e l'efficacia di quelle possibili. Un fattore fondamentale per contrastare in parte il deterioramento mentale resta in ogni caso, quello della stimolazione e dell'esercizio: "per ogni anziano è possibile migliorare il proprio rendimento pensando, ragionando, leggendo, studiando, giocando, lavorando, ma soprattutto parlando e rispondendo non solo ai suoi coetanei, ma anche a persone più giovani ". Nei casi in cui il deterioramento assume entità patologiche, si avranno vari livelli di compromissione funzionale, fino ad arrivare a conclamati quadri di demenza. Aspetti fisici dell'invecchiamento La frequente insorgenza di problemi somatici, handicap estetici, patologie organiche, spesso invalidanti, può avere come conseguenza l'isolamento o, quanto meno, un grave impedimento alle relazioni sociali, con un alto rischio di depressione e/o di spegnimento delle funzioni cognitive. Particolarmente frequenti sono gli equivalenti psicosomatici che spesso si costituiscono come quadro di allarme neurastenico manifestantesi attraverso cefalee, mialgie, rachialgie, dolori della nuca, disturbi del sonno, turbe dell'equilibrio, astenia, formicolii, cardiopalmo, poliuria, tachicardia, estremità fredde e altro. 22 In generale, le malattie genericamente intese sono una delle principali fonti di timore per l'anziano, che già si sente fragile e quindi più esposto al rischio di ammalarsi. La malattia, sia nella sua attualità, sia nella sua potenzialità, è percepita come qualcosa di ineluttabile e intrinsecamente connessa all'invecchiamento e può portare con sé angosciosi vissuti di inadeguatezza, di inutilità e di morte. Da un punto di vista psicologico, il vivere il proprio Sé e, di conseguenza, con il proprio Sé è ampiamente condizionato dalle emozioni e dai significati che, con l'inizio del cambiamento involutivo, possono essere quelli dell'allarme e della costruzione di ipotesi negative sul presente e sull'immediato futuro. La percezione del decadimento fisico che può accompagnare i disturbi psicosomatici o seguire ad essi, viene spesso assunta dall'anziano come immagine di un Sé corporeo che va deteriorandosi e sgretolandosi. Non solo: ma il progressivo venir meno di un'armonica percezione e integrazione dell'immagine del Sé nella prospettiva e nel ruolo che la realtà esterna concretamente fornisce alimenta, a sua volta, una comprensibile diminuzione di vitalità, vigore fisico ed energia psichica ed una maggiore difficoltà ad adattarsi alle richieste ambientali, cioè la persona reagisce non solo al difetto fisico e/o psichico che l'invecchiamento comporta, ma anche alle modificazioni che esso determina nel suo operare; o si scoprirà negativamente diverso e sarà costretto a un più o meno brusco mutamento di ruolo o sarà considerato diverso dall'ambiente nel quale è inserito e dove, il più delle volte, è insufficiente la valorizzazione degli aspetti positivi legati all'età anziana. Il progressivo indebolimento dell'Io e il cedimento dei meccanismi di difesa, fanno sì che aumentino l'ansia e le attenzioni rivolte al corpo, a loro volta esprimentisi in frequenti e tormentose richieste di visite mediche e specialistiche. Per converso, il ricorso alla negazione o alla regressione può far sì che l'anziano adotti meccanismi ipercompensatori fittizi e miri a ostentare con intransigente cocciutaggine e rigidità una salute e una sanità che invece sono compromesse, o assuma ruoli infantili che celano il decadimento e il venire meno dell'efficienza. La malattia, in particolare quella invalidante, comportando una perdita dell'autonomia, costringe l'anziano alla dipendenza e genera vissuti depressivi o ansiosi. L'ambiente sociale e familiare, a loro volta, svolgono funzioni positive o negative sui vissuti del paziente, modificando le risposte soggettive individuali. Pertanto, il quadro finale è unico e irripetibile, non schematizzabile e generalizzabile, essendo molte le variabili che entrano in gioco e assumendo ognuna di esse significati differenti, che seguono regole di causalità circolare e non unilineare. 23 Aspetti affettivi dell'invecchiamento Benché la personalità sia un fattore psicologico relativamente "stabile" nel tempo, almeno in condizioni di normale invecchiamento fisiologico, durante la senescenza anche gli affetti e le emozioni subiscono degli "aggiustamenti". L'affettività tende a modificarsi sia quantitativamente, sia qualitativamente. Innanzitutto si riduce l'intensità soggettiva, rispetto a contenuti che in precedenza suscitavano reazioni intense; ne consegue un'attenuazione dell'aspetto espressivo. In secondo luogo, l'affettività si concentra su poli circoscritti dal momento che, piuttosto che da condizioni esterne, l'anziano è coinvolto da quelle personali: in particolare dal suo benessere fisico e psichico e dal suo status economico e sociale. Il risultato finale è il prevalere di un egocentrismo sempre più accentuato. Mentre cioè la personalità del giovane è di tipo prevalentemente centrifugo, proiettata verso l'esterno e verso il futuro, la personalità dell'anziano è centripeta, ossia rivolta prevalentemente al proprio Io, con tutto il carico di ricordi, esperienze e sentimenti che lo caratterizza. Gli investimenti affettivi si rivolgono al proprio presente e al proprio corpo che, come già segnalato, può diventare oggetto di preoccupazioni ipocondriache o il tramite attraverso cui comunicare all'esterno per attirare le attenzioni altrui. Questo tuttavia non significa che per l'anziano i legami affettivi e le relazioni interpersonali siano insignificanti; al contrario, l'anziano è in grado di amare e ha bisogno di sentirsi amato, di ricevere attenzioni e affetto. È noto infatti come, a qualsiasi età, rapporti affettivi soddisfacenti favoriscano un'attività psichica globalmente efficiente e un'adeguata motivazione alla vita. Anche la sessualità continua a rappresentare in età senile un importante aspetto della vita affettiva. Aver perso o ridotto in modo consistente la propria capacità procreativa non costituisce motivo di rinuncia all'atto sessuale, che continua a rappresentare importante espressione psico-fisica di una relazione matura basata sull'amore. Le modificazioni fisiologiche, tanto funzionali quanto anatomiche, che si verificano in senescenza non sono per lungo periodo tali da rendere l'anziano inidoneo ad attività sessuale; tant'è che, secondo recenti statistiche, il rapporto sessuale coniugale tra le persone anziane è abbastanza frequente. Tra i fattori che determinano una diminuzione o una sospensione del rapporto sessuale vi sono motivazioni psicologiche o relazionali. Basti pensare all'alto numero di anziani che sono rimasti soli, in seguito alla morte del coniuge. Sia per questa categoria di soggetti, sia per gli anziani che ancora vivono in coppia possono avere un importante effetto inibente i pregiudizi e gli stereotipi culturali che vedono l'anziano come asessuato, privo di desideri sessuali, immerso nella "pace dei 24 sensi". Gli effetti sugli anziani possono essere quelli della vergogna e del senso di colpa per avere ancora esigenze e pulsioni del genere. È vero che questo progressivo infragilimento della persona anziana, entro certi limiti, come abbiamo visto, può essere positivamente compensato dalla possibilità di attingere a risorse ancora attive e attivabili, ma è altrettanto vero che il discorso finora fatto deve tenere conto dell'impatto cui l'anziano va incontro quando si trova a dovere affrontare l'immagine, il ruolo, la collocazione che gli viene oggi riservata nella cultura e nella struttura sociale. Aspetti socio-culturali dell'invecchiamento: pensionamento Tre sono le fasi principali del pensionamento: 1.Luna di miele 2.Elaborazione 3.Frustrazione Con il passaggio all'attuale era post industriale, l'immagine sociale dell'anziano, il suo ruolo all'interno della società e della famiglia si sono modificati in modo sostanziale. Nella nostra cultura e nella nostra organizzazione sociale, infatti, la produttività e l'attività lavorativa sono elementi fondamentali nella definizione dell'identità e del ruolo sociale. L'inizio della vecchiaia viene oggi sancito (e spesso sanzionato), in modo brusco e repentino, dal pensionamento e dalla perdita dello status sociale connesso al ruolo di lavoratore. Uscire dall'ambiente lavorativo può significare, per molti, essere fuori dal mondo. Diminuiscono le possibilità di contatto umano e di relazione; vengono meno, progressivamente, gli incontri con i compagni di lavoro, con gli amici ancora produttivi. Allontanarsi dal lavoro può significare anche perdere la necessità di doversi continuamente occupare degli avvenimenti futuri, degli aspetti organizzativi: perdere, in altri termini, l'atteggiamento aggressivo verso il presente e costruttivo verso il futuro. Tale passaggio induce molto spesso vissuti di inutilità, di vuoto, di mancanza di prospettive e di risorse, cui non sempre l'anziano è in grado di contrapporre nuovi obiettivi e interessi. Alcuni fattori risultano influire in modo significativo sul vissuto soggettivo: - la percezione che il soggetto aveva del proprio lavoro e dell'ambiente lavorativo; - il tempo intercorso dal pensionamento, in quanto è necessario un periodo di adattamento; 25 - la possibilità di scelta al momento del pensionamento. Il pensionamento forzato e anticipato sembra avere peggiori conseguenze sul tono dell'umore, specie in assenza di alternative vissute dal soggetto come validi sostituti dell'attività perduta. Inoltre al pensionamento si collegano spesso difficoltà economiche che incidono negativamente sulla qualità di vita dell'anziano e sul suo equilibrio psicologico. Il disagio del pensionamento è particolarmente evidente nell'uomo, meno abile nel fare "altri" investimenti, che non siano il lavoro e l'ambiente in cui svolge le sue attività; la donna, in genere, lo tollera meglio, in quanto la cura della casa e della famiglia, nonché la maggiore capacità di costruire e mantenere legami alternativi e integrativi le permette di sostituire e compensare quanto andato perduto. Inoltre, la struttura attuale della famiglia e il clima culturale non sempre aiutano l'anziano a superare il disagio indotto dal pensionamento. In una società che insegue il mito dell'eterna giovinezza, della forza, della bellezza e del successo, l'anziano è evocatore di angosce di morte e disfacimento e pertanto viene emarginato. L'equilibrio psicologico del vecchio è messo in difficoltà dall'ambivalenza dell' ambiente, che gli richiede da una parte aspetto giovanile, prestanza, flessibilità, anticonformismo, autonomia, dall'altra critica impietosamente ogni atteggiamento che non corrisponda allo stereotipo culturale della vecchiaia. Per quanto si riferisce in specie all'ambiente familiare, è noto come la figura dell'anziano possa essere vissuta come destabilizzante all'interno della famiglia. Per il noto meccanismo della profezia che si autoadempie, si assiste a comportamenti dei vecchi che diventano palesemente coerenti con le previsioni del contesto familiare, col risultato dell'avvio di un circolo vizioso, nel quale quanto più i comportamenti di una persona saranno ridefiniti come espressione delle sue carenze, tanto più questa metterà in atto comportamenti di quel tipo, in quanto unico strumento comunicativo di cui dispone. Le possibilità di conflitti, frustrazioni, dissapori all'interno della famiglia sono continue: le differenze di età portano a concezioni diverse della vita e dei suoi valori, della moralità, della religione. Si può arrivare a veri scontri generazionali con dinamiche di competitività, di risentimento, di invidia, di colpevolizzazione verso i figli, i quali reagiscono spesso con rifiuto o senso di colpa e iperprotezione verso i genitori. Non è infrequente che il genitore anziano diventi il capro espiatorio delle tensioni coniugali o che si attuino nei suoi confronti più o meno diretti meccanismi di emarginazione o di esclusione, motivati dai difetti del carattere, dalla trascuratezza, dagli stessi handicap fisici, e altro. 26 A livello socio-culturale la squalifica dell'anziano, vissuto come un peso inutile e privo di risorse, come un individuo che non ha più nulla da dare, soprattutto (anche se non solo) quando non è più in grado di gestirsi in maniera autonoma, risulta evidente, se si considera che la quasi totalità degli interventi rivolti agli anziani sono di tipo socio-assistenziale e relegano pertanto l'anziano in un ruolo di passività e di dipendenza. Buon invecchiamento Negli ultimi anni le ricerche sulla longevità (convenzionalmente collocabile intorno agli 85-90 anni) si sono intensificate, a causa delle notevoli proporzioni assunte da tale fenomeno, conseguenti al già segnalato aumento dell'età media: nell'intero territorio italiano, attualmente, si contano più di 1600 centenari. La popolazione italiana è tra le più longeve del mondo e l'attesa di vita è destinata ad aumentare ulteriormente, sia in Italia, sia nel resto d'Europa. Ovviamente, i longevi fanno parte del gruppo più generale degli anziani, nel senso che oggi si trovano tra gli anziani alcuni longevi di domani. Lo studio dei longevi assume pertanto un'importanza particolare per tentare di mettere a fuoco i fattori che possono favorire un buon invecchiamento. Lehr, Boon Beard, Stolar descrivono il soggetto longevo come un individuo che presenta ancora un concetto positivo di sé, accompagnato da un generale ottimismo verso la vita e un sereno atteggiamento nei confronti di passato, presente e futuro. Tali caratteristiche sono state riassunte nel termine: life satisfaction (soddisfazione per la vita), che si è rivelata un importante predittore della mortalità. Esiste, infatti, una forte correlazione negativa tra il livello di soddisfazione per la propria vita e la mortalità. Inoltre, la life satisfaction risulta in parte determinata dalla soggettiva percezione del proprio stato di salute, crescendo con l'aumentare del benessere fisico percepito dall'individuo (spesso molto differente dallo stato di salute effettivo), e influenza a sua volta l'atteggiamento verso il mondo e la realtà. Rispetto ad individui più giovani, gli ultralongevi presentano una maggiore "centratura su se stessi". Risultano essere, da quanto emerge in questi studi, poco dogmatici, presentando un credo religioso tollerante che si traduce in filosofia di vita, produttiva di ottimismo, rispetto per gli altri e capacità di apprezzare ciò che si possiede. Le caratteristiche di personalità proprie anche dei soggetti longevi consentono di escludere che esista un'unica modalità di invecchiamento comune a tutti questi soggetti. 27 Si esamina ora il ruolo giocato dall'ambiente familiare, in quanto una condizione frequente del longevo è la solitudine, essendo probabile che questi sopravviva al coniuge, ai coetanei, agli amici e persino a figli e nipoti. Questo dato è degno della massima attenzione, se si considera che persone con pochi parenti disponibili a prestare sostegno materiale ed emotivo hanno un tasso di mortalità da due a quattro volte maggiore di quello di individui della stessa età, che vivono relazioni familiari gratificanti. Importante è ricordare che con l'avanzare dell'età e la morte dei coetanei assumono maggiore importanza le relazioni intergenerazionali: figli e nipoti risulterebbero essere, dai risultati ottenuti, il principale punto di riferimento nella vita relazionale degli ultralongevi. Oltre all'importanza di un valido supporto familiare gioca un ruolo altrettanto cruciale l'ambiente sociale, in particolare le relazioni di amicizia extrafamiliari, in grado di fornire un valido sostegno emotivo. I contatti sociali con amici intimi, profonde relazioni di fiducia e un'efficace e consapevole integrazione sociale possono ritardare la mortalità in generale e quella cardiovascolare in particolare. Il benessere economico inciderebbe soprattutto come fattore soggettivo, oltre che come realtà obiettiva. In ultimo, è stata sottolineata da numerose ricerche condotte sui centenari l'importanza del lavoro. I risultati hanno evidenziato una forte correlazione positiva tra la longevità e la capacità, nel corso del pensionamento, di sostituire al lavoro oltre forme di attività e interessi, continuando ad ampliare le proprie conoscenze. La morte e l'anziano L'anziano ha un buon rapporto con la morte. Non ha paura della morte, ma del soffrire, del dolore. La morte è l'ultima esperienza, l'ultima possibilità per fare un resoconto della propria esistenza. Spesso ci chiediamo: perché dobbiamo pensare alla morte? Dobbiamo pensare alla morte perché fa parte della vita: se non si vive non si muore. La definizione della morte immanente o trascendente nelle varie età della vita si spiega con il rifiuto che ciascuno di noi ha di immaginarsi vecchio. 28 La morte è immanente quando si invecchia o, a volte, anche quando precocemente si prende contatto e si entra in colloquio con la morte stessa, allora la si comprende come parte della vita. Il vecchio porta in sé, nell'ultima parte della vita, la convinzione che più vive più si avvicina alla fine della vita e che quindi muore un po' ogni giorno. Questa è l'immanenza della morte nella vecchiaia. La morte è una fine della vita biologica, ma chi abbia fede religiosa o una visione della vita che va al di là della realtà del corpo capisce come la morte del soggetto non sia la fine della vita nel mondo. Nella vecchiaia la morte sarà più serena se la vita è stata vissuta nella sua interezza e se le varie fasi di passaggio si sono concluse naturalmente. L'importanza della morte è considerata come liberazione dal dolore e dalla sofferenza: l'anziano pensa alla morte come meta da raggiungere nella pace, nell'assenza di lotta e di frustrazione di tutti i periodi della vita. Tuttavia l'anziano che può liberarsi dal dolore, dai limiti biologici e psicologici imposti dalla malattia e dalla vecchiaia, ama la vita e desidera sopravvivere nonostante il travaglio biologico e psicologico. Per sintetizzare: - Il sesso femminile ha nell'età avanzata più presente e costante il pensiero della morte - Gli anziani hanno una generale tendenza alla rassegnazione e accettano positivamente la considerazione dell'ineluttabilità della morte. - Soprattutto nel sesso maschile vi è una prevalenza di soggetti che non temono la morte. - L'agnosticismo risulta tipicamente maschile, mentre una percentuale abbastanza elevata del sesso femminile crede nell'aldilà. La paura della morte è correlata con l'insoddisfazione della vita, mentre non vi è correlazione fra serenità della vita passata e serenità nell'attesa della morte. Depressione - Mimica triste o poco espressiva - Tono di voce basso e poco modulato (monotonale) 29 - Eloquio lento - Trascuratezza - Senso di perdita di memoria - Ridotta attenzione e concentrazione - Inerzia e irritabilità - Rimuginazione - Astenia, adinamia, facile stancabilità - Rallentamento (o agitazione) psicomotoria - Ripiegamento su se stessi: chiudersi in se stessi - Ansia: ci può essere sindrome depressiva con ansia - Disturbi ipocondriaci Il sentimento depressivo è caratterizzato da paura, angoscia di perdere qualcosa o qualcuno. La depressione può essere suddivisa in due categorie: Depressione mascherata Depressione mascherante Depressione mascherata: depressione somatizzata. L'anziano è depresso, non sa di esserlo, ma ne porta i sintomi (soprattutto fisici). E' molto frequente. La cosa più sbagliata nei confronti di un paziente con patologia psicosomatica è dirgli che ha problemi psicosomatici. - Perdita di interesse: l'anziano amava fare tanto un determinata cosa ma ora non gli interssa più - Insonnia o iperinsonnia: risveglio precoce costante oppure dormire per evitare di pensare - Sentimenti di svalutazione: incapacità, inutilità - Sentimenti di colpa: atteggiamento di chiusura, difficile da superare - Delirio: rovina, autoaccusa, ipocondriaco 30 - Disturbi della percezione : l'illusione è il disturbo più frequente. Depressione con allucinazione. - Diminuzione libido, forza vitale - Perdita di fiducia in se stesso o negli altri - Perdita di speranza - Pessimismo - Pensieri di morte (propositi, minacce, atti) Depressione mascherante: si presenta con un quadro depressivo. Sorge l'ipotesi che sia una depressione mascherata, invece è una depressione che maschera un'altra patologia, quale l'inizio del Morbo di Parkinson, Malattia di Alzheimer, neoplasie cerebrali. Entrambe le forme di depressione, possono portare l'individuo a tentare il suicidio, azione distruttiva e violenta, inflitta contro di sé, che ha come risultato la morte. Suicidio L'anziano è colui che più tenta il suicidio, soprattutto gli uomini. Modalità: -Impulsività (raptus) -Premeditazione Dietro ad un atto autolesionistico, c'è sempre una forte sofferenza. La premeditazione del suicidio porta alla tranquillità (del non esserci!!), al trovare la soluzione per vivere meglio. Nella disperazione, che caratterizza i possibili anziani suicidari, c'è solo il presente: "Questa situazione tra un minuto ci sarà ancora, non sparirà". Forte angoscia. Caratteristiche del suicidio: - Sofferenza e dolore - Disperazione: mancanza di speranza 31 - Vicolo cieco: non si può andare ne avanti ne indietro - Incapacità alla lettura di un possibile cambiamento - Ripiegamento sulle proprie impostazioni: l'individuo, convinto di un suo parere, si arrocca su ciò che afferma - Uscita/fuga dalla sofferenza: la disperazione diventa insopportabile - Più difficile continuare a vivere: molto semplice ammazzarsi. Più difficile affrontare la vita per continuare a vivere Il coraggio è riuscire a portare a compimento la propria vita. L'anziano può anche mettere in pratica un tentato suicidio (gesto autolesivo che serve per conseguire dei vantaggi. Non c'è intenzione di morire). Questo si differenzia dal mancato suicidio (colui che vuole intenzionalmente morire ma per una serie di circostanze il suicidio non viene portato a termine). Nel tentato suicidio avremo un anziano con personalità immatura o isterica. La storia psicopatologica ci può dare delle indicazioni. Qualora l'individuo abbia fatto parecchi tentati suicidi, bisogna prestare attenzione: potrebbe esserci un caso di suicidio vero e proprio. Ci sono anche delle modalità attuative: è differente suicidarsi in un posto dove c'è un vasto pubblico (subito soccorso: tentato suicidio) rispetto a dove non vi è nemmeno una persona. Come nella depressione, anche nel suicidio si può parlare di Suicidio mascherato: forma di suicidio che spesso sfugge . - Incidenti (soprattutto se ripetuti e gravi) - Negligenze nelle cure: specie se importanti e vitali. A volte si è consapevoli. Altre volte non si è consapevoli - Attività pericolose - Disturbi psicosomatici gravi (tendenza autolesiva) - Fattori individuali: depressione, senso di vuoto, bassa soglia tolleranza frustrazione 32 Comunicazione verbale e non-verbale L'essere umano è soggetto relazionale. E' impossibile non comunicare. Anche colui che non comunica ci comunica che non vuol comunicare. La comunicazione non verbale è un messaggio completo e realistico. L'aspetto fisico ci da delle indicazioni sulla personalità dell'individuo (abbigliamento, trucco, pettinatura). L'anziano depresso sarà trascurato sotto tutti punti di vista. - La mimica: è un potente mezzo di comunicazione. La persona che soffre è attenta. Ha una sensibilità molto spiccata. - Tono della voce: serve per richiamare l'attenzione. Importante la modulazione della voce. - Vocabolario: esprime ciò che sono. Scelta dei termini, inflessione - Argomentazioni (temi): con queste si ha l'attenzione dell'individuo - Atteggiamento corporeo (gestualità): postura, modo di camminare. La corporeità è marchio del nostro comportamento. Parole come maschera. - Silenzio: vero enigma per la comunicazione. Il silenzio può essere ricco di conoscenza. La sintesi può esprimersi nel/col silenzio. Bisogna rispettare il silenzio degli altri!!! - Rappresentazione artistica: capacità di esprimere i propri stati d'animo attraverso il dipingere, lo scolpire, il comporre - Logorrea: l'anziano parla. Basta ascoltarlo….saperlo ascoltare. L'anziano vuol far sapere la propria storia, la sua esperienza di vita. I parenti, gli operatori, gli psicologi sono l'occasione per parlare. Bisogna aver la pazienza dell'ascolto. - Comunicazione psicosomatica: l'anziano parla attraverso attraverso il suo corpo. Gli anziani somatizzano in maggior modo la depressione (si può manifestare con stitichezza, mal di stomaco, vertigini). Bisogna prima accertarsi se è andato dal medico, poi curarlo con l'analisi psicologica. L'anziano italiano è restio a chiedere aiuto psicologico. - Comunicazione ripetitiva: ripete per essere ascoltato; ripete per credere a ciò che dice. La ripetitività nasce dall'esigenza di essere ascoltati, presi in considerazione - Difficoltà per malattie organiche: afasia, disartria, difficoltà del linguaggio 33 - Comunicazione frammentata: i discorsi degli anziani possono essere considerati come "insalata di parole"(termine psichiatrico). La persona che ascolta deve avere la capacità di ricollegare e ricreare la logica della frase - Comunicazione sussurrata: comunicazione di piena, profonda importanza. C'é desiderio di intimità - Comunicazione aggressiva: è la comunicazione di un bisogno. E' una difesa per paura: angoscia del rapporto con gli altri. Per avere un buon ascolto dell'anziano, bisogna aver orecchio sensibile, cercare di entrare in empatia, sintonia con l'altro. Grazie all'empatia si trovano anche le parole per l'altro. L'empatia è l'incontro tra due anime. Per costruire empatia ci vuole tempo. La riabilitazione psicologica dell'anziano La riabilitazione psicologica dell'anziano prende il nome, in Italia come nel resto del mondo, di Terapia Occupazionale (T.O.). Questa terapia si può e si deve rivolgere a persone di ogni livello sociale e culturale, di ogni provenienza regionale, con esperienze di vita e di lavoro differenti, con molteplici interessi e motivazioni; anzi essa si deve soprattutto rivolgere a persone senza interessi e motivazioni. Può essere attuata negli istituti e nelle case di riposo, negli ospedali geriatrici, nelle divisioni geriatriche, nei centri di riabilitazione, nei dispensari geriatrici, negli ospedali diurni per anziani, nei centri sociali, nei quartieri, nelle comunità ed infine a livello individuale e domiciliare per coloro che vivono in famiglia o in una propria abitazione. Per semplificare il discorso è opportuno presentare schematicamente una classificazione di terapia occupazionale. I vari tipi di TO sono classificati sulla base degli scopi terapeutici che si perseguono . Tali scopi sono dedotti dai bisogni e dalle situazioni biologiche, psicologiche e sociali dei diversi anziani. Terapia occupazionale fisio-attivante Ha il preminente scopo di facilitare la riattivazione e la riabilitazione funzionale dell'anziano al quale spesso manca una valida motivazione al recupero in quanto non gli sembra importante riprendere l'uso di un arto danneggiato da una vasculopatia cerebrale o da una malattia di natura 34 traumatica. L'anziano si sente spesso più motivato a compiere dei movimenti che abbiano per lui uno scopo chiaro ed inequivocabile e che lo conducano a costruire, a produrre qualcosa piuttosto che a compiere movimenti suggeriti dal fisiocinesiterapista. Questo tipo di TO si può comunque considerare accessoria o complementare della fisiocinesiterapia. Terapia occupazionale psico-attivante Questo particolare tipo di TO è forse quello di più ampio impiego in quanto i bisogni psicologici degli anziani sono numerosissimi e sicuramente universali. La TO può essere quindi suddivisa in: Individualizzata Attraverso essa l'anziano riesce a soddisfare il bisogno di essere attivo che è molto diffuso nella nostra realtà sociale in cui pochissime sono le occasioni per l'impegno. In particolare viene sollecitato un impegno intellettuale, possibilmente di tipo creativo che consenta a ciascuno di esprimersi con linguaggi molteplici, originali e costruttivi. Ergoeconomica Il bisogno economico è frequentissimo nella popolazione anziana del nostro paese e condiziona situazioni di disagio, di inferiorità, di dipendenza, talora di umiliazione. Per quanto riguarda la TO non debba mai riconoscere come sua preminente motivazione quella economica, questo sottotipo tiene conto anche del bisogno di essere autosufficienti ed indipendenti; si deve comunque sottolineare il fatto che, al di là del problema meramente economico, questa TO permette all'anziano di percepirsi utile e di elevare quindi il proprio livello di autostima. Medica Spesso l'anziano sofferente per diverse malattie, tra cui le cardiopatie e le broncopneumopatie croniche, si ritiene e viene considerato un invalido e rinuncia ogni giorno di più a qualsiasi attività ed addirittura al movimento. Il tempo trascorre nella noia e nella immobilità che facilitano il decadimento psico-fisico. Questo sottotipo di TO ha quindi anche riflessi igienici, profilattici e riabilitativi di notevole importanza oltrechè implicanze psicologiche molto rilevanti. Semplice Si propone esclusivamente lo scopo di impegnare il tempo libero con attività assai semplici. Soddisfa perciò l'esigenza di essere in qualche modo efficienti ed attivi e di passare il tempo in modo divertente e piacevole. 35 Terapia occupazionale socio-attivante L'anziano è sempre più solo in una società che, dopo averlo posto ai margini, tende ad escluderlo. Nascono sentimenti di abbandono e di inutilità e la convinzione che nessuno più sia disposto ad intraprendere con lui un rapporto interpersonale autentico e valido. La TO di questo terzo tipo soddisfa quindi nell'anziano l'esigenza di essere accettato, compreso e valorizzato in una qualche misura. Perciò molte delle attività che negli altri sottotipi di TO vengono svolte individualmente (TO psico-attivante) vengono qui svolte in gruppo. Lo specialista, oltre alle proposte di attività, ed a funzioni didattiche, deve sollecitare la partecipazione di tutti i componenti il gruppo e controllare che non si verifichino delle assunzioni di potere autoritaristiche da parte di uno o più anziani. Anche in situazioni difficili e con carenza di mezzi economici sono possibili alcune centinaia di attività diverse. Molte attività possono essere svolte sia individualmente che in gruppo: - Atelier d'arte (disegno, pittura, scultura, mosaico, bulino, lavoro a china, ceramica) - Lavori d'artigianato (costruzione giocattoli, soprammobili, mobili in legno, cartonaggio, lavori in paglia, giunco, lavori in stoffa, ricami vari, lavori di sartoria) A livello individuale o di gruppo l'anziano può svolgere continuativamente o saltuariamente qualsiasi attività o mansione di tipo impiegatizio o di tipo normale. Tali attività possono bensì essere le stesse che ciascuno ha esercitato precedentemente durante la propria attività lavorativa, ma possono essere anche del tutto diverse in quanto egli è in grado di apprendere nozioni e tecniche nuove, purchè si rispettino alcuni principi generali. In rapporto alla situazione di isolamento e agli atteggiamenti di chiusura in se stessi, tanto frequenti negli anziani, è evidente che la TO si preoccupa soprattutto di stimolare e di proporre le attività da svolgere in gruppo, più o meno numeroso, anche se rispetta l'eventuale desiderio di "privacy" e di individualità. Qualche esempio di attività di gruppo: - Attività di movimento: passeggiate, gite, soggiorni in località climatiche, visite a musei, parchi. Programmate e organizzate dagli stessi anziani con l'aiuto dello specialista - Partecipazione a spettacoli: cinema, teatro, concerti, sport. Discussione critica guidata prima e dopo gli spettacoli 36 - Attività di gioco vario: carte, dama, giochi da tavolo. A carattere competitivo e non - Attività di moto para-sportivo: bocce, cicloturismo, nuoto, canottaggio pallone - Attività culturali: audizione di musica classica, lirica, lettura di prosa di ogni epoca, letture di riviste e giornali. Presentazione e discussione critica guidata - Organizzazione spettacoli e feste: recite teatrali, spettacoli d'arte varia, feste danzanti. Programmate, organizzate dagli anziani in collaborazione dello specialista e con la partecipazione artistica degli stessi anziani - Corsi scolastici a vari livelli: di aggiornamento, di specializzazione, università della terza età Per attuare una ottima TO è necessario che vi sia a monte un ottimo lavoro di equipe a cui debbono necessariamente collaborare il geriatra, lo psicologo, l'animatore del tempo libero, l'assistente sociale, l'operatore, il volontario….sempre con la partecipazione degli anziani!!! La TO non esaurisce certo le possibilità assistenziali a favore dell'anziano, ma dal punto di vista psicologico essa può assumere un ruolo di notevole rilievo, in quanto favorisce l'impegno ed il reinserimento sociale che stanno alla base dell'adattamento umano. Di seguito si evidenziano gli obiettivi, i fini che la TO persegue in un serio programma di applicazione. La Terapia Occupazionale: 1. Rappresenta uno dei mezzi più efficaci per rallentare il deterioramento mentale 2. Agevola i processi di socializzazione, di integrazione sociale, di rapporto interpersonale 3. Rappresenta uno strumento per evitare la patologia da immobilizzazione 4. Facilita ed integra i risultati ottenibili con le tecniche specialistiche di riabilitazione motoria, respiratoria, cardiocircolatoria, del linguaggio 5. Consente la chiarificazione dei bisogni personali e suggerisce a ciascuno una visione di possibili scelte, pur nelle limitazioni imposte dalla istituzionalizzazione 37 6. Favorisce l'assunzione di un ruolo gratificante, riconosciuto nell'ambito dell'istituto e talora anche fuori istituto, che permette di far superare almeno in parte le frustrazioni dell'età senile e dell'istituzionalizzazione 7. Rende possibile a molti la soddisfazione del bisogno di essere accettati e valutati positivamente dagli altri componenti la comunità Interessante è la realizzazione del programma in ogni situazione in cui la terapia occupazionale si inserisca e integri altri programmi di riabilitazione fisica. GLOSSARIO Eterocronia dell'invecchiamento: degenerazione psico-fisica. Geragogia: educazione all'invecchiamento. Geriatria: nata nel 1954, è un ramo della gerontologia che studia i mezzi terapeutici, dietetici e igienici atti a ritardare il processo di invecchiamento psico-fisico, o a prevenire gli eventuali processi patologici della vecchiaia. Gerontologia: studio dei fenomeni, anche patologici, legati alla senilità. Senescenza: anche invecchiamento. Processo biologico-psicologico involutivo, seguente all'età matura , caratterizzato da modificazioni strutturali e dal decadimento di varie attività e funzioni fisiologiche. Senilità: sin. vecchiaia. Età individuata da caratteristiche proprie, spesso con allusione a uno stato di decadimento psico-fisico. Vicarianza attitudini: atto nel quale il soggetto anziano è in grado di vicariale i deficit connessi al decadimento di alcune capacità con l'utilizzazione di altre capacità e fattori. In questo modo egli può sopperire alle sue carenze psicomotorie e/o psicosensoriali con la continuità, l'esperienza, l'impegno, la prudenza. 38 TEORIA DI BALTES – LIFE COURSE APPROACH (LIFE SPAN) Tra le moderne teorie dello sviluppo e dell’invecchiamento il modello di Paul Baltes (1991, 1997) ben rappresenta la nuova concezione di invecchiamento positivo e di prospettiva psicologica dell’arco della vita – life-span - ; essa offre nuovi spunti di comprensione e di intervento per la terza età. La cultura positiva dell’invecchiamento proposta da Baltes nel suo modello SOC (selezione, ottimizzazione, compensazione) muove da una premessa fondamentale vale a dire che, come sopra ampiamente discusso, l’invecchiamento è un processo complesso e differenziato che coinvolge diversi aspetti dell’individuo e che non può essere affrontato con una prospettiva lineare ed omogenea; esso integra due facce della stessa medaglia: miglioramento e declino. Secondo Baltes nelle condizioni di perdita e/o di limitazione una persona impara nuove strategie di progresso ed acquisisce nuove capacità per far fronte alle perdite. Tale concetto appartiene anche ad una tradizione psicoanalitica di matrice sociale ed in particolare alla Psicologia Individuale di Adler. Per Baltes un buon invecchiamento si fonda sul dominio affettivo e cognitivo del declino fisico basato su un corretto esame di realtà e non su un rifiuto o sulla negazione di esso. Baltes individua sette formule chiave che costituiscono la cultura positiva dell’invecchiamento e che sono un insieme di osservazioni e ricerche empiriche e postulati teorici. Le sette formule di Baltes sono: Il corso dell’invecchiamento è eterogeneo. Questo assunto deriva dagli studi longitudinali sull’invecchiamento che hanno mostrato come esso si concluda sempre con la morte ma attraverso percorsi e differenze personali psicologiche e biologiche. L’invecchiamento normale è diverso da quello patologico. Baltes individua delle differenze tra invecchiamento normale, patologico ed ottimale: l’invecchiamento normale consiste nell’invecchiare senza malattie, quello ottimale nell’avere le migliori condizioni ambientali e personali. Nell’invecchiamento molte capacità sono di riserva e possono essere sviluppate. 39 Baltes individua attraverso studi empirici due qualità che caratterizzano la terza età rispetto all’età adulta: Expertise professionale: il cumulo di esperienze Saggezza: l’incremento dell’intelligenza esperienziale o pragmatica che può compensare la perdita dell’intelligenza fluida o cognitiva (software vs. hardware); fa riferimento ai Berlin Aging Study (1999) studi che pongono la saggezza intesa come ricchezza delle esperienze vissute al centro dell’invecchiamento positivo. La saggezza per Baltes sarebbe costituita da cinque fattori: Conoscenze affettive o fattuali delle pragmatiche fondamentali della vita. Conoscenza strategica o procedurale di esse. Contestualizzazione di queste informazioni nella storia del proprio tempo e nei cambiamenti sociali. Relativismo di tali conoscenze La convinzione che non esiste una conoscenza perfetta (il “sapere di non sapere” di ispirazione socratica). Con l’età i meccanismi fluidi della mente evidenziano un decadimento. Con questo postulato Baltes non nega il decadimento di alcune funzioni cognitive quali ad esempio la memoria, ma sottolinea, però come l’anziano possa imparare a compensare tali perdite attraverso ad esempio l’apprendimento di nuove associazioni tra stimolo e ricordo. Conoscenza e pratica cognitive arricchiscono la mente anziana e possono compensare le perdite. L’esperienza acquisita rappresenta una capacità compensatoria in grado di modulare le attività e le abilità quotidiane che subiscono un decadimento nella terza età. La bilancia tra guadagni e perdite con gli anni diventa meno positiva o decisamente negativa. Baltes intende contrastare l’idea “ingenua” secondo cui lo sviluppo umano comporta sempre l’acquisizione di nuove capacità e mai la perdita; in altre parole l’invecchiamento implica la capacità di accettare le nuove condizioni spesso svantaggiose per l’individuo anziano. Il Sé nell’invecchiamento costituisce un nucleo psichico forte e stabile, utile come sistema di coping e di conservazione dell’integrità. 40 (Per coping, si intende, l’insieme delle strategie cognitive (o mentali) e comportamentali messe in atto una persona per fronteggiare una situazione di stress. In altre parole, si riferisce sia a ciò che un individuo fa effettivamente per affrontare una situazione difficile, fastidiosa o dolorosa o a cui comunque non è preparato, sia al modo in cui si adatta emotivamente a tale situazione – Bandura, 1997-). Alcuni costrutti legati al senso di Sé quali ad esempio l’autostima, il senso di controllo personale (locus of control), la self agency ecc. non mostrano riduzioni con l’avanzare dell’età; questo per Baltes apre a nuovi orizzonti per l’anziano che può ricorrere a quello che Kohut, in un’ottica psicoanalitica che origina nella Psicologia del Sé (Kohut, 1971), definisce “senso del Sé integro e coese”, o a quello che Erikson chiama “integrità dell’Io”, per risolvere ed affrontare situazioni ed eventi di vita stressanti. In sintesi il modello proposto da Baltes afferma che adottando una prospettiva positiva sull’invecchiamento questo può essere padroneggiato dall’individuo e può conferire all’anziano nuove capacità ed abilità incrementando notevolmente la qualità della sua vita. Tale modello è chiamato appunto SOC: Selezione: un pianista può selezionare, riducendo, il repertorio dei pezzi che suona. Ottimizzazione: deve esercitarsi di più. Compensazione: deve adottare nuove strategie come il suonare più lentamente i pezzi per poter creare il senso della velocità nonostante le sue dita abbiano perso rapidità di movimento. Introduzione: • È attorno ai primi anni ’70 che, in Italia, gli anziani e la loro condizione cominciano ad essere oggetto di attenzione e di riflessione. • I “vecchi” diventano visibili e la loro dimensione quantitativa pone il problema in tutta la sua “durezza”. • Questo porta alcuni studiosi (Maderna Burgalassi-Pagani) a riflettere sugli anziani e la loro condizione, avviando ricerche attente e mirate. 41 I problemi e le contraddizioni • La paura che viene indotta dal numero sempre più crescente di persone anziane impedisce, però, ai molti di cogliere alcune contraddizioni che, strettamente legate ai mutamenti demografici e a quelli socioeconomici in atto, assumeranno rilevanza nel corso degli anni ‘70 per poi esplodere negli anni ’80. • Ci si riferisce all’allungamento della vita media e allo stesso tempo all’invivibilità della vita allungata, all’incremento del tempo disponibile e alla non valorizzazione dello stesso, alle conquiste medico-farmacologiche e all’abbandono sociale, all’espansione dei servizi sociali, assistenziali e culturali e alla loro disfunzionalità e incapacità di dare risposte efficaci. • La maggiore longevità evidenzia con puntualità contraddizioni e problemi. • Si accusano carenze conoscitive e metodologiche; le categorie concettuali utilizzatesi mostrano sempre più deboli per comprendere i mutamenti che sono in atto nel mondo degli anziani che, a loro volta, appaiono sempre di più diversi tra loro. • Si rendono necessari nuovi “concetti” e nuovi “strumenti” per potere entrare e conoscere tale “mondo”. Approccio multidisciplinare integrato • La complessità della condizione anziana impone un approccio di carattere multidisciplinare integrato che consente non la sovrapposizione di discipline diverse che rimangono distanti e non comunicano tra di loro, ma il loro conglobamento in un metodo unitario di lavoro. • Questo rende possibile un’analisi della condizione anziana sia nei suoi aspetti prettamente individuali che nei suoi aspetti sociali. • Questo è l’approccio al quale ha fatto ricorso una parte consistente della ricerca e della letteratura sociologica, psicologica e, in anni più recenti, gerontologica Vecchiaia, età e cicli di vita • Ogni società è caratterizzata da una propria suddivisione della vita in età o in fasi. • Tali società, per poter gestire il processo di invecchiamento e il ricambio generazionale, organizza periodi e transizioni, calendari e percorsi che incidono sulla suddivisione delle età e scandiscono i tempi sociali, per cui l’età ha un peso come principio organizzativo della società. 42 • L’età è una costruzione sociale riconosciuta e condivisa che va a connotare il corso della vita e “gestisce” collettivamente i destini individuali. • Anche se in passato sono esistite società semplici che proponevano solo due classi di età (bambini e adulti), la maggior parte delle società ha fissato almeno tre classi di età: • Bambini • Adulti • Anziani • Anche se, con i cambiamenti che nel tempo hanno interessato la società industriale, questa tripartizione della vita subisce, all’interno dei suoi segmenti, modificazioni che daranno vita a nuove “fasi” (o sotto-fasi) rendendo meno rigidi i confini e creando periodi di transizione. • Ad esempio la prima fase è sempre più caratterizzata da “momenti” che rallentano e spostano in avanti il passaggio alla vita adulta(es. ricerca del lavoro stabile). • Si diversificano anche l’età adulta e la vecchiaia. • Per ciò che riguarda la vecchiaia, si parla di “vecchi-giovani” (old-young) e di “vecchivecchi”(old-old), di terza, quarta e magari anche di quinta età. Terza e quarta età • La terza età è un’età caratterizzata da buone condizioni di salute, inserimento sociale, disponibilità di risorse diverse e realizzazione personale. • La quarta età è caratterizzata dalla dipendenza e dal decadimento fisico. • Età incerte, carenti di status sociale, si contrappongono ad età che in passato erano rigidamente definite. • Il ciclo di vita, fortemente imposto dalla società e trasformato da individui e gruppi nel loro percorso esistenziale, assume sempre di più l’andamento di una linea spezzettata. Il significato di invecchiamento • L’invecchiamento non è solo un processo attraverso il quale ci si modifica in funzione del tempo 43 • “Riferito all’uomo indica il complesso delle modificazioni cui l’individuo va incontro, nelle sue strutture e nelle sue funzioni, in relazione al progredire dell’età”. Un doppio significato.. • L’invecchiamento come maturazione o accrescimento è visto come un processo attraverso il quale l’individuo aumenta quantitativamente le sue funzioni e strutture e le differenzia qualitativamente. • L’invecchiamento come senescenza è il processo attraverso cui l’individuo diminuisce quantitativamente le proprie strutture e perde progressivamente le proprie funzioni. • Questi due processi fanno parte del processo di sviluppo che inizia dal momento in cui comincia a formarsi un essere vivente, fino al momento della sua morte. • Nel processo di senescenza tendono a decadere le funzioni scarsamente esercitate, mentre permangono e migliorano quelle maggiormente utilizzate. • L’invecchiamento umano comunque, seppur generalizzato a tutti gli individui, si svolge con modalità, ritmi e conseguenze, variabili da individuo a individuo. Un fenomeno complesso.. • L’invecchiamento è un fenomeno complesso che non può essere affidato alla sola età cronologica, si devono chiamare in causa le altre “età”: l’età psicologica, l’età sociale, l’età biologica, ed essere intese come un insieme compatto. L’età biologica • Secondo Cesa-Bianchi (1987), l’età biologica di una persona è la sua posizione attuale nei riguardi della sua potenziale durata di vita: si avvicina notevolmente all’età cronologica, ma non si identifica con essa. L’età psicologica • L’età psicologica si riferisce alle capacità adattative di una persona che risultano dal suo comportamento, ma può anche riferirsi alle relazioni soggettive o all’autoconsapevolezza: è collegata sia all’età cronologica che a quella biologica, ma non è pienamente desumibile dalla loro combinazione. 44 L’età sociale • L’età sociale si riferisce alle abitudini e ai ruoli sociali della persona in funzione delle aspettative del suo gruppo e della società: è collegata, ma non completamente definita, all’età cronologica, biologica e psicologica. I fattori alla base dell’invecchiamento • Fattore genetico (definisce il ritmo, le fasi, la durata del processo di invecchiamento); • Fattore educativo-culturale (influenza significativamente il processo di senescenza, sia pure in modo diverso a seconda della popolazione di appartenenza. Un buon livello educativo e un’adeguata situazione culturale sembrano agire positivamente sull’invecchiamento, mentre una situazione opposta è, spesso, chiamata in causa quale condizione favorente un rapido decadimento delle funzioni della persona). • Fattore economico (molte ricerche, fra le quali quelle di J. Birren, documentano una vera e propria dicotomia nel modo di svolgersi dell’invecchiamento fra gli appartenenti alle classi socioeconomiche più fortunate e quelli appartenenti alle classi più svantaggiate, per questi ultimi la senescenza si attua molto più frequentemente con modalità esclusivamente negative). • Fattore sanitario (opera in stretta interdipendenza con il fattore economico. L’insorgenza di patologie, specie se di carattere cronico e progressivo, influenzano negativamente il processo di invecchiamento fino a farlo precipitare. Tale influenza negativa diventa più incisiva se si realizza in un quadro di inadeguate risorse economiche). • Fattore personalità (bisogna prendere atto della diversità che la senescenza assume negli individui chiusi e in quelli aperti, negli attivi e nei disimpegnati, nei tenaci e nei labili e così via. A differenti tipologie caratteriologiche corrispondono diverse modalità di invecchiare. In ogni caso la personalità è in stretta connessione con l’ambiente, e le modalità adattative della persona dipendono da questa interdipendenza). • Fattore famiglia (l’invecchiamento varia notevolmente se un individuo vive solo, in coppia, o in un gruppo più numeroso. L’influenza di tale fattore si differenzia anche in rapporto al carattere dell’individuo che invecchia, alle sue condizioni culturali ed economiche, al gruppo di appartenenza, ecc..). 45 • Fattore ambiente (ormai è un dato di fatto che l’invecchiamento è espressione di un’interazione fra l’individuo e il suo ambiente, interazione nella quale l’individuo modifica continuamente l’ambiente e l’ambiente modifica continuamente l’individuo). Invecchiamento e patologia • Esiste una relazione fra patologia ed età, nel senso che molte malattie prediligono determinate fasce di età. • Per quanto riguarda l’età senile è possibile riconoscere che alcune patologie si riscontrano più frequentemente rispetto ad altre. • Gli antichi dicevano “senectus ipsa morbus”. • L’affermazione sosteneva che la vecchiaia comportasse di per sé la patologia; che questa fosse un evento ineliminabile e irreversibile col passare degli anni. • Le concezioni e i dati più recenti respingono questo modo di intendere il rapporto tra patologia ed età. • Considerano la patologia riferibile ad uno o più fattori estrinseci e le modificazioni connesse all’età solamente come fattori predisponenti o scatenanti. • È ancora da sottolineare come nella genesi della patologia nell’anziano è spesso riconoscibile una causa di carattere sociale, come la perdita del partner, lo sradicamento dalla famiglia, e l’istituzionalizzazione. Malattie organiche e malattie psichiche • La comparsa di malattie organiche e/o psichiche nell’età senile ripropone il problema delle relazioni esistenti fra queste due forme di malattia. • È noto che esistono malattie puramente organiche, ma in queste forme morbo se non è possibile escludere l’interferenza dico-fattori di carattere psicologico. • Né si può escludere il ruolo svolto dai fattori psicologici nel valorizzare una terapia o nell’influire sul decorso della malattia stessa. 46 Le malattie organiche • Quelle più frequentemente riscontrate sono le cerebropatie vascolari o degenerative. • Queste forme possono alterare anche le capacità intellettive e le funzioni sensomotorie. Le malattie psichiatriche • Fra queste manifestazioni patologiche ritroviamo l’ansia e la depressione, che possono condurre anche al suicidio. • Il numero delle persone anziane che si suicidano è nettamente superiore a quello dei giovani e degli adulti. • La solitudine e l’emarginazione possono tradursi in gravi disadattamenti da ricovero psichiatrico. Tendenze attuali. • Restituire l’anziano al suo ambiente di origine; • Permettergli di conservare i legami con il suo ambiente; • Ritardare l’istituzionalizzazione. Il vissuto della malattia • L’anziano si sente più esposto alla malattia e quindi è meno sicuro di sé e delle proprie capacità di assolvere ai ruoli sociali e familiari. • La sofferenza e il dolore dell’anziano sono la diretta conseguenza della malattia. • Gli anziani temono meno la morte rispetto alla malattia, perché la prima porrebbe fine alle sofferenze, mentre la seconda le aumenterebbe. 1. Essere malato significa per l’anziano essere di peso alla propria famiglia • Ma la vera giustificazione psicologica potrebbe essere quella che non si sente più in grado di ricoprire il ruolo sociale e familiare che gli era proprio; oppure sente che gli altri non lo reputano all’altezza. 2. La malattia induce nell’anziano un certo grado di depressione 47 • Lo porta a sentirsi debilitato, creando in lui insoddisfazione e timori. • Può essere ricondotta al disadattamento. 3. L’anziano vede la malattia come diretta conseguenza dell’età • Spesso sono le manifestazioni patologiche che inducono la persona anziana a rendersi conto per la prima volta di essere invecchiata. 4. L’essere ammalato ed il sentirsi inutile non vengono soggettivamente distinti • La malattia rende meno capaci = l’anziano si sente inutile. • Sentendosi inutile l’anziano avverte di non essere più capace di usufruire di quei compensi che derivano dal suo lavoro. • Vissuto depressivo • La malattia della persona anziana è collegata strettamente all’età e rappresenta, se non la causa scatenante, almeno una causa predisponente al verificarsi delle modificazioni psichiche di cui abbiamo accennato prima. Non aver paura dell'età che avanza Confortami nelle difficoltà, dammi la serenità contro l'inevitabile, allunga la brevità del mio tempo, insegnandomi che il bene della vita non consiste nella sua durata ma nell'uso che se ne fa e può avvenire, anzi molto spesso avviene, che proprio chi è vissuto a lungo sia vissuto poco (Seneca). Se a volte ci si rammenta della frase che vuole caro al cielo colui che muore in giovine età, altrettanto frequente è la consuetudine che spinge ad associare alla giovinezza la salute ed alla vecchiaia i malanni. Tanto più che la società occidentale , centrata sul giovane e dominata da un costume culturale che assume come valori assoluti giovinezza e produttività, auspica di non invecchiare, anzi, di sembrare (possibilmente sempre) più giovani di quello che si è (Zoja 1983) . 48 L'idea di invecchiare diventa, dunque, quasi un anatema Lo confermano le parole della famosa invocazione di Dorian Gray "Youth! Youth! There is absolutely nothing in the world but youth" (Wilde 1891) nella quale si appalesa il fine di scindere dal proprio sé che sta invecchiando quella rappresentazione che paura ed odio procurano (Garner 1998). Il futuro di colui che comincia a pensarsi vecchio si profila con una prospettiva cupa, quasi necessita della sapiente regia di un mentore saggio che agevoli la possibilità di attribuire ancora significato alla propria esistenza quando la vita sta volgendo al termine. Se nella percezione del proprio invecchiamento l'essere umano conquista progressivamente la consapevolezza della temporalità della propria vita, il percepirsi vivi è diverso dal sentire di esistere nella scansione dei propri giorni. Il termine vita rimanda, almeno in prima istanza, a ciò che "è caratterizzato da processi biochimici di natura metabolica che, utilizzando ed immagazzinando energia esterna, permettono la costruzione, il mantenimento e talvolta la demolizione della sua struttura fisica, oltre che il suo comportamento"(Boniolo 2006). L'esistenza, invece, possiede valore "perché comporta che vi sia un soggetto" che, ricorrendo a proprie "credenze filosofiche, religiose e ideologiche ",anche "storicamente contestualizzate", possa donare senso, conferire cioè " un valore speciale a quel particolare tipo di vita, a quel particolare periodo ed a quella particolare popolazione di viventi" (Boniolo 2006). Se l'allungamento della durata media dell'arco di vita è un dato ormai assolutamente incontrovertibile, la popolazione degli anziani (sempre più numerosa) impegna a tutto campo sul versante sociosanitario. Garner(1998) mette in evidenza come ,per una sorta di senso di colpa , usualmente venga data alta priorità ai bisogni fisici del vecchio e minima considerazione a quelli psicologici . Negando (o rimuovendo la possibilità di provare) emozioni si allontana la rappresentazione del dolore che l'essere umano può provare davanti al proprio invecchiamento ed alla propria morte, si accentra l'attenzione nella cura della malattia , si evita di entrare troppo in contatto col vissuto della persona anziana. Eppure l'essere umano ha bisogno di provare senso di vicinanza, di protezione e di sicurezza: ognuno di noi è guidato dal desiderio di entrare in relazione con gli altri. 49 Il senso dell'esistere come persona è strettamente legato alla possibilità di comunicare con gli altri (Storr 1960), e tutto ciò vale ancora di più quando siamo vecchi. Soprattutto perché negli anni della tarda maturità e della vecchiaia l'individuo tende progressivamente a sminuire quei tratti della personalità sui quali hanno pesato precedenti ruoli, aspettative note, usuali e consolidate interazioni sociali. L'anziano sposta inesorabilmente la propria attenzione dal mondo esterno a quello interno, manifestando la convinzione che la propria per così dire condizione ideale coincida desolatamente con la rinuncia ad una serie di aspirazioni e traguardi, tipici e salienti di altre fasi della vita trascorsa(Cumming, Henry 1961). A differenza del bambino e del giovane non ha tutta la vita davanti, quella specie di schermo sul quale potersi permettere di proiettare sue identificazioni: se l'identificazione richiede una rinuncia attuale per una soddisfazione che si pregusta futura o potenzialmente futuribile, nel vecchio questa possibilità risulta progressivamente risicata. Non resta che aggrapparsi al presente o volgere lo sguardo al passato. E' questo il motivo per cui sempre più frequentemente una diagnosi secca sembra davvero risultare un non senso perché potrebbe disarticolare la visione unitaria della persona, "con la sua storia, il suo bagaglio culturale, il suo assetto relazionale, le sue convinzioni morali ed ideologiche", rendendo spesso arduo il discrimine "fra patologia dell'invecchiamento, patologia nell'invecchiamento ed invecchiamento stesso"(Cesa-Bianchi 1996). Aleggia, al di là della condizione di malattia, una diffusa, spesso profonda, sensazione di malessere, la percezione di sogni irrealizzati, un vissuto di sconforto e delusione. Con difficoltà si mantengono e coltivano legami e relazioni, amplificando l'angustia per una marginalità generata dall'imbarazzo di sentirsi troppo vecchi. Inquieti, con ridotto grado di autonomia, proprietari di una fragilità poco condivisibile, quasi ci si sentisse ad un tratto assediati da bisogni di complessa ed al tempo stesso troppo banale decodifica, si oscilla tra un vissuto di rassegnazione, se pur sofferta, ed una disanima troppo disincantata della quotidianità, pungolo (ma scomoda testimonianza) dell'inevitabile involuzione fisiologica. 50 Ci si ancora e conforta nella speranza di poter possedere ancora un'esistenza desiderabile, per contrastare la paura che si annida nel proprio mattino . Al tempo stesso si teme la paura di doversi riconoscere in un corpo biologico depauperato del senso dell'esistere. E' il territorio della paura, della paura dell'età che avanza, territorio spesso estraneo alla malattia(Cesa-Bianchi 1996). Eppure esistono eccellenti immagini e testimonianze di eccellenti vecchi, tanto da poter affermare che invecchiamento e creatività non siano affatto estranei l'uno all'altra (Garner 2002). Pablo Picasso(1881-1973) possedette vigore ed inesauribile talento fino agli ultimi giorni della sua esistenza. Henri Matisse(1869-1954) superò negli ultimi anni le limitazioni dovute all'età ed alla malattia con la creazione dei gouaches decoupees. Giuseppe Verdi(1813-1901) scrisse il Falstaff, potente evocazione della vecchiaia, alla non verdissima età di 79 anni. Compito di colui che invecchia è dunque mantenere un senso di integrità e di coesione del sé , nonostante le ricorrenti rappresentazioni negative della vecchiaia. Così il "diventare vecchi" ci permette di includere anche aspetti positivi di questa fase dell'esistenza, per quanto la crescita personale, alla quale chi invecchia non può dirsi estraneo, non rappresenta di per sé e necessariamente un percorso lineare. Separazioni e perdite costituiscono aspetti inevitabili nella nostra esperienza del vivere, financo necessari per conquistare più compiuta consapevolezza del nostro essere adulti. La maturità è insieme "una conquista e una rinuncia, la perdita di un'incertezza, di un'illusione, di uno slancio, di un vagabondaggio, di un dubbio: mentre lo sguardo apprende a vedere, l'intelligenza a cogliere il nucleo delle cose, il cuore a sopportare le cose tollerabili e intollerabili"(Citati1998). E l'elaborazione del dolore può davvero avvicinarci ad aspetti più profondi nella relazione con noi stessi e col mondo, per aver cuore, partecipi e compenetrati della pienezza del significato del nostro tempo di vita. 51 ASPETTI PSICOLOGICI DELL’INVECCHIAMENTO E DELLA DISABILITA’ Depressione e invecchiamento Con il termine “invecchiamento” si fa riferimento all’ultima parte del ciclo vitale che va dalla maturità alla morte e che è caratterizzato da riduzione, indebolimento e regressione delle strutture organiche e delle relative funzioni. Stereotipi, preconcetti e generalizzazioni hanno disegnato un quadro psicologico dell’anziano caratterizzato da difetti di memoria, difficoltà nell’apprendimento, rallentamento delle performance mentali, fragilità emotiva, egoismo, avarizia, ripetitività, caduta degli interessi, perdita di creatività e progettualità, rigidità, cocciutaggine, permalosità, culto delle memorie. Bisogna comunque sottolineare che ogni generalizzazione è erronea e che una strategia opportuna per la comprensione del problema è quella di distinguere gli aspetti più propriamente cognitivi, quali memoria, attenzione, capacità di apprendimento, da quelli psicologici, quali gli aspetti emotivi, affettivi e volitivi. Tali aspetti sono tra loro collegati, ma si possono comunemente osservare sfasature nel loro manifestarsi: tutti conosciamo anziani con memoria ancora perfetta e nessun segno di deterioramento cognitivo, ma spenti psicologicamente, vuoti, ripiegati in un vegetare, e viceversa persone che non ricordano più i nomi propri, che sono rallentate nell’apprendere cose nuove, ma ancora capaci di slanci affettivi, di emozioni, di curiosità e di creatività. La componente cognitiva dell’invecchiamento è conseguente all’involuzione della struttura del Sistema Nervoso Centrale e alla riduzione progressiva del numero di cellule nervose e delle loro connessioni. La componente “psicologica” è invece quella correlata alla personalità, alla storia individuale, allo stile di vita, alle interazioni ambientali, agli eventi e all’assetto del tono dell’umore. Aspetti cognitivi Il più classico, conosciuto, lamentato disturbo cognitivo dell’invecchiamento è quello a carico della memoria. La compromissione della memoria è in genere ben percepita dal soggetto. All’inizio il difetto non è notato da familiari e amici ma, quando si accentua, risulta evidente anche agli altri. Due sono le teorie principali sui disturbi della memoria nella vecchiaia: una è quella classica di Ribot, secondo la quale la perdita dei ricordi avverrebbe sistematicamente dai più recenti ai più antichi. Associazione per la Ricerca sulla Depressione. La concezione moderna, invece, tende a valutare l’importanza dell’intera personalità e tiene conto dei molteplici fattori psicologici che possono più o meno direttamente causare tali disturbi, facilitarne la comparsa e modellarne alcuni aspetti caratteristici. Accanto ai disturbi della memoria è presente, nell’invecchiamento, il 52 rallentamento dei processi cognitivi quali l’attenzione e la capacità di apprendimento, soprattutto in funzione della velocità. Aspetti psicologici Frequentemente nella vecchiaia si accentuano le caratteristiche della personalità e alcuni elementi positivi possono assumere carattere negativo: ad esempio la prudenza può trasformarsi in avarizia e diffidenza, l’attenzione alla propria salute in ipocondria. Per contro si moderano alcuni tratti caratterologici dell’età più giovane, quali l’impulsività, il rigore verso gli altri, l’aggressività. L’esperienza, l’abitudine alle frustrazioni e un certo distacco dalle passioni contribuiscono ad un atteggiamento più paziente, un umore più stabile, una certa indipendenza dalle convenzioni e dai compromessi. Un aspetto abbastanza caratteristico della vecchiaia è l’indecisione, l’indeterminazione, l’insicurezza. La vecchiaia è l’età dei dubbi, dei forse: la paura di sbagliare è grande, non solo per l’esperienza degli errori accumulati negli anni, ma anche perché, in caso di errore, non c’è più tempo per ricominciare. Il soggetto che invecchia elabora una disistima di sé alimentata da varie componenti, peculiari secondo la personalità: per alcuni sarà la decadenza fisica, per altri l’insicurezza, per altri ancora la compromessa immagine. I rapporti col passato sono fondamentali per comprendere l’assetto psicologico dell’anziano. Il passato è ad un tempo la sua ricchezza e la sua dannazione: ricchezza perché gli dà i vantaggi dell’esperienza e la possibilità di rifugio ideativo, dannazione perché i ricordi, i rimorsi, i rimpianti, possono soffocarlo. Nella vecchiaia è frequente la deformazione ottimistica degli eventi passati che si connotano di sentimenti piacevoli: quelli della prova superata, del traguardo raggiunto, dello scampato pericolo, della dimostrata capacità di sopportare le avversità. Si formano così accoppiamenti che costituiscono stereotipi culturali: passato = bene, presente = male, gioventù = felicità, vecchiaia =dolore. A volte il passato è vissuto con prevalenti sentimenti di rimpianto riferite ad occasioni perdute, scelte errate, obiettivi mancati, iniziative che si dovevano intraprendere, decisioni che invece dovevano essere scartate. In molti casi il rimpianto non ha un contenuto preciso, ma assume i connotati della nostalgia, con la caratteristica miscela di malinconia e dolcezza, di aspetti positivi e negativi. Strettamente connessi al concetto di futuro sono quelli di speranza e progetto. La speranza tende ad assumere lineamenti vaghi e incerti oppure è riferita al breve termine e si basa sul soddisfacimento dei bisogni primari della vita: mantenere valido il proprio corpo, nutrirsi, accudire la propria persona e le proprie cose. Per quanto riguarda, invece, la progettazione, nell’anziano il deficit cognitivo non solo ne riduce la possibilità di realizzazione, ma ne compromette anche la proiezione nel futuro. La mancanza di progetti comporta noia e isolamento che si ripercuotono negativamente sull’efficienza mentale e sul tono dell’umore. Un altro aspetto abitualmente descritto 53 come tipico dell’invecchiamento è l’egocentrismo. L’energia non più impiegata nei rapporti con l’ambiente esterno è prevalentemente investita nel proprio corpo, che acquista la priorità di cui godeva nell’infanzia: ne consegue l’accentuazione di tutte le manifestazioni di somatizzazione l’aumento dell’attenzione per le proprie funzioni corporee. Si scrive molto, in tema di psicologia della vecchiaia, sul problema dell’adattamento e del disadattamento. Adattarsi significa trovare i modi più opportuni alla sopravvivenza e il successo della specie umana è dovuto proprio a tale capacità. La personalità è il fattore più importante nel condizionare il grado di adattamento nella vecchiaia. L’individuo che ha manifestato problemi psicologici nel corso della vita, li manterrà anche da anziano: soggetti con caratteristiche psicologiche di rigidità, autoritarismo, egocentrismo o al contrario persone con stati d’insicurezza, labilità, eccessiva passività, possono avere ugualmente notevoli difficoltà a adattarsi alla situazione esistenziale della vecchiaia. Lo stretto collegamento tra l’adattamento e i fattori di personalità conferma l’importanza della preparazione e educazione all’invecchiamento. Le modalità di adattamento sono certamente diverse da persona a persona, anche perché diverse sono le ripercussioni dell’invecchiamento. È stato osservato, ad esempio, che nelle donne il disadattamento è spesso soggettivo, cioè più percepito soggettivamente che reale, mentre negli uomini avviene il contrario: in alcuni è importante la ricerca di un’occupazione alternativa dopo il pensionamento, in altri il compenso avviene con meccanismi sostitutivi, come ad esempio il passaggio da un’attività manuale ad un’attività mentale o viceversa. Fattori dell’invecchiamento mentale Alcuni aspetti dell’invecchiamento sono espressione del deterioramento delle strutture cerebrali, altri sono secondari a fattori esistenziali di vario genere (culturali, sociali, familiari, individuali), altri ancora possono esser letti come modalità di difesa e tentativi di adattamento ai precedenti. Tra i fattori cerebrali dell’invecchiamento la perdita neuronale, la riduzione delle connessioni interneuroniche e le modificazioni dei neuromediatori hanno una diretta ripercussione sull’assetto cognitivo. I concetti di ridondanza e di plasticità neuronale hanno archiviato le semplicistiche teorie sul deterioramento conseguente allo spopolamento dei neuroni. La visione attuale è certamente molto più dinamica e complessa: si riconosce il fatto genetico come timer che programma la durata in vita di un neurone, ma si considera anche l’importanza di una serie di fattori acquisiti (vascolari, tossici, dismetabolici) e soprattutto l’intervento determinante della stimolazione. D’altra parte è ormai certo che esiste una stretta correlazione tra deficit cognitivi e fattori psicologici, quali l’abbassamento del tono dell’umore e il restringimento delle relazioni interpersonali. Anche i fattori somatici hanno una ripercussione sull’invecchiamento mentale, tanto negli aspetti cognitivi quanto in quelli psicologici. Ad esempio il ruolo dell’indebolimento degli organi sensoriali, così frequente 54 nella terza età, è rilevante nel contribuire all’invecchiamento mentale tramite il deficit di stimolazione. I deficit della funzione visiva hanno indubbie ripercussioni dirette sulla vita psichica: si pensi agli anziani che non possono più leggere il giornale o guardare la televisione. Ancor più importanti sono i difetti uditivi, sia per la loro frequenza sia per le conseguenze psicologiche: producono imbarazzo, vergogna, frustrazioni, ma anche sospettosità, ostilità ed impazienza da parte degli altri. Anche i difetti motori, così frequenti per molte patologie negli anziani, diminuiscono l’autonomia del soggetto, la sua disponibilità esplorativa, la sua probabilità di rapporti interpersonali e di situazioni nuove. Infine vanno considerati i problemi somatici, vissuti dai soggetti come umilianti e vergognosi, e gli handicap estetici, desocializzanti perché inducono al ritiro o perché possono obiettivamente ridurre il gradimento da parte degli altri. I rapporti interpersonali, inoltre, possono essere difficili anche perché l’anziano tende a trascurare la pulizia personale, l’aspetto esteriore, l’abbigliamento, a causa di una diminuita motivazione alla ricerca di un’immagine personale attraente o di un deficit motorio e sensoriale, come ad esempio il non veder bene le macchie del vestito o il non avvertire il cattivo odore del proprio corpo o la rinuncia al bagno per paura di scivolare o alle abluzioni per paura di prender freddo. L’esame dei fattori che possono causare deficit di stimolazione direttamente o tramite l’isolamento è importante non solo per una più corretta interpretazione delle modalità d’invecchiamento mentale, ma anche nella routine quotidiana, per un’opera di prevenzione e per una loro puntuale correzione. E’ certo che i fattori di personalità svolgono un ruolo rilevante nel condizionare le modalità d’invecchiamento mentale. Sul piano clinico si può ipotizzare che soggetti con componenti nevrotiche di tipo astenico e depressivo più facilmente, nella vecchiaia, saranno predisposti ad una progressiva chiusura in se stessi, ad un impoverimento esistenziale e quindi anche ad un maggiore decadimento intellettivo. Anche la scala personale dei valori ha una grande influenza sul modo di invecchiare e lo condiziona positivamente o negativamente. Alcuni di tali valori, quali la forza fisica, la bellezza, sono come un timer destinato a far esplodere un dramma esistenziale ad una data epoca della vita. Altri invece, quali il dovere, la religione, la cultura, possono diventare preziosi ausili per un invecchiamento equilibrato e sereno. I fattori legati agli eventi che possono colpire la persona che invecchia sono diversi: tra i più costantemente presenti quelli riassumibili nel concetto di perdita, tanto che la tarda età è stata chiamata la stagione delle perdite. Si perde in campo biologico: la forza, la resistenza, la rapidità, la motilità, l’acutezza sensoriale; si perde la salute, con disturbi e malattie; si perde in campo affettivo: muoiono persone-chiave della vita, come il coniuge, i fratelli, gli amici; si perdono i figli che acquisiscono una loro autonomia e che si allontanano materialmente e affettivamente dalla nostra vita; si può perdere il lavoro, l’impiego, la capacità produttiva, la sicurezza economica e quindi il ruolo, il prestigio, il rango, si perde anche, più o meno tardi, l’indipendenza, l’autonomia. 55 Altri importanti fattori che intervengono a condizionare l’assetto psicologico della persona che invecchia sono quelli legati alla situazione esistenziale ed ambientale. Tra le modificazioni esistenziali più rilevanti che caratterizzano la vecchiaia va certamente segnalata la gran quantità di tempo libero a disposizione. Non vi sono altre epoche della vita umana, se non i primi cinque anni, nelle quali la persona possa avere la totale disponibilità del proprio tempo. Il tempo libero può esser goduto o sofferto, utilizzato bene o sprecato, sicuramente può condizionare la qualità di vita dell’anziano ed anche determinare situazioni patologiche. Le ripercussioni del nuovo assetto esistenziale proprio dell’età avanzata sono diverse nell’uomo e nella donna: la tendenza più spiccata ai legami affettivi, al maternage, all’interiorità, costituiscono elementi favorevoli nell’affrontare la condizione della senilità e l’invecchiamento per la donna è in linea generale più sereno che per l’uomo. Notevoli differenze di assetto psicologico si osservano anche tra anziani che vivono in ambienti e culture diversi: l’anziano che vive in campagna con i propri familiari e riesce a svolgere piccoli lavori manuali simili a quelli svolti nell’età matura è certamente favorito rispetto a quello che invece vive in città, dove il tipo di organizzazione del lavoro rende più netta la divisione tra cittadini produttivi e non produttivi. L’ambiente familiare è tra i fattori più importanti nel condizionare l’assetto psicologico dell’anziano. Le possibilità di conflitti, frustrazioni, dissapori sono continue: le differenze d’età portano a concezioni diverse della vita e dei suoi valori, della moralità, della religione. Si può arrivare a veri scontri generazionali con dinamiche di competizione e risentimento. Può capitare che il genitore anziano diventi il capro espiatorio delle tensioni coniugali, il pretesto per malumori di altra natura. Non è infrequente che si attuino meccanismi d’emarginazione o d’esclusione, motivati dai difetti del carattere, dalla trascuratezza, dagli stessi handicap fisici, dall’immagine non gradevole. In altri casi, invece, la famiglia ha un effetto positivo sulle modalità dell’invecchiamento: infatti, è il contesto dove si può mantenere e sviluppare il mondo degli affetti e dove l’essere-con-gli-altri può assumere una dimensione di massima ricchezza esistenziale. L’affetto più contenuto e meno possessivo verso i figli, l’amore verso i nipoti, la partecipazione come elemento equilibratore alle vicende familiari, il sentirsi quasi depositario della continuità temporale della famiglia e il percepire sentimenti di amore e di protezione costituiscono elementi positivi per poter vivere la vecchiaia in buon equilibrio. Tra i fattori che influiscono sull’assetto psicologico dell’invecchiamento contano molto quelli socio-culturali. Certamente se la società considera la vecchiaia un disvalore, in quanto non produttiva, la ripercussione sull’uomo che invecchia è grave. In effetti l’equilibrio psicologico dell’anziano è spesso messo in difficoltà dall’ambivalenza dell’ambiente che da un lato gli richiede aspetto giovanile, prestanza, autonomia, ma dall’altro critica impietosamente ogni atteggiamento che non corrisponda allo stereotipo culturale della vecchiaia. In generale possiamo dire che la condizione umana dell’anziano suscita 56 sentimenti e pensieri ambivalenti: da una parte è vissuta come una sorta di malattia e dall’altra come età della saggezza, del superamento delle passioni, della soluzione dei conflitti istintuali. La prevalenza di aspetti negativi comporta la comparsa di sentimenti d’esclusione che portano a depressione, sospettosità, inattività, che certamente peggiorano le prestazioni e l’immagine del vecchio, che può anche divenire inopportuno ed aggressivo, in uno scomposto tentativo di difesa. Le continue ferite narcisistiche portano l’anziano ad una tendenza centripeta, a preoccuparsi di sé, quindi ad un egocentrismo, con prevalenza di pensieri ed atti finalizzati alla conservazione. La malattia può acquistare anche la funzione di controllo, di potere sull’ambiente nei casi in cui all’anziano non rimane che essere malato per riacquistare un ruolo e potere sugli altri: in tali casi i sintomi possono essere interpretati come segnali, messaggi, invocazioni di soccorso ai familiari. Psicopatologia dell’invecchiamento I confini tra psicologia e psicopatologia dell’invecchiamento non sono netti, ma costituiti da situazioni che si scompensano e si compensano ripetutamente. Pur senza assimilare vecchiaia a malattia, è indubbio che l’anziano soffre di una situazione di disagio per i molti fattori che sono stati ricordati, tra i quali certamente primeggiano le “perdite”. Tuttavia l’invecchiamento è caratterizzato anche dalla necessità di “cambiamenti”, cioè di una riorganizzazione dell’identità personale. La vecchiaia, come età di adattamenti e modificazioni, è simile all’adolescenza: sono entrambe i periodi della vita più critici perché, in quanto momenti di cambiamento, si verificano metamorfosi psicologiche predisponenti a veri e propri sintomi psicopatologici. Il quadro clinico più importante e caratteristico, anche se non esclusivo, è quello dell’involuzione cognitiva e della demenza. La peculiarità della psicopatologia senile consiste nell’importanza dei fattori di personalità, intesi come biografia personale e individuale risposta di adattamento agli eventi della vita. L’invecchiamento è il momento degli scompensi, in cui si rivelano gli assetti patologici della personalità: ad esempio un disturbo narcisistico, fino ad allora in qualche modo mimetizzato, può esplodere proprio in vecchiaia. I quadri dei disturbi mentali sono, nella vecchiaia, intrisi di contenuti personologici e questo spiega l’estrema variabilità dei contenuti della sintomatologia, modellati dalla struttura della personalità individuale. E’ anche vero che la loro psicopatologia si presenta spesso con quadri minori, nascosti, integrati nell’assetto esistenziale senile tanto da essere facilmente trascurati, sottostimati, interpretati non come condizione patologica, ma come modalità dell’essere anziani. Il problema più importante, nell’ambito della psicopatologia è sicuramente quello della depressione, favorita sia dall’ipofunzione e fragilità dei sistemi noradrenergici e serotoninergici, sia dalla presenza di malattie fisiche che possono favorire depressioni secondarie, sia dalle “perdite” di cui si è prima accennato. Si può quindi ritenere “normale” la presenza di elementi depressivi nella 57 vecchiaia: si accumulano vissuti di frustrazione e di esclusione che comportano risposte di abbattimento, d’inibizione, d’evitamento. La depressione nel vecchio è tuttavia sottostimata perché i suoi sintomi sono scambiati per normale assetto psicologico dell’età avanzata, oppure per patologia somatica o anche per involuzione demenziale. Nell’anziano sono frequenti le depressioni mascherate, cioè nascoste da sintomi somatici, e le pseudodemenze, cioè disturbi depressivi che si esprimono attraverso deficit cognitivi tali da simulare sindromi demenziali. E’ molto frequente inoltre la confusione tra invecchiamento psicologico e depressione. Le caratteristiche più costantemente descritte per l’invecchiamento psicologico sono, infatti, la perdita della capacità di provare piacere, la riduzione degli interessi, la perdita o la coartazione della temporalità, l’annullamento del futuro e della speranza, l’intuizione della fine del proprio ciclo vitale, il crollo dell’autostima, il pessimismo, il rallentamento. Ma sono proprio questi i sintomi chiave della depressione: può allora sorge il dubbio che l’invecchiamento psicologico, in realtà, non esista come tale, ma sia invece espressione dell’innesto di una patologia depressiva. Si deve quindi considerare la patologia depressiva, in tutte le sue forme, maggiori e minori, primitive e secondarie, palesi e mascherate, come uno dei fattori più rilevanti dell’invecchiamento mentale. INVECCHIAMENTO E DISABILITA’ Il rapporto tra disabilità e invecchiamento può essere considerato da due diverse prospettive. La prima riguarda il disabile che invecchia, le trasformazioni e i cambiamenti peculiari dovuti all’avanzare degli anni e sui processi di adattamento che vengono utilizzati per la gestione dei cambiamenti. La seconda prospettiva guarda alla persona che diventa disabile ad una certa età e si deve perciò confrontare, per la prima volta, con le limitazioni determinate dalla sua nuova condizione in un momento particolare del ciclo di vita. Occorre precisare che nell’ambito dell’invecchiamento il termine utilizzato per descrivere la condizione di disabilità dell’anziano è quello di non-autosufficenza. Si pone quindi questo parametro al centro della valutazione e l’accento cade sulla dimensione dell’autonomia da un lato e della dipendenza dell’altro. Si potrebbero perciò elencare le diverse condizioni che possono essere affrontate durante la vecchiaia. La prima viene definita come invecchiamento primario e riferito alla condizione in cui si trovano a vivere le persone con il progredire degli anni, considerando cioè l’effetto età. Accanto alla dimensione di invecchiamento normale (che richiede tuttora una definizione delle sue peculiarità) è stato proposto il concetto di fragilità attribuito alla condizione dell’anziano che in sé non è una condizione problematica ma potrebbe essere un fattore predisponente oppure un indicatore precoce di una futura perdita di autonomia. Il termine fragile evoca un’idea di maggiore rischio, la presenza 58 di un problema, la possibilità di danneggiarsi, di avere una patologia o una limitazione; accanto all’idea del rischio di avere un problema occorre considerare anche la sfera della vita della persona che viene interessata: si può quindi parlare di fragilità fisica, organica, psicologica, cognitiva, sociale. A tale proposito è di frequente osservazione il cambio di attitudine che i familiari o le altre persone mostrano di fronte alla percezione di fragilità dell’anziano o all’insorgere delle prime limitazioni. Essi passano frequentemente da una relazione di reciprocità ad una relazione direzionale in cui l’anziano viene deprivato di alcune sue capacità decisionali che vengono assunte dagli altri; in ciò questi sono anche favoriti dall’atteggiamento spesso tenuto dagli anziani di fronte alle limitazioni e caratterizzato dal rifiuto di consapevolezza e della mancata messa in atto di strategie adattive adeguate alla nuova situazione. Dall’invecchiamento “normale” (incluso i “super vecchi”), alla fragilità fino alla disabilità è una linea di una possibilità ma non di inevitabilità; la disabilità inoltre è una condizione connessa con l’autonomia (perdita e riorganizzazione dell’autonomia) e con la dipendenza(dall’altro per svolgere i propri compiti).Nell’invecchiamento le condizioni che possono portare ad una condizione di non autosufficienza o perdita di autonomia appartengono sostanzialmente a due categorie principali a seconda della loro causa. La prima è in relazione ad una condizione fisica che determina una perdita di inabilità motoria che compromette l’autonomia di movimento della persona con vari gradi di severità, classificati, come già accennato, in perdita di funzioni avanzate (hobbies, viaggi, frequentazione di luoghi ecc.), in perdita di funzioni strumentali (fare la spesa, accudire la casa, gestire gli aspetti finanziari ed altri ancora) e in perdita o compromissione delle abilità di base quali alimentazione, igiene personale ecc. Le cause principali sono gli incidenti cerebrovascolari, le patologie cardiovascolari e quelle a carico dell’apparato muscolo-scheletrico. Le stesse condizioni di perdita di autonomia possono essere determinate da una patologia a carico del sistema nervoso centrale, di cui la demenza rappresenta il prototipo ed è una delle cause più frequenti di disabilità comporta una limitazione sempre più significativa delle capacità di autonomia mentre le abilità motorie possono essere preservate per un lungo periodo della malattia. Queste due condizioni ad elevata frequenza nella popolazione anziana e molto anziana, la cui incidenza cumulativa può raggiungere circa il 50%, richiede delle considerazioni specifiche riguardo al tema della disabilità e della dipendenza in quanto, nel primo caso, assistiamo ad una dipendenza fisica, con abilità psicologiche e relazionali conservate, che ha delle ripercussioni sia sul vissuto della persona interessata sia sulle sue relazioni con gli altri e in particolare con coloro che se ne prendono cura, siano essi dei familiari oppure degli operatori professionali; mentre nella seconda tipologia la situazione è diversa in quanto vi è una progressiva perdita di abilità da parte dell’anziano colpito che implica un ruolo e una relazione molto particolare e diversa da parte di coloro che si prendono cura di lui. 59 I punti significativi da cui possiamo trarre una prima conclusione sono dunque : 1. evitare di sovrapporre il pregiudizio sulla disabilità e quello sulla vecchiaia in quanto l’esito è una negazione significativa della persona dell’altro; 2. riconoscere le potenzialità e le possibilità dell’altro attraverso la costruzione di contesti e realtà che possono favorire l’espressione delle potenzialità anche della persona anziana; 3. riconoscere i bisogni di considerazione, di rispetto, di azione e di reazione dell’anziano anche se ciò può essere sentito come conflittuale e fonte di tensione; 4. tener presente che di fronte alla disabilità l’anziano è in grado spesso di operare il cambiamento necessario in modo da affrontare la nuova situazione nel modo migliore possibile. Si può chiudere con l’affermazione di Baltes che sottolinea come invecchiare bene non significhi l’assenza di limitazione ma la possibilità di fare il meglio che si può con quello che si ha. DAL PENSARE ALL’AGIRE Si tratta di un problema non facile da risolvere, ma fondamentale, specialmente quando si debba decidere il tipo di aiuto da fornire all’ anziano per correggere, eliminare, o modificare la sua dipendenza. Su questi temi si discute moltissimo oggi all’interno del tema generale dello stato sociale e della sicurezza sociale; e gli interrogativi si pongono a vari livelli: • che qualità di vita è possibile garantire a un anziano in condizioni di dipendenza; • quali tipi di aiuto si possono offrire in risposta alla domanda di aiuto; • in che misura è dovere della famiglia aiutare l’anziano dipendente e quando è compito dei servizi e della comunità; • su chi devono gravare gli oneri economici legati agli interventi di aiuto. Tradizionalmente all’assistenza pensava la famiglia e ciò rientrava nei suoi normali doveri, mentre l’ «assistito» esprimeva una condizione di «senza famiglia» e la sua sopravvivenza era legata agli interventi di solidarietà dei membri della comunità. Nessuno sapeva, né pretendeva di sapere, la qualità di vita che le famiglie riservavano agli anziani o alle altre persone bisognose di assistenza; e nemmeno erano previste forme di intervento integrativo alla famiglia da parte di enti esterni (pubblici o privati), se non in casi del tutto eccezionali. L’anziano assistito al di fuori della famiglia 60 rappresentava invece una categoria sociale marginale; gli veniva garantito un minimo livello di vita, ma senza il riconoscimento di precisi diritti. Ben diversa la situazione odierna. Prima di tutto i servizi di assistenza non sono riservati agli anziani privi di famiglia, ma costituiscono un sistema di aiuti a cui tutti possono accedere, finalizzato a promuovere obiettivi di salute senza discriminazioni. Dal canto suo la famiglia continua ad essere il principale riferimento per l’assistenza agli anziani, ma l’esercizio di tale funzione diventa sempre più problematico. Non soltanto l’allungamento della vita media ha aumentato il numero degli anziani, ma è diminuita anche la capacità oggettiva della famiglia ad assistere. Sono diminuiti i familiari in grado di dare assistenza; è cambiata l’organizzazione del lavoro e del tempo, sono cambiate le modalità di convivenza e i sistemi di relazione anche nell’ambito familiare. La domanda di assistenza dell’anziano si colloca perciò in nuovo quadro di riferimento: la richiesta di aiuto nasce nell’ambito della famiglia, ma il dovere di garantire una risposta coordinata e finalizzata al suo benessere , spetta sia alla famiglia che ai servizi. Nella pratica questi principi teorici non trovano sempre riscontri coerenti, sia perché sopravvivono alcuni modelli culturali del passato, ancora in grado di influenzare i comportamenti di alcuni soggetti; sia per l’inadeguatezza organizzativa dei servizi, incapaci di cogliere le nuove esigenze e di avviare le relative trasformazioni. Con queste premesse, si sviluppano alcune dinamiche tra gli anziani, i familiari e i servizi, che rendono difficile sia la lettura e la valutazione della domanda di assistenza, che la decisione sul tipo di risposta da offrire; situazioni nelle quali raramente l’anziano ha un ruolo protagonista nella scelta della soluzione da adottare per il suo problema. Al suo posto intervengono familiari e servizi, secondo strategie non sempre convergenti. Con molta concretezza allora bisogna prendere atto delle difficoltà e cercare i modi più efficaci per responsabilizzare servizi e familiari nella corretta lettura della domanda di assistenza. L’invecchiamento della popolazione, insieme a una più generale attenzione diffusa ai diritti e ai bisogni dei cittadini, ha portato negli anni a una maggiore sensibilizzazione nei confronti dei problemi degli anziani e dei bisogni di cui essi sono portatori. Stato ed enti locali hanno progressivamente ampliato i loro interventi mettendo a punto una politica in favore della popolazione anziana per dare risposta ai bisogni vecchi e nuovi collegati alle caratteristiche oggettive (stato effettivo di salute) e soggettive (percezione della propria condizione marginale) dei destinatari. Si è trattato di una vasta gamma di azioni, differenziate per caratteristiche, finalità e modalità di realizzazione, ma tutte in qualche modo concorrenti a promuovere una migliore Qualità della vita. Si tratta di un insieme di interventi che hanno portato a “impegnare” risorse pubbliche per “risparmiare” risorse utilizzando quelle messe a disposizione dagli anziani stessi. Tutti questi interventi, accostati e variamente combinati, hanno contribuito a offrire risposte ai bisogni che sono in relazione al diverso grado di “autosufficienza” dell’anziano 61 stesso e alla capacità della sua rete relazionale e familiare di farvi fronte. A partire dagli anni Ottanta, infatti, con più forza è emerso il problema della “non – o parziale –autosufficienza” degli anziani, rispetto a una serie di situazioni quotidiane: dalla cura della propria persona a quella della casa, dall’autonomia di movimento alla capacità di mantenere relazioni proprie e così via. La compresenza di problematiche di tipo sanitario e sociale ha pertanto richiesto di attivare servizi integrati, capaci cioè di “lavorare insieme” proprio nel rispetto della correlazione stretta tra i diversi bisogni dell’anziano. L’integrazione socio-sanitaria è, in tal senso, una delle sfide più importanti nell’attivazione della rete di servizi in generale e, in particolare, per gli anziani. La politica che ha portato alla realizzazione della rete di servizi ha messo in campo un altro importante soggetto, le IPAB, che accanto agli Enti locali gestiscono ed erogano servizi per gli anziani. Tale politica, pur differenziandosi da Regione a Regione, ha certamente consentito lo sviluppo e il consolidamento delle rete e dei servizi, rappresentando altresì un “banco di prova” anche per gli altri settori socioassistenziali dove tale collaborazione si è sviluppata in tempi successivi. QUALI SERVIZI ? La risposta tradizionalmente più diffusa e ritenuta “quasi naturale” era stata per lungo tempo quella della “casa di riposo” (il cosiddetto “ricovero”). Negli anni Settanta, a seguito e in connessione a una “atmosfera” politico-sociale che guardava con attenzione nuove soluzioni ed era più del passato disponibile a sperimentazioni, si fece strada l’idea di poter rispondere ai bisogni della popolazione anziana in difficoltà anche non ricorrendo all’accoglienza in strutture totalizzanti. Si cominciò, cioè, a pensare di poter lasciare gli anziani nella propria casa fornendo loro, soprattutto se soli e parzialmente non autosufficienti, il supporto di un’assistenza domiciliare che li aiutasse sia nei lavori domestici che non erano più capaci di svolgere, sia soprattutto nella cura della propria persona. In altre parole, sembrò, a quei tempi, che si sarebbe progressivamente fatto a meno dei “ricoveri” considerati “istituzioni totali” ossia luoghi che producono esclusione sociale. Il crescente numero di anziani non-autosufficienti e la scarsità di risorse disponibili indussero l’assistenza domiciliare a trasformare la tipologia degli interventi che si sono via via specializzati, tralasciando la cura della casa, l’effettuazione della spesa, l’aiuto nel disbrigo di pratiche burocratiche e sviluppando invece una più specializzata cura della persona (igiene personale, alzata da letto, prevenzione di piaghe da decubito ecc.), a cui si sono affiancati interventi domiciliari sanitari svolti da personale infermieristico. Ciò ha lasciato in parte “scoperti” i bisogni di relazione degli anziani, primo fra tutti quello di “scambiare due parole”. In anni recenti, raccogliendo l’esperienza precedente e componendola con le nuove tendenze della domanda di servizi per anziani, la legge 62 Quadro 328/2000, dopo 110 anni di attesa, ha posto l’accento sull’assistenza domiciliare come uno dei servizi che deve essere presente in ogni ambito territoriale. Il “ sistema integrato di interventi e servizi sociali” deve realizzarsi con il concorso di una pluralità di attori, istituzionali e non, pubblici e privati. Queste sono le premesse del piano nazionale degli interventi e servizi sociali 20012003,che mira a promuovere la partecipazione attiva di tutti nella realizzazione del benessere sociale. Il Piano propone un nuovo concetto di domiciliarità come uno dei capisaldi del sistema integrato di interventi e servizi. In quest’ottica l’assistenza domiciliare è vista soltanto come uno degli strumenti necessari per la costruzione della domiciliarità. Parlare di domiciliarità, allora, vuol dire pensare a strategie più complesse che riguardano la vita dell’anziano nella sua casa, nel suo quartiere, nella città in grado di collegare la scelta di “stare in casa propria” alla possibilità di essere inseriti in un contesto di vita riconosciuto come luogo di appartenenza più vasto del perimetro del proprio appartamento, entro cui si possa contare su un minimo di legami sociali e di sicurezza dell’abitare. Sono anche necessari programmi a sostegno della diffusione di nuove tecnologie quali il tele-soccorso, la tele-assistenza, e la tele-medicina che raggiungono gli anziani al proprio domicilio e che sembrano rappresentare oggi anche una risposta all’emergenza “anziani soli”. Domiciliarità è allora un «processo di aiuto a domicilio» che necessita per la sua realizzazione della disponibilità di molti soggetti: anziani, famiglie, operatori dei servizi, vicini, volontari, membri della comunità locale ecc. Esso implica pertanto la costruzione di una rete di supporto sociale in sinergia tra servizi sociali, sanitari e reti di solidarietà. Il domicilio è inoltre inteso, non come “contenitore” e limite, ma nei termini più ampi di casa “aperta”, casa delle relazioni sociali e dell’esperienza, contesto “dotato di senso” per la persona perché rappresenta la sua storia, la sua cultura, i suoi affetti, le sue abitudini. La rete integrata di servizi rappresenta la risposta concreta in termini di azioni e interventi ai bisogni degli anziani, soprattutto per coloro che hanno problemi di non autosufficienza, e ha tra i suoi elementi caratterizzanti: • L’accesso. In generale, grande cura è data all’informazione che consente al cittadino-utente (l’anziano e/o la sua famiglia) l’accesso ai servizi. Le Regioni hanno pertanto dedicato a questo delicato e fondamentale aspetto particolare attenzione, predisponendo ad hoc uffici/sportelli/servizi con compiti informativi e di indirizzo. Le Regioni inoltre, devono rendere operative sul territorio le politiche sociali, programmando interventi integrati con quelli sanitari . • La personalizzazione dell’intervento e l’assistenza sanitaria adeguata. L’operatore che prende in carico complessivamente l’anziano sottopone il suo caso all’esame dell’Unità di valutazione generica (UVG), già così definita dal Progetto-obiettivo anziani. Si tratta di una équipe multidimensionale formata da medico geriatra, infermiere professionale o assistente sanitario, 63 assistente sociale. Può essere territoriale (UVGT) o ospedaliera (UVGO). L’UVG si raccorda anche con il medico di famiglia e con l’assistente sociale che prende in carico l’anziano (il responsabile del caso). I compiti dell’UGV sono: − Stabilire in grado di non autosufficienza dell’anziano; − Stabilire di quali servizi (domiciliari, o residenziali, o una composizione di essi) l’anziano ha bisogno; − Definire, sulla base di schede e valutazioni omogenee, il programma assistenziale personalizzato. Tale programma trova poi una sua concreta attuazione nel Piano assistenziale individualizzato (PAI) che rappresenta lo strumento di lavoro per l’assistenza all’anziano e che consente di pianificare l’intervento. • I servizi. I servizi che costituiscono la rete sono molteplici. In particolare, di seguitosi danno definizioni di quei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari, distinguendoli fra domiciliari, semiresidenziali, residenziali. In questo senso l’unita’ di base fondamentale risulta essere il Comune, organo amministrativo che gestisce e coordina le iniziative per realizzare il “ sistema locale della rete di servizi sociali”. I Comuni infatti, devono coinvolgere e cooperare con le strutture sanitarie, con gli altri enti locali e con le associazioni dei cittadini. Le azioni, gli obiettivi e le priorità degli interventi comunali sono definiti dai Piani di Zona. I Comuni devono anche realizzare e adottare la Carta dei servizi sociali che illustra le opportunità sociali disponibili e le modalità per accedervi. L’orientamento condiviso degli attori delle politiche sociali è quello di considerare il ricovero in struttura come ultima ratio cercando di far rimanere il più possibile l’anziano nel proprio domicilio. Per questo obiettivo i servizi pubblici devono collaborare con la famiglia dell’anziano, le associazioni di volontariato, le cooperative sociali, il vicinato, la comunità locale, in ciò promuovendo una cultura della domiciliarità. Il ruolo degli operatori (pubblici e privati) è quello di cercare di “mettere in rete” e coordinare il più possibile queste differenti risorse per attenuare il rischio di un inasprirsi del disagio e della solitudine degli anziani. 64 IL LINGUAGGIO E LE EMOZIONI COME FUNZIONI COGNITIVE Il linguaggio umano, formidabile strumento di comunicazione e polimorfo supporto del pensiero, rappresenta una complessa funzione cognitiva che ha come substrato l’attività integrata di numerosissimi circuiti neuronali cerebrali. Le funzioni cognitive costituiscono le cosiddette funzioni nervose superiori, in quanto elaborano informazioni che sono a loro volta il prodotto di processazioni più elementari delle interazioni tra sistema nervoso ed ambiente: ad es., nel caso dei fenomeni linguistici, l’elaborazione cognitiva di una parola (letta o ascoltata) comporta l’interpretazione del suo significato sulla base della sua corretta acquisizione sensoriale (visiva o uditiva). Invero, il linguaggio rappresenta una funzione cognitiva composita, più complessa di altre che ne costituiscono come i presupposti (ad es. l’attenzione e la memoria): è per questo motivo che solitamente ci si riferisce alle capacità linguistiche (fasiche) in termini di funzioni cognitive “secondarie” che, per l’appunto, si basano su altre funzioni cognitive più semplici, dette “primarie”. Pertanto è nella rete (network) cognitiva, cioè nell’interazione dinamica di numerose funzioni cognitive di diverso livello e complessità, che si ritrova il substrato anatomo-funzionale del linguaggio. In caso di danno cerebrale acquisito - a seguito cioè di accidenti cerebrovascolari (ischemici o emorragici), eventi traumatici cranio-encefalici, tumori cerebrali o malattie neurodegenerative (demenze) – con interessamento delle cosiddette aree linguistiche si produce tutta una serie di sintomi e segni clinici che costituiscono le sindromi afasiche: il termine “afasia”, dunque, fa riferimento alla compromissione linguistica che si verifica in un adulto (un individuo che abbia quindi già completamente acquisito il linguaggio) a causa di una o più lesioni encefaliche localizzate in sedi anatomiche coinvolte nell’elaborazione linguistica. Negli anni si sono avvicendate teorie più o meno esaustive sul funzionamento del cervello, in condizioni di normalità o di patologia, relativamente ai fenomeni linguistici, basate su approcci concettuali di diverso tipo e supportate da evidenze sperimentali di varia natura, impiegando sempre più metodiche d’indagine molto sofisticate quali le tecniche neuroeidologiche (di neuroimaging) “in vivo” come la tomografia ad emissioni di positroni (Positron Emission Tomography, PET) o la risonanza magnetica funzionale (functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI). Certamente il punto di vista neurolinguistico è quello che più di tutti interessa il neurologo, proprio per l’assunto di fondo che non possa esistere linguaggio umano in assenza di un cervello altrettanto umano! Le emozioni esercitano una forza incredibilmente potente sul comportamento umano. Le emozioni forti possono causare azioni che normalmente non si eseguirebbero. Ma che cosa sono esattamente 65 le emozioni? Che cosa scatena queste reazioni? Ho voluto riassumere in breve alcune delle principali teorie delle emozioni che sono state proposte dai ricercatori, filosofi e psicologi. Che cosa sono le emozioni? In psicologia, le emozioni sono spesso definite come uno stato complesso di sentimenti che si traducono in cambiamenti fisici e psicologici che influenzano il pensiero e il comportamento. L’emotività è associata a una serie di fenomeni psicologici tra cui il temperamento, la personalità , l’umore e la motivazione. Secondo l’autore David G. Meyers, l’emozione umana comporta “… l’eccitazione fisiologica, comportamenti espressivi, e l’esperienza cosciente.” Le teorie sulle emozioni Le principali teorie delle emozioni possono essere raggruppati in tre categorie principali: fisiologiche, neurologiche e cognitive. Teorie fisiologiche suggeriscono che le risposte all’interno del nostro corpo sono responsabili delle emozioni. Teorie neurologiche propongono che l’attività all’interno del cervello conduce a risposte emotive. Le teorie cognitive sostengono che i pensieri e le altre attività mentali hanno un ruolo essenziale nella formazione di emozioni. La teoria delle emozioni di James-Lange La teoria di James-Lange è uno degli esempi più noti di una teoria fisiologica delle emozioni. Lo psicologo William James e il fisiologo Carl Lange, indipendentemente l’uno dall’altro, proposero teorie analoghe sulle emozioni. Entrambi vollero sfidare quella che essi definivano la teoria del senso comune secondo cui quando a qualcuno viene chiesto “perché piangi?” replica: “Perché sono triste”. Questa risposta implica la convinzione che prima vengono le sensazioni, le quali, a loro volta, producono gli aspetti fisiologici ed espressivi delle emozioni. Secondo James e Lange, bisogna combattere la teoria del senso comune, dal momento che non piangiamo perché siamo tristi, ma ci 66 sentiamo tristi perché piangiamo; non tremiamo perché siamo spaventati, ma proviamo paura perché stiamo tremando. Il cuore non batte più in fretta perché siamo arrabbiati, ma siamo in collera perché il cuore batte più in fretta. La reazione emotiva dipende da come vengono interpretate le reazioni fisiche. La teoria delle emozioni di Cannon-Bard Walter Cannon nel 1927, pubblicò una critica alla teoria James-Lange che convinse molti psicologi che era una teoria insostenibile. Cannon, fece rilevare che le ricerche non avevano affatto dimostrato che le emozioni sono accompagnate da un unico evento fisiologico. Lo stesso stato generale di attivazione del sistema nervoso simpatico è presente, in molte e differenti emozioni. Ad esempio, gli stati viscerali che accompagnano la paura e la rabbia sono esattamente gli stessi che sono associati alle sensazioni di freddo e alla febbre. Non sembra, dunque, possibile che le modificazioni fisiologiche negli organi viscerali provochino emozioni riconoscibilmente differenziate. Questa ipotesi venne in seguito elaborata da Philip Bard (1929), secondo la quale è il talamo a svolgere un ruolo critico nell’esperienza emotiva. Per Cannon e Bard (teoria di Cannon — Bard), gli impulsi nervosi che fanno passare le informazioni sensoriali vengono poi ritrasmessi attraverso il talamo. Ricevendo questo input verso l’alto della corteccia (provocando un’esperienza emotiva soggettiva) e verso il basso ai muscoli, alle ghiandole e agli organi viscerali (producendo delle modificazioni fisiologiche). La teoria delle emozioni di Schachter-Singer Conosciuto anche come la teoria a due fattori di emozione, la Teoria Schachter-Singer è un esempio di teoria cognitiva delle emozioni. Questa teoria suggerisce che l’eccitazione fisiologica si verifica prima, e poi l’individuo deve identificare il motivo di questa eccitazione per sperimentare ed etichettarlo come emozione. 67 Vengono prima i processi cognitivi o quelli emozionali? In questi ultimi anni sono state avanzate due teorie sulle normali esperienze emotive, teorie che dedicano un’attenzione relativamente scarsa al ruolo delle modificazioni biologiche e dell’attivazione fisiologica. La controversia è attualmente centrata su che cosa venga prima, se la valutazione cognitiva o le sensazioni soggettive. Quali sono le emozioni principali? Esistono due tipi di emozioni: le emozioni fondamentali e le emozioni complesse. Le fondamentali sono dette anche emozioni primarie poiché si manifestano nei periodi iniziali della vita umana e ci accomunano a molte altre specie animali. Il neonato evidenzia tre emozioni fondamentali che vengono definite “innate”: paura, amore, ira. Entro i primi cinque anni di vita manifesta altre emozioni fondamentali quali vergogna, ansia, gelosia, invidia. Le 8 emozioni primarie sono: Rabbia: generata dalla frustrazione e si può manifestare attraverso l’aggressività. Paura: è un’emozione dominata dall’istinto, ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una situazione pericolosa Tristezza: si origina a seguito di una perdita o da uno scopo non raggiunto Gioia: è un’emozione positiva di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri Sorpresa: si origina da un evento inaspettato, seguito da paura o gioia Attesa Disgusto: risposta repulsiva caratterizzata da un’espressione facciale specifica Accettazione 68 Le emozioni complesse (secondarie) sono la combinazione delle primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e l’interazione sociale: l’invidia, l’allegria, la vergogna, l’ansia, la rassegnazione, la gelosia, la speranza, il perdono, l’offesa, la nostalgia, il rimorso, la delusione. LA PSICOMOTRICITA’ La psicomotricità è una disciplina che prende in considerazione l’uomo nella sua globalità ed il suo obiettivo principale può essere identificato nel consentire un’integrazione armonica degli aspetti motori, funzionali, affettivi, relazionali e cognitivi. Nata all’interno dell’ambito medico (neuropsichiatrico), la psicomotricità affida un ruolo preminente al corpo, al movimento e all’azione considerati gli elementi fondamentali per apprendere e operare sulla realtà ed in relazione costante e significativa con l’ambiente. In particolare, valorizza il corpo in movimento, con le sue specifiche modalità d’espressione ed il suo linguaggio. Attraverso esso, il suo agire e il suo relazionarsi, l’individuo esprime la propria identità, i suoi bisogni e le sue difficoltà. Il corpo in psicomotricità è inteso, dunque, come soggetto di azione e di relazione con il mondo e, per questo, è importante favorire la sua espressione canalizzando in modo consapevole e mirato le risorse e gli stimoli spontanei dell’individuo nel corso del suo sviluppo evolutivo. Tale sviluppo è unitario, essendovi una stretta relazione fra motricità e intelligenza e fra azione e pensiero: è con il corpo e le sue realizzazioni motorie che l’individuo struttura il suo Io e acquisisce la sua autonomia; ed è sempre attraverso il corpo che soprattutto il bambino, ma anche l’adulto, esprime i propri desideri e bisogni. La stretta relazione fra corpo e mente, valida soprattutto nel bambino, ma non solo, chiarisce come sia proprio attraverso l’agire corporeo, con tutte le sue modalità espressive e comunicative non verbali, che i soggetti pensano, imparano, creano e si relazionano. Ecco che la psicomotricità riguarda l’uomo nella sua totalità, nel suo rapporto con se stesso e con l’ambiente. Per questi motivi, essa si applica sia a livello individuale che di gruppo e in qualsiasi stadio: età evolutiva, età adulta, anziano. L’intervento psicomotorio si presenta come un mezzo per favorire e migliorare le risorse dell’individuo, le sue potenzialità e per creare un’armonia ed una presa di consapevolezza delle capacità, oltre che dei limiti di ciascun soggetto. La presa in carico psicomotoria mira a mobilizzare e potenziare ogni possibile risorsa della persona e del suo contesto, oltre che intervenire sul sintomo, sul disagio o sul deficit nel rapporto con l’individuo, gli oggetti e gli altri. Altro ambito di applicazione della psicomotricità è quello preventivo-educativo che si realizza soprattutto in gruppo. In questo caso, l’obiettivo è quello di prevenire o di evidenziare eventuali problematiche 69 latenti o a rischio e di favorire, attraverso il lavoro nel gruppo, lo sviluppo del soggetto nella sua totalità e interdipendenza fra agire, pensare, comunicare, sentire, percepire. L’intervento psicomotorio, a qualunque livello appartenga, va dunque interpretato secondo il parametro della qualità, del benessere, del miglioramento conseguito globalmente dall’individuo, dove il movimento agevola anche la comunicazione e la relazione con l’ambiente che lo circonda. Ecco che, dunque, l’intervento potrà mirare ad integrare tra loro diverse componenti: La componente dell'organizzazione dell'attività motoria che si sviluppa nel bambino secondo tappe predeterminate (il tono muscolare, l’equilibrio, la coordinazione dei movimenti ), che si evolve nel corso dell’infanzia fino a stabilizzarsi alla soglia dell’adolescenza e che va gradualmente a deteriorarsi con l’avanzare dell’età e a determinare alcune disabilità quali, ad esempio, goffaggine, difficoltà nel mantenimento dell’equilibrio o nella lateralizzazione. La componente emotiva che si manifesta nell’espressione corporea della persona, nel proprio vissuto corporeo, che si esterna nel linguaggio non verbale (stato tonico, tipo di postura, di gestualità, autopresentazione, ossia il modo di atteggiarsi) e che comprende i fattori determinanti della modalità di comunicazione sociale di ciascun individuo. I problemi relativi a questa sfera riguardano, ad esempio, l’inibizione psicomotoria, alcune forme di maldestrezze, l’alterazione della percezione del proprio corpo, stati di tensione, depressione… La componente cognitiva. Questa componente entra in gioco quando il movimento richiede una programmazione intenzionale dell’ordine della sequenza di singoli movimenti da compiere in funzione di uno scopo fissato in partenza e del loro controllo cosciente durante la loro esecuzione. Si tratta di un insieme di azioni definite prassie. Le difficoltà prassiche si possono manifestare nella pianificazione di un’azione o sequenza motoria, nella riproduzione di modelli (imitazione) o anche nell’esecuzione delle attività manuali del quotidiano (vestirsi, cucinare,…). L’intervento psicomotorio permette, pertanto, di intervenire, migliorare e potenziare un’ampia gamma abilità e competenze quali la respirazione, l’equilibrio, la percezione del proprio corpo, la lateralizzazione. Parallelamente alle ricerche neuropsichiatriche, fino ai giorni nostri si sono creati diversi metodi educativi e terapeutico - riabilitativi rivolti sia al bambino che all’adulto. Le tecniche maggiormente in uso vanno dalla ginnastica a corpo libero e con attrezzi, la ritmica, alcune forme di rilassamento e di massaggio, il dialogo tonico, il gioco motorio e il gioco simbolico, l’espressione corporea e la drammatizzazione, l’espressione grafica, agli esercizi di percezione del corpo, di percezione spaziale e di organizzazione delle azioni finalizzate 70 LA SOLITUDINE E L’EMARGINAZIONE La vita personale del vecchio è troppo spesso ridotta a poche, minime attività prive di contenuto sociale, la cui validità non è ratificata per di più dalla fascia più ampia dei giovani e degli adulti socialmente attivi. Questo dono del tempo libero che la società elargisce all'anziano fuori ruolo, questa età del riposo assoluto o, come si usa dire, della meritata quiescenza, non è altro, a nostro parere, che una sorta di pietosa ipocrisia, liberatrice forse dal senso di colpa di cui la coscienza collettiva soffre per l'espulsione coatta dell'individuo dal campo del lavoro e, quindi, dalla vita attiva. Il tempo libero offerto al vecchio, come abbiamo già osservato, è un tempo di forzata inattività nella grande maggioranza dei casi, ragione frequente di emarginazione sociale e di solitudine. Un connotato comune della condizione senile è, infatti, proprio la solitudine che fatalmente, direi, consegue a tutta una serie di eventi che vanno dalla vedovanza alla cessazione dell'attività lavorativa, dalla perdita progressiva dell'autonomia alla lontananza dei figli, che, come sappiamo, può essere geografica o anche semplicemente affettiva. La solitudine del vecchio non si identifica, comunque, con la condizione o lo stato di chi vive da solo o appartato. Per tale situazione è da preferire il termine isolamento che indica meglio la condizione di chi, spontaneamente o costretto da cause esterne, vive isolato, appartato dagli altri, ma non è necessariamente privo di affetti o amicizie, di appoggi, di persone che l'aiutino o l'assistano. Quando del resto la vita in isolamento si compie, tanto per fare un esempio, per scelta personale e volontaria, come nel caso paradigmatico dell'anacoreta, non si può certo parlare di solitudine nel senso negativo che attribuiamo a questo termine nel nostro discorso. Allo stesso modo non è appropriato usare tale espressione nel caso non frequente di persone anziane che vivano da sole per loro elezione, ma conservando volontà e capacità di mantenere vivi i loro rapporti interpersonali ed il calore degli affetti. Solitudine vuol dire sentirsi soli e questo accade a chi vive isolato ed appartato, non per scelta propria, ma per condizione imposta dagli organismi sociali, economici e culturali del proprio complesso antropologico. In questo senso possono soffrire di solitudine, sentirsi soli, anche i vecchi che, pur vivendo in famiglia o in qualche comunità di tipo assistenziale, sono comunque ricusati dall'ambiente o non più approvati dalla collettività. Non deve stupire che una tale situazione si verifichi anche in famiglia e non soltanto, come sembrerebbe più prevedibile, negli ospizi, nelle case di riposo o nelle varie strutture protette. La solitudine, infatti, non risparmia nemmeno gli anziani che, pur inseriti in nuclei familiari numerosi, esperimentano paradossalmente l'isolamento affettivo e l'emarginazione quando la convivenza con i congiunti crea problemi e frustrazioni reciproche. Dalla parte del vecchio c'è, infatti, un bisogno continuo e pressante di affetto ed una 71 costante esigenza di comunicazione che non trovano sempre corrispondenza nei membri giovani e adulti della famiglia. Nella maggioranza dei casi figli e nipoti non sono in grado di dare una risposta completa ai bisogni esistenziali del loro congiunto che finisce per sentirsi un estraneo e quasi un intruso nel contesto affettivo familiare. La conclusione di questo breve discorso potrebbe essere che una risposta ai problemi dell'anziano non può cercarsi soltanto nell'organismo familiare che, nella società odierna, non ha più le caratteristiche né i presupposti perché il vecchio possa ancora estrinsecarvi la sua personalità e soddisfare in esso le proprie esigenze di vita, di relazioni interpersonali, di partecipazione. È indispensabile e urgente, come abbiamo più volte rilevato, un vasto piano geragogico che si proponga di educare la società in generale, oltre che l'individuo e la famiglia, allo scopo di favorire la caduta di tutti quei pregiudizi che hanno relegato l'anziano nel limbo dell'incomprensione e della solitudine. LA CREATIVITA’ IN ETA’ SENILE Creatività: le capacità creative rappresentano un aspetto fondamentale dello sviluppo intellettivo, determinando una scelta innovativa delle migliori modalità possibili fra quelle che assicurano un buon adattamento all’ambiente. La creatività è un processo che si svolge nel tempo ed è determinato dall’originalità, dallo spirito di adattamento e dalla possibilità di realizzare concretamente un’idea. Essa è caratterizzata dal pensiero produttivo che integra il pensiero logico con le proprie potenzialità dinamiche. «Creatività significa aver portato a termine la propria nascita prima di morire (...) educare alla creatività significa educare alla vita», sosteneva Erich Fromm, il quale rimarcava il rapporto fra creatività e sentimento di sicurezza. Emotività e motivazioni influenzano lo sviluppo, le caratteristiche e le espressioni del processo creativo. La dimensione creativa necessita di essere coltivata e spesso sa conservare la propria forza vitale e propulsiva al cambiamento, le proprie energie di rinnovamento e può protrarsi anche per lunghi anni. La creatività non solo non si esaurisce con l’età, ma può trovare ulteriori motivi di arricchimento. Vengono talvolta a mancare le opportunità ambientali e culturali per una reale evoluzione del processo creativo, orientato alla realizzazione di sé e non disgiunto dal mondo degli affetti, della sensibilità e dei significati. Antonini e Magnolfi (1991) hanno raccolto in un volume “L’età dei capolavori”, innumerevoli esempi di illustri personaggi che in età avanzata hanno saputo realizzare importanti opere, lavori e 72 progetti di elevato valore nella letteratura, nella pittura, nella scultura, nell’architettura, nella musica, nel teatro. L’espressione creativa in età senile può influenzare la qualità della vita, sollecitare nuovi interessi e impegni, suggerire nuovi sviluppi di senso alla quotidianità e all’immediato futuro, contribuire all’adempimento di percorsi e progetti individuali. In peculiari situazioni che richiedono un recupero di motivazioni, il risveglio dell’attenzione e della consapevolezza di sé, la predisposizione di un programma riabilitativo comprende la facilitazione allo sviluppo della dimensione creativa e può aiutare meglio il ripristino delle funzionalità. Lo svolgimento di un’attività creativa è un elemento complesso dell’attività intellettiva che attua un ruolo fondamentale nei processi di adattamento all’ambiente ed è presente, seppure con caratteristiche diverse, in ogni fascia di età. Scrive George Minois: «L’età permette spesso di elevarsi al di sopra delle convenzioni di ogni specie a cui l’adulto deve sottomettersi per fare carriera; libero da queste costrizioni, il vecchio può espandere la propria creatività, il che permette a taluni di rivelare il loro genio a settanta o a ottant’anni». Durante la senescenza la presenza della creatività è un importante correlato predittivo al realizzarsi di una vecchiaia serena. L’attività creativa non è solo compatibile con livelli avanzati di età cronologica, ma in molti casi si sviluppa completamente quando l’anziano riorganizza le proprie modalità di relazione con l’ambiente dopo la crisi di disadattamento sopraggiunta con il pensionamento. La dimensione creativa permette all’anziano di continuare ad immaginare, ad essere curioso, a comprendere la complessità e l’intreccio degli elementi che compongono l’esistenza quotidiana, a essere disponibile ad assumere rischi accettando la sfida del continuare a vivere. L’anziano è ancora in grado di apprendere, attraverso l’esperienza diretta, strategie che si propongono di potenziare la creatività, l’indipendenza di giudizio e di finalizzare l’acquisizione per una crescita interiore. I fattori che nel corso dell’invecchiamento orientano verso la creatività risultano connessi alla struttura personale di ogni individuo, e soprattutto al suo modo di reagire alle difficoltà che incontra, alla sua capacità di accettare le trasformazioni che compaiono in rapporto alla senescenza, al suo equilibrio emotivo, al suo grado di ottimismo o pessimismo. La creatività in età senile può influenzare la qualità della vita, sollecitare nuovi interessi e impegni, suggerire nuovi sviluppi alla quotidianità ed all’immediato futuro, contribuire all’adempimento di percorsi e progetti individuali. La vecchiaia può costituire un rimedio alla creatività dimenticata o sopita e può apportare energie, esperienze, ispirazioni e forza ai processi della fantasia e 73 dell’espressione creativa. Esistono una vita ed un invecchiamento per ogni persona. Esiste una creatività per ogni individuo e ciascuno riflette l’immagine acquisita del proprio percorso creativo. In età senile il pensiero creativo può non solo conservare, ma anche incrementare ed arricchire le capacità esplorative, il desiderio di conoscenza, la concezione di sé e del proprio destino. La creatività è pertanto una prerogativa presente in tutte le persone che invecchiano e non soltanto nei grandi artisti; è la qualità che meglio consente alla persona anziana di continuare ad esprimersi, di conservare, tutelare e consolidare la propria dignità. Numerosi sono gli artisti che durante l’età senile hanno prodotto alcune fra le loro opere migliori. La longevità creativa è presente trasversalmente in tutte le forme artistiche. Rembrandt, Goya, Monet e Picasso riuscirono proprio in età senile a inventare un linguaggio pittorico completamente nuovo. Michelangelo lavorò alla Pietà. Rondanini fino a pochi giorni prima di morire, a 89 anni, quando ristrutturò il gruppo marmoreo riscolpendo la testa del Cristo nel ventre di Maria. Donatello ottantenne realizzò i pannelli bronzei di S. Lorenzo, considerati i suoi capolavori. Goethe presentò l’ultima versione del Faust a 80 anni e Voltaire quella di Irene a 84, l’anno della sua morte; Alessandro Manzoni nell’ultimo periodo della sua vita continuò dopo un cinquantennio a lavorare all’opera “Della Lingua Italiana” ed elaborò un saggio storico sulla rivoluzione francese del 1789 e italiana del 1859. La senescenza del musicista può comportare l’evolvere verso una liberazione creativa, in funzione del suo progressivo distaccarsi dalle rigide regole imparate e rispettate durante gli anni di formazione. Tra i direttori d’orchestra troviamo esempi significativi di un invecchiamento efficiente e in larga parte innovativo: si pensi a Rubinstein, Toscanini, Von Karajan, Richter e Arrau. È significativo rilevare come sia possibile suonare una Polacca di Chopin a 85 anni senza nessuna perdita di destrezza. E ciò documenta la fondamentale importanza, oltre che dell’esercizio mentale, anche dell’esercizio fisico per il mantenimento di abilità di tipo fine, che decadono quando non vengono stimolate di continuo. Le Corbusier, poco prima di morire a 78 anni ha presentato a Venezia il progetto di un nuovo Ospedale e Frank Lloyd Wright, a 91 anni, pubblicava “The living City”. I registi hanno spesso presentato carriere molto prolungate, per oltre 50 anni. Ricordiamo fra gli altri Charlie Chaplin, Kurosawa, Hitchcok, Bresson, Huston e de Oliveira, ancora pienamente attivo a 94 anni. Ardito Desio, geologo, famoso per la scoperta del petrolio nel Sahara e per l’organizzazione di prestigiose spedizioni alpinistiche è rimasto mentalmente valido sino all’ultimo, a 104 anni. Gabriele Mucchi, ingegnere, scrittore, pittore del movimento di Corrente, impegnato sino alla morte, avvenuta a 103 74 anni, ha presentato in una mostra a Milano, allestita in occasione del suo centesimo compleanno, alcune interessanti opere recenti. Ma anche di personaggi meno famosi rimangono contributi significativi. Battista Solero, uno scalpellino della Val di Stura, dopo il pensionamento si è scoperto artista modellando le pietre del fiume. La creatività, come detto, non riguarda solo i grandi artisti. Essa è potenzialmente presente in ogni persona, in ogni anziano che riesce a trovare la forma più adeguata di espressione, inattività culturali come la scrittura, la pittura, la scultura, la musica, ma anche artigianali, come il costruire un oggetto e coltivare un fiore, domestiche, come inventare un piatto o allevare un animale, relazionali, come organizzare una festa, un viaggio, interagire con i coetanei o con i più giovani, fotografiche o cinematografiche, fisiche e sportive. Da segnalare in questo senso le possibilità offerte ad entrambi dal rapporto vecchio-bambino: un rapporto intergenerazionale nel quale il vecchio integra nella narrazione i ricordi della propria vita e l’elaborazione di una fantasia ricomparsa dopo anni di obsolescenza, il bambino esprime la sua personale creatività a un interlocutore disponibile ad apprezzarla. L’ADATTAMENTO ED IL BENESSERE IN ETA’ SENILE La psicologia ha da sempre privilegiato ciò che è in evoluzione, come l’infanzia e l’adolescenza, ma negli ultimi decenni essa ha cominciato ad interessarsi al mondo degli anziani partendo dai dati demografici che evidenziano l’avanzamento della vita media della popolazione. Ogni indagine demografica connota una vera e propria rivoluzione, che ha ed avrà in futuro un grosso impatto e che rimette in discussione la struttura economica, l’organizzazione sociale ed il sistema di relazioni interpersonali e tra le generazioni. Per quanto riguarda gli aspetti psicologici dell’età senile, esistono delle rilevanti differenze tra gli individui che devono essere ben conosciute, per un approccio culturale più aperto e per degli studi approfonditi sull’idea di invecchiamento. Le capacità intellettuali subiscono un’involuzione quando la creatività e l’operatività sono meno brillanti che nelle età precedenti, malgrado i numerosi esempi della gente comune o di poeti, scrittori, scienziati che continuano a lavorare e a produrre anche in età avanzata. Anche in questi casi risalta un evidente rallentamento delle attività intellettive con la diminuzione della memoria, dell’attenzione e con una rigidità psichica che impedisce l’adattamento ad ogni cambiamento sociale. Secondo lo psicoanalista Carl Gustav Jung, negli anni della vecchiaia gli individui tendono a spostare la propria attenzione dal mondo esterno a se stessi, sarebbero meno dipendenti dall’influenza esercitata dagli altri e, in generale, tenderebbero a essere più introversi. La 75 posizione di Jung non è però condivisa da tutti gli psicologi, soprattutto da chi sostiene la costanza della personalità nel tempo. La posizione di diversi psicologi è che vi sia una serie di fattori che non si modificano con l’età, quelli connessi con l’adattamento e con la tendenza ad orientarsi verso una meta. Questi fattori, che vengono in genere definiti di “adattamento sociale”, appartengono allo stile comportamentale dei diversi individui e dimostrano appunto una certa costanza attraverso gli anni, in particolare nella maturità e nella vecchiaia. Questi stili di vita rimangono inalterati nonostante i cambiamenti di ruolo e status sociale (come, ad esempio, il pensionamento). Per altri psicologi è vero che alcuni contenuti della personalità possono essere stabili, ovvero quelli connessi a fattori di “adattamento sociale”, ma vi sono anche tratti che si evolvono: in parole povere, l’energia con cui ci si impegna in una serie di azioni proiettate verso l’esterno declinerebbe con l’età. Perciò, le persone anziane tenderebbero a rispondere maggiormente agli stimoli interni che a quelli esterni, a ritrarsi dalle situazioni che implicano una compartecipazione e un investimento emotivo, a evitare i rischi e le sfide piuttosto che a ricercarle. Attualmente però la maggioranza degli psicologi e dei sociologi ritiene che oggi la condizione dell’anziano (dai 60 anni in poi) almeno nei paesi sviluppati, sia cambiata. La vita media si è allungata, il numero degli anziani è sensibilmente aumentato (gli ultra 60enni in Italia sono il 26,2% della popolazione) e il loro “peso” sociale è più rilevante di prima. Infatti numerose ricerche dimostrano che oggi vi sono molte persone anziane che hanno livelli di aspirazione simili a quelle di persone più giovani e che reagiscono in maniera analoga ad altre età alle frustrazioni e agli insuccessi. Questa impostazione non ha soltanto un significato teorico, ma riveste anche una notevole importanza sociale nell’individuare il modo migliore in cui l’anziano dovrebbe affrontare e vivere la propria condizione, e cioè se sia auspicabile che con l’età si abbia un progressivo disimpegno o se sia più vantaggioso un impegno attivo sia a livello individuale che sociale. Perciò secondo i sociologi e gli psicologi oggi, nei paesi più avanzati, è necessario non solo che l’anziano prevenga le malattie degenerative, ma che mantenga vivi anche gli interessi, in specie culturali. È quindi fondamentale tenere viva la mente e continuare ad aggiornare i propri schemi mentali facendo, per quanto è possibile, nuove esperienze. Anche se nutriamo il cervello nel modo migliore, evitiamo gli eccessi legati all’alcol o al fumo, lo proteggiamo dai danni vascolari o tumorali, la mente si nutre prevalentemente di stimoli, mantiene la sua forma sulla base delle esperienze quotidiane. I geni stabiliscono un quadro di riferimento sulla cui base si struttura il sistema nervoso, ma è l’ambiente a stimolare la plasticità del cervello, a dare forma ai suoi circuiti, a rinnovarne la 76 struttura e la funzione, persino in quelle età in cui riteniamo, sulla base di luoghi comuni, che la mente abbia perduto ogni sua capacità di modificarsi. L’AFFETTIVITA’ L’invecchiamento implica cambiamenti affettivi di natura sia qualitativa che quantitativa, ma non comporta necessariamente un impoverimento sul piano emozionale: talvolta è proprio nell’età senile che si osserva un arricchimento delle qualità delle relazioni affettive. La vicinanza della morte tende a modificare il senso del tempo, e prevale anche nell’affettività il vivere al presente. Il diventare vecchi pone sicuramente nuovi vincoli, ma apre anche altre possibilità, e sono proprio le nuove limitazioni o le perdite affettive a stimolare nuove forme di abilità e di sviluppo. I fattori affettivi esercitano un’indubbia influenza sulle capacità di adattamento e sul processo di invecchiamento. La necessità di amare e sentirsi amati trascende l’età. Le ricerche testimoniano il desiderio e l’auspicio degli anziani di essere circondati dagli affetti e di nutrirsi di relazioni positive. La serenità emotiva facilita l’accesso alla ponderazione, al pensiero prospettico e alla fantasia. Spesso un declino affettivo coinvolge altre funzioni psichiche. La depressione rappresenta la sofferenza psicologica più frequente in vecchiaia, conseguente ai maggiori rischi di perdite intercorrenti che possono accumularsi ed accelerare l’evoluzione negativa di una situazione affettiva già precaria. Molte persone anziane appaiono più vulnerabili agli “stress” emotivi e le difese funzionanti per un intera vita sembrano a volte indebolirsi, disperdersi; il vecchio si sente più fragile, disarmato dagli eventi e non più libero di decidere. Anche quando sembra disintegrarsi la personalità, l’affettività rimane, ultimo baluardo di una vita, congiunzione di segmenti di storia. Nell’anziano demente si è persa l’architettura cognitiva, ma permangono la comunicazione e la risonanza emotiva attraverso modalità informative che necessitano di attenzione e sensibilità professionale. La dimensione affettiva dispone verso lo sviluppo creativo, raccoglie l’esperienza e contribuisce a disegnare la storia individuale, dall’inizio alla fine. Talvolta procedure di riattivazione e riabilitazione delle risorse emozionali possono consentire anche un recupero o un mantenimento di peculiari funzioni cognitive e volitive. In situazioni di particolare sofferenza e declino, il vecchio può ritrovare motivi di serenità e interesse da atteggiamenti di valorizzazione, riconoscimento, stima e fiducia e dalla compartecipazione a un eventuale programma terapeutico. 77 La qualità affettiva delle esperienze e la densità dei significati costituiscono spesso la trama, molte volte nascosta, di percorsi e profili esistenziali. LA VALUTAZIONE MULTIDIMENSIONALE GERIATRICA Che cos'è una Valutazione multidimensionale dell'anziano? Nel 2008 il problema dell’assistenza agli anziani si fa più pressante, essendo ormai la nostra società composta da anziani; l’anziano vive da solo, spesso con una badante, ma molteplici sono le sue esigenze di salute e di assistenza. Si tratta di un processo di tipo dinamico e interdisciplinare volto a identificare e descrivere, o predire, la natura e l’entità dei problemi di salute di natura fisica, psichica e funzionale di una persona non autosufficiente, e a caratterizzare le sue risorse e potenzialità. Questo approccio diagnostico globale, attraverso l’utilizzo di scale e strumenti validati, consente di individuare un piano di intervento sociosanitario coordinato e mirato al singolo individuo. Schematicamente, le aree tematiche fondamentali, o ‘dimensioni’, che configurano la natura multipla della valutazione, sono rappresentate da: -salute fisica, -stato cognitivo (o salute mentale), - stato funzionale, -condizione economica e condizione sociale. La valutazione, che concretamente si effettua sulla base della compilazione, cartacea o informatizzata, di liste di quesiti (o item), si avvale dell’uso di cosiddette ‘scale’ di natura monodimensionale, ciascuna delle quali cioé approfondisce una singola area o una specifica articolazione di essa (piuttosto conosciute in ambito medico sono le scale ADL – Activities of Daily Living – e le scale IADL – Instrumental Activities of Daily Living, con i loro vari indici), o di ‘strumenti’ multidimensionali veri e propri, pensati per caratterizzare il soggetto nelle diverse aree di interesse: questi ultimi possono evidentemente contenere all’interno scale monodimensionali. Gli strumenti attualmente disponibili, descritti nel riquadro in basso, si differenziano in effetti per finalità, impostazione e capacità descrittiva. In sostanza, tale valutazione consente di apprezzare l'autosufficienza e le condizioni di salute globali dell'anziano o anche del bambino, se egli necessiti o meno di assistenza, stante le scarse risorse disponibili. Allo scopo esistono diversi sistemi d i valutazione che si attuano tramite un questionario: La regione Veneto per esempio utilizza una 78 complessa scheda, detta “S.VA.M.A.”, ossia la “Scheda per la Valutazione Multidimensionale dell'Anziano". Essa analizza tutti gli aspetti della vita dell'anziano preso in carico, per quanto concerne la salute, con riferimento ai vari organi ed apparati, ma soprattutto il suo grado di autosufficienza, i rapporti sociali, la situazione economica, che oggi col dimezzamento “eurale” della pensione rappresenta il problema principale nella vita dell’anziano. Così tutti si precipitano a chiedere l’invalidità civile e l’indennità di accompagnamento, senza tenere conto che spesso non è di loro spettanza. Allo scopo di chiarire le idee dei nostri navigatori, vi parleremo in breve di quali sono i concetti di base con cui viene effettuata la valutazione dai diversi componenti della Unità operativa distrettuale. Vengono qui riportate le parti di S.VA.M.A., che sono in tutto quattro. Si tratta di sezioni (o "schede") che valutano, ognuna, un certo aspetto della persona presa in carico. Ogni sezione si suddivide a sua volta in quattro pagine. Tutte le parti di S.VA.M.A. sono state replicate sulla base della scheda originale S.VA.M.A., accompagnandole con le istruzioni necessarie alla loro compilazione. Prospettive assistenziali, n. 99, luglio-settembre 1992 PRENDERSI CURA DELLE PERSONE ANZIANE ANCHE ALLA LUCE DEL PROGETTO-OBIETTIVO "TUTELA DELLA SALUTE DEGLI ANZIANI" In Italia si discute molto di anziani, o meglio, si discute di "residenze" per anziani. Da quando la legge finanziaria 1988 ha previsto la realizzazione di 140.000 posti per «anziani che non possono essere assistiti a domicilio» si discute soprattutto di "Residenze sanitarie assistenziali". Questo spostamento di interessi - dalle persone alle istituzioni - è espressivo di un atteggiamento ed ha delle conseguenze. Molti credono di poter risolvere il problema con risposte di tipo istituzionalizzanti, costruendo strutture dove confinare le persone dipendenti. Questa scelta è errata e va rigorosamente contestata. Scegliere prioritariamente per le residenze e solo successivamente per il domicilio è un errore grave. Si rischia infatti di spendere risorse per costruire strutture nuove, o per riadattare le vecchie, senza che ce ne sia effettivo bisogno. Se fossero garantiti i servizi domiciliari il numero di quelli che debbono comunque essere ricoverati sarebbe certamente inferiore. Realizzare solo, o prioritariamente le RSA vuol dire non risolvere il problema nella sua vera dimensione. II recente progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani" contiene, in questo senso, delle indicazioni decisamente positive. 79 Il progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani" In data 30 gennaio 1992 il Parlamento ha approvato una risoluzione che predispone l'avvio del progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani" che infatti prevede: 1. la priorità degli interventi domiciliari; 2. l'istituzione della Unità di valutazione geriatrica (UVG); 3. la creazione di Residenze sanitarie assistenziali (RSA). Le RSA nel progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani" Circa le Rsa, il progetto-obiettivo afferma: «La denominazione di residenza sanitaria assistenziale è stata preferita rispetto ad altre dizioni perché l'aggettivo "sanitaria" sottolinea che si tratta di una struttura propria del Servizio sanitario nazionale, a valenza sanitaria, .di tipo extra-ospedaliero (residenza), la cui gestione è finanziabile con il fondo sanitario nazionale e di cui le USL possono garantire direttamente la gestione; l'aggettivo "assistenziale" rimarca che la residenza ha anche una valenza socio-assistenziale inscindibilmente connessa alla valenza sanitaria, il che legittima l'impiego da parte del Servizio sanitario nazionale di figure professionali di tipo sociale, in assenza di assegnazione da parte degli enti locali, con l'assunzione degli oneri relativi, sia pure sotto l'obbligo di contabilizzazione separata». Le Unità valutative geriatriche nel progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani" Tenuto conto delle indicazioni del progetto-obiettivo si ritiene necessario che al più presto vengano istituite in tutte le USL le Unità valutative geriatriche con i seguenti compiti previsti dallo stesso progetto-obiettivo: a) «selezione degli anziani che hanno necessità di assistenza continuativa in regime di assistenza domiciliare integrata (ADI) o di Day Hospital riabilitativo o di strutture residenziali»; b) «programmazione e controllo di qualità dell'assistenza geriatrica nella rete integrata dei servizi». Secondo la risoluzione del Parlamento del 30.1.92 «all'inizio sarà indispensabile poter contare almeno su una équipe per ogni USL nel cui ambito operi un reparto di geriatria per creare esperienze formative per il personale». 80 Condizione indispensabile per la istituzione e gestione delle UVG l'appartenenza del servizio al comparto sanitario e non a quello assistenziale. Ne deriva pertanto che le UVG non possono essere istituite dalle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB) che, come è noto, non afferiscono al settore sanitario ma a quello della assistenza. Se assolutamente necessario, può essere ammesso temporaneamente l'utilizzo di operatori che lavorano presso le IPAB. Ciò dovrebbe essere disciplinato da una apposita convenzione stipulata dalla USL alla quale compete l'istituzione della UVG. Dagli istituti di ricovero (case di riposo, residenze protette, ecc.) alle RSA La risoluzione del Parlamento del 30 gennaio 1992 ed il progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani" stabiliscono che la RSA è «una struttura propria del Servizio sanitario nazionale». Pertanto occorre che le Regioni e le USL stabiliscano norme per: - l'istituzione del servizio di ospedalizzazione a domicilio. Ciò anche al fine di evitare che l'utenza debba ricorrere al ricovero a causa della mancanza di prestazioni fornite a casa, prestazioni più valide e meno costose per il Servizio sanitario nazionale. Il servizio di ospedalizzazione a domicilio potrebbe essere costituito da operatori (medici, infermieri, riabilitatori, ecc.) territoriali o ospedalieri, ovvero da équipes convenzionate garantendo in ogni caso come servizio, interventi per 10-12 ore al giorno, per 7 giorni settimanali. In tal modo, ospedalizzazione a domicilio e assistenza domiciliare integrata costituirebbero un insieme organico. Ciò determinerebbe anche un non indifferente risparmio di personale (soprattutto infermieri) e di denaro pubblico; - il passaggio dei compiti di istituzione e di gestione delle strutture per anziani cronici non autosufficienti dal comparto assistenziale a quello sanitario. Pertanto le domande di ammissione dovranno essere rivolte al settore sanitario e non ai Comuni; - l'ammissione dovrà essere valutata dalla UVG della USL territorialmente competente in base alla abitazione del richiedente. La UVG dovrebbe esprimere un parere motivato, a seguito di una visita diretta del paziente e di idonei accertamenti, circa gli interventi più opportuni, secondo le diverse modalità (permanenza a domicilio - con o senza l'intervento del servizio di ospedalizzazione a domicilio, il ricovero in ospedale o in una casa di cura, il day hospital, la RSA); - l'istituzione (urgentissima) di apposite commissioni mediche con il compito di «provvedere ad una valutazione collegiale delle condizioni di salute degli attuali ospiti degli istituti comunali e convenzionati per non autosufficienti, con la conseguente individuazione delle patologie di cui sono affetti e della loro gravità», e di «effettuare una ricerca atta ad individuare metodologie, criteri, 81 strumenti per un concreto indirizzo operativo per il ricovero degli anziani cronici in presidi sanitari o in RSA, atti al migliore soddisfacimento delle esigenze complessive delle persone interessate»; oppure -preferibilmente- attribuzione delle suddette funzioni alle UVG. In tale caso la loro istituzione diviene ancora più urgente. Prevenire, curare, riabilitare le persone malate, gravemente non autosufficienti Molti anziani, anche molto anziani, sono indipendenti, godono di buona salute e di una soddisfacente qualità di vita. Per alcuni però non è così; a causa di una malattia hanno acquisito una disabilità che ha prodotto un handicap. Alle volte la dipendenza che questa situazione produce è molto grave e può non consentire all'individuo di gestire in modo autonomo le funzioni necessarie alla sua sopravvivenza. L'Organizzazione mondiale della sanità si è occupata a lungo del problema ed ha sottolineato come gli interventi debbano, nell'ordine: prevenire, potenziare, integrare, sostituire. Ciò vuol dire che: - affrontare il problema della persona malata in termini funzionali - come l'OMS raccomanda - non vuol dire nascondere la sua malattia; - non sempre è possibile guarire tale malattia, come non è sempre possibile recuperare pienamente le capacità funzionali, ma è sempre doveroso curare e utilizzare, potenziandole, le funzioni residue; - bisogna riconoscere che una persona non autosufficiente (dipendente secondo il linguaggio anglosassone) è malata, spesso molto malata, di frequente malata in modo permanente, e che a motivo di ciò va curata e riabilitata secondo il suo diritto e le sue necessità; - i servizi sanitari sono tutti quelli rivolti al mantenimento e al miglioramento delle condizioni di salute e possono essere coadiuvati da iniziative specifiche per il miglioramento delle condizioni e dello stile di vita; - la persona deve essere libera di scegliere il percorso terapeutico che più ritiene confacente alle sue condizioni di vita e di salute. Tale libertà di scelta deve essere garantita in modo effettivo attraverso l'offerta di servizi specifici; - la spesa per tali servizi dovrà essere ripartita tra tutti i cittadini e non solo attribuita agli anziani e ai loro congiunti; 82 - la pretesa di dichiarare «di competenza assistenziale» i non autosufficienti non ha più ragion d'essere. Competente a garantire e migliorare le condizioni di salute dei singoli e della popolazione generale è infatti il settore sanitario, come previsto dal progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani"; - vanno attivate, per garantire la salute, tutte le competenze necessarie a rimuovere cause sociali ed economiche che aggravano la situa-zione di dipendenza causata dalla malattia. Il caso delle persone colpite dalla malattia di Alzheimer Le persone colpite da malattia di Alzheimer sono gravemente malate, ma oltre a subire gli effetti devastanti della malattia sono anche abbandonate a se stesse o ai servizi socio-assistenziali. Sembra che più la malattia si presenta in forma grave e devastante, meno deve essere considerata. Paradossalmente più la malattia è in fase avanzata e meno si è considerati. Si opera una rimozione pericolosa che lascia il soggetto con la sua malattia privo delle risposte cui avrebbe diritto e di cui avrebbe bisogno per sopravvivere. Diritto alle cure sanitarie È quel che sta accadendo anche per i ricoveri ospedalieri urgenti. Se una persona anziana si presenta ad un Pronto Soccorso spesso viene respinta. II ricovero ospedaliero si fa sempre più difficile per chi ha superato certi limiti d'età. Ciò mentre le dimissioni dagli stessi ospedali vengono fatte senza tener conto delle norme vigenti. II peggioramento delle condizioni di salute provoca frequentemente un repentino e devastante consumo delle già ridotte risorse economiche. Ad una ampia ed urgente domanda di servizi corrisponde una offerta assai scarsa. Per una equa politica sanitaria Il recente progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani" contiene delle chiare indicazioni. Tali positivi orientamenti richiedono una puntuale attuazione per evitare alcuni rischi estremamente gravi. Tra questi: 1) il rischio che la durata delle degenze ospedaliere sia ridotta pur permanendo obiettive condizioni di necessità terapeutica in tale sede; 83 2) il rischio che non sia affatto garantita la riabilitazione (la cifra dell'1% di posti letto per la riabilitazione ogni 1000 abitanti a suo tempo prevista dalla legge 595 è stata poi ridotta allo 0,5); 3) il rischio che le RSA diventino dei meri ricoveri emarginanti per anziani, malati di mente, handicappati; 4) il rischio di veder smantellati i servizi territoriali. Occorre inoltre che sia definita una politica del personale che garantisca l'assunzione e la permanenza in servizio di professionalità qualificate e assicuri i necessari momenti di qualificazione ed aggiornamento. Vanno quindi evitate confusioni sugli standards logistici e gestionali che determinano servizi inesistenti. Alcune Regioni infatti prevedono in RSA presenze medie dei medici e degli infermieri assolutamente in-sufficienti. Circa i diritti nelle Residenza sanitarie assistenziali Per garantire in modo effettivo il rispetto dei diritti e delle esigenze delle persone gravemente non autosufficienti è necessario tener conto di che cosa siano le RSA nell'attuale normativa; dei fondamenti giuridici del diritto alla salute e alle cure sanitarie senza limiti di durata; di quale debba essere l'utenza delle RSA, gli standard di personale, abitativi e tipologici; di quali debbano essere le competenze gestionali, i criteri di ammissione/dimissione, la distribuzione degli oneri economici. Pertanto, agli utenti delle RSA, come ad ogni altra persona, va garantito il diritto alla salute mediante prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione. Devono, inoltre, essere garantiti i diritti con-cernenti la dignità nel rispetto della individualità dei soggetti assistiti (nome, privacy, intimità, libertà di movimento, corrispondenza, visite...). Fra i diritti da garantire va compreso, inoltre, quello al ricovero ospedaliero, qualora fosse necessario. Compete al Ministero della sanità definire, nel rispetto della normativa statale, gli standards quantitativi e qualitativi minimi riguardanti le strutture, il personale e la qualità delle presta-zioni. Vanno, in questo senso, favorite anche le forme di controllo sociale da parte dei cittadini, ad esempio nelle forme di commissioni autorizzate. Le convenzioni con le strutture private debbono prevedere la clausola della trasparenza amministrativa prevista dalla legge 241. 84 Garantire una reale priorità agli interventi domiciliari In base a quanto previsto dall'art. 20 della legge 67/1988, il ricovero in RSA deve essere consentito esclusivamente nei casi in cui non sia possibile intervenire a livello domiciliare o trami-te presidi poliambulatoriali e ospedali diurni. Si chiede quindi che la priorità contenuta in questa norma sia rispettata Piattaforma per l'attuazione del progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani" Il problema degli anziani cronici gravemente non autosufficienti deve essere impostato riconoscendo la loro condizione di malati. In quanto tali, hanno diritto alle prestazioni sanitarie di prevenzione, terapia e riabilitazione come gli altri cittadini. Ciò è sancito dalla Costituzione (art. 32) e dalle leggi attualmente in vigore (legge del 4 agosto 1955 n. 692; legge del 12 febbraio 1968 n. 132; legge del 23 dicembre 1978 n. 833). Una certa quota di queste persone è dipendente dall'aiuto degli altri per sopravvivere. Giustamente il progetto-obiettivo evita che a questa necessità si risponda in modo istituzionalizzante. Vanno infatti privilegiati gli interventi domiciliari che sono preferiti dai cittadini e vantaggiosi per il sistema sanitario. Tali servizi vanno attivati prima di ogni altra soluzione anche per evitare che siano ricoverate persone che sarebbero potute restare a casa loro. Opportunamente quindi, il 30 gennaio 1992, il Parlamento ha approvato una risoluzione che sancisce l'avvio del progetto-obiettivo «Tutela della salute degli anziani" che, come è già stato rilevato in precedenza, prevede: - la priorità degli interventi domiciliari; - l'istituzione delle Unità di Valutazione Geriatrica (UVG); - la creazione di Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA). Pertanto, affinché siano garantiti i diritti dei cittadini è indispensabile che: 1) siano privilegiati gli interventi domiciliari in ogni USL con la creazione di servizi specifici. In particolare ospedalizzazione a domicilio e assistenza domiciliare integrata; 2) vengano attivate, presso tutte le USL, le Unità di valutazione geriatrica (UVG); 85 3) siano realizzate presso tutte le USL servizi di day hospital che svolgano attività preventive, curative, riabilitative, compresa la funzione di preospedalizzazione e deospedalizzazione; 4) siano avviati dei centri diurni a carattere sanitario specializzati nella cura e riabilitazione delle persone colpite da malattia di Alzheimer e da altre forme di demenza senile. Quale sostegno alle persone che intendano contribuire alla cura del malato a casa è necessario prevedere la possibilità di usufruire di pe-riodi di aspettativa retribuita. È altresì indispensabile che gli assegni di accompagnamento, cui molti malati hanno diritto, siano erogati tempestivamente. A questo fine possono essere introdotte delle facilitazioni nel-le procedure (es. certificazione del primario ospedaliero). Menomazione, Disabilità e Handicap secondo l’ICIDH La menomazione indica qualsiasi perdita o anormalità di una struttura o di una funzione fisiologica, anatomica oppure psicologica (in questo caso si tende a parlare di “disturbo”). Una persona con tetraplegia ha una menomazione fisica agli arti dalla nascita, una persona senza mano a causa di un incidente ha una menomazione fisica acquisita nel corso della vita. Una persona con Schizofrenia ha una menomazione psicologica o disturbo psicologico. A seconda dell’area colpita si possono riscontrare anche menomazioni linguistiche, auricolari, intellettive, sensoriali, ecc. La disabilità rappresenta la conseguenza pratica della menomazione e, quindi, indica lo svantaggio personale che la persona disabile vive espresso in ciò che è in grado di fare o meno. Anche la disabilità può presentarsi dalla nascita, ma può insorgere anche nel corso della vita. Per fare qualche esempio, una menomazione fisica agli arti inferiori comporta una disabilità nel camminare, mentre una menomazione psicologica comporta una disabilità relazionale. A seconda della menomazione si possono anche riscontrare disabilità comunicative, comportamentali, nella cura personale ecc. L’handicap indica lo svantaggio sociale vissuto da una persona a seguito di una disabilità o menomazione. La persona con handicap, nell’incontro con l’ambiente fisico e sociale, può trovarsi in difficoltà nel muoversi nello spazio in autonomia, nell’essere indipendente nel prendere delle scelte o nel prendersi cura di sé, oppure nel trovare un’occupazione e un’indipendenza economica. Lo svantaggio sociale si esprime anche nel non poter rivestire un ruolo sociale considerato “normale” alla maggior parte. La persona con tetraplegia, ad esempio, può sviluppare una disabilità nel camminare e un grave handicap negli spostamenti autonomi se l’architettura urbana prevede solo scalini impossibli da utilizzare con una carozzina e non è, quindi, fornita di scivoli. Un 86 bambino con un disturbo dello sviluppo quale l’autismo, può sviluppare un grave handicap sociale se a scuola non viene assegnato un insegnante o educatore in grado di sostenerlo nelle sue difficoltà relazionali promuovendo scambi comunicativi e relazionali con i compagni. Quindi, l’handicap si riscontra solo nel caso in cui le condizioni esterne siano ad ostacolo alla vita della persona. Una persona non vedente, ad esempio, vivrebbe tranquillamente in un ambiente buio, contesto che invece costituirebbe un handicap per una persona vedente. Un bambino in carrozzina supera un possibile handicap negli spostamenti se gli viene fornita una carrozzina magari elettrica che gli permette di essere autonomo nel muoversi nello spazio, se adatto al passaggio in carrozzina ovviamente. I DISTURBI PERVASIVI DELLO SVILUPPO E COMUNICOPATIE I disturbi pervasivi dello sviluppo si distinguono principalmente in: Disturbo autistico; Sindrome di Rett; Disturbo disintegrativo dell’infanzia; Sindrome di Asperger Disturbi generalizzati dello sviluppo non altrimenti specificati. Disturbo autistico Secondo recenti stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, interessa un bambino ogni 100. Colpisce più i maschi che le femmine, con un rapporto di 4 a 1. L’autismo può essere primario o associato ad anomalie genetiche (fenilchetonuria, sclerosi tuberosa) o cromosomiche (X-fragile), a malattie infettive prenatali (rosolia, citomegalovirus) o a traumi che colpiscono precocemente il sistema nervoso. In circa il 60% dei bambini autistici è presente anche un deficit cognitivo, che può essere di entità variabile. Nel 25-30% di soggetti con autismo si manifestano crisi epilettiche, soprattutto nei primi anni di vita o all’inizio dell’adolescenza. Le persone con autismo infantile hanno uno sviluppo anomalo in tre ambiti: 87 Interazione sociale, con difficoltà nel relazionarsi con gli altri, nel capirne i bisogni e nel ricercare la condivisione di gioie, interessi o obiettivi. Chi soffre di autismo non sa interpretare il linguaggio “simbolico” fatto di gesti, espressioni e posture o capire l’ironia. Soprattutto nei soggetti più piccoli, c’è uno scarso interesse nel fare amicizia o giocare con altri bambini. L’immaginazione è spesso assente o comunque compromessa. Comunicazione, con difficoltà nel parlare e nell’iniziare o sostenere una conversazione e deficit della comunicazione mediata da gesti. Chi soffre di autismo ha un linguaggio caratterizzato dalla ripetizione continua di frasi o parole sentite da altri e comprende in modo “letterale” i vocaboli, con difficoltà nel seguire il filo di un discorso. Nelle persone che sviluppano il linguaggio, questo può presentare anomalie nell’accento e nell’intonazione della voce, che possono essere inappropriati al contesto. Anche lo sviluppo della comprensione del linguaggio è spesso ritardato e l’individuo può avere difficoltà nel capire semplici domande o indicazioni. Attività e interessi. La persona autistica preferisce svolgere attività solitarie e mostra spesso pochi interessi, molto ripetitivi, abitudinari o accompagnati da rituali specifici. Inoltre, può manifestare resistenza o malessere di fronte a cambiamenti, anche banali, della routine. In alcuni bambini può esservi un eccessivo attaccamento o interesse per determinati oggetti. Sempre presenti, sebbene molto variabili per intensità, movimenti ripetitivi apparentemente senza senso, come lo sfarfallamento delle mani. Le manifestazioni del disturbo variano a seconda del livello di sviluppo e dell’età del soggetto. Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM – IV), per la diagnosi di autismo sono necessari almeno sei dei sintomi descritti per tre diverse aree (interazione sociale, comunicazione, comportamento), con almeno due sintomi nell’area delle interazioni sociali e almeno un sintomo nell’area del comportamento e uno in quella della comunicazione. I sintomi descritti sono: Compromissione dell’interazione sociale: incapacità di utilizzare adeguatamente lo sguardo, la gestualità o la mimica per regolare l’interazione sociale; incapacità di sviluppare rapporti con coetanei; mancanza di reciprocità socio-emozionale (assenza di modulazione del comportamento in accordo al contesto sociale); 88 mancanza della ricerca spontanea di condivisione di interessi con altre persone. Compromissione della comunicazione: ritardo o totale mancanza dello sviluppo del linguaggio verbale, senza tentativo di compensare con i gesti; relativa incapacità di iniziare o sostenere una conversazione; ripetizioni, nel linguaggio, di parole o frasi; assenza di gioco, sia a livello di imitazione che di invenzione. Compromissione del comportamento: preoccupazione per uno o più interessi limitati a particolari oggetti che sono anomali nel contenuto e nell’obiettivo o per l’intensità dedicata; adesione apparentemente irrefrenabile a pratiche o rituali specifici; attività motorie ripetitive come il battere o il torcere le mani o le dita, o movimenti complessi di tutto il corpo; preoccupazioni per parti di oggetti o elementi non funzionali dei giochi. Sindrome di Rett La sindrome di Rett colpisce essenzialmente le femmine, con un’incidenza di un caso su 10.000 – 15.000 nati. È un disturbo caratterizzato da un periodo di sviluppo apparentemente normale, seguito, entro il primo-secondo anno di vita, da un rallentamento della crescita della circonferenza cranica, con perdita delle capacità manuali acquisite, comparsa di movimenti ripetitivi, e regressione del comporto. Le bambine affette da questa sindrome hanno, generalmente, disturbi nella comunicazione, specie verbale, e compromissione delle capacità d’interazione sociale, sintomi che tendono leggermente a migliorare con la seconda infanzia. Dopo i 10 anni si accentua il deterioramento motorio, caratterizzato da assenza di coordinazione e andatura instabile. La compromissione delle funzioni cerebrali è contraddistinta da deficit cognitivi e frequente epilessia. Alla sindrome di Rett sono spesso associate anomalie del ciclo sonno-veglia e crisi intermittenti di apnea e iperventilazione, 89 come anche scoliosi, infezioni delle vie respiratorie e cardiopatie che possono ridurre l’aspettativa di vita. Disturbo disintegrativo dell’infanzia Il disturbo disintegrativo dell’infanzia, o sindrome di Heller, è molto raro ed è caratterizzato da uno sviluppo, apparentemente normale, fino a oltre i tre anni. Entro i 10 anni, poi, il bambino va incontro a una perdita delle capacità acquisite. L’esordio può essere acuto (giorni o settimane) o lentamente progressivo (mesi). Il periodo di regressione è generalmente di 6-9 mesi, seguito da una fase di stasi e talora da un modesto recupero, soprattutto nell’ambito del linguaggio. Socialità, comunicazione e comportamento sono analoghi a quelli dell’autismo. Spesso il disturbo si associa a gravi deficit cognitivi, anomalie elettroencefalografiche ed epilessia. Sindrome di Asperger La sindrome di Asperger è caratterizzata da compromissione dell’interazione sociale, dei comportamenti e degli interessi, analogamente a quanto succede nell’autismo, senza però deficit a livello cognitivo e soprattutto linguistico. Compare verso i tre-quattro anni, dopo uno sviluppo apparentemente normale, e colpisce più i maschi che le femmine. La compromissione dell’interazione sociale si evidenzia alla comparsa di due tra i seguenti sintomi: incapacità di utilizzare adeguatamente lo sguardo, la gestualità e la mimica per regolare l’interazione sociale; incapacità di sviluppare rapporti con coetanei; mancanza di modulazione del comportamento in base al contesto sociale; mancanza della ricerca spontanea di condivisione di interessi con altre persone. La compromissione del comportamento può comprendere una fissazione per uno o più interessi limitati quali parti di oggetti, la necessità, apparentemente compulsiva, di compiere pratiche o rituali specifici e la presenza di movimenti del corpo ripetitivi, localizzati (es. mani o dita) o generalizzati. 90 Pur non essendoci ritardo né significativa compromissione cognitiva, il linguaggio è spesso caratterizzato da ripetizioni di parole o frasi poco comunicative e il pensiero appare talvolta confuso. Spesso la sindrome si accompagna a uno sviluppo motorio rallentato e/o a difficoltà di coordinazione dei movimenti. La diagnosi viene eseguita più tardivamente che nell’autismo. Le caratteristiche distintive restano pressoché invariate nel corso della vita. Le persone con Sindrome di Asperger possono avere un impiego, una famiglia e vivere in modo indipendente. Sotto questo aspetto, la prognosi è migliore anche rispetto al disturbo autistico ad alto funzionamento. Disturbi generalizzati dello sviluppo non altrimenti specificati In questa tipologia rientrano tutti i casi di bambini, adolescenti e adulti che, pur presentando una grave e generalizzata compromissione dello sviluppo sociale e relazionale, della comunicazione verbale e non verbale e comportamenti stereotipati, non soddisfano pienamente i criteri diagnostici di nessuna delle categorie descritte. Tra i disturbi non altrimenti specificati è compreso anche l'autismo atipico. DISTURBI SPECIFICI DI LINGUAGGIO Cosa sono / Come si manifestano / Disturbi associati /Trattamento /Cosa fare I sistemi di classificazione internazionali (ICD-10) definiscono il Disturbo Specifico del Linguaggio “una condizione in cui l’acquisizione delle normali abilità linguistiche è disturbata sin dai primi stadi dello sviluppo. Il disturbo linguistico non è direttamente attribuibile ad alterazioni neurologiche o ad anomalie di meccanismi fisiologici dell’eloquio, a compromissioni del sensorio, a ritardo mentale o a fattori ambientali. È spesso seguito da problemi associati quali le difficoltà nella lettura e nella scrittura, anomalie nelle relazioni interpersonali e disturbi emotivi e comportamentali”. Cosa sono i DSL La definizione di ritardo o disturbo del linguaggio in età evolutiva è utilizzata per descrivere quadri clinici molto eterogenei, in cui le difficoltà linguistiche possono manifestarsi in associazione con altre condizioni patologiche (deficit neuromotori, sensoriali, cognitivi e relazionali) o isolatamente. 91 Nel primo caso si parla di disturbi del linguaggio secondari (o associati al disordine primario), mentre nel secondo caso si definiscono “Disturbi specifici del linguaggio” (DSL) i ritardi o disordini del linguaggio “ relativamente puri”, in cui non sono identificabili fattori causali noti. I DSL hanno emergenza tra i due ed i sei anni e risultano avere una diffusione del 5-7 % in età prescolare e tendono a ridursi nel tempo con una incidenza dell’1-2% in età scolare. Va però considerato che i soggetti con Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA) presentano un pregresso disturbo di linguaggio nel 30-40 % e, secondo alcuni, più della metà dei bambini con DSL presenta difficoltà di apprendimento nei primi anni scolastici. Come si manifestano I Disturbi Specifici di Linguaggio (DSL) possono assumere differenti espressioni, in relazione alle caratteristiche del disturbo. Nella classificazione dell’ICD 10 (International Classification of Diseases- redatta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità) le principali manifestazione possono essere in sintesi descritte: Disturbo specifico dell’articolazione e dell’eloquio Disturbo del linguaggio espressivo Disturbo della comprensione del linguaggio Disturbo specifico dell’articolazione e dell’eloquio L’acquisizione dell’abilità di produzione dei suoni verbali è ritardata o deviante con conseguente difficoltà nell’efficacia comunicativa del bambino. La diagnosi è possibile in presenza di: intelligenza non verbale nella norma; abilità linguistiche espressive e ricettive nella norma; anomalie dell’articolazione non direttamente attribuibili ad alterazioni sensoriali, anatomiche o neurologiche; 92 anomalie nel contesto d’uso colloquiale del linguaggio. Disturbo del linguaggio espressivo La capacità di esprimersi tramite il linguaggio è marcatamente al di sotto del livello appropriato alla sua età mentale, ma con una comprensione nella norma. La diagnosi è possibile in presenza di: intelligenza non verbale nella norma; mancanza di produzione di singole parole intorno a due anni; piccole frasi di due parole intorno a tre anni sviluppo limitato del vocabolario; espressioni di lunghezza ridotta; strutturazione della frase poco evoluta e/o deviante; difficoltà nella fluidità della frase / racconto; ritardi / anormalità per i suoni linguistici. Disturbo della comprensione del linguaggio La comprensione del linguaggio non è coerente con l’età cronologica. La diagnosi è possibile in presenza di: intelligenza non verbale nella norma; comprensione verbale marcatamente discrepante con l’età mentale non verbale; capacità di espressione poco evolute e/o devianti Disturbi associati Disturbi Specifici del linguaggio sono spesso associati a difficoltà di coordinazione motoria, di funzionamento cognitivo, e a disturbi dell’attenzione. Un fattore importante è il deficit della memoria di lavoro fonologica, che tuttavia non sembra essere la causa di tutti i DSL. Alcuni studi ritengono che fattori importanti siano quelli genetici e quelli ambientali. 93 Trattamento La rieducazione dei disturbi del linguaggio viene effettuata solo dopo un’accurata valutazione diagnostica. Lo studio delle competenze linguistiche deve essere preceduto da un’attenta anamnesi familiare volta a verificare la presenza di segni che richiedono valutazioni mediche specifiche (otiti ricorrenti, deglutizione atipica, ecc..) o che riguardano l’assenza di condizioni patologiche in ambito neurologico e audiologico. La valutazione del linguaggio deve comprendere l’utilizzo di materiale testologico validato che possa evidenziare le singole cadute in ambito linguistico. Come già detto, la presenza di varie sottocategorie diagnostiche, porta alla necessità di diversificare gli interventi a seconda della componente deficitaria. Se il deficit è al livello fonologico è necessario un intervento mirato ad identificare i suoni che non sono presenti nel repertorio fonetico del soggetto e lavorare sui contesti linguistici in cui la produzione è corretta o alterata. Inoltre può essere utile, per i casi in cui la produzione non mostra processi devianti, identificare con quale processo viene sostituita la struttura bersaglio e costruire materiale linguistico finalizzato all’allenamento di tale struttura. Quando è la componente sintattica e morfologica ad essere deficitaria, è necessario un intervento finalizzato all’apprendimento delle regole grammaticali di base o al sostegno della componente narrativa. Esistono training sul recupero lessicale-semantico o unità di lavoro sulle componenti meta fonologiche. Diversi studi sull’efficacia del trattamento nei disturbi del linguaggio, hanno dimostrato che un lavoro specifico sulla consapevolezza fonologica tramite specifiche attività in epoca prescolare, facilita il bambino con DSL diminuendo significativamente l’emergere di difficoltà di apprendimento della lettura e della scrittura. Oltre all’intervento sul bambino sono spesso utili degli incontri di sostegno alla genitorialità al fine di informare i genitori sulle caratteristiche del disturbo, sostenerli nelle difficoltà comunicative e sociali che incontrano nell’interagire con il figlio, proporre loro un modello educativo che favorisca le potenzialità e riduca i comportamenti problematici e fornire valide strategie comportamentali per fronteggiare le difficoltà. 94 Cosa fare Lo sviluppo del linguaggio è caratterizzato da una grande variabilità individuale, dovuta a fattori biologici ed ambientali (maggiore o minore stimolazione in ambito famigliare, inserimento precoce a scuola, ecc). Mediamente intorno ai 24 mesi il bambino possiede un vocabolario di circa 100 parole ed inizia a formare le prime frasi che inizialmente sono combinazioni di parole spesso associate ad un gesto indicativo o simbolico. Intorno ai 30 mesi avviene generalmente la vera esplosione del linguaggio, il vocabolario si espande ed il bambino inizia a produrre frasi di tre o più parole. Un parametro fondamentale da tenere in considerazione è un’adeguata comprensione del linguaggio dell’adulto: se questa è presente si più attendere siano a 36 mesi prima di fare una consultazione specialistica. Nonostante ciò, è importante fornire indicazioni alla famiglia circa stili educativi che favoriscano lo sviluppo di abilità espressive linguistiche. L’età di tre anni costituisce una sorta di spartiacque tra bambini cosiddetti “parlatori tardivi” e i bambini con probabile disturbo specifico di linguaggio. La presenza di una produzione ancora non adeguata secondo i parametri sopra elencati dovrà essere valutata da una visita medico-specialistica. È importante fornire ai genitori che si trovano ad affrontare questo tipo di situazione, indicazioni che possano aiutarli a comunicare e relazionarsi con il loro bambino: Ascoltare il bambino quando parla, anche se mostra difficoltà, con attenzione e serenità, senza mostrare fretta. Lasciare che concluda la frase anche se richiede più tempo. Favorire l’uso dei gesto a supporto dell’efficacia comunicativa. Riformulare la produzione “scorretta” del bambino e non correggerla: il impara implicitamente dal modello verbale dell’adulto e non dall’esercizio della ripetizione. Parlare molto al bambino in modo rilassato e lento. Valorizzare altre qualità del bambino per rinforzare la sua autostima e creare un ambiente famigliare accogliente in cui possa sentirsi sereno di esprimersi anche con le sue difficoltà. 95 SINDROMI DEMENZIALI La prevalenza delle demenze aumenta con l’invecchiamento della popolazione ed è in costante aumento su scala mondiale. Una sindrome demenziale si definisce come un disturbo delle funzioni cognitive che evolve per alcuni mesi la cui gravità provoca una ripercussione sulla vita quotidiana del paziente. La sua valutazione comporta come minimo un colloquio con il paziente e con le persone a lui vicine, un esame clinico, una valutazione delle funzioni cognitive, una valutazione ematica e una diagnostica per immagini cerebrale. La causa più frequente delle sindromi demenziali è la malattia di Alzheimer, che colpisce il 20% dei soggetti oltre i 75 anni. Essa è caratterizzata da un disturbo mnesico in primo piano, ad aggravamento progressivo, associato a un’alterazione delle funzioni strumentali, esecutive, del ragionamento e del giudizio. Possono comparire disturbi psicocomportamentali con l’evoluzione della malattia. La demenza a corpi di Lewy (che associa una sindrome parkinsoniana e allucinazioni) e la demenza vascolare (caratterizzata da una disfunzione sotto-cortico-frontale e da disturbi comportamentali precoci) sono altre eziologie frequenti della sindrome demenziale. Queste diverse patologie sono spesso associate, particolarmente nei soggetti più anziani, rendendo difficile la diagnosi eziologica. La gestione pluridisciplinare delle demenze include trattamenti farmacologici (inibitori dell’acetilcolinesterasi e memantina per la malattia d’Alzheimer e la demenza a corpi di Lewy; trattamenti farmacologici dei disturbi psicocomportamentali), degli interventi non farmacologici (fisioterapia, ortofonia ecc.) e l’attivazione di ausili sociali per permettere la permanenza a casa dei pazienti e risparmiare i collaboratori. Attualmente, il miglioramento delle conoscenze sui meccanismi fisiopatologici della malattia di Alzheimer permette di sviluppare nuove prospettive terapeutiche a scopo curativo. IL MORBO DI ALZHEIMER Il morbo di Alzheimer è il tipo più comune di demenza, un termine generale per le condizioni che si verificano quando il cervello non funziona più correttamente. Il morbo di Alzheimer provoca problemi di memoria, di pensiero e di comportamento. Nella fase iniziale, i sintomi di demenza possono essere minimi, tuttavia, quando la malattia provoca maggiori danni al cervello, i sintomi peggiorano. La velocità con cui la malattia progredisce è diversa per ciascuno, tuttavia, in media, le persone che soffrono del morbo di Alzheimer vivono otto anni dopo che i sintomi si sono manifestati. 96 Anche se, attualmente, non esistono trattamenti per fermare la progressione del morbo di Alzheimer, vi sono farmaci che possono curare i sintomi della demenza. Negli ultimi tre decenni, la ricerca sulla demenza ha fornito una comprensione molto più approfondita del modo in cui il morbo di Alzheimer colpisce il cervello. Oggi, i ricercatori continuano a ricercare i trattamenti più efficaci e una cura, nonché i modi di prevenire il morbo di Alzheimer e migliorare la salute del cervello. La perdita di memoria e altri sintomi del morbo di Alzheimer I problemi di memoria, in particolare la difficoltà a ricordare informazioni apprese recentemente, rappresentano spesso il primo sintomo del morbo di Alzheimer. Quando invecchiamo, i nostri cervelli cambiano, e possiamo avere problemi occasionali nel ricordare alcuni dettagli. Tuttavia, il morbo di Alzheimer e le altre demenze causano perdita di memoria e altri sintomi abbastanza gravi da interferire con la vita di tutti i giorni. Questi sintomi non rappresentano una parte naturale del processo di invecchiamento. Oltre alla perdita di memoria, i sintomi del morbo di Alzheimer includono: Problemi a completare le attività che una volta erano facili. Difficoltà a risolvere i problemi. Cambiamenti di umore o della personalità, l‘allontanarsi da amici e familiari. Problemi di comunicazione, sia scritta sia verbale. Confusione circa luoghi, persone ed eventi. Cambiamenti visivi, quali, ad esempio, la difficoltà a comprendere immagini. I familiari e gli amici possono notare i sintomi del morbo di Alzheimer e di altre demenze progressive prima che la persona si accorga di questi cambiamenti. Se Lei o qualcuno che conosce sta soffrendo di possibili sintomi di demenza, è importante chiedere una valutazione medica per trovarne la causa. Visiti la nostra pagina web Conosci i 10 primi segni e sintomi del morbo di Alzheimer per sapere di più sulla differenza tra gli ordinari cambiamenti alla memoria, legati all'età, e il cervello e i sintomi del morbo di Alzheimer. 97 Fattori di rischio per il morbo di Alzheimer Sebbene non comprendiamo ancora tutte le ragioni per le quali alcune persone sviluppano il morbo di Alzheimer, mentre altre non ne vengono colpite, la ricerca ci ha dato una migliore comprensione di quali fattori pongano qualcuno in una fascia di rischio più elevata. L'età. L'età avanzata rappresenta il massimo fattore di rischio per sviluppare il morbo di Alzheimer. La maggior parte delle persone cui è stato diagnosticato il morbo di Alzheimer ha 65 anni o più. Anche se molto meno comune, un'insorgenza del morbo di Alzheimer in un'età più giovane (nota anche come morbo di Alzheimer a insorgenza precoce) colpisce persone di età inferiore ai 65 anni. Si stima che fino al 5 per cento delle persone sono affette da Alzheimer a insorgenza giovane. L‘insorgenza giovane del morbo di Alzheimer è spesso mal diagnosticata. Membri della famiglia con il morbo di Alzheimer. Se il genitore o un fratello sviluppa il morbo di Alzheimer, si hanno maggiori probabilità di sviluppare la malattia rispetto a chi non ha un parente di primo grado con il morbo di Alzheimer. Gli scienziati non riescono completamente a capire che cosa causi la trasmissione del morbo di Alzheimer nelle famiglie, ma la genetica, i fattori ambientali e gli stili di vita possono tutti giocare un ruolo. Genetica. I ricercatori hanno identificato diverse varianti geniche che aumentano la probabilità di sviluppare il morbo di Alzheimer. Il gene APOE-e4 è il gene a rischio più comune associato con l’Alzheimer; si stima un ruolo in ben un quarto dei casi di Alzheimer. I geni deterministici sono diversi da quelli di rischio, in quanto garantiscono che qualcuno svilupperà una malattia. L'unica causa nota del morbo di Alzheimer è dovuta all’ereditare un gene deterministico. L’Alzheimer dovuto a un gene deterministico è raro, e probabilmente si verifica in meno dell'1 per cento dei casi di Alzheimer. Quando un gene deterministico provoca l’Alzheimer, viene chiamato "malattia autosomica dominante di Alzheimer "(ADAD, Autosomal Dominant Alzheimer’s Disease). Mild Cognitive Impairment (MCI, Deficit cognitivo lieve). I sintomi dell'MCI includono i cambiamenti nella capacità di pensare, ma questi sintomi non interferiscono con la vita quotidiana e non sono così gravi come quelle causati dal morbo di Alzheimer o da altre demenze progressive. In caso di presenza di MCI, particolarmente di MCI che comporta problemi di memoria, aumenta il 98 rischio di sviluppare l’Alzheimer ed altre demenze. Tuttavia, l'MCI non sempre progredisce. In alcuni casi, esso si inverte o rimane stabile. Malattie cardiovascolari. La ricerca suggerisce che la salute del cervello è strettamente correlata alla salute del cuore e dei vasi sanguigni. Il cervello riceve l'ossigeno e le sostanze nutritive necessarie per funzionare normalmente dal sangue, e il cuore è responsabile per il pompaggio del sangue al cervello. Pertanto, i fattori che causano le malattie cardiovascolari possono anche essere collegati a un rischio maggiore di sviluppare il morbo di Alzheimer e altre forme di demenza, tra cui il fumo, l'obesità, il diabete e colesterolo alto e l’ipertensione nella mezza età. Educazione e morbo di Alzheimer. Gli studi hanno collegato un minor numero di anni di istruzione formale, con un aumento del rischio di insorgenza del morbo di Alzheimer e delle altre demenze. Non è chiaro il motivo di questa associazione, ma alcuni scienziati ritengono che più anni di istruzione formale possano contribuire ad aumentare le connessioni tra i neuroni, permettendo al cervello di utilizzare percorsi alternativi di comunicazione neurone-neurone, quando si verificano cambiamenti legati al morbo di Alzheimer e alle altre demenze. Lesione traumatica del cervello. Il rischio di morbo di Alzheimer e di altre demenze aumenta dopo una lesione cerebrale traumatica moderata o grave, come un colpo alla testa o una lesione del cranio che causi amnesia o perdita di coscienza per più di 30 minuti. Il cinquanta per cento delle lesioni cerebrali traumatiche sono causate da incidenti automobilistici. Le persone che subiscono lesioni cerebrali ripetute, come gli atleti e chi è impegnato in operazioni di combattimento, sono egualmente a maggiore rischio di sviluppare demenza e compromissione. AIUTI PRATICI PER CHI ASSISTE I MALATI DI ALZHEIMER La RETE SOCIALE costituita da un buon vicinato, da reti amicali, da realtà di volontariato, da una rete istituzionale di servizi del Comune di appartenenza, soprattutto laddove esiste una RETE INTEGRATA (assistenza domiciliare, centro diurno, RSA, ricoveri temporanei di sollievo) dovrebbe essere in grado di rilevare i bisogni della famiglia portatrice del problema demenza e fornire, oltre che un aiuto fattivo, anche una utile e necessaria informazione per la comprensione e la gestione delle problematiche connesse alla demenza. Ciò eviterebbe l'esasperazione estrema delle famiglie ed un utilizzo migliore delle risorse umane e materiali. 99 L'assistenza può essere talvolta molto difficile; tuttavia, vi sono diversi accorgimenti utili per far meglio fronte alla situazione; ne elenchiamo alcuni, che si sono rivelati utili in diversi casi. Stabilire una routine e mantenere uno standard di normalità Lo stabilire una routine, nella vita dell'ammalato, può diminuire il numero di decisioni da prendere e contribuire a mantenere un ordine e una struttura nella sua vita quotidiana, che sarebbe altrimenti confusa. La presenza di una routine può infatti rappresentare un punto di riferimento sicuro per la persona con AD. Sebbene una routine possa essere di aiuto, è importante mantenere le cose, per quanto possibile, immutate: per esempio, trattare il paziente, per quanto le sue mutate condizioni lo consentano, come si faceva prima della malattia. Sostenere l'autonomia del paziente È necessario che la persona rimanga indipendente il maggior tempo possibile, sia per preservare la sua autostima sia per diminuire il carico dell'assistenza. Aiutare la persona a conservare la propria dignità Occorre tenere in mente che il paziente assistito è ancora un individuo che sperimenta emozioni e sentimenti; pertanto ciò che viene detto può avere, per lui, un effetto disturbante. Occorre evitare discussioni circa le condizioni del paziente in sua presenza. Evitare scontri Qualsiasi tipo di conflitto causa uno stress inutile sia alla persona che assiste sia al malato. Occorre evitare di far notare gli insuccessi, mantenendo invece una calma compostezza. L'indisporsi può solo peggiorare la situazione: occorre infatti ricordare che quanto accade dipende dalla malattia, e non dal paziente. Stabilire compiti semplici È utile proporre compiti semplici al malato di AD; non bisogna porlo di fronte a troppe scelte. Mantenere il senso dell'umorismo 100 Ridere con la persona affetta da AD, ma non di lui. L'umorismo può essere un ottimo modo per trarre sollievo dallo stress. Fare attenzione alle norme di sicurezza La perdita della coordinazione fisica e della memoria accrescono la possibilità di incidenti; pertanto occorre rendere l'abitazione in cui vive il malato la più sicura possibile. Incoraggiare il mantenimento di una buona forma fisica e di buone condizioni di salute In molti casi, questo atteggiamento può aiutare la persona a conservare le proprie abilità fisiche e mentali più a lungo. Il livello di esercizio più appropriato dipende dalle condizioni individuali. È opportuno consultare il proprio medico per avere indicazioni più specifiche. Aiutare il paziente a fare il migliore uso delle abilità esistenti Lo svolgimento di alcune attività pianificate può rafforzare e promuovere un senso di dignità e di valore personale, dando uno scopo e un significato alla vita. Una persona che una volta si occupava di costruzioni, di giardinaggio, o che era nel commercio o negli affari può trarre soddisfazione dall'utilizzare ancora alcuni tipi di abilità connesse a questi lavori. Occorre ricordare, tuttavia, che essendo l'AD progressiva, ciò che interessa o non interessa e le abilità possono cambiare nel corso del tempo; ciò richiederà un'attenzione e una flessibilità particolari nella pianificazione delle attività. Mantenere aperta la comunicazione Con l'avanzare della malattia, la comunicazione con il malato può diventare più difficile. Può essere d'aiuto per chi assiste il paziente: accertarsi della integrità dei suoi sensi, come la vista e l'udito (la prescrizione degli occhiali può non essere più adeguata o l'apparecchio acustico può non funzionare correttamente); parlare chiaramente, lentamente, viso a viso, e guardando la persona negli occhi; mostrare affetto e calore attraverso il contatto fisico, se questo è gradito dalla persona; prestare attenzione al linguaggio del corpo: la persona le cui capacità di linguaggio verbale sono compromesse può comunicare attraverso messaggi non-verbali; 101 essere consapevoli del proprio linguaggio corporeo; individuare quale combinazione di parole-chiave (parole facili da ricordare che ne possono suggerire altre), suggerimenti e spiegazioni è necessaria per poter comunicare efficacemente con la persona ammalata; assicurarsi che il paziente sia attento prima di rivolgergli la parola. Utilizzare dei supporti per facilitare la memoria Nelle prime fasi dell'AD, alcuni specifici supporti per la memoria possono aiutare la persona a ricordare meglio e a prevenire la confusione. I seguenti esempi si sono dimostrati efficaci: mettere a disposizione del paziente delle immagini fotografiche dei suoi congiunti, di grandi dimensioni e recanti i nomi di questi ultimi, in modo che egli possa tenere a mente chi sono; contrassegnare le porte delle camere con parole e colori brillanti e differenti. Va tuttavia precisato che queste forme di supporto per la memoria del paziente non risulteranno altrettanto utili nelle fasi più avanzate della malattia. Suggerimenti pratici per affrontare i cambiamenti prodotti dalla malattia I seguenti suggerimenti derivano dalle esperienze di chi assiste i pazienti affetti da AD: è possibile che per alcuni di essi riesca difficile metterli in pratica. Bisogna però ricordare che nessuno è perfetto, e che una persona che ha il compito di assistere può solo fare del suo meglio. Igiene personale Il paziente con AD può dimenticare di lavarsi o, più avanti, non rendersi conto di questa necessità, o può avere dimenticato quello che deve fare in questo campo. In questa situazione, è importante rispettare la dignità della persona quando gli si offre aiuto. Suggerimenti: mantenere nel campo dell'igiene personale, per quanto possibile, le precedenti abitudini; tentare di rendere il "bagno" una situazione rilassante e piacevole; la doccia può essere più facile da farsi rispetto al bagno, ma se la persona ammalata non l'ha mai usata in precedenza, può allarmarsi; 102 semplificare al massimo il compito in questione; se il paziente rifiuta di farsi il bagno, provare di nuovo a proporlo più tardi, quando l'umore del paziente può essere mutato; permettere al paziente di fare da solo, per quanto possibile; se il paziente appare imbarazzato, tenere alcune parti del corpo coperte, mentre lo si aiuta a fare il bagno; fare attenzione alle norme di sicurezza; può essere utile impiegare punti di appoggio ben fissati (come delle sbarre) alle quali potersi afferrare, superfici antiscivolamento, o girelli; se la proposta di fare un bagno crea regolarmente un conflitto, un lavaggio eseguito con la persona in piedi può risultare più pratico; se si creano continuamente problemi in questo ambito, può essere utile farsi sostituire da un'altra persona. Abbigliamento Il paziente con AD può dimenticare come si fa a vestirsi e può non riconoscere la necessità di cambiare i propri indumenti. I pazienti con AD possono talvolta comparire in pubblico con un abbigliamento inadeguato. Suggerimenti: riporre gli abiti nello stesso ordine con cui devono essere indossati; evitare vestiti con chiusure complicate; incoraggiare l'indipendenza del soggetto nel vestirsi da solo il più a lungo possibile; far ripetere gli atti, se necessario; utilizzare scarpe con suole non scivolose. Servizi igienici e incontinenza Il paziente con AD può perdere la capacità di riconoscere il bisogno di andare alla toilette, dimenticare dove questa si trova o che cosa fare una volta che vi è giunto. Suggerimenti: 103 creare uno schema che faciliti il percorso sino al bagno; contrassegnare la porta di questa stanza con colori brillanti e lettere di grandi dimensioni; lasciare la porta della stanza da bagno aperta, in modo che per il paziente sia più facile ritrovarla; utilizzare per il paziente abiti che si possano togliere rapidamente; limitare le bevande prima che il paziente si corichi alla sera; lasciare una comoda o un vaso da notte accanto al letto; chiedere consigli allo specialista. Cucinare Per il paziente con AD la capacità di cucinare può venir meno negli ultimi stadi della malattia; ciò crea gravi problemi, soprattutto se la persona vive sola, e la espone inoltre al rischio di incidenti. La scarsa coordinazione fisica può portare anche a bruciature e tagli. Suggerimenti: valutare se la persona è effettivamente ancora in grado di cucinare; svolgere questa attività in compagnia del paziente; installare dispositivi di sicurezza; rimuovere tutti gli oggetti appuntiti e taglienti; provvedere a pasti già preparati e sorvegliare che il cibo assunto sia sufficiente da un punto di vista nutrizionale. Alimentazione I pazienti dementi spesso dimenticano se hanno mangiato, o come usare le posate. Nelle ultime fasi della malattia il paziente può aver bisogno di essere imboccato. Possono poi insorgere altri problemi fisici, come difficoltà nella masticazione e nella deglutizione. Suggerimenti: ricordare al paziente come si fa a mangiare; 104 far impiegare le dita per mangiare; questa procedura può facilitare il compito al paziente e può non risultare particolarmente sconveniente; tagliare il cibo in piccoli pezzi, per prevenire episodi di soffocamento. Nelle ultime fasi della malattia può essere necessario triturare il cibo o utilizzare alimenti liquidi; ricordare al paziente di mangiare lentamente; essere consapevoli del fatto che la persona può non essere più in grado di avvertire la temperatura (calda o fredda) degli alimenti, e può scottarsi la bocca quando assume cibi o bevande calde; quando il paziente ha difficoltà a deglutire, consultare il proprio medico affinché egli suggerisca delle tecniche volte a facilitare questa funzione; servire una porzione di cibo alla volta. Guida di autoveicoli Può essere pericoloso, per il paziente con AD, guidare un autoveicolo a causa del rallentamento dei tempi di reazione e della compromissione delle capacità critiche e di giudizio. Suggerimenti: discutere gentilmente di questo problema con la persona ammalata; consigliare di utilizzare i trasporti pubblici, quando possibile; se non si riesce a dissuadere il paziente dalla guida, può essere necessario consultare il medico o le autorità competenti. Alcol e sigarette Non vi sono controindicazioni a un uso moderato di alcol se non sono presenti interazioni con la terapia farmacologica in corso. Le sigarette sono invece più pericolose, a causa del rischio di incendi e di un possibile danno alla salute. Suggerimenti: fare attenzione alla persona quando fuma, o scoraggiare il fumo del tutto, anche con l'aiuto di una prescrizione medica; valutare le possibili interazioni tra alcol e farmaci con il proprio medico curante. 105 Insonnia Il paziente con AD può essere agitato durante la notte e disturbare la famiglia: questo può rappresentare il problema più acuto per chi assiste questi pazienti. Suggerimenti: scoraggiare il sonno durante il giorno; indurre il paziente a camminare a lungo o a una maggiore attività fisica diurna; mettere, per quanto possibile, il paziente a suo agio al momento di andare a letto. Comportamenti ripetitivi Il paziente con AD può non ricordare di aver detto una cosa un momento prima: ciò può portare ad azioni e domande ripetitive. Suggerimenti: provare a distrarre il paziente, offrendogli qualcosa da guardare, da ascoltare, o da fare; scrivere la risposta alle domande poste dal paziente ripetutamente; rassicurare il paziente con un atteggiamento caldo e affettivo, se questo è per lui utile. Attaccamento Il paziente con AD può diventare estremamente dipendente dalla persona che lo assiste e seguirla ovunque: ciò può essere frustrante, difficile da gestire, e può limitare la propria intimità. Questo comportamento può derivare dal timore del paziente che la persona in questione si allontani per poi non tornare più, e quindi essere causato da un sentimento più globale di insicurezza. Suggerimenti: fare in modo che durante la propria assenza, l'attenzione del paziente sia occupata da qualcosa; utilizzare delle persone di compagnia per poter avere del tempo per sé. 106 Perdite di oggetti e accuse di furto Il paziente con AD spesso dimentica dove ha riposto gli oggetti e può accusare gli altri di averli trafugati. Questi atteggiamenti dipendono dall'insicurezza del paziente, dalla sua sensazione di perdita del controllo e dalla sua difficoltà a ricordare. Suggerimenti: cercare di scoprire se il paziente ha un luogo consueto ove ripone gli oggetti; avere a disposizione un duplicato degli oggetti importanti, come le chiavi; controllare che non siano presenti oggetti nei sacchetti dell'immondizia; rispondere alle accuse della persona gentilmente, e non in maniera difensiva; convenire con il paziente che l'oggetto in questione è stato perduto e che lo si aiuterà a ritrovarlo. Deliri e allucinazioni Non è insolito che pazienti con AD presentino deliri e allucinazioni. Il delirio è una falsa credenza: per esempio il malato può essere convinto di essere danneggiato o minacciato dalla persona che lo assiste. Tale pensiero è considerato, dalla persona affetta da demenza, come assolutamente vero e reale e crea in lui uno stato di paura che può sfociare in comportamenti auto-difensivi inadeguati. Se il paziente manifesta allucinazioni, può vedere o sentire persone che non ci sono: per esempio, vedere figure ai piedi del letto o udire persone che stanno parlando nella stessa camera. Suggerimenti: non discutere circa la veridicità delle esperienze visive o uditive riferite dal paziente; quando la persona è spaventata, tentare di rassicurarla; una voce calma o il contatto di una mano possono servire a tal fine; distrarre il paziente richiamando la sua attenzione su un oggetto reale che si trova nella camera; consultare il proprio medico a proposito della terapia farmacologica in corso, che potrebbe contribuire al manifestarsi del problema. 107 CENNI SU DEMENZA VASCOLARE Inquadramento della demenza vascolare La demenza vascolare è una forma di deficit cognitivo determinata dall'alterazione della circolazione sanguigna cerebrale conseguente a eventi acuti, come un ictus o un'emorragia cerebrale, o a patologie croniche, come l'aterosclerosi. Come negli altri tipi di demenza, anche in questo caso il deterioramento delle capacità intellettive dipende da una degenerazione delle cellule nervose presenti nell'area cerebrale colpita, ma a determinare il danno neuronale in questo caso è principalmente il venir meno di un adeguato rifornimento di ossigeno e sostanze nutritive (in particolare, glucosio). Oltre all'età superiore ai 60 anni, il rischio di andare incontro a ictus o patologie cerebrovascolari croniche e sviluppare secondariamente demenza vascolare è aumentato dalla presenza di diabete, ipertensione, alti livelli di colesterolo nel sangue, malattie cardiache (in particolare, storia di infarto miocardico e fibrillazione atriale) e dall'abitudine al fumo. In genere, gli uomini tendono a essere interessati da demenza vascolare più spesso delle donne, soprattutto dopo i 70 anni. Sintomi e Diagnosi della demenza vascolare I sintomi che possono manifestarsi in presenza di demenza vascolare possono variare da paziente a paziente in funzione della specifica zona del cervello interessata dalla riduzione della circolazione sanguigna e possono comprendere manifestazioni cognitive/comportamentali e disturbi motori di varia natura e gravità. La loro insorgenza può essere improvvisa (come avviene dopo un ictus) oppure lenta e caratterizzata da peggioramento progressivo (ad es., in caso di micro-ictus ripetuti o in presenza di aterosclerosi diffusa). I sintomi cognitivi e comportamentali più comuni sono: Confusione mentale Difficoltà di concentrazione/facile distraibilità Difficoltà nel prendere decisioni, nel pianificare attività mediamente complesse Problemi di memoria/apprendimento Difficoltà del linguaggio Disturbi dell'equilibrio 108 Aumento del bisogno di urinare o problemi a controllare lo stimolo Maggior tendenza ad avere reazioni impulsive Agitazione Depressione Ansia e/o irritabilità Vagabondaggio durante la notte Nelle demenze vascolari a esordio lento e progressivo la diagnosi differenziale rispetto alla malattia di Alzheimer può essere difficile. Per questa ragione il medico, oltre alla visita neurologica prescriverà una serie di accertamenti clinici e strumentali quali analisi del sangue e del fluido cerebrospinale ed esami neuroradiologici dell'encefalo con risonanza magnetica funzionale (RMf) o tomografia a emissione di positroni (PET). Trattamento della demenza vascolare Attualmente, non si hanno a disposizione trattamenti specifici per contrastare una demenza vascolare dopo che si è instaurata. Si può, però, cercare di frenare l'evoluzione del danno cerebrale ed evitare che la situazione peggiori riducendo l'impatto negativo dei principali fattori di rischio, attraverso buone regole di vita (alimentazione equilibrata, ricca di frutta e verdura, pesce, cereali integrali, oli vegetali, e frutta secca; attività fisica regolare; pochi alcolici; niente fumo; controllo del peso corporeo) e terapie mirate (soprattutto, in caso di ipertensione, ipercolesterolemia, diabete e patologie cardiache). DEMENZA FRONTOTEMPORALE La Degenerazione frontotemporale ( FTD) è un processo patologico che provoca danni progressivi ai lobi temporali e / o frontali anteriore del cervello . Essa provoca un insieme di disturbi molto simili dal punto di vista clinico. Il segno distintivo della FTD è un graduale , progressivo declino nel comportamento e / o linguaggio ad esordio spesso precoce (tra i 50 e i 60 ), ma è accaduto anche a ventenni e a persone con più di 80 anni. Mano a mano che la malattia progredisce, diventa sempre più difficile per le persone pianificare e organizzare le proprie attività , comportarsi in modo 109 appropriato in contesti sociali o di lavoro, interagire con gli altri , e prendersi cura di se stessi , con conseguente diminuzione dell’ indipendenza… La FTD rappresenta circa il 10 % -20 % dei casi di demenza ed è riconosciuta come una delle demenze più comuni fra i giovani . Si stima che la FTD colpisca circa 50.000-60.000 americani. Si verifica in modo uguale in uomini e donne. In una piccola percentuale di casi, è ereditaria . Mentre al momento non ci sono trattamenti per rallentare o fermare la progressione della malattia, la ricerca è in espansione, e aumenta la conoscenza dei disturbi . Prevediamo che questa si tradurrà in un numero crescente di potenziali terapie in sperimentazione clinica che entrano in vigore nei prossimi anni. Caratteristiche cliniche I lobi frontali del cervello sono associati con il processo decisionale e il controllo del comportamento, e i lobi temporali, con emozioni e linguaggio. Mentre la FTD è segnata da una serie di comportamento, personalità, e cambiamenti cognitivi, diversi sottotipi della malattia sono stati identificati sulla base di sintomi distinti e presentazione clinica. La Degenerazione frontotemporale è caratterizzata dalla perdita di empatia e da turbe ingravescenti del comportamento sociale, ed è conosciuta clinicamente come variante comportamentale della FTD (bvFTD), malattia di Pick, o variante frontale FTD (fvFTD). Quando predominano i problemi di linguaggio, si definisce Afasia progressiva primaria (PPA). La FTD con malattia del motoneurone, la sindrome cortico-basale, e la paralisi sopranucleare progressiva sono sottotipi di FTD caratterizzati da debolezza muscolare, rigidità e / o sintomi parkinsoniani. MALATTIA DI PICK La malattia di Pick, o morbo di Pick (da non confondersi con la malattia di Niemann-Pick) è una malattia cerebrale degenerativa poco comune (10-15 volte meno frequente della malattia di Alzheimer), clinicamente caratterizzata da demenza. È attualmente considerata una patologia appartenente ai quadri sindromici delle Demenze Fronto-Temporali (FTD). Il quadro anatomopatologico è caratterizzato da atrofia dell'area fronto-temporale e dalla presenza di caratteristiche alterazioni neuronali costituite dai corpi di Pick. I corpi di Pick sono inclusioni 110 intracellulari filamentose composte da neurofilamenti, simili alle inclusioni osservate nella malattia di Alzheimer. Le alterazioni comportamentali si manifestano come stati di agitazione psicomotoria (wandering o deambulazione afinalistica: è un po' come se il paziente fosse una tigre in gabbia che cammina avanti ed indietro). Talvolta i soggetti che ne sono affetti manifestano la loro ansia con crisi di violenza inaudita ovvero con crisi di panico e di pianto. In genere è alterato completamente il carattere e la personalità del paziente, il quale presenta persino un bassissimo livello di inibizione. La sindrome è facilmente confondibile con la malattia di Alzheimer con cui è talora associata. A differenza del vero demente, il malato di Pick perde le proprie capacità espressivo-espositive molto più rapidamente, ma non quelle di lettura e di scrittura, che invece sono conservate più a lungo nel tempo. La patogenesi è sconosciuta, e le terapie, analogamente a quelle della malattia di Alzheimer, sono a livello sperimentale. Importantissima, come nelle altre demenze, la terapia di supporto. MORBO DI PARKINSON Il morbo di Parkinson è una malattia degenerativa del sistema nervoso centrale. E’ stata descritta per la prima volta nel 1817 da James Parkinson, un medico britannico che pubblicò un saggio su ciò che lui chiamava la paralisi agitante; in questo saggio espone i principali sintomi della malattia, a cui più darti è stato dato il suo nome. I ricercatori stimano che almeno 500.000 persone nei soli Stati Uniti hanno il morbo di Parkinson, sebbene alcune stime risultino anche più alte. La società paga un enorme prezzo per il morbo di Parkinson: il costo totale negli USA è stato stimato eccedere i 6 miliardi di dollari all’anno. Il rischio di sviluppare il morbo di Parkinson aumenta con l’età, cosi gli analisti si aspettano che l’impatto finanziario e pubblico sulla salute peggiori con l’invecchiamento della popolazione. Il morbo di Parkinson appartiene al gruppo di condizioni patologiche che provocano disturbi di movimento. I quattro principali sintomi sono: tremito, o tremore nelle mani, nelle braccia, nelle gambe, alla mascella, o alla testa; rigidità degli arti e al tronco; bradicinesia, ossia lentezza nei movimenti; 111 instabilità di posizione, o equilibrio indebolito. Questi sintomi iniziano gradualmente e peggiorano con il tempo; poichè si fanno più marcati, i pazienti potrebbero arrivare ad avere delle difficoltà nel camminare, parlare o completare altre semplici azioni. Non tutti quelli che presentano uno o più di questi sintomi ha il morbo di Parkinson, poiché questi sintomi a volte si presentano anche in altre malattie. Il morbo di Parkinson è cronico, cioè che persiste per un lungo periodo di tempo, progressivo, ossia si aggrava con il tempo. Non è contagioso: sebbene alcuni casi di morbo di Parkinson sembrino essere ereditari, e pochi possono essere attribuiti a specifiche mutazioni genetiche, la maggior parte dei casi sono sporadici e la malattia non sembra trasmettersi in famiglia. Attualmente molti ricercatori credono che il morbo di Parkinson derivi dalla combinazione della predisposizione genetica con l’esposizione a uno o più fattori ambientali concausa della malattia. Il morbo di Parkinson è la più comune forma di parkinsonismo, il nome di un gruppo di malattie con caratteristiche e sintomi simili; è anche chiamato parkinsonismo primario o morbo di Parkinson idiopatico, il termine idiopatico sta ad indicare una malattia per la quale non è stata trovata ancora nessuna causa. Mentre la maggior parte delle forme di parkinsonismo sono idiopatiche, ci sono dei casi in cui la causa è conosciuta o sospetta o in cui i sintomi sono causati da un’altra malattia: ad esempio il parkinsonismo può essere causato da cambiamenti nei vasi sanguigni del cervello. Cause Il morbo di Parkinson è dovuto dal punto di vista biochimico alla degenerazione cronica e progressiva che interessa soprattutto alcune strutture del sistema nervoso centrale, in particolare dove viene prodotta la dopamina, un neurotrasmettitore essenziale per il controllo dei movimenti corporei: in altre parole diminuisce la quantità disponibile nell’organismo di una sostanza legata al controllo dei movimento, la dopamina. Il morbo colpisce circa per il 50% in più gli uomini delle donne, ma le ragioni di questa discrepanza non sono chiare; sebbene venga riscontrato in persone di ogni parte nel mondo, numerosi studi hanno riscontrato una più alta incidenza nei paesi sviluppati. Altri studi hanno riscontrato un aumentato rischio nelle persone che vivono nelle zone rurali ed in quelle che svolgono certe 112 professioni, anche se gli studi fino a oggi non sono conclusivi e le cause alla base dei fattori di rischio non sono chiare. Sicuramente può comparire in seguito a traumi alla testa (è molto diffuso tra ex pugili), esposizione a sostanze tossiche nell’ambiente ed arteriosclerosi cerebrale. Un causa certa di aumento della frequenza di comparsa del morbo di Parkinson è l’età: l’età media dei sintomi iniziali è di 60 anni e l’incidenza sale significativamente con l’aumentare dell’età. Circa il 5-10% delle persone con il morbo di Parkinson presentano i primi sintomi della malattia prima dei 50 anni e spesso queste forme si rivelano ereditarie e, benché non sempre, ricollegati a specifiche mutazioni geniche. Le persone con uno o più parenti stretti che hanno il morbo di Parkinson hanno un aumentato rischio di contrarre anch’essi la malattia, ma il rischio totale è soltanto dal 2 al 5 % esclusi i casi con una nota mutazione genetica per la malattia. Si stima che dal 15 al 25% di malati ha un parente stretto con la stessa malattia. In casi molto rari i sintomi parkinsoniani potrebbero manifestarsi in persone che hanno meno di 20 anni di età, questa condizione è chiamata parkinsonismo giovanile. Si trova più comunemente in Giappone, ma si conoscono casi anche in altri paesi: di solito inizia con distonia e bradicinesia (entrambi disordini del movimento) e i sintomi spesso migliorano con l’uso del farmaco levodopa. Il Parkinsonismo giovanile spesso si trasmette in famiglia ed a volte è collegato ad un gene mutato. Sebbene esistano molte teorie sulla causa del morbo di Parkinson, nessuna è stata provata. La teoria prevalente sostiene che uno o più fattori ambientali hanno causato la malattia: sintomi gravi come quelli di Parkinson sono stati descritti in persone che facevano uso di droghe illegali contaminate da MPTP chimico e in persone che hanno contratto una particolare e grave forma di influenza durante un’epidemia agli inizi del 1918. Recenti studi su gemelli e su famiglie con il Parkinson suggeriscono che alcune persone hanno una predisposizione ereditaria alla malattia che può essere influenzata da fattori ambientali. La forte ereditarietà familiare del gene cromosoma 4 è la prima evidenza che un’alterazione genica da sola può portare a sviluppare il morbo di Parkinson. Sintomi I primi sintomi del morbo di Parkinson sono lievi e si presentano gradualmente. Le persone affette potrebbero : 113 avvertire lievi tremolii, avere difficoltà a rialzarsi da una sedia, accorgersi che parlano troppo piano, avere una scrittura lenta e che sembra illeggibile o piccola, perdere il filo del discorso o del pensiero, sentirsi stanchi, irritabili, depressi senza un apparente motivo Questo primissimo periodo potrebbe durare molto tempo prima che i sintomi più classici ed evidenti si manifestino: gli amici o i familiari potrebbero essere i primi a notare dei cambiamenti in qualcuno con un morbo di Parkinson iniziale. Potrebbero notare che il suo viso appare privo di espressione e vivacità (faccia amimica) o non più in grado di muovere normalmente un braccio o una gamba. Potrebbero notare anche che sembra irrigidito, instabile od insolitamente lento. Col progredire della malattia il tremore che colpisce la maggior parte dei pazienti con il morbo di Parkinson potrebbe iniziare a interferire con le attività quotidiane: i malati potrebbero non essere più in grado di tenere utensili fermi o potrebbero rendersi conto che il tremolio rende difficile la lettura di un giornale. Il tremore è di solito il sintomo che causa la necessità di cure mediche. Le persone con morbo di Parkinson spesso sviluppano la cosiddetta andatura parkinsoniana che comprende: una tendenza a sporgersi in avanti, piccoli passi veloci come se si affrettasse in avanti, ridotta oscillazione delle braccia. Potrebbero avere anche delle difficoltà ad iniziare un movimento e potrebbero fermarsi improvvisamente mentre camminano. Il morbo di Parkinson non colpisce tutti allo stesso modo e il ritmo di progressione differisce tra i pazienti: il tremore è il principale sintomo per alcuni pazienti, mentre per altri il tremore è inesistente o molto lieve. 114 I sintomi del morbo di Parkinson spesso si manifestano inizialmente in una sola metà del corpo (sinistra o destra), ma con il tempo colpirà entrambi i lati (anche se spesso i sintomi sono meno gravi in una parte rispetto all’altra). I quattro principali sintomi comunque sono: Tremore. Il tremore associato al morbo di Parkinson ha una manifesta caratteristica: prende la forma di un movimento ritmico in cui è possibile individuare 4-6 battiti al secondo. Potrebbe colpire il pollice e l’indice, spesso inizialmente solo in una mano, sebbene a volte un piede o la bocca siano le prime parti colpite. E’ molto evidente quando la mano è ferma o la persona si trova sotto stress. Ad esempio il tremore potrebbe diventare più pronunciato pochi secondi dopo che le mani si sono appoggiate sul tavolo. Il tremore di solito scompare durante il sonno o migliora con movimenti intenzionali. Rigidità. La rigidità, o resistenza al movimento, colpisce la maggior parte delle persone con il morbo di Parkinson. Il principio più importante del movimento del corpo è che tutti i muscoli hanno un muscolo opposto: il movimento è possibile non solo perchè un muscolo diventa più attivo, ma perchè l’opposto si rilassa. Nel morbo di Parkinson la rigidità si avverte quando , in risposta ai segnali dal cervello, il delicato equilibrio muscolare è disturbato. I muscoli rimangono costantemente tesi e contratti, cosicché la persone avverte dolore o si sente irrigidita e debole. La rigidità diventa evidente quando un’altra persona cerca di muovere il braccio del paziente, che si muoverà solo con movimenti a scatti o brevi. Bradicinesia . La bradicinesia, o lentezza dei movimenti, è particolarmente frustrante perchè può rendere delle semplici azioni alquanto difficili. La persona non riesce ad eseguire rapidamente movimenti quotidiani, le attività che prima eseguiva rapidamente e facilmente, come lavare o vestirsi, potrebbero richiedere tempi molto più lunghi. Instabilità di posizione. L’instabilità di posizione, o equilibrio indebolito, causa ai pazienti un alto rischio di caduta. Le persone affette potrebbero anche sviluppare una posizione curva nella quale la testa è chinata e le spalle sono calate. Molti altri sintomi potrebbero accompagnare il morbo di Parkinson. Alcuni lievi altri più invalidanti: la maggior parte può essere curata con farmaci o con fisioterapia, ma nessuno può predire quali sintomi colpiranno un singolo paziente e con quale intensità. Ricordiamo fra gli altri: 115 Depressione. Questo è un problema comune e può manifestarsi presto nel corso nel corso della malattia, persino prima che vengano notati gli altri sintomi. Per fortuna la depressione di solito può essere curata con successo con antidepressivi. Sbalzi di umore. Alcune persone con il morbo di Parkinson diventano paurosi e insicuri. Forse hanno paura di non riuscire a far fronte alla nuova situazione. Non vogliono viaggiare , andare alle feste, o socializzare con gli amici. Alcuni perdono motivazione e diventano dipendenti dai loro familiari, altri possono diventare irritabili o pessimisti. Difficoltà nell’inghiottire e nel masticare. I muscoli usati per masticare potrebbero funzionare in maniera meno efficiente negli ultimi stadi della malattia. In questi casi cibo e saliva potrebbero accumularsi nella bocca e tornare indietro nella gola, causando soffocamento o bave. Questi problemi potrebbero anche rendere difficile un’adeguata alimentazione. I logopedisti, gli ergoterapeuti e i dietisti spesso possono essere d’aiuto per questi problemi. Cambiamenti nel linguaggio. Circa la metà di tutti i pazienti hanno problemi di linguaggio. Potrebbero parlare troppo piano o in tono monotono, esitare prima di parlare, pronunciare in modo confuso o ripetere le parole, parlare troppo velocememte. Un logopedista potrebbe riuscire ad aiutare i pazienti a ridurre alcuni di questi problemi. Problemi urinari o di stitichezza. In alcuni pazienti i problemi alla vescica e all’intestino possono manifestarsi a causa dell’irregolare funzionamento del sistema nervoso, che è responsabile della regolazione dell’attività dei muscoli interessati. Alcune persone potrebbero diventare incontinenti, mentre altre potrebbero avere dei disturbi urinando. Altri potrebbero avere problemi di stitichezza perchè l’apparato intestinale funziona più lentamente. La stitichezza può anche essere causata dall’inattività, scarsa alimentazione o bevendo pochi liquidi. I farmaci usati per curare il morbo di Parkinson possono anche essere d’aiuto per la stitichezza. Può anche essere un problema persistente e, in rari casi, può essere abbastanza grave da richiedere il ricovero in ospedale. Problemi alla pelle. Con il morbo di Parkinson è comune per la pelle del viso diventare grassa, specialmente sulla fronte e sul naso. Anche il cuoio capelluto potrebbe diventare grasso, facendo quindi comparire forfora. In altri casi la pelle potrebbe diventare molto secca. Questi problemi sono anche causati da un irregolare funzionamento del sistema nervoso autonomo. Le cure standard per i problemi della pelle possono essere d’aiuto. L’eccessiva sudorazione, un altro comune sintomo, è di solito controllabile con i farmaci usati per il morbo di Parkinson. 116 Problemi del sonno. I problemi del sonno, comuni con il morbo di Parkinson, includono difficoltà a mantenere il sonno di notte, sonno agitato, incubi e sogni emotivi, sonnolenza o improvviso sonno durante il giorno. Demenza o altri problemi cognitivi. Alcune persone, ma non tutte, con il morbo di Parkinson potrebbero sviluppare problemi di memoria e pensiero lento. In alcuni di questi casi i problemi cognitivi si aggravano portando ad una condizione chiamata demenza di Parkinson nel tardo corso della malattia. Questa demenza potrebbe colpire la memoria, la capacità si giudizio sociale, linguaggio, ragionamento o altre abilità mentali. Attualmente non esiste un metodo per fermare la demenza di Parkinson, ma si ipotizza che un farmaco chiamato rivastigmina potrebbe ridurre leggermente i sintomi comportamentali in alcune persone con demenza di Parkinson. Ipotensione ortostatica. L’ipotensione ortostatica è un improvviso calo della pressione sanguigna quando una persona si alza in piedi da una posizione distesa causando vertigini e, in casi estremi, perdita di equilibrio o svenimento. Alcuni studi hanno suggerito che, nel morbo di Parkinson, questo problema deriva da una perdita delle terminazioni nervose nel sistema nervoso simpatico che controlla la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e altre funzioni automatiche del corpo. I farmaci usati per curare il morbo di Parkinson potrebbero essere d’aiuto per questi sintomi. Crampi ai muscoli e distonia. La rigidità e la mancanza del normale movimento associate al morbo di Parkinson spesso causano crampi ai muscoli, soprattutto alle gambe e alle dita dei piedi. Massaggi, stretching, calore potrebbero essere d’aiuto per questi crampi. Il morbo di Parkinson può anche essere associato a distonia, ossia prolungate contrazioni dei muscoli che causano posizioni forzate o distorte. La distonia nel morbo di Parkinson è spesso causata da oscillazioni del livello di dopamina nel corpo. Di solito può essere alleviata o ridotta regolando le dosi di farmaci della persona. Dolore. Molte persone con il morbo di Parkinson sviluppano dolore ai muscoli e alle articolazioni a causa della rigidità e posizioni anormali spesso associate alla malattia. La cura con levodopa ed altri farmaci dopaminergici (che mimano l’azione della dopamina) spesso allevia questi dolori per un periodo. Nelle persone con il morbo di Parkinson potrebbe anche manifestarsi dolore dovuto alla compressione delle radici nervose o spasmi dei muscoli relativi a distonia. In rari casi possono sviluppare inspiegabile bruciore e sensazioni di dolore acuto. Questo tipo di dolore, chiamato dolore neuropatico, ha origine nel cervello. I farmaci dopaminergici, gli oppiacei, gli antidepressivi e altri tipi di farmaci possono essere tutti usati per questo tipo di dolore. 117 Stanchezza e perdita di energia. Le insolite esigenze di vita con il morbo di Parkinson spesso portano a problemi di stanchezza, soprattutto verso la fine della giornata. La stanchezza potrebbe essere associata a depressione o a disordini del sonno, ma potrebbe essere anche causata da stress dei muscoli o da un’eccessiva attività quando la persona si sente bene. La stanchezza potrebbe anche essere causata da acinesia, ossia disturbi nelle fasi iniziali o avanzate di un movimento. Esercizio, buone abitudini di sonno, restare attivi mentalmente e non sforzarsi nel fare troppe attività in poco tempo potrebbero aiutare ad alleviare la stanchezza. Diagnosi Il morbo di Parkinson viene di solito diagnosticato da un neurologo che valuta i sintomi e la loro gravità. Non c’è un test che può chiaramente identificare la malattia, a volte alle persone con sospetto morbo di Parkinson vengono dati farmaci anti-Parkinson per verificare la risposta. Altri strumenti diangnostici possono aiutare il medico nella diagnosi: le microscopiche strutture del cervello chiamate corpi si Lewy che possono essere viste solo nel corso di un’autopsia , sono considerate come un segno caratteristico classico del Parkinson. Le autopsie hanno scoperto i corpi di Lewy in un sorprendente numero di persone più vecchie senza che gli sia stato diagnosticato il morbo di Parkinson. Di conseguenza alcuni esperti credono che il morbo di Parkinson sia molto più comune di quanto si pensi e, addirittura, c’è chi sostiene che quasi tutti svilupperebbero il morbo di Parkinson se vivessero abbastanza a lungo. Cura e terapia Non esiste speranza di guarigione per il morbo di Parkinson. Molti pazienti affetti da forme lievi non hanno bisogno di cure per diversi anni dopo la diagnosi iniziale; quando i sintomi si aggravano i medici di solito prescrivono inzialmente la levodopa (L-dopa), che aiuta a ristabilire gli equilibri di dopamina nel cervello. A volte vengono prescritti anche altri farmaci che hanno effetto sui livelli di dopamina nel cervello: nei pazienti gravi un intervento chirurgico al cervello conosciuto come pallidotomia è risultato essere indirettamente efficace nel ridurre i sintomi. 118 Prognosi Il morbo di Parkinson non è una malattia mortale di per sé, ma peggiora con il tempo. L’aspettativa di vita media di un paziente con il morbo di Parkinson è generalmente la stessa di una persona che non ha la malattia, tuttavia negli ultimi stadi il morbo di Parkinson potrebbe causare complicazioni come asfissia, polmonite e cadute che possono portare alla morte. Il progredire dei sintomi nel morbo di Parkinson potrebbe impiegare 20 anni o più, ma in alcune persone la malattia progredisce più rapidamente. Non esiste un metodo per predire quale corso avrà la malattia per ogni singola persona. CRITERI PER LA DIAGNOSI DI DEMENZA CRITERI DIAGNOSTICI PER LA DEMENZA - DSM IV Da "DSM-IV Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali", Masson 1999 CRITERI DIAGNOSTICI PER LA DEMENZA TIPO ALZHEIMER A. Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti: 1) deficit della memoria (compromissione della capacità di apprendere nuove informazioni o di ricordare informazioni già acquisite) 2) una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive: a) afasia (alterazione del linguaggio) b) aprassia (alterazione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l'integrità della funzione motoria) c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l'integrità della funzione sensoriale) d) disturbo delle funzioni esecutive (cioè, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza, astrarre). B. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta un significativo declino rispetto ad un precedente livello di funzionamento. 119 C. Il decorso è caratterizzato da insorgenza graduale e declino continuo delle facoltà cognitive. D. I deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 non sono dovuti ad alcuno dei seguenti fattori: 1) altre condizioni del sistema nervoso centrale che causano deficit progressivi della memoria e delle facoltà cognitive (per es., malattia cerebrovascolare, malattia di Parkinson, mallattia di Huntington, ematoma sottodurale, idrocefalo normoteso, tumore cerebrale) 2) affezioni sistemiche che sono riconosciute come causa di demenza (per es., ipotiroidismo, deficienza di vitamina B12 o acido folico, deficienza di niacina, ipercalcemia, neurosifilide, infezione HIV) 3) affezioni indotte da sostanze. E. I deficit non si presentano esclusivamente durante il decorso di un delirium. F. Il disturbo non risulta meglio giustificato da un altro disturbo dell'Asse I (per es., Disturbo Depressivo Maggiore, Schizofrenia). CRITERI DIAGNOSTICI PER DEMENZA VASCOLARE A. Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti: 1) deficit della memoria (compromissione della capacità di apprendere nuove informazioni o di ricordare informazioni già acquisite) 2) una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive: a) afasia (alterazione del linguaggio) b) aprassia (alterazione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l'integrità della funzione motoria) c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l'integrità della funzione sensoriale) d) disturbo delle funzioni esecutive (cioè, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza, astrarre). 120 B. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta un significativo declino rispetto ad un precedente livello di funzionamento. C. Segni e sintomi neurologici focali (per es., accentuazione dei riflessi tendinei profondi, risposta estensoria plantare, paralisi pseudobulbare, anomalie della deambulazione, debolezza di un arto) o segni di laboratorio indicativi di malattia cerebrovascolare (per es., infarti multipli che interessano la corteccia e la sostanza bianca sottostante) che si ritengono eziologicamente correlati al disturbo. D. I deficit non si manifestano esclusivamente durante il decorso di un delirium. CRITERI DIAGNOSTICI PER LA DEMENZA DOVUTA AD ALTRE CONDIZIONI MEDICHE GENERALI A. Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti: 1. deficit della memoria (compromissione della capacità di apprendere nuove informazioni o di ricordare informazioni già acquisite) 2. una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive: a) afasia (alterazione del linguaggio) b) aprassia (alterazione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l'integrità della funzione motoria) c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l'integrità della funzione sensoriale) d) disturbo delle funzioni esecutive (cioè, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza, astrarre). B. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta un significativo declino rispetto ad un precedente livello di funzionamento. 121 C. Vi è dimostrazione dalla storia, dall'esame fisico, o da reperti di laboratorio, che il disturbo è la conseguenza fisiologica diretta di una delle condizioni mediche sotto elencate. Demenza Dovuta a Malattia da HIV Demenza Dovuta a Trauma Cranico Demenza Dovuta a Malattia di Parkinson Demenza Dovuta a Malattia di Huntington Demenza Dovuta a Malattia di Pick Demenza Dovuta a Malattia di Creutzfeldt-Jakob Demenza Dovuta a altro D. I deficit non ricorrono esclusivamente durante il decorso di un delirium. CRITERI DIAGNOSTICI PER LA DEMENZA PERSISTENTE INDOTTA DA SOSTANZE A. Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti: 1) deficit della memoria (compromissione della capacità di apprendere nuove informazioni o di ricordare informazioni già acquisite) 2) una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive: a) afasia (alterazione del linguaggio) b) aprassia (alterazione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l'integrità della funzione motoria) c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l'integrità della funzione sensoriale) d) disturbo delle funzioni esecutive (cioè, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza, astrarre). 122 B. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta un significativo declino rispetto ad un precedente livello di funzionamento. C. I deficit non ricorrono esclusivamente durante il decorso di un delirium, e persistono oltre la durata usuale della Intossicazione o Astinenza da Sostanze. D. Vi è dimostrazione dalla storia, dall'esame fisico, o da reperti di laboratorio, che i deficit sono eziologicamente correlati agli effetti persistenti dell'uso di sostanza (per es., una sostanza di abuso, un farmaco). CRITERI DIAGNOSTICI DEMENZA DOVUTA AD EZIOLOGIE MOLTEPLICI A. Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti: 1) deficit della memoria (compromissione della capacità di apprendere nuove informazioni o di ricordare informazioni già acquisite) 2) una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive: a) afasia (alterazione del linguaggio) b) aprassia (alterazione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l'integrità della funzione motoria) c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l'integrità della funzione sensoriale) d) disturbo delle funzioni esecutive (cioè, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza, astrarre). B. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta un significativo declino rispetto ad un precedente livello di funzionamento. C. Vi è dimostrazione dalla storia, dall'esame fisico, o da reperti di laboratorio, che il disturbo ha più di una eziologia (per es., trauma cranico più 123 uso cronico di alcool, Demenza Tipo Alzheimer con il successivo sviluppo di Demenza Vascolare). D. I deficit non ricorrono esclusivamente durante il decorso di un delirium. LA PSICOLOGIA SOCIALE MALIGNA Sia pure con dolente rassegnazione, spesso nei colloqui dei familiari caregiver di malati di demenza emergono frasi come: “Non capisce ciò che gli dico”; “Non sa più prendere decisioni”; “E’ diventato pigro”; “Non sa fare più niente”. Tali convinzioni sono determinate dalle inconfutabili manifestazioni della progressione della malattia che implica la perdita di molte capacità, fra cui costruire un ragionamento, pianificare le azioni della vita quotidiana, saper utilizzare correttamente gli oggetti più banali. Quanto basta per infantilizzare chi ci vive accanto da anni, assumendo nei suoi confronti un tono paternalistico e di costante correzione, improntato dall’impotenza di un recupero del passato. Ma, come spiegavamo nel precedente articolo, un atteggiamento di questo tipo non passa inosservato al malato, assai ricettivo ai toni della voce ed espressioni del volto. Con l’espressione “psicologia sociale maligna” Tom Kitwood spiega le modalità con cui la condotta assunta verso il malato nel trattarlo come se non ci fosse, o non capisse, influisca negativamente sulla propria percezione di sé. Certi come siamo che la demenza sia una forma totalmente invalidante per chi ne è colpito, corriamo il rischio di non considerare il piano della soggettività del malato, di come viva la sua condizione e di come agisca per affrontare i profondi mutamenti che certamente non sono stati scelti in base alla sua volontà. In quest’articolo si tenterà pertanto di consigliare alcuni comportamenti da riservare al soggetto assistito a proposito delle abilità che non si sono ancora smarrite, al fine di contrastare la stereotipata affermazione “Non è più in grado di fare niente”. In prima battuta è opportuno chiarire che il termine memoria va declinato al plurale. Diverse sono, infatti, le forme di memoria da noi utilizzate e, nella malattia, esse subiscono variazioni in funzione dei vari stadi di gravità: la memoria a breve termine ha una compromissione assai precoce, più tardi il deficit si estende alla memoria semantica e autobiografica, mentre la memoria procedurale resta attiva sino a uno stadio avanzato. Quest’ultima, conosciuta anche come “automatica” è una memoria di tipo implicito, ovvero il suo recupero non prescinde da una consapevolezza. Per meglio 124 chiarire il suo funzionamento occorre considerare che ogni nostra azione prevede sequenze organizzate e sequenziali per raggiungere un determinato fine. Molte di esse, svolte quotidianamente nell’arco di una vita (lavarsi i denti, allacciare i bottoni, sfogliare un giornale) diventano superapprese, e possono perciò essere agite senza bisogno di ragionamento. Il malato di Alzheimer conserva a lungo le abilità del fare controllate dalla memoria procedurale. Forse non ce ne accorgiamo perché prevalgono altri aspetti psicologici della patologia, quali la depressione, l’apatia, la passività, o probabilmente perché il fastidio determinato dallo scarso risultato dell’opera compiuta ci spinge a sostituirci a lui e farlo al posto suo. Se però il malato non viene stimolato a esercitare le normali occupazioni di tutti i giorni, sarà destinato a perdere quelle funzioni con maggior velocità. Quali sono dunque i suggerimenti di supporto? - darsi tempo: l’organizzazione del quotidiano dovrà perdere l’intensità del ritmo usuale e assumere tempi lenti, poiché lenta è la reazione del nostro malato alle sollecitazioni date. Spiegargli passo dopo passo con parole semplici la sequenza dell’attività che si sta svolgendo, ripetendo il messaggio più volte, avrà un effetto di rassicurazione e di diminuzione dello stato d’ansia. - scegliere attività senza sconfitta: le azioni richieste devono tener conto delle capacità ancora funzionanti e dei limiti che nel tempo si sono sviluppati. Ciò significa che non bisogna avere come riferimento la bravura di chi ci sta accanto prima che si ammalasse, ma che dobbiamo semplificare le proposte e non demoralizzarci se ugualmente il risultato non corrisponde esattamente all’aspettativa. - mantenere una coerenza con la storia biografica: se il soggetto malato non ha mai dimostrato interesse verso una certa attività, è assurdo presentargliela nella sua nuova condizione di vita e pretendere che la svolga in forma partecipata. - manifestare forme di apprezzamento per l’azione compiuta: nonostante gli esiti possano essere non soddisfacenti, ringraziare e lodare l’impegno poiché questo atteggiamento rinforzerà benessere e autostima nella persona, restituendole fiducia e soddisfacimento di quei bisogni psicologici che fanno parte di ognuno di noi (attaccamento, riconoscimento, senso di appartenenza, autorealizzazione). 125 - allestire un ambiente facilitante per compensare i deficit di orientamento: lo spazio di vita del malato deve essere adattato per mantenere il più a lungo possibile la sua autonomia attraverso stimoli che aiutino il suo movimento ed eliminando tutto ciò che può arrecargli danno o pericolo. Queste indicazioni generali ci inducono a riconsiderare lo stereotipo da cui eravamo partiti e a cercare di immaginare nuove forme di normalità per vivere il tempo con chi non ne riconosce più la misura. Tutti concordiamo sul fatto che lo svolgere un’attività o conservare un impegno è positivo per ogni essere umano, se scelti sulla base delle proprie capacità e interessi. Anche per la persona malata vale questo principio a condizione che le occupazioni selezionate – che possono essere veramente molteplici – siano di non eccessiva durata, utili, semplici, conosciute e, soprattutto, non stressanti. La regola principale è che le cose si facciano insieme, e non su comando. Attività del quotidiano e passatempi mantengono così il senso che si è dato loro durante tutta l’esistenza, pur modificandosi nei tempi e nei modi di esecuzione. Ecco quindi che per le persone di sesso femminile sarà utile orientare le proposte verso piccoli lavori legati alla gestione della casa e delle faccende domestiche: apparecchiare la tavola, spolverare, pelare le patate, sbucciare la frutta per la preparazione della macedonia, sistemare i cassetti piegando fazzoletti, mutande, calzini, asciugamani, stendere e ritirare la biancheria, asciugare e riporre le posate. Queste mansioni condotte nella quotidianità possono fare sentire ancora la malata all’altezza della situazione e utile per la conduzione della casa. Per i malati di sesso maschile, invece, si può tenere conto della loro professione o dei loro hobby: piccoli compiti di bricolage, bagnare l’orto, sistemare libri sugli scaffali, ordinare bollette o documenti, ritagliare immagini, segnare sul calendario appuntamenti o ricorrenze. Naturalmente non vanno scordate le attività di divertimento e ludiche: giocare a carte, ballare, cantare ritornelli di canzoni note, fare acquisti, mangiare una pizza, divertirsi con i nipotini, passeggiare nel verde. La reazione più tipica del caregiver è: “Ma sbaglia tutto, non lo sa fare più!”. Non importa il risultato. Ai fini del benessere del nostro assistito vale più la sua soddisfazione di aver contribuito all’ordine domestico piuttosto che la bontà effettiva di quanto prodotto. Forma ed esteriorità diventano problemi di chi assiste, non certo del malato. Anzi, nel ringraziarlo per l’aiuto ricevuto, saranno ridotte le possibilità di frustrazione e di rabbia. 126 Una volta accettato l’altro per quello che può ancora dare e accantonata l’idea che il “fare” sia una produzione, sarà giunto il momento di scoprire quante siano le cose che con l’altro possono ancora accadere e come questo comporti significazione del suo esserci, nonostante tutto. LA PSICOLOGIA SOCIALE BENIGNA Premessa La psicologia, a partire dalla Seconda Guerra mondiale, e' diventata per lo piu' una scienza legata alla sofferenza. Essa si e' concentrata in prevalenza sul riparare i danni, riferendosi ad un modello di funzionamento degli esseri umani basato sulla malattia. I suoi obiettivi principali erano: curare le patologie mentali; rendere la vita degli individui piu' produttive e soddisfacenti; identificare e coltivare i talenti. I primi tentativi di focalizzarsi su alcuni aspetti della psicologia positiva sono stati effettuati da Terman nel 1939, con i suoi studi sul dono, la gratuita' e la felicita' coniugale (Terman e coll., 1938), gli scritti di Watson (1928) sulle cure genitoriali efficaci, i lavori di Jung (1933) sulla ricerca e la scoperta del senso della vita. Altri due eventi contribuirono al mutamento della psicologia, al termine della Seconda Guerra mondiale: la fondazione della Veteran's Administration nel 1946 e del National Institute of Mental Health nel 1947, che contribuirono a dare credito scientifico agli studi e alle ricerche sulla psicopatologia. Se, da una parte, questo produsse notevoli progressi nella diagnosi e nella cura delle malattie mentali (si divenne in grado di curare o, almeno, di alleviare circa 14 disordini, prima non trattabili), dall'altra, pero', si dimentico' quasi completamente il terzo obiettivo della psicologia: l'identificazione e la coltivazione dei talenti. La necessita' di fondare la psicologia positiva si comincio' ad avvertire durante la Seconda Guerra mondiale, quando Seligman e coll. notarono che molte persone, in precedenza fiduciose e di successo, diventarono sfiduciate e depresse, dopo che la Guerra aveva sottratto loro i sostegni 127 sociali, il lavoro, il denaro e lo status. Al contrario, invece, nonostante tutto cio', alcune persone riuscirono a mantenere la loro integrita' e la loro serenita'. Da questa constatazione sorse spontaneo l'interrogativo: da quali forze erano guidati questi individui? A giudizio di Seligman, le risposte di Freud e di Jung non erano soddisfacenti. Neppure gli psicologi umanisti, Maslow, Rogers, May, sembravano essere in grado di dare risposte scientifiche, basate empiricamente al quesito, nonostante il rinnovato accento sul Se' che essi ponevano. Seligman ritenne, a quel punto, che i tempi erano maturi per fondare la psicologia positiva. Lo scopo principale della psicologia positiva e' quello di spostare il focus solo dal "riparare" cio' che non funziona al costruire anche le qualita' positive. Essa si propone di studiare la forza e la virtu' che ha a che fare con il lavoro, l'educazione, l'introspezione, l'amore, la crescita, il gioco. Per fare cio', si propone di adattare cio' che di meglio offre il metodo scientifico all'unicita' dei comportamenti umani. La psicologia positiva, sul piano soggettivo, valorizza le esperienze soggettive: ben-essere, appagamento e soddisfazione in prospettiva passata, speranza e ottimismo in prospettiva futura, flusso e velocita' in prospettiva presente. A livello individuale si focalizza sui tratti positivi individuali: la capacita' di amare e di lavorare, il coraggio, le abilita' interpersonali, la sensibilita' estetica, la perseveranza, la capacita' di perdonare, l'originalita', l'orientamento al futuro, la spiritualita', il talento, la saggezza. A livello di gruppo si focalizza sulle virtu' civiche e le istituzioni che spingono l'individuo ad essere un buon cittadino: la responsabilita', l'educazione, l'altruismo, la civilta', la moderazione, la tolleranza e il lavoro etico. Cio' che e' alla base di questo approccio e' il concetto di prevenzione. Partendo dalla constatazione che il modello basato sulla malattia, che consisteva nel lavorare solo sui punti deboli, non era efficace in tal senso, si imponeva sempre piu' la necessita' di una scienza basata sulla forza e sulla resilienza. Gli individui non dovevano piu' essere considerati passivi, ma esseri attivi, in grado di scegliere, di assumersi rischi e responsabilita'. Questo avrebbe permesso agli individui di imparare a condurre stili di vita piu' sani a livello psicofisico e di ri-orientare la psicologia verso un maggiore perseguimento del terzo obiettivo: rendere piu' forti e produttive le persone sane e consentire la messa in atto delle potenzialita' umane piu' elevate. 128 LA DEPRESSIONE IN ETA’ SENILE: FATTORI DI RISCHIO, LA VALUTAZIONE ED IL SUO TRATTAMENTO Quanto è diffusa la depressione nella popolazione anziana? La depressione è molto comune negli anziani, anche se non deve essere considerata una componente “normale” dell’età avanzata. In particolare, la sua frequenza varia a seconda delle popolazioni considerate. Nel nostro Paese si stima che circa il 20% degli anziani residenti a domicilio presentano sintomi depressivi clinicamente rilevanti, mentre tra quelli ricoverati in reparti ospedalieri la percentuale sale a oltre il 30% e negli ospiti delle case di riposo sino al 45%. Tali differenze sono verosimilmente legate sia ai vissuti di perdita dell’individuo, che abbandona i propri riferimenti storici (la casa, le relazioni significative), sia alla maggior presenza di patologie fisiche e di disabilità in coloro che vengono ricoverati o istituzionalizzati. Data l’elevata frequenza nelle istituzioni per anziani, lo screening per la depressione in queste strutture dovrebbe costituire una pratica di routine. Quali sono le cause ? Esistono persone più a rischio di altre? I fattori che incrementano il rischio di depressione in una persona anziana riguardano aspetti esistenziali, sociali, psicologici e biologici, variamente intrecciati tra loro nei singoli casi. I fattori più documentati sono il sesso femminile, essere celibi/nubili o vedovi, la disabilità (ad es. per malattia), un lutto recente e l’isolamento sociale. Va ricordato che gli anziani sono particolarmente esposti ad eventi di perdita, quali ad es. la scomparsa di persone care, il pensionamento, la riduzione del ruolo sociale e delle risorse economiche, ecc. Altre condizioni che predispongono un anziano alla depressione possono essere la presenza continua di dolore fisico, l’abuso di alcool o una storia personale o familiare di depressione. Nelle persone che sviluppano per la prima volta un quadro depressivo in età avanzata, la risonanza magnetica nucleare evidenzia spesso delle piccole alterazioni che indicano un’insufficienza circolatoria a livello cerebrale. Alcune malattie, quali lo stroke (ictus), l’ipertensione, il diabete o la demenza si associano alla depressione nel 30 al 80% dei casi. In particolare, i rapporti tra Demenza di Alzheimer e depressione non sono a tutt’oggi ancora chiariti, anche se sembra probabile che quest’ultima possa rappresentare sia un fattore di rischio per l’insorgenza della demenza, sia una sua manifestazione precoce. Da ultimo, ma non certo per importanza, l’assunzione di alcuni medicinali (ad esempio cortisonici, alcuni antiipertensivi o sedativi) può o indurre l’insorgenza di un quadro depressivo indistinguibile da quello spontaneo. Ancor più che negli adulti giovani, la complessità e l’estrema variabilità individuale di tutti questi 129 fattori di rischio devono essere considerate sia nel momento diagnostico che nell’elaborazione di una strategia terapeutica. Quali sono i sintomi? I familiari e le persone vicine al paziente dovrebbero essere in grado di riconoscere i sintomi più comuni della depressione, per poter poi chiedere, se necessario, un aiuto medico. Va segnalato come, a differenza della depressione dell’adulto giovane, che si manifesta generalmente con un insieme piuttosto definito di sintomi caratteristici, nel vecchio è frequentissima una forte espressività di solo due o tre sintomi depressivi, capaci di provocare comunque una grave sofferenza. I due sintomi fondamentali della depressione sono una tristezza persistente che duri da due o più settimane e la perdita o diminuzione di interesse e piacere. Le attività quotidiane risultano compromesse in modo variabile a seconda della gravità del quadro depressivo. Altri segni importanti possono essere quelli di tipo fisico, quali alterazioni dell’appetito e del peso corporeo, alterazioni del sonno, stanchezza. Frequente è la presenza di ansia, inquietudine, talora agitazione. I pensieri sono spesso improntati alla perdita della speranza, al pessimismo, all’ inadeguatezza, talora a vissuti di colpa non giustificati. L’anziano depresso, più del giovane, può sviluppare sintomi quali irritabilità, ostilità o anche sospettosità, sino a veri e propri deliri di persecuzione (ad es. di gelosia o riferito al furto di oggetti personali). Altre espressioni depressive tipiche dell’età avanzata comprendono lamentele eccessive circa la perdita di memoria o la presenza di dolori vaghi, diffusi, mutevoli nella sede e nell’intensità, che vengono talora attribuiti a malattie inesistenti (ipocondria), mentre altre volte si confondono con quelli di una patologia fisica reale. Infine, il vecchio depresso può percepire la vita come non più meritevole di essere vissuta e, nei casi più gravi, desiderare di porvi fine. La depressione senile ha un decorso ed una prognosi peggiori rispetto a quella degli adulti giovani: gli episodi sono più lunghi (anche anni) e la tendenza alle ricadute ed alla cronicizzazione è due volte più elevata. Quali sono le conseguenze ? La conseguenza più drammatica della depressione è il suicidio. La frequenza dei suicidi nella popolazione anziana risulta più che raddoppiata rispetto alla popolazione generale ed è massima nei 130 soggetti maschi di oltre 85 anni. La depressione è un importante fattore di rischio per il suicidio ed il 60-70% delle persone anziane che si suicidano presentano una depressione clinica. La depressione non trattata ha generalmente un impatto negativo diretto sulla salute fisica delle persone che ne sono affette. Essa incrementa il rischio di sviluppare malattie quali cardiopatie, stroke (ictus), neoplasie, demenze, ecc. e peggiora la prognosi delle malattie fisiche già presenti. La moderna psicosomatica ha individuato tutta una serie di modificazioni biologiche correlate alla depressione che medierebbero questi eventi clinici. Le più documentate risultano una maggior tendenza alla formazione di trombi e all’insorgenza di aritmie cardiache e un deficit del sistema immunitario. Alcuni studi condotti in case di soggiorno hanno documentato come le persone anziane depresse hanno un incremento sostanziale di mortalità per malattie fisiche rispetto ai coetanei non depressi. Questo dato sottolinea ancora una volta la necessità di riconoscere e trattare tempestivamente la depressione in questi anziani particolarmente “fragili”. Perché è difficile diagnosticare la depressione in una persona anziana? Si ritiene che solo il 50% delle depressioni senili vengano riconosciute correttamente, e di queste solo il 50% venga curato in modo adeguato. Negli anziani l’identificazione della depressione è complicata dal fatto che alcuni sintomi chiave, quali astenia, facile faticabilità, disturbi del sonno, perdita di peso corporeo, accompagnano spesso il processo dell’invecchiamento, così come sono sintomi di numerose patologie somatiche di cui l’anziano è sovente affetto. Anche il criterio che prevede che i sintomi della depressione siano in grado di limitare le attività sociali e del vivere quotidiano è più difficilmente applicabile alla persona anziana, nel quale la frequente presenza di malattie fisiche rende più incerta la attribuzione delle limitazioni di attività al disturbo depressivo. Il vecchio depresso tende a sottovalutare la sua depressione e a non riferire spontaneamente sintomi importanti, quali la diminuzione di interesse o di piacere in tutte o quasi tutte le attività, richiamando invece l’attenzione del medico sul proprio corpo sofferente, che viene quindi utilizzato quale “mediatore” della comunicazione del disagio emotivo. La scarsa propensione dell’anziano a comunicare è racchiusa nell’espressione “depressione senza tristezza”, emblematica del vissuto di molti anziani depressi. La depressione senile è variamente influenzata dalla presenza di deficit cognitivi (di memoria, attenzione, concentrazione, ecc.), che possono arrivare fino a simulare un quadro clinico di demenza e che migliorano dopo trattamento con farmaci antidepressivi. Il termine “pseudodemenza”, utilizzato in passato per identificare questi quadri clinici estremi, è stato progressivamente abbandonato. Alcuni studi hanno infatti dimostrato che la maggior parte di queste 131 forme evolvono nel tempo in una vera demenza, di cui rappresentano probabilmente degli stadi molto precoci. Nella terza età la depressione è da considerarsi inevitabile? La psicogeriatria è la disciplina medica che raccoglie e integra la cultura e la pratica di diverse specialità (psichiatria, geriatria, neurologia) per la diagnosi e la cura e dei disturbi emotivi e psichici degli anziani. La cultura psicogeriatrica non considera appropriato il concetto latino della “senectus ipsa morbus”, cioè che la vecchiaia stessa sia una malattia, anche se alcune manifestazioni depressive si sovrappongono a quelle della vecchiaia fisiologica. La letteratura scientifica concorda sul fatto che, sebbene la depressione interessi un gran numero di persone anziane, essa non va comunque considerata una conseguenza attesa o necessaria dell’invecchiamento, ma un disturbo diagnosticabile e curabile, così come nell’adulto giovane. E’ un imperativo per tutti gli operatori della salute mantenere un approccio positivo nei confronti di un evento così grave e distruttivo per la vita delle persone che ne soffrono e dei loro cari e contribuire alla diffusione di tale atteggiamento e alla messa al bando di pregiudizi “ageistici”, come quello che i vecchi depressi non rispondono alle terapie, pregiudizi peraltro sfatati dalle evidenze scientifiche. E’ possibile prevenire la depressione in età avanzata? In che modo? La complessa patogenesi della depressione, così come quella di tutti i disturbi psichici, non ha permesso sinora di stabilire dei metodi di prevenzione che siano scientificamente provati. Il primo obiettivo di un approccio preventivo è rappresentato comunque dall’identificazione delle persone anziane a rischio, che può essere effettuata “pesando” i fattori di rischio per depressione citati in precedenza. Sono stati proposti interventi di prevenzione a vari livelli e con vari metodi. Ad esempio, in anziani affetti da malattie mediche croniche, tecniche di tipo cognitivo, abbinate all’esercizio fisico, sono risultate efficaci nei confronti di iniziali, lievi, sintomi depressivi e ansiosi ed anche dell’insonnia. Un approccio “primario” di tipo biologico è considerato l’abbassamento dei fattori di rischio vascolare (ipertensione, dislipidemie, fumo, ecc.). Grande risalto viene dato agli interventi psicoeducativi, mirati ad informare gli anziani ed i loro familiari circa la malattia depressiva ed i suoi possibili trattamenti, in modo da ridurre lo stigma ed accrescere il numero di persone che chiedono aiuto. 132 In quale modo si cura la depressione nella persona anziana? Gli scopi della cura consistono nella riduzione dei sintomi psichici e fisici della depressione, nel miglioramento delle funzioni cognitive (attenzione, memoria, concentrazione, ecc.) e delle capacità relazionali, nella prevenzione delle ricadute e dei comportamenti suicidari. Ove risulti opportuno, va inoltre fornito un aiuto volto a migliorare le capacità della persona di gestire la disabilità, eventi di vita negativi o situazioni relazionali conflittuali. I farmaci antidepressivi sono l’intervento di scelta nel caso di una depressione medio-grave, da soli o in combinazione con una psicoterapia, mentre un intervento di supporto psicologico o una psicoterapia possono essere indicati, da soli, nei casi di depressione più lieve. Quali sono i farmaci più indicati nella cura della depressione dell’anziano? Il ricorso ai farmaci può essere sconsigliabile, specie in presenza di patologie fisiche? La ricerca ha dimostrato che i farmaci antidepressivi sono efficaci negli anziani così come negli adulti giovani e che l’efficacia è tanto più evidente quanto più la depressione è clinicamente importante. Gli antidepressivi maggiormente impiegati negli anziani appartengono ai cosiddetti composti di “nuova generazione” e vengono definiti con delle sigle quali “SSRI” e “SNRI” a seconda che incrementino nel Sistema Nervoso Centrale la trasmissione della sola serotonina o della serotonina e della noradrenalina insieme. Questi antidepressivi rappresentano oggi la prima scelta terapeutica rispetto ai composti “di vecchia generazione” quali i “Triciclici”. Il vantaggio dei farmaci più recenti non riguarda tanto l’efficacia terapeutica, quanto la maggiore tollerabilità, sicurezza e maneggevolezza, caratteristiche molto importanti per l’impiego in una popolazione “fragile” come quella anziana. I Triciclici riducono la capacità di fissare i ricordi, possono essere troppo sedativi e determinare brusche cadute della pressione arteriosa. I nuovi antidepressivi, anche se con alcune differenze, offrono una miglior tollerabilità cardiovascolare e non determinano effetti negativi a carico dell’attenzione o della memoria, spesso già deficitarie in età avanzata. Alcuni dei farmaci più recenti sembrano, anzi, migliorare queste funzioni cognitive in modo indipendente dalla stessa azione antidepressiva. Il profilo di tollerabilità favorevole rende nel complesso più agevole l’impiego degli antidepressivi “di nuova generazione” anche in persone anziane con malattie fisiche, soprattutto cardiopatie, o affette da demenza. Al giorno d’oggi, pertanto, la concomitanza di una patologia fisica non costituisce più una controindicazione alla cura della depressione, ma anzi un motivo in più per metterla in atto, dato l’effetto negativo che la depressione stessa esercita sulla prognosi delle malattie. 133 Nei pazienti che sono guariti da un episodio depressivo è essenziale un trattamento a lungo termine con antidepressivi, da soli o in combinazione con una psicoterapia, allo scopo di prevenire le ricadute. Negli anziani i tempi di trattamento appaiono prolungati rispetto a quelli degli adulti giovani, per la maggior durata degli episodi e per il maggior rischio di ricadute. Nei casi più gravi il trattamento deve durare anche per tutta la vita. E’ importante sottolineare alcuni punti chiave che i pazienti ed i loro familiari dovrebbero conoscere: gli antidepressivi non danno dipendenza (a differenza, ad esempio, degli ansiolitici), l’effetto terapeutico non è immediato, ma compare dopo 4 - 6 settimane, i farmaci vanno assunti con grande regolarità (negli anziani, specie se soli o con deficit cognitivi questo aspetto è altamente problematico) e non vanno interrotti dopo la guarigione ma proseguiti sotto controllo medico. La psicoterapia è utile? Le persone anziane non risultano essere scettiche nei confronti di questo approccio? Gli interventi di tipo psicologico possono risultare utili nei casi di depressione conseguente, ad esempio, ad eventi esistenziali negativi e con aspetti di disadattamento e sofferenza. I tipi di intervento vanno dal coinvolgimento in gruppi di auto-aiuto ad un sostegno psicologico, ad una vera e propria psicoterapia. Raramente il vecchio richiede spontaneamente un intervento psicologico, in quanto ha difficoltà a riconoscere la propria sofferenza psichica e può vivere con vergogna (gli uomini più delle donne) il rimandare ad un estraneo i suoi bisogni di accoglienza e di ascolto. Per questa ragione la richiesta generalmente proviene da familiari o curanti, rendendo più complessa la costituzione di un’ alleanza terapeutica. Esistono svariati tipi di psicoterapia, differenti tra loro per principi teorici, metodi e strategie e obiettivi. La terapia psicoanalitica, con le sue numerose scuole, rappresenta in ambito psicogeriatrico soprattutto un modello di riferimento teorico, cui molti altri approcci hanno attinto, ma non ha una sufficiente documentazione scientifica nella sua attuazione pratica. La psicoterapia più studiata nell’anziano è quella cognitivo-comportamentale, che presuppone che le difficoltà di adattamento del paziente depresso siano dovute all’utilizzo di schemi di pensiero negativi e che l'apprendimento di opportune strategie di gestione possa mediare la vulnerabilità soggettiva agli eventi di vita. L’approccio di tipo cognitivo, con opportuni adattamenti, si è dimostrato negli anziani efficace come negli adulti giovani. Un’altra psicoterapia che ha evidenziato la sua efficacia sia nella fase acuta della depressione che nella prevenzione delle ricadute è la terapia interpersonale, che è focalizzata alla risoluzione di contrasti con persone significative, al superamento di un lutto o alla ristrutturazione di rapporti sociali. Negli anziani la 134 psicoterapia interpersonale, in associazione ad un trattamento con antidepressivi, è risultata più efficace dei soli farmaci nella prevenzione delle ricadute depressive per un periodo di tre anni. Si comprende come tutto ciò contraddica decisamente il pregiudizio che l'anziano non possa giovarsi di un aiuto psicologico e si opponga al fatalismo ed allo scetticismo, sostenendo invece un approccio terapeutico attivo e positivo all’anziano depresso. I DISTURBI D’ANSIA NELL’ETA’ SENILE Disturbi d'ansia nell'invecchiamento. La personalità è uno dei fattori più importanti nel condizionare il grado di adattamento: soggetti con caratteristiche psicologiche di rigidità, autoritarismo, egocentrismo o insicurezza, labilità, eccessiva passività possono avere notevoli difficoltà nell'adattarsi alle nuove condizioni dettate dalla vecchiaia. Una carenza nelle abilità di gestione dei rapidi cambiamenti che si verificano, può portare a risposte ansiose e depressive fino all'instaurarsi di situazioni francamente patologiche. Ansia. L'ansia non sempre è uno stato disfunzionale, patologico, da curare. Frequentemente è avvertita come un senso d'apprensione a fronte di preoccupazioni per eventi imminenti e reali. Questo tipo di ansia è una reazione normale a una circostanza specifica. L'ansia patologica scatena invece un senso di pericolo incombente che si associa praticamente a qualsiasi situazione di incertezza: si tratta di un intenso disagio psichico, generato dalla sensazione di non essere in grado di fronteggiare gli eventi futuri. Una percezione sottostimata delle proprie risorse rispetto alle richieste ambientali, che perdura nel tempo può generare un sentimento di continuo allarme, frequentemente accompagnato da sintomi fisici: tensione muscolare, sudorazione intensa, senso di chiusura o pesantezza allo stomaco, difficoltà respiratorie, tremori, debolezza, tachicardia, ecc. Situazioni di questo tipo possono inoltre alimentare pensieri e sensazioni di impotenza che generano risposte astensionistiche, alimentando circoli viziosi che conducono a depressione. Nell'anziano i disturbi d'ansia presentano alcune particolarità: ad esempio, riguardo alle fobie, l'oggetto fobico è frequentemente associato al tema della sicurezza (paura di essere derubati, 135 aggrediti, di avere incidenti nel traffico…). Nell'anziano bisogna inoltre tener conto dell'interazione con alcuni farmaci e degli effetti di alcune malattie, nonché degli effetti paradossi degli stessi farmaci ansiolitici. I DISTURBI PSICHIATRICI IN ETA’ SENILE Disturbi psichiatrici dell'età senile I disturbi mentali dell’anziano comprendono tutti i disturbi ritrovabili nei giovani adulti e ad essi si aggiungono i disturbi tipici dell’anziano. Il termine “geriatrico” deriva dal greco geras, che significa vecchiaia e iatros che significa medico, quindi, “geriatrico” indica il trattamento medico e la cura del paziente anziano. La psichiatria geriatrica è un campo in rapida crescita in quanto la popolazione anziana è in aumento. La diagnosi e la terapia richiedono conoscenze specifiche date le possibili differenze di patogenesi e fisiopatologia tra la popolazione anziana e quella giovane. Negli anziani bisogna anche considerare i fattori complicanti quali la frequente presenza di malattie mediche croniche coesistenti, l’uso di più farmaci. La visita psichiatrica deve prendere in considerazione lo stato cognitivo dell’anziano in quanto i disturbi cognitivi sono spesso presenti. Inoltre, devono essere escluse tutte le cause organiche responsabili di quadri clinici che possono essere male interpretati come elementi di invecchiamento fisiologico. DISTURBI E PERCENTUALI DI INCIDENZA Tra i disturbi che negli anziani possono aggiungersi a quelli ritrovabili anche nei giovani, si possono considerare le demenze. La demenza è una compromissione progressiva ed irreversibile dell’intelletto che aumenta con l’età. È una patologia che si sviluppa nel tempo e le funzioni mentali precedentemente acquisite vengono perse gradualmente. 136 Le alterazioni di cui e' responsabile coinvolgono la memoria, il linguaggio e i disturbi del comportamento. Questi ultimi possono essere agitazione, irrequietezza, vagabondaggio, rabbia, violenza, tendenza ad urlare, disinibizione, disturbi del sonno e deliri. Il 75% dei pazienti soffre di deliri ed allucinazioni. Alcune forme di demenza sono secondarie a patologie organiche trattabili farmacologicamente, come patologie cardiache o renali e disturbi depressivi. Si distinguono numerose forme di demenza a seconda della eziopatogenesi. I disturbi depressivi sono presenti in circa il 15% degli anziani. Sono presenti tutti i sintomi presenti nella depressione della popolazione non anziana. Si parla di pseudodemenza quando si deve identificare il deterioramento cognitivo nei soggetti geriatrici depressi, tale condizione può essere facilmente confusa con una demenza vera. Si possono enumerare dei casi di depressione secondari a trattamenti farmacologici per patologie di altri apparati. I disturbi di tipo bipolare con una evidente presenza di sintomi maniacali si presentano nell’1% della popolazione anziana, mentre i disturbi psicotici esordiscono difficilmente negli anziani e sono già stati diagnosticati da qualche anno. L’esordio di sintomi di tipo psicotico deve indirizzare verso la compromissione cognitiva da demenza. I disturbi d’ansia hanno un’incidenza del 5,5%. Elevata frequenza, invece, hanno le patologie secondarie ad abuso di alcool e da carenza alimentare conseguente. Il trattamento per le patologie dell’anziano è lo stesso che per la popolazione più giovane. Lo scopo principale della terapia farmacologica è quello di tentare di migliorare la qualità della vita cercando di mantenerlo più a lungo nella comunità. Unica attenzione particolare riguarda i dosaggi dei farmaci che devojno essere adattati al concomitante uso di altri farmaci. 137 Il dosaggio deve essere adattato progressivamente a seconda della risposta o dell’insorgenza di altre patologie. Possono essere utilizzate tutte le classi di farmaci psichiatrici adatti al trattamento della sintomatologia specifica. Alcuni farmaci possono non avere un effetto terapeutico in quanto non ben metabolizzati. È possibile intervenire con trattamenti psicoterapeutici di supporto. La plasticità della personalità, possibile in età giovane, è meno probabile nell’età senile. Le terapie di gruppo offrono la possibilità di integrare nuove amicizie di coetanei. GRIGLIA DI BARTHEL La scala di Barthel o Indice di Barthel ADL è una scala ordinale utilizzata per misurare le prestazioni di un soggetto nelle attività della vita quotidiana (ADL, activities of daily living). Ogni item delle prestazioni è valutato con questa scala attribuendo un determinato numero di punti che vengono poi sommati determinando un punteggio globale. L'indice analizza dieci variabili che descrivono le attività della vita quotidiana (ad esempio la capacità di alimentarsi, vestirsi, gestire l'igiene personale, lavarsi ed altre ancora) e la mobilità (spostarsi dalla sedia al letto, deambulare in piano, salire e scendere le scale). Ad ogni item viene assegnato un punteggio di valore variabile a seconda dell'item stesso e del grado di funzionalità del paziente: piena, ridotta o nessuna funzionalità. Un punteggio globale più elevato è associato ad una maggiore probabilità di essere in grado di vivere a casa con un grado di indipendenza dopo la dimissione dall'ospedale o da un reparto di lungodegenza. La scala è sostanzialmente uno strumento di valutazione della funzione fisica, ed è particolarmente nota in ambito riabilitativo. Se al paziente, durante la valutazione, sono stati forniti ausili che vanno oltre quelli normalmente disponibili in un ambiente domestico standard, è necessario descrivere in dettaglio quali ausili siano stati concessi ed allegare la dichiarazione all'indice di Barthel. Ovviamente il punteggio che potrà ottenere un paziente sarà più basso se queste condizioni agevolate non sono disponibili. 138 La storia La scala è stata introdotta nel 1965, ed in origine il punteggio poteva variare da 0 a 20. Anche se è tranquillamente possibile utilizzare la versione originale, questa subì una prima modificazione ed adattamento nel 1979 ad opera di Granger, quando si ritenne più opportuno includere un punteggio 0-10 punti per ogni variabile analizzata. Ulteriori miglioramenti furono introdotti nel 1989. Utilizzi L'indice di Barthel è stato ampiamente utilizzato per monitorare i cambiamenti funzionali nei soggetti ricoverati in reparti di riabilitazione, soprattutto per prevedere l'autonomia funzionale a seguito di un ictus. La scala è considerata affidabile, anche se il suo impiego negli studi clinici medici sullo stroke (ictus) è limitato.La scala trova ampio utilizzo anche per gli individui inseriti nelle residenze sanitarie assistenziali per valutarne i progressi riabilitativi ed il grado residuo di autonomia. È stato comunque osservato che l'indice di Barthel può essere meno affidabile quando si esegua la valutazione di un paziente con decadimento cognitivo. Item e punteggi SCALA DI VALUTAZIONE DELLE ATTIVITÀ DELLA VITA QUOTIDIANA Item A B C Alimentazione 0 5 10 Abbigliamento 0 5 10 Toilette personale 0 5 10 Fare il bagno 0 5 10 Continenza intestinale0 5 10 Continenza urinaria 0 5 10 Uso dei servizi igienici0 5 10 Trasferimenti letto/sedia0 5 10 139 Camminare in piano 0 5 10 Salire/scendere le scale0 5 10 A = dipendente; B = con aiuto; C = autonomo A titolo di esempio, nell'item numero 1 (alimentazione) al paziente sono assegnati 10 punti se si alimenta in modo completamente autonomo ed indipendente, 5 punti se invece richiede un certo grado di aiuto (per esempio per tagliare il cibo), e 0 punti se dipende completamente da chi lo assiste (deve essere imboccato). Per il controllo della minzione e defecazione il paziente può essere considerato autonomo (10 punti) se è in grado di gestire con totale indipendenza i propri bisogni fisiologici. Autonomo con aiuto se necessita dell'aiuto (anche parziale) di chi lo assiste per utilizzare strumenti come, ad esempio, il pappagallo o la padella (5 punti). Totalmente dipendente se invece necessita, ad esempio, del catetere o presenta episodi di incontinenza, sia pure saltuari. LA COMUNICAZIONE INTERPERSONALE La comunicazione interpersonale è costituita dall'insieme dei fenomeni che veicolano lo scambio di informazioni tra due o più persone sia attraverso il linguaggio verbale sia quello corporeo. Componenti della comunicazione I fattori della c. sono sei oltre al mittente, il ricevente ed il messaggio, sono determinanti nella genesi e nella percezione della comunicazione: il codice del messaggio il contesto in cui si svolge la comunicazione il canale comunicativo Modelli di comunicazione interpersonale Paul Watzlawick e colleghi (1967) hanno introdotto una differenza di fondamentale importanza nello studio della comunicazione umana: ogni processo comunicativo tra esseri umani possiede due dimensioni distinte: da un lato il contenuto, ciò che le parole dicono, dall'altro la relazione, ovvero 140 quello che i parlanti lasciano intendere, a livello verbale e più spesso non verbale, sulla qualità della relazione che intercorre tra loro. Il modello di Friedemann Schulz von Thun: il quadrato della comunicazione. In epoca recente (1981), lo psicologo Friedemann Schulz von Thun, dell'Università di Amburgo, ha proposto un modello di comunicazione interpersonale che distingue quattro dimensioni diverse, nel cosiddetto "quadrato della comunicazione": Contenuto: di che cosa si tratta? (lato blu del quadrato, in alto). Relazione: come definisce il rapporto con te, che cosa ti fa capire di pensare di te, colui che parla? (lato giallo, in basso). Rivelazione di sé: ogni volta che qualcuno si esprime rivela, consapevolmente o meno, qualcosa di sé (lato verde, a sinistra). Appello: che effetti vuole ottenere chi parla? Ciò che il parlante chiede, esplicitamente o implicitamente, alla controparte di fare, dire, pensare, sentire. (lato rosso, a destra). Queste quattro dimensioni si possono tenere presenti sia nel formulare messaggi che nell'ascolto e nell'interpretazione dei messaggi di altri. In questo secondo caso la "scuola di Amburgo" parla delle "quattro orecchie" (corrispondenti ai "quattro lati del quadrato della comunicazione") su cui ci si può sintonizzare. Ad esempio, per riuscire a "prendermela", ad offendermi nell'ascoltare la comunicazione x, dovrò assegnare ad essa significato sintonizzandomi sull'orecchio "giallo", quello che tende a vedere nella comunicazione degli altri il loro soppesarci, il segno cioè di quanto questi ci rispettino. Questo modello visualizza come noi si sia sempre liberi di assegnare a qualsiasi comunicazione un significato oppure un altro, evidenzia così il potere di chi ascolta nel contribuire a definire la qualità di una interazione. Con un poco di allenamento è possibile, ad esempio, sintonizzarci sull'orecchio verde, invece che su quello giallo, e chiederci, dentro di noi, di fronte ad una comunicazione che ci pare irritante (e lo farà solo se siamo sintonizzati sull'orecchio giallo!): "come si sente, la persona che parla, per sentire il bisogno di parlarmi in questo modo?" La comunicazione interpersonale, che coinvolge più persone, è basata su una relazione in cui gli interlocutori si influenzano vicendevolmente come in un circolo vizioso. La comunicazione interpersonale si suddivide a sua volta in tre parti. 141 La comunicazione verbale, che avviene attraverso l'uso del linguaggio, sia scritto che orale, e che dipende da precise regole sintattiche e grammaticali. La comunicazione non verbale, la quale invece avviene senza l'uso delle parole, ma attraverso canali diversificati, quali mimiche facciali, sguardi, gesti, posture. La comunicazione para verbale, che riguarda in ultima analisi nella voce. Ossia nel tono, nel volume e nel ritmo. Ma anche nelle pause e in altre espressioni sonore quali lo schiarirsi la voce ad esempio oltreché nel giocherellare con qualsiasi cosa capiti a tiro di mano. LA COMUNICAZIONE ASSERTIVA "L'assertività è la capacità del soggetto di utilizzare in ogni contesto relazionale, modalità di comunicazione che rendano altamente probabili reazioni positive dell'ambiente e annullino o riducano la possibilità di reazioni negative". La comunicazione assertiva è un metodo di interazione con gli altri fondato su alcuni elementi quali: Un comportamento partecipe attivo e non "reattivo" Un atteggiamento responsabile, caratterizzato da piena fiducia in sé e negli altri Una piena e completa manifestazione di sé stessi, funzionale all'affermazione dei propri diritti senza la negazione di quelli altrui e senza ansie o sensi di colpa Un atteggiamento non censorio avulso dall'uso di etichette, stereotipi e pregiudizi La capacità di comunicare i propri sentimenti in maniera chiara e diretta ma non minacciosa o aggressiva. Lo stile assertivo si basa sul diritto di essere trattati con rispetto, di essere sé stessi e di essere liberi di credere nei propri valori. Ciascuno di noi ha uno spazio personale che gli altri debbono rispettare, ma quando ne usciamo per muoverci in pubblico, allora dobbiamo rispettare i diritti degli altri. Un altro importante elemento dello stile assertivo è il senso della responsabilità delle proprie azioni, da intendersi come affermazione e difesa dei nostri diritti accettando le conseguenze delle nostre azioni. 142 Caratteristiche dello stile assertivo Il comportamento assertivo si riconosce da alcune espressioni corporali particolarmente aperte, cordiali e coerenti nei vari livelli della comunicazione. Presupposto fondamentale dell'assertività è il saper ascoltare ovvero prestare attenzione non solo al contenuto razionale ma anche a quello emotivo della comunicazione, riassumere e dare feed-back e chiedere chiarimenti. La riduzione dell'ansia e l'emergere delle convinzioni positive conseguenti al comportamento assertivo permettono lo sviluppo e la crescita della fiducia in sé stessi. La componente verbale E' bene usare parole che esprimono fiducia in sé stessi e negli altri. A questo scopo è opportuno descrivere il comportamento altrui in maniera non censoria, vale a dire senza imporsi ed evitando giudizi ed ordini categorici. È importante anche evitare di ferire la sensibilità altrui con espressione o giudizio offensivo. La componente cognitiva La componente cognitiva comprende tutti i pensieri che condizionano il nostro comportamento. Esistono persone talmente esigenti nei propri confronti da negarsi una possibilità di essere assertivi o che rinunciano a farsi valere per mancanza di fiducia in se stessi sconfinando in atteggiamenti rinunciatari. Sarebbe invece utile l'atteggiamento opposto: credere nella propria capacità di affermarsi e di immaginarsi nell'atto di riuscire. La componente emotiva La componente emotiva comprende il livello di emotività e il tono e il volume della voce. È importante trasmettere il proprio messaggio al livello emotivo più adatto alla situazione, perché il tono di voce ha un ruolo decisivo nell'opera di persuasione. 143 La componente non verbale La componente non verbale è estremamente importante. Gran parte della comunicazione avviene infatti non verbalmente, e la comunicazione non verbale ha un forte impatto sull'interlocutore. Un'analisi dei vari comportamenti non verbali può essere basata sul contatto visivo, sulle espressioni del volto, sul silenzio, sul tono, volume e inflessione della voce, sui gesti e sul linguaggio del corpo. LA RELAZIONE CON IL PAZIENTE Un “modo di essere” dell’operatore sanitario nella relazione con i pazienti Gli operatori sanitari si trovano oggigiorno a lavorare tra mille difficoltà dovute a carenza di organico, scarsità di risorse, mutato rapporto coi pazienti (Perino, 2002). C’è inoltre una notevole amplificazione di ciò che accade nel mondo sanitario da parte dei media, che non aiuta chi ci lavora perché sottolinea quasi esclusivamente aspetti negativi (scandali, malasanità…) o eclatanti(terapie ultrainnovative, interventi chirurgici molto complessi…). La buona sanità, fatta da migliaia di operatori che quotidianamente svolgono con serietà, impegno e professionalità il proprio lavoro è troppo “normale” per fare notizia. Nonostante il diffuso senso di insoddisfazione che spesso riferiscono, ho comunque l’impressione che la maggior parte degli operatori ami ancora il proprio lavoro e cerchi di svolgerlo con passione. Questa almeno è l’idea che ho dopo tanti anni di lavoro in comunicativo per il personale sanitario. A volte ho addirittura l’impressione di condurre corsi di “sopravvivenza” e forse lo sono, perché aiutare gli operatori ad essere più in contatto col proprio vissuto, a comunicare meglio con pazienti e colleghi significa aiutarli a vivere meglio, a “resistere” e a continuare a svolgere il proprio lavoro. Significa anche aiutarli ad acquisire maggiore consapevolezza delle proprie esigenze, maggiore autostima, più coraggio e determinazione nel proporre cambiamenti organizzativi. Per raggiungere tali obiettivi ho organizzato i corsi in modo da dare la possibilità ai partecipanti disviluppare le 3 condizioni individuate da Carl Rogers, necessarie e sufficienti per instaurare una efficace relazione di aiuto. In questo articolo desidero proporre alcune riflessioni su quale impatto esse hanno sulla relazione operatore sanitario – paziente. 144 EMPATIA L’empatia è un processo che consiste nel percepire i sentimenti ed i significati personali che l’altra persona sta sperimentando, anche quelli che si trovano appena al di sotto della superficie cosciente, e nel comunicare questa comprensione. Nei suoi ultimi scritti Rogers l’ha definita “una capacità intuitiva di comprensione empatica”, sottolineando l’importanza di sintonizzarsi con l’altro: “il nucleo interiore di me si relaziona al nucleo interiore dell’altra persona e capisco meglio di quanto non faccia la mia mente, meglio di quanto non faccia il mio cervello.” (Rogers, 2002,trad. it. pp. 317). Empatia significa assumere il suo punto di vista, “mettersi nei suoi panni”, comprendere i suoi vissuti: questi concetti sono alla base della medicina centrata sulla persona (Zucconi, 2003).Nella pratica clinica spesso gli operatori sanitari si focalizzano solo sui sintomi fisici che i pazienti presentano (febbre, dolore, astenia, vertigini ecc.). Se invece prendono in considerazione anche le numerose emozioni che questi ultimi provano (paura, preoccupazione, tristezza, impotenza, speranza, incertezza…) li potranno aiutare a diventarne più consapevoli e ad elaborarle, con conseguenti migliori outcomes clinici e più efficace coping rispetto alla malattia. Le emozioni infatti sono strettamente correlate alla salute: a) hanno effetti fisiologici diretti su sistema cardiovascolare, respiratorio, gastroenterico, immunitario ecc., b) influenzano la selezione, memorizzazione e valutazione cognitiva delle informazioni, quindi la percezione del rischio, il riconoscimento di sintomi, la ricerca di aiuto, c) influenzano la mobilizzazione delle proprie risorse personali, cognitive e motivazionali, d) per evitare emozioni spiacevoli l’individuo può ricorrere ad abuso di alcool, droghe, psicofarmaci o a comportamenti dannosi per la salute, e) hanno un ruolo importante per quanto riguarda la socializzazione, che è un fattore protettivo rispetto a molte malattie. Le emozioni sono una delle quattro aree della cosiddetta “Agenda” del paziente (Moja, 2000, pp.5377) e rappresentano la “chiave” per accedere alle altre 3, che sono: 1) l’interpretazione che il paziente dà dei suoi disturbi (“la causa sarà una allergia…lo stress….”), 2) le sue aspettative (“mi faranno fare una TAC…mi prescriveranno un antibiotico….”), 3) il suo contesto famigliare, sociale e lavorativo. 145 Solo esplorando l’agenda del paziente, l’operatore può instaurare una vera alleanza terapeutica e fornire una assistenza globale, che tenga conto delle sua dimensione bio-psico-sociale. Ascoltare senza giudicare Ascoltare con empatia richiede il superamento dei pregiudizi, della naturale tendenza a giudicare, valutare, approvare o disapprovare ciò che l’altro dice, soprattutto quando esprime forti emozioni (Rogers, 1988). Il medico, in particolare, ascolta il racconto dei disturbi del paziente, li interpreta, li organizza in base alla propria visione di salute e malattia e seguendo un proprio schema mentale (la propria “agenda”) cerca di arrivare nel più breve tempo possibile ad una diagnosi. Nella maggior parte dei casi non lascia parlare il paziente per più di 18 secondi consecutivi; interrompe e pone domande per confermare l’ipotesi diagnostica che ha già formulato dopo sue le prime parole. Questa “rapidità” può essere dovuta alla esigenza di dover fare molte prestazioni in breve tempo, ma probabilmente anche alla sua scarsa propensione a dare spazio a ciò che non riguarda strettamente gli aspetti organici della malattia. In realtà se il paziente non viene interrotto parla al massimo per 2-3 minuti ed aggiunge molte informazioni utili riguardo la sua “agenda”. Il suo racconto comprende spesso moltissimi elementi, che il medico interrompendo e ponendo domande non riuscirebbe a raccogliere. Racconta ad esempio di disturbi precedenti che possono essere correlati a quelli attuali, di tentativi terapeutici che non sono serviti, di allergie a farmaci, dell’ambiente sociale in cui vive, dell’attività lavorativa, delle sue aspettative ecc. Empatia ed autoesplorazione L’empatia secondo Rogers “è correlata coi movimenti di autoesplorazione ed elaborazione” daparte del cliente (Rogers, 1980, trad. it. pp. 126, 133-5). In molte situazioni gli operatori devono aiutare il paziente ed i suoi famigliari a prendere decisioni importanti, come sottoporsi ad un intervento chirurgico rischioso o demolitivo, iniziare una chemioterapia con importanti effetti collaterali, eseguire indagini invasive, ecc. In tutti questi casi le persone possono esprimere il loro assenso (consenso informato) se hanno ricevuto informazioni chiare e dettagliate ma anche se sono state accompagnate ad esplorare gliaspetti emozionali, oltre che razionali, della decisione: dubbi, paure, speranze…. 146 Alcune malattie (neoplasie, infarto miocardico, ictus, sclerosi multipla ecc.) hanno un impatto profondo sulla vita delle persone, che devono riorganizzare radicalmente le proprie abitudini, le relazioni, l’attività lavorativa, devono rivedere la propria scala di valori e cercare nuovo significato nella propria esistenza (Gordon, 1995, pp. 167-178; Bonino, 2006, pp. 26-30). I pazienti talvolta chiedono di poter condividere anche aspetti della propria spiritualità (Perino,2002; Perino, 2003), lanciando dei messaggi che non sempre gli operatori sanitari riescono a decodificare correttamente: “Ma devo proprio prendere tutte queste medicine? Ormai sono vecchio….” “Dottore, vedrò crescere i miei figli?” Gli operatori inoltre ascoltando con empatia possono aiutare i pazienti a riflettere sui propri stili divita e sullo stress: due elementi oggigiorno all’origine di moltissime malattie (Zucconi, 2003). Empatia e sostegno L’empatia permette di creare relazioni caratterizzate da partecipazione, calore e vicinanza, che sono di grande sostegno al paziente ed ai suoi famigliari nei momenti di particolare difficoltà. Non è raro che appresa la diagnosi di una malattia a prognosi infausta, ad esempio, il paziente scoppi a piangere. Dare rassicurazioni, minimizzare, sviare il discorso sono barriere comunicative che quasi sempre hanno effetto controproducente. Spesso è meglio parlare poco e ascoltare, comunicando con l’espressione degli occhi e del viso, con un gesto o alcune parole partecipazione e disponibilità, lasciando così la possibilità al paziente di condividere la propria sofferenza. Secondo un antico aforisma cinese: Se basta una parola, non fare un discorso. Se basta un gesto, non dire una parola. Se basta uno sguardo, evita il gesto. Se basta il silenzio, tralascia anche lo sguardo. La malattia, il dolore cronico in particolare, possono creare solitudine, separare l’individuo dagli altri. I pazienti talvolta vengono isolati fisicamente a causa della loro malattia, come nei reparti di rianimazione, ematologia, unità coronarica ecc. In tutti questi casi ogni momento di contatto con l’operatore ha una valenza importantissima per diminuire il senso di solitudine. Così anche mettere 147 una flebo, portare il vassoio col cibo, rifare il letto, possono diventare momenti significativi di contatto umano. L’empatia “riconnette” l’individuo agli altri esseri umani, “dissolve l’alienazione “. L’empatia favorisce inoltre il “raccontarsi” del paziente, promuove la condivisione di forti emozioni, costituisce una sorta di catarsi costruttiva (Gordon, 1995, pp. 61). Informare con empatia Le informazioni che gli operatori sanitari danno, hanno talvolta un notevole impatto emotivo su pazienti e famigliari, che rende loro difficile o impossibile comprendere cognitivamente ciò che viene detto. Non è raro che usciti dal colloquio col medico, ad esempio, non ricordino nulla di ciò che è stato detto, talvolta neanche l’aspetto fisico del loro interlocutore. Se l’operatore si sintonizza emotivamente con il paziente e “legge” le sue reazioni verbali e non verbali, ha la possibilità di “dosare” le informazioni, scegliere il linguaggio più adatto, verificare ciò che l’altro ha compreso, riassumere ed eventualmente riprendere il discorso in un successivo incontro, in modo da lasciare tempo alla comprensione ed alla elaborazione. Questo modo di procedere viene adottato ad esempio nei progetti di educazione terapeutica, nei quali, in incontri successivi, si insegna a pazienti e famigliari, come gestire una malattia cronica quale diabete mellito, asma, malattia reumatica, eczema atopico ecc. L’empatia è importante anche quando si deve comunicare la diagnosi di una malattia con impatto importante sulla vita (neoplasia, malattia genetica ecc.). Dal punto di vista legale il medico ha il dovere di dire la verità al paziente, anche se i famigliari non vogliono. Non di rado però il paziente stesso non vuole sapere o non vuole sapere “tutto” e questo è un suo diritto: se non ha le risorse per affrontare una situazione grave, può essere più funzionale (almeno temporaneamente) una strategia di coping basata sulla negazione (Buckman, 1992, trad. it. pp. 75). Per questo il medico dovrebbe essere sempre in contatto empatico col paziente e valutare momento per momento quanto desideri sapere. Si può anche chiedere esplicitamente se vuole conoscere l’esito di un esame o se preferisce che venga comunicato a qualche altro familiare (Buckman, 1992, trad. it.pp. 7-11). 148 Empatia e giusta distanza emotiva L’operatore deve essere abbastanza sicuro di sé stesso e non temere di perdersi quando entra nel mondo dell’altro (Rogers, 1980, trad. it. pp. 123). Deve restare in contatto con le proprie emozioni, in modo da poter continuamente monitorare l’entità del proprio coinvolgimento. Lavorando con persone sofferenti esiste infatti il rischio concreto di perdere la “giusta distanza” e di coinvolgersi eccessivamente o di essere troppo distaccati (freddezza, cinismo…), con il rischio di entrare in burnout. La consapevolezza invece aiuta l’operatore a correre ai ripari e a ritrovare il giusto equilibrio. Empatia ed empowerment Con l’empatia l’operatore sanitario entra nel mondo del paziente, vede le cose dal suo punto di vista e può, dandogli fiducia, valorizzare le sue risorse. Anziché assumersi la responsabilità totale della sua salute potrà promuoverla coinvolgendolo, aiutandolo a prendersi cura di sé e a mettere in atto le strategie più utili per stare meglio (Zucconi, 2003). Effetto dell’empatia sugli operatori Un aspetto forse trascurato è che le relazioni empatiche fanno bene non solo agli utenti ma anche agli operatori (Larson, 1993, trad. it. pp. 42-46). Chi sceglie il mestiere di helper cerca di soddisfare il proprio bisogno di aiutare e questo lo può fare sia grazie alle proprie competenze tecniche sia, soprattutto, a quelle relazionali. Offrire una relazione caratterizzata da empatia aumenta il grado di soddisfazione per il proprio lavoro (Larson, 2005). L’ascolto empatico rappresenta anche uno strumento utile per “disinnescare” forti emozioni di rabbia ed aggressività da parte del paziente, che spesso mettono in difficoltà gli operatori. Tali emozioni sono di solito collegate alla sensazione più profonda di non sentirsi rispettato. La rabbia è una frequente risposta emotiva alla malattia, la quale può costituire una minaccia, reale o simbolica, alla persona, alla sua autostima ed alla sua dignità (Goleman, 1995, trad. it. pp.84). I pazienti la possono provare in caso di diagnosi di neoplasia (Buckman, 1992), in caso di handicap fisico dopo un incidente, un ictus, un intervento chirurgico ecc. 149 Comprendere questo permette all’operatore di poter mantenere una certa distanza emotiva, di non farsi coinvolgere troppo e non vivere le espressioni aggressive del paziente (o dei famigliari) come un attacco personale. Prevenzione delle denunce per malpractice. Una relazione medico paziente basata su empatia e partecipazione reciproca è un forte deterrente contro le denunce per malpractice (Anfossi, 2008,pp. 24; Gordon, 1995, pp. 67-68) che nascono più da difetti di comunicazione che da errori di diagnosi e terapia. Comunicare l’empatia L’empatia per essere efficace deve poter essere percepita dall’interlocutore. Non è una tecnica da utilizzare ma un processo, un modo di “essere in relazione con il cliente” (Mearns, 1999, trad. it.pp. 56), che si può esprimere in molti modi, in particolare con il linguaggio non-verbale: contatto fisico, sguardo, posizione e movimenti del corpo, tono di voce (Schmid, 2007). Pertanto ogni azione può essere fatta con empatia: misurare la pressione, fare un prelievo, visitare, accogliere la persona in ambulatorio, aiutare un anziano a vestirsi ecc. Gli ambienti stessi possono essere strutturati in modo tale da mettere a proprio agio l’utente: locali accoglienti, angolo giochi per i bambini, assenza di barriere architettoniche ecc. Il paziente di solito non esprime esplicitamente ciò che prova ma utilizza un codice, verbale e non verbale, che l’ascoltatore deve poi decodificare. Ad esempio: si isola, diventa taciturno, usa un linguaggio ironico, aggressivo, non mangia il cibo che gli viene portato, trascura la cura del corpo, arriva tardi agli appuntamenti ecc. Uno strumento utilissimo è allora l’ascolto empatico o “attivo” (Rogers, 1987), che consiste nell’ascoltare con attenzione ciò che il paziente comunica, decodificarne il messaggio e rinviare il risultato della decodifica per verificarne l’esattezza (rimando empatico). Il cliente ha la possibilità di correggere il feedback dell’ascoltatore. Nasce e si sviluppa così un processo di influenzamento reciproco, come una danza, in cui si crea una relazione che pian piano si approfondisce. Il cliente si sente valorizzato, accompagnato con delicatezza e, in un clima di sicurezza psicologica, può esplorare il proprio vissuto. Secondo Rogers ogni messaggio ha due componenti, entrambe importanti perché gli danno significato: il contenuto (aspetto cognitivo) e le 150 emozioni o attitudini che sottostanno a questo contenuto. Il terapista è più efficace quando risponde ad entrambe (Rogers, 2002, trad. it. pp. 318). E’ perciò il significato complessivo del messaggio che va compreso (Rogers, 1987). Recentissimi studi di neuroscienze hanno scoperto che nel caso dell’empatia emozionale (“sento ciò che senti tu”) si attivano circuiti neuronali diversi da quelli che si attivano nell’empatia cognitiva (“comprendo ciò che provi”) CONSIDERAZIONE (ACCETTAZIONE) POSITIVA INCONDIZIONATA Questa condizione si riferisce all’accogliere l’altro per quello che è riconoscendogli il diritto di vivere la vita in base ai suoi valori, senza giudicarlo ma anzi accettandolo incondizionatamente, valorizzandolo, credendo nelle sue potenzialità (Lietaer, 2001). E’ un atteggiamento di apertura e rispetto verso chi è diverso da noi, per colore della pelle, etnia, religione, orientamenti sessuali, stili di vita ecc. Coltivarlo permette all’operatore di potersi centrare realmente sulla persona e di entrare nel suo mondo senza giudicare. Questo è particolarmente importante in una società sempre più multiculturale come la nostra. Autoesplorazione Nella relazione la considerazione positiva incondizionata favorisce l’autoesplorazione e il cambiamento. L’assenza di giudizio (e la comprensione empatica) crea un clima facilitante che permette all’interlocutore di esprimere più liberamente aspetti di sé o affrontare tematiche imbarazzanti come omosessualità, violenze subite, abuso di farmaci, di alcool, malattie tabù quali HIV, disordini mentali ecc. Considerazione positiva incondizionata ed etica Accettare che gli altri abbiano una visione del mondo diversa dalla propria è diventato un tema molto attuale in medicina. Gli operatori infatti sempre più spesso vengono confrontati con situazioni quali eutanasia, manipolazioni genetiche, fecondazione artificiale, cellule staminali ecc. rispetto alle quali vi sono profonde implicazioni etiche. Il diritto di ogni singolo di decidere per la propria vita, ricorrendo a ciò che la scienza oggi mette a disposizione, può entrare in collisione con i valori degli operatori sanitari (Marino, 2009). 151 Qualità di vita Ci sono numerose malattie croniche, nelle quali gli operatori hanno il compito di accompagnare pazienti e famigliari per molti anni, aiutandoli a raggiungere e mantenere la miglior qualità di vita possibile. Non è realistico considerare la salute uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale…” perché questa è una condizione ideale ed irraggiungibile. E’ più funzionale pensare la salute come una situazione che muta nel tempo, che oscilla lungo un continuum che va da un massimo di sofferenza a un massimo di benessere (Bonino, 2006, pp. 9-12). E’ un costante processo di adattamento che le persone cercano, con l’aiuto anche di chi lavora nella sanità. La qualità di vita riguarda diverse aree: salute fisica, salute psicologica, indipendenza, relazioni sociali, ambiente, spiritualità, religione, credenze personali, qualità di vita generale (Delle Fave, 2007, pp. 9-13). Solo il paziente può decidere cosa rende la sua vita degna di essere vissuta e di cosa ha bisogno perché sia tale: se l’operatore accetta i suoi punti di vista riesce ad accompagnarlo, mettendogli a disposizione le proprie risorse professionali ed umane, in modo da aiutarlo ad avere un coping efficace con la sua patologia. Considerazione positiva incondizionata e cambiamento Quando una persona si sente accettata può esplorare i propri vissuti ed entrare in contatto con i propri bisogni. In tale stato è più probabile che avvenga un cambiamento. Le relazioni caratterizzate da questa condizione sono pertanto più efficaci quando si cerca di aiutare una persona a cambiare il proprio stile di vita (fare dieta, smettere di fumare, adottare precauzioni durante i rapporti sessuali ecc.). L’approccio direttivo e paternalistico in cui gli operatori agiscono il loro potere sgridando, minacciando, dando ordini ecc., crea invece facilmente resistenze al cambiamento; non produce empowerment, ma dipendenza. 152 CONGRUENZA La congruenza è uno stato del sé (Mearns, 1999, trad. it. pp. 96), chiamato anche genuinità o autenticità, che si riferisce alla consapevolezza delle proprie emozioni. Consiste in un grado di coerenza fra i 3 livelli dell’esperienza organismica: contatto con le percezioni sensoriali e viscerali, consapevolezza e simbolizzazione di tali esperienze, comunicazione (Rogers, 1980, trad. it. pp.19). Essa ha quindi un aspetto interno (la percezione) ed uno esterno, la comunicazione verbale e non, di se stessi, detto “trasparenza” (Lietaer, 2001). La congruenza è ciò che consente al terapista di entrare nel mondo del cliente senza perdersi, di gestire le proprie aree di vulnerabilità per poter accettare incondizionatamente l’altro. Congruenza ed accettazione sono correlate, sono le due facce della stessa apertura di base: non ci si può aprire all’esperienza dell’altro se non ci si apre alla propria. E senza apertura non può esserci empatia. Consapevolezza dei propri punti di forza e di vulnerabilità L’operatore sanitario usa “sé stesso”, la propria persona, per aiutare i pazienti in una miriade di situazioni difficili. E’ importante quindi che conosca i propri punti di forza ed i propri punti deboli. Spesso è un “guaritore ferito”, cioè una persona che ha fatto esperienza della sofferenza, l’ha riconosciuta, elaborata, integrata, sviluppando maggiore sensibilità, apertura e comprensione verso chi soffre (Brusco, 1997, pp. 85-99). Le sue ferite sono diventate una risorsa, tuttavia ci possono essere delle tematiche che egli non ha ancora sufficientemente elaborato, che costituiscono punti deboli, di vulnerabilità. Possono riguardare paura della morte, lutti, bisogno di controllo, autonomia, dipendenza, timore di essere ferito, vecchiaia ecc. (Novack, 1997). Se toccati, tali punti scatenano forti emozioni come tristezza, rabbia, frustrazione, compassione, dolore ecc. e possono compromettere la relazione perché l’operatore in questi casi tende a coinvolgersi eccessivamente o a essere molto distaccato: è meno attento nell’ascolto, fa errori nella valutazione del livello emotivo, ha fretta, evita certe tematiche, si sofferma eccessivamente su altre ecc. (Stewart, 1995, pp. 98). 153 Congruenza e benessere dell’operatore Nelle istituzioni sanitarie c’è stato negli ultimi anni un notevole aumento di stress e disagio degli operatori. Secondo recenti statistiche il 30% dei medici italiani è vittima di burnout, il 12% soffre di disturbi psichici e dipendenza da sostanze: 8-10% alcoolismo, 2-3% altre sostanze, 2% disturbi mentali gravi. L’incidenza del suicidio è 6 volte superiore rispetto a chi esercita un’altra professione (Villa, 2010, Wallace, 2009). Il loro malessere si riflette sulla qualità dell’assistenza: molti episodi di malasanità sembrano esserne una conseguenza. La congruenza è correlata al benessere della persona perché le permette di essere in contatto con ciò che avviene al suo interno sia a livello fisico che psichico, di percepire messaggi che indicano distress (palpitazioni, cefalea, tic, sbalzi di umore, tensione…) e porvi rimedio (Zucconi, 2003, pp. 228-230). Congruenza, trasparenza e limiti E’ necessario che gli operatori sanitari siano in contatto con sé stessi anche per poter mettere un limite al proprio coinvolgimento emotivo. Per molti non è facile, specialmente se sono molto empatici e sensibili alla sofferenza degli altri; riesce loro difficile ammettere di non poter far fronte alle aspettative altrui, temono di apparire inadeguati, deboli o poco disponibili. È responsabilità dell’operatore ascoltarsi, comprendere dove sono i propri limiti, i propri confini, comunicarli e difenderli (Greggio, 1998, pp. 62-66; Rogers 2002, trad. it. pp. 319-320). Autorivelazione Il paziente è la parte “debole”, che necessita aiuto, mentre gli operatori sanitari sono visti come sani, senza problemi, onnipotenti. In realtà pure loro sono vulnerabili, hanno problemi personali, familiari, di salute, possono essere stanchi, frustrati, tristi, sentirsi inadeguati, feriti. Come l’operatore dovrebbe essere disponibile verso il malato ed i suoi famigliari, allo stesso modo questi dovrebbero avere un po’ di attenzione e comprensione verso il personale sanitario. Tanto più che negli anni nel mondo sanitario si sono acuiti disagi quali carenze di organico, mancanza di risorse, aumento dei carichi di lavoro e stress. 154 Una reale alleanza terapeutica deve tenere conto della reciproca vulnerabilità e richiede una comprensione delle reciproche difficoltà (De Hennezel, 2004, trad. it. pp. 180-183). Nella relazione quindi gli operatori potrebbero essere più trasparenti, rivelando, con modi e tempi appropriati, almeno in parte il proprio disagio. (McDaniel, 2007). Se un operatore, ad esempio, sta vivendo un momento di grande sofferenza (lutto, malattia, ecc.) che incide sulla qualità della sua comunicazione, è utile che lo verbalizzi, senza necessariamente condividere le proprie vicende personali. Questo momento di condivisione, di sfogo, potrà essergli di aiuto e lo renderà una persona “reale”, umana agli occhi dei pazienti, che potranno comprendere meglio il suo comportamento (Gordon, 1995, pp. 93). «A seconda del paziente e del tipo di relazione, il medico può apertamente riconoscere di essere esausto e dire al paziente che la visita sarà più breve del solito. Una tale ammissione rende il medico più umano e permette al paziente di restituirgli alcune delle emozioni di sostegno che in passato il medico gli aveva dato, migliorando così la relazione di reciproco sostegno e rispetto» (Quill, 1989)Thomas Gordon ha individuato 4 tipi di messaggi di autoapertura, che l’operatore può inviare (Gordon, 1995, pp. 94-99): 1) Messaggi dichiarativi: condivisione di proprie credenze, idee, preferenze, opinioni. Alcuni esempi: “Credo sia importante alimentarsi in modo corretto”, “Quando lei torna al controllo è importante che sia puntuale, così potremo avere più tempo a disposizione per parlare…”…, 2) Messaggi di risposta: comunicano come ci si sente di fronte ad una richiesta (di ulteriori analgesici, di potersi assentare dal reparto, di eseguire indagini in realtà inutili ecc.). Ad esempio: “Questa sua richiesta mi mette proprio a disagio perché….”, “Sono contento che abbia deciso…”,“Mi spiace che lei rifiuti….”, 3) Messaggi preventivi: comunicano un proprio bisogno all’altro, che così può regolare il suo comportamento, ed evitano l’insorgenza di un possibile conflitto. Ad esempio informare i pazienti quando si allunga il tempo di attesa per avere una visita, quando dopo un intervento è verosimile la comparsa di alcuni sintomi ecc.., 4) Messaggi di confronto. Si inviano quando il comportamento dell’altro interferisce con un nostro bisogno. Inviare questi messaggi richiede assertività, in particolare quelli dell’ultimo punto. 155 Il confronto Circa il 15% degli incontri con i pazienti viene vissuto come “difficile” da parte dell’operatore sanitario. Questo dipende non tanto da problemi tecnici, procedure o dal tipo di malattia, ma dalle “agende inconsce” che entrambe le parti portano nella relazione (Stewart, 1995, pp. 96). Le difficoltà più frequenti sono con pazienti scontrosi, aggressivi, pretenziosi, non cooperativi, ipercritici, che arrivano tardi agli appuntamenti, non vogliono attenersi alle regole e alle abitudini dell’ospedale, non seguono i piani terapeutici. Gli operatori sanitari trovano inaccettabili tali comportamenti perché interferiscono con lo svolgimento dei loro compiti professionali (Gordon, 1995, pp. 98-99). Le reazioni emotive che nascono possono essere di rabbia, irritazione, frustrazione, noia, indifferenza ecc. e rappresentano l’indizio di un problema che va risolto per non compromettere la qualità dell’assistenza. La comprensione empatica e la considerazione positiva incondizionata possono senz’altro essere di aiuto. Si può “decodificare” il comportamento del paziente come espressione di paura, insicurezza, rabbia, dolore dovuti alla malattia. Ma in alcune situazioni può essere necessario arrivare al confronto per porre un limite ad un comportamento che ferisce l’operatore, è dannoso per la salute o compromette l’esito delle cure. Questo implica il rischio che l’altra persona possa sentirsi attaccata, si arrabbi e il rapporto si deteriori (Rogers, 2002, trad. it. pp. 319-320). Per questo richiede coraggio ed assertività. La modalità direttiva di confronto che si fonda sul potere dell’operatore (minacciare, ammonire ecc.) produce resistenza al cambiamento, fa sentire l’altro non considerato nei suoi bisogni, provoca forte difensività ed aggressività. Esistono però altre modalità, più efficaci, che prevedono l’uso della propria congruenza e trasparenza, in un clima di rispetto ed empatia. Vi è innanzitutto una auto-confrontazione: quando il paziente ascolta i rimandi empatici si autoconfronta, si vede come riflesso in uno specchio (Lietaer, 2001a, pp. 99). Un’altra possibilità è comunicare le proprie impressioni sul paziente ed i sentimenti che ha suscitato in noi. Questo implica la perdita del principio di attenersi esclusivamente al suo campo esperienziale, perché il feedback parte dallo schema di riferimento dell’operatore. Questo tipo di messaggio comunque non costituisce un rifiuto dell’altro come persona (Lietaer, 2001a, pp. 99) se vengono rispettati i seguenti punti (Lietaer, 2001a, Lietaer 2001b): 156 - va inviato quando il terapeuta ha emozioni forti, persistenti, che gli impediscono di focalizzarsi su quelle del cliente e non rivelarle lo indurrebbe a mettersi una maschera di falso interesse, - bisogna considerare se il cliente può trarre giovamento, recepire ed integrare in se il messaggio di confronto. Essere trasparenti quindi con responsabilità, in modo che non sia un acting-out, - deve riferirsi a situazioni recenti, - deve riguardare l’impatto che il comportamento del paziente ha sull’operatore, non lui come persona, - deve essere esplicito e concreto, descrivere precisamente cosa del comportamento ha creato problemi e quali sono state le emozioni che ne sono conseguite, - deve essere inviato in un clima positivo, chiarendo che l’intenzione è di migliorare il rapporto, approfondirlo, - non va imposto ma deve essere un atto di congruenza e trasparenza, che esprime un malessere dell’operatore (e non colpevolizza), - bisogna essere pronti ad accogliere la reazione del paziente. CONCLUSIONI Le 3 condizioni necessarie e sufficienti individuate da Carl Rogers sono un patrimonio che ogni persona possiede, anche se in misura diversa. Se gli operatori sanitari le implementano, le fanno diventare parte integrante di sé, le “armonizzano”, possono acquisire un “modo di essere” centrato sulla persona: in contatto con se stessi, consapevoli delle proprie emozioni, in grado di percepire quelle dei pazienti e di accettare, senza giudicare, un modo di vedere il mondo diverso dal proprio. Il loro modo di interagire con i pazienti terrà allora in considerazione la “persona” ed i suoi bisogni nelle innumerevoli interazioni quotidiane e nei più svariati ambiti, dai più semplici (prelievo sanguigno, misurazione della pressione ecc.) ai più complessi (comunicazione di diagnosi infausta, intervento chirurgico ecc.). In un mondo sanitario complesso, martoriato da grandi problemi (scarsità di risorse, tagli al personale, scandali, denunce per malpractice, stress, burnout, mobbing…), difficile da migliorare anche per politici ed amministratori, formarsi e migliorare la propria capacità comunicativa mi 157 sembra una strada efficace che gli operatori sanitari possono percorrere, per “resistere” e continuare a svolgere con soddisfazione un lavoro che in moltissimi hanno scelto per passione. STRUTTURE RICREATIVE E DI AGGREGAZIONE Il Centro Diurno Anziani fornisce un servizio di assistenza a carattere integrativo e di sostegno alla vita domestica e di relazione. Si propone di assicurare agli anziani effettive possibilità di vita autonoma e sociale, favorendo il rapporto di comunicazione interpersonale e le attività ricreative e culturali. Il Centro Diurno Anziani si rivolge a cittadini anziani autosufficienti quale luogo ed occasione di aggregazione ludica e culturale (bassa soglia), dove vengono organizzate, progettate e realizzate attività di promozione e di socializzazione per il benessere della condizione anziana. Il Centro Diurno Anziani provvede alla: Organizzazione, promozione e sviluppo di attività ricreativo-culturali interne ed esterne al centro, anche mediante visite di luoghi o strutture nell'ambito urbano ed extraurbano; Promozione della partecipazione agli avvenimenti culturali, sportivi e ricreativi della vita cittadina; Promozione di attività ludico-motoria ed espressivo-ricreativa con organizzazione di attività laboratoriali presso il Centro o presso altri impianti; Promozione di attività di tipo artigianale anche con l'impiego di utensili vari; Promozione di corsi di educazione sanitaria, alimentare, di prevenzione ecc., in collaborazione con le istituzioni competenti; Promozione e programmazione di attività ricreative e di informazione anche quale strumento di salvaguardia dei valori culturali e delle tradizioni popolari da realizzare anche con l'impiego di idonei strumenti quali: proiettori cinematografici, registratori, impianti fonici, giochi vari, televisori, giornali, quotidiani, rotocalchi, piccoli e medi elettrodomestici, strumenti informatici e multimediali, ecc.; Organizzazione di incontri/feste in occasione di particolari festività; 158 Offre attività di animazione, ludiche e culturali e la possibilità di usufruire del pasto nei limiti della capacità recettiva. LE ATTIVITA’ EDUCATIVE Prestazione socio-educativa Definizione La prestazione socio-educativa consiste di una pluralità di attività di osservazione, di ascolto, di interazione e di guida sia con la persona disabile o con il gruppo, sia con la rete familiare e sociale che la circonda; ciò garantisce all'utente l'indispensabile accompagnamento educativo ed affettivo nel suo processo di socializzazione, di acquisizione della maggior autonomia possibile e di integrazione sociale. La presa a carico si basa sul programma di sviluppo individuale e fa leva sulle risorse fisiche, psichiche, sociali e ambientali (famiglia, istituto, rete sociale) della persona disabile, tutelandone al contempo i diritti. Finalità Educare e accompagnare la persona disabile, compatibilmente con le sue esigenze soggettive (vissuto personale, età e stato civile, ecc.),nello sviluppo di un'autonomia personale e sociale e nell'acquisizione e/o mantenimento di competenze comportamentali, cognitive, affettive e relazionali, finalizzate ad un’adeguata integrazione sociale. Obiettivi • Assicurare all'utente accompagnamento e progettualità educative rispetto a tutte le dimensioni della sua quotidianità (lavarsi, vestirsi, mangiare, ecc.). • Stimolare lo sviluppo del potenziale dell'utente nella gestione della propria vita. • Favorire il processo di socializzazione e integrazione sociale della persona disabile. • Sostenere l’utente nei suoi rapporti affettivi e sociali. • Favorire e coordinare i contatti con il nucleo familiare di appartenenza e la rete sociale dell'utente. 159 Attività La struttura definisce liberamente una propria strategia di presa a carico dal punto di vista dell'intervento socio-educativo, programmando in maniera continuativa una serie di attività e iniziative puntuali e ricorrenti. La prestazione socio-educativa si realizza Catalogo dei servizi e delle prestazioni invalidi – adulti – prestazioni – prestazione socio-educativa attraverso la definizione, la realizzazione e l’aggiornamento del programma di sviluppo individuale che considera i seguenti aspetti: • Attività individuali o di gruppo (accompagnamento uscite ricreative; organizzazione corsi, vacanze e tempo libero; attività ludiche; ecc.). • Affettività-emozionalità-relazionalità (contatti con compagni e operatori; relazione ospitefamiglia; contenimento dell'ansia e dell'aggressività; ecc.). • Autonomia e integrazione (aiuto uso mezzi pubblici e azioni di routine; aiuto negli spostamenti; aiuto nel vestirsi e svestirsi, bagno ecc.). • Comunicazione (aiuto nell'uso dei mezzi di comunicazione; aiuto nella comprensione e codificazione di messaggi; aiuto nella comunicazione verbale e simbolica; ecc.). • Mantenimento e sviluppo delle capacità cognitive (aiuto nel fare di conto, leggere, scrivere, nell’orientamento nello spazio e nel tempo; ecc.). • Gestione dei bisogni pratici (aiuto nella gestione della contabilità, negli acquisti ecc.). Destinatari e modalità d'erogazione La prestazione socio-educativa deve essere garantita a tutti gli utenti della struttura. Le attività socio-educative sono erogate e gestite dal personale dipendente dell'Ente. Figure professionali La struttura deve dotarsi di personale adeguato, sul piano quantitativo, della preparazione professionale, delle conoscenze empiriche e delle capacità relazionali, necessario per poter garantire 160 l'erogazione della prestazione conformemente ai livelli di qualità dichiarati, prescritti dalle normative in materia o specificamente richiesti dell'Ente finanziatore. Le prestazione socio-educativa è erogata da: • Educatore diplomato o con titolo equivalente. • Operatore socio assistenziale. La definizione, il controllo e l’aggiornamento del programma disviluppo individuale e di mantenimento e sviluppo delle capacità cognitive, relazionali e affettive competono all'educatore diplomato o Catalogo dei servizi e delle prestazioni invalidi – adulti – prestazioni – prestazione socio-educativa con titolo equivalente, che svolge queste attività in una logica di lavoro di rete, coinvolgendo le altre figure professionali di riferimento interne o esterne alla struttura, l’utente stesso e/o il suo rappresentante legale e/o i suoi familiari. Specifiche in relazione alla casistica Le modalità di erogazione della prestazione e l'impiego delle risorse in termini di figure professionali devono essere relazionati ai contenuti dei programmi di sviluppo individuali, tenendo conto inparticolare dei livelli di autonomia e dell'età degli utenti. EMPOWERMENT E QUALITA’ DELLA VITA Con il termine empowerment viene indicato un processo di crescita, sia dell'individuo sia del gruppo, basato sull'incremento della stima di sé, dell'autoefficacia e dell'autodeterminazione per far emergere risorse latenti e portare l'individuo ad appropriarsi consapevolmente del suo potenziale. Questo processo porta ad un rovesciamento della percezione dei propri limiti in vista del raggiungimento di risultati superiori alle proprie aspettative. L'Empowerment è un costrutto multilivello che in base alla tripartizione di Zimmerman (2000) si declina in: 1. psicologicoindividuale; 2. organizzativo; 3. socio-politico e di comunità. Questi tre livelli sono analizzabili individualmente ma strettamente interconnessi fra di loro. 161 Livello Individuale Il livello individuale rimanda al concetto di self-empowerment e si riferisce al processo di crescita del singolo individuo che attraverso percorsi di natura diversa (terapeutico, formativo, esperienziale, ecc.) sviluppa nuove abilità e competenze. Zimmerman (2000) si è occupato di empowerment psicologico individuale come percorso che porta dalla learned helplessness (cioè la passività appresa accompagnata da senso di sfiducia e sconforto nell'affrontare problemi quotidiani) alla learned hopefulness (maggiore fiducia in se stessi e apprendimento della speranza). Tale costrutto viene scomposto in tre componenti che, considerate insieme, costituiscono un modello di base per la valutazione dell'empowerment a livello di analisi dell'individuo: 1. La componente intrapersonale - controllo- (corrisponde a controllo e competenza percepiti. Include caratteristiche di personalità, caratteristiche cognitive e aspetti motivazionali). 2. La componente interpersonale – consapevolezza critica- (corrisponde alla capacità di analizzare il contesto socio-politico in cui si vive per comprendere il proprio ambiente. Essa si concretizza nella capacità di individuare le risorse necessarie per raggiungere un obiettivo e nella scelta di un piano di azione). 3. La componente comportamentale – partecipazione- (corrisponde alle azioni svolte per esercitare il controllo attraverso la partecipazione attiva). Rappaport (1981) delinea l'empowerment come un processo sociale multidimensionale che aiuta le persone a raggiungere un maggior controllo sulla propria vita. Permette, quindi, di incrementare il potere delle persone, per fare in modo che utilizzino tale capacità nella loro vita, nella loro comunità, nei loro gruppi. Sono tre gli aspetti in questa definizione che risultano centrali: processo sociale: processo in quanto è un percorso, un viaggio che si sviluppa e si definisce in itinere; multidimensionale: si esprime a diversi livelli (comunità, gruppi, individui) ma anche su diverse dimensioni (sociologiche, psicologiche, economiche); controllo: inteso come potere positivo, possibilità di scelta e azione. Bruscaglioni (1991) introduce il termine “self-empowerment” e sostiene che l'attenzione debba cadere maggiormente sul polo positivo di questo processo: su una tensione positiva, un desiderio 162 piuttosto che su un sentimento di mancanza. Egli parla di “io desiderante” come elemento che avvia il processo di empowerment; per cui, colui che promuove il self-empowement deve cercare di attivare fiducia, ambizione e desiderio nell'altro per “l'apertura di una nuova possibilità all'interno del soggetto” (Dallago, 2008). La possibilità di scegliere è la condizione necessaria per l'assunzione di responsabilità. L'approccio generale del self-empowerment ritiene che il comportamento sia causato dalla personale percezione di successo o insuccesso e quindi sia cognitivamente determinato. Per empowerizzare l'individuo bisognerà intervenire, dunque, sui suoi schemi cognitivi. Il modello del self-empowerment prende in considerazione quattro dimensioni: 1) Autoefficacia; 2) Collocazione interna della causalità; 3) Speranzosità (la hopefulness in Zimmerman); 4) Pensiero positivo. Lo specifico percorso formativo di self-empowerment proposto da Bruscaglioni (1991) prevede diverse tappe: l'insorgenza di un nuovo desiderio; capacità di crearsi rappresentazioni mentali positive della situazione desiderata; acquisizione di consapevolezza delle proprie risorse esterne e interne per poter mettere in atto il cambiamento; messa in atto di una prova sperimentale della realizzazione concreta del desiderio; ulteriore mobilitazione di risorse sulla base del feedback ricevuto dall'azione sperimentale; messa in atto di un vero tentativo di realizzare il proprio desiderio. Una criticità della proposta teorica di Bruscaglioni sta nell'aver sottolineato solo l'importanza dello sviluppo di tali competenze per il benessere individuale, trascurando ,invece, la centralità di una prospettiva circolare di interazione fra individuo e ambiente, presa invece in considerazione da Zimmerman. Infatti l'empowerment individuale è necessariamente connesso con il rafforzamento 163 della dimensione sociale e della sua esperienza nei contesti di vita quotidiana. Individui maggiormente empowered sono tasselli di base per il gruppo, l'organizzazione e la società. Kiefer (1984), invece, si occupa di empowerment individuale in un'ottica completamente comunitaria. Il suo modello di sviluppo naturale e spontaneo dell'empowerment psicologico viene elaborato dopo una indagine concretamente compiuta fra individui attivi nella loro comunità e con un alto livello di empowerment individuale. Il modello si struttura in modo circolare; qui la partecipazione, l'empowerment psicologico e il vivere in ambienti che favoriscono l'empowerment può cambiare la minaccia percepita e rafforzare il senso di comunità che, a sua volta, avrà risvolti positivi sull'individuo. Gli stadi dello sviluppo spontaneo dell'empowerment individuale sono: 1) Entrata: questa fase si basa su presupposti quali un forte senso di comunità da parte degli individui e la presenza di una minaccia ai loro interessi. Ciò porta a mettere in discussione l'autorità. 2) Avanzamento: in questa fase l'individuo si lascia affiancare da una guida che lo aiuta a superare eventuali difficoltà, che condivide le sue stesse preoccupazioni e cerca con lui possibili soluzioni, ampliando la comprensione di aspetti sociali, economici e politici della situazione. 3) Integrazione: momento cruciale in cui le nuove conoscenze ed esperienze vengono integrate con la propria identità. In questa fase ci si inizia a percepire come leader e a sentirsi bene nel portare avanti tale ruolo. Contemporaneamente, però, possono emergere dei conflitti legati alle altre sfere della vita e ad altri impegni. 4) Impegno: questa fase inizia nel momento in cui si riesce a risolvere i conflitti e a stabilizzare la propria identità. L'individuo si sente in grado di partecipare più attivamente alla vita di comunità, di avere una maggiore comprensione della realtà e possedere risorse individuali e collettive. Strumenti e strategie di sviluppo dell'empowerment Le strategie messe in atto dagli psicologi di comunità per promuovere lo sviluppo dell'empowerment, condividono alcune caratteristiche di base (Dallago, 2006): Lavorare considerando vari aspetti del problema; Valorizzare il gruppo e gli individui rafforzandone le competenze relazionali e di cooperazione; Valorizzare le esperienze di vita e di lavoro, attraverso l'uso di metodi e attività coinvolgenti; Favorire la partecipazione attiva dei soggetti interessati, aumentare la motivazione, creando spazi per la condivisione di idee e abilità; 164 Creare reti di istituzioni e di individui in grado di condividere sforzi, risorse e idee, e di diventare nuova risorsa per la comunità; Promuovere la cultura della valutazione, indicando l'importanza della raccolta dei dati sui processi e sui risultati delle attività, Fare in modo che il lavoro non si concluda con l'uscita di scena dello psicologo e dell'operatore ma che continui e diventi patrimonio della comunità. Livello Organizzativo L'approccio organizzativo deriva dall'ambizione di superare le dinamiche strettamente individuali considerando rilevanti anche altre prospettive come i legami tra le persone, le dinamiche relazionali e la struttura delle organizzazioni. Nonostante questo approccio faccia riferimento a molteplici contesti e situazioni, gli studi si sono limitati a considerare lo sviluppo dell'empowerment individuale all'interno dei gruppi, delle organizzazioni e delle associazioni principalmente a livello aziendale. Esistono due tipi di organizzazione con caratteristiche riconducibili alla definizione di empowerment di Zimmerman (2000): a) Organizzazione Empowering: ha come obiettivo basilare quello di promuovere l'empowerment personale dei suoi membri; è costituito da strutture e norme orizzontali (controllo); sono mobilitate risorse interne (consapevolezza critica); le decisioni sono prese da più membri (partecipazione). b) Organizzazione Empowered: ha come obiettivo principale quello di influenzare il contesto in cui è inserita; nella comunità allargata e nei dibattiti deve riuscire a prendere voce in capitolo (controllo); sono mobilitate risorse interne e esterne (consapevolezza critica); è coinvolta in reti di organizzazioni o in attività di governo della comunità (partecipazione). 165 Livello di Comunità A livello di comunità, l'empowerment fa riferimento all'azione collettiva finalizzata a migliorare la qualità di vita e alle connessioni tra le organizzazioni e le agenzie presenti nella comunità. Attraverso l'empowerment di comunità si realizza la “comunità competente”, in cui i cittadini hanno “le competenze, la motivazione e le risorse per intraprendere attività volte al miglioramento della vita”. Le strategie di empowerment di comunità sono volte a favorire il processo di crescita di potere nei cittadini tramite la partecipazione di questi ad esperienze significative. In tal senso, pertanto, questi cittadini costituiranno una risorsa per le altre persone. Secondo Iscoe e Harris (1984), le comunità competenti sono caratterizzate da tre fattori: 1. Il potere di generare opportunità ed alternative 2. La coscienza di come ottenere risorse ovvero gli strumenti necessari per risolvere un problema 3. L'autostima considerata in termini di orgoglio, ottimismo e motivazione. Martini e Sequi (1999) ne aggiungono una quarta, ovvero l'identità, che ha il ruolo di collante affettivo nella comunità. In questo senso, l'empowerment di comunità è inteso come un processo che conduce i membri a uno sviluppo della propria percezione di potere, del proprio sentimento di appartenenza e della capacità di prendere decisioni. Contemporaneamente, la comunità può offrire agli individui opportunità per accrescere il controllo sulle proprie vite oppure favorire alle organizzazioni la possibilità di influenzare la vita della comunità stessa. D'altra parte una comunità può influenzare le decisioni politiche o raggiungere in qualche modo i propri obiettivi. Una certa comunità locale può presentare una sola o entrambe queste caratteristiche. Gli approcci più noti per accrescere il potere collettivo, inteso sia come controllo di risorse sia come influenza sulla partecipazione dei cittadini, che come modo di prendere in considerazione e definire i problemi comuni, sono quattro: 1. Lo sviluppo di comunità tramite la partecipazione attiva dell'intera comunità per creare le condizioni di progresso sociale ed economico. 2. L'azione sociale che ha lo scopo di accrescere la consapevolezza dei problemi tra coloro che ne sono afflitti e che possono trarre vantaggio dal cambiamento. Un'efficace azione sociale necessita di un'organizzazione coesa e di molti cittadini che si oppongono all'ingiustizia in modo legale. 166 3. Favorire la consapevolezza dei problemi sociali, ovvero aumentare la comprensione del significato che alcune condizioni sociali hanno sugli individui. 4. L'advocacy è un approccio che comprende tutti i modi per far sentire la propria voce, per influenzare le decisioni, le politiche o le leggi. Nella realtà i quattro approcci spesso si intrecciano in modo da favorire la nascita di una spirale di cambiamento che ha come fulcro l'ottenimento dell'empowerment. Laverack (2001) individua nove domini operativi che possono servire come mezzo attraverso cui sviluppare empowerment di comunità: 1. Partecipazione: tramite il coinvolgimento attivo, gli individui possono influenzare la propria vita e quella altrui. 2. Leadership: quella condivisa da tutti i partecipanti. 3. Strutture organizzative: tutti i gruppi come le organizzazioni parrocchiali e giovanili che sono fondamentali per la socializzazione e per la risoluzione dei problemi. 4. Valutazione dei bisogni e dei problemi: spesso comporta l'acquisizione di nuove competenze e abilità per individuare soluzioni. 5. Mobilitazione delle risorse sia all'interno che all'esterno delle comunità. 6. Chiedersi il perché delle cause sociali, politiche o economiche che provocano il malessere o il benessere della comunità. 7. Legami con persone e organizzazioni. 8. Agenti esterni che possono fungere da facilitatori, dare supporto o aumentare il livello di analisi critica. 9. Gestione dei progetti: include il controllo da parte di tutti gli attori coinvolti nelle decisioni. IL SOCIOGRAMMA Progettazione di un sociogramma Il test sociometrico permette di ottenere una dettagliata mappa delle relazioni e di individuare lo status sociale dei singoli soggetti all’interno del gruppo. 167 Può essere utilizzato non solamente in ambito scolastico, ma in qualsiasi contesto dove esiste un gruppo organizzato e strutturato di cui si vuole approfondire la conoscenza (in fabbrica, nelle comunità terapeutiche, in caserma, nelle colonie giovanili, in ambiente di lavoro e sportivo, nelle comunità religiose, ecc…). In questo articolo sarà utilizzato, a fine esemplificativo, un sociogramma somministrato in una classe prima di scuola media superiore, composta da 17 maschi e 10 femmine. Gli allievi saranno individuati con una sigla, perché, in sociometria, è consuetudine indicare i soggetti esaminati con le iniziali del loro cognome e nome. Individuazione del criterio di indagine Il test sociometrico è uno strumento semplice e facile da adattare all’obiettivo che si vuole raggiungere. L’obiettivo è strettamente collegato all’aspetto della vita di gruppo che si vuole indagare. L’individuazione del criterio faciliterà l’esatta formulazione delle domande che saranno presentate ai soggetti componenti il gruppo in fase di somministrazione del test. I criteri sociometrici maggiormente utilizzati riguardano essenzialmente: l’aspetto affettivo - relazionale, che ha come contesto di riferimento la vita in comune o lo stare insieme (esempi: chi vuoi o non vuoi come compagno di gita, di stanza, di banco, di vacanze, ecc…). La configurazione delle interrelazioni che si ottiene utilizzando questo criterio fa riferimento a rapporti affettivi che si fondano su affinità psicologiche e non su considerazioni delle abilità pratiche dell’individuo. La domanda potrebbe essere formulata così: “Se si dovesse organizzare una gita (oppure una festa) chi sceglieresti tra i tuoi compagni?”. Per rispondere a questo tipo di domanda, l’allievo terrà in considerazione questo tipo di ragionamento: ”Scelgo Tizio perché mi è simpatico, mi fa molto divertire e con lui mi trovo a mio agio”. l’aspetto relativo alla organizzazione gerarchica del gruppo, che punta ad avere informazioni su chi può svolgere funzione di guida o di direzione (esempi: chi vuoi o non vuoi come capoclasse, caporeparto, capo di équipe, ecc..) l’aspetto relativo alla organizzazione del gruppo finalizzata al raggiungimento di un obiettivo condiviso (esempi: chi vuoi o non vuoi come compagno in un gruppo di studio o nel tuo lavoro). 168 I criteri del tipo 3, e in parte anche quelli del tipo 2 implicano, invece, processi di valutazione delle capacità e abilità altrui. Se la finalità del test è collegata alla necessità di indagare e di migliorare la capacità organizzativa del gruppo, allora la domanda può essere così presentata: ”Chi sceglieresti tra i tuoi compagni per organizzare dei gruppi di studio (o di lavoro)?”. Le opzioni che saranno effettuate per questo tipo di domanda non faranno riferimento al costrutto “Simpatia/Antipatia” utilizzato in precedenza, bensì saranno dettate dalla necessità di individuare nei compagni da scegliere la disponibilità alla collaborazione, la serietà e la capacità nel portare a termine i compiti assegnati. 169