elementi di sociologia, psicologia dell`utenza e patologie

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ELEMENTI DI SOCIOLOGIA, PSICOLOGIA DELL'UTENZA E
PATOLOGIE COMUNICATIVE
DISPENSA a cura di Rosalia Olivieri
Definizioni di modello
1. Termine di riferimento ritenuto valido come esempio o prototipo e degno d'imitazione; cosa o
persona assunta come soggetto per un ritratto, un disegno, una costruzione ecc. @ esempio,
esemplare, campione: seguire il m.; un m. da imitare; un nuovo m. di sviluppo; un m. di bontà.
MODELLI E SERVIZIO SOCIALE: modelli teorici quali schemi teorico-orientativi per:
3.1. l’esplorazione della realtà
3.2. la ricerca di relazione tra dati
3.3. la pratica (conoscere per orientare l’operatività)
2.3 Variabili considerate nei modelli del servizio sociale
1. chi ha il problema/chi è l’utente
2. cos’è il bisogno/problema
3. cause del problema
4. area d’azione del servizio sociale
5. livelli a cui opera il servizio sociale
6. chi e con chi opera l’assistente sociale
7. obiettivi
8. risorse
9. fasi
10. mezzi (attraverso cui opera l’ass.soc)
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MODELLO PSICO-SOCIALE (Hollis 1964)
1. fonti teoriche in filone scuola “diagnostica” (studio – diagnosi – trattamento) influenzato da
neofreudiani
(A. Freud, Erickson) e psicologia umanistica; riferimenti Hollis a teoria dei sistemi
2. chi ha il problema/chi è l’utente individuo
3. cos’è il bisogno/
4. problema - bisogno = “manifestazione di un problema di adattamento sociale, discrepanza nel
reciproco adattamento tra l’individuo e le altre persone a cui è legato” (ovvero risposta inadeguata a
pressioni ambientali conseguente disfunzioni nel processo di adattamento e integrazione fra
l’individuo e la sua situazione sociale)
5. cause del problema Cause pregresse, spesso risalenti all’infanzia (teorie psicanalitiche)
6. livelli a cui opera il serv.soc.
Trattamento diretto (utente)* e indiretto (ambiente) mediazione, chiarificazione, informazione,
influenza su persone significative
7. con chi opera l’ass.soc.: Individui
8. obiettivi • “cambiamento nell’individuo/i o nella situazione o in entrambi”
• Riflessione sugli aspetti dinamici ed evolutivi dei propri modelli comportamentali +
Cura percezioni distorte di sé e delle situazioni insight (presa di coscienza configurazione
individuo-situazione aiuto a comprensione propri pensieri ed emozioni)
9. fasi 1. f. iniziale (capire ragioni 1° contatto, stabilire rapporto, impegnare utente nel trattamento,
inizio trattamento, studio psicosociale)
2. valutazione dell’utente nella sua situazione (programmazione obiettivi e trattamento)
10. mezzi (attraverso cui opera ass.soc.): Comunicazione (sostegno, influenza diretta, catarsi,
esplorazione, comunicazione riflessiva)*
• esplorazione continua
• verbalizzazione in accettazione
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• considerazione riflessiva su complesso individuo-situazione
• sostegno verbale
• comunicazione di tipo direttivo
11. efficacia : Settore medico e psichiatrico
PSICOLOGIA DEL CICLO DI VITA
''Arco di vita'', ''corso di vita'' e ''ciclo di vita'' sono espressioni centrali nel recente dibattito intorno
alla natura e alle caratteristiche dello sviluppo psicosociale dell'uomo, e vengono a volte usate in
modo intercambiabile. ''Arco di vita'' e ''corso di vita'' sono principalmente impiegate dalla
psicologia dello sviluppo la prima, e dalla sociologia la seconda, come metafore di evoluzione della
vita individuale, mentre l'espressione ''ciclo di vita'' viene usata per indicare l'evolvere nel tempo sia
dell'individuo che della famiglia. In psicologia, questi concetti confluiscono nell'approccio definito
life-span psychology.
I tratti costitutivi della prospettiva life-span sono (Baltes e Reese 1984; Baltes 1987) i seguenti:
l'estensione dello sviluppo ontogenetico a tutta la vita, e non più relegato agli anni dell'infanzia o ad
altre fasce di età; l'esistenza di una notevole variabilità individuale a proposito degli schemi di
evoluzione e cambiamento; l'elevata complessità del processo di sviluppo che trova la propria
formalizzazione non tanto e non più in termini di crescita-maturità-declino, bensì in
un'organizzazione flessibile di fasi o stadi. Secondo questa impostazione, ciascuna fase è
caratterizzata da momenti di crescita e di declino, intesi come processi congiunti, lo sviluppo
psicologico è co-determinato da fattori interni, familiari, ambientali, e assume forme diverse in
funzione delle varie condizioni di vita storiche, sociali, culturali. Ne deriva pertanto l'esigenza di un
approccio interdisciplinare di ricerca in cui vengono privilegiati gli aspetti processuali e di reciproca
interazione delle variabili in gioco. Così, per es., la psicologia dello sviluppo pone attenzione ai
processi evolutivi entro il quadro emotivo-cognitivo e relazionale del soggetto, mentre la sociologia
li colloca nella coorte di appartenenza, anello di congiunzione tra individuo e società, e la
psicologia sociale della famiglia ne studia il plurimo intrecciarsi all'interno delle dinamiche del
gruppo familiare. In questa prospettiva di studio, lo sviluppo è scandito in più fasi evolutive di cui
alcuni autori sottolineano specie gli aspetti di continuità tra l'una e l'altra, mentre altri ne
evidenziano gli elementi di discontinuità. Nel primo caso si privilegiano i fattori maturativi e intraindividuali, nel secondo si enfatizza l'incidenza delle cause prossimali sul cambiamento e sullo
sviluppo.
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Tra i modelli classici fondati sul concetto di ciclo di vita vanno ricordati quelli di E. Erikson (1951)
e di D. Levinson (1978). Il modello eriksoniano coniuga in modo originale la prospettiva clinica
con quella sociale e si presta perciò all'integrazione di contributi provenienti dall'antropologia, dalla
sociologia e dalla storia. Secondo questo autore, gli stadi del ciclo individuale − primi anni di vita,
prima infanzia, età dei giochi, età scolare, adolescenza, giovinezza, maturità, vecchiaia − sono
caratterizzati da specifiche crisi psico-sociali, veri e propri propulsori e organizzatori della dinamica
evolutiva: infatti, esse sono determinate dalla risoluzione, più o meno adattativa, dell'antagonismo
delle due forze (definite anche qualità) predominanti in quello stadio evolutivo. Così, il primo stadio
della vita umana è caratterizzato dal conflitto tra la fiducia e la sfiducia di base, mentre crescendo il
bambino si trova ad affrontare tematiche centrate sulle polarizzazioni di autonomia e vergogna;
iniziativa e colpa; industriosità e inferiorità. Se supera questi primi conflitti, il bambino,
accompagnato da sentimenti di fiducia, stima di sé e delle proprie capacità, può affrontare la crisi
adolescenziale, al bivio tra identità e confusione d'identità. Le crisi centrali dell'età adulta si giocano
tra capacità d'intimità e pericolo dell'isolamento, e tra capacità di generatività - intesa in senso lato
come tendenza a generare prodotti e idee − e rischio della preoccupazione esclusiva di sé o stasi.
L'età adulta, anello di congiunzione dell'individuo con la generazione passata e quella futura, è così
momento decisivo di trasmissione storica. Una persona è adulta, infatti, quando "è pronta ad
investire le proprie energie per il mantenimento del mondo nello spazio e nel tempo storico". La
vecchiaia, infine, è vissuta sui temi dell'integrità in opposizione alla disperazione.
Interessante è l'apertura del modello eriksoniano alla dimensione sociale, soprattutto in termini
intergenerazionali e storici. Infatti, qualsiasi realizzazione del ciclo di vita individuale s'inserisce nel
"ciclo corrente delle generazioni", il quale è, a sua volta, d'importanza vitale per il mantenimento
delle strutture sociali in evoluzione. A tal proposito, Erikson riprende la considerazione già di S.
Freud (1912-14), secondo cui "l'individuo conduce una doppia vita, come fine a se stesso e come
anello di una catena di cui è strumento contro o comunque indipendentemente dal suo volere". Tale
potenziale apertura del concetto di ciclo di vita alla dimensione sociale emergerà, come vedremo,
nell'interesse per le concettualizzazioni sul ciclo di vita familiare.
Prendendo le mosse da Erikson, anche Levinson ha studiato le fasi della vita, occupandosi in
particolare della vita adulta. Nel suo schema, la struttura di vita evolve secondo una sequenza
relativamente ordinata. Tale struttura consiste in una serie di periodi di stabilità −dedicati alla sua
costruzione − alternati a periodi di transizione, durante i quali essa muta. Quando i compiti evolutivi
che caratterizzano una determinata fase vengono affrontati adeguatamente, allora si perviene a una
struttura ''soddisfacente'', vale a dire appropriata all'individuo e vivibile nel contesto sociale in cui
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egli è collocato, anche se non priva di qualche elemento di disordine e di frammentazione, elementi
che, con il tempo, innescheranno ulteriori cambiamenti.
Levinson sottolinea il fatto che i compiti evolutivi consistono essenzialmente nell'operare delle
scelte, nell'attuarle e nell'accettarne le conseguenze, tenendo conto del passato, del presente e del
futuro di un individuo, ma anche del mondo che lo circonda. In questo senso, le scelte vengono a
essere la componente principale della struttura di vita. Durante i periodi di stabilità, che possono
durare da sei a dieci anni al massimo, un individuo cerca di creare una struttura soddisfacente per
lui, conformemente alle scelte-chiave fatte nel periodo di transizione. Dopo alcuni anni, tuttavia,
questa struttura comincia a dar segni d'instabilità, mostrando così che è venuto il momento di
modificarla, in tutto o in parte. Si entra, in questo modo, in un nuovo periodo di transizione, che può
durare anche quattro o cinque anni, e che mette fine alla struttura di vita esistente ponendo le basi
per una nuova. Levinson distingue così, nell'età adulta, una prima transizione che va dall'età preadulta alla prima età adulta (17÷22 anni), la prima struttura di vita adulta (22÷28 anni), la
transizione dei trent'anni (28÷33 anni), la seconda struttura di vita adulta (30÷40 anni), la
transizione della metà della vita (40÷45 anni), la media vita adulta (45÷50 anni) e così di seguito.
L'ambito nel quale è stato ravvisato il primo passaggio dall'accezione individuale del ciclo di vita a
quella sociale è il nucleo familiare, in quanto contesto primario d'apprendimento e luogo di quella
''trattativa'' che, in qualità d'impresa congiunta tra genitori e figli e altre generazioni contigue, si
deve ingaggiare costantemente per affermare la propria identità. Il concetto di ciclo di vita della
famiglia, di derivazione sociologica, compare in psicologia negli anni Settanta ad opera di J. Haley,
e sottolinea la stretta interdipendenza dei vari cicli vitali individuali dei componenti una famiglia.
Da allora, il concetto ha subito modificazioni e approfondimenti, sia per quanto riguarda le fasi in
cui viene scandito, sia soprattutto nei termini di una sua sempre maggior emancipazione dall'area
sociologica, verso un'identità psico-sociale meglio definita e spesso supportata dall'applicazione
clinica. In particolare, Haley (1973) focalizza l'attenzione sulle crisi di transizione da una fase
all'altra del ciclo vitale familiare e legge l'emergere del sintomo nella generazione dei figli come
una difficoltà della famiglia nel superare la fase di sviluppo.
Recentemente, E. Carter e M. McGoldrick (1986; Carter, Heiman, McGoldrick 1993) ed E. Scabini
(1985) hanno elaborato modelli più sistematici del funzionamento familiare nelle varie fasi del suo
ciclo vitale. Carter e McGoldrick presentano un modello organizzato intorno al concetto di ciclo
vitale della famiglia concepito in termini di connessioni intergenerazionali. Il movimento della
famiglia lungo il proprio ciclo di vita non è certo lineare, essendo soggetto ad avanzate e arresti
continui: da questo fatto deriva la necessità di tener conto delle difficoltà sollevate dall'incrocio di
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desideri, aspettative e movimenti delle tre, o a volte quattro, generazioni che vivono
contemporaneamente.
Le autrici suddividono il ciclo di vita della famiglia in sei stadi: il giovane adulto tra due famiglie,
la giovane coppia, la famiglia con bambini piccoli, la famiglia con adolescenti, la famiglia
''trampolino di lancio'' per i figli, la famiglia in tarda età. Per ogni stadio, vengono individuati i
processi di transizione e i mutamenti di secondo ordine, cioè i cambiamenti più profondi e
strutturali, indispensabili affinché il nucleo proceda adeguatamente verso la fase successiva.
Per es., i cambiamenti di secondo ordine richiesti dalle autrici per attuare la transizione dalla fase
della giovane coppia a quella della famiglia con figli piccoli prevedono: a) la modificazione del
sistema coniugale per ''far spazio'' al bambino; b) l'assunzione dei ruoli genitoriali; c) il
riadattamento delle relazioni nell'ambito delle famiglie estese per includervi i ruoli di genitori e di
nonni. Pertanto, il principale processo sotteso alle dinamiche familiari e che richiede una costante
negoziazione tra i componenti è l'espansione-contrazione-riallineamento del sistema di relazioni, al
fine di favorire l'ingresso, lo sviluppo e l'uscita dei membri della famiglia.
Il modello di Carter e McGoldrick si completa poi con l'esplorazione dei problemi che il divorzio ed
eventuali matrimoni successivi comportano in relazione al ciclo di vita. Un certo spazio è dedicato
anche al ciclo di vita della famiglia povera, a quella appartenente a diversa tradizione, cultura e
religione o a gruppi etnici differenti da quello per il quale è stato pensato il modello.
Scabini (1985) focalizza l'attenzione sull'identità organizzativa della famiglia che viene definita
come un'organizzazione complessa di relazioni di parentela che ha una storia e che crea storia.
L'identità organizzativa della famiglia viene analizzata nei suoi aspetti sia di struttura che di
processo. Tra i primi, gli elementi basilari sono l'ampiezza e i ruoli, e le caratteristiche dei legami.
Essi, dal punto di vista schiettamente psicologico, si presentano come fortemente vincolati,
gerarchicamente strutturati e definiti da diverse modalità di ''attaccamento'' e da vincoli di ''lealtà''
tra le generazioni. Il tempo è una componente fondamentale della famiglia, che, in quanto gruppo
con storia, ha sempre un passato, un presente e una prospettiva futura. Ogni famiglia di nuova
costituzione si colloca infatti all'intersezione di due storie familiari che affondano le radici in un
complesso albero genealogico e, d'altra parte, ogni nucleo familiare si proietta nel futuro che
riempie di aspettative e programmi secondo uno scadenzario in gran parte socialmente normato.
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Le fasi del ciclo di vita sono definite a partire dagli eventi critici prevedibili (nascita dei figli,
adolescenza, pensionamento) e imprevedibili (malattia, problemi economici, ecc.). Essi sono
induttori di crisi e innescano le transizioni da una fase del ciclo vitale della famiglia a quella
successiva; di conseguenza, impongono al nucleo dei compiti di sviluppo tipici, il cui obiettivo
comune è comunque la costituzione e lo sviluppo del tipo di relazione adeguato alla specifica fase
del ciclo vitale familiare.
La natura dello sviluppo familiare risulta quindi peculiare, in quanto procede per successivi
superamenti di crisi, attraverso un costante processo di riaggiustamento, riorganizzazione, momenti
di morfostasi e di morfogenesi. Tra gli aspetti processuali, relativi al funzionamento del sistema
familiare, Scabini sottolinea la regolazione delle distanze, che concerne il tipo di legame e il
dinamismo dei ruoli; le distanze, a cui ogni fase del ciclo impone modificazioni e riadattamenti,
sono quelle interpersonali, quelle della famiglia in rapporto all'ambiente esterno e quelle
intergenerazionali. A un meta-livello, invece, si pone la specifica abilità familiare, definita
sensibilità, di cogliere e rispondere con prontezza, flessibilità e pertinenza, a esigenze e mutamenti
che si presentano sia sul versante dei compiti di sviluppo che su quello del contesto ambientale.
In conclusione, il concetto di ciclo di vita individuale o familiare risponde all'esigenza, diffusasi
recentemente nelle scienze sociali e umane, di dedicare maggior attenzione ai processi che non ai
risultati, alle indagini longitudinali piuttosto che esclusivamente a quelle trasversali, nel
riconoscimento della complessità delle variabili che concorrono a definire lo sviluppo dell'uomo e
dei sistemi umani.
L'invecchiamento fisico
L'aumento della popolazione anziana rappresenta un fenomeno importante della nostra società.
Rispetto al passato non è variata la durata massima della vita umana, ma quello che si è modificato
drasticamente è la percentuale degli individui che raggiungono l'età avanzata. Il numero di anziani
in Italia di età compresa fra i 65 e 74 anni è 8 volte maggiore rispetto l'inizio del secolo scorso,
mentre gli anziani con età superiore a 85 anni sono aumentati di oltre 24 volte. A conferma di ciò
studi compiuti in America, sempre nel secolo scorso, stimavano che solo il 2% della popolazione
superasse i 65 anni, mentre attualmente la percentuale è dell'11%, e questa percentuale è destinata
ad aumentare. Gli anziani sono sempre più numerosi e raggiungono la vecchiaia in migliori
condizioni di salute, merito del progresso sia delle conoscenze scientifiche (riduzione della
mortalità per malattie infettive) che delle condizioni socio-economiche (miglioramento dell'igiene e
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dell'alimentazione). L'aumento della popolazione anziana ha determinato la nascita di nuove
discipline:
Glossario
la geriatria (dal greco geros=vecchio, iatros=medico): branca della medicina che si occupa non solo
della prevenzione e del trattamento delle patologie dell'anziano, ma anche dell'assistenza
psicologica, ambientale e socio-economica.
la gerontologia : scienza che studia le modificazioni derivanti dall'invecchiamento.
la geragogia : scienza che studia tutte le possibilità per invecchiare bene.
Esiste tutt'oggi difficoltà a stabilire l'inizio del processo di invecchiamento, processo caratterizzato
dall'aumento dei processi distruttivi su quelli costruttivi a carico del nostro organismo.
Si usa comunemente considerare le seguenti fasce di età:
età di mezzo o presenile 45-65 anni : gli eventi biologici caratteristici sono la menopausa per la
donna e l'andropausa per l'uomo, importanti per le modificazioni bio-umorali (aumento dei grassi
nel sangue, della glicemia, predisposizione all'ipertensione arteriosa).
senescenza graduale, 65-75 anni : comunemente si indica l'età corrispondente all'inizio della
vecchiaia a 65 anni.
senescenza conclamata, 75-90 anni : in passato individui di età superiore ai 65 anni mostravano
riduzione
dell'
efficienza
psicofisica,
ai
giorni
nostri
si
assiste
alla
comparsa
di
ultrasessantacinquenni efficienti, e si può ridefinire anziano l'ultrasettantacinquenne. In questo
periodo le malattie che insorgono tendono a cronicizzarsi ed a determinare interventi assistenziali
sociali e riabilitativi.
Biologicamente si assiste ad una generale riduzione del numero delle cellule (atrofia) ed una
diminuzione dell'efficienza funzionale, accompagnata da modificazioni organiche e predisposizione
ad una serie di disturbi.
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FATTORI INDIVIDUALI E AMBIENTALI DELL’INVECCHIAMENTO
L'invecchiamento psichico
La psicologia dell'invecchiamento si occupa dell'anziano nella sua globalità: analogamente ad ogni
fase della vita umana non si può prescindere dall'importanza della componente affettiva che
determina la modalità di risposta agli eventi della vita.
Si è visto che la vecchiaia è caratterizzata da modificazioni in senso peggiorativo, ma si può
affermare che non esiste un parallelismo fra le modificazioni delle funzioni in individui diversi
(eterocronia dal greco eteros=diverso e cronos=tempo).
La modalità di invecchiamento non può prescindere dalla personalità e dalle esperienze, la
vecchiaia rappresenta la sintesi del significato dell'esistenza: è nella vecchiaia che si può
raggiungere la saggezza.
Già nell'antichità si riteneva che la vecchiaia fosse sempre accompagnata da deterioramento
mentale permanente, in particolare dal declino patologico delle capacità intellettuali e dell'adeguato
controllo dell'emotività (demenza). Leggendo S. Antonio da Padova si trova il termine senescere
inteso come perdere la cognizione di sé, mentre personaggi come Cicerone (nel De Senectute),
Catone e Seneca parlando di vecchiaia mostrano una visione più positiva: la vecchiaia non è solo un
processo necessariamente legato al decadimento globale dell'organismo umano. In particolare
Catone e Cicerone sottolineavano l'importanza di coltivare molti interessi, fonte di frutti
meravigliosi.
Recenti ricerche hanno evidenziato la possibilità di sviluppare situazioni creative proprio nella
vecchiaia ; studi condotti con modalità diverse hanno dato risultati diversi rispetto al passato:
l'anziano può mantenere la sua efficienza psichica globale se sfrutta le risorse residue, ad esempio
mediante l'allenamento mentale, e se motivato.
Studi anatomo-patologici sul cervello mostrarono che nell'invecchiamento si ha una sclerosi
progressiva. Eppure esistono dei casi in cui non sono presenti modificazioni cerebrali. Ciò a
conferma della variabilità del processo di invecchiamento (eterocronia) fra gli individui.
Attualmente si ritiene possibile un recupero delle funzioni cerebrali (fenomeno detto sinaptogenesi).
Le numerose scale di invecchiamento, dal 1950 in poi, dimostrarono che con l'avanzare dell'età
diminuiscono funzioni quali la memoria e la capacità di concentramento, frequentemente
compaiono alterazioni dello stato emozionale, come avviene nella depressione. Attualmente si è
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dimostrato che l'anziano è più lento, riflessivo, ma non meno efficiente: i test utilizzati in passato
erano caratterizzati da tempi brevi di risposta, ecco che l'anziano non aveva il tempo di risolvere i
problemi sottoposti. La biografia di personaggi illustri mostra individui con conservata funzionalità
cerebrale anche nella senescenza, anzi molte opere di scrittori, filosofi, artisti, compiute alla fine
dell'esistenza, rappresentano il coronamento di tutti i lavori precedenti.
Da notare anche la diversità dei risultati ottenuti da studi trasversali, in cui si confrontano individui
di diverse età, e studi longitudinali, in cui si controlla un campione di individui per un lungo
periodo di tempo. E' intuitivo comprendere come lo studio longitudinale sia particolarmente
difficile da portare a termine, sia per l'intervallo di tempo sia per la graduale perdita o rinuncia dei
soggetti campione. Gli studi longitudinali confermano che non è la senescenza la condizione
patologica, piuttosto sono gli eventi morbosi a creare le condizioni del rapido declino psicofisico.
Ma quali sono i fattori che influenzano i processi di invecchiamento?
Fattori genetici , anche il sesso può essere un fattore predisponente (il maschio invecchia più
precocemente).
Educazione e livello culturale che consentono di trovare più facilmente delle alternative di vita alla
pensione, di creare delle strategie di sopravvivenza.
Benessere economico
Interazione e comunicazione
Comparsa di malattie invalidanti : l'anziano vive come intrinseca la sua malattia, il suo vissuto è che
la malattia appartenga al suo destino.
Stile personale di vita , cioè subire o vivere la vita.
Appartenenza ad un nucleo socio-familiare, cioè il gruppo, mediante atteggiamenti di conferma o
svalutativi, evidenzia gli aspetti positivi e negativi della condizione di vecchiaia.
Eventi drammatici: ad esempio la scomparsa di figure di riferimento.
Sradicamento dal proprio luogo di origine.
E' evidente l'importanza dei fattori sociali.
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La percezione è la capacità di raccogliere le informazioni esterne attraverso i canali sensoriali. E'
quindi legata a due fattori: l'integrazione delle informazioni che avviene a livello del sistema
nervoso centrale e l'assimilazione legata al sensi (sistema nervoso periferico). La vista e l'udito sono
spesso ridotte e influenzano negativamente la capacità percettiva. Sulla base del principio di
costanza percettiva, che dice che la percezione si mantiene costante nel processo di invecchiamento,
il cervello cerca di compensare la difficoltà percettiva legata ad una perdita sensoriale stimolando i
sensi rimasti integri (principio di conservazione). Con l'avanzare degli anni si affina la capacità di
rispondere alla diminuzione di alcune funzioni psicofisiche utilizzando le conoscenze e le
esperienze apprese nella vita. E' stato dimostrato che l'attività percettiva migliora se migliorano le
condizioni in cui si svolge la stessa: l'ambiente esterno (la società, ma soprattutto il gruppo
familiare) può stimolare l'interesse, dare spazio di espressione, non negare le possibili potenzialità
dell'anziano.
La comunicazione , e quindi le relazioni interpersonali che permettono una vita sociale, dipendono
dalla possibilità di percezione.
Altro elemento fondamentale è la motivazione . La motivazione, in tutte le età, è la spinta
propulsiva fondamentale del comportamento, insostituibile strumento di apprendimento. Persino
l'utilizzo del computer, strumento estraneo alla cultura dell'anziano, può essere appreso qualora
l'anziano sia motivato a farlo.
Il pensiero e il linguaggio possono essere conservati, ma per mantenere l'interazione con l'ambiente
esterno, l'anziano deve essere in grado di comunicare. Perché ciò avvenga non si può prescindere
dall'importanza dell'affettività , del riconoscimento del suo valore all'interno del nucleo sociale in
cui vive. Gli affetti giocano un ruolo essenziale nell'agire quotidiano, nell'essere al mondo.
La depressione, espressione di profondo disagio, sofferenza psicologica più frequente nell'età
senile, comporta la rinuncia alla vita: l'aspettativa di vita è statisticamente limitata, la società invia
messaggi di inutilità, si comprende come la volontà di vita dell'anziano per essere mantenuta
necessita dell'affetto dei propri cari che affermano l'importanza della sua esistenza.
La sessualità dal punto di vista psicologico si può conservare fino ad età avanzata, ma questo è vero
anche dal punto di vista fisiologico.
Ebbene, l'esercizio sessuale è fondamentale, come l'esercizio di qualsiasi altra funzione organica ;
tuttavia appare ancora diffuso il pregiudizio culturale che considera la sessualità in età senile come
indecorosa, come se l'anziano non potesse sentire e vivere le proprie emozioni.
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Creativita': per invecchiare senza sviluppare demenza (vedi sopra) è necessario che l'anziano
mantenga attive le funzioni cerebrali. Per creatività si intende l'espressione di sé stesso, le cui
modalità di esecuzione sono vastissime.
Un esempio storico eclatante è Sofocle che morì a 80 anni: Iofone, figlio legittimo, per avere
l'eredità prima della sua morte lo portò in tribunale dichiarandone l'infermità di mente. Ebbene
Sofocle diede esempio di grande creatività quando, per mostrare la sua lucidità, recitò a memoria
dei versi.
Ancora, si pensi a Giuseppe Verdi, Alessandro Manzoni, che nella vecchiaia produssero le loro
opere migliori, Monet, Picasso, Goja, Rembrandt, Charlie Chaplin. Nel mondo dell'arte è facile
trovare vecchi creativi.
La creatività è caratteristica del mondo evolutivo del bambino. E' fondamentale per la sua crescita.
Ma la creatività diminuisce sempre di più in un società ratiomorfa, come la nostra, che privilegia la
forma, il pensare secondo una logica comune, non il differenziarsi.
Nell'età senile la funzione della creatività si può manifestare nelle piccole azioni quotidiane , come
ad esempio nella creazione di pietanze originali. Questo può valere in diverse condizioni di
aggregazione: all'interno della coppia, del gruppo, ma anche individuale. Al riguardo molto
interessanti sono le iniziative culturali della università della terza età. Lo specialista psicologo può
rappresentare un valido aiuto per l'anziano nel riconoscere e svelare le potenzialità creative. Qualora
vengano evidenziate le capacità creative, la qualità della vita migliorerà radicalmente.
Molto stimolante è il rapporto nonno-nipote . Esiste spesso la difficoltà di esprimersi dei bambini
con i propri genitori impegnati a lavorare; la relazione fra nonno e nipote faciliterà la possibilità di
espressione di entrambi: il nonno è un interlocutore che interagisce raccontando eventi del passato
modificati per facilitarne la comprensione, rendendoli più piacevoli con un pizzico di invenzione. Il
racconto di eventi passati diventa strumento per stimolare la funzione creativa. L'interazione nonnonipote diventa un elemento utile ad entrambi. Relegare gli anziano non rappresenta una soluzione
utile.
Le soluzioni per il futuro degli anziani dovrebbero essere concordate e scelte in chiave positiva,
evidenziando cioè le qualità residue utili al fine di esprimere se stessi. L'anziano dovrebbe essere
sempre posto nelle condizioni di sviluppare la creatività, tramite fatti-azioni concreti.
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Speranze e timori
Il timore più grande per l'anziano non è la morte, che magari rifiuta inconsapevolmente, piuttosto la
malattia, l'abbandono, il disprezzo delle persone con cui ha sempre vissuto, il rifiuto da parte del
suo nucleo familiare. Le soluzioni di ieri non sono più attuali, le scoperte scientifiche allungano
sempre più la durata della vita. Nei paesi industrializzati la popolazione anziana rappresenta sempre
più una percentuale importante: è indispensabile che la longevità sia caratterizzata da anni di salute
e non di malattia, invalidità e indipendenza. Bisogna considerare tre aspetti, intimamente collegati
fra di loro:
Preventivo: una buona prevenzione ha il compito di proteggere e mantenere le risorse psicofisiche,
quindi di ridurre le necessità di trattamento (prevenzione medica) e di riabilitazione. E' necessario
stimolare i rapporti con l'esterno, insegnare la geragogia, inserire nel mondo del lavoro la possibilità
di avere l'età di pensionamento flessibile, stimolare il volontariato, non solo verso coetanei della
terza età, ma anche utilizzando l'esperienza dell'anziano utili per l'inserimento dei giovani nel
mondo del lavoro (esperienza già svolta con successo da 5 anni ad Ivrea). Si potrà allora affermare
che invecchiare è un crescere ancora, un recuperare la propria espressione.
Terapeutico: l'anziano presenta spesso la compromissione di più organi, la cui terapia consiste
nella somministrazione di più farmaci. Diversi studi hanno evidenziato un abuso farmacologico, in
particolare di psicofarmaci: analogamente ai bambini irrequieti, agli anziani depressi vengono
somministrati sostanze farmacologiche. Attualmente si è mostrata efficace associare (o sostituire,
quando possibile alla terapia con psicofarmaci) la psicoterapia sistemica , che aiuta a creare forme
di strategie comportamentali più adatte ai bisogni individuali: la depressione è la reazione ad una
situazione che appare senza via di uscita, ed esistono tecniche che vengono proposte per riportare
l'anziano ad una realtà che può ancora arricchire.
Riabilitativo: le strutture di riabilitazione svolgono un ruolo importante nel ridurre i tempi di
degenza nei reparti ospedaliero con sollievo per il paziente anziano e contenimento dei costi per la
sanità. Ogni volta che un anziano si ammala e viene ricoverato si mette a dura prova il suo fragile
equilibrio . L'allontanamento dalle mura domestiche gli fa perdere il senso e i confini della realtà, il
ricovero appare come un evento drammatico che può comportare la morte. Gli anziani che
necessitano di un intervento riabilitativo dopo la fase acuta di una malattia possono venire seguiti a
livello extraospedaliero mediante il servizio dell'Assistenza Domiciliare Integrata ; nel caso di grave
compromissione psicofisica negli istituti di lungodegenza riabilitativa e nelle residenze sanitarie
assistenziali.
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I DISTURBI COGNITIVI
I DISTURBI COGNITIVI sono tutte le alterazioni o disfunzioni nelle funzioni cognitive di cui si
occupa il neuropsicologo.
Le funzioni cognitive sono: attenzione, memoria, percezione, ragionamento.
Vediamo brevemente le funzioni cognitive di base:
attenzione è la funzione che permette di isolare le informazioni pertinenti e rilevanti rispetto a un
problema da risolvere o a un contesto, considerando le infinite informazioni in arrivo sia da dentro
sia da fuori di noi;
memoria è la funzione che riceve dai sistemi di apprendimento, ordina e archivia, recupera, ogni
tipologia di informazione;
percezione è la funzione che elabora gli stimoli interni e esterni che arrivano dai canali sensoriali;
ragionamento è la funzione responsabile dei processi logici, tra cui importantissimo è il linguaggio.
Da queste funzioni basiche derivano le funzioni cognitive complesse:
orientamento nello spazio, nel tempo, nelle relazioni con sè e con gli altri;
linguaggio come competenza di gestire sistemi logici e simbolici;
abilità prassiche sia come pianificazione, sia come esecuzione di prodotti finiti;
funzioni esecutive che supervisionano tutte le funzioni cognitive dei livelli inferiori, e che, qualora
danneggiate, causano gravi disturbi della intenzionalità;
intelligenza è in realtà molte intelligenze ovvero molte funzioni che risolvono problemi complessi.
Il Q.I. è una misura dell’intelligenza scolastica, e non una misura delle intelligenze artistiche e
tecniche.
Data questa definizione, è chiaro che i disturbi cognitivi sono:
[partendo dalle prime età del ciclo di vita per arrivare infine alla terza & quarta età]
l’autismo, i disturbi specifici dell’apprendimento (es. dislessia), il disturbo da deficit di attenzione e
iperattività, le sequele di incidenti stradali o lavorativi, i comportamenti associati alla dipendenza da
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sostanze o dal gioco d’azzardo, le pseudodemenze a base depressiva, le demenze nelle loro varie
tipologie.
Un interessante caso di disturbo cognitivo – generalmente non considerato tale – è la falsa
testimonianza inconsapevole, che interessa: attenzione, memoria, percezione, ragionamento. Oltre
2.000 studi scientifici (dato del 2013) hanno dimostrato che i resoconti e le identificazioni dei
testimoni oculari sono falsi per un terzo del totale esaminato. Il ricordo e la testimonianza sono
perciò temi delicatissimi in psicoterapia, dove può accadere che il paziente creda vere situazioni
traumatiche che possono benissimo non essere mai accadute. E nel caso di consulenze / perizie
giuridiche è altrettanto importante che lo psicologo sappia valutare i rischi di una falsa
testimonianza inconsapevole ma convincente, dato che la memoria umana è suggestionabile in base
a criteri ben noti alla psicologia cognitiva.
TEORIA DEL DISIMPEGNO E DELL’ATTIVITA’
Chi è l'anziano.
L'anziano è la sua storia,
l'anziano e la sua storia
Premessa
Il presente lavoro si inserisce nel più generale impegno del Cesvol di fornire ai volontari che
operano nei vari ambiti della solidarietà strumenti e competenze per migliorare efficacemente la
propria azione solidale.
"Chi è l'anziano. L'anziano è la sua storia, l'anziano e la sua storia" è il titolo di un interessante
modulo formativo affidato al Dr. Giuseppe Lofrumento all'interno un corso rivolto a volontari
impegnati con gli anziani, realizzato a Bastia nel 2003 in collaborazione con l'Associazione di
volontariato la Zattera.
La spinta a realizzare questo tipo di formazione parte dalla constatazione unanimemente condivisa
che esistono particolari settori di intervento dell'associazionismo (dalla tossicodipendenza fino alla
disabilità ma anche l'infanzia) per i quali non è sufficiente "avere" voglia di fare volontariato, di
dedicare parte del proprio tempo libero a chi vive situazioni di disagio. L'esperienza positiva dei
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gruppi di auto mutuo aiuto, che stanno praticamente proliferando in vari settori (dall'alcol alla
depressione) dimostra che per essere utili a qualcuno è necessario mettersi nei suoi panni. Questi
corsi si pongono proprio l'obiettivo di contestualizzare, definire e caratterizzare al massimo tutti gli
aspetti, i problemi, i conflitti, etc. che fanno parte di un determinato contesto di disagio, al fine di
conoscerli ed affrontarli nel migliore nei modi e, soprattutto, senza traumi per il destinatario finale
(per il disabile o l'anziano non autosufficiente).
Considerato che è compito del centro servizi operare proprio in questa direzione, i corsi di
formazione per figure di volontari rispondono alle seguenti finalità:
•
fornire proposte qualificate ed adeguate di formazione rivolte al volontario
•
valorizzare la cosiddette buone pratiche e le esperienze già esistenti all'interno
dell'associazionismo
•
favorire la messa in rete e la condivisione di tali esperienze nella progettazione e nella
realizzazione dei corsi
•
rendere tali corsi accessibili a tutti, anche a chi non sia iscritto o faccia parte delle
Associazioni proponenti
I quaderni del volontariato si pongono l'obiettivo di "mettere per iscritto" una serie di contenuti
trattati ed esposti con la formazione, al fine di renderli disponibili a tutti coloro i quali volessero
intraprendere la strada della solidarietà con livelli di consapevolezza e conoscenza che devono
necessariamente entrare a far parte delle buone pratiche dell'associazionismo.
L'invecchiamento o senescenza consiste nel processo che conduce alla condizione di vecchiaia e
pertanto si connota in termini dinamici. Premesso che convenzionalmente si colloca l'inizio
dell'invecchiamento intorno al 65° anno di età, è importante precisare che in tale processo esistono
tre aspetti non omogenei: biologico (il mutare e il decadere del corpo), psicologico (il modificarsi
dell'adattamento alla vita quotidiana), sociale (il cambiamento del ruolo dell'anziano nella società),
in contemporaneo e non coincidente movimento.
Tradizionalmente, l'invecchiamento implica quasi sempre un significato negativo, di perdita, di
decadimento, tale per cui le conseguenze dell'invecchiamento sono spesso considerate soltanto in
termini deficitari.
In ambito biologico, è stato frequentemente usato il termine di invecchiamento per designare il
processo che implica il modificarsi dell'essere vivente nel periodo compreso fra la cessazione della
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sua attività riproduttiva e la morte. Se riferito all'uomo, il sostantivo viene impiegato a indicare il
complesso delle modificazioni cui l'individuo va incontro, nelle sue strutture e nelle sue funzioni in
relazione al progredire dell'età. Esso assume un significato che ha una base comune con quello di
accrescimento o di maturazione -pure esprimente le modificazioni in rapporto con l'età- ma se ne
distingue per un'implicazione regressiva e distruttiva rispetto a una progressiva e costruttiva.
L'accrescimento viene infatti considerato come il processo attraverso il quale l'individuo aumenta
quantitativamente le proprie strutture e funzioni e perde progressivamente le proprie funzioni.
Anche accettando questo modo di intendere i due processi, si è dovuto riconoscere come essi si
svolgano in due fasi distinte della vita dell'uomo, ma senza presentare soluzioni di continuità,
costituendo le due modalità del processo di sviluppo, che inizia dal momento in cui comincia a
formarsi un essere vivente fino al momento della sua morte.
Il passaggio senza soluzione di continuità dall' accrescimento alla senescenza può avvenire ad età
cronologiche differenti non soltanto per i diversi individui ma anche per le singole funzioni
all'interno di uno stesso individuo.
E ciò in relazione a quella che è stata indicata come l'eterocronia di accrescimento e di senescenza.
L'accrescimento comporta non soltanto aumenti quantitativi e differenziazioni qualitative, ma anche
arresti o diminuzioni quantitative e decadimento di funzioni.
La senescenza implica non soltanto la diminuzione di certe strutture ma anche conservazione di
altre, non solo perdita di certe funzioni, ma anche perfezionamento di altre.
L'invecchiamento umano, anche se generalizzato a tutti gli individui, si svolge con modalità, ritmi,
conseguenze estremamente variabili da individuo a individuo, in relazione a fatti preesistenti e a
condizioni contingenti nonché alle linee che avranno caratterizzato l'accrescimento di ciascuno.
Vita media uomini: 75 anni
Vita media donne: 85 anni
Invecchiamento bio-psico-sociale:
25 anni >inizio declino biologico-psicologico
65 anni > inizio vecchiaia
65/74 anni > giovane -vecchio
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75/84 anni > vecchio - vecchio
84 anni in poi > vecchio - molto vecchio - ultracentenario
Biologia dell'invecchiamento
Le ipotesi biologiche formulate fino a oggi sull'invecchiamento sono numerosissime e propongono
una complessa interazione di fattori genetici, immunitari e neuroendocrini.
Nella sostanza, tuttavia, esse possono suddividersi in due gruppi.
Al primo appartengono tutte quelle che considerano l'invecchiamento come un processo passivo
dovuto all'accumulo di prodotti tossici, o a una sorta di esaurimento funzionale, o, ancora, a un
equivoco biologico, una sommatoria negativa di errori che l'organismo commette dal concepimento
in poi. Ne sono un esempio le teorie biologiche che chiamano in causa fattori genetici, come
alterazioni nella duplicazione del DNA. Si ritiene che il processo di invecchiamento dell'organismo
sia regolato dal sistema nervoso centrale: le alterazioni cerebrali darebbero il via a una cascata di
eventi metabolici e fisiologici che porterebbero, gradatamente, organi e tessuti a una perdita di
efficienza funzionale, per cui questi ultimi resisterebbero sempre meno all'azione disgregatrice
dell'ambiente. Si pensa, in un'ottica biologica, che lo studio dei processi di invecchiamento
cerebrale possa chiarire i meccanismi generali della senescenza, ancora in larga misura ignoti.
Al secondo gruppo fanno capo quei gerontologi per i quali l'invecchiamento sarebbe un processo
attivo, dovuto a un'autodistruzione programmata, che procederebbe silenziosa, dal concepimento
alla morte. Il termine "programmata" viene utilizzato nel senso di "guidata e controllata da geni
particolari", che si attiverebbero quando l'organismo è giunto a maturazione. Tali geni sarebbero
stati conservati nel corso dell'evoluzione, in quanto, accanto agli effetti distruttivi, ne avrebbero altri
utili e attivati precocemente.
In altre parole, le cellule dell'organismo, continuamente esposte ad agenti potenzialmente
danneggianti di origine endogena ed esogena, per mantenere la propria integrità, hanno sviluppato
una serie di meccanismi di difesa, tra cui la morte cellulare programmata (o apoptosi) e finalizzata
ad eliminare cellule gravemente danneggiate e/o mutate e sono in grado di attivare meccanismi di
riparazione del DNA. La loro contemporanea messa in funzione costituirebbe quel "network di
difesa" che rappresenterebbe il principale sistema anti-invecchiamento dell'organismo. Il livello
complessivo della funzionalità ed efficienza del network sarebbe controllato geneticamente ed in
modo quantitativamente diverso nei singoli individui di una determinata specie, rendendo ragione,
almeno in parte, della differente longevità dei diversi individui e della apparente "familiarità" della
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longevità. Quello che determinerebbe la longevità sarebbe dunque il risultato di un bilanciamento,
modificatosi con l'evoluzione, tra meccanismi pro-invecchiamento, che tendono a destabilizzare il
DNA, e meccanismi anti-invecchiamento (in primo luogo quelli del network di difesa), che tendono
a conservare integrità e correttezza dell'informazione genetica, eliminando le cellule e le molecole
alterate e mutate.
Invecchiamento: ipotesi psicologiche alternative
In analogia con le ipotesi biologiche, anche in ambito psicologico si possono individuare due filoni
interpretativi ben rappresentati dalla teoria del disengagement e da quella dell'activity .
La teoria del disengagement (del disimpegno), proposta da Cumming e Henry nel 1961, vede
nell'invecchiamento una riduzione progressiva delle funzioni individuali e interpersonali. Secondo
tale prospettiva, l'invecchiamento comporta inevitabilmente un soggettivo e un obiettivo
disimpegno sul piano fisico, psicologico e sociale, con la conseguente incapacità di rispondere alle
esigenze sempre più rapidamente rinnovate di un mondo in continua trasformazione. È un "lasciarsi
andare alla deriva": conseguenza in parte della reale riduzione delle capacità e delle abilità
preesistenti, in parte di un volontario ritiro dal mondo, favorito e dal pregiudizio soggettivo che
"invecchiare significa morire" e da quello sociale secondo cui il vecchio è "oggetto" residuale e
marginale di un'organizzazione in cui competizione ed efficienza sono i valori dominanti. Alla
perdita del funzionamento biologico, si aggiunge, così, quella del funzionamento psicologico.
Alla teoria del disengagement si contrappone quella elaborata da Havighurst, nota come teoria
dell'activity, secondo la quale il disimpegno non è inevitabile e molti anziani non mostrano di
disimpegnarsi, né sul piano fisico, né sul piano psicologico, né su quello sociale. Havighurst ha
tentato di individuare le caratteristiche "dell'invecchiare con successo", per facilitare in tutti gli
anziani l'insorgere del feeling of happiness e aumentare il loro livello di soddisfazione e di
benessere psicologico. Tali caratteristiche consisterebbero nella capacità di mantenersi attivi fino ad
età avanzata, impegnandosi nelle attività più diverse, a seconda delle differenti opportunità.
Aspetti cognitivi dell'invecchiamento
Come è noto, nell'età senile, al normale decadimento cui vanno incontro tutte le persone viene
contrapposto il deterioramento patologico. Il progressivo deterioramento delle funzioni cognitive
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viene ricondotto principalmente alle modificazioni che il cervello umano subisce nel corso della
vita e che trovano la loro massima espressione psicopatologica durante l'invecchiamento.
Esistono infatti prove certe della stretta dipendenza tra alterazioni strutturali e alterazioni funzionali
del cervello. Tali alterazioni possono essere contrastate o agevolate dalle condizioni ambientali in
cui l'anziano vive. Peraltro non esiste una correlazione diretta fra l'involuzione fisiologica cerebrale
e il mutare psicologico della persona.
La minore interconnessione nel cervello degli anziani (cui sono correlate le alterazioni nei
meccanismi della trasmissione sinaptica) viene evidenziata dalla riduzione della ramificazione
dendritica e dal declino di neurotrasmettitori quali acetilcolina, dopamina e noradrenalina. Più che
lo spopolamento, nei fenomeni dell'invecchiamento cerebrale, sembra avere sempre maggiore peso
il depauperamento dei neurotrasmettitori. Le ricerche condotte post-mortem nell'uomo hanno
evidenziato livelli ridotti di dopamina (DA) e noradrenalina (NA) in rapporto con l'età e in
specifiche aree cerebrali.
In condizioni fisiologiche lo spopolamento neuronale dell'encefalo dell'anziano è ben lontano
dall'inficiare seriamente il suo funzionamento cerebrale. Infatti le "perdite" possono essere in parte
contrastate e compensate dal fenomeno della plasticità neuronale e dalla continua e mirata
stimolazione ambientale.
Una sintesi dei dati più recenti della ricerca in tema di funzioni cognitive documenta l'esistenza di
alcune modificazioni positivamente correlate con l'età, e cioè:
- un crescente e tendenzialmente globale rallentamento sia psicosensoriale, sia motorio, il quale si
traduce in un rallentamento nella elaborazione cognitiva e nella produzione di risposte.
Il deficit sensoriale, così come quello motorio possono causare deficit della stimolazione cognitiva,
sia direttamente, sia tramite l'isolamento. I sensi sono infatti gli indispensabili mediatori per una
gran parte dell'input cerebrale e una loro compromissione comporta inevitabilmente una flessione
delle afferenze sensoriali. Si pensi agli anziani che non possono più leggere il giornale o guardare la
televisione per un deficit visivo; i difetti uditivi producono imbarazzo, vergogna e limitano
conseguentemente le interazioni sociali; anche i difetti motori, molto frequenti negli anziani,
diminuiscono l'autonomia del soggetto, la sua disponibilità esplorativa, la sua probabilità di rapporti
interpersonali. A questo proposito, una riduzione sensoriale e minore efficienza motoria possano
determinare difficoltà di decodificazione degli stimoli e limitazione delle possibilità manipolative
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sull'ambiente. Tutto ciò può portare, a sua volta, a un restringimento dello spazio fisico e quindi di
quello psicologico, con l'aumento della tendenza all'introversione e all'isolamento:
- un aumento della componente cristallizzata (utilizzo del patrimonio di esperienze e di conoscenze)
dell'intelligenza rispetto alla componente fluida (capacità adattiva e creativa di fronte a stimoli
nuovi). Si rileva inoltre una prevalenza di meccanismi di coping (affrontare difficoltà) passivi e
poco mirati.
- una graduale compromissione delle capacità mnesiche. Uno dei segnali di allarme del
decadimento delle funzioni cognitive è la perdita di memoria; in questi casi è opportuno
differenziare se il fenomeno fa parte di un'involuzione fisiologica o è il primo sintomo di una
situazione patologica di tipo demenziale (alla cui base ci sarebbe un abbassamento dell'acetilcolina).
Tuttavia, resta il fatto che per una percentuale di persone, seppur ridotta, il decadimento mentale è
talmente lieve da non compromettere le funzioni psichiche fondamentali.
La prima causa di perdita della memoria è la mancanza di esercizio: "Il cervello deve essere
mantenuto continuamente in allenamento, perché i neurotrasmettitori e le connessioni sinaptiche
funzionino in modo efficiente. Possono, inoltre, interferire con la memoria stati di ansia e di
depressione, disinteresse, mancanza di stimolazione, tutte situazioni che impediscono il lavoro dei
complessi sistemi neurotrasmettitoriali che permettono di fissare, immagazzinare e richiamare le
informazioni. Ma in molti individui può verificarsi una situazione patologica dovuta a deficit di uno
o più neurotrasmettitori, il che comporta più o meno evidenti disturbi della memoria. Tra i diversi
neurotrasmettitori l'acetilcolina è risultata svolgere, anche in tarda età, il ruolo di maggior rilievo
nei processi di apprendimento e di memoria e a una sua sostanziale riduzione sono attribuiti gran
parte dei deficit neuropsicologici caratteristici del decadimento cerebrale patologico".
Oltre a fattori organici si pensa che il calo della memoria possa essere collegato anche a componenti
psicologiche (rimozione, stati confusionali con finalità difensive). Maggiormente colpita sembra
essere la memoria a breve termine, mentre quella a lungo termine appare in genere conservata ed è
comunque l'ultima a venire intaccata dal deterioramento patologico;
- una graduale compromissione delle capacità di apprendimento, soprattutto in funzione della sua
rapidità. A tale proposito, ricerche recenti hanno messo in luce come negli anziani avvenga un
restringimento dello spazio di vita personale e un aumento delle difficoltà di adattarsi a realtà
estranee.
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La capacità mnemonica si ridurrebbe, quindi, non tanto per l'impossibilità di memorizzare, ma
piuttosto per un certo disinteresse verso contenuti che non rientrano in uno spazio vitale noto e
collaudato e che va progressivamente restringendosi. Al contrario, la capacità di apprendere
elementi nuovi e pertinenti alle aree nelle quali il comportamento va sempre più circoscrivendosi si
mantiene e aumenta. La motivazione costituisce pertanto un aspetto fondante la capacità di
apprendimento, non solo negli anziani; accanto ad essa in letteratura si attribuisce, anche per quanto
riguarda gli anziani, un ruolo centrale all'autostima. Rispetto ai giovani, inoltre, è noto come negli
anziani l'apprendimento sia favorito da tecniche fondate sull'azione (by doing), piuttosto che sulla
memorizzazione (by memorizing).
"Vicarianza delle attitudini": un soggetto anziano è in grado di supplire i deficit connessi al
decadimento di alcune capacità, utilizzando altre abilità e funzioni. Alla riduzione della rapidità
senso-motoria, ad esempio, si affianca la conservazione e spesso il miglioramento di precisione e
accuratezza; l'efficienza intellettiva diviene più lenta, ma anche più riflessiva. Con l'avanzare
dell'età, in sintesi, diminuisce la possibilità di fornire prestazioni eccezionali, ma è conservata
quella di ottenere prestazioni medie abituali. Si restringerebbe inoltre la gamma delle attività, ma
non l'efficienza e l'efficacia di quelle possibili.
Un fattore fondamentale per contrastare in parte il deterioramento mentale resta in ogni caso, quello
della stimolazione e dell'esercizio: "per ogni anziano è possibile migliorare il proprio rendimento
pensando, ragionando, leggendo, studiando, giocando, lavorando, ma soprattutto parlando e
rispondendo non solo ai suoi coetanei, ma anche a persone più giovani ".
Nei casi in cui il deterioramento assume entità patologiche, si avranno vari livelli di
compromissione funzionale, fino ad arrivare a conclamati quadri di demenza.
Aspetti fisici dell'invecchiamento
La frequente insorgenza di problemi somatici, handicap estetici, patologie organiche, spesso
invalidanti, può avere come conseguenza l'isolamento o, quanto meno, un grave impedimento alle
relazioni sociali, con un alto rischio di depressione e/o di spegnimento delle funzioni cognitive.
Particolarmente frequenti sono gli equivalenti psicosomatici che spesso si costituiscono come
quadro di allarme neurastenico manifestantesi attraverso cefalee, mialgie, rachialgie, dolori della
nuca, disturbi del sonno, turbe dell'equilibrio, astenia, formicolii, cardiopalmo, poliuria, tachicardia,
estremità fredde e altro.
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In generale, le malattie genericamente intese sono una delle principali fonti di timore per l'anziano,
che già si sente fragile e quindi più esposto al rischio di ammalarsi. La malattia, sia nella sua
attualità, sia nella sua potenzialità, è percepita come qualcosa di ineluttabile e intrinsecamente
connessa all'invecchiamento e può portare con sé angosciosi vissuti di inadeguatezza, di inutilità e
di morte.
Da un punto di vista psicologico, il vivere il proprio Sé e, di conseguenza, con il proprio Sé è
ampiamente condizionato dalle emozioni e dai significati che, con l'inizio del cambiamento
involutivo, possono essere quelli dell'allarme e della costruzione di ipotesi negative sul presente e
sull'immediato futuro. La percezione del decadimento fisico che può accompagnare i disturbi
psicosomatici o seguire ad essi, viene spesso assunta dall'anziano come immagine di un Sé corporeo
che va deteriorandosi e sgretolandosi. Non solo: ma il progressivo venir meno di un'armonica
percezione e integrazione dell'immagine del Sé nella prospettiva e nel ruolo che la realtà esterna
concretamente fornisce alimenta, a sua volta, una comprensibile diminuzione di vitalità, vigore
fisico ed energia psichica ed una maggiore difficoltà ad adattarsi alle richieste ambientali, cioè la
persona reagisce non solo al difetto fisico e/o psichico che l'invecchiamento comporta, ma anche
alle modificazioni che esso determina nel suo operare; o si scoprirà negativamente diverso e sarà
costretto a un più o meno brusco mutamento di ruolo o sarà considerato diverso dall'ambiente nel
quale è inserito e dove, il più delle volte, è insufficiente la valorizzazione degli aspetti positivi legati
all'età anziana.
Il progressivo indebolimento dell'Io e il cedimento dei meccanismi di difesa, fanno sì che
aumentino l'ansia e le attenzioni rivolte al corpo, a loro volta esprimentisi in frequenti e tormentose
richieste di visite mediche e specialistiche. Per converso, il ricorso alla negazione o alla regressione
può far sì che l'anziano adotti meccanismi ipercompensatori fittizi e miri a ostentare con
intransigente cocciutaggine e rigidità una salute e una sanità che invece sono compromesse, o
assuma ruoli infantili che celano il decadimento e il venire meno dell'efficienza.
La malattia, in particolare quella invalidante, comportando una perdita dell'autonomia, costringe
l'anziano alla dipendenza e genera vissuti depressivi o ansiosi. L'ambiente sociale e familiare, a loro
volta, svolgono funzioni positive o negative sui vissuti del paziente, modificando le risposte
soggettive individuali. Pertanto, il quadro finale è unico e irripetibile, non schematizzabile e
generalizzabile, essendo molte le variabili che entrano in gioco e assumendo ognuna di esse
significati differenti, che seguono regole di causalità circolare e non unilineare.
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Aspetti affettivi dell'invecchiamento
Benché la personalità sia un fattore psicologico relativamente "stabile" nel tempo, almeno in
condizioni di normale invecchiamento fisiologico, durante la senescenza anche gli affetti e le
emozioni subiscono degli "aggiustamenti". L'affettività tende a modificarsi sia quantitativamente,
sia qualitativamente. Innanzitutto si riduce l'intensità soggettiva, rispetto a contenuti che in
precedenza suscitavano reazioni intense; ne consegue un'attenuazione dell'aspetto espressivo. In
secondo luogo, l'affettività si concentra su poli circoscritti dal momento che, piuttosto che da
condizioni esterne, l'anziano è coinvolto da quelle personali: in particolare dal suo benessere fisico e
psichico e dal suo status economico e sociale. Il risultato finale è il prevalere di un egocentrismo
sempre più accentuato.
Mentre cioè la personalità del giovane è di tipo prevalentemente centrifugo, proiettata verso
l'esterno e verso il futuro, la personalità dell'anziano è centripeta, ossia rivolta prevalentemente al
proprio Io, con tutto il carico di ricordi, esperienze e sentimenti che lo caratterizza. Gli investimenti
affettivi si rivolgono al proprio presente e al proprio corpo che, come già segnalato, può diventare
oggetto di preoccupazioni ipocondriache o il tramite attraverso cui comunicare all'esterno per
attirare le attenzioni altrui.
Questo tuttavia non significa che per l'anziano i legami affettivi e le relazioni interpersonali siano
insignificanti; al contrario, l'anziano è in grado di amare e ha bisogno di sentirsi amato, di ricevere
attenzioni e affetto. È noto infatti come, a qualsiasi età, rapporti affettivi soddisfacenti favoriscano
un'attività psichica globalmente efficiente e un'adeguata motivazione alla vita.
Anche la sessualità continua a rappresentare in età senile un importante aspetto della vita affettiva.
Aver perso o ridotto in modo consistente la propria capacità procreativa non costituisce motivo di
rinuncia all'atto sessuale, che continua a rappresentare importante espressione psico-fisica di una
relazione matura basata sull'amore. Le modificazioni fisiologiche, tanto funzionali quanto
anatomiche, che si verificano in senescenza non sono per lungo periodo tali da rendere l'anziano
inidoneo ad attività sessuale; tant'è che, secondo recenti statistiche, il rapporto sessuale coniugale
tra le persone anziane è abbastanza frequente.
Tra i fattori che determinano una diminuzione o una sospensione del rapporto sessuale vi sono
motivazioni psicologiche o relazionali. Basti pensare all'alto numero di anziani che sono rimasti
soli, in seguito alla morte del coniuge. Sia per questa categoria di soggetti, sia per gli anziani che
ancora vivono in coppia possono avere un importante effetto inibente i pregiudizi e gli stereotipi
culturali che vedono l'anziano come asessuato, privo di desideri sessuali, immerso nella "pace dei
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sensi". Gli effetti sugli anziani possono essere quelli della vergogna e del senso di colpa per avere
ancora esigenze e pulsioni del genere.
È vero che questo progressivo infragilimento della persona anziana, entro certi limiti, come
abbiamo visto, può essere positivamente compensato dalla possibilità di attingere a risorse ancora
attive e attivabili, ma è altrettanto vero che il discorso finora fatto deve tenere conto dell'impatto cui
l'anziano va incontro quando si trova a dovere affrontare l'immagine, il ruolo, la collocazione che
gli viene oggi riservata nella cultura e nella struttura sociale.
Aspetti socio-culturali dell'invecchiamento: pensionamento
Tre sono le fasi principali del pensionamento:
1.Luna di miele
2.Elaborazione
3.Frustrazione
Con il passaggio all'attuale era post industriale, l'immagine sociale dell'anziano, il suo ruolo
all'interno della società e della famiglia si sono modificati in modo sostanziale. Nella nostra cultura
e nella nostra organizzazione sociale, infatti, la produttività e l'attività lavorativa sono elementi
fondamentali nella definizione dell'identità e del ruolo sociale. L'inizio della vecchiaia viene oggi
sancito (e spesso sanzionato), in modo brusco e repentino, dal pensionamento e dalla perdita dello
status sociale connesso al ruolo di lavoratore. Uscire dall'ambiente lavorativo può significare, per
molti, essere fuori dal mondo. Diminuiscono le possibilità di contatto umano e di relazione;
vengono meno, progressivamente, gli incontri con i compagni di lavoro, con gli amici ancora
produttivi. Allontanarsi dal lavoro può significare anche perdere la necessità di doversi
continuamente occupare degli avvenimenti futuri, degli aspetti organizzativi: perdere, in altri
termini, l'atteggiamento aggressivo verso il presente e costruttivo verso il futuro. Tale passaggio
induce molto spesso vissuti di inutilità, di vuoto, di mancanza di prospettive e di risorse, cui non
sempre l'anziano è in grado di contrapporre nuovi obiettivi e interessi.
Alcuni fattori risultano influire in modo significativo sul vissuto soggettivo:
- la percezione che il soggetto aveva del proprio lavoro e dell'ambiente lavorativo;
- il tempo intercorso dal pensionamento, in quanto è necessario un periodo di adattamento;
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- la possibilità di scelta al momento del pensionamento. Il pensionamento forzato e anticipato
sembra avere peggiori conseguenze sul tono dell'umore, specie in assenza di alternative vissute dal
soggetto come validi sostituti dell'attività perduta.
Inoltre al pensionamento si collegano spesso difficoltà economiche che incidono negativamente
sulla qualità di vita dell'anziano e sul suo equilibrio psicologico. Il disagio del pensionamento è
particolarmente evidente nell'uomo, meno abile nel fare "altri" investimenti, che non siano il lavoro
e l'ambiente in cui svolge le sue attività; la donna, in genere, lo tollera meglio, in quanto la cura
della casa e della famiglia, nonché la maggiore capacità di costruire e mantenere legami alternativi e
integrativi le permette di sostituire e compensare quanto andato perduto. Inoltre, la struttura attuale
della famiglia e il clima culturale non sempre aiutano l'anziano a superare il disagio indotto dal
pensionamento. In una società che insegue il mito dell'eterna giovinezza, della forza, della bellezza
e del successo, l'anziano è evocatore di angosce di morte e disfacimento e pertanto viene
emarginato.
L'equilibrio psicologico del vecchio è messo in difficoltà dall'ambivalenza dell' ambiente, che gli
richiede da una parte aspetto giovanile, prestanza, flessibilità, anticonformismo, autonomia,
dall'altra critica impietosamente ogni atteggiamento che non corrisponda allo stereotipo culturale
della vecchiaia.
Per quanto si riferisce in specie all'ambiente familiare, è noto come la figura dell'anziano possa
essere vissuta come destabilizzante all'interno della famiglia. Per il noto meccanismo della profezia
che si autoadempie, si assiste a comportamenti dei vecchi che diventano palesemente coerenti con
le previsioni del contesto familiare, col risultato dell'avvio di un circolo vizioso, nel quale quanto
più i comportamenti di una persona saranno ridefiniti come espressione delle sue carenze, tanto più
questa metterà in atto comportamenti di quel tipo, in quanto unico strumento comunicativo di cui
dispone. Le possibilità di conflitti, frustrazioni, dissapori all'interno della famiglia sono continue: le
differenze di età portano a concezioni diverse della vita e dei suoi valori, della moralità, della
religione. Si può arrivare a veri scontri generazionali con dinamiche di competitività, di
risentimento, di invidia, di colpevolizzazione verso i figli, i quali reagiscono spesso con rifiuto o
senso di colpa e iperprotezione verso i genitori. Non è infrequente che il genitore anziano diventi il
capro espiatorio delle tensioni coniugali o che si attuino nei suoi confronti più o meno diretti
meccanismi di emarginazione o di esclusione, motivati dai difetti del carattere, dalla trascuratezza,
dagli stessi handicap fisici, e altro.
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A livello socio-culturale la squalifica dell'anziano, vissuto come un peso inutile e privo di risorse,
come un individuo che non ha più nulla da dare, soprattutto (anche se non solo) quando non è più in
grado di gestirsi in maniera autonoma, risulta evidente, se si considera che la quasi totalità degli
interventi rivolti agli anziani sono di tipo socio-assistenziale e relegano pertanto l'anziano in un
ruolo di passività e di dipendenza.
Buon invecchiamento
Negli ultimi anni le ricerche sulla longevità (convenzionalmente collocabile intorno agli 85-90 anni)
si sono intensificate, a causa delle notevoli proporzioni assunte da tale fenomeno, conseguenti al già
segnalato aumento dell'età media: nell'intero territorio italiano, attualmente, si contano più di 1600
centenari. La popolazione italiana è tra le più longeve del mondo e l'attesa di vita è destinata ad
aumentare ulteriormente, sia in Italia, sia nel resto d'Europa.
Ovviamente, i longevi fanno parte del gruppo più generale degli anziani, nel senso che oggi si
trovano tra gli anziani alcuni longevi di domani. Lo studio dei longevi assume pertanto
un'importanza particolare per tentare di mettere a fuoco i fattori che possono favorire un buon
invecchiamento.
Lehr, Boon Beard, Stolar descrivono il soggetto longevo come un individuo che presenta ancora un
concetto positivo di sé, accompagnato da un generale ottimismo verso la vita e un sereno
atteggiamento nei confronti di passato, presente e futuro. Tali caratteristiche sono state riassunte nel
termine: life satisfaction (soddisfazione per la vita), che si è rivelata un importante predittore della
mortalità. Esiste, infatti, una forte correlazione negativa tra il livello di soddisfazione per la propria
vita e la mortalità. Inoltre, la life satisfaction risulta in parte determinata dalla soggettiva percezione
del proprio stato di salute, crescendo con l'aumentare del benessere fisico percepito dall'individuo
(spesso molto differente dallo stato di salute effettivo), e influenza a sua volta l'atteggiamento verso
il mondo e la realtà.
Rispetto ad individui più giovani, gli ultralongevi presentano una maggiore "centratura su se stessi".
Risultano essere, da quanto emerge in questi studi, poco dogmatici, presentando un credo religioso
tollerante che si traduce in filosofia di vita, produttiva di ottimismo, rispetto per gli altri e capacità
di apprezzare ciò che si possiede. Le caratteristiche di personalità proprie anche dei soggetti longevi
consentono di escludere che esista un'unica modalità di invecchiamento comune a tutti questi
soggetti.
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Si esamina ora il ruolo giocato dall'ambiente familiare, in quanto una condizione frequente del
longevo è la solitudine, essendo probabile che questi sopravviva al coniuge, ai coetanei, agli amici e
persino a figli e nipoti. Questo dato è degno della massima attenzione, se si considera che persone
con pochi parenti disponibili a prestare sostegno materiale ed emotivo hanno un tasso di mortalità
da due a quattro volte maggiore di quello di individui della stessa età, che vivono relazioni familiari
gratificanti.
Importante è ricordare che con l'avanzare dell'età e la morte dei coetanei assumono maggiore
importanza le relazioni intergenerazionali: figli e nipoti risulterebbero essere, dai risultati ottenuti, il
principale punto di riferimento nella vita relazionale degli ultralongevi.
Oltre all'importanza di un valido supporto familiare gioca un ruolo altrettanto cruciale l'ambiente
sociale, in particolare le relazioni di amicizia extrafamiliari, in grado di fornire un valido sostegno
emotivo. I contatti sociali con amici intimi, profonde relazioni di fiducia e un'efficace e consapevole
integrazione sociale possono ritardare la mortalità in generale e quella cardiovascolare in
particolare.
Il benessere economico inciderebbe soprattutto come fattore soggettivo, oltre che come realtà
obiettiva.
In ultimo, è stata sottolineata da numerose ricerche condotte sui centenari l'importanza del lavoro. I
risultati hanno evidenziato una forte correlazione positiva tra la longevità e la capacità, nel corso del
pensionamento, di sostituire al lavoro oltre forme di attività e interessi, continuando ad ampliare le
proprie conoscenze.
La morte e l'anziano
L'anziano ha un buon rapporto con la morte. Non ha paura della morte, ma del soffrire, del dolore.
La morte è l'ultima esperienza, l'ultima possibilità per fare un resoconto della propria esistenza.
Spesso ci chiediamo: perché dobbiamo pensare alla morte? Dobbiamo pensare alla morte perché fa
parte della vita: se non si vive non si muore.
La definizione della morte immanente o trascendente nelle varie età della vita si spiega con il rifiuto
che ciascuno di noi ha di immaginarsi vecchio.
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La morte è immanente quando si invecchia o, a volte, anche quando precocemente si prende
contatto e si entra in colloquio con la morte stessa, allora la si comprende come parte della vita. Il
vecchio porta in sé, nell'ultima parte della vita, la convinzione che più vive più si avvicina alla fine
della vita e che quindi muore un po' ogni giorno. Questa è l'immanenza della morte nella vecchiaia.
La morte è una fine della vita biologica, ma chi abbia fede religiosa o una visione della vita che va
al di là della realtà del corpo capisce come la morte del soggetto non sia la fine della vita nel
mondo.
Nella vecchiaia la morte sarà più serena se la vita è stata vissuta nella sua interezza e se le varie fasi
di passaggio si sono concluse naturalmente.
L'importanza della morte è considerata come liberazione dal dolore e dalla sofferenza: l'anziano
pensa alla morte come meta da raggiungere nella pace, nell'assenza di lotta e di frustrazione di tutti i
periodi della vita. Tuttavia l'anziano che può liberarsi dal dolore, dai limiti biologici e psicologici
imposti dalla malattia e dalla vecchiaia, ama la vita e desidera sopravvivere nonostante il travaglio
biologico e psicologico.
Per sintetizzare:
-
Il sesso femminile ha nell'età avanzata più presente e costante il pensiero della morte
-
Gli anziani hanno una generale tendenza alla rassegnazione e accettano positivamente la
considerazione dell'ineluttabilità della morte.
-
Soprattutto nel sesso maschile vi è una prevalenza di soggetti che non temono la morte.
-
L'agnosticismo risulta tipicamente maschile, mentre una percentuale abbastanza elevata del
sesso femminile crede nell'aldilà.
La paura della morte è correlata con l'insoddisfazione della vita, mentre non vi è correlazione fra
serenità della vita passata e serenità nell'attesa della morte.
Depressione
- Mimica triste o poco espressiva
-
Tono di voce basso e poco modulato (monotonale)
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-
Eloquio lento
-
Trascuratezza
-
Senso di perdita di memoria
-
Ridotta attenzione e concentrazione
-
Inerzia e irritabilità
-
Rimuginazione
-
Astenia, adinamia, facile stancabilità
-
Rallentamento (o agitazione) psicomotoria
-
Ripiegamento su se stessi: chiudersi in se stessi
-
Ansia: ci può essere sindrome depressiva con ansia
-
Disturbi ipocondriaci
Il sentimento depressivo è caratterizzato da paura, angoscia di perdere qualcosa o qualcuno.
La depressione può essere suddivisa in due categorie:
Depressione mascherata
Depressione mascherante
Depressione mascherata: depressione somatizzata. L'anziano è depresso, non sa di esserlo, ma ne
porta i sintomi (soprattutto fisici). E' molto frequente. La cosa più sbagliata nei confronti di un
paziente con patologia psicosomatica è dirgli che ha problemi psicosomatici.
-
Perdita di interesse: l'anziano amava fare tanto un determinata cosa ma ora non gli interssa
più
-
Insonnia o iperinsonnia: risveglio precoce costante oppure dormire per evitare di pensare
-
Sentimenti di svalutazione: incapacità, inutilità
-
Sentimenti di colpa: atteggiamento di chiusura, difficile da superare
-
Delirio: rovina, autoaccusa, ipocondriaco
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-
Disturbi della percezione : l'illusione è il disturbo più frequente. Depressione con
allucinazione.
-
Diminuzione libido, forza vitale
-
Perdita di fiducia in se stesso o negli altri
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Perdita di speranza
-
Pessimismo
-
Pensieri di morte (propositi, minacce, atti)
Depressione mascherante: si presenta con un quadro depressivo. Sorge l'ipotesi che sia una
depressione mascherata, invece è una depressione che maschera un'altra patologia, quale l'inizio del
Morbo di Parkinson, Malattia di Alzheimer, neoplasie cerebrali.
Entrambe le forme di depressione, possono portare l'individuo a tentare il suicidio, azione
distruttiva e violenta, inflitta contro di sé, che ha come risultato la morte.
Suicidio
L'anziano è colui che più tenta il suicidio, soprattutto gli uomini.
Modalità:
-Impulsività (raptus)
-Premeditazione
Dietro ad un atto autolesionistico, c'è sempre una forte sofferenza.
La premeditazione del suicidio porta alla tranquillità (del non esserci!!), al trovare la soluzione per
vivere meglio.
Nella disperazione, che caratterizza i possibili anziani suicidari, c'è solo il presente: "Questa
situazione tra un minuto ci sarà ancora, non sparirà". Forte angoscia.
Caratteristiche del suicidio:
-
Sofferenza e dolore
-
Disperazione: mancanza di speranza
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-
Vicolo cieco: non si può andare ne avanti ne indietro
-
Incapacità alla lettura di un possibile cambiamento
-
Ripiegamento sulle proprie impostazioni: l'individuo, convinto di un suo parere, si arrocca
su ciò che afferma
-
Uscita/fuga dalla sofferenza: la disperazione diventa insopportabile
-
Più difficile continuare a vivere: molto semplice ammazzarsi. Più difficile affrontare la vita
per continuare a vivere
Il coraggio è riuscire a portare a compimento la propria vita.
L'anziano può anche mettere in pratica un tentato suicidio (gesto autolesivo che serve per
conseguire dei vantaggi. Non c'è intenzione di morire). Questo si differenzia dal mancato suicidio
(colui che vuole intenzionalmente morire ma per una serie di circostanze il suicidio non viene
portato a termine).
Nel tentato suicidio avremo un anziano con personalità immatura o isterica. La storia psicopatologica ci può dare delle indicazioni. Qualora l'individuo abbia fatto parecchi tentati suicidi,
bisogna prestare attenzione: potrebbe esserci un caso di suicidio vero e proprio.
Ci sono anche delle modalità attuative: è differente suicidarsi in un posto dove c'è un vasto pubblico
(subito soccorso: tentato suicidio) rispetto a dove non vi è nemmeno una persona.
Come nella depressione, anche nel suicidio si può parlare di
Suicidio mascherato: forma di suicidio che spesso sfugge .
-
Incidenti (soprattutto se ripetuti e gravi)
-
Negligenze nelle cure: specie se importanti e vitali. A volte si è consapevoli. Altre volte non
si è consapevoli
-
Attività pericolose
-
Disturbi psicosomatici gravi (tendenza autolesiva)
-
Fattori individuali: depressione, senso di vuoto, bassa soglia tolleranza frustrazione
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Comunicazione verbale e non-verbale
L'essere umano è soggetto relazionale. E' impossibile non comunicare. Anche colui che non
comunica ci comunica che non vuol comunicare.
La comunicazione non verbale è un messaggio completo e realistico.
L'aspetto fisico ci da delle indicazioni sulla personalità dell'individuo (abbigliamento, trucco,
pettinatura). L'anziano depresso sarà trascurato sotto tutti punti di vista.
- La mimica: è un potente mezzo di comunicazione. La persona che soffre è attenta. Ha una
sensibilità molto spiccata.
-
Tono della voce: serve per richiamare l'attenzione. Importante la modulazione della voce.
-
Vocabolario: esprime ciò che sono. Scelta dei termini, inflessione
-
Argomentazioni (temi): con queste si ha l'attenzione dell'individuo
-
Atteggiamento corporeo (gestualità): postura, modo di camminare. La corporeità è marchio
del nostro comportamento. Parole come maschera.
-
Silenzio: vero enigma per la comunicazione. Il silenzio può essere ricco di conoscenza. La
sintesi può esprimersi nel/col silenzio. Bisogna rispettare il silenzio degli altri!!!
-
Rappresentazione artistica: capacità di esprimere i propri stati d'animo attraverso il
dipingere, lo scolpire, il comporre
-
Logorrea: l'anziano parla. Basta ascoltarlo….saperlo ascoltare. L'anziano vuol far sapere la
propria storia, la sua esperienza di vita. I parenti, gli operatori, gli psicologi sono l'occasione per
parlare. Bisogna aver la pazienza dell'ascolto.
-
Comunicazione psicosomatica: l'anziano parla attraverso attraverso il suo corpo. Gli anziani
somatizzano in maggior modo la depressione (si può manifestare con stitichezza, mal di stomaco,
vertigini). Bisogna prima accertarsi se è andato dal medico, poi curarlo con l'analisi psicologica.
L'anziano italiano è restio a chiedere aiuto psicologico.
-
Comunicazione ripetitiva: ripete per essere ascoltato; ripete per credere a ciò che dice. La
ripetitività nasce dall'esigenza di essere ascoltati, presi in considerazione
-
Difficoltà per malattie organiche: afasia, disartria, difficoltà del linguaggio
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-
Comunicazione frammentata: i discorsi degli anziani possono essere considerati come
"insalata di parole"(termine psichiatrico). La persona che ascolta deve avere la capacità di
ricollegare e ricreare la logica della frase
-
Comunicazione sussurrata: comunicazione di piena, profonda importanza. C'é desiderio di
intimità
-
Comunicazione aggressiva: è la comunicazione di un bisogno. E' una difesa per paura:
angoscia del rapporto con gli altri.
Per avere un buon ascolto dell'anziano, bisogna aver orecchio sensibile, cercare di entrare in
empatia, sintonia con l'altro. Grazie all'empatia si trovano anche le parole per l'altro. L'empatia è
l'incontro tra due anime. Per costruire empatia ci vuole tempo.
La riabilitazione psicologica dell'anziano
La riabilitazione psicologica dell'anziano prende il nome, in Italia come nel resto del mondo, di
Terapia Occupazionale (T.O.).
Questa terapia si può e si deve rivolgere a persone di ogni livello sociale e culturale, di ogni
provenienza regionale, con esperienze di vita e di lavoro differenti, con molteplici interessi e
motivazioni; anzi essa si deve soprattutto rivolgere a persone senza interessi e motivazioni. Può
essere attuata negli istituti e nelle case di riposo, negli ospedali geriatrici, nelle divisioni geriatriche,
nei centri di riabilitazione, nei dispensari geriatrici, negli ospedali diurni per anziani, nei centri
sociali, nei quartieri, nelle comunità ed infine a livello individuale e domiciliare per coloro che
vivono in famiglia o in una propria abitazione.
Per semplificare il discorso è opportuno presentare schematicamente una classificazione di terapia
occupazionale. I vari tipi di TO sono classificati sulla base degli scopi terapeutici che si perseguono
. Tali scopi sono dedotti dai bisogni e dalle situazioni biologiche, psicologiche e sociali dei diversi
anziani.
Terapia occupazionale fisio-attivante
Ha il preminente scopo di facilitare la riattivazione e la riabilitazione funzionale dell'anziano al
quale spesso manca una valida motivazione al recupero in quanto non gli sembra importante
riprendere l'uso di un arto danneggiato da una vasculopatia cerebrale o da una malattia di natura
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traumatica. L'anziano si sente spesso più motivato a compiere dei movimenti che abbiano per lui
uno scopo chiaro ed inequivocabile e che lo conducano a costruire, a produrre qualcosa piuttosto
che a compiere movimenti suggeriti dal fisiocinesiterapista. Questo tipo di TO si può comunque
considerare accessoria o complementare della fisiocinesiterapia.
Terapia occupazionale psico-attivante
Questo particolare tipo di TO è forse quello di più ampio impiego in quanto i bisogni psicologici
degli anziani sono numerosissimi e sicuramente universali. La TO può essere quindi suddivisa in:
Individualizzata
Attraverso essa l'anziano riesce a soddisfare il bisogno di essere attivo che è molto diffuso nella
nostra realtà sociale in cui pochissime sono le occasioni per l'impegno. In particolare viene
sollecitato un impegno intellettuale, possibilmente di tipo creativo che consenta a ciascuno di
esprimersi con linguaggi molteplici, originali e costruttivi.
Ergoeconomica
Il bisogno economico è frequentissimo nella popolazione anziana del nostro paese e condiziona
situazioni di disagio, di inferiorità, di dipendenza, talora di umiliazione. Per quanto riguarda la TO
non debba mai riconoscere come sua preminente motivazione quella economica, questo sottotipo
tiene conto anche del bisogno di essere autosufficienti ed indipendenti; si deve comunque
sottolineare il fatto che, al di là del problema meramente economico, questa TO permette
all'anziano di percepirsi utile e di elevare quindi il proprio livello di autostima.
Medica
Spesso l'anziano sofferente per diverse malattie, tra cui le cardiopatie e le broncopneumopatie
croniche, si ritiene e viene considerato un invalido e rinuncia ogni giorno di più a qualsiasi attività
ed addirittura al movimento. Il tempo trascorre nella noia e nella immobilità che facilitano il
decadimento psico-fisico. Questo sottotipo di TO ha quindi anche riflessi igienici, profilattici e
riabilitativi di notevole importanza oltrechè implicanze psicologiche molto rilevanti.
Semplice
Si propone esclusivamente lo scopo di impegnare il tempo libero con attività assai semplici.
Soddisfa perciò l'esigenza di essere in qualche modo efficienti ed attivi e di passare il tempo in
modo divertente e piacevole.
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Terapia occupazionale socio-attivante
L'anziano è sempre più solo in una società che, dopo averlo posto ai margini, tende ad escluderlo.
Nascono sentimenti di abbandono e di inutilità e la convinzione che nessuno più sia disposto ad
intraprendere con lui un rapporto interpersonale autentico e valido. La TO di questo terzo tipo
soddisfa quindi nell'anziano l'esigenza di essere accettato, compreso e valorizzato in una qualche
misura. Perciò molte delle attività che negli altri sottotipi di TO vengono svolte individualmente
(TO psico-attivante) vengono qui svolte in gruppo. Lo specialista, oltre alle proposte di attività, ed a
funzioni didattiche, deve sollecitare la partecipazione di tutti i componenti il gruppo e controllare
che non si verifichino delle assunzioni di potere autoritaristiche da parte di uno o più anziani.
Anche in situazioni difficili e con carenza di mezzi economici sono possibili alcune centinaia di
attività diverse.
Molte attività possono essere svolte sia individualmente che in gruppo:
-
Atelier d'arte (disegno, pittura, scultura, mosaico, bulino, lavoro a china, ceramica)
-
Lavori d'artigianato (costruzione giocattoli, soprammobili, mobili in legno, cartonaggio,
lavori in paglia, giunco, lavori in stoffa, ricami vari, lavori di sartoria)
A livello individuale o di gruppo l'anziano può svolgere continuativamente o saltuariamente
qualsiasi attività o mansione di tipo impiegatizio o di tipo normale. Tali attività possono bensì
essere le stesse che ciascuno ha esercitato precedentemente durante la propria attività lavorativa, ma
possono essere anche del tutto diverse in quanto egli è in grado di apprendere nozioni e tecniche
nuove, purchè si rispettino alcuni principi generali.
In rapporto alla situazione di isolamento e agli atteggiamenti di chiusura in se stessi, tanto frequenti
negli anziani, è evidente che la TO si preoccupa soprattutto di stimolare e di proporre le attività da
svolgere in gruppo, più o meno numeroso, anche se rispetta l'eventuale desiderio di "privacy" e di
individualità.
Qualche esempio di attività di gruppo:
-
Attività di movimento: passeggiate, gite, soggiorni in località climatiche, visite a musei,
parchi. Programmate e organizzate dagli stessi anziani con l'aiuto dello specialista
-
Partecipazione a spettacoli: cinema, teatro, concerti, sport. Discussione critica guidata prima
e dopo gli spettacoli
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-
Attività di gioco vario: carte, dama, giochi da tavolo. A carattere competitivo e non
-
Attività di moto para-sportivo: bocce, cicloturismo, nuoto, canottaggio pallone
-
Attività culturali: audizione di musica classica, lirica, lettura di prosa di ogni epoca, letture
di riviste e giornali. Presentazione e discussione critica guidata
-
Organizzazione spettacoli e feste: recite teatrali, spettacoli d'arte varia, feste danzanti.
Programmate, organizzate dagli anziani in collaborazione dello specialista e con la partecipazione
artistica degli stessi anziani
-
Corsi scolastici a vari livelli: di aggiornamento, di specializzazione, università della terza
età
Per attuare una ottima TO è necessario che vi sia a monte un ottimo lavoro di equipe a cui debbono
necessariamente collaborare il geriatra, lo psicologo, l'animatore del tempo libero, l'assistente
sociale, l'operatore, il volontario….sempre con la partecipazione degli anziani!!!
La TO non esaurisce certo le possibilità assistenziali a favore dell'anziano, ma dal punto di vista
psicologico essa può assumere un ruolo di notevole rilievo, in quanto favorisce l'impegno ed il
reinserimento sociale che stanno alla base dell'adattamento umano.
Di seguito si evidenziano gli obiettivi, i fini che la TO persegue in un serio programma di
applicazione.
La Terapia Occupazionale:
1.
Rappresenta uno dei mezzi più efficaci per rallentare il deterioramento mentale
2.
Agevola i processi di socializzazione, di integrazione sociale, di rapporto interpersonale
3.
Rappresenta uno strumento per evitare la patologia da immobilizzazione
4.
Facilita ed integra i risultati ottenibili con le tecniche specialistiche di riabilitazione motoria,
respiratoria, cardiocircolatoria, del linguaggio
5.
Consente la chiarificazione dei bisogni personali e suggerisce a ciascuno una visione di
possibili scelte, pur nelle limitazioni imposte dalla istituzionalizzazione
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6.
Favorisce l'assunzione di un ruolo gratificante, riconosciuto nell'ambito dell'istituto e talora
anche fuori istituto, che permette di far superare almeno in parte le frustrazioni dell'età senile e
dell'istituzionalizzazione
7.
Rende possibile a molti la soddisfazione del bisogno di essere accettati e valutati
positivamente dagli altri componenti la comunità
Interessante è la realizzazione del programma in ogni situazione in cui la terapia occupazionale si
inserisca e integri altri programmi di riabilitazione fisica.
GLOSSARIO
Eterocronia dell'invecchiamento: degenerazione psico-fisica.
Geragogia: educazione all'invecchiamento.
Geriatria: nata nel 1954, è un ramo della gerontologia che studia i mezzi terapeutici, dietetici e
igienici atti a ritardare il processo di invecchiamento psico-fisico, o a prevenire gli eventuali
processi patologici della vecchiaia.
Gerontologia: studio dei fenomeni, anche patologici, legati alla senilità.
Senescenza: anche invecchiamento. Processo biologico-psicologico involutivo, seguente all'età
matura , caratterizzato da modificazioni strutturali e dal decadimento di varie attività e funzioni
fisiologiche.
Senilità: sin. vecchiaia. Età individuata da caratteristiche proprie, spesso con allusione a uno stato di
decadimento psico-fisico.
Vicarianza attitudini: atto nel quale il soggetto anziano è in grado di vicariale i deficit connessi al
decadimento di alcune capacità con l'utilizzazione di altre capacità e fattori. In questo modo egli
può sopperire alle sue carenze psicomotorie e/o psicosensoriali con la continuità, l'esperienza,
l'impegno, la prudenza.
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TEORIA DI BALTES – LIFE COURSE APPROACH (LIFE SPAN)
Tra le moderne teorie dello sviluppo e dell’invecchiamento il modello di Paul Baltes (1991, 1997)
ben rappresenta la nuova concezione di invecchiamento positivo e di prospettiva psicologica
dell’arco della vita – life-span - ; essa offre nuovi spunti di comprensione e di intervento per la terza
età.
La cultura positiva dell’invecchiamento proposta da Baltes nel suo modello SOC (selezione,
ottimizzazione, compensazione) muove da una premessa fondamentale vale a dire che, come sopra
ampiamente discusso, l’invecchiamento è un processo complesso e differenziato che coinvolge
diversi aspetti dell’individuo e che non può essere affrontato con una prospettiva lineare ed
omogenea; esso integra due facce della stessa medaglia: miglioramento e declino.
Secondo Baltes nelle condizioni di perdita e/o di limitazione una persona impara nuove strategie di
progresso ed acquisisce nuove capacità per far fronte alle perdite. Tale concetto appartiene anche ad
una tradizione psicoanalitica di matrice sociale ed in particolare alla Psicologia Individuale di
Adler.
Per Baltes un buon invecchiamento si fonda sul dominio affettivo e cognitivo del declino fisico
basato su un corretto esame di realtà e non su un rifiuto o sulla negazione di esso. Baltes individua
sette formule chiave che costituiscono la cultura positiva dell’invecchiamento e che sono un
insieme di osservazioni e ricerche empiriche e postulati teorici.
Le sette formule di Baltes sono:
Il corso dell’invecchiamento è eterogeneo.
Questo assunto deriva dagli studi longitudinali sull’invecchiamento che hanno mostrato come esso
si concluda sempre con la morte ma attraverso percorsi e differenze personali psicologiche e
biologiche.
L’invecchiamento normale è diverso da quello patologico.
Baltes individua delle differenze tra invecchiamento normale, patologico ed ottimale:
l’invecchiamento normale consiste nell’invecchiare senza malattie, quello ottimale nell’avere le
migliori condizioni ambientali e personali.
Nell’invecchiamento molte capacità sono di riserva e possono essere sviluppate.
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Baltes individua attraverso studi empirici due qualità che caratterizzano la terza età rispetto all’età
adulta:
Expertise professionale: il cumulo di esperienze
Saggezza: l’incremento dell’intelligenza esperienziale o pragmatica che può compensare la perdita
dell’intelligenza fluida o cognitiva (software vs. hardware); fa riferimento ai Berlin Aging Study
(1999) studi che pongono la saggezza intesa come ricchezza delle esperienze vissute al centro
dell’invecchiamento positivo.
La saggezza per Baltes sarebbe costituita da cinque fattori:
Conoscenze affettive o fattuali delle pragmatiche fondamentali della vita.
Conoscenza strategica o procedurale di esse.
Contestualizzazione di queste informazioni nella storia del proprio tempo e nei cambiamenti sociali.
Relativismo di tali conoscenze
La convinzione che non esiste una conoscenza perfetta (il “sapere di non sapere” di ispirazione
socratica).
Con l’età i meccanismi fluidi della mente evidenziano un decadimento.
Con questo postulato Baltes non nega il decadimento di alcune funzioni cognitive quali ad esempio
la memoria, ma sottolinea, però come l’anziano possa imparare a compensare tali perdite attraverso
ad esempio l’apprendimento di nuove associazioni tra stimolo e ricordo.
Conoscenza e pratica cognitive arricchiscono la mente anziana e possono compensare le perdite.
L’esperienza acquisita rappresenta una capacità compensatoria in grado di modulare le attività e le
abilità quotidiane che subiscono un decadimento nella terza età.
La bilancia tra guadagni e perdite con gli anni diventa meno positiva o decisamente negativa.
Baltes intende contrastare l’idea “ingenua” secondo cui lo sviluppo umano comporta sempre
l’acquisizione di nuove capacità e mai la perdita; in altre parole l’invecchiamento implica la
capacità di accettare le nuove condizioni spesso svantaggiose per l’individuo anziano.
Il Sé nell’invecchiamento costituisce un nucleo psichico forte e stabile, utile come sistema di coping
e di conservazione dell’integrità.
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(Per coping, si intende, l’insieme delle strategie cognitive (o mentali) e comportamentali messe in
atto una persona per fronteggiare una situazione di stress. In altre parole, si riferisce sia a ciò che un
individuo fa effettivamente per affrontare una situazione difficile, fastidiosa o dolorosa o a cui
comunque non è preparato, sia al modo in cui si adatta emotivamente a tale situazione – Bandura,
1997-).
Alcuni costrutti legati al senso di Sé quali ad esempio l’autostima, il senso di controllo personale
(locus of control), la self agency ecc. non mostrano riduzioni con l’avanzare dell’età; questo per
Baltes apre a nuovi orizzonti per l’anziano che può ricorrere a quello che Kohut, in un’ottica
psicoanalitica che origina nella Psicologia del Sé (Kohut, 1971), definisce “senso del Sé integro e
coese”, o a quello che Erikson chiama “integrità dell’Io”, per risolvere ed affrontare situazioni ed
eventi di vita stressanti.
In sintesi il modello proposto da Baltes afferma che adottando una prospettiva positiva
sull’invecchiamento questo può essere padroneggiato dall’individuo e può conferire all’anziano
nuove capacità ed abilità incrementando notevolmente la qualità della sua vita. Tale modello è
chiamato appunto SOC:
Selezione: un pianista può selezionare, riducendo, il repertorio dei pezzi che suona.
Ottimizzazione: deve esercitarsi di più.
Compensazione: deve adottare nuove strategie come il suonare più lentamente i pezzi per poter
creare il senso della velocità nonostante le sue dita abbiano perso rapidità di movimento.
Introduzione:
• È attorno ai primi anni ’70 che, in Italia, gli anziani e la loro condizione cominciano ad
essere oggetto di attenzione e di riflessione.
• I “vecchi” diventano visibili e la loro dimensione quantitativa pone il problema in tutta la sua
“durezza”.
• Questo porta alcuni studiosi (Maderna Burgalassi-Pagani) a riflettere sugli anziani e la
loro condizione, avviando ricerche attente e mirate.
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I problemi e le contraddizioni
• La paura che viene indotta dal numero sempre più crescente di persone anziane impedisce, però,
ai molti di cogliere alcune contraddizioni che, strettamente legate ai mutamenti demografici e a
quelli socioeconomici in atto, assumeranno rilevanza nel corso degli anni ‘70 per poi esplodere
negli anni ’80.
• Ci si riferisce all’allungamento della vita media e allo stesso tempo all’invivibilità della vita
allungata, all’incremento del tempo disponibile e alla non valorizzazione dello stesso, alle conquiste
medico-farmacologiche e all’abbandono sociale, all’espansione dei servizi sociali, assistenziali e
culturali e alla loro disfunzionalità e incapacità di dare risposte efficaci.
• La maggiore longevità evidenzia con puntualità contraddizioni e problemi.
• Si accusano carenze conoscitive e metodologiche; le categorie concettuali utilizzatesi mostrano
sempre più deboli per comprendere i mutamenti che sono in atto nel mondo degli anziani che, a loro
volta, appaiono sempre di più diversi tra loro.
• Si rendono necessari nuovi “concetti” e nuovi “strumenti” per potere entrare e conoscere tale
“mondo”.
Approccio multidisciplinare integrato
• La complessità della condizione anziana impone un approccio di carattere multidisciplinare
integrato che consente non la sovrapposizione di discipline diverse che rimangono distanti e non
comunicano tra di loro, ma il loro conglobamento in un metodo unitario di lavoro.
• Questo rende possibile un’analisi della condizione anziana sia nei suoi aspetti prettamente
individuali che nei suoi aspetti sociali.
• Questo è l’approccio al quale ha fatto ricorso una parte consistente della ricerca e della letteratura
sociologica, psicologica e, in anni più recenti, gerontologica
Vecchiaia, età e cicli di vita
• Ogni società è caratterizzata da una propria suddivisione della vita in età o in fasi.
• Tali società, per poter gestire il processo di invecchiamento e il ricambio generazionale,
organizza periodi e transizioni, calendari e percorsi che incidono sulla suddivisione delle età e
scandiscono i tempi sociali, per cui l’età ha un peso come principio organizzativo della società.
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• L’età è una costruzione sociale riconosciuta e condivisa che va a connotare il corso della vita e
“gestisce” collettivamente i destini individuali.
• Anche se in passato sono esistite società semplici che proponevano solo due classi di età (bambini
e adulti), la maggior parte delle società ha fissato almeno tre classi di età:
• Bambini
• Adulti
• Anziani
• Anche se, con i cambiamenti che nel tempo hanno interessato la società industriale, questa
tripartizione della vita subisce, all’interno dei suoi segmenti, modificazioni che daranno vita a
nuove “fasi” (o sotto-fasi) rendendo meno rigidi i confini e creando periodi di transizione.
• Ad esempio la prima fase è sempre più caratterizzata da “momenti” che rallentano e spostano in
avanti il passaggio alla vita adulta(es. ricerca del lavoro stabile).
• Si diversificano anche l’età adulta e la vecchiaia.
• Per ciò che riguarda la vecchiaia, si parla di “vecchi-giovani” (old-young) e di “vecchivecchi”(old-old), di terza, quarta e magari anche di quinta età.
Terza e quarta età
• La terza età è un’età caratterizzata da buone condizioni di salute, inserimento sociale, disponibilità
di risorse diverse e realizzazione personale.
• La quarta età è caratterizzata dalla dipendenza e dal decadimento fisico.
• Età incerte, carenti di status sociale, si contrappongono ad età che in passato erano rigidamente
definite.
• Il ciclo di vita, fortemente imposto dalla società e trasformato da individui e gruppi nel loro
percorso esistenziale, assume sempre di più l’andamento di una linea spezzettata.
Il significato di invecchiamento
• L’invecchiamento non è solo un processo attraverso il quale ci si modifica in funzione del tempo
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• “Riferito all’uomo indica il complesso delle modificazioni cui l’individuo va incontro, nelle sue
strutture e nelle sue funzioni, in relazione al progredire dell’età”.
Un doppio significato..
• L’invecchiamento come maturazione o accrescimento è visto come un processo attraverso il quale
l’individuo aumenta quantitativamente le sue funzioni e strutture e le differenzia qualitativamente.
• L’invecchiamento come senescenza è il processo attraverso cui l’individuo diminuisce
quantitativamente le proprie strutture e perde progressivamente le proprie funzioni.
• Questi due processi fanno parte del processo di sviluppo che inizia dal momento in cui comincia a
formarsi un essere vivente, fino al momento della sua morte.
• Nel processo di senescenza tendono a decadere le funzioni scarsamente esercitate, mentre
permangono e migliorano quelle maggiormente utilizzate.
• L’invecchiamento umano comunque, seppur generalizzato a tutti gli individui, si svolge con
modalità, ritmi e conseguenze, variabili da individuo a individuo.
Un fenomeno complesso..
• L’invecchiamento è un fenomeno complesso che non può essere affidato alla sola età cronologica,
si devono chiamare in causa le altre “età”: l’età psicologica, l’età sociale, l’età biologica, ed essere
intese come un insieme compatto.
L’età biologica
• Secondo Cesa-Bianchi (1987), l’età biologica di una persona è la sua posizione attuale nei riguardi
della sua potenziale durata di vita: si avvicina notevolmente all’età cronologica, ma non si identifica
con essa.
L’età psicologica
• L’età psicologica si riferisce alle capacità adattative di una persona che risultano dal suo
comportamento, ma può anche riferirsi alle relazioni soggettive o all’autoconsapevolezza: è
collegata sia all’età cronologica che a quella biologica, ma non è pienamente desumibile dalla loro
combinazione.
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L’età sociale
• L’età sociale si riferisce alle abitudini e ai ruoli sociali della persona in funzione delle aspettative
del suo gruppo e della società: è collegata, ma non completamente definita, all’età cronologica,
biologica e psicologica.
I fattori alla base dell’invecchiamento
• Fattore genetico (definisce il ritmo, le fasi, la durata del processo di invecchiamento);
• Fattore educativo-culturale (influenza significativamente il processo di senescenza, sia pure in
modo diverso a seconda della popolazione di appartenenza. Un buon livello educativo e
un’adeguata situazione culturale sembrano agire positivamente sull’invecchiamento, mentre una
situazione opposta è, spesso, chiamata in causa quale condizione favorente un rapido decadimento
delle funzioni della persona).
• Fattore economico (molte ricerche, fra le quali quelle di J. Birren, documentano una vera e propria
dicotomia nel modo di svolgersi dell’invecchiamento fra gli appartenenti alle classi socioeconomiche più fortunate e quelli appartenenti alle classi più svantaggiate, per questi ultimi la
senescenza si attua molto più frequentemente con modalità esclusivamente negative).
• Fattore sanitario (opera in stretta interdipendenza con il fattore economico.
L’insorgenza di patologie, specie se di carattere cronico e progressivo, influenzano negativamente il
processo di invecchiamento fino a farlo precipitare. Tale influenza negativa diventa più incisiva se
si realizza in un quadro di inadeguate risorse economiche).
• Fattore personalità (bisogna prendere atto della diversità che la senescenza assume negli individui
chiusi e in quelli aperti, negli attivi e nei disimpegnati, nei tenaci e nei labili e così via. A differenti
tipologie caratteriologiche corrispondono diverse modalità di invecchiare. In ogni caso la
personalità è in stretta connessione con l’ambiente, e le modalità adattative della persona dipendono
da questa interdipendenza).
• Fattore famiglia (l’invecchiamento varia notevolmente se un individuo vive solo, in coppia, o in
un gruppo più numeroso. L’influenza di tale fattore si differenzia anche in rapporto al carattere
dell’individuo che invecchia, alle sue condizioni culturali ed economiche, al gruppo di
appartenenza, ecc..).
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• Fattore ambiente (ormai è un dato di fatto che l’invecchiamento è espressione di un’interazione fra
l’individuo e il suo ambiente, interazione nella quale l’individuo modifica continuamente
l’ambiente e l’ambiente modifica continuamente l’individuo).
Invecchiamento e patologia
• Esiste una relazione fra patologia ed età, nel senso che molte malattie prediligono determinate
fasce di età.
• Per quanto riguarda l’età senile è possibile riconoscere che alcune patologie si riscontrano più
frequentemente rispetto ad altre.
• Gli antichi dicevano “senectus ipsa morbus”.
• L’affermazione sosteneva che la vecchiaia comportasse di per sé la patologia; che questa fosse un
evento ineliminabile e irreversibile col passare degli anni.
• Le concezioni e i dati più recenti respingono questo modo di intendere il rapporto tra patologia ed
età.
• Considerano la patologia riferibile ad uno o più fattori estrinseci e le modificazioni connesse
all’età solamente come fattori predisponenti o scatenanti.
• È ancora da sottolineare come nella genesi della patologia nell’anziano è spesso riconoscibile una
causa di carattere sociale, come la perdita del partner, lo sradicamento dalla famiglia, e
l’istituzionalizzazione.
Malattie organiche e malattie psichiche
• La comparsa di malattie organiche e/o psichiche nell’età senile ripropone il problema delle
relazioni esistenti fra queste due forme di malattia.
• È noto che esistono malattie puramente organiche, ma in queste forme morbo se non è possibile
escludere l’interferenza dico-fattori di carattere psicologico.
• Né si può escludere il ruolo svolto dai fattori psicologici nel valorizzare una terapia o nell’influire
sul decorso della malattia stessa.
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Le malattie organiche
• Quelle più frequentemente riscontrate sono le cerebropatie vascolari o degenerative.
• Queste forme possono alterare anche le capacità intellettive e le funzioni sensomotorie.
Le malattie psichiatriche
• Fra queste manifestazioni patologiche ritroviamo l’ansia e la depressione, che possono condurre
anche al suicidio.
• Il numero delle persone anziane che si suicidano è nettamente superiore a quello dei giovani e
degli adulti.
• La solitudine e l’emarginazione possono tradursi in gravi disadattamenti da ricovero psichiatrico.
Tendenze attuali.
• Restituire l’anziano al suo ambiente di origine;
• Permettergli di conservare i legami con il suo ambiente;
• Ritardare l’istituzionalizzazione.
Il vissuto della malattia
• L’anziano si sente più esposto alla malattia e quindi è meno sicuro di sé e delle proprie capacità di
assolvere ai ruoli sociali e familiari.
• La sofferenza e il dolore dell’anziano sono la diretta conseguenza della malattia.
• Gli anziani temono meno la morte rispetto alla malattia, perché la prima porrebbe fine alle
sofferenze, mentre la seconda le aumenterebbe.
1. Essere malato significa per l’anziano essere di peso alla propria famiglia
• Ma la vera giustificazione psicologica potrebbe essere quella che non si sente più in grado di
ricoprire il ruolo sociale e familiare che gli era proprio; oppure sente che gli altri non lo reputano
all’altezza.
2. La malattia induce nell’anziano un certo grado di depressione
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• Lo porta a sentirsi debilitato, creando in lui insoddisfazione e timori.
• Può essere ricondotta al disadattamento.
3. L’anziano vede la malattia come diretta conseguenza dell’età
• Spesso sono le manifestazioni patologiche che inducono la persona anziana a rendersi conto per la
prima volta di essere invecchiata.
4. L’essere ammalato ed il sentirsi inutile non vengono soggettivamente distinti
• La malattia rende meno capaci = l’anziano si sente inutile.
• Sentendosi inutile l’anziano avverte di non essere più capace di usufruire di quei compensi che
derivano dal suo lavoro.
• Vissuto depressivo
• La malattia della persona anziana è collegata strettamente all’età e rappresenta, se non la causa
scatenante, almeno una causa predisponente al verificarsi delle modificazioni psichiche di cui
abbiamo accennato prima.
Non aver paura dell'età che avanza
Confortami nelle difficoltà, dammi la serenità contro l'inevitabile, allunga la brevità del mio tempo,
insegnandomi che il bene della vita non consiste nella sua durata ma nell'uso che se ne fa e può
avvenire, anzi molto spesso avviene, che proprio chi è vissuto a lungo sia vissuto poco (Seneca).
Se a volte ci si rammenta della frase che vuole caro al cielo colui che muore in giovine età,
altrettanto frequente è la consuetudine che spinge ad associare alla giovinezza la salute ed alla
vecchiaia i malanni.
Tanto più che la società occidentale , centrata sul giovane e dominata da un costume culturale che
assume come valori assoluti giovinezza e produttività, auspica di non invecchiare, anzi, di sembrare
(possibilmente sempre) più giovani di quello che si è (Zoja 1983) .
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L'idea di invecchiare diventa, dunque, quasi un anatema
Lo confermano le parole della famosa invocazione di Dorian Gray "Youth! Youth! There is
absolutely nothing in the world but youth" (Wilde 1891) nella quale si appalesa il fine di scindere
dal proprio sé che sta invecchiando quella rappresentazione che paura ed odio procurano (Garner
1998).
Il futuro di colui che comincia a pensarsi vecchio si profila con una prospettiva cupa, quasi
necessita della sapiente regia di un mentore saggio che agevoli la possibilità di attribuire ancora
significato alla propria esistenza quando la vita sta volgendo al termine.
Se nella percezione del proprio invecchiamento l'essere umano conquista progressivamente la
consapevolezza della temporalità della propria vita, il percepirsi vivi è diverso dal sentire di esistere
nella scansione dei propri giorni.
Il termine vita rimanda, almeno in prima istanza, a ciò che "è caratterizzato da processi biochimici
di natura metabolica che, utilizzando ed immagazzinando energia esterna, permettono la
costruzione, il mantenimento e talvolta la demolizione della sua struttura fisica, oltre che il suo
comportamento"(Boniolo 2006).
L'esistenza, invece, possiede valore "perché comporta che vi sia un soggetto" che, ricorrendo a
proprie "credenze filosofiche, religiose e ideologiche ",anche "storicamente contestualizzate", possa
donare senso, conferire cioè " un valore speciale a quel particolare tipo di vita, a quel particolare
periodo ed a quella particolare popolazione di viventi" (Boniolo 2006).
Se l'allungamento della durata media dell'arco di vita è un dato ormai assolutamente
incontrovertibile, la popolazione degli anziani (sempre più numerosa) impegna a tutto campo sul
versante sociosanitario.
Garner(1998) mette in evidenza come ,per una sorta di senso di colpa , usualmente venga data alta
priorità ai bisogni fisici del vecchio e minima considerazione a quelli psicologici .
Negando (o rimuovendo la possibilità di provare) emozioni si allontana la rappresentazione del
dolore che l'essere umano può provare davanti al proprio invecchiamento ed alla propria morte, si
accentra l'attenzione nella cura della malattia , si evita di entrare troppo in contatto col vissuto della
persona anziana.
Eppure l'essere umano ha bisogno di provare senso di vicinanza, di protezione e di sicurezza:
ognuno di noi è guidato dal desiderio di entrare in relazione con gli altri.
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Il senso dell'esistere come persona è strettamente legato alla possibilità di comunicare con gli altri
(Storr 1960), e tutto ciò vale ancora di più quando siamo vecchi.
Soprattutto perché negli anni della tarda maturità e della vecchiaia l'individuo tende
progressivamente a sminuire quei tratti della personalità sui quali hanno pesato precedenti ruoli,
aspettative note, usuali e consolidate interazioni sociali.
L'anziano sposta inesorabilmente la propria attenzione dal mondo esterno a quello interno,
manifestando la convinzione che la propria per così dire condizione ideale coincida desolatamente
con la rinuncia ad una serie di aspirazioni e traguardi, tipici e salienti di altre fasi della vita
trascorsa(Cumming, Henry 1961).
A differenza del bambino e del giovane non ha tutta la vita davanti, quella specie di schermo sul
quale potersi permettere di proiettare sue identificazioni: se l'identificazione richiede una rinuncia
attuale per una soddisfazione che si pregusta futura o potenzialmente futuribile, nel vecchio questa
possibilità risulta progressivamente risicata.
Non resta che aggrapparsi al presente o volgere lo sguardo al passato.
E' questo il motivo per cui sempre più frequentemente una diagnosi secca sembra davvero risultare
un non senso perché potrebbe disarticolare la visione unitaria della persona, "con la sua storia, il suo
bagaglio culturale, il suo assetto relazionale, le sue convinzioni morali ed ideologiche", rendendo
spesso arduo il discrimine "fra patologia dell'invecchiamento, patologia nell'invecchiamento ed
invecchiamento stesso"(Cesa-Bianchi 1996).
Aleggia, al di là della condizione di malattia, una diffusa, spesso profonda, sensazione di malessere,
la percezione di sogni irrealizzati, un vissuto di sconforto e delusione.
Con difficoltà si mantengono e coltivano legami e relazioni, amplificando l'angustia per una
marginalità generata dall'imbarazzo di sentirsi troppo vecchi.
Inquieti, con ridotto grado di autonomia, proprietari di una fragilità poco condivisibile, quasi ci si
sentisse ad un tratto assediati da bisogni di complessa ed al tempo stesso troppo banale decodifica,
si oscilla tra un vissuto di rassegnazione, se pur sofferta, ed una disanima troppo disincantata della
quotidianità, pungolo (ma scomoda testimonianza) dell'inevitabile involuzione fisiologica.
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Ci si ancora e conforta nella speranza di poter possedere ancora un'esistenza desiderabile, per
contrastare la paura che si annida nel proprio mattino .
Al tempo stesso si teme la paura di doversi riconoscere in un corpo biologico depauperato del senso
dell'esistere.
E' il territorio della paura, della paura dell'età che avanza, territorio spesso estraneo alla
malattia(Cesa-Bianchi 1996).
Eppure esistono eccellenti immagini e testimonianze di eccellenti vecchi, tanto da poter affermare
che invecchiamento e creatività non siano affatto estranei l'uno all'altra (Garner 2002).
Pablo Picasso(1881-1973) possedette vigore ed inesauribile talento fino agli ultimi giorni della sua
esistenza.
Henri Matisse(1869-1954) superò negli ultimi anni le limitazioni dovute all'età ed alla malattia con
la creazione dei gouaches decoupees.
Giuseppe Verdi(1813-1901) scrisse il Falstaff, potente evocazione della vecchiaia, alla non
verdissima età di 79 anni.
Compito di colui che invecchia è dunque mantenere un senso di integrità e di coesione del sé ,
nonostante le ricorrenti rappresentazioni negative della vecchiaia.
Così il "diventare vecchi" ci permette di includere anche aspetti positivi di questa fase
dell'esistenza, per quanto la crescita personale, alla quale chi invecchia non può dirsi estraneo, non
rappresenta di per sé e necessariamente un percorso lineare.
Separazioni e perdite costituiscono aspetti inevitabili nella nostra esperienza del vivere, financo
necessari per conquistare più compiuta consapevolezza del nostro essere adulti.
La maturità è insieme "una conquista e una rinuncia, la perdita di un'incertezza, di un'illusione, di
uno slancio, di un vagabondaggio, di un dubbio: mentre lo sguardo apprende a vedere, l'intelligenza
a cogliere il nucleo delle cose, il cuore a sopportare le cose tollerabili e intollerabili"(Citati1998).
E l'elaborazione del dolore può davvero avvicinarci ad aspetti più profondi nella relazione con noi
stessi e col mondo, per aver cuore, partecipi e compenetrati della pienezza del significato del nostro
tempo di vita.
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ASPETTI PSICOLOGICI DELL’INVECCHIAMENTO E DELLA DISABILITA’
Depressione e invecchiamento
Con il termine “invecchiamento” si fa riferimento all’ultima parte del ciclo vitale che va dalla
maturità alla morte e che è caratterizzato da riduzione, indebolimento e regressione delle strutture
organiche e delle relative funzioni. Stereotipi, preconcetti e generalizzazioni hanno disegnato un
quadro psicologico dell’anziano caratterizzato da difetti di memoria, difficoltà nell’apprendimento,
rallentamento delle performance mentali, fragilità emotiva, egoismo, avarizia, ripetitività, caduta
degli interessi, perdita di creatività e progettualità, rigidità, cocciutaggine, permalosità, culto delle
memorie. Bisogna comunque sottolineare che ogni generalizzazione è erronea e che una strategia
opportuna per la comprensione del problema è quella di distinguere gli aspetti più propriamente
cognitivi, quali memoria, attenzione, capacità di apprendimento, da quelli psicologici, quali gli
aspetti emotivi, affettivi e volitivi. Tali aspetti sono tra loro collegati, ma si possono comunemente
osservare sfasature nel loro manifestarsi: tutti conosciamo anziani con memoria ancora perfetta e
nessun segno di deterioramento cognitivo, ma spenti psicologicamente, vuoti, ripiegati in un
vegetare, e viceversa persone che non ricordano più i nomi propri, che sono rallentate
nell’apprendere cose nuove, ma ancora capaci di slanci affettivi, di emozioni, di curiosità e di
creatività.
La componente cognitiva dell’invecchiamento è conseguente all’involuzione della struttura del
Sistema Nervoso Centrale e alla riduzione progressiva del numero di cellule nervose e delle loro
connessioni. La componente “psicologica” è invece quella correlata alla personalità, alla storia
individuale, allo stile di vita, alle interazioni ambientali, agli eventi e all’assetto del tono
dell’umore.
Aspetti cognitivi
Il più classico, conosciuto, lamentato disturbo cognitivo dell’invecchiamento è quello a carico della
memoria. La compromissione della memoria è in genere ben percepita dal soggetto. All’inizio il
difetto non è notato da familiari e amici ma, quando si accentua, risulta evidente anche agli altri.
Due sono le teorie principali sui disturbi della memoria nella vecchiaia: una è quella classica di
Ribot, secondo la quale la perdita dei ricordi avverrebbe sistematicamente dai più recenti ai più
antichi. Associazione per la Ricerca sulla Depressione. La concezione moderna, invece, tende a
valutare l’importanza dell’intera personalità e tiene conto dei molteplici fattori psicologici che
possono più o meno direttamente causare tali disturbi, facilitarne la comparsa e modellarne alcuni
aspetti caratteristici. Accanto ai disturbi della memoria è presente, nell’invecchiamento, il
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rallentamento dei processi cognitivi quali l’attenzione e la capacità di apprendimento, soprattutto in
funzione della velocità.
Aspetti psicologici
Frequentemente nella vecchiaia si accentuano le caratteristiche della personalità e alcuni elementi
positivi possono assumere carattere negativo: ad esempio la prudenza può trasformarsi in avarizia e
diffidenza, l’attenzione alla propria salute in ipocondria. Per contro si moderano alcuni tratti
caratterologici dell’età più giovane, quali l’impulsività, il rigore verso gli altri, l’aggressività.
L’esperienza, l’abitudine alle frustrazioni e un certo distacco dalle passioni contribuiscono ad un
atteggiamento più paziente, un umore più stabile, una certa indipendenza dalle convenzioni e dai
compromessi.
Un
aspetto
abbastanza
caratteristico
della
vecchiaia
è
l’indecisione,
l’indeterminazione, l’insicurezza. La vecchiaia è l’età dei dubbi, dei forse: la paura di sbagliare è
grande, non solo per l’esperienza degli errori accumulati negli anni, ma anche perché, in caso di
errore, non c’è più tempo per ricominciare. Il soggetto che invecchia elabora una disistima di sé
alimentata da varie componenti, peculiari secondo la personalità: per alcuni sarà la decadenza fisica,
per altri l’insicurezza, per altri ancora la compromessa immagine. I rapporti col passato sono
fondamentali per comprendere l’assetto psicologico dell’anziano. Il passato è ad un tempo la sua
ricchezza e la sua dannazione: ricchezza perché gli dà i vantaggi dell’esperienza e la possibilità di
rifugio ideativo, dannazione perché i ricordi, i rimorsi, i rimpianti, possono soffocarlo.
Nella vecchiaia è frequente la deformazione ottimistica degli eventi passati che si connotano di
sentimenti piacevoli: quelli della prova superata, del traguardo raggiunto, dello scampato pericolo,
della dimostrata capacità di sopportare le avversità. Si formano così accoppiamenti che
costituiscono stereotipi culturali: passato = bene, presente = male, gioventù = felicità, vecchiaia
=dolore. A volte il passato è vissuto con prevalenti sentimenti di rimpianto riferite ad occasioni
perdute, scelte errate, obiettivi mancati, iniziative che si dovevano intraprendere, decisioni che
invece dovevano essere scartate. In molti casi il rimpianto non ha un contenuto preciso, ma assume i
connotati della nostalgia, con la caratteristica miscela di malinconia e dolcezza, di aspetti positivi e
negativi. Strettamente connessi al concetto di futuro sono quelli di speranza e progetto. La speranza
tende ad assumere lineamenti vaghi e incerti oppure è riferita al breve termine e si basa sul
soddisfacimento dei bisogni primari della vita: mantenere valido il proprio corpo, nutrirsi, accudire
la propria persona e le proprie cose. Per quanto riguarda, invece, la progettazione, nell’anziano il
deficit cognitivo non solo ne riduce la possibilità di realizzazione, ma ne compromette anche la
proiezione nel futuro. La mancanza di progetti comporta noia e isolamento che si ripercuotono
negativamente sull’efficienza mentale e sul tono dell’umore. Un altro aspetto abitualmente descritto
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come tipico dell’invecchiamento è l’egocentrismo. L’energia non più impiegata nei rapporti con
l’ambiente esterno è prevalentemente investita nel proprio corpo, che acquista la priorità di cui
godeva nell’infanzia: ne consegue l’accentuazione di tutte le manifestazioni di somatizzazione
l’aumento dell’attenzione per le proprie funzioni corporee. Si scrive molto, in tema di psicologia
della vecchiaia, sul problema dell’adattamento e del disadattamento. Adattarsi significa trovare i
modi più opportuni alla sopravvivenza e il successo della specie umana è dovuto proprio a tale
capacità. La personalità è il fattore più importante nel condizionare il grado di adattamento nella
vecchiaia. L’individuo che ha manifestato problemi psicologici nel corso della vita, li manterrà
anche da anziano: soggetti con caratteristiche psicologiche di rigidità, autoritarismo, egocentrismo o
al contrario persone con stati d’insicurezza, labilità, eccessiva passività, possono avere ugualmente
notevoli difficoltà a adattarsi alla situazione esistenziale della vecchiaia. Lo stretto collegamento tra
l’adattamento e i fattori di personalità conferma l’importanza della preparazione e educazione
all’invecchiamento. Le modalità di adattamento sono certamente diverse da persona a persona,
anche perché diverse sono le ripercussioni dell’invecchiamento. È stato osservato, ad esempio, che
nelle donne il disadattamento è spesso soggettivo, cioè più percepito soggettivamente che reale,
mentre negli uomini avviene il contrario: in alcuni è importante la ricerca di un’occupazione
alternativa dopo il pensionamento, in altri il compenso avviene con meccanismi sostitutivi, come ad
esempio il passaggio da un’attività manuale ad un’attività mentale o viceversa.
Fattori dell’invecchiamento mentale
Alcuni aspetti dell’invecchiamento sono espressione del deterioramento delle strutture cerebrali,
altri sono secondari a fattori esistenziali di vario genere (culturali, sociali, familiari, individuali),
altri ancora possono esser letti come modalità di difesa e tentativi di adattamento ai precedenti. Tra i
fattori cerebrali dell’invecchiamento la perdita neuronale, la riduzione delle connessioni
interneuroniche e le modificazioni dei neuromediatori hanno una diretta ripercussione sull’assetto
cognitivo. I concetti di ridondanza e di plasticità neuronale hanno archiviato le semplicistiche teorie
sul deterioramento conseguente allo spopolamento dei neuroni. La visione attuale è certamente
molto più dinamica e complessa: si riconosce il fatto genetico come timer che programma la durata
in vita di un neurone, ma si considera anche l’importanza di una serie di fattori acquisiti (vascolari,
tossici, dismetabolici) e soprattutto l’intervento determinante della stimolazione. D’altra parte è
ormai certo che esiste una stretta correlazione tra deficit cognitivi e fattori psicologici, quali
l’abbassamento del tono dell’umore e il restringimento delle relazioni interpersonali. Anche i fattori
somatici hanno una ripercussione sull’invecchiamento mentale, tanto negli aspetti cognitivi quanto
in quelli psicologici. Ad esempio il ruolo dell’indebolimento degli organi sensoriali, così frequente
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nella terza età, è rilevante nel contribuire all’invecchiamento mentale tramite il deficit di
stimolazione. I deficit della funzione visiva hanno indubbie ripercussioni dirette sulla vita psichica:
si pensi agli anziani che non possono più leggere il giornale o guardare la televisione. Ancor più
importanti sono i difetti uditivi, sia per la loro frequenza sia per le conseguenze psicologiche:
producono imbarazzo, vergogna, frustrazioni, ma anche sospettosità, ostilità ed impazienza da parte
degli altri. Anche i difetti motori, così frequenti per molte patologie negli anziani, diminuiscono
l’autonomia del soggetto, la sua disponibilità esplorativa, la sua probabilità di rapporti
interpersonali e di situazioni nuove. Infine vanno considerati i problemi somatici, vissuti dai
soggetti come umilianti e vergognosi, e gli handicap estetici, desocializzanti perché inducono al
ritiro o perché possono obiettivamente ridurre il gradimento da parte degli altri. I rapporti
interpersonali, inoltre, possono essere difficili anche perché l’anziano tende a trascurare la pulizia
personale, l’aspetto esteriore, l’abbigliamento, a causa di una diminuita motivazione alla ricerca di
un’immagine personale attraente o di un deficit motorio e sensoriale, come ad esempio il non veder
bene le macchie del vestito o il non avvertire il cattivo odore del proprio corpo o la rinuncia al
bagno per paura di scivolare o alle abluzioni per paura di prender freddo. L’esame dei fattori che
possono causare deficit di stimolazione direttamente o tramite l’isolamento è importante non solo
per una più corretta interpretazione delle modalità d’invecchiamento mentale, ma anche nella
routine quotidiana, per un’opera di prevenzione e per una loro puntuale correzione. E’ certo che i
fattori di personalità svolgono un ruolo rilevante nel condizionare le modalità d’invecchiamento
mentale. Sul piano clinico si può ipotizzare che soggetti con componenti nevrotiche di tipo astenico
e depressivo più facilmente, nella vecchiaia, saranno predisposti ad una progressiva chiusura in se
stessi, ad un impoverimento esistenziale e quindi anche ad un maggiore decadimento intellettivo.
Anche la scala personale dei valori ha una grande influenza sul modo di invecchiare e lo condiziona
positivamente o negativamente. Alcuni di tali valori, quali la forza fisica, la bellezza, sono come un
timer destinato a far esplodere un dramma esistenziale ad una data epoca della vita. Altri invece,
quali il dovere, la religione, la cultura, possono diventare preziosi ausili per un invecchiamento
equilibrato e sereno. I fattori legati agli eventi che possono colpire la persona che invecchia sono
diversi: tra i più costantemente presenti quelli riassumibili nel concetto di perdita, tanto che la tarda
età è stata chiamata la stagione delle perdite. Si perde in campo biologico: la forza, la resistenza, la
rapidità, la motilità, l’acutezza sensoriale; si perde la salute, con disturbi e malattie; si perde in
campo affettivo: muoiono persone-chiave della vita, come il coniuge, i fratelli, gli amici; si perdono
i figli che acquisiscono una loro autonomia e che si allontanano materialmente e affettivamente
dalla nostra vita; si può perdere il lavoro, l’impiego, la capacità produttiva, la sicurezza economica e
quindi il ruolo, il prestigio, il rango, si perde anche, più o meno tardi, l’indipendenza, l’autonomia.
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Altri importanti fattori che intervengono a condizionare l’assetto psicologico della persona che
invecchia sono quelli legati alla situazione esistenziale ed ambientale. Tra le modificazioni
esistenziali più rilevanti che caratterizzano la vecchiaia va certamente segnalata la gran quantità di
tempo libero a disposizione. Non vi sono altre epoche della vita umana, se non i primi cinque anni,
nelle quali la persona possa avere la totale disponibilità del proprio tempo. Il tempo libero può esser
goduto o sofferto, utilizzato bene o sprecato, sicuramente può condizionare la qualità di vita
dell’anziano ed anche determinare situazioni patologiche. Le ripercussioni del nuovo assetto
esistenziale proprio dell’età avanzata sono diverse nell’uomo e nella donna: la tendenza più spiccata
ai legami affettivi, al maternage, all’interiorità, costituiscono elementi favorevoli nell’affrontare la
condizione della senilità e l’invecchiamento per la donna è in linea generale più sereno che per
l’uomo. Notevoli differenze di assetto psicologico si osservano anche tra anziani che vivono in
ambienti e culture diversi: l’anziano che vive in campagna con i propri familiari e riesce a svolgere
piccoli lavori manuali simili a quelli svolti nell’età matura è certamente favorito rispetto a quello
che invece vive in città, dove il tipo di organizzazione del lavoro rende più netta la divisione tra
cittadini produttivi e non produttivi. L’ambiente familiare è tra i fattori più importanti nel
condizionare l’assetto psicologico dell’anziano. Le possibilità di conflitti, frustrazioni, dissapori
sono continue: le differenze d’età portano a concezioni diverse della vita e dei suoi valori, della
moralità, della religione. Si può arrivare a veri scontri generazionali con dinamiche di competizione
e risentimento. Può capitare che il genitore anziano diventi il capro espiatorio delle tensioni
coniugali, il pretesto per malumori di altra natura. Non è infrequente che si attuino meccanismi
d’emarginazione o d’esclusione, motivati dai difetti del carattere, dalla trascuratezza, dagli stessi
handicap fisici, dall’immagine non gradevole. In altri casi, invece, la famiglia ha un effetto positivo
sulle modalità dell’invecchiamento: infatti, è il contesto dove si può mantenere e sviluppare il
mondo degli affetti e dove l’essere-con-gli-altri può assumere una dimensione di massima ricchezza
esistenziale. L’affetto più contenuto e meno possessivo verso i figli, l’amore verso i nipoti, la
partecipazione come elemento equilibratore alle vicende familiari, il sentirsi quasi depositario della
continuità temporale della famiglia e il percepire sentimenti di amore e di protezione costituiscono
elementi positivi per poter vivere la vecchiaia in buon equilibrio. Tra i fattori che influiscono
sull’assetto psicologico dell’invecchiamento contano molto quelli socio-culturali. Certamente se la
società considera la vecchiaia un disvalore, in quanto non produttiva, la ripercussione sull’uomo che
invecchia è grave. In effetti l’equilibrio psicologico dell’anziano è spesso messo in difficoltà
dall’ambivalenza dell’ambiente che da un lato gli richiede aspetto giovanile, prestanza, autonomia,
ma dall’altro critica impietosamente ogni atteggiamento che non corrisponda allo stereotipo
culturale della vecchiaia. In generale possiamo dire che la condizione umana dell’anziano suscita
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sentimenti e pensieri ambivalenti: da una parte è vissuta come una sorta di malattia e dall’altra come
età della saggezza, del superamento delle passioni, della soluzione dei conflitti istintuali. La
prevalenza di aspetti negativi comporta la comparsa di sentimenti d’esclusione che portano a
depressione, sospettosità, inattività, che certamente peggiorano le prestazioni e l’immagine del
vecchio, che può anche divenire inopportuno ed aggressivo, in uno scomposto tentativo di difesa.
Le continue ferite narcisistiche portano l’anziano ad una tendenza centripeta, a preoccuparsi di sé,
quindi ad un egocentrismo, con prevalenza di pensieri ed atti finalizzati alla conservazione. La
malattia può acquistare anche la funzione di controllo, di potere sull’ambiente nei casi in cui
all’anziano non rimane che essere malato per riacquistare un ruolo e potere sugli altri: in tali casi i
sintomi possono essere interpretati come segnali, messaggi, invocazioni di soccorso ai familiari.
Psicopatologia dell’invecchiamento
I confini tra psicologia e psicopatologia dell’invecchiamento non sono netti, ma costituiti da
situazioni che si scompensano e si compensano ripetutamente. Pur senza assimilare vecchiaia a
malattia, è indubbio che l’anziano soffre di una situazione di disagio per i molti fattori che sono stati
ricordati, tra i quali certamente primeggiano le “perdite”. Tuttavia l’invecchiamento è caratterizzato
anche dalla necessità di “cambiamenti”, cioè di una riorganizzazione dell’identità personale. La
vecchiaia, come età di adattamenti e modificazioni, è simile all’adolescenza: sono entrambe i
periodi della vita più critici perché, in quanto momenti di cambiamento, si verificano metamorfosi
psicologiche predisponenti a veri e propri sintomi psicopatologici. Il quadro clinico più importante e
caratteristico, anche se non esclusivo, è quello dell’involuzione cognitiva e della demenza. La
peculiarità della psicopatologia senile consiste nell’importanza dei fattori di personalità, intesi come
biografia personale e individuale risposta di adattamento agli eventi della vita. L’invecchiamento è
il momento degli scompensi, in cui si rivelano gli assetti patologici della personalità: ad esempio un
disturbo narcisistico, fino ad allora in qualche modo mimetizzato, può esplodere proprio in
vecchiaia. I quadri dei disturbi mentali sono, nella vecchiaia, intrisi di contenuti personologici e
questo spiega l’estrema variabilità dei contenuti della sintomatologia, modellati dalla struttura della
personalità individuale. E’ anche vero che la loro psicopatologia si presenta spesso con quadri
minori, nascosti, integrati nell’assetto esistenziale senile tanto da essere facilmente trascurati,
sottostimati, interpretati non come condizione patologica, ma come modalità dell’essere anziani. Il
problema più importante, nell’ambito della psicopatologia è sicuramente quello della depressione,
favorita sia dall’ipofunzione e fragilità dei sistemi noradrenergici e serotoninergici, sia dalla
presenza di malattie fisiche che possono favorire depressioni secondarie, sia dalle “perdite” di cui si
è prima accennato. Si può quindi ritenere “normale” la presenza di elementi depressivi nella
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vecchiaia: si accumulano vissuti di frustrazione e di esclusione che comportano risposte di
abbattimento, d’inibizione, d’evitamento. La depressione nel vecchio è tuttavia sottostimata perché i
suoi sintomi sono scambiati per normale assetto psicologico dell’età avanzata, oppure per patologia
somatica o anche per involuzione demenziale. Nell’anziano sono frequenti le depressioni
mascherate, cioè nascoste da sintomi somatici, e le pseudodemenze, cioè disturbi depressivi che si
esprimono attraverso deficit cognitivi tali da simulare sindromi demenziali. E’ molto frequente
inoltre la confusione tra invecchiamento psicologico e depressione. Le caratteristiche più
costantemente descritte per l’invecchiamento psicologico sono, infatti, la perdita della capacità di
provare piacere, la riduzione degli interessi, la perdita o la coartazione della temporalità,
l’annullamento del futuro e della speranza, l’intuizione della fine del proprio ciclo vitale, il crollo
dell’autostima, il pessimismo, il rallentamento. Ma sono proprio questi i sintomi chiave della
depressione: può allora sorge il dubbio che l’invecchiamento psicologico, in realtà, non esista come
tale, ma sia invece espressione dell’innesto di una patologia depressiva. Si deve quindi considerare
la patologia depressiva, in tutte le sue forme, maggiori e minori, primitive e secondarie, palesi e
mascherate, come uno dei fattori più rilevanti dell’invecchiamento mentale.
INVECCHIAMENTO E DISABILITA’
Il rapporto tra disabilità e invecchiamento può essere considerato da due diverse prospettive. La
prima riguarda il disabile che invecchia, le trasformazioni e i cambiamenti peculiari dovuti
all’avanzare degli anni e sui processi di adattamento che vengono utilizzati per la gestione dei
cambiamenti. La seconda prospettiva guarda alla persona che diventa disabile ad una certa età e si
deve perciò confrontare, per la prima volta, con le limitazioni determinate dalla sua nuova
condizione in un momento particolare del ciclo di vita. Occorre precisare che nell’ambito
dell’invecchiamento il termine utilizzato per descrivere la condizione di disabilità dell’anziano è
quello di non-autosufficenza. Si pone quindi questo parametro al centro della valutazione e
l’accento cade sulla dimensione dell’autonomia da un lato e della dipendenza dell’altro. Si
potrebbero perciò elencare le diverse condizioni che possono essere affrontate durante la vecchiaia.
La prima viene definita come invecchiamento primario e riferito alla condizione in cui si trovano a
vivere le persone con il progredire degli anni, considerando cioè l’effetto età. Accanto alla
dimensione di invecchiamento normale (che richiede tuttora una definizione delle sue peculiarità) è
stato proposto il concetto di fragilità attribuito alla condizione dell’anziano che in sé non è una
condizione problematica ma potrebbe essere un fattore predisponente oppure un indicatore precoce
di una futura perdita di autonomia. Il termine fragile evoca un’idea di maggiore rischio, la presenza
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di un problema, la possibilità di danneggiarsi, di avere una patologia o una limitazione; accanto
all’idea del rischio di avere un problema occorre considerare anche la sfera della vita della persona
che viene interessata: si può quindi parlare di fragilità fisica, organica, psicologica, cognitiva,
sociale. A tale proposito è di frequente osservazione il cambio di attitudine che i familiari o le altre
persone mostrano di fronte alla percezione di fragilità dell’anziano o all’insorgere delle prime
limitazioni. Essi passano frequentemente da una relazione di reciprocità ad una relazione
direzionale in cui l’anziano viene deprivato di alcune sue capacità decisionali che vengono assunte
dagli altri; in ciò questi sono anche favoriti dall’atteggiamento spesso tenuto dagli anziani di fronte
alle limitazioni e caratterizzato dal rifiuto di consapevolezza e della mancata messa in atto di
strategie adattive adeguate alla nuova situazione. Dall’invecchiamento “normale” (incluso i “super
vecchi”), alla fragilità fino alla disabilità è una linea di una possibilità ma non di inevitabilità; la
disabilità inoltre è una condizione connessa con l’autonomia (perdita e riorganizzazione
dell’autonomia) e con la dipendenza(dall’altro per svolgere i propri compiti).Nell’invecchiamento
le condizioni che possono portare ad una condizione di non autosufficienza o perdita di autonomia
appartengono sostanzialmente a due categorie principali a seconda della loro causa. La prima è in
relazione ad una condizione fisica che determina una perdita di inabilità motoria che compromette
l’autonomia di movimento della persona con vari gradi di severità, classificati, come già accennato,
in perdita di funzioni avanzate (hobbies, viaggi, frequentazione di luoghi ecc.), in perdita di
funzioni strumentali (fare la spesa, accudire la casa, gestire gli aspetti finanziari ed altri ancora) e in
perdita o compromissione delle abilità di base quali alimentazione, igiene personale ecc. Le cause
principali sono gli incidenti cerebrovascolari, le patologie cardiovascolari e quelle a carico
dell’apparato muscolo-scheletrico. Le stesse condizioni di perdita di autonomia possono essere
determinate da una patologia a carico del sistema nervoso centrale, di cui la demenza rappresenta il
prototipo ed è una delle cause più frequenti di disabilità comporta una limitazione sempre più
significativa delle capacità di autonomia mentre le abilità motorie possono essere preservate per un
lungo periodo della malattia. Queste due condizioni ad elevata frequenza nella popolazione anziana
e molto anziana, la cui incidenza cumulativa può raggiungere circa il 50%, richiede delle
considerazioni specifiche riguardo al tema della disabilità e della dipendenza in quanto, nel primo
caso, assistiamo ad una dipendenza fisica, con abilità psicologiche e relazionali conservate, che ha
delle ripercussioni sia sul vissuto della persona interessata sia sulle sue relazioni con gli altri e in
particolare con coloro che se ne prendono cura, siano essi dei familiari oppure degli operatori
professionali; mentre nella seconda tipologia la situazione è diversa in quanto vi è una progressiva
perdita di abilità da parte dell’anziano colpito che implica un ruolo e una relazione molto particolare
e diversa da parte di coloro che si prendono cura di lui.
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I punti significativi da cui possiamo trarre una prima conclusione sono dunque :
1. evitare di sovrapporre il pregiudizio sulla disabilità e quello sulla vecchiaia in quanto l’esito è
una negazione significativa della persona dell’altro;
2. riconoscere le potenzialità e le possibilità dell’altro attraverso la costruzione di contesti e realtà
che possono favorire l’espressione delle potenzialità anche della persona anziana;
3. riconoscere i bisogni di considerazione, di rispetto, di azione e di reazione dell’anziano anche se
ciò può essere sentito come conflittuale e fonte di tensione;
4. tener presente che di fronte alla disabilità l’anziano è in grado spesso di operare il cambiamento
necessario in modo da affrontare la nuova situazione nel modo migliore possibile. Si può chiudere
con l’affermazione di Baltes che sottolinea come invecchiare bene non significhi l’assenza di
limitazione ma la possibilità di fare il meglio che si può con quello che si ha.
DAL PENSARE ALL’AGIRE
Si tratta di un problema non facile da risolvere, ma fondamentale, specialmente quando si debba
decidere il tipo di aiuto da fornire all’ anziano per correggere, eliminare, o modificare la sua
dipendenza. Su questi temi si discute moltissimo oggi all’interno del tema generale dello stato
sociale e della sicurezza sociale; e gli interrogativi si pongono a vari livelli:
• che qualità di vita è possibile garantire a un anziano in condizioni di dipendenza;
• quali tipi di aiuto si possono offrire in risposta alla domanda di aiuto;
• in che misura è dovere della famiglia aiutare l’anziano dipendente e quando è compito dei servizi
e della comunità;
• su chi devono gravare gli oneri economici legati agli interventi di aiuto.
Tradizionalmente all’assistenza pensava la famiglia e ciò rientrava nei suoi normali doveri, mentre
l’ «assistito» esprimeva una condizione di «senza famiglia» e la sua sopravvivenza era legata agli
interventi di solidarietà dei membri della comunità. Nessuno sapeva, né pretendeva di sapere, la
qualità di vita che le famiglie riservavano agli anziani o alle altre persone bisognose di assistenza; e
nemmeno erano previste forme di intervento integrativo alla famiglia da parte di enti esterni
(pubblici o privati), se non in casi del tutto eccezionali. L’anziano assistito al di fuori della famiglia
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rappresentava invece una categoria sociale marginale; gli veniva garantito un minimo livello di vita,
ma senza il riconoscimento di precisi diritti. Ben diversa la situazione odierna. Prima di tutto i
servizi di assistenza non sono riservati agli anziani privi di famiglia, ma costituiscono un sistema di
aiuti a cui tutti possono accedere, finalizzato a promuovere obiettivi di salute senza discriminazioni.
Dal canto suo la famiglia continua ad essere il principale riferimento per l’assistenza agli anziani,
ma l’esercizio di tale funzione diventa sempre più problematico. Non soltanto l’allungamento della
vita media ha aumentato il numero degli anziani, ma è diminuita anche la capacità oggettiva della
famiglia ad assistere. Sono diminuiti i familiari in grado di dare assistenza; è cambiata
l’organizzazione del lavoro e del tempo, sono cambiate le modalità di convivenza e i sistemi di
relazione anche nell’ambito familiare. La domanda di assistenza dell’anziano si colloca perciò in
nuovo quadro di riferimento: la richiesta di aiuto nasce nell’ambito della famiglia, ma il dovere di
garantire una risposta coordinata e finalizzata al suo benessere , spetta sia alla famiglia che ai
servizi. Nella pratica questi principi teorici non trovano sempre riscontri coerenti, sia perché
sopravvivono alcuni modelli culturali del passato, ancora in grado di influenzare i comportamenti di
alcuni soggetti; sia per l’inadeguatezza organizzativa dei servizi, incapaci di cogliere le nuove
esigenze e di avviare le relative trasformazioni.
Con queste premesse, si sviluppano alcune dinamiche tra gli anziani, i familiari e i servizi, che
rendono difficile sia la lettura e la valutazione della domanda di assistenza, che la decisione sul tipo
di risposta da offrire; situazioni nelle quali raramente l’anziano ha un ruolo protagonista nella scelta
della soluzione da adottare per il suo problema. Al suo posto intervengono familiari e servizi,
secondo strategie non sempre convergenti. Con molta concretezza allora bisogna prendere atto delle
difficoltà e cercare i modi più efficaci per responsabilizzare servizi e familiari nella corretta lettura
della domanda di assistenza. L’invecchiamento della popolazione, insieme a una più generale
attenzione diffusa ai diritti e ai bisogni dei cittadini, ha portato negli anni a una maggiore
sensibilizzazione nei confronti dei problemi degli anziani e dei bisogni di cui essi sono portatori.
Stato ed enti locali hanno progressivamente ampliato i loro interventi mettendo a punto una politica
in favore della popolazione anziana per dare risposta ai bisogni vecchi e nuovi collegati alle
caratteristiche oggettive (stato effettivo di salute) e soggettive (percezione della propria condizione
marginale) dei destinatari. Si è trattato di una vasta gamma di azioni, differenziate per
caratteristiche, finalità e modalità di realizzazione, ma tutte in qualche modo concorrenti a
promuovere una migliore Qualità della vita. Si tratta di un insieme di interventi che hanno portato a
“impegnare” risorse pubbliche per “risparmiare” risorse utilizzando quelle messe a disposizione
dagli anziani stessi. Tutti questi interventi, accostati e variamente combinati, hanno contribuito a
offrire risposte ai bisogni che sono in relazione al diverso grado di “autosufficienza” dell’anziano
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stesso e alla capacità della sua rete relazionale e familiare di farvi fronte. A partire dagli anni
Ottanta, infatti, con più forza è emerso il problema della “non – o parziale –autosufficienza” degli
anziani, rispetto a una serie di situazioni quotidiane: dalla cura della propria persona a quella della
casa, dall’autonomia di movimento alla capacità di mantenere relazioni proprie e così via. La
compresenza di problematiche di tipo sanitario e sociale ha pertanto richiesto di attivare servizi
integrati, capaci cioè di “lavorare insieme” proprio nel rispetto della correlazione stretta tra i diversi
bisogni dell’anziano. L’integrazione socio-sanitaria è, in tal senso, una delle sfide più importanti
nell’attivazione della rete di servizi in generale e, in particolare, per gli anziani. La politica che ha
portato alla realizzazione della rete di servizi ha messo in campo un altro importante soggetto, le
IPAB, che accanto agli Enti locali gestiscono ed erogano servizi per gli anziani. Tale politica, pur
differenziandosi da Regione a Regione, ha certamente consentito lo sviluppo e il consolidamento
delle rete e dei servizi, rappresentando altresì un “banco di prova” anche per gli altri settori socioassistenziali dove tale collaborazione si è sviluppata in tempi successivi.
QUALI SERVIZI ?
La risposta tradizionalmente più diffusa e ritenuta “quasi naturale” era stata per lungo tempo quella
della “casa di riposo” (il cosiddetto “ricovero”). Negli anni Settanta, a seguito e in connessione a
una “atmosfera” politico-sociale che guardava con attenzione nuove soluzioni ed era più del passato
disponibile a sperimentazioni, si fece strada l’idea di poter rispondere ai bisogni della popolazione
anziana in difficoltà anche non ricorrendo all’accoglienza in strutture totalizzanti. Si cominciò, cioè,
a pensare di poter lasciare gli anziani nella propria casa fornendo loro, soprattutto se soli e
parzialmente non autosufficienti, il supporto di un’assistenza domiciliare che li aiutasse sia nei
lavori domestici che non erano più capaci di svolgere, sia soprattutto nella cura della propria
persona. In altre parole, sembrò, a quei tempi, che si sarebbe progressivamente fatto a meno dei
“ricoveri” considerati “istituzioni totali” ossia luoghi che producono esclusione sociale. Il crescente
numero di anziani non-autosufficienti e la scarsità di risorse disponibili indussero l’assistenza
domiciliare a trasformare la tipologia degli interventi che si sono via via specializzati, tralasciando
la cura della casa, l’effettuazione della spesa, l’aiuto nel disbrigo di pratiche burocratiche e
sviluppando invece una più specializzata cura della persona (igiene personale, alzata da letto,
prevenzione di piaghe da decubito ecc.), a cui si sono affiancati interventi domiciliari sanitari svolti
da personale infermieristico. Ciò ha lasciato in parte “scoperti” i bisogni di relazione degli anziani,
primo fra tutti quello di “scambiare due parole”. In anni recenti, raccogliendo l’esperienza
precedente e componendola con le nuove tendenze della domanda di servizi per anziani, la legge
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Quadro 328/2000, dopo 110 anni di attesa, ha posto l’accento sull’assistenza domiciliare come uno
dei servizi che deve essere presente in ogni ambito territoriale. Il “ sistema integrato di interventi e
servizi sociali” deve realizzarsi con il concorso di una pluralità di attori, istituzionali e non, pubblici
e privati. Queste sono le premesse del piano nazionale degli interventi e servizi sociali 20012003,che mira a promuovere la partecipazione attiva di tutti nella realizzazione del benessere
sociale. Il Piano propone un nuovo concetto di domiciliarità come uno dei capisaldi del sistema
integrato di interventi e servizi. In quest’ottica l’assistenza domiciliare è vista soltanto come uno
degli strumenti necessari per la costruzione della domiciliarità. Parlare di domiciliarità, allora, vuol
dire pensare a strategie più complesse che riguardano la vita dell’anziano nella sua casa, nel suo
quartiere, nella città in grado di collegare la scelta di “stare in casa propria” alla possibilità di essere
inseriti in un contesto di vita riconosciuto come luogo di appartenenza più vasto del perimetro del
proprio appartamento, entro cui si possa contare su un minimo di legami sociali e di sicurezza
dell’abitare. Sono anche necessari programmi a sostegno della diffusione di nuove tecnologie quali
il tele-soccorso, la tele-assistenza, e la tele-medicina che raggiungono gli anziani al proprio
domicilio e che sembrano rappresentare oggi anche una risposta all’emergenza “anziani soli”.
Domiciliarità è allora un «processo di aiuto a domicilio» che necessita per la sua realizzazione della
disponibilità di molti soggetti: anziani, famiglie, operatori dei servizi, vicini, volontari, membri
della comunità locale ecc. Esso implica pertanto la costruzione di una rete di supporto sociale in
sinergia tra servizi sociali, sanitari e reti di solidarietà. Il domicilio è inoltre inteso, non come
“contenitore” e limite, ma nei termini più ampi di casa “aperta”, casa delle relazioni sociali e
dell’esperienza, contesto “dotato di senso” per la persona perché rappresenta la sua storia, la sua
cultura, i suoi affetti, le sue abitudini. La rete integrata di servizi rappresenta la risposta concreta in
termini di azioni e interventi ai bisogni degli anziani, soprattutto per coloro che hanno problemi di
non autosufficienza, e ha tra i suoi elementi caratterizzanti:
• L’accesso. In generale, grande cura è data all’informazione che consente al cittadino-utente
(l’anziano e/o la sua famiglia) l’accesso ai servizi. Le Regioni hanno pertanto dedicato a questo
delicato e fondamentale aspetto particolare attenzione, predisponendo ad hoc uffici/sportelli/servizi
con compiti informativi e di indirizzo. Le Regioni inoltre, devono rendere operative sul territorio le
politiche sociali, programmando interventi integrati con quelli sanitari .
• La personalizzazione dell’intervento e l’assistenza sanitaria adeguata. L’operatore che prende in
carico complessivamente l’anziano sottopone il suo caso all’esame dell’Unità di valutazione
generica (UVG), già così definita dal Progetto-obiettivo anziani. Si tratta di una équipe
multidimensionale formata da medico geriatra, infermiere professionale o assistente sanitario,
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assistente sociale. Può essere territoriale (UVGT) o ospedaliera (UVGO). L’UVG si raccorda anche
con il medico di famiglia e con l’assistente
sociale che prende in carico l’anziano (il responsabile del caso). I compiti dell’UGV sono:
− Stabilire in grado di non autosufficienza dell’anziano;
− Stabilire di quali servizi (domiciliari, o residenziali, o una composizione di essi)
l’anziano ha bisogno;
− Definire, sulla base di schede e valutazioni omogenee, il programma assistenziale personalizzato.
Tale programma trova poi una sua concreta attuazione nel Piano assistenziale individualizzato
(PAI) che rappresenta lo strumento di lavoro per l’assistenza all’anziano e che consente di
pianificare l’intervento.
• I servizi. I servizi che costituiscono la rete sono molteplici. In particolare, di seguitosi danno
definizioni di quei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari, distinguendoli fra domiciliari,
semiresidenziali, residenziali. In questo senso l’unita’ di base fondamentale risulta essere il
Comune, organo amministrativo che gestisce e coordina le iniziative per realizzare il “ sistema
locale della rete di servizi sociali”. I Comuni infatti, devono coinvolgere e cooperare con le strutture
sanitarie, con gli altri enti locali e con le associazioni dei cittadini. Le azioni, gli obiettivi e le
priorità degli interventi comunali sono definiti dai Piani di Zona. I Comuni devono anche realizzare
e adottare la Carta dei servizi
sociali che illustra le opportunità sociali disponibili e le modalità per accedervi. L’orientamento
condiviso degli attori delle politiche sociali è quello di considerare il ricovero in struttura come
ultima ratio cercando di far rimanere il più possibile l’anziano nel proprio domicilio. Per questo
obiettivo i servizi pubblici devono collaborare con la famiglia dell’anziano, le associazioni di
volontariato, le cooperative sociali, il vicinato, la comunità locale, in ciò promuovendo una cultura
della domiciliarità. Il ruolo degli operatori (pubblici e privati) è quello di cercare di “mettere in
rete” e coordinare il più possibile queste differenti risorse per attenuare il rischio di un inasprirsi del
disagio e della solitudine degli anziani.
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IL LINGUAGGIO E LE EMOZIONI COME FUNZIONI COGNITIVE
Il linguaggio umano, formidabile strumento di comunicazione e polimorfo supporto del pensiero,
rappresenta una complessa funzione cognitiva che ha come substrato l’attività integrata di
numerosissimi circuiti neuronali cerebrali.
Le funzioni cognitive costituiscono le cosiddette funzioni nervose superiori, in quanto elaborano
informazioni che sono a loro volta il prodotto di processazioni più elementari delle interazioni tra
sistema nervoso ed ambiente: ad es., nel caso dei fenomeni linguistici, l’elaborazione cognitiva di
una parola (letta o ascoltata) comporta l’interpretazione del suo significato sulla base della sua
corretta acquisizione sensoriale (visiva o uditiva). Invero, il linguaggio rappresenta una funzione
cognitiva composita, più complessa di altre che ne costituiscono come i presupposti (ad es.
l’attenzione e la memoria): è per questo motivo che solitamente ci si riferisce alle capacità
linguistiche (fasiche) in termini di funzioni cognitive “secondarie” che, per l’appunto, si basano su
altre funzioni cognitive più semplici, dette “primarie”. Pertanto è nella rete (network) cognitiva,
cioè nell’interazione dinamica di numerose funzioni cognitive di diverso livello e complessità, che
si ritrova il substrato anatomo-funzionale del linguaggio.
In caso di danno cerebrale acquisito - a seguito cioè di accidenti cerebrovascolari (ischemici o
emorragici), eventi traumatici cranio-encefalici, tumori cerebrali o malattie neurodegenerative
(demenze) – con interessamento delle cosiddette aree linguistiche si produce tutta una serie di
sintomi e segni clinici che costituiscono le sindromi afasiche: il termine “afasia”, dunque, fa
riferimento alla compromissione linguistica che si verifica in un adulto (un individuo che abbia
quindi già completamente acquisito il linguaggio) a causa di una o più lesioni encefaliche
localizzate in sedi anatomiche coinvolte nell’elaborazione linguistica.
Negli anni si sono avvicendate teorie più o meno esaustive sul funzionamento del cervello, in
condizioni di normalità o di patologia, relativamente ai fenomeni linguistici, basate su approcci
concettuali di diverso tipo e supportate da evidenze sperimentali di varia natura, impiegando sempre
più metodiche d’indagine molto sofisticate quali le tecniche neuroeidologiche (di neuroimaging) “in
vivo” come la tomografia ad emissioni di positroni (Positron Emission Tomography, PET) o la
risonanza magnetica funzionale (functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI). Certamente il
punto di vista neurolinguistico è quello che più di tutti interessa il neurologo, proprio per l’assunto
di fondo che non possa esistere linguaggio umano in assenza di un cervello altrettanto umano!
Le emozioni esercitano una forza incredibilmente potente sul comportamento umano. Le emozioni
forti possono causare azioni che normalmente non si eseguirebbero. Ma che cosa sono esattamente
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le emozioni? Che cosa scatena queste reazioni? Ho voluto riassumere in breve alcune delle
principali teorie delle emozioni che sono state proposte dai ricercatori, filosofi e psicologi.
Che cosa sono le emozioni?
In psicologia, le emozioni sono spesso definite come uno stato complesso di sentimenti che si
traducono in cambiamenti fisici e psicologici che influenzano il pensiero e il comportamento.
L’emotività è associata a una serie di fenomeni psicologici tra cui il temperamento, la personalità ,
l’umore e la motivazione. Secondo l’autore David G. Meyers, l’emozione umana comporta “…
l’eccitazione fisiologica, comportamenti espressivi, e l’esperienza cosciente.”
Le teorie sulle emozioni
Le principali teorie delle emozioni possono essere raggruppati in tre categorie principali:
fisiologiche, neurologiche e cognitive.
Teorie fisiologiche suggeriscono che le risposte all’interno del nostro corpo sono responsabili delle
emozioni.
Teorie neurologiche propongono che l’attività all’interno del cervello conduce a risposte emotive.
Le teorie cognitive sostengono che i pensieri e le altre attività mentali hanno un ruolo essenziale
nella formazione di emozioni.
La teoria delle emozioni di James-Lange
La teoria di James-Lange è uno degli esempi più noti di una teoria fisiologica delle emozioni. Lo
psicologo William James e il fisiologo Carl Lange, indipendentemente l’uno dall’altro, proposero
teorie analoghe sulle emozioni. Entrambi vollero sfidare quella che essi definivano la teoria del
senso comune secondo cui quando a qualcuno viene chiesto “perché piangi?” replica: “Perché sono
triste”.
Questa risposta implica la convinzione che prima vengono le sensazioni, le quali, a loro volta,
producono gli aspetti fisiologici ed espressivi delle emozioni. Secondo James e Lange, bisogna
combattere la teoria del senso comune, dal momento che non piangiamo perché siamo tristi, ma ci
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sentiamo tristi perché piangiamo; non tremiamo perché siamo spaventati, ma proviamo paura
perché stiamo tremando. Il cuore non batte più in fretta perché siamo arrabbiati, ma siamo in collera
perché il cuore batte più in fretta.
La reazione emotiva dipende da come vengono interpretate le reazioni fisiche.
La teoria delle emozioni di Cannon-Bard
Walter Cannon nel 1927, pubblicò una critica alla teoria James-Lange che convinse molti psicologi
che era una teoria insostenibile.
Cannon, fece rilevare che le ricerche non avevano affatto dimostrato che le emozioni sono
accompagnate da un unico evento fisiologico. Lo stesso stato generale di attivazione del sistema
nervoso simpatico è presente, in molte e differenti emozioni. Ad esempio, gli stati viscerali che
accompagnano la paura e la rabbia sono esattamente gli stessi che sono associati alle sensazioni di
freddo e alla febbre. Non sembra, dunque, possibile che le modificazioni fisiologiche negli organi
viscerali provochino emozioni riconoscibilmente differenziate.
Questa ipotesi venne in seguito elaborata da Philip Bard (1929), secondo la quale è il talamo a
svolgere un ruolo critico nell’esperienza emotiva. Per Cannon e Bard (teoria di Cannon — Bard),
gli impulsi nervosi che fanno passare le informazioni sensoriali vengono poi ritrasmessi attraverso il
talamo. Ricevendo questo input verso l’alto della corteccia (provocando un’esperienza emotiva
soggettiva) e verso il basso ai muscoli, alle ghiandole e agli organi viscerali (producendo delle
modificazioni fisiologiche).
La teoria delle emozioni di Schachter-Singer
Conosciuto anche come la teoria a due fattori di emozione, la Teoria Schachter-Singer è un esempio
di teoria cognitiva delle emozioni. Questa teoria suggerisce che l’eccitazione fisiologica si verifica
prima, e poi l’individuo deve identificare il motivo di questa eccitazione per sperimentare ed
etichettarlo come emozione.
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Vengono prima i processi cognitivi o quelli emozionali?
In questi ultimi anni sono state avanzate due teorie sulle normali esperienze emotive, teorie che
dedicano un’attenzione relativamente scarsa al ruolo delle modificazioni biologiche e
dell’attivazione fisiologica. La controversia è attualmente centrata su che cosa venga prima, se la
valutazione cognitiva o le sensazioni soggettive.
Quali sono le emozioni principali?
Esistono due tipi di emozioni: le emozioni fondamentali e le emozioni complesse.
Le fondamentali sono dette anche emozioni primarie poiché si manifestano nei periodi iniziali della
vita umana e ci accomunano a molte altre specie animali. Il neonato evidenzia tre emozioni
fondamentali che vengono definite “innate”: paura, amore, ira.
Entro i primi cinque anni di vita manifesta altre emozioni fondamentali quali vergogna, ansia,
gelosia, invidia.
Le 8 emozioni primarie sono:
Rabbia: generata dalla frustrazione e si può manifestare attraverso l’aggressività.
Paura: è un’emozione dominata dall’istinto, ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una
situazione pericolosa
Tristezza: si origina a seguito di una perdita o da uno scopo non raggiunto
Gioia: è un’emozione positiva di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri
Sorpresa: si origina da un evento inaspettato, seguito da paura o gioia
Attesa
Disgusto: risposta repulsiva caratterizzata da un’espressione facciale specifica
Accettazione
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Le emozioni complesse (secondarie) sono la combinazione delle primarie e si sviluppano con la
crescita dell’individuo e l’interazione sociale: l’invidia, l’allegria, la vergogna, l’ansia, la
rassegnazione, la gelosia, la speranza, il perdono, l’offesa, la nostalgia, il rimorso, la delusione.
LA PSICOMOTRICITA’
La psicomotricità è una disciplina che prende in considerazione l’uomo nella sua globalità ed il suo
obiettivo principale può essere identificato nel consentire un’integrazione armonica degli aspetti
motori, funzionali, affettivi, relazionali e cognitivi.
Nata all’interno dell’ambito medico (neuropsichiatrico), la psicomotricità affida un ruolo
preminente al corpo, al movimento e all’azione considerati gli elementi fondamentali per
apprendere e operare sulla realtà ed in relazione costante e significativa con l’ambiente. In
particolare, valorizza il corpo in movimento, con le sue specifiche modalità d’espressione ed il suo
linguaggio. Attraverso esso, il suo agire e il suo relazionarsi, l’individuo esprime la propria identità,
i suoi bisogni e le sue difficoltà. Il corpo in psicomotricità è inteso, dunque, come soggetto di azione
e di relazione con il mondo e, per questo, è importante favorire la sua espressione canalizzando in
modo consapevole e mirato le risorse e gli stimoli spontanei dell’individuo nel corso del suo
sviluppo evolutivo. Tale sviluppo è unitario, essendovi una stretta relazione fra motricità e
intelligenza e fra azione e pensiero: è con il corpo e le sue realizzazioni motorie che l’individuo
struttura il suo Io e acquisisce la sua autonomia; ed è sempre attraverso il corpo che soprattutto il
bambino, ma anche l’adulto, esprime i propri desideri e bisogni.
La stretta relazione fra corpo e mente, valida soprattutto nel bambino, ma non solo, chiarisce come
sia proprio attraverso l’agire corporeo, con tutte le sue modalità espressive e comunicative non
verbali, che i soggetti pensano, imparano, creano e si relazionano. Ecco che la psicomotricità
riguarda l’uomo nella sua totalità, nel suo rapporto con se stesso e con l’ambiente. Per questi
motivi, essa si applica sia a livello individuale che di gruppo e in qualsiasi stadio: età evolutiva, età
adulta, anziano. L’intervento psicomotorio si presenta come un mezzo per favorire e migliorare le
risorse dell’individuo, le sue potenzialità e per creare un’armonia ed una presa di consapevolezza
delle capacità, oltre che dei limiti di ciascun soggetto. La presa in carico psicomotoria mira a
mobilizzare e potenziare ogni possibile risorsa della persona e del suo contesto, oltre che intervenire
sul sintomo, sul disagio o sul deficit nel rapporto con l’individuo, gli oggetti e gli altri. Altro ambito
di applicazione della psicomotricità è quello preventivo-educativo che si realizza soprattutto in
gruppo. In questo caso, l’obiettivo è quello di prevenire o di evidenziare eventuali problematiche
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latenti o a rischio e di favorire, attraverso il lavoro nel gruppo, lo sviluppo del soggetto nella sua
totalità e interdipendenza fra agire, pensare, comunicare, sentire, percepire.
L’intervento psicomotorio, a qualunque livello appartenga, va dunque interpretato secondo il
parametro della qualità, del benessere, del miglioramento conseguito globalmente dall’individuo,
dove il movimento agevola anche la comunicazione e la relazione con l’ambiente che lo circonda.
Ecco che, dunque, l’intervento potrà mirare ad integrare tra loro diverse componenti:
La componente dell'organizzazione dell'attività motoria che si sviluppa nel bambino secondo tappe
predeterminate (il tono muscolare, l’equilibrio, la coordinazione dei movimenti ), che si evolve nel
corso dell’infanzia fino a stabilizzarsi alla soglia dell’adolescenza e che va gradualmente a
deteriorarsi con l’avanzare dell’età e a determinare alcune disabilità quali, ad esempio, goffaggine,
difficoltà nel mantenimento dell’equilibrio o nella lateralizzazione.
La componente emotiva che si manifesta nell’espressione corporea della persona, nel proprio
vissuto corporeo, che si esterna nel linguaggio non verbale (stato tonico, tipo di postura, di
gestualità, autopresentazione, ossia il modo di atteggiarsi) e che comprende i fattori determinanti
della modalità di comunicazione sociale di ciascun individuo. I problemi relativi a questa sfera
riguardano, ad esempio, l’inibizione psicomotoria, alcune forme di maldestrezze, l’alterazione della
percezione del proprio corpo, stati di tensione, depressione…
La componente cognitiva. Questa componente entra in gioco quando il movimento richiede una
programmazione intenzionale dell’ordine della sequenza di singoli movimenti da compiere in
funzione di uno scopo fissato in partenza e del loro controllo cosciente durante la loro esecuzione.
Si tratta di un insieme di azioni definite prassie. Le difficoltà prassiche si possono manifestare nella
pianificazione di un’azione o sequenza motoria, nella riproduzione di modelli (imitazione) o anche
nell’esecuzione delle attività manuali del quotidiano (vestirsi, cucinare,…). L’intervento
psicomotorio permette, pertanto, di intervenire, migliorare e potenziare un’ampia gamma abilità e
competenze quali la respirazione, l’equilibrio, la percezione del proprio corpo, la lateralizzazione.
Parallelamente alle ricerche neuropsichiatriche, fino ai giorni nostri si sono creati diversi metodi
educativi e terapeutico - riabilitativi rivolti sia al bambino che all’adulto. Le tecniche maggiormente
in uso vanno dalla ginnastica a corpo libero e con attrezzi, la ritmica, alcune forme di rilassamento e
di massaggio, il dialogo tonico, il gioco motorio e il gioco simbolico, l’espressione corporea e la
drammatizzazione, l’espressione grafica, agli esercizi di percezione del corpo, di percezione
spaziale e di organizzazione delle azioni finalizzate
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LA SOLITUDINE E L’EMARGINAZIONE
La vita personale del vecchio è troppo spesso ridotta a poche, minime attività prive di contenuto
sociale, la cui validità non è ratificata per di più dalla fascia più ampia dei giovani e degli adulti
socialmente attivi. Questo dono del tempo libero che la società elargisce all'anziano fuori ruolo,
questa età del riposo assoluto o, come si usa dire, della meritata quiescenza, non è altro, a nostro
parere, che una sorta di pietosa ipocrisia, liberatrice forse dal senso di colpa di cui la coscienza
collettiva soffre per l'espulsione coatta dell'individuo dal campo del lavoro e, quindi, dalla vita
attiva. Il tempo libero offerto al vecchio, come abbiamo già osservato, è un tempo di forzata
inattività nella grande maggioranza dei casi, ragione frequente di emarginazione sociale e di
solitudine. Un connotato comune della condizione senile è, infatti, proprio la solitudine che
fatalmente, direi, consegue a tutta una serie di eventi che vanno dalla vedovanza alla cessazione
dell'attività lavorativa, dalla perdita progressiva dell'autonomia alla lontananza dei figli, che, come
sappiamo, può essere geografica o anche semplicemente affettiva. La solitudine del vecchio non si
identifica, comunque, con la condizione o lo stato di chi vive da solo o appartato. Per tale situazione
è da preferire il termine isolamento che indica meglio la condizione di chi, spontaneamente o
costretto da cause esterne, vive isolato, appartato dagli altri, ma non è necessariamente privo di
affetti o amicizie, di appoggi, di persone che l'aiutino o l'assistano.
Quando del resto la vita in isolamento si compie, tanto per fare un esempio, per scelta personale e
volontaria, come nel caso paradigmatico dell'anacoreta, non si può certo parlare di solitudine nel
senso negativo che attribuiamo a questo termine nel nostro discorso. Allo stesso modo non è
appropriato usare tale espressione nel caso non frequente di persone anziane che vivano da sole per
loro elezione, ma conservando volontà e capacità di mantenere vivi i loro rapporti interpersonali ed
il calore degli affetti.
Solitudine vuol dire sentirsi soli e questo accade a chi vive isolato ed appartato, non per scelta
propria, ma per condizione imposta dagli organismi sociali, economici e culturali del proprio
complesso antropologico. In questo senso possono soffrire di solitudine, sentirsi soli, anche i vecchi
che, pur vivendo in famiglia o in qualche comunità di tipo assistenziale, sono comunque ricusati
dall'ambiente o non più approvati dalla collettività. Non deve stupire che una tale situazione si
verifichi anche in famiglia e non soltanto, come sembrerebbe più prevedibile, negli ospizi, nelle
case di riposo o nelle varie strutture protette. La solitudine, infatti, non risparmia nemmeno gli
anziani che, pur inseriti in nuclei familiari numerosi, esperimentano paradossalmente l'isolamento
affettivo e l'emarginazione quando la convivenza con i congiunti crea problemi e frustrazioni
reciproche. Dalla parte del vecchio c'è, infatti, un bisogno continuo e pressante di affetto ed una
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costante esigenza di comunicazione che non trovano sempre corrispondenza nei membri giovani e
adulti della famiglia. Nella maggioranza dei casi figli e nipoti non sono in grado di dare una risposta
completa ai bisogni esistenziali del loro congiunto che finisce per sentirsi un estraneo e quasi un
intruso nel contesto affettivo familiare.
La conclusione di questo breve discorso potrebbe essere che una risposta ai problemi dell'anziano
non può cercarsi soltanto nell'organismo familiare che, nella società odierna, non ha più le
caratteristiche né i presupposti perché il vecchio possa ancora estrinsecarvi la sua personalità e
soddisfare in esso le proprie esigenze di vita, di relazioni interpersonali, di partecipazione. È
indispensabile e urgente, come abbiamo più volte rilevato, un vasto piano geragogico che si
proponga di educare la società in generale, oltre che l'individuo e la famiglia, allo scopo di favorire
la caduta di tutti quei pregiudizi che hanno relegato l'anziano nel limbo dell'incomprensione e della
solitudine.
LA CREATIVITA’ IN ETA’ SENILE
Creatività: le capacità creative rappresentano un aspetto fondamentale dello sviluppo intellettivo,
determinando una scelta innovativa delle migliori modalità possibili fra quelle che assicurano un
buon adattamento all’ambiente. La creatività è un processo che si svolge nel tempo ed è determinato
dall’originalità, dallo spirito di adattamento e dalla possibilità di realizzare concretamente un’idea.
Essa è caratterizzata dal pensiero produttivo che integra il pensiero logico con le proprie
potenzialità dinamiche.
«Creatività significa aver portato a termine la propria nascita prima di morire (...) educare alla
creatività significa educare alla vita», sosteneva Erich Fromm, il quale rimarcava il rapporto fra
creatività e sentimento di sicurezza. Emotività e motivazioni influenzano lo sviluppo, le
caratteristiche e le espressioni del processo creativo. La dimensione creativa necessita di essere
coltivata e spesso sa conservare la propria forza vitale e propulsiva al cambiamento, le proprie
energie di rinnovamento e può protrarsi anche per lunghi anni. La creatività non solo non si
esaurisce con l’età, ma può trovare ulteriori motivi di arricchimento. Vengono talvolta a mancare le
opportunità ambientali e culturali per una reale evoluzione del processo creativo, orientato alla
realizzazione di sé e non disgiunto dal mondo degli affetti, della sensibilità e dei significati.
Antonini e Magnolfi (1991) hanno raccolto in un volume “L’età dei capolavori”, innumerevoli
esempi di illustri personaggi che in età avanzata hanno saputo realizzare importanti opere, lavori e
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progetti di elevato valore nella letteratura, nella pittura, nella scultura, nell’architettura, nella
musica, nel teatro.
L’espressione creativa in età senile può influenzare la qualità della vita, sollecitare nuovi interessi e
impegni, suggerire nuovi sviluppi di senso alla quotidianità e all’immediato futuro, contribuire
all’adempimento di percorsi e progetti individuali. In peculiari situazioni che richiedono un
recupero di motivazioni, il risveglio dell’attenzione e della consapevolezza di sé, la predisposizione
di un programma riabilitativo comprende la facilitazione allo sviluppo della dimensione creativa e
può aiutare meglio il ripristino delle funzionalità.
Lo svolgimento di un’attività creativa è un elemento complesso dell’attività intellettiva che attua un
ruolo fondamentale nei processi di adattamento all’ambiente ed è presente, seppure con
caratteristiche diverse, in ogni fascia di età. Scrive George Minois: «L’età permette spesso di
elevarsi al di sopra delle convenzioni di ogni specie a cui l’adulto deve sottomettersi per fare
carriera; libero da queste costrizioni, il vecchio può espandere la propria creatività, il che permette a
taluni di rivelare il loro genio a settanta o a ottant’anni». Durante la senescenza la presenza della
creatività è un importante correlato predittivo al realizzarsi di una vecchiaia serena. L’attività
creativa non è solo compatibile con livelli avanzati di età cronologica, ma in molti casi si sviluppa
completamente quando l’anziano riorganizza le proprie modalità di relazione con l’ambiente dopo
la crisi di disadattamento sopraggiunta con il pensionamento. La dimensione creativa permette
all’anziano di continuare ad immaginare, ad essere curioso, a comprendere la complessità e
l’intreccio degli elementi che compongono l’esistenza quotidiana, a essere disponibile ad assumere
rischi accettando la sfida del continuare a vivere. L’anziano è ancora in grado di apprendere,
attraverso l’esperienza diretta, strategie che si propongono di potenziare la creatività,
l’indipendenza di giudizio e di finalizzare l’acquisizione per una crescita interiore. I fattori che nel
corso dell’invecchiamento orientano verso la creatività risultano connessi alla struttura personale di
ogni individuo, e soprattutto al suo modo di reagire alle difficoltà che incontra, alla sua capacità di
accettare le trasformazioni che compaiono in rapporto alla senescenza, al suo equilibrio emotivo, al
suo grado di ottimismo o pessimismo.
La creatività in età senile può influenzare la qualità della vita, sollecitare nuovi interessi e impegni,
suggerire nuovi sviluppi alla quotidianità ed all’immediato futuro, contribuire all’adempimento di
percorsi e progetti individuali. La vecchiaia può costituire un rimedio alla creatività dimenticata o
sopita e può apportare energie, esperienze, ispirazioni e forza ai processi della fantasia e
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dell’espressione creativa. Esistono una vita ed un invecchiamento per ogni persona. Esiste una
creatività per ogni individuo e ciascuno riflette l’immagine acquisita del proprio percorso creativo.
In età senile il pensiero creativo può non solo conservare, ma anche incrementare ed arricchire le
capacità esplorative, il desiderio di conoscenza, la concezione di sé e del proprio destino. La
creatività è pertanto una prerogativa presente in tutte le persone che invecchiano e non soltanto nei
grandi artisti; è la qualità che meglio consente alla persona anziana di continuare ad esprimersi, di
conservare, tutelare e consolidare la propria dignità. Numerosi sono gli artisti che durante l’età
senile hanno prodotto alcune fra le loro opere migliori. La longevità creativa è presente
trasversalmente in tutte le forme artistiche. Rembrandt, Goya, Monet e Picasso riuscirono proprio in
età senile a inventare un linguaggio pittorico completamente nuovo. Michelangelo lavorò alla Pietà.
Rondanini fino a pochi giorni prima di morire, a 89 anni, quando ristrutturò il gruppo marmoreo
riscolpendo la testa del Cristo nel ventre di Maria. Donatello ottantenne realizzò i pannelli bronzei
di S. Lorenzo, considerati i suoi capolavori.
Goethe presentò l’ultima versione del Faust a 80 anni e Voltaire quella di Irene a 84, l’anno della
sua morte; Alessandro Manzoni nell’ultimo periodo della sua vita continuò dopo un cinquantennio a
lavorare all’opera “Della Lingua Italiana” ed elaborò un saggio storico sulla rivoluzione francese
del 1789 e italiana del 1859.
La senescenza del musicista può comportare l’evolvere verso una liberazione creativa, in funzione
del suo progressivo distaccarsi dalle rigide regole imparate e rispettate durante gli anni di
formazione. Tra i direttori d’orchestra troviamo esempi significativi di un invecchiamento efficiente
e in larga parte innovativo: si pensi a Rubinstein, Toscanini, Von Karajan, Richter e Arrau. È
significativo rilevare come sia possibile suonare una Polacca di Chopin a 85 anni senza nessuna
perdita di destrezza. E ciò documenta la fondamentale importanza, oltre che dell’esercizio mentale,
anche dell’esercizio fisico per il mantenimento di abilità di tipo fine, che decadono quando non
vengono stimolate di continuo.
Le Corbusier, poco prima di morire a 78 anni ha presentato a Venezia il progetto di un nuovo
Ospedale e Frank Lloyd Wright, a 91 anni, pubblicava “The living City”. I registi hanno spesso
presentato carriere molto prolungate, per oltre 50 anni. Ricordiamo fra gli altri Charlie Chaplin,
Kurosawa, Hitchcok, Bresson, Huston e de Oliveira, ancora pienamente attivo a 94 anni. Ardito
Desio, geologo, famoso per la scoperta del petrolio nel Sahara e per l’organizzazione di prestigiose
spedizioni alpinistiche è rimasto mentalmente valido sino all’ultimo, a 104 anni. Gabriele Mucchi,
ingegnere, scrittore, pittore del movimento di Corrente, impegnato sino alla morte, avvenuta a 103
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anni, ha presentato in una mostra a Milano, allestita in occasione del suo centesimo compleanno,
alcune interessanti opere recenti. Ma anche di personaggi meno famosi rimangono contributi
significativi. Battista Solero, uno scalpellino della Val di Stura, dopo il pensionamento si è scoperto
artista modellando le pietre del fiume. La creatività, come detto, non riguarda solo i grandi artisti.
Essa è potenzialmente presente in ogni persona, in ogni anziano che riesce a trovare la forma più
adeguata di espressione, inattività culturali come la scrittura, la pittura, la scultura, la musica, ma
anche artigianali, come il costruire un oggetto e coltivare un fiore, domestiche, come inventare un
piatto o allevare un animale, relazionali, come organizzare una festa, un viaggio, interagire con i
coetanei o con i più giovani, fotografiche o cinematografiche, fisiche e sportive. Da segnalare in
questo senso le possibilità offerte ad entrambi dal rapporto vecchio-bambino: un rapporto
intergenerazionale nel quale il vecchio integra nella narrazione i ricordi della propria vita e
l’elaborazione di una fantasia ricomparsa dopo anni di obsolescenza, il bambino esprime la sua
personale creatività a un interlocutore disponibile ad apprezzarla.
L’ADATTAMENTO ED IL BENESSERE IN ETA’ SENILE
La psicologia ha da sempre privilegiato ciò che è in evoluzione, come l’infanzia e l’adolescenza, ma
negli ultimi decenni essa ha cominciato ad interessarsi al mondo degli anziani partendo dai dati
demografici che evidenziano l’avanzamento della vita media della popolazione. Ogni indagine
demografica connota una vera e propria rivoluzione, che ha ed avrà in futuro un grosso impatto e
che rimette in discussione la struttura economica, l’organizzazione sociale ed il sistema di relazioni
interpersonali e tra le generazioni.
Per quanto riguarda gli aspetti psicologici dell’età senile, esistono delle rilevanti differenze tra gli
individui che devono essere ben conosciute, per un approccio culturale più aperto e per degli studi
approfonditi sull’idea di invecchiamento. Le capacità intellettuali subiscono un’involuzione quando
la creatività e l’operatività sono meno brillanti che nelle età precedenti, malgrado i numerosi esempi
della gente comune o di poeti, scrittori, scienziati che continuano a lavorare e a produrre anche in
età avanzata. Anche in questi casi risalta un evidente rallentamento delle attività intellettive con la
diminuzione della memoria, dell’attenzione e con una rigidità psichica che impedisce l’adattamento
ad ogni cambiamento sociale. Secondo lo psicoanalista Carl Gustav Jung, negli anni della vecchiaia
gli individui tendono a spostare la propria attenzione dal mondo esterno a se stessi, sarebbero meno
dipendenti dall’influenza esercitata dagli altri e, in generale, tenderebbero a essere più introversi. La
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posizione di Jung non è però condivisa da tutti gli psicologi, soprattutto da chi sostiene la costanza
della personalità nel tempo.
La posizione di diversi psicologi è che vi sia una serie di fattori che non si modificano con l’età,
quelli connessi con l’adattamento e con la tendenza ad orientarsi verso una meta. Questi fattori, che
vengono in genere definiti di “adattamento sociale”, appartengono allo stile comportamentale dei
diversi individui e dimostrano appunto una certa costanza attraverso gli anni, in particolare nella
maturità e nella vecchiaia. Questi stili di vita rimangono inalterati nonostante i cambiamenti di
ruolo e status sociale (come, ad esempio, il pensionamento).
Per altri psicologi è vero che alcuni contenuti della personalità possono essere stabili, ovvero quelli
connessi a fattori di “adattamento sociale”, ma vi sono anche tratti che si evolvono: in parole
povere, l’energia con cui ci si impegna in una serie di azioni proiettate verso l’esterno declinerebbe
con l’età. Perciò, le persone anziane tenderebbero a rispondere maggiormente agli stimoli interni
che a quelli esterni, a ritrarsi dalle situazioni che implicano una compartecipazione e un
investimento emotivo, a evitare i rischi e le sfide piuttosto che a ricercarle.
Attualmente però la maggioranza degli psicologi e dei sociologi ritiene che oggi la condizione
dell’anziano (dai 60 anni in poi) almeno nei paesi sviluppati, sia cambiata. La vita media si è
allungata, il numero degli anziani è sensibilmente aumentato (gli ultra 60enni in Italia sono il 26,2%
della popolazione) e il loro “peso” sociale è più rilevante di prima. Infatti numerose ricerche
dimostrano che oggi vi sono molte persone anziane che hanno livelli di aspirazione simili a quelle
di persone più giovani e che reagiscono in maniera analoga ad altre età alle frustrazioni e agli
insuccessi. Questa impostazione non ha soltanto un significato teorico, ma riveste anche una
notevole importanza sociale nell’individuare il modo migliore in cui l’anziano dovrebbe affrontare e
vivere la propria condizione, e cioè se sia auspicabile che con l’età si abbia un progressivo
disimpegno o se sia più vantaggioso un impegno attivo sia a livello individuale che sociale. Perciò
secondo i sociologi e gli psicologi oggi, nei paesi più avanzati, è necessario non solo che l’anziano
prevenga le malattie degenerative, ma che mantenga vivi anche gli interessi, in specie culturali. È
quindi fondamentale tenere viva la mente e continuare ad aggiornare i propri schemi mentali
facendo, per quanto è possibile, nuove esperienze. Anche se nutriamo il cervello nel modo migliore,
evitiamo gli eccessi legati all’alcol o al fumo, lo proteggiamo dai danni vascolari o tumorali, la
mente si nutre prevalentemente di stimoli, mantiene la sua forma sulla base delle esperienze
quotidiane. I geni stabiliscono un quadro di riferimento sulla cui base si struttura il sistema nervoso,
ma è l’ambiente a stimolare la plasticità del cervello, a dare forma ai suoi circuiti, a rinnovarne la
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struttura e la funzione, persino in quelle età in cui riteniamo, sulla base di luoghi comuni, che la
mente abbia perduto ogni sua capacità di modificarsi.
L’AFFETTIVITA’
L’invecchiamento implica cambiamenti affettivi di natura sia qualitativa che quantitativa, ma non
comporta necessariamente un impoverimento sul piano emozionale: talvolta è proprio nell’età
senile che si osserva un arricchimento delle qualità delle relazioni affettive. La vicinanza della
morte tende a modificare il senso del tempo, e prevale anche nell’affettività il vivere al presente. Il
diventare vecchi pone sicuramente nuovi vincoli, ma apre anche altre possibilità, e sono proprio le
nuove limitazioni o le perdite affettive a stimolare nuove forme di abilità e di sviluppo.
I fattori affettivi esercitano un’indubbia influenza sulle capacità di adattamento e sul processo di
invecchiamento. La necessità di amare e sentirsi amati trascende l’età. Le ricerche testimoniano il
desiderio e l’auspicio degli anziani di essere circondati dagli affetti e di nutrirsi di relazioni positive.
La serenità emotiva facilita l’accesso alla ponderazione, al pensiero prospettico e alla fantasia.
Spesso un declino affettivo coinvolge altre funzioni psichiche. La depressione rappresenta la
sofferenza psicologica più frequente in vecchiaia, conseguente ai maggiori rischi di perdite
intercorrenti che possono accumularsi ed accelerare l’evoluzione negativa di una situazione
affettiva già precaria. Molte persone anziane appaiono più vulnerabili agli “stress” emotivi e le
difese funzionanti per un intera vita sembrano a volte indebolirsi, disperdersi; il vecchio si sente più
fragile, disarmato dagli eventi e non più libero di decidere.
Anche quando sembra disintegrarsi la personalità, l’affettività rimane, ultimo baluardo di una vita,
congiunzione di segmenti di storia. Nell’anziano demente si è persa l’architettura cognitiva, ma
permangono la comunicazione e la risonanza emotiva attraverso modalità informative che
necessitano di attenzione e sensibilità professionale.
La dimensione affettiva dispone verso lo sviluppo creativo, raccoglie l’esperienza e contribuisce a
disegnare la storia individuale, dall’inizio alla fine. Talvolta procedure di riattivazione e
riabilitazione delle risorse emozionali possono consentire anche un recupero o un mantenimento di
peculiari funzioni cognitive e volitive. In situazioni di particolare sofferenza e declino, il vecchio
può ritrovare motivi di serenità e interesse da atteggiamenti di valorizzazione, riconoscimento,
stima e fiducia e dalla compartecipazione a un eventuale programma terapeutico.
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La qualità affettiva delle esperienze e la densità dei significati costituiscono spesso la trama, molte
volte nascosta, di percorsi e profili esistenziali.
LA VALUTAZIONE MULTIDIMENSIONALE GERIATRICA
Che cos'è una Valutazione multidimensionale dell'anziano?
Nel 2008 il problema dell’assistenza agli anziani si fa più pressante, essendo ormai la nostra società
composta da anziani; l’anziano vive da solo, spesso con una badante, ma molteplici sono le sue
esigenze di salute e di assistenza. Si tratta di un processo di tipo dinamico e interdisciplinare volto a
identificare e descrivere, o predire, la natura e l’entità dei problemi di salute di natura fisica,
psichica e funzionale di una persona non autosufficiente, e a caratterizzare le sue risorse e
potenzialità. Questo approccio diagnostico globale, attraverso l’utilizzo di scale e strumenti validati,
consente di individuare un piano di intervento sociosanitario coordinato e mirato al singolo
individuo. Schematicamente, le aree tematiche fondamentali, o ‘dimensioni’, che configurano la
natura multipla della valutazione, sono rappresentate da:
-salute fisica,
-stato cognitivo (o salute mentale),
- stato funzionale,
-condizione economica e condizione sociale. La valutazione, che concretamente si effettua sulla
base della compilazione, cartacea o informatizzata, di liste di quesiti (o item), si avvale dell’uso di
cosiddette ‘scale’ di natura monodimensionale, ciascuna delle quali cioé approfondisce una singola
area o una specifica articolazione di essa (piuttosto conosciute in ambito medico sono le scale ADL
– Activities of Daily Living – e le scale IADL – Instrumental Activities of Daily Living, con i loro
vari indici), o di ‘strumenti’ multidimensionali veri e propri, pensati per caratterizzare il soggetto
nelle diverse aree di interesse: questi ultimi possono evidentemente contenere all’interno scale
monodimensionali.
Gli strumenti attualmente disponibili, descritti nel riquadro in basso, si differenziano in effetti per
finalità, impostazione e capacità descrittiva. In sostanza, tale valutazione consente di apprezzare
l'autosufficienza e le condizioni di salute globali dell'anziano o anche del bambino, se egli necessiti
o meno di assistenza, stante le scarse risorse disponibili. Allo scopo esistono diversi sistemi d i
valutazione che si attuano tramite un questionario: La regione Veneto per esempio utilizza una
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complessa scheda, detta “S.VA.M.A.”, ossia la “Scheda per la Valutazione Multidimensionale
dell'Anziano". Essa analizza tutti gli aspetti della vita dell'anziano preso in carico, per quanto
concerne la salute, con riferimento ai vari organi ed apparati, ma soprattutto il suo grado di
autosufficienza, i rapporti sociali, la situazione economica, che oggi col dimezzamento “eurale”
della pensione rappresenta il problema principale nella vita dell’anziano. Così tutti si precipitano a
chiedere l’invalidità civile e l’indennità di accompagnamento, senza tenere conto che spesso non è
di loro spettanza. Allo scopo di chiarire le idee dei nostri navigatori, vi parleremo in breve di quali
sono i concetti di base con cui viene effettuata la valutazione dai diversi componenti della Unità
operativa distrettuale. Vengono qui riportate le parti di S.VA.M.A., che sono in tutto quattro. Si
tratta di sezioni (o "schede") che valutano, ognuna, un certo aspetto della persona presa in carico.
Ogni sezione si suddivide a sua volta in quattro pagine. Tutte le parti di S.VA.M.A. sono state
replicate sulla base della scheda originale S.VA.M.A., accompagnandole con le istruzioni
necessarie alla loro compilazione.
Prospettive assistenziali, n. 99, luglio-settembre 1992
PRENDERSI CURA DELLE PERSONE ANZIANE ANCHE ALLA LUCE DEL
PROGETTO-OBIETTIVO "TUTELA DELLA SALUTE DEGLI ANZIANI"
In Italia si discute molto di anziani, o meglio, si discute di "residenze" per anziani. Da quando la
legge finanziaria 1988 ha previsto la realizzazione di 140.000 posti per «anziani che non possono
essere assistiti a domicilio» si discute soprattutto di "Residenze sanitarie assistenziali". Questo
spostamento di interessi - dalle persone alle istituzioni - è espressivo di un atteggiamento ed ha delle
conseguenze. Molti credono di poter risolvere il problema con risposte di tipo istituzionalizzanti,
costruendo strutture dove confinare le persone dipendenti. Questa scelta è errata e va rigorosamente
contestata. Scegliere prioritariamente per le residenze e solo successivamente per il domicilio è un
errore grave. Si rischia infatti di spendere risorse per costruire strutture nuove, o per riadattare le
vecchie, senza che ce ne sia effettivo bisogno. Se fossero garantiti i servizi domiciliari il numero di
quelli che debbono comunque essere ricoverati sarebbe certamente inferiore. Realizzare solo, o
prioritariamente le RSA vuol dire non risolvere il problema nella sua vera dimensione. II recente
progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani" contiene, in questo senso, delle indicazioni
decisamente positive.
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Il progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani"
In data 30 gennaio 1992 il Parlamento ha approvato una risoluzione che predispone l'avvio del
progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani" che infatti prevede:
1. la priorità degli interventi domiciliari;
2. l'istituzione della Unità di valutazione geriatrica (UVG);
3. la creazione di Residenze sanitarie assistenziali (RSA).
Le RSA nel progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani"
Circa le Rsa, il progetto-obiettivo afferma: «La denominazione di residenza sanitaria assistenziale è
stata preferita rispetto ad altre dizioni perché l'aggettivo "sanitaria" sottolinea che si tratta di una
struttura propria del Servizio sanitario nazionale, a valenza sanitaria, .di tipo extra-ospedaliero
(residenza), la cui gestione è finanziabile con il fondo sanitario nazionale e di cui le USL possono
garantire direttamente la gestione; l'aggettivo "assistenziale" rimarca che la residenza ha anche una
valenza socio-assistenziale inscindibilmente connessa alla valenza sanitaria, il che legittima
l'impiego da parte del Servizio sanitario nazionale di figure professionali di tipo sociale, in assenza
di assegnazione da parte degli enti locali, con l'assunzione degli oneri relativi, sia pure sotto
l'obbligo di contabilizzazione separata».
Le Unità valutative geriatriche nel progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani"
Tenuto conto delle indicazioni del progetto-obiettivo si ritiene necessario che al più presto vengano
istituite in tutte le USL le Unità valutative geriatriche con i seguenti compiti previsti dallo stesso
progetto-obiettivo:
a) «selezione degli anziani che hanno necessità di assistenza continuativa in regime di assistenza
domiciliare integrata (ADI) o di Day Hospital riabilitativo o di strutture residenziali»;
b) «programmazione e controllo di qualità dell'assistenza geriatrica nella rete integrata dei servizi».
Secondo la risoluzione del Parlamento del 30.1.92 «all'inizio sarà indispensabile poter contare
almeno su una équipe per ogni USL nel cui ambito operi un reparto di geriatria per creare
esperienze formative per il personale».
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Condizione indispensabile per la istituzione e gestione delle UVG l'appartenenza del servizio al
comparto sanitario e non a quello assistenziale.
Ne deriva pertanto che le UVG non possono essere istituite dalle istituzioni pubbliche di assistenza
e beneficenza (IPAB) che, come è noto, non afferiscono al settore sanitario ma a quello della
assistenza. Se assolutamente necessario, può essere ammesso temporaneamente l'utilizzo di operatori che lavorano presso le IPAB. Ciò dovrebbe essere disciplinato da una apposita convenzione
stipulata dalla USL alla quale compete l'istituzione della UVG.
Dagli istituti di ricovero (case di riposo, residenze protette, ecc.) alle RSA La risoluzione del
Parlamento del 30 gennaio 1992 ed il progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani"
stabiliscono che la RSA è «una struttura propria del Servizio sanitario nazionale». Pertanto occorre
che le Regioni e le USL stabiliscano norme per:
- l'istituzione del servizio di ospedalizzazione a domicilio. Ciò anche al fine di evitare che l'utenza
debba ricorrere al ricovero a causa della mancanza di prestazioni fornite a casa, prestazioni più
valide e meno costose per il Servizio sanitario nazionale. Il servizio di ospedalizzazione a domicilio
potrebbe essere costituito da operatori (medici, infermieri, riabilitatori, ecc.) territoriali o
ospedalieri, ovvero da équipes convenzionate garantendo in ogni caso come servizio, interventi per
10-12 ore al giorno, per 7 giorni settimanali. In tal modo, ospedalizzazione a domicilio e assistenza
domiciliare integrata costituirebbero un insieme organico. Ciò determinerebbe anche un non
indifferente risparmio di personale (soprattutto infermieri) e di denaro pubblico;
- il passaggio dei compiti di istituzione e di gestione delle strutture per anziani cronici non
autosufficienti dal comparto assistenziale a quello sanitario.
Pertanto le domande di ammissione dovranno essere rivolte al settore sanitario e non ai Comuni;
- l'ammissione dovrà essere valutata dalla UVG della USL territorialmente competente in base alla
abitazione del richiedente. La UVG dovrebbe esprimere un parere motivato, a seguito di una visita
diretta del paziente e di idonei accertamenti, circa gli interventi più opportuni, secondo le diverse
modalità (permanenza a domicilio - con o senza l'intervento del servizio di ospedalizzazione a
domicilio, il ricovero in ospedale o in una casa di cura, il day hospital, la RSA);
- l'istituzione (urgentissima) di apposite commissioni mediche con il compito di «provvedere ad una
valutazione collegiale delle condizioni di salute degli attuali ospiti degli istituti comunali e
convenzionati per non autosufficienti, con la conseguente individuazione delle patologie di cui sono
affetti e della loro gravità», e di «effettuare una ricerca atta ad individuare metodologie, criteri,
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strumenti per un concreto indirizzo operativo per il ricovero degli anziani cronici in presidi sanitari
o in RSA, atti al migliore soddisfacimento delle esigenze complessive delle persone interessate»;
oppure -preferibilmente- attribuzione delle suddette funzioni alle UVG. In tale caso la loro
istituzione diviene ancora più urgente.
Prevenire, curare, riabilitare le persone malate, gravemente non autosufficienti
Molti anziani, anche molto anziani, sono indipendenti, godono di buona salute e di una
soddisfacente qualità di vita. Per alcuni però non è così; a causa di una malattia hanno acquisito una
disabilità che ha prodotto un handicap. Alle volte la dipendenza che questa situazione produce è
molto grave e può non consentire all'individuo di gestire in modo autonomo le funzioni necessarie
alla sua sopravvivenza. L'Organizzazione mondiale della sanità si è occupata a lungo del problema
ed ha sottolineato come gli interventi debbano, nell'ordine: prevenire, potenziare, integrare,
sostituire. Ciò vuol dire che:
- affrontare il problema della persona malata in termini funzionali - come l'OMS raccomanda - non
vuol dire nascondere la sua malattia;
- non sempre è possibile guarire tale malattia, come non è sempre possibile recuperare pienamente
le capacità funzionali, ma è sempre doveroso curare e utilizzare, potenziandole, le funzioni residue;
- bisogna riconoscere che una persona non autosufficiente (dipendente secondo il linguaggio
anglosassone) è malata, spesso molto malata, di frequente malata in modo permanente, e che a
motivo di ciò va curata e riabilitata secondo il suo diritto e le sue necessità;
- i servizi sanitari sono tutti quelli rivolti al mantenimento e al miglioramento delle condizioni di
salute e possono essere coadiuvati da iniziative specifiche per il miglioramento delle condizioni e
dello stile di vita;
- la persona deve essere libera di scegliere il percorso terapeutico che più ritiene confacente alle sue
condizioni di vita e di salute. Tale libertà di scelta deve essere garantita in modo effettivo attraverso
l'offerta di servizi specifici;
- la spesa per tali servizi dovrà essere ripartita tra tutti i cittadini e non solo attribuita agli anziani e
ai loro congiunti;
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- la pretesa di dichiarare «di competenza assistenziale» i non autosufficienti non ha più ragion
d'essere. Competente a garantire e migliorare le condizioni di salute dei singoli e della popolazione
generale è infatti il settore sanitario, come previsto dal progetto-obiettivo "Tutela della salute degli
anziani";
- vanno attivate, per garantire la salute, tutte le competenze necessarie a rimuovere cause sociali ed
economiche che aggravano la situa-zione di dipendenza causata dalla malattia.
Il caso delle persone colpite dalla malattia di Alzheimer
Le persone colpite da malattia di Alzheimer sono gravemente malate, ma oltre a subire gli effetti
devastanti della malattia sono anche abbandonate a se stesse o ai servizi socio-assistenziali. Sembra
che più la malattia si presenta in forma grave e devastante, meno deve essere considerata.
Paradossalmente più la malattia è in fase avanzata e meno si è considerati. Si opera una rimozione
pericolosa che lascia il soggetto con la sua malattia privo delle risposte cui avrebbe diritto e di cui
avrebbe bisogno per sopravvivere.
Diritto alle cure sanitarie
È quel che sta accadendo anche per i ricoveri ospedalieri urgenti. Se una persona anziana si presenta
ad un Pronto Soccorso spesso viene respinta.
II ricovero ospedaliero si fa sempre più difficile per chi ha superato certi limiti d'età. Ciò mentre le
dimissioni dagli stessi ospedali vengono fatte senza tener conto delle norme vigenti. II
peggioramento delle condizioni di salute provoca frequentemente un repentino e devastante
consumo delle già ridotte risorse economiche. Ad una ampia ed urgente domanda di servizi
corrisponde una offerta assai scarsa.
Per una equa politica sanitaria
Il recente progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani" contiene delle chiare indicazioni.
Tali positivi orientamenti richiedono una puntuale attuazione per evitare alcuni rischi estremamente
gravi. Tra questi:
1) il rischio che la durata delle degenze ospedaliere sia ridotta pur permanendo obiettive condizioni
di necessità terapeutica in tale sede;
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2) il rischio che non sia affatto garantita la riabilitazione (la cifra dell'1% di posti letto per la
riabilitazione ogni 1000 abitanti a suo tempo prevista dalla legge 595 è stata poi ridotta allo 0,5);
3) il rischio che le RSA diventino dei meri ricoveri emarginanti per anziani, malati di mente,
handicappati;
4) il rischio di veder smantellati i servizi territoriali.
Occorre inoltre che sia definita una politica del personale che garantisca l'assunzione e la
permanenza in servizio di professionalità qualificate e assicuri i necessari momenti di qualificazione ed aggiornamento. Vanno quindi evitate confusioni sugli standards logistici e gestionali che
determinano servizi inesistenti. Alcune Regioni infatti prevedono in RSA presenze medie dei
medici e degli infermieri assolutamente in-sufficienti.
Circa i diritti nelle Residenza sanitarie assistenziali
Per garantire in modo effettivo il rispetto dei diritti e delle esigenze delle persone gravemente non
autosufficienti è necessario tener conto di che cosa siano le RSA nell'attuale normativa; dei
fondamenti giuridici del diritto alla salute e alle cure sanitarie senza limiti di durata; di quale debba
essere l'utenza delle RSA, gli standard di personale, abitativi e tipologici; di quali debbano essere le
competenze gestionali, i criteri di ammissione/dimissione, la distribuzione degli oneri economici.
Pertanto, agli utenti delle RSA, come ad ogni altra persona, va garantito il diritto alla salute
mediante prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione.
Devono, inoltre, essere garantiti i diritti con-cernenti la dignità nel rispetto della individualità dei
soggetti assistiti (nome, privacy, intimità, libertà di movimento, corrispondenza, visite...). Fra i
diritti da garantire va compreso, inoltre, quello al ricovero ospedaliero, qualora fosse necessario.
Compete al Ministero della sanità definire, nel rispetto della normativa statale, gli standards
quantitativi e qualitativi minimi riguardanti le strutture, il personale e la qualità delle presta-zioni.
Vanno, in questo senso, favorite anche le forme di controllo sociale da parte dei cittadini, ad
esempio nelle forme di commissioni autorizzate. Le convenzioni con le strutture private debbono
prevedere la clausola della trasparenza amministrativa prevista dalla legge 241.
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Garantire una reale priorità agli interventi domiciliari
In base a quanto previsto dall'art. 20 della legge 67/1988, il ricovero in RSA deve essere consentito
esclusivamente nei casi in cui non sia possibile intervenire a livello domiciliare o trami-te presidi
poliambulatoriali e ospedali diurni. Si chiede quindi che la priorità contenuta in questa norma sia
rispettata
Piattaforma per l'attuazione del progetto-obiettivo "Tutela della salute degli anziani"
Il problema degli anziani cronici gravemente non autosufficienti deve essere impostato
riconoscendo la loro condizione di malati. In quanto tali, hanno diritto alle prestazioni sanitarie di
prevenzione, terapia e riabilitazione come gli altri cittadini.
Ciò è sancito dalla Costituzione (art. 32) e dalle leggi attualmente in vigore (legge del 4 agosto 1955
n. 692; legge del 12 febbraio 1968 n. 132; legge del 23 dicembre 1978 n. 833).
Una certa quota di queste persone è dipendente dall'aiuto degli altri per sopravvivere. Giustamente
il progetto-obiettivo evita che a questa necessità si risponda in modo istituzionalizzante.
Vanno infatti privilegiati gli interventi domiciliari che sono preferiti dai cittadini e vantaggiosi per il
sistema sanitario. Tali servizi vanno attivati prima di ogni altra soluzione anche per evitare che
siano ricoverate persone che sarebbero potute restare a casa loro.
Opportunamente quindi, il 30 gennaio 1992, il Parlamento ha approvato una risoluzione che
sancisce l'avvio del progetto-obiettivo «Tutela della salute degli anziani" che, come è già stato
rilevato in precedenza, prevede:
- la priorità degli interventi domiciliari;
- l'istituzione delle Unità di Valutazione Geriatrica (UVG);
- la creazione di Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA).
Pertanto, affinché siano garantiti i diritti dei cittadini è indispensabile che:
1) siano privilegiati gli interventi domiciliari in ogni USL con la creazione di servizi specifici. In
particolare ospedalizzazione a domicilio e assistenza domiciliare integrata;
2) vengano attivate, presso tutte le USL, le Unità di valutazione geriatrica (UVG);
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3) siano realizzate presso tutte le USL servizi di day hospital che svolgano attività preventive,
curative, riabilitative, compresa la funzione di preospedalizzazione e deospedalizzazione;
4) siano avviati dei centri diurni a carattere sanitario specializzati nella cura e riabilitazione delle
persone colpite da malattia di Alzheimer e da altre forme di demenza senile. Quale sostegno alle
persone che intendano contribuire alla cura del malato a casa è necessario prevedere la possibilità di
usufruire di pe-riodi di aspettativa retribuita.
È altresì indispensabile che gli assegni di accompagnamento, cui molti malati hanno diritto, siano
erogati tempestivamente. A questo fine possono essere introdotte delle facilitazioni nel-le procedure
(es. certificazione del primario ospedaliero).
Menomazione, Disabilità e Handicap secondo l’ICIDH
La menomazione indica qualsiasi perdita o anormalità di una struttura o di una funzione fisiologica,
anatomica oppure psicologica (in questo caso si tende a parlare di “disturbo”). Una persona con
tetraplegia ha una menomazione fisica agli arti dalla nascita, una persona senza mano a causa di un
incidente ha una menomazione fisica acquisita nel corso della vita. Una persona con Schizofrenia
ha una menomazione psicologica o disturbo psicologico. A seconda dell’area colpita si possono
riscontrare anche menomazioni linguistiche, auricolari, intellettive, sensoriali, ecc.
La disabilità rappresenta la conseguenza pratica della menomazione e, quindi, indica lo svantaggio
personale che la persona disabile vive espresso in ciò che è in grado di fare o meno. Anche la
disabilità può presentarsi dalla nascita, ma può insorgere anche nel corso della vita. Per fare qualche
esempio, una menomazione fisica agli arti inferiori comporta una disabilità nel camminare, mentre
una menomazione psicologica comporta una disabilità relazionale. A seconda della menomazione si
possono anche riscontrare disabilità comunicative, comportamentali, nella cura personale ecc.
L’handicap indica lo svantaggio sociale vissuto da una persona a seguito di una disabilità o
menomazione. La persona con handicap, nell’incontro con l’ambiente fisico e sociale, può trovarsi
in difficoltà nel muoversi nello spazio in autonomia, nell’essere indipendente nel prendere delle
scelte o nel prendersi cura di sé, oppure nel trovare un’occupazione e un’indipendenza economica.
Lo svantaggio sociale si esprime anche nel non poter rivestire un ruolo sociale considerato
“normale” alla maggior parte. La persona con tetraplegia, ad esempio, può sviluppare una disabilità
nel camminare e un grave handicap negli spostamenti autonomi se l’architettura urbana prevede
solo scalini impossibli da utilizzare con una carozzina e non è, quindi, fornita di scivoli. Un
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bambino con un disturbo dello sviluppo quale l’autismo, può sviluppare un grave handicap sociale
se a scuola non viene assegnato un insegnante o educatore in grado di sostenerlo nelle sue difficoltà
relazionali promuovendo scambi comunicativi e relazionali con i compagni.
Quindi, l’handicap si riscontra solo nel caso in cui le condizioni esterne siano ad ostacolo alla vita
della persona. Una persona non vedente, ad esempio, vivrebbe tranquillamente in un ambiente buio,
contesto che invece costituirebbe un handicap per una persona vedente. Un bambino in carrozzina
supera un possibile handicap negli spostamenti se gli viene fornita una carrozzina magari elettrica
che gli permette di essere autonomo nel muoversi nello spazio, se adatto al passaggio in carrozzina
ovviamente.
I DISTURBI PERVASIVI DELLO SVILUPPO E COMUNICOPATIE
I disturbi pervasivi dello sviluppo si distinguono principalmente in:
Disturbo autistico;
Sindrome di Rett;
Disturbo disintegrativo dell’infanzia;
Sindrome di Asperger
Disturbi generalizzati dello sviluppo non altrimenti specificati.
Disturbo autistico
Secondo recenti stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, interessa un bambino ogni 100.
Colpisce più i maschi che le femmine, con un rapporto di 4 a 1. L’autismo può essere primario o
associato ad anomalie genetiche (fenilchetonuria, sclerosi tuberosa) o cromosomiche (X-fragile), a
malattie infettive prenatali (rosolia, citomegalovirus) o a traumi che colpiscono precocemente il
sistema nervoso. In circa il 60% dei bambini autistici è presente anche un deficit cognitivo, che può
essere di entità variabile. Nel 25-30% di soggetti con autismo si manifestano crisi epilettiche,
soprattutto nei primi anni di vita o all’inizio dell’adolescenza.
Le persone con autismo infantile hanno uno sviluppo anomalo in tre ambiti:
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Interazione sociale, con difficoltà nel relazionarsi con gli altri, nel capirne i bisogni e nel ricercare la
condivisione di gioie, interessi o obiettivi. Chi soffre di autismo non sa interpretare il linguaggio
“simbolico” fatto di gesti, espressioni e posture o capire l’ironia. Soprattutto nei soggetti più piccoli,
c’è uno scarso interesse nel fare amicizia o giocare con altri bambini. L’immaginazione è spesso
assente o comunque compromessa.
Comunicazione, con difficoltà nel parlare e nell’iniziare o sostenere una conversazione e deficit
della comunicazione mediata da gesti. Chi soffre di autismo ha un linguaggio caratterizzato dalla
ripetizione continua di frasi o parole sentite da altri e comprende in modo “letterale” i vocaboli, con
difficoltà nel seguire il filo di un discorso. Nelle persone che sviluppano il linguaggio, questo può
presentare anomalie nell’accento e nell’intonazione della voce, che possono essere inappropriati al
contesto. Anche lo sviluppo della comprensione del linguaggio è spesso ritardato e l’individuo può
avere difficoltà nel capire semplici domande o indicazioni.
Attività e interessi. La persona autistica preferisce svolgere attività solitarie e mostra spesso pochi
interessi, molto ripetitivi, abitudinari o accompagnati da rituali specifici. Inoltre, può manifestare
resistenza o malessere di fronte a cambiamenti, anche banali, della routine. In alcuni bambini può
esservi un eccessivo attaccamento o interesse per determinati oggetti. Sempre presenti, sebbene
molto variabili per intensità, movimenti ripetitivi apparentemente senza senso, come lo
sfarfallamento delle mani.
Le manifestazioni del disturbo variano a seconda del livello di sviluppo e dell’età del soggetto.
Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM – IV), per la diagnosi di
autismo sono necessari almeno sei dei sintomi descritti per tre diverse aree (interazione sociale,
comunicazione, comportamento), con almeno due sintomi nell’area delle interazioni sociali e
almeno un sintomo nell’area del comportamento e uno in quella della comunicazione.
I sintomi descritti sono:
Compromissione dell’interazione sociale:
incapacità di utilizzare adeguatamente lo sguardo, la gestualità o la mimica per regolare
l’interazione sociale;
incapacità di sviluppare rapporti con coetanei;
mancanza di reciprocità socio-emozionale (assenza di modulazione del comportamento in accordo
al contesto sociale);
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mancanza della ricerca spontanea di condivisione di interessi con altre persone.
Compromissione della comunicazione:
ritardo o totale mancanza dello sviluppo del linguaggio verbale, senza tentativo di compensare con i
gesti;
relativa incapacità di iniziare o sostenere una conversazione;
ripetizioni, nel linguaggio, di parole o frasi;
assenza di gioco, sia a livello di imitazione che di invenzione.
Compromissione del comportamento:
preoccupazione per uno o più interessi limitati a particolari oggetti che sono anomali nel contenuto
e nell’obiettivo o per l’intensità dedicata;
adesione apparentemente irrefrenabile a pratiche o rituali specifici;
attività motorie ripetitive come il battere o il torcere le mani o le dita, o movimenti complessi di
tutto il corpo;
preoccupazioni per parti di oggetti o elementi non funzionali dei giochi.
Sindrome di Rett
La sindrome di Rett colpisce essenzialmente le femmine, con un’incidenza di un caso su 10.000 –
15.000 nati. È un disturbo caratterizzato da un periodo di sviluppo apparentemente normale,
seguito, entro il primo-secondo anno di vita, da un rallentamento della crescita della circonferenza
cranica, con perdita delle capacità manuali acquisite, comparsa di movimenti ripetitivi, e
regressione del comporto.
Le bambine affette da questa sindrome hanno, generalmente, disturbi nella comunicazione, specie
verbale, e compromissione delle capacità d’interazione sociale, sintomi che tendono leggermente a
migliorare con la seconda infanzia. Dopo i 10 anni si accentua il deterioramento motorio,
caratterizzato da assenza di coordinazione e andatura instabile. La compromissione delle funzioni
cerebrali è contraddistinta da deficit cognitivi e frequente epilessia. Alla sindrome di Rett sono
spesso associate anomalie del ciclo sonno-veglia e crisi intermittenti di apnea e iperventilazione,
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come anche scoliosi, infezioni delle vie respiratorie e cardiopatie che possono ridurre l’aspettativa
di vita.
Disturbo disintegrativo dell’infanzia
Il disturbo disintegrativo dell’infanzia, o sindrome di Heller, è molto raro ed è caratterizzato da uno
sviluppo, apparentemente normale, fino a oltre i tre anni. Entro i 10 anni, poi, il bambino va
incontro a una perdita delle capacità acquisite. L’esordio può essere acuto (giorni o settimane) o
lentamente progressivo (mesi). Il periodo di regressione è generalmente di 6-9 mesi, seguito da una
fase di stasi e talora da un modesto recupero, soprattutto nell’ambito del linguaggio. Socialità,
comunicazione e comportamento sono analoghi a quelli dell’autismo. Spesso il disturbo si associa a
gravi deficit cognitivi, anomalie elettroencefalografiche ed epilessia.
Sindrome di Asperger
La sindrome di Asperger è caratterizzata da compromissione dell’interazione sociale, dei
comportamenti e degli interessi, analogamente a quanto succede nell’autismo, senza però deficit a
livello cognitivo e soprattutto linguistico.
Compare verso i tre-quattro anni, dopo uno sviluppo apparentemente normale, e colpisce più i
maschi che le femmine. La compromissione dell’interazione sociale si evidenzia alla comparsa di
due tra i seguenti sintomi:
incapacità di utilizzare adeguatamente lo sguardo, la gestualità e la mimica per regolare
l’interazione sociale;
incapacità di sviluppare rapporti con coetanei;
mancanza di modulazione del comportamento in base al contesto sociale;
mancanza della ricerca spontanea di condivisione di interessi con altre persone.
La compromissione del comportamento può comprendere una fissazione per uno o più interessi
limitati quali parti di oggetti, la necessità, apparentemente compulsiva, di compiere pratiche o rituali
specifici e la presenza di movimenti del corpo ripetitivi, localizzati (es. mani o dita) o generalizzati.
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Pur non essendoci ritardo né significativa compromissione cognitiva, il linguaggio è spesso
caratterizzato da ripetizioni di parole o frasi poco comunicative e il pensiero appare talvolta
confuso. Spesso la sindrome si accompagna a uno sviluppo motorio rallentato e/o a difficoltà di
coordinazione dei movimenti.
La diagnosi viene eseguita più tardivamente che nell’autismo. Le caratteristiche distintive restano
pressoché invariate nel corso della vita. Le persone con Sindrome di Asperger possono avere un
impiego, una famiglia e vivere in modo indipendente. Sotto questo aspetto, la prognosi è migliore
anche rispetto al disturbo autistico ad alto funzionamento.
Disturbi generalizzati dello sviluppo non altrimenti specificati
In questa tipologia rientrano tutti i casi di bambini, adolescenti e adulti che, pur presentando una
grave e generalizzata compromissione dello sviluppo sociale e relazionale, della comunicazione
verbale e non verbale e comportamenti stereotipati, non soddisfano pienamente i criteri diagnostici
di nessuna delle categorie descritte. Tra i disturbi non altrimenti specificati è compreso anche
l'autismo atipico.
DISTURBI SPECIFICI DI LINGUAGGIO
Cosa sono / Come si manifestano / Disturbi associati /Trattamento /Cosa fare
I sistemi di classificazione internazionali (ICD-10) definiscono il Disturbo Specifico del Linguaggio
“una condizione in cui l’acquisizione delle normali abilità linguistiche è disturbata sin dai primi
stadi dello sviluppo. Il disturbo linguistico non è direttamente attribuibile ad alterazioni
neurologiche o ad anomalie di meccanismi fisiologici dell’eloquio, a compromissioni del sensorio, a
ritardo mentale o a fattori ambientali. È spesso seguito da problemi associati quali le difficoltà nella
lettura e nella scrittura, anomalie nelle relazioni interpersonali e disturbi emotivi e
comportamentali”.
Cosa sono i DSL
La definizione di ritardo o disturbo del linguaggio in età evolutiva è utilizzata per descrivere quadri
clinici molto eterogenei, in cui le difficoltà linguistiche possono manifestarsi in associazione con
altre condizioni patologiche (deficit neuromotori, sensoriali, cognitivi e relazionali) o isolatamente.
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Nel primo caso si parla di disturbi del linguaggio secondari (o associati al disordine primario),
mentre nel secondo caso si definiscono “Disturbi specifici del linguaggio” (DSL) i ritardi o
disordini del linguaggio “ relativamente puri”, in cui non sono identificabili fattori causali noti.
I DSL hanno emergenza tra i due ed i sei anni e risultano avere una diffusione del 5-7 % in età
prescolare e tendono a ridursi nel tempo con una incidenza dell’1-2% in età scolare.
Va però considerato che i soggetti con Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA) presentano un
pregresso disturbo di linguaggio nel 30-40 % e, secondo alcuni, più della metà dei bambini con
DSL presenta difficoltà di apprendimento nei primi anni scolastici.
Come si manifestano
I Disturbi Specifici di Linguaggio (DSL) possono assumere differenti espressioni, in relazione alle
caratteristiche del disturbo.
Nella
classificazione
dell’ICD
10
(International
Classification
of
Diseases-
redatta
dall’Organizzazione Mondiale della Sanità) le principali manifestazione possono essere in sintesi
descritte:
Disturbo specifico dell’articolazione e dell’eloquio
Disturbo del linguaggio espressivo
Disturbo della comprensione del linguaggio
Disturbo specifico dell’articolazione e dell’eloquio
L’acquisizione dell’abilità di produzione dei suoni verbali è ritardata o deviante con conseguente
difficoltà nell’efficacia comunicativa del bambino.
La diagnosi è possibile in presenza di:
intelligenza non verbale nella norma;
abilità linguistiche espressive e ricettive nella norma;
anomalie dell’articolazione non direttamente attribuibili ad alterazioni sensoriali, anatomiche o
neurologiche;
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anomalie nel contesto d’uso colloquiale del linguaggio.
Disturbo del linguaggio espressivo
La capacità di esprimersi tramite il linguaggio è marcatamente al di sotto del livello appropriato alla
sua età mentale, ma con una comprensione nella norma.
La diagnosi è possibile in presenza di:
intelligenza non verbale nella norma;
mancanza di produzione di singole parole intorno a due anni;
piccole frasi di due parole intorno a tre anni sviluppo limitato del vocabolario; espressioni di
lunghezza ridotta;
strutturazione della frase poco evoluta e/o deviante;
difficoltà nella fluidità della frase / racconto;
ritardi / anormalità per i suoni linguistici.
Disturbo della comprensione del linguaggio
La comprensione del linguaggio non è coerente con l’età cronologica.
La diagnosi è possibile in presenza di:
intelligenza non verbale nella norma;
comprensione verbale marcatamente discrepante con l’età mentale non verbale;
capacità di espressione poco evolute e/o devianti
Disturbi associati
Disturbi Specifici del linguaggio sono spesso associati a difficoltà di coordinazione motoria, di
funzionamento cognitivo, e a disturbi dell’attenzione. Un fattore importante è il deficit della
memoria di lavoro fonologica, che tuttavia non sembra essere la causa di tutti i DSL. Alcuni studi
ritengono che fattori importanti siano quelli genetici e quelli ambientali.
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Trattamento
La rieducazione dei disturbi del linguaggio viene effettuata solo dopo un’accurata valutazione
diagnostica. Lo studio delle competenze linguistiche deve essere preceduto da un’attenta anamnesi
familiare volta a verificare la presenza di segni che richiedono valutazioni mediche specifiche (otiti
ricorrenti, deglutizione atipica, ecc..) o che riguardano l’assenza di condizioni patologiche in ambito
neurologico e audiologico.
La valutazione del linguaggio deve comprendere l’utilizzo di materiale testologico validato che
possa evidenziare le singole cadute in ambito linguistico. Come già detto, la presenza di varie
sottocategorie diagnostiche, porta alla necessità di diversificare gli interventi a seconda della
componente deficitaria.
Se il deficit è al livello fonologico è necessario un intervento mirato ad identificare i suoni che non
sono presenti nel repertorio fonetico del soggetto e lavorare sui contesti linguistici in cui la
produzione è corretta o alterata. Inoltre può essere utile, per i casi in cui la produzione non mostra
processi devianti, identificare con quale processo viene sostituita la struttura bersaglio e costruire
materiale linguistico finalizzato all’allenamento di tale struttura. Quando è la componente sintattica
e morfologica ad essere deficitaria, è necessario un intervento finalizzato all’apprendimento delle
regole grammaticali di base o al sostegno della componente narrativa. Esistono training sul recupero
lessicale-semantico o unità di lavoro sulle componenti meta fonologiche.
Diversi studi sull’efficacia del trattamento nei disturbi del linguaggio, hanno dimostrato che un
lavoro specifico sulla consapevolezza fonologica tramite specifiche attività in epoca prescolare,
facilita il bambino con DSL diminuendo significativamente l’emergere di difficoltà di
apprendimento della lettura e della scrittura.
Oltre all’intervento sul bambino sono spesso utili degli incontri di sostegno alla genitorialità al fine
di informare i genitori sulle caratteristiche del disturbo, sostenerli nelle difficoltà comunicative e
sociali che incontrano nell’interagire con il figlio, proporre loro un modello educativo che favorisca
le potenzialità e riduca i comportamenti problematici e fornire valide strategie comportamentali per
fronteggiare le difficoltà.
94
Cosa fare
Lo sviluppo del linguaggio è caratterizzato da una grande variabilità individuale, dovuta a fattori
biologici ed ambientali (maggiore o minore stimolazione in ambito famigliare, inserimento precoce
a scuola, ecc).
Mediamente intorno ai 24 mesi il bambino possiede un vocabolario di circa 100 parole ed inizia a
formare le prime frasi che inizialmente sono combinazioni di parole spesso associate ad un gesto
indicativo o simbolico.
Intorno ai 30 mesi avviene generalmente la vera esplosione del linguaggio, il vocabolario si espande
ed il bambino inizia a produrre frasi di tre o più parole.
Un parametro fondamentale da tenere in considerazione è un’adeguata comprensione del linguaggio
dell’adulto: se questa è presente si più attendere siano a 36 mesi prima di fare una consultazione
specialistica. Nonostante ciò, è importante fornire indicazioni alla famiglia circa stili educativi che
favoriscano lo sviluppo di abilità espressive linguistiche.
L’età di tre anni costituisce una sorta di spartiacque tra bambini cosiddetti “parlatori tardivi” e i
bambini con probabile disturbo specifico di linguaggio.
La presenza di una produzione ancora non adeguata secondo i parametri sopra elencati dovrà essere
valutata da una visita medico-specialistica.
È importante fornire ai genitori che si trovano ad affrontare questo tipo di situazione, indicazioni
che possano aiutarli a comunicare e relazionarsi con il loro bambino:
Ascoltare il bambino quando parla, anche se mostra difficoltà, con attenzione e serenità, senza
mostrare fretta.
Lasciare che concluda la frase anche se richiede più tempo.
Favorire l’uso dei gesto a supporto dell’efficacia comunicativa.
Riformulare la produzione “scorretta” del bambino e non correggerla: il impara implicitamente dal
modello verbale dell’adulto e non dall’esercizio della ripetizione.
Parlare molto al bambino in modo rilassato e lento.
Valorizzare altre qualità del bambino per rinforzare la sua autostima e creare un ambiente
famigliare accogliente in cui possa sentirsi sereno di esprimersi anche con le sue difficoltà.
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SINDROMI DEMENZIALI
La prevalenza delle demenze aumenta con l’invecchiamento della popolazione ed è in costante
aumento su scala mondiale. Una sindrome demenziale si definisce come un disturbo delle funzioni
cognitive che evolve per alcuni mesi la cui gravità provoca una ripercussione sulla vita quotidiana
del paziente. La sua valutazione comporta come minimo un colloquio con il paziente e con le
persone a lui vicine, un esame clinico, una valutazione delle funzioni cognitive, una valutazione
ematica e una diagnostica per immagini cerebrale. La causa più frequente delle sindromi demenziali
è la malattia di Alzheimer, che colpisce il 20% dei soggetti oltre i 75 anni. Essa è caratterizzata da
un disturbo mnesico in primo piano, ad aggravamento progressivo, associato a un’alterazione delle
funzioni strumentali, esecutive, del ragionamento e del giudizio. Possono comparire disturbi
psicocomportamentali con l’evoluzione della malattia. La demenza a corpi di Lewy (che associa
una sindrome parkinsoniana e allucinazioni) e la demenza vascolare (caratterizzata da una
disfunzione sotto-cortico-frontale e da disturbi comportamentali precoci) sono altre eziologie
frequenti della sindrome demenziale. Queste diverse patologie sono spesso associate,
particolarmente nei soggetti più anziani, rendendo difficile la diagnosi eziologica. La gestione
pluridisciplinare delle demenze include trattamenti farmacologici (inibitori dell’acetilcolinesterasi e
memantina per la malattia d’Alzheimer e la demenza a corpi di Lewy; trattamenti farmacologici dei
disturbi psicocomportamentali), degli interventi non farmacologici (fisioterapia, ortofonia ecc.) e
l’attivazione di ausili sociali per permettere la permanenza a casa dei pazienti e risparmiare i
collaboratori. Attualmente, il miglioramento delle conoscenze sui meccanismi fisiopatologici della
malattia di Alzheimer permette di sviluppare nuove prospettive terapeutiche a scopo curativo.
IL MORBO DI ALZHEIMER
Il morbo di Alzheimer è il tipo più comune di demenza, un termine generale per le condizioni che si
verificano quando il cervello non funziona più correttamente.
Il morbo di Alzheimer provoca problemi di memoria, di pensiero e di comportamento. Nella fase
iniziale, i sintomi di demenza possono essere minimi, tuttavia, quando la malattia provoca maggiori
danni al cervello, i sintomi peggiorano. La velocità con cui la malattia progredisce è diversa per
ciascuno, tuttavia, in media, le persone che soffrono del morbo di Alzheimer vivono otto anni dopo
che i sintomi si sono manifestati.
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Anche se, attualmente, non esistono trattamenti per fermare la progressione del morbo di
Alzheimer, vi sono farmaci che possono curare i sintomi della demenza. Negli ultimi tre decenni, la
ricerca sulla demenza ha fornito una comprensione molto più approfondita del modo in cui il morbo
di Alzheimer colpisce il cervello. Oggi, i ricercatori continuano a ricercare i trattamenti più efficaci
e una cura, nonché i modi di prevenire il morbo di Alzheimer e migliorare la salute del cervello.
La perdita di memoria e altri sintomi del morbo di Alzheimer
I problemi di memoria, in particolare la difficoltà a ricordare informazioni apprese recentemente,
rappresentano spesso il primo sintomo del morbo di Alzheimer.
Quando invecchiamo, i nostri cervelli cambiano, e possiamo avere problemi occasionali nel
ricordare alcuni dettagli. Tuttavia, il morbo di Alzheimer e le altre demenze causano perdita di
memoria e altri sintomi abbastanza gravi da interferire con la vita di tutti i giorni. Questi sintomi
non rappresentano una parte naturale del processo di invecchiamento.
Oltre alla perdita di memoria, i sintomi del morbo di Alzheimer includono:
Problemi a completare le attività che una volta erano facili.
Difficoltà a risolvere i problemi.
Cambiamenti di umore o della personalità, l‘allontanarsi da amici e familiari.
Problemi di comunicazione, sia scritta sia verbale.
Confusione circa luoghi, persone ed eventi.
Cambiamenti visivi, quali, ad esempio, la difficoltà a comprendere immagini.
I familiari e gli amici possono notare i sintomi del morbo di Alzheimer e di altre demenze
progressive prima che la persona si accorga di questi cambiamenti. Se Lei o qualcuno che conosce
sta soffrendo di possibili sintomi di demenza, è importante chiedere una valutazione medica per
trovarne la causa.
Visiti la nostra pagina web Conosci i 10 primi segni e sintomi del morbo di Alzheimer per sapere di
più sulla differenza tra gli ordinari cambiamenti alla memoria, legati all'età, e il cervello e i sintomi
del morbo di Alzheimer.
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Fattori di rischio per il morbo di Alzheimer
Sebbene non comprendiamo ancora tutte le ragioni per le quali alcune persone sviluppano il morbo
di Alzheimer, mentre altre non ne vengono colpite, la ricerca ci ha dato una migliore comprensione
di quali fattori pongano qualcuno in una fascia di rischio più elevata.
L'età. L'età avanzata rappresenta il massimo fattore di rischio per sviluppare il morbo di Alzheimer.
La maggior parte delle persone cui è stato diagnosticato il morbo di Alzheimer ha 65 anni o più.
Anche se molto meno comune, un'insorgenza del morbo di Alzheimer in un'età più giovane (nota
anche come morbo di Alzheimer a insorgenza precoce) colpisce persone di età inferiore ai 65 anni.
Si stima che fino al 5 per cento delle persone sono affette da Alzheimer a insorgenza giovane.
L‘insorgenza giovane del morbo di Alzheimer è spesso mal diagnosticata.
Membri della famiglia con il morbo di Alzheimer. Se il genitore o un fratello sviluppa il morbo di
Alzheimer, si hanno maggiori probabilità di sviluppare la malattia rispetto a chi non ha un parente
di primo grado con il morbo di Alzheimer. Gli scienziati non riescono completamente a capire che
cosa causi la trasmissione del morbo di Alzheimer nelle famiglie, ma la genetica, i fattori ambientali
e gli stili di vita possono tutti giocare un ruolo.
Genetica. I ricercatori hanno identificato diverse varianti geniche che aumentano la probabilità di
sviluppare il morbo di Alzheimer. Il gene APOE-e4 è il gene a rischio più comune associato con
l’Alzheimer; si stima un ruolo in ben un quarto dei casi di Alzheimer.
I geni deterministici sono diversi da quelli di rischio, in quanto garantiscono che qualcuno
svilupperà una malattia.
L'unica causa nota del morbo di Alzheimer è dovuta all’ereditare un gene deterministico.
L’Alzheimer dovuto a un gene deterministico è raro, e probabilmente si verifica in meno dell'1 per
cento dei casi di Alzheimer. Quando un gene deterministico provoca l’Alzheimer, viene chiamato
"malattia autosomica dominante di Alzheimer "(ADAD, Autosomal Dominant Alzheimer’s
Disease).
Mild Cognitive Impairment (MCI, Deficit cognitivo lieve). I sintomi dell'MCI includono i
cambiamenti nella capacità di pensare, ma questi sintomi non interferiscono con la vita quotidiana e
non sono così gravi come quelle causati dal morbo di Alzheimer o da altre demenze progressive. In
caso di presenza di MCI, particolarmente di MCI che comporta problemi di memoria, aumenta il
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rischio di sviluppare l’Alzheimer ed altre demenze. Tuttavia, l'MCI non sempre progredisce. In
alcuni casi, esso si inverte o rimane stabile.
Malattie cardiovascolari. La ricerca suggerisce che la salute del cervello è strettamente correlata alla
salute del cuore e dei vasi sanguigni. Il cervello riceve l'ossigeno e le sostanze nutritive necessarie
per funzionare normalmente dal sangue, e il cuore è responsabile per il pompaggio del sangue al
cervello. Pertanto, i fattori che causano le malattie cardiovascolari possono anche essere collegati a
un rischio maggiore di sviluppare il morbo di Alzheimer e altre forme di demenza, tra cui il fumo,
l'obesità, il diabete e colesterolo alto e l’ipertensione nella mezza età.
Educazione e morbo di Alzheimer. Gli studi hanno collegato un minor numero di anni di istruzione
formale, con un aumento del rischio di insorgenza del morbo di Alzheimer e delle altre demenze.
Non è chiaro il motivo di questa associazione, ma alcuni scienziati ritengono che più anni di
istruzione formale possano contribuire ad aumentare le connessioni tra i neuroni, permettendo al
cervello di utilizzare percorsi alternativi di comunicazione neurone-neurone, quando si verificano
cambiamenti legati al morbo di Alzheimer e alle altre demenze.
Lesione traumatica del cervello. Il rischio di morbo di Alzheimer e di altre demenze aumenta dopo
una lesione cerebrale traumatica moderata o grave, come un colpo alla testa o una lesione del cranio
che causi amnesia o perdita di coscienza per più di 30 minuti. Il cinquanta per cento delle lesioni
cerebrali traumatiche sono causate da incidenti automobilistici. Le persone che subiscono lesioni
cerebrali ripetute, come gli atleti e chi è impegnato in operazioni di combattimento, sono
egualmente a maggiore rischio di sviluppare demenza e compromissione.
AIUTI PRATICI PER CHI ASSISTE I MALATI DI ALZHEIMER
La RETE SOCIALE costituita da un buon vicinato, da reti amicali, da realtà di volontariato, da una
rete istituzionale di servizi del Comune di appartenenza, soprattutto laddove esiste una RETE
INTEGRATA (assistenza domiciliare, centro diurno, RSA, ricoveri temporanei di sollievo)
dovrebbe essere in grado di rilevare i bisogni della famiglia portatrice del problema demenza e
fornire, oltre che un aiuto fattivo, anche una utile e necessaria informazione per la comprensione e
la gestione delle problematiche connesse alla demenza.
Ciò eviterebbe l'esasperazione estrema delle famiglie ed un utilizzo migliore delle risorse umane e
materiali.
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L'assistenza può essere talvolta molto difficile; tuttavia, vi sono diversi accorgimenti utili per far
meglio fronte alla situazione; ne elenchiamo alcuni, che si sono rivelati utili in diversi casi.
Stabilire una routine e mantenere uno standard di normalità
Lo stabilire una routine, nella vita dell'ammalato, può diminuire il numero di decisioni da prendere
e contribuire a mantenere un ordine e una struttura nella sua vita quotidiana, che sarebbe altrimenti
confusa. La presenza di una routine può infatti rappresentare un punto di riferimento sicuro per la
persona con AD. Sebbene una routine possa essere di aiuto, è importante mantenere le cose, per
quanto possibile, immutate: per esempio, trattare il paziente, per quanto le sue mutate condizioni lo
consentano, come si faceva prima della malattia.
Sostenere l'autonomia del paziente
È necessario che la persona rimanga indipendente il maggior tempo possibile, sia per preservare la
sua autostima sia per diminuire il carico dell'assistenza.
Aiutare la persona a conservare la propria dignità
Occorre tenere in mente che il paziente assistito è ancora un individuo che sperimenta emozioni e
sentimenti; pertanto ciò che viene detto può avere, per lui, un effetto disturbante. Occorre evitare
discussioni circa le condizioni del paziente in sua presenza.
Evitare scontri
Qualsiasi tipo di conflitto causa uno stress inutile sia alla persona che assiste sia al malato. Occorre
evitare di far notare gli insuccessi, mantenendo invece una calma compostezza. L'indisporsi può
solo peggiorare la situazione: occorre infatti ricordare che quanto accade dipende dalla malattia, e
non dal paziente.
Stabilire compiti semplici
È utile proporre compiti semplici al malato di AD; non bisogna porlo di fronte a troppe scelte.
Mantenere il senso dell'umorismo
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Ridere con la persona affetta da AD, ma non di lui. L'umorismo può essere un ottimo modo per
trarre sollievo dallo stress.
Fare attenzione alle norme di sicurezza
La perdita della coordinazione fisica e della memoria accrescono la possibilità di incidenti; pertanto
occorre rendere l'abitazione in cui vive il malato la più sicura possibile.
Incoraggiare il mantenimento di una buona forma fisica e di buone condizioni di salute
In molti casi, questo atteggiamento può aiutare la persona a conservare le proprie abilità fisiche e
mentali più a lungo. Il livello di esercizio più appropriato dipende dalle condizioni individuali.
È opportuno consultare il proprio medico per avere indicazioni più specifiche.
Aiutare il paziente a fare il migliore uso delle abilità esistenti
Lo svolgimento di alcune attività pianificate può rafforzare e promuovere un senso di dignità e di
valore personale, dando uno scopo e un significato alla vita. Una persona che una volta si occupava
di costruzioni, di giardinaggio, o che era nel commercio o negli affari può trarre soddisfazione
dall'utilizzare ancora alcuni tipi di abilità connesse a questi lavori. Occorre ricordare, tuttavia, che
essendo l'AD progressiva, ciò che interessa o non interessa e le abilità possono cambiare nel corso
del tempo; ciò richiederà un'attenzione e una flessibilità particolari nella pianificazione delle
attività.
Mantenere aperta la comunicazione
Con l'avanzare della malattia, la comunicazione con il malato può diventare più difficile. Può essere
d'aiuto per chi assiste il paziente:
accertarsi della integrità dei suoi sensi, come la vista e l'udito (la prescrizione degli occhiali può non
essere più adeguata o l'apparecchio acustico può non funzionare correttamente);
parlare chiaramente, lentamente, viso a viso, e guardando la persona negli occhi;
mostrare affetto e calore attraverso il contatto fisico, se questo è gradito dalla persona;
prestare attenzione al linguaggio del corpo: la persona le cui capacità di linguaggio verbale sono
compromesse può comunicare attraverso messaggi non-verbali;
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essere consapevoli del proprio linguaggio corporeo;
individuare quale combinazione di parole-chiave (parole facili da ricordare che ne possono
suggerire altre), suggerimenti e spiegazioni è necessaria per poter comunicare efficacemente con la
persona ammalata;
assicurarsi che il paziente sia attento prima di rivolgergli la parola.
Utilizzare dei supporti per facilitare la memoria
Nelle prime fasi dell'AD, alcuni specifici supporti per la memoria possono aiutare la persona a
ricordare meglio e a prevenire la confusione. I seguenti esempi si sono dimostrati efficaci: mettere a
disposizione del paziente delle immagini fotografiche dei suoi congiunti, di grandi dimensioni e
recanti i nomi di questi ultimi, in modo che egli possa tenere a mente chi sono; contrassegnare le
porte delle camere con parole e colori brillanti e differenti.
Va tuttavia precisato che queste forme di supporto per la memoria del paziente non risulteranno
altrettanto utili nelle fasi più avanzate della malattia.
Suggerimenti pratici per affrontare i cambiamenti prodotti dalla malattia
I seguenti suggerimenti derivano dalle esperienze di chi assiste i pazienti affetti da AD: è possibile
che per alcuni di essi riesca difficile metterli in pratica. Bisogna però ricordare che nessuno è
perfetto, e che una persona che ha il compito di assistere può solo fare del suo meglio.
Igiene personale
Il paziente con AD può dimenticare di lavarsi o, più avanti, non rendersi conto di questa necessità, o
può avere dimenticato quello che deve fare in questo campo. In questa situazione, è importante
rispettare la dignità della persona quando gli si offre aiuto.
Suggerimenti:
mantenere nel campo dell'igiene personale, per quanto possibile, le precedenti abitudini;
tentare di rendere il "bagno" una situazione rilassante e piacevole;
la doccia può essere più facile da farsi rispetto al bagno, ma se la persona ammalata non l'ha mai
usata in precedenza, può allarmarsi;
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semplificare al massimo il compito in questione;
se il paziente rifiuta di farsi il bagno, provare di nuovo a proporlo più tardi, quando l'umore del
paziente può essere mutato;
permettere al paziente di fare da solo, per quanto possibile;
se il paziente appare imbarazzato, tenere alcune parti del corpo coperte, mentre lo si aiuta a fare il
bagno;
fare attenzione alle norme di sicurezza; può essere utile impiegare punti di appoggio ben fissati
(come delle sbarre) alle quali potersi afferrare, superfici antiscivolamento, o girelli;
se la proposta di fare un bagno crea regolarmente un conflitto, un lavaggio eseguito con la persona
in piedi può risultare più pratico;
se si creano continuamente problemi in questo ambito, può essere utile farsi sostituire da un'altra
persona.
Abbigliamento
Il paziente con AD può dimenticare come si fa a vestirsi e può non riconoscere la necessità di
cambiare i propri indumenti. I pazienti con AD possono talvolta comparire in pubblico con un
abbigliamento inadeguato.
Suggerimenti:
riporre gli abiti nello stesso ordine con cui devono essere indossati;
evitare vestiti con chiusure complicate;
incoraggiare l'indipendenza del soggetto nel vestirsi da solo il più a lungo possibile;
far ripetere gli atti, se necessario;
utilizzare scarpe con suole non scivolose.
Servizi igienici e incontinenza
Il paziente con AD può perdere la capacità di riconoscere il bisogno di andare alla toilette,
dimenticare dove questa si trova o che cosa fare una volta che vi è giunto.
Suggerimenti:
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creare uno schema che faciliti il percorso sino al bagno;
contrassegnare la porta di questa stanza con colori brillanti e lettere di grandi dimensioni;
lasciare la porta della stanza da bagno aperta, in modo che per il paziente sia più facile ritrovarla;
utilizzare per il paziente abiti che si possano togliere rapidamente;
limitare le bevande prima che il paziente si corichi alla sera;
lasciare una comoda o un vaso da notte accanto al letto;
chiedere consigli allo specialista.
Cucinare
Per il paziente con AD la capacità di cucinare può venir meno negli ultimi stadi della malattia; ciò
crea gravi problemi, soprattutto se la persona vive sola, e la espone inoltre al rischio di incidenti. La
scarsa coordinazione fisica può portare anche a bruciature e tagli.
Suggerimenti:
valutare se la persona è effettivamente ancora in grado di cucinare;
svolgere questa attività in compagnia del paziente;
installare dispositivi di sicurezza;
rimuovere tutti gli oggetti appuntiti e taglienti;
provvedere a pasti già preparati e sorvegliare che il cibo assunto sia sufficiente da un punto di vista
nutrizionale.
Alimentazione
I pazienti dementi spesso dimenticano se hanno mangiato, o come usare le posate. Nelle ultime fasi
della malattia il paziente può aver bisogno di essere imboccato. Possono poi insorgere altri problemi
fisici, come difficoltà nella masticazione e nella deglutizione.
Suggerimenti:
ricordare al paziente come si fa a mangiare;
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far impiegare le dita per mangiare; questa procedura può facilitare il compito al paziente e può non
risultare particolarmente sconveniente;
tagliare il cibo in piccoli pezzi, per prevenire episodi di soffocamento. Nelle ultime fasi della
malattia può essere necessario triturare il cibo o utilizzare alimenti liquidi;
ricordare al paziente di mangiare lentamente;
essere consapevoli del fatto che la persona può non essere più in grado di avvertire la temperatura
(calda o fredda) degli alimenti, e può scottarsi la bocca quando assume cibi o bevande calde;
quando il paziente ha difficoltà a deglutire, consultare il proprio medico affinché egli suggerisca
delle tecniche volte a facilitare questa funzione;
servire una porzione di cibo alla volta.
Guida di autoveicoli
Può essere pericoloso, per il paziente con AD, guidare un autoveicolo a causa del rallentamento dei
tempi di reazione e della compromissione delle capacità critiche e di giudizio.
Suggerimenti:
discutere gentilmente di questo problema con la persona ammalata;
consigliare di utilizzare i trasporti pubblici, quando possibile;
se non si riesce a dissuadere il paziente dalla guida, può essere necessario consultare il medico o le
autorità competenti.
Alcol e sigarette
Non vi sono controindicazioni a un uso moderato di alcol se non sono presenti interazioni con la
terapia farmacologica in corso. Le sigarette sono invece più pericolose, a causa del rischio di
incendi e di un possibile danno alla salute.
Suggerimenti:
fare attenzione alla persona quando fuma, o scoraggiare il fumo del tutto, anche con l'aiuto di una
prescrizione medica;
valutare le possibili interazioni tra alcol e farmaci con il proprio medico curante.
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Insonnia
Il paziente con AD può essere agitato durante la notte e disturbare la famiglia: questo può
rappresentare il problema più acuto per chi assiste questi pazienti.
Suggerimenti:
scoraggiare il sonno durante il giorno;
indurre il paziente a camminare a lungo o a una maggiore attività fisica diurna;
mettere, per quanto possibile, il paziente a suo agio al momento di andare a letto.
Comportamenti ripetitivi
Il paziente con AD può non ricordare di aver detto una cosa un momento prima: ciò può portare ad
azioni e domande ripetitive.
Suggerimenti:
provare a distrarre il paziente, offrendogli qualcosa da guardare, da ascoltare, o da fare;
scrivere la risposta alle domande poste dal paziente ripetutamente;
rassicurare il paziente con un atteggiamento caldo e affettivo, se questo è per lui utile.
Attaccamento
Il paziente con AD può diventare estremamente dipendente dalla persona che lo assiste e seguirla
ovunque: ciò può essere frustrante, difficile da gestire, e può limitare la propria intimità. Questo
comportamento può derivare dal timore del paziente che la persona in questione si allontani per poi
non tornare più, e quindi essere causato da un sentimento più globale di insicurezza.
Suggerimenti:
fare in modo che durante la propria assenza, l'attenzione del paziente sia occupata da qualcosa;
utilizzare delle persone di compagnia per poter avere del tempo per sé.
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Perdite di oggetti e accuse di furto
Il paziente con AD spesso dimentica dove ha riposto gli oggetti e può accusare gli altri di averli
trafugati. Questi atteggiamenti dipendono dall'insicurezza del paziente, dalla sua sensazione di
perdita del controllo e dalla sua difficoltà a ricordare.
Suggerimenti:
cercare di scoprire se il paziente ha un luogo consueto ove ripone gli oggetti;
avere a disposizione un duplicato degli oggetti importanti, come le chiavi;
controllare che non siano presenti oggetti nei sacchetti dell'immondizia;
rispondere alle accuse della persona gentilmente, e non in maniera difensiva;
convenire con il paziente che l'oggetto in questione è stato perduto e che lo si aiuterà a ritrovarlo.
Deliri e allucinazioni
Non è insolito che pazienti con AD presentino deliri e allucinazioni. Il delirio è una falsa credenza:
per esempio il malato può essere convinto di essere danneggiato o minacciato dalla persona che lo
assiste. Tale pensiero è considerato, dalla persona affetta da demenza, come assolutamente vero e
reale e crea in lui uno stato di paura che può sfociare in comportamenti auto-difensivi inadeguati.
Se il paziente manifesta allucinazioni, può vedere o sentire persone che non ci sono: per esempio,
vedere figure ai piedi del letto o udire persone che stanno parlando nella stessa camera.
Suggerimenti:
non discutere circa la veridicità delle esperienze visive o uditive riferite dal paziente;
quando la persona è spaventata, tentare di rassicurarla; una voce calma o il contatto di una mano
possono servire a tal fine;
distrarre il paziente richiamando la sua attenzione su un oggetto reale che si trova nella camera;
consultare il proprio medico a proposito della terapia farmacologica in corso, che potrebbe
contribuire al manifestarsi del problema.
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CENNI SU DEMENZA VASCOLARE
Inquadramento della demenza vascolare
La demenza vascolare è una forma di deficit cognitivo determinata dall'alterazione della
circolazione sanguigna cerebrale conseguente a eventi acuti, come un ictus o un'emorragia
cerebrale, o a patologie croniche, come l'aterosclerosi.
Come negli altri tipi di demenza, anche in questo caso il deterioramento delle capacità intellettive
dipende da una degenerazione delle cellule nervose presenti nell'area cerebrale colpita, ma a
determinare il danno neuronale in questo caso è principalmente il venir meno di un adeguato
rifornimento di ossigeno e sostanze nutritive (in particolare, glucosio).
Oltre all'età superiore ai 60 anni, il rischio di andare incontro a ictus o patologie cerebrovascolari
croniche e sviluppare secondariamente demenza vascolare è aumentato dalla presenza di diabete,
ipertensione, alti livelli di colesterolo nel sangue, malattie cardiache (in particolare, storia di infarto
miocardico e fibrillazione atriale) e dall'abitudine al fumo. In genere, gli uomini tendono a essere
interessati da demenza vascolare più spesso delle donne, soprattutto dopo i 70 anni.
Sintomi e Diagnosi della demenza vascolare
I sintomi che possono manifestarsi in presenza di demenza vascolare possono variare da paziente a
paziente in funzione della specifica zona del cervello interessata dalla riduzione della circolazione
sanguigna e possono comprendere manifestazioni cognitive/comportamentali e disturbi motori di
varia natura e gravità. La loro insorgenza può essere improvvisa (come avviene dopo un ictus)
oppure lenta e caratterizzata da peggioramento progressivo (ad es., in caso di micro-ictus ripetuti o
in presenza di aterosclerosi diffusa).
I sintomi cognitivi e comportamentali più comuni sono:
Confusione mentale
Difficoltà di concentrazione/facile distraibilità
Difficoltà nel prendere decisioni, nel pianificare attività mediamente complesse
Problemi di memoria/apprendimento
Difficoltà del linguaggio
Disturbi dell'equilibrio
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Aumento del bisogno di urinare o problemi a controllare lo stimolo
Maggior tendenza ad avere reazioni impulsive
Agitazione
Depressione
Ansia e/o irritabilità
Vagabondaggio durante la notte
Nelle demenze vascolari a esordio lento e progressivo la diagnosi differenziale rispetto alla malattia
di Alzheimer può essere difficile. Per questa ragione il medico, oltre alla visita neurologica
prescriverà una serie di accertamenti clinici e strumentali quali analisi del sangue e del fluido
cerebrospinale ed esami neuroradiologici dell'encefalo con risonanza magnetica funzionale (RMf) o
tomografia a emissione di positroni (PET).
Trattamento della demenza vascolare
Attualmente, non si hanno a disposizione trattamenti specifici per contrastare una demenza
vascolare dopo che si è instaurata. Si può, però, cercare di frenare l'evoluzione del danno cerebrale
ed evitare che la situazione peggiori riducendo l'impatto negativo dei principali fattori di rischio,
attraverso buone regole di vita (alimentazione equilibrata, ricca di frutta e verdura, pesce, cereali
integrali, oli vegetali, e frutta secca; attività fisica regolare; pochi alcolici; niente fumo; controllo
del peso corporeo) e terapie mirate (soprattutto, in caso di ipertensione, ipercolesterolemia, diabete
e patologie cardiache).
DEMENZA FRONTOTEMPORALE
La Degenerazione frontotemporale ( FTD) è un processo patologico che provoca danni progressivi
ai lobi temporali e / o frontali anteriore del cervello . Essa provoca un insieme di disturbi molto
simili dal punto di vista clinico. Il segno distintivo della FTD è un graduale , progressivo declino
nel comportamento e / o linguaggio ad esordio spesso precoce (tra i 50 e i 60 ), ma è accaduto anche
a ventenni e a persone con più di 80 anni. Mano a mano che la malattia progredisce, diventa sempre
più difficile per le persone pianificare e organizzare le proprie attività , comportarsi in modo
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appropriato in contesti sociali o di lavoro, interagire con gli altri , e prendersi cura di se stessi , con
conseguente diminuzione dell’ indipendenza…
La FTD rappresenta circa il 10 % -20 % dei casi di demenza ed è riconosciuta come una delle
demenze più comuni fra i giovani . Si stima che la FTD colpisca circa 50.000-60.000 americani. Si
verifica in modo uguale in uomini e donne. In una piccola percentuale di casi, è ereditaria .
Mentre al momento non ci sono trattamenti per rallentare o fermare la progressione della malattia,
la ricerca è in espansione, e aumenta la conoscenza dei disturbi . Prevediamo che questa si tradurrà
in un numero crescente di potenziali terapie in sperimentazione clinica che entrano in vigore nei
prossimi anni.
Caratteristiche cliniche
I lobi frontali del cervello sono associati con il processo decisionale e il controllo del
comportamento, e i lobi temporali, con emozioni e linguaggio. Mentre la FTD è segnata da una
serie di comportamento, personalità, e cambiamenti cognitivi, diversi sottotipi della malattia sono
stati identificati sulla base di sintomi distinti e presentazione clinica.
La Degenerazione frontotemporale è caratterizzata dalla perdita di empatia e da turbe ingravescenti
del comportamento sociale, ed è conosciuta clinicamente come variante comportamentale della
FTD (bvFTD), malattia di Pick, o variante frontale FTD (fvFTD). Quando predominano i problemi
di linguaggio, si definisce Afasia progressiva primaria (PPA). La FTD con malattia del
motoneurone, la sindrome cortico-basale, e la paralisi sopranucleare progressiva sono sottotipi di
FTD caratterizzati da debolezza muscolare, rigidità e / o sintomi parkinsoniani.
MALATTIA DI PICK
La malattia di Pick, o morbo di Pick (da non confondersi con la malattia di Niemann-Pick) è una
malattia cerebrale degenerativa poco comune (10-15 volte meno frequente della malattia di
Alzheimer), clinicamente caratterizzata da demenza. È attualmente considerata una patologia
appartenente ai quadri sindromici delle Demenze Fronto-Temporali (FTD).
Il quadro anatomopatologico è caratterizzato da atrofia dell'area fronto-temporale e dalla presenza
di caratteristiche alterazioni neuronali costituite dai corpi di Pick. I corpi di Pick sono inclusioni
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intracellulari filamentose composte da neurofilamenti, simili alle inclusioni osservate nella malattia
di Alzheimer.
Le alterazioni comportamentali si manifestano come stati di agitazione psicomotoria (wandering o
deambulazione afinalistica: è un po' come se il paziente fosse una tigre in gabbia che cammina
avanti ed indietro). Talvolta i soggetti che ne sono affetti manifestano la loro ansia con crisi di
violenza inaudita ovvero con crisi di panico e di pianto. In genere è alterato completamente il
carattere e la personalità del paziente, il quale presenta persino un bassissimo livello di inibizione.
La sindrome è facilmente confondibile con la malattia di Alzheimer con cui è talora associata. A
differenza del vero demente, il malato di Pick perde le proprie capacità espressivo-espositive molto
più rapidamente, ma non quelle di lettura e di scrittura, che invece sono conservate più a lungo nel
tempo.
La patogenesi è sconosciuta, e le terapie, analogamente a quelle della malattia di Alzheimer, sono a
livello sperimentale. Importantissima, come nelle altre demenze, la terapia di supporto.
MORBO DI PARKINSON
Il morbo di Parkinson è una malattia degenerativa del sistema nervoso centrale. E’ stata descritta
per la prima volta nel 1817 da James Parkinson, un medico britannico che pubblicò un saggio su ciò
che lui chiamava la paralisi agitante; in questo saggio espone i principali sintomi della malattia, a
cui più darti è stato dato il suo nome.
I ricercatori stimano che almeno 500.000 persone nei soli Stati Uniti hanno il morbo di Parkinson,
sebbene alcune stime risultino anche più alte. La società paga un enorme prezzo per il morbo di
Parkinson: il costo totale negli USA è stato stimato eccedere i 6 miliardi di dollari all’anno. Il
rischio di sviluppare il morbo di Parkinson aumenta con l’età, cosi gli analisti si aspettano che
l’impatto finanziario e pubblico sulla salute peggiori con l’invecchiamento della popolazione.
Il morbo di Parkinson appartiene al gruppo di condizioni patologiche che provocano disturbi di
movimento. I quattro principali sintomi sono:
tremito, o tremore nelle mani, nelle braccia, nelle gambe, alla mascella, o alla testa;
rigidità degli arti e al tronco;
bradicinesia, ossia lentezza nei movimenti;
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instabilità di posizione, o equilibrio indebolito.
Questi sintomi iniziano gradualmente e peggiorano con il tempo; poichè si fanno più marcati, i
pazienti potrebbero arrivare ad avere delle difficoltà nel camminare, parlare o completare altre
semplici azioni. Non tutti quelli che presentano uno o più di questi sintomi ha il morbo di
Parkinson, poiché questi sintomi a volte si presentano anche in altre malattie.
Il morbo di Parkinson è cronico, cioè che persiste per un lungo periodo di tempo, progressivo, ossia
si aggrava con il tempo.
Non è contagioso: sebbene alcuni casi di morbo di Parkinson sembrino essere ereditari, e pochi
possono essere attribuiti a specifiche mutazioni genetiche, la maggior parte dei casi sono sporadici e
la malattia non sembra trasmettersi in famiglia. Attualmente molti ricercatori credono che il morbo
di Parkinson derivi dalla combinazione della predisposizione genetica con l’esposizione a uno o più
fattori ambientali concausa della malattia.
Il morbo di Parkinson è la più comune forma di parkinsonismo, il nome di un gruppo di malattie
con caratteristiche e sintomi simili; è anche chiamato parkinsonismo primario o morbo di Parkinson
idiopatico, il termine idiopatico sta ad indicare una malattia per la quale non è stata trovata ancora
nessuna causa. Mentre la maggior parte delle forme di parkinsonismo sono idiopatiche, ci sono dei
casi in cui la causa è conosciuta o sospetta o in cui i sintomi sono causati da un’altra malattia: ad
esempio il parkinsonismo può essere causato da cambiamenti nei vasi sanguigni del cervello.
Cause
Il morbo di Parkinson è dovuto dal punto di vista biochimico alla degenerazione cronica e
progressiva che interessa soprattutto alcune strutture del sistema nervoso centrale, in particolare
dove viene prodotta la dopamina, un neurotrasmettitore essenziale per il controllo dei movimenti
corporei: in altre parole diminuisce la quantità disponibile nell’organismo di una sostanza legata al
controllo dei movimento, la dopamina.
Il morbo colpisce circa per il 50% in più gli uomini delle donne, ma le ragioni di questa discrepanza
non sono chiare; sebbene venga riscontrato in persone di ogni parte nel mondo, numerosi studi
hanno riscontrato una più alta incidenza nei paesi sviluppati. Altri studi hanno riscontrato un
aumentato rischio nelle persone che vivono nelle zone rurali ed in quelle che svolgono certe
112
professioni, anche se gli studi fino a oggi non sono conclusivi e le cause alla base dei fattori di
rischio non sono chiare.
Sicuramente può comparire in seguito a traumi alla testa (è molto diffuso tra ex pugili), esposizione
a sostanze tossiche nell’ambiente ed arteriosclerosi cerebrale.
Un causa certa di aumento della frequenza di comparsa del morbo di Parkinson è l’età: l’età media
dei sintomi iniziali è di 60 anni e l’incidenza sale significativamente con l’aumentare dell’età. Circa
il 5-10% delle persone con il morbo di Parkinson presentano i primi sintomi della malattia prima dei
50 anni e spesso queste forme si rivelano ereditarie e, benché non sempre, ricollegati a specifiche
mutazioni geniche.
Le persone con uno o più parenti stretti che hanno il morbo di Parkinson hanno un aumentato
rischio di contrarre anch’essi la malattia, ma il rischio totale è soltanto dal 2 al 5 % esclusi i casi con
una nota mutazione genetica per la malattia. Si stima che dal 15 al 25% di malati ha un parente
stretto con la stessa malattia.
In casi molto rari i sintomi parkinsoniani potrebbero manifestarsi in persone che hanno meno di 20
anni di età, questa condizione è chiamata parkinsonismo giovanile. Si trova più comunemente in
Giappone, ma si conoscono casi anche in altri paesi: di solito inizia con distonia e bradicinesia
(entrambi disordini del movimento) e i sintomi spesso migliorano con l’uso del farmaco levodopa.
Il Parkinsonismo giovanile spesso si trasmette in famiglia ed a volte è collegato ad un gene mutato.
Sebbene esistano molte teorie sulla causa del morbo di Parkinson, nessuna è stata provata. La teoria
prevalente sostiene che uno o più fattori ambientali hanno causato la malattia: sintomi gravi come
quelli di Parkinson sono stati descritti in persone che facevano uso di droghe illegali contaminate da
MPTP chimico e in persone che hanno contratto una particolare e grave forma di influenza durante
un’epidemia agli inizi del 1918. Recenti studi su gemelli e su famiglie con il Parkinson
suggeriscono che alcune persone hanno una predisposizione ereditaria alla malattia che può essere
influenzata da fattori ambientali. La forte ereditarietà familiare del gene cromosoma 4 è la prima
evidenza che un’alterazione genica da sola può portare a sviluppare il morbo di Parkinson.
Sintomi
I primi sintomi del morbo di Parkinson sono lievi e si presentano gradualmente. Le persone affette
potrebbero :
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avvertire lievi tremolii,
avere difficoltà a rialzarsi da una sedia,
accorgersi che parlano troppo piano,
avere una scrittura lenta e che sembra illeggibile o piccola,
perdere il filo del discorso o del pensiero,
sentirsi stanchi, irritabili, depressi senza un apparente motivo
Questo primissimo periodo potrebbe durare molto tempo prima che i sintomi più classici ed evidenti
si manifestino: gli amici o i familiari potrebbero essere i primi a notare dei cambiamenti in qualcuno
con un morbo di Parkinson iniziale. Potrebbero notare che il suo viso appare privo di espressione e
vivacità (faccia amimica) o non più in grado di muovere normalmente un braccio o una gamba.
Potrebbero notare anche che sembra irrigidito, instabile od insolitamente lento.
Col progredire della malattia il tremore che colpisce la maggior parte dei pazienti con il morbo di
Parkinson potrebbe iniziare a interferire con le attività quotidiane: i malati potrebbero non essere
più in grado di tenere utensili fermi o potrebbero rendersi conto che il tremolio rende difficile la
lettura di un giornale.
Il tremore è di solito il sintomo che causa la necessità di cure mediche.
Le persone con morbo di Parkinson spesso sviluppano la cosiddetta andatura parkinsoniana che
comprende:
una tendenza a sporgersi in avanti,
piccoli passi veloci come se si affrettasse in avanti,
ridotta oscillazione delle braccia.
Potrebbero avere anche delle difficoltà ad iniziare un movimento e potrebbero fermarsi
improvvisamente mentre camminano.
Il morbo di Parkinson non colpisce tutti allo stesso modo e il ritmo di progressione differisce tra i
pazienti: il tremore è il principale sintomo per alcuni pazienti, mentre per altri il tremore è
inesistente o molto lieve.
114
I sintomi del morbo di Parkinson spesso si manifestano inizialmente in una sola metà del corpo
(sinistra o destra), ma con il tempo colpirà entrambi i lati (anche se spesso i sintomi sono meno
gravi in una parte rispetto all’altra).
I quattro principali sintomi comunque sono:
Tremore. Il tremore associato al morbo di Parkinson ha una manifesta caratteristica: prende la
forma di un movimento ritmico in cui è possibile individuare 4-6 battiti al secondo. Potrebbe colpire
il pollice e l’indice, spesso inizialmente solo in una mano, sebbene a volte un piede o la bocca siano
le prime parti colpite. E’ molto evidente quando la mano è ferma o la persona si trova sotto stress.
Ad esempio il tremore potrebbe diventare più pronunciato pochi secondi dopo che le mani si sono
appoggiate sul tavolo. Il tremore di solito scompare durante il sonno o migliora con movimenti
intenzionali.
Rigidità. La rigidità, o resistenza al movimento, colpisce la maggior parte delle persone con il
morbo di Parkinson. Il principio più importante del movimento del corpo è che tutti i muscoli hanno
un muscolo opposto: il movimento è possibile non solo perchè un muscolo diventa più attivo, ma
perchè l’opposto si rilassa. Nel morbo di Parkinson la rigidità si avverte quando , in risposta ai
segnali dal cervello, il delicato equilibrio muscolare è disturbato. I muscoli rimangono
costantemente tesi e contratti, cosicché la persone avverte dolore o si sente irrigidita e debole. La
rigidità diventa evidente quando un’altra persona cerca di muovere il braccio del paziente, che si
muoverà solo con movimenti a scatti o brevi.
Bradicinesia . La bradicinesia, o lentezza dei movimenti, è particolarmente frustrante perchè può
rendere delle semplici azioni alquanto difficili. La persona non riesce ad eseguire rapidamente
movimenti quotidiani, le attività che prima eseguiva rapidamente e facilmente, come lavare o
vestirsi, potrebbero richiedere tempi molto più lunghi.
Instabilità di posizione. L’instabilità di posizione, o equilibrio indebolito, causa ai pazienti un alto
rischio di caduta. Le persone affette potrebbero anche sviluppare una posizione curva nella quale la
testa è chinata e le spalle sono calate.
Molti altri sintomi potrebbero accompagnare il morbo di Parkinson. Alcuni lievi altri più
invalidanti: la maggior parte può essere curata con farmaci o con fisioterapia, ma nessuno può
predire quali sintomi colpiranno un singolo paziente e con quale intensità. Ricordiamo fra gli altri:
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Depressione. Questo è un problema comune e può manifestarsi presto nel corso nel corso della
malattia, persino prima che vengano notati gli altri sintomi. Per fortuna la depressione di solito può
essere curata con successo con antidepressivi.
Sbalzi di umore. Alcune persone con il morbo di Parkinson diventano paurosi e insicuri. Forse
hanno paura di non riuscire a far fronte alla nuova situazione. Non vogliono viaggiare , andare alle
feste, o socializzare con gli amici. Alcuni perdono motivazione e diventano dipendenti dai loro
familiari, altri possono diventare irritabili o pessimisti.
Difficoltà nell’inghiottire e nel masticare. I muscoli usati per masticare potrebbero funzionare in
maniera meno efficiente negli ultimi stadi della malattia. In questi casi cibo e saliva potrebbero
accumularsi nella bocca e tornare indietro nella gola, causando soffocamento o bave. Questi
problemi potrebbero anche rendere difficile un’adeguata alimentazione. I logopedisti, gli
ergoterapeuti e i dietisti spesso possono essere d’aiuto per questi problemi.
Cambiamenti nel linguaggio. Circa la metà di tutti i pazienti hanno problemi di linguaggio.
Potrebbero parlare troppo piano o in tono monotono, esitare prima di parlare, pronunciare in modo
confuso o ripetere le parole, parlare troppo velocememte. Un logopedista potrebbe riuscire ad
aiutare i pazienti a ridurre alcuni di questi problemi.
Problemi urinari o di stitichezza. In alcuni pazienti i problemi alla vescica e all’intestino possono
manifestarsi a causa dell’irregolare funzionamento del sistema nervoso, che è responsabile della
regolazione dell’attività dei muscoli interessati. Alcune persone potrebbero diventare incontinenti,
mentre altre potrebbero avere dei disturbi urinando. Altri potrebbero avere problemi di stitichezza
perchè l’apparato intestinale funziona più lentamente. La stitichezza può anche essere causata
dall’inattività, scarsa alimentazione o bevendo pochi liquidi. I farmaci usati per curare il morbo di
Parkinson possono anche essere d’aiuto per la stitichezza. Può anche essere un problema persistente
e, in rari casi, può essere abbastanza grave da richiedere il ricovero in ospedale.
Problemi alla pelle. Con il morbo di Parkinson è comune per la pelle del viso diventare grassa,
specialmente sulla fronte e sul naso. Anche il cuoio capelluto potrebbe diventare grasso, facendo
quindi comparire forfora. In altri casi la pelle potrebbe diventare molto secca. Questi problemi sono
anche causati da un irregolare funzionamento del sistema nervoso autonomo. Le cure standard per i
problemi della pelle possono essere d’aiuto. L’eccessiva sudorazione, un altro comune sintomo, è di
solito controllabile con i farmaci usati per il morbo di Parkinson.
116
Problemi del sonno. I problemi del sonno, comuni con il morbo di Parkinson, includono difficoltà a
mantenere il sonno di notte, sonno agitato, incubi e sogni emotivi, sonnolenza o improvviso sonno
durante il giorno.
Demenza o altri problemi cognitivi. Alcune persone, ma non tutte, con il morbo di Parkinson
potrebbero sviluppare problemi di memoria e pensiero lento. In alcuni di questi casi i problemi
cognitivi si aggravano portando ad una condizione chiamata demenza di Parkinson nel tardo corso
della malattia. Questa demenza potrebbe colpire la memoria, la capacità si giudizio sociale,
linguaggio, ragionamento o altre abilità mentali. Attualmente non esiste un metodo per fermare la
demenza di Parkinson, ma si ipotizza che un farmaco chiamato rivastigmina potrebbe ridurre
leggermente i sintomi comportamentali in alcune persone con demenza di Parkinson.
Ipotensione ortostatica. L’ipotensione ortostatica è un improvviso calo della pressione sanguigna
quando una persona si alza in piedi da una posizione distesa causando vertigini e, in casi estremi,
perdita di equilibrio o svenimento. Alcuni studi hanno suggerito che, nel morbo di Parkinson,
questo problema deriva da una perdita delle terminazioni nervose nel sistema nervoso simpatico che
controlla la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e altre funzioni automatiche del corpo. I
farmaci usati per curare il morbo di Parkinson potrebbero essere d’aiuto per questi sintomi.
Crampi ai muscoli e distonia. La rigidità e la mancanza del normale movimento associate al morbo
di Parkinson spesso causano crampi ai muscoli, soprattutto alle gambe e alle dita dei piedi.
Massaggi, stretching, calore potrebbero essere d’aiuto per questi crampi. Il morbo di Parkinson può
anche essere associato a distonia, ossia prolungate contrazioni dei muscoli che causano posizioni
forzate o distorte. La distonia nel morbo di Parkinson è spesso causata da oscillazioni del livello di
dopamina nel corpo. Di solito può essere alleviata o ridotta regolando le dosi di farmaci della
persona.
Dolore. Molte persone con il morbo di Parkinson sviluppano dolore ai muscoli e alle articolazioni a
causa della rigidità e posizioni anormali spesso associate alla malattia. La cura con levodopa ed altri
farmaci dopaminergici (che mimano l’azione della dopamina) spesso allevia questi dolori per un
periodo. Nelle persone con il morbo di Parkinson potrebbe anche manifestarsi dolore dovuto alla
compressione delle radici nervose o spasmi dei muscoli relativi a distonia. In rari casi possono
sviluppare inspiegabile bruciore e sensazioni di dolore acuto. Questo tipo di dolore, chiamato dolore
neuropatico, ha origine nel cervello. I farmaci dopaminergici, gli oppiacei, gli antidepressivi e altri
tipi di farmaci possono essere tutti usati per questo tipo di dolore.
117
Stanchezza e perdita di energia. Le insolite esigenze di vita con il morbo di Parkinson spesso
portano a problemi di stanchezza, soprattutto verso la fine della giornata. La stanchezza potrebbe
essere associata a depressione o a disordini del sonno, ma potrebbe essere anche causata da stress
dei muscoli o da un’eccessiva attività quando la persona si sente bene. La stanchezza potrebbe
anche essere causata da acinesia, ossia disturbi nelle fasi iniziali o avanzate di un movimento.
Esercizio, buone abitudini di sonno, restare attivi mentalmente e non sforzarsi nel fare troppe
attività in poco tempo potrebbero aiutare ad alleviare la stanchezza.
Diagnosi
Il morbo di Parkinson viene di solito diagnosticato da un neurologo che valuta i sintomi e la loro
gravità. Non c’è un test che può chiaramente identificare la malattia, a volte alle persone con
sospetto morbo di Parkinson vengono dati farmaci anti-Parkinson per verificare la risposta. Altri
strumenti diangnostici possono aiutare il medico nella diagnosi: le microscopiche strutture del
cervello chiamate corpi si Lewy che possono essere viste solo nel corso di un’autopsia , sono
considerate come un segno caratteristico classico del Parkinson. Le autopsie hanno scoperto i corpi
di Lewy in un sorprendente numero di persone più vecchie senza che gli sia stato diagnosticato il
morbo di Parkinson. Di conseguenza alcuni esperti credono che il morbo di Parkinson sia molto più
comune di quanto si pensi e, addirittura, c’è chi sostiene che quasi tutti svilupperebbero il morbo di
Parkinson se vivessero abbastanza a lungo.
Cura e terapia
Non esiste speranza di guarigione per il morbo di Parkinson. Molti pazienti affetti da forme lievi
non hanno bisogno di cure per diversi anni dopo la diagnosi iniziale; quando i sintomi si aggravano
i medici di solito prescrivono inzialmente la levodopa (L-dopa), che aiuta a ristabilire gli equilibri
di dopamina nel cervello.
A volte vengono prescritti anche altri farmaci che hanno effetto sui livelli di dopamina nel cervello:
nei pazienti gravi un intervento chirurgico al cervello conosciuto come pallidotomia è risultato
essere indirettamente efficace nel ridurre i sintomi.
118
Prognosi
Il morbo di Parkinson non è una malattia mortale di per sé, ma peggiora con il tempo. L’aspettativa
di vita media di un paziente con il morbo di Parkinson è generalmente la stessa di una persona che
non ha la malattia, tuttavia negli ultimi stadi il morbo di Parkinson potrebbe causare complicazioni
come asfissia, polmonite e cadute che possono portare alla morte.
Il progredire dei sintomi nel morbo di Parkinson potrebbe impiegare 20 anni o più, ma in alcune
persone la malattia progredisce più rapidamente. Non esiste un metodo per predire quale corso avrà
la malattia per ogni singola persona.
CRITERI PER LA DIAGNOSI DI DEMENZA
CRITERI DIAGNOSTICI PER LA DEMENZA - DSM IV
Da "DSM-IV Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali", Masson 1999
CRITERI DIAGNOSTICI PER LA DEMENZA TIPO ALZHEIMER
A. Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti:
1) deficit della memoria (compromissione della capacità di apprendere nuove informazioni o di
ricordare informazioni già acquisite)
2) una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive:
a) afasia (alterazione del linguaggio)
b) aprassia (alterazione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l'integrità della
funzione motoria)
c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l'integrità della funzione
sensoriale)
d) disturbo delle funzioni esecutive (cioè, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza, astrarre).
B. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del
funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta un significativo declino rispetto ad un precedente
livello di funzionamento.
119
C. Il decorso è caratterizzato da insorgenza graduale e declino continuo delle facoltà cognitive.
D. I deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 non sono dovuti ad alcuno dei seguenti fattori:
1) altre condizioni del sistema nervoso centrale che causano deficit progressivi della memoria e
delle facoltà cognitive (per es., malattia
cerebrovascolare, malattia di Parkinson, mallattia di Huntington, ematoma sottodurale, idrocefalo
normoteso, tumore cerebrale)
2) affezioni sistemiche che sono riconosciute come causa di demenza (per es., ipotiroidismo,
deficienza di vitamina B12 o acido folico,
deficienza di niacina, ipercalcemia, neurosifilide, infezione HIV)
3) affezioni indotte da sostanze.
E. I deficit non si presentano esclusivamente durante il decorso di un delirium.
F. Il disturbo non risulta meglio giustificato da un altro disturbo dell'Asse I (per es., Disturbo
Depressivo Maggiore, Schizofrenia).
CRITERI DIAGNOSTICI PER DEMENZA VASCOLARE
A. Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti:
1) deficit della memoria (compromissione della capacità di apprendere nuove informazioni o di
ricordare informazioni già acquisite)
2) una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive:
a) afasia (alterazione del linguaggio)
b) aprassia (alterazione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l'integrità della
funzione motoria)
c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l'integrità della funzione
sensoriale)
d) disturbo delle funzioni esecutive (cioè, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza, astrarre).
120
B. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del
funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta
un significativo declino rispetto ad un precedente livello di funzionamento.
C. Segni e sintomi neurologici focali (per es., accentuazione dei riflessi tendinei profondi, risposta
estensoria plantare, paralisi pseudobulbare,
anomalie della deambulazione, debolezza di un arto) o segni di laboratorio indicativi di malattia
cerebrovascolare (per es., infarti multipli che
interessano la corteccia e la sostanza bianca sottostante) che si ritengono eziologicamente correlati
al disturbo.
D. I deficit non si manifestano esclusivamente durante il decorso di un delirium.
CRITERI DIAGNOSTICI PER LA DEMENZA DOVUTA AD ALTRE CONDIZIONI
MEDICHE GENERALI
A. Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti:
1. deficit della memoria (compromissione della capacità di apprendere nuove informazioni o di
ricordare informazioni già acquisite)
2. una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive:
a) afasia (alterazione del linguaggio)
b) aprassia (alterazione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l'integrità della
funzione motoria)
c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l'integrità della funzione
sensoriale)
d) disturbo delle funzioni esecutive (cioè, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza, astrarre).
B. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del
funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta
un significativo declino rispetto ad un precedente livello di funzionamento.
121
C. Vi è dimostrazione dalla storia, dall'esame fisico, o da reperti di laboratorio, che il disturbo è la
conseguenza fisiologica diretta di una delle
condizioni mediche sotto elencate.
Demenza Dovuta a Malattia da HIV
Demenza Dovuta a Trauma Cranico
Demenza Dovuta a Malattia di Parkinson
Demenza Dovuta a Malattia di Huntington
Demenza Dovuta a Malattia di Pick
Demenza Dovuta a Malattia di Creutzfeldt-Jakob
Demenza Dovuta a altro
D. I deficit non ricorrono esclusivamente durante il decorso di un delirium.
CRITERI DIAGNOSTICI PER LA DEMENZA PERSISTENTE INDOTTA DA SOSTANZE
A. Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti:
1) deficit della memoria (compromissione della capacità di apprendere nuove informazioni o di
ricordare informazioni già acquisite)
2) una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive:
a) afasia (alterazione del linguaggio)
b) aprassia (alterazione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l'integrità della
funzione motoria)
c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l'integrità della funzione
sensoriale)
d) disturbo delle funzioni esecutive (cioè, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza, astrarre).
122
B. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del
funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta un significativo declino rispetto ad un precedente
livello di funzionamento.
C. I deficit non ricorrono esclusivamente durante il decorso di un delirium, e persistono oltre la
durata usuale della Intossicazione o Astinenza da
Sostanze.
D. Vi è dimostrazione dalla storia, dall'esame fisico, o da reperti di laboratorio, che i deficit sono
eziologicamente correlati agli effetti persistenti
dell'uso di sostanza (per es., una sostanza di abuso, un farmaco).
CRITERI DIAGNOSTICI DEMENZA DOVUTA AD EZIOLOGIE MOLTEPLICI
A. Sviluppo di deficit cognitivi multipli, manifestati da entrambe le condizioni seguenti:
1) deficit della memoria (compromissione della capacità di apprendere nuove informazioni o di
ricordare informazioni già acquisite)
2) una (o più) delle seguenti alterazioni cognitive:
a) afasia (alterazione del linguaggio)
b) aprassia (alterazione della capacità di eseguire attività motorie nonostante l'integrità della
funzione motoria)
c) agnosia (incapacità di riconoscere o di identificare oggetti nonostante l'integrità della funzione
sensoriale)
d) disturbo delle funzioni esecutive (cioè, pianificare, organizzare, ordinare in sequenza, astrarre).
B. Ciascuno dei deficit cognitivi dei Criteri A1 e A2 causa una compromissione significativa del
funzionamento sociale o lavorativo, e rappresenta
un significativo declino rispetto ad un precedente livello di funzionamento.
C. Vi è dimostrazione dalla storia, dall'esame fisico, o da reperti di laboratorio, che il disturbo ha
più di una eziologia (per es., trauma cranico più
123
uso cronico di alcool, Demenza Tipo Alzheimer con il successivo sviluppo di Demenza Vascolare).
D. I deficit non ricorrono esclusivamente durante il decorso di un delirium.
LA PSICOLOGIA SOCIALE MALIGNA
Sia pure con dolente rassegnazione, spesso nei colloqui dei familiari caregiver di malati di demenza
emergono frasi come: “Non capisce ciò che gli dico”; “Non sa più prendere decisioni”; “E’
diventato pigro”; “Non sa fare più niente”.
Tali convinzioni sono determinate dalle inconfutabili manifestazioni della progressione della
malattia che implica la perdita di molte capacità, fra cui costruire un ragionamento, pianificare le
azioni della vita quotidiana, saper utilizzare correttamente gli oggetti più banali. Quanto basta per
infantilizzare chi ci vive accanto da anni, assumendo nei suoi confronti un tono paternalistico e di
costante correzione, improntato dall’impotenza di un recupero del passato.
Ma, come spiegavamo nel precedente articolo, un atteggiamento di questo tipo non passa
inosservato al malato, assai ricettivo ai toni della voce ed espressioni del volto. Con l’espressione
“psicologia sociale maligna” Tom Kitwood spiega le modalità con cui la condotta assunta verso il
malato nel trattarlo come se non ci fosse, o non capisse, influisca negativamente sulla propria
percezione di sé.
Certi come siamo che la demenza sia una forma totalmente invalidante per chi ne è colpito,
corriamo il rischio di non considerare il piano della soggettività del malato, di come viva la sua
condizione e di come agisca per affrontare i profondi mutamenti che certamente non sono stati
scelti in base alla sua volontà.
In quest’articolo si tenterà pertanto di consigliare alcuni comportamenti da riservare al soggetto
assistito a proposito delle abilità che non si sono ancora smarrite, al fine di contrastare la
stereotipata affermazione “Non è più in grado di fare niente”.
In prima battuta è opportuno chiarire che il termine memoria va declinato al plurale. Diverse sono,
infatti, le forme di memoria da noi utilizzate e, nella malattia, esse subiscono variazioni in funzione
dei vari stadi di gravità: la memoria a breve termine ha una compromissione assai precoce, più tardi
il deficit si estende alla memoria semantica e autobiografica, mentre la memoria procedurale resta
attiva sino a uno stadio avanzato. Quest’ultima, conosciuta anche come “automatica” è una
memoria di tipo implicito, ovvero il suo recupero non prescinde da una consapevolezza. Per meglio
124
chiarire il suo funzionamento occorre considerare che ogni nostra azione prevede sequenze
organizzate e sequenziali per raggiungere un determinato fine. Molte di esse, svolte
quotidianamente nell’arco di una vita (lavarsi i denti, allacciare i bottoni, sfogliare un giornale)
diventano superapprese, e possono perciò essere agite senza bisogno di ragionamento.
Il malato di Alzheimer conserva a lungo le abilità del fare controllate dalla memoria procedurale.
Forse non ce ne accorgiamo perché prevalgono altri aspetti psicologici della patologia, quali la
depressione, l’apatia, la passività, o probabilmente perché il fastidio determinato dallo scarso
risultato dell’opera compiuta ci spinge a sostituirci a lui e farlo al posto suo.
Se però il malato non viene stimolato a esercitare le normali occupazioni di tutti i giorni, sarà
destinato a perdere quelle funzioni con maggior velocità.
Quali sono dunque i suggerimenti di supporto?
-
darsi tempo: l’organizzazione del quotidiano dovrà perdere l’intensità del ritmo usuale e
assumere tempi lenti, poiché lenta è la reazione del nostro malato alle sollecitazioni date. Spiegargli
passo dopo passo con parole semplici la sequenza dell’attività che si sta svolgendo, ripetendo il
messaggio più volte, avrà un effetto di rassicurazione e di diminuzione dello stato d’ansia.
-
scegliere attività senza sconfitta: le azioni richieste devono tener conto delle capacità ancora
funzionanti e dei limiti che nel tempo si sono sviluppati. Ciò significa che non bisogna avere come
riferimento la bravura di chi ci sta accanto prima che si ammalasse, ma che dobbiamo semplificare
le proposte e non demoralizzarci se ugualmente il risultato non corrisponde esattamente
all’aspettativa.
-
mantenere una coerenza con la storia biografica: se il soggetto malato non ha mai dimostrato
interesse verso una certa attività, è assurdo presentargliela nella sua nuova condizione di vita e
pretendere che la svolga in forma partecipata.
-
manifestare forme di apprezzamento per l’azione compiuta: nonostante gli esiti possano essere
non soddisfacenti, ringraziare e lodare l’impegno poiché questo atteggiamento rinforzerà benessere
e autostima nella persona, restituendole fiducia e soddisfacimento di quei bisogni psicologici che
fanno parte di ognuno di noi (attaccamento, riconoscimento, senso di appartenenza,
autorealizzazione).
125
-
allestire un ambiente facilitante per compensare i deficit di orientamento: lo spazio di vita del
malato deve essere adattato per mantenere il più a lungo possibile la sua autonomia attraverso
stimoli che aiutino il suo movimento ed eliminando tutto ciò che può arrecargli danno o pericolo.
Queste indicazioni generali ci inducono a riconsiderare lo stereotipo da cui eravamo partiti e a
cercare di immaginare nuove forme di normalità per vivere il tempo con chi non ne riconosce più la
misura.
Tutti concordiamo sul fatto che lo svolgere un’attività o conservare un impegno è positivo per ogni
essere umano, se scelti sulla base delle proprie capacità e interessi.
Anche per la persona malata vale questo principio a condizione che le occupazioni selezionate – che
possono essere veramente molteplici – siano di non eccessiva durata, utili, semplici, conosciute e,
soprattutto, non stressanti.
La regola principale è che le cose si facciano insieme, e non su comando. Attività del quotidiano e
passatempi mantengono così il senso che si è dato loro durante tutta l’esistenza, pur modificandosi
nei tempi e nei modi di esecuzione.
Ecco quindi che per le persone di sesso femminile sarà utile orientare le proposte verso piccoli
lavori legati alla gestione della casa e delle faccende domestiche: apparecchiare la tavola,
spolverare, pelare le patate, sbucciare la frutta per la preparazione della macedonia, sistemare i
cassetti piegando fazzoletti, mutande, calzini, asciugamani, stendere e ritirare la biancheria,
asciugare e riporre le posate. Queste mansioni condotte nella quotidianità possono fare sentire
ancora la malata all’altezza della situazione e utile per la conduzione della casa.
Per i malati di sesso maschile, invece, si può tenere conto della loro professione o dei loro hobby:
piccoli compiti di bricolage, bagnare l’orto, sistemare libri sugli scaffali, ordinare bollette o
documenti, ritagliare immagini, segnare sul calendario appuntamenti o ricorrenze. Naturalmente
non vanno scordate le attività di divertimento e ludiche: giocare a carte, ballare, cantare ritornelli di
canzoni note, fare acquisti, mangiare una pizza, divertirsi con i nipotini, passeggiare nel verde.
La reazione più tipica del caregiver è: “Ma sbaglia tutto, non lo sa fare più!”.
Non importa il risultato. Ai fini del benessere del nostro assistito vale più la sua soddisfazione di
aver contribuito all’ordine domestico piuttosto che la bontà effettiva di quanto prodotto. Forma ed
esteriorità diventano problemi di chi assiste, non certo del malato. Anzi, nel ringraziarlo per l’aiuto
ricevuto, saranno ridotte le possibilità di frustrazione e di rabbia.
126
Una volta accettato l’altro per quello che può ancora dare e accantonata l’idea che il “fare” sia una
produzione, sarà giunto il momento di scoprire quante siano le cose che con l’altro possono ancora
accadere e come questo comporti significazione del suo esserci, nonostante tutto.
LA PSICOLOGIA SOCIALE BENIGNA
Premessa
La psicologia, a partire dalla Seconda Guerra mondiale, e' diventata per lo piu' una scienza legata
alla sofferenza. Essa si e' concentrata in prevalenza sul riparare i danni, riferendosi ad un modello di
funzionamento degli esseri umani basato sulla malattia.
I suoi obiettivi principali erano:
curare le patologie mentali;
rendere la vita degli individui piu' produttive e soddisfacenti;
identificare e coltivare i talenti.
I primi tentativi di focalizzarsi su alcuni aspetti della psicologia positiva sono stati effettuati da
Terman nel 1939, con i suoi studi sul dono, la gratuita' e la felicita' coniugale (Terman e coll.,
1938), gli scritti di Watson (1928) sulle cure genitoriali efficaci, i lavori di Jung (1933) sulla ricerca
e la scoperta del senso della vita.
Altri due eventi contribuirono al mutamento della psicologia, al termine della Seconda Guerra
mondiale: la fondazione della Veteran's Administration nel 1946 e del National Institute of Mental
Health nel 1947, che contribuirono a dare credito scientifico agli studi e alle ricerche sulla
psicopatologia.
Se, da una parte, questo produsse notevoli progressi nella diagnosi e nella cura delle malattie
mentali (si divenne in grado di curare o, almeno, di alleviare circa 14 disordini, prima non
trattabili), dall'altra, pero', si dimentico' quasi completamente il terzo obiettivo della psicologia:
l'identificazione e la coltivazione dei talenti.
La necessita' di fondare la psicologia positiva si comincio' ad avvertire durante la Seconda Guerra
mondiale, quando Seligman e coll. notarono che molte persone, in precedenza fiduciose e di
successo, diventarono sfiduciate e depresse, dopo che la Guerra aveva sottratto loro i sostegni
127
sociali, il lavoro, il denaro e lo status. Al contrario, invece, nonostante tutto cio', alcune persone
riuscirono a mantenere la loro integrita' e la loro serenita'. Da questa constatazione sorse spontaneo
l'interrogativo: da quali forze erano guidati questi individui?
A giudizio di Seligman, le risposte di Freud e di Jung non erano soddisfacenti. Neppure gli
psicologi umanisti, Maslow, Rogers, May, sembravano essere in grado di dare risposte scientifiche,
basate empiricamente al quesito, nonostante il rinnovato accento sul Se' che essi ponevano.
Seligman ritenne, a quel punto, che i tempi erano maturi per fondare la psicologia positiva.
Lo scopo principale della psicologia positiva e' quello di spostare il focus solo dal "riparare" cio'
che non funziona al costruire anche le qualita' positive. Essa si propone di studiare la forza e la
virtu' che ha a che fare con il lavoro, l'educazione, l'introspezione, l'amore, la crescita, il gioco. Per
fare cio', si propone di adattare cio' che di meglio offre il metodo scientifico all'unicita' dei
comportamenti umani.
La psicologia positiva, sul piano soggettivo, valorizza le esperienze soggettive: ben-essere,
appagamento e soddisfazione in prospettiva passata, speranza e ottimismo in prospettiva futura,
flusso e velocita' in prospettiva presente.
A livello individuale si focalizza sui tratti positivi individuali: la capacita' di amare e di lavorare, il
coraggio, le abilita' interpersonali, la sensibilita' estetica, la perseveranza, la capacita' di perdonare,
l'originalita', l'orientamento al futuro, la spiritualita', il talento, la saggezza.
A livello di gruppo si focalizza sulle virtu' civiche e le istituzioni che spingono l'individuo ad essere
un buon cittadino: la responsabilita', l'educazione, l'altruismo, la civilta', la moderazione, la
tolleranza e il lavoro etico.
Cio' che e' alla base di questo approccio e' il concetto di prevenzione. Partendo dalla constatazione
che il modello basato sulla malattia, che consisteva nel lavorare solo sui punti deboli, non era
efficace in tal senso, si imponeva sempre piu' la necessita' di una scienza basata sulla forza e sulla
resilienza. Gli individui non dovevano piu' essere considerati passivi, ma esseri attivi, in grado di
scegliere, di assumersi rischi e responsabilita'. Questo avrebbe permesso agli individui di imparare a
condurre stili di vita piu' sani a livello psicofisico e di ri-orientare la psicologia verso un maggiore
perseguimento del terzo obiettivo: rendere piu' forti e produttive le persone sane e consentire la
messa in atto delle potenzialita' umane piu' elevate.
128
LA DEPRESSIONE IN ETA’ SENILE: FATTORI DI RISCHIO, LA VALUTAZIONE ED
IL SUO TRATTAMENTO
Quanto è diffusa la depressione nella popolazione anziana?
La depressione è molto comune negli anziani, anche se non deve essere considerata una
componente “normale” dell’età avanzata. In particolare, la sua frequenza varia a seconda delle
popolazioni considerate. Nel nostro Paese si stima che circa il 20% degli anziani residenti a
domicilio presentano sintomi depressivi clinicamente rilevanti, mentre tra quelli ricoverati in reparti
ospedalieri la percentuale sale a oltre il 30% e negli ospiti delle case di riposo sino al 45%. Tali
differenze sono verosimilmente legate sia ai vissuti di perdita dell’individuo, che abbandona i propri
riferimenti storici (la casa, le relazioni significative), sia alla maggior presenza di patologie fisiche e
di disabilità in coloro che vengono ricoverati o istituzionalizzati. Data l’elevata frequenza nelle
istituzioni per anziani, lo screening per la depressione in queste strutture dovrebbe costituire una
pratica di routine.
Quali sono le cause ? Esistono persone più a rischio di altre?
I fattori che incrementano il rischio di depressione in una persona anziana riguardano aspetti
esistenziali, sociali, psicologici e biologici, variamente intrecciati tra loro nei singoli casi. I fattori
più documentati sono il sesso femminile, essere celibi/nubili o vedovi, la disabilità (ad es. per
malattia), un lutto recente e l’isolamento sociale. Va ricordato che gli anziani sono particolarmente
esposti ad eventi di perdita, quali ad es. la scomparsa di persone care, il pensionamento, la riduzione
del ruolo sociale e delle risorse economiche, ecc. Altre condizioni che predispongono un anziano
alla depressione possono essere la presenza continua di dolore fisico, l’abuso di alcool o una storia
personale o familiare di depressione. Nelle persone che sviluppano per la prima volta un quadro
depressivo in età avanzata, la risonanza magnetica nucleare evidenzia spesso delle piccole
alterazioni che indicano un’insufficienza circolatoria a livello cerebrale. Alcune malattie, quali lo
stroke (ictus), l’ipertensione, il diabete o la demenza si associano alla depressione nel 30 al 80% dei
casi. In particolare, i rapporti tra Demenza di Alzheimer e depressione non sono a tutt’oggi ancora
chiariti, anche se sembra probabile che quest’ultima possa rappresentare sia un fattore di rischio per
l’insorgenza della demenza, sia una sua manifestazione precoce. Da ultimo, ma non certo per
importanza, l’assunzione di alcuni medicinali (ad esempio cortisonici, alcuni antiipertensivi o
sedativi) può o indurre l’insorgenza di un quadro depressivo indistinguibile da quello spontaneo.
Ancor più che negli adulti giovani, la complessità e l’estrema variabilità individuale di tutti questi
129
fattori di rischio devono essere considerate sia nel momento diagnostico che nell’elaborazione di
una strategia terapeutica.
Quali sono i sintomi?
I familiari e le persone vicine al paziente dovrebbero essere in grado di riconoscere i sintomi più
comuni della depressione, per poter poi chiedere, se necessario, un aiuto medico. Va segnalato
come, a differenza della depressione dell’adulto giovane, che si manifesta generalmente con un
insieme piuttosto definito di sintomi caratteristici, nel vecchio è frequentissima una forte
espressività di solo due o tre sintomi depressivi, capaci di provocare comunque una grave
sofferenza. I due sintomi fondamentali della depressione sono una tristezza persistente che duri da
due o più settimane e la perdita o diminuzione di interesse e piacere. Le attività quotidiane risultano
compromesse in modo variabile a seconda della gravità del quadro depressivo. Altri segni
importanti possono essere quelli di tipo fisico, quali alterazioni dell’appetito e del peso corporeo,
alterazioni del sonno, stanchezza. Frequente è la presenza di ansia, inquietudine, talora agitazione. I
pensieri sono spesso improntati alla perdita della speranza, al pessimismo, all’ inadeguatezza, talora
a vissuti di colpa non giustificati. L’anziano depresso, più del giovane, può sviluppare sintomi quali
irritabilità, ostilità o anche sospettosità, sino a veri e propri deliri di persecuzione (ad es. di gelosia o
riferito al furto di oggetti personali). Altre espressioni depressive tipiche dell’età avanzata
comprendono lamentele eccessive circa la perdita di memoria o la presenza di dolori vaghi, diffusi,
mutevoli nella sede e nell’intensità, che vengono talora attribuiti a malattie inesistenti (ipocondria),
mentre altre volte si confondono con quelli di una patologia fisica reale. Infine, il vecchio depresso
può percepire la vita come non più meritevole di essere vissuta e, nei casi più gravi, desiderare di
porvi fine.
La depressione senile ha un decorso ed una prognosi peggiori rispetto a quella degli adulti giovani:
gli episodi sono più lunghi (anche anni) e la tendenza alle ricadute ed alla cronicizzazione è due
volte più elevata.
Quali sono le conseguenze ?
La conseguenza più drammatica della depressione è il suicidio. La frequenza dei suicidi nella
popolazione anziana risulta più che raddoppiata rispetto alla popolazione generale ed è massima nei
130
soggetti maschi di oltre 85 anni. La depressione è un importante fattore di rischio per il suicidio ed
il 60-70% delle persone anziane che si suicidano presentano una depressione clinica.
La depressione non trattata ha generalmente un impatto negativo diretto sulla salute fisica delle
persone che ne sono affette. Essa incrementa il rischio di sviluppare malattie quali cardiopatie,
stroke (ictus), neoplasie, demenze, ecc. e peggiora la prognosi delle malattie fisiche già presenti. La
moderna psicosomatica ha individuato tutta una serie di modificazioni biologiche correlate alla
depressione che medierebbero questi eventi clinici. Le più documentate risultano una maggior
tendenza alla formazione di trombi e all’insorgenza di aritmie cardiache e un deficit del sistema
immunitario. Alcuni studi condotti in case di soggiorno hanno documentato come le persone
anziane depresse hanno un incremento sostanziale di mortalità per malattie fisiche rispetto ai
coetanei non depressi. Questo dato sottolinea ancora una volta la necessità di riconoscere e trattare
tempestivamente la depressione in questi anziani particolarmente “fragili”.
Perché è difficile diagnosticare la depressione in una persona anziana?
Si ritiene che solo il 50% delle depressioni senili vengano riconosciute correttamente, e di queste
solo il 50% venga curato in modo adeguato. Negli anziani l’identificazione della depressione è
complicata dal fatto che alcuni sintomi chiave, quali astenia, facile faticabilità, disturbi del sonno,
perdita di peso corporeo, accompagnano spesso il processo dell’invecchiamento, così come sono
sintomi di numerose patologie somatiche di cui l’anziano è sovente affetto. Anche il criterio che
prevede che i sintomi della depressione siano in grado di limitare le attività sociali e del vivere
quotidiano è più difficilmente applicabile alla persona anziana, nel quale la frequente presenza di
malattie fisiche rende più incerta la attribuzione delle limitazioni di attività al disturbo depressivo. Il
vecchio depresso tende a sottovalutare la sua depressione e a non riferire spontaneamente sintomi
importanti, quali la diminuzione di interesse o di piacere in tutte o quasi tutte le attività,
richiamando invece l’attenzione del medico sul proprio corpo sofferente, che viene quindi utilizzato
quale “mediatore” della comunicazione del disagio emotivo. La scarsa propensione dell’anziano a
comunicare è racchiusa nell’espressione “depressione senza tristezza”, emblematica del vissuto di
molti anziani depressi. La depressione senile è variamente influenzata dalla presenza di deficit
cognitivi (di memoria, attenzione, concentrazione, ecc.), che possono arrivare fino a simulare un
quadro clinico di demenza e che migliorano dopo trattamento con farmaci antidepressivi. Il termine
“pseudodemenza”, utilizzato in passato per identificare questi quadri clinici estremi, è stato
progressivamente abbandonato. Alcuni studi hanno infatti dimostrato che la maggior parte di queste
131
forme evolvono nel tempo in una vera demenza, di cui rappresentano probabilmente degli stadi
molto precoci.
Nella terza età la depressione è da considerarsi inevitabile?
La psicogeriatria è la disciplina medica che raccoglie e integra la cultura e la pratica di diverse
specialità (psichiatria, geriatria, neurologia) per la diagnosi e la cura e dei disturbi emotivi e psichici
degli anziani. La cultura psicogeriatrica non considera appropriato il concetto latino della “senectus
ipsa morbus”, cioè che la vecchiaia stessa sia una malattia, anche se alcune
manifestazioni
depressive si sovrappongono a quelle della vecchiaia fisiologica. La letteratura scientifica concorda
sul fatto che, sebbene la depressione interessi un gran numero di persone anziane, essa non va
comunque considerata una conseguenza attesa o necessaria dell’invecchiamento, ma un disturbo
diagnosticabile e curabile, così come nell’adulto giovane. E’ un imperativo per tutti gli operatori
della salute mantenere un approccio positivo nei confronti di un evento così grave e distruttivo per
la vita delle persone che ne soffrono e dei loro cari e contribuire alla diffusione di tale
atteggiamento e alla messa al bando di pregiudizi “ageistici”, come quello che i vecchi depressi non
rispondono alle terapie, pregiudizi peraltro sfatati dalle evidenze scientifiche.
E’ possibile prevenire la depressione in età avanzata? In che modo?
La complessa patogenesi della depressione, così come quella di tutti i disturbi psichici, non ha
permesso sinora di stabilire dei metodi di prevenzione che siano scientificamente provati. Il primo
obiettivo di un approccio preventivo è rappresentato comunque dall’identificazione delle persone
anziane a rischio, che può essere effettuata “pesando” i fattori di rischio per depressione citati in
precedenza. Sono stati proposti interventi di prevenzione a vari livelli e con vari metodi. Ad
esempio, in anziani affetti da malattie mediche croniche, tecniche di tipo cognitivo, abbinate
all’esercizio fisico, sono risultate efficaci nei confronti di iniziali, lievi, sintomi depressivi e ansiosi
ed anche dell’insonnia. Un approccio “primario” di tipo biologico è considerato l’abbassamento dei
fattori di rischio vascolare (ipertensione, dislipidemie, fumo, ecc.). Grande risalto viene dato agli
interventi psicoeducativi, mirati ad informare gli anziani ed i loro familiari circa la malattia
depressiva ed i suoi possibili trattamenti, in modo da ridurre lo stigma ed accrescere il numero di
persone che chiedono aiuto.
132
In quale modo si cura la depressione nella persona anziana?
Gli scopi della cura consistono nella riduzione dei sintomi psichici e fisici della depressione, nel
miglioramento delle funzioni cognitive (attenzione, memoria, concentrazione, ecc.) e delle capacità
relazionali, nella prevenzione delle ricadute e dei comportamenti suicidari. Ove risulti opportuno,
va inoltre fornito un aiuto volto a migliorare le capacità della persona di gestire la disabilità, eventi
di vita negativi o situazioni relazionali conflittuali.
I farmaci antidepressivi sono l’intervento di scelta nel caso di una depressione medio-grave, da soli
o in combinazione con una psicoterapia, mentre un intervento di supporto psicologico o una
psicoterapia possono essere indicati, da soli, nei casi di depressione più lieve.
Quali sono i farmaci più indicati nella cura della depressione dell’anziano? Il ricorso ai farmaci può
essere sconsigliabile, specie in presenza di patologie fisiche?
La ricerca ha dimostrato che i farmaci antidepressivi sono efficaci negli anziani così come negli
adulti giovani e che l’efficacia è tanto più evidente quanto più la depressione è clinicamente
importante. Gli antidepressivi maggiormente impiegati negli anziani appartengono ai cosiddetti
composti di “nuova generazione” e vengono definiti con delle sigle quali “SSRI” e “SNRI” a
seconda che incrementino nel Sistema Nervoso Centrale la trasmissione della sola serotonina o
della serotonina e della noradrenalina insieme. Questi antidepressivi rappresentano oggi la prima
scelta terapeutica rispetto ai composti “di vecchia generazione” quali i “Triciclici”. Il vantaggio dei
farmaci più recenti non riguarda tanto l’efficacia terapeutica, quanto la maggiore tollerabilità,
sicurezza e maneggevolezza, caratteristiche molto importanti per l’impiego in una popolazione
“fragile” come quella anziana. I Triciclici riducono la capacità di fissare i ricordi, possono essere
troppo sedativi e determinare brusche cadute della pressione arteriosa. I nuovi antidepressivi, anche
se con alcune differenze, offrono una miglior tollerabilità cardiovascolare e non determinano effetti
negativi a carico dell’attenzione o della memoria, spesso già deficitarie in età avanzata. Alcuni dei
farmaci più recenti sembrano, anzi, migliorare queste funzioni cognitive in modo indipendente dalla
stessa azione antidepressiva. Il profilo di tollerabilità favorevole rende nel complesso più agevole
l’impiego degli antidepressivi “di nuova generazione” anche in persone anziane con malattie
fisiche, soprattutto cardiopatie, o affette da demenza. Al giorno d’oggi, pertanto, la concomitanza di
una patologia fisica non costituisce più una controindicazione alla cura della depressione, ma anzi
un motivo in più per metterla in atto, dato l’effetto negativo che la depressione stessa esercita sulla
prognosi delle malattie.
133
Nei pazienti che sono guariti da un episodio depressivo è essenziale un trattamento a lungo termine
con antidepressivi, da soli o in combinazione con una psicoterapia, allo scopo di prevenire le
ricadute. Negli anziani i tempi di trattamento appaiono prolungati rispetto a quelli degli adulti
giovani, per la maggior durata degli episodi e per il maggior rischio di ricadute. Nei casi più gravi il
trattamento deve durare anche per tutta la vita.
E’ importante sottolineare alcuni punti chiave che i pazienti ed i loro familiari dovrebbero
conoscere: gli antidepressivi non danno dipendenza (a differenza, ad esempio, degli ansiolitici),
l’effetto terapeutico non è immediato, ma compare dopo 4 - 6 settimane, i farmaci vanno assunti
con grande regolarità (negli anziani, specie se soli o con deficit cognitivi questo aspetto è altamente
problematico) e non vanno interrotti dopo la guarigione ma proseguiti sotto controllo medico.
La psicoterapia è utile? Le persone anziane non risultano essere scettiche nei confronti di
questo approccio?
Gli interventi di tipo psicologico possono risultare utili nei casi di depressione conseguente, ad
esempio, ad eventi esistenziali negativi e con aspetti di disadattamento e sofferenza. I tipi di
intervento vanno dal coinvolgimento in gruppi di auto-aiuto ad un sostegno psicologico, ad una vera
e propria psicoterapia. Raramente il vecchio richiede spontaneamente un intervento psicologico, in
quanto ha difficoltà a riconoscere la propria sofferenza psichica e può vivere con vergogna (gli
uomini più delle donne) il rimandare ad un estraneo i suoi bisogni di accoglienza e di ascolto. Per
questa ragione la richiesta generalmente proviene da familiari o curanti, rendendo più complessa la
costituzione di un’ alleanza terapeutica. Esistono svariati tipi di psicoterapia, differenti tra loro per
principi teorici, metodi e strategie e obiettivi. La terapia psicoanalitica, con le sue numerose scuole,
rappresenta in ambito psicogeriatrico soprattutto un modello di riferimento teorico, cui molti altri
approcci hanno attinto, ma non ha una sufficiente documentazione scientifica nella sua attuazione
pratica. La psicoterapia più studiata nell’anziano è quella cognitivo-comportamentale, che
presuppone che le difficoltà di adattamento del paziente depresso siano dovute all’utilizzo di schemi
di pensiero negativi e che l'apprendimento di opportune strategie di gestione possa mediare la
vulnerabilità soggettiva agli eventi di vita. L’approccio di tipo cognitivo, con opportuni adattamenti,
si è dimostrato negli anziani efficace come negli adulti giovani. Un’altra psicoterapia che ha
evidenziato la sua efficacia sia nella fase acuta della depressione che nella prevenzione delle
ricadute è la terapia interpersonale, che è focalizzata alla risoluzione di contrasti con persone
significative, al superamento di un lutto o alla ristrutturazione di rapporti sociali. Negli anziani la
134
psicoterapia interpersonale, in associazione ad un trattamento con antidepressivi, è risultata più
efficace dei soli farmaci nella prevenzione delle ricadute depressive per un periodo di tre anni.
Si comprende come tutto ciò contraddica decisamente il pregiudizio che l'anziano non possa
giovarsi di un aiuto psicologico e si opponga al fatalismo ed allo scetticismo, sostenendo invece un
approccio terapeutico attivo e positivo all’anziano depresso.
I DISTURBI D’ANSIA NELL’ETA’ SENILE
Disturbi d'ansia nell'invecchiamento.
La personalità è uno dei fattori più importanti nel condizionare il grado di adattamento: soggetti con
caratteristiche psicologiche di rigidità, autoritarismo, egocentrismo o insicurezza, labilità, eccessiva
passività possono avere notevoli difficoltà nell'adattarsi alle nuove condizioni dettate dalla
vecchiaia.
Una carenza nelle abilità di gestione dei rapidi cambiamenti che si verificano, può portare a risposte
ansiose e depressive fino all'instaurarsi di situazioni francamente patologiche.
Ansia.
L'ansia non sempre è uno stato disfunzionale, patologico, da curare. Frequentemente è avvertita
come un senso d'apprensione a fronte di preoccupazioni per eventi imminenti e reali. Questo tipo di
ansia è una reazione normale a una circostanza specifica. L'ansia patologica scatena invece un senso
di pericolo incombente che si associa praticamente a qualsiasi situazione di incertezza: si tratta di
un intenso disagio psichico, generato dalla sensazione di non essere in grado di fronteggiare gli
eventi futuri. Una percezione sottostimata delle proprie risorse rispetto alle richieste ambientali, che
perdura nel tempo può generare un sentimento di continuo allarme, frequentemente accompagnato
da sintomi fisici: tensione muscolare, sudorazione intensa, senso di chiusura o pesantezza allo
stomaco, difficoltà respiratorie, tremori, debolezza, tachicardia, ecc. Situazioni di questo tipo
possono inoltre alimentare pensieri e sensazioni di impotenza che generano risposte
astensionistiche, alimentando circoli viziosi che conducono a depressione.
Nell'anziano i disturbi d'ansia presentano alcune particolarità: ad esempio, riguardo alle fobie,
l'oggetto fobico è frequentemente associato al tema della sicurezza (paura di essere derubati,
135
aggrediti, di avere incidenti nel traffico…). Nell'anziano bisogna inoltre tener conto dell'interazione
con alcuni farmaci e degli effetti di alcune malattie, nonché degli effetti paradossi degli stessi
farmaci ansiolitici.
I DISTURBI PSICHIATRICI IN ETA’ SENILE
Disturbi psichiatrici dell'età senile
I disturbi mentali dell’anziano comprendono tutti i disturbi ritrovabili nei giovani adulti e ad essi si
aggiungono i disturbi tipici dell’anziano.
Il termine “geriatrico” deriva dal greco geras, che significa vecchiaia e iatros che significa medico,
quindi, “geriatrico” indica il trattamento medico e la cura del paziente anziano.
La psichiatria geriatrica è un campo in rapida crescita in quanto la popolazione anziana è in
aumento.
La diagnosi e la terapia richiedono conoscenze specifiche date le possibili differenze di patogenesi e
fisiopatologia tra la popolazione anziana e quella giovane.
Negli anziani bisogna anche considerare i fattori complicanti quali la frequente presenza di malattie
mediche croniche coesistenti, l’uso di più farmaci.
La visita psichiatrica deve prendere in considerazione lo stato cognitivo dell’anziano in quanto i
disturbi cognitivi sono spesso presenti.
Inoltre, devono essere escluse tutte le cause organiche responsabili di quadri clinici che possono
essere male interpretati come elementi di invecchiamento fisiologico.
DISTURBI E PERCENTUALI DI INCIDENZA
Tra i disturbi che negli anziani possono aggiungersi a quelli ritrovabili anche nei giovani, si possono
considerare le demenze.
La demenza è una compromissione progressiva ed irreversibile dell’intelletto che aumenta con l’età.
È una patologia che si sviluppa nel tempo e le funzioni mentali precedentemente acquisite vengono
perse gradualmente.
136
Le alterazioni di cui e' responsabile coinvolgono la memoria, il linguaggio e i disturbi del
comportamento.
Questi ultimi possono essere agitazione, irrequietezza, vagabondaggio, rabbia, violenza, tendenza
ad urlare, disinibizione, disturbi del sonno e deliri.
Il 75% dei pazienti soffre di deliri ed allucinazioni. Alcune forme di demenza sono secondarie a
patologie organiche trattabili farmacologicamente, come patologie cardiache o renali e disturbi
depressivi.
Si distinguono numerose forme di demenza a seconda della eziopatogenesi. I disturbi depressivi
sono presenti in circa il 15% degli anziani. Sono presenti tutti i sintomi presenti nella depressione
della popolazione non anziana.
Si parla di pseudodemenza quando si deve identificare il deterioramento cognitivo nei soggetti
geriatrici depressi, tale condizione può essere facilmente confusa con una demenza vera.
Si possono enumerare dei casi di depressione secondari a trattamenti farmacologici per patologie di
altri apparati.
I disturbi di tipo bipolare con una evidente presenza di sintomi maniacali si presentano nell’1%
della popolazione anziana, mentre i disturbi psicotici esordiscono difficilmente negli anziani e sono
già stati diagnosticati da qualche anno.
L’esordio di sintomi di tipo psicotico deve indirizzare verso la compromissione cognitiva da
demenza.
I disturbi d’ansia hanno un’incidenza del 5,5%.
Elevata frequenza, invece, hanno le patologie secondarie ad abuso di alcool e da carenza alimentare
conseguente.
Il trattamento per le patologie dell’anziano è lo stesso che per la popolazione più giovane. Lo scopo
principale della terapia farmacologica è quello di tentare di migliorare la qualità della vita cercando
di mantenerlo più a lungo nella comunità.
Unica attenzione particolare riguarda i dosaggi dei farmaci che devojno essere adattati al
concomitante uso di altri farmaci.
137
Il dosaggio deve essere adattato progressivamente a seconda della risposta o dell’insorgenza di altre
patologie.
Possono essere utilizzate tutte le classi di farmaci psichiatrici adatti al trattamento della
sintomatologia specifica.
Alcuni farmaci possono non avere un effetto terapeutico in quanto non ben metabolizzati.
È possibile intervenire con trattamenti psicoterapeutici di supporto.
La plasticità della personalità, possibile in età giovane, è meno probabile nell’età senile. Le terapie
di gruppo offrono la possibilità di integrare nuove amicizie di coetanei.
GRIGLIA DI BARTHEL
La scala di Barthel o Indice di Barthel ADL è una scala ordinale utilizzata per misurare le
prestazioni di un soggetto nelle attività della vita quotidiana (ADL, activities of daily living). Ogni
item delle prestazioni è valutato con questa scala attribuendo un determinato numero di punti che
vengono poi sommati determinando un punteggio globale. L'indice analizza dieci variabili che
descrivono le attività della vita quotidiana (ad esempio la capacità di alimentarsi, vestirsi, gestire
l'igiene personale, lavarsi ed altre ancora) e la mobilità (spostarsi dalla sedia al letto, deambulare in
piano, salire e scendere le scale). Ad ogni item viene assegnato un punteggio di valore variabile a
seconda dell'item stesso e del grado di funzionalità del paziente: piena, ridotta o nessuna
funzionalità. Un punteggio globale più elevato è associato ad una maggiore probabilità di essere in
grado di vivere a casa con un grado di indipendenza dopo la dimissione dall'ospedale o da un
reparto di lungodegenza. La scala è sostanzialmente uno strumento di valutazione della funzione
fisica, ed è particolarmente nota in ambito riabilitativo. Se al paziente, durante la valutazione, sono
stati forniti ausili che vanno oltre quelli normalmente disponibili in un ambiente domestico
standard, è necessario descrivere in dettaglio quali ausili siano stati concessi ed allegare la
dichiarazione all'indice di Barthel. Ovviamente il punteggio che potrà ottenere un paziente sarà più
basso se queste condizioni agevolate non sono disponibili.
138
La storia
La scala è stata introdotta nel 1965, ed in origine il punteggio poteva variare da 0 a 20. Anche se è
tranquillamente possibile utilizzare la versione originale, questa subì una prima modificazione ed
adattamento nel 1979 ad opera di Granger, quando si ritenne più opportuno includere un punteggio
0-10 punti per ogni variabile analizzata. Ulteriori miglioramenti furono introdotti nel 1989.
Utilizzi
L'indice di Barthel è stato ampiamente utilizzato per monitorare i cambiamenti funzionali nei
soggetti ricoverati in reparti di riabilitazione, soprattutto per prevedere l'autonomia funzionale a
seguito di un ictus. La scala è considerata affidabile, anche se il suo impiego negli studi clinici
medici sullo stroke (ictus) è limitato.La scala trova ampio utilizzo anche per gli individui inseriti
nelle residenze sanitarie assistenziali per valutarne i progressi riabilitativi ed il grado residuo di
autonomia. È stato comunque osservato che l'indice di Barthel può essere meno affidabile quando si
esegua la valutazione di un paziente con decadimento cognitivo.
Item e punteggi
SCALA DI VALUTAZIONE DELLE ATTIVITÀ DELLA VITA QUOTIDIANA
Item
A
B
C
Alimentazione
0
5
10
Abbigliamento
0
5
10
Toilette personale
0
5
10
Fare il bagno
0
5
10
Continenza intestinale0
5
10
Continenza urinaria 0
5
10
Uso dei servizi igienici0
5
10
Trasferimenti letto/sedia0
5
10
139
Camminare in piano 0
5
10
Salire/scendere le scale0
5
10
A = dipendente; B = con aiuto; C = autonomo
A titolo di esempio, nell'item numero 1 (alimentazione) al paziente sono assegnati 10 punti se si
alimenta in modo completamente autonomo ed indipendente, 5 punti se invece richiede un certo
grado di aiuto (per esempio per tagliare il cibo), e 0 punti se dipende completamente da chi lo
assiste (deve essere imboccato). Per il controllo della minzione e defecazione il paziente può essere
considerato autonomo (10 punti) se è in grado di gestire con totale indipendenza i propri bisogni
fisiologici. Autonomo con aiuto se necessita dell'aiuto (anche parziale) di chi lo assiste per
utilizzare strumenti come, ad esempio, il pappagallo o la padella (5 punti). Totalmente dipendente
se invece necessita, ad esempio, del catetere o presenta episodi di incontinenza, sia pure saltuari.
LA COMUNICAZIONE INTERPERSONALE
La comunicazione interpersonale è costituita dall'insieme dei fenomeni che veicolano lo scambio di
informazioni tra due o più persone sia attraverso il linguaggio verbale sia quello corporeo.
Componenti della comunicazione
I fattori della c. sono sei oltre al mittente, il ricevente ed il messaggio, sono determinanti nella
genesi e nella percezione della comunicazione:
il codice del messaggio
il contesto in cui si svolge la comunicazione
il canale comunicativo
Modelli di comunicazione interpersonale
Paul Watzlawick e colleghi (1967) hanno introdotto una differenza di fondamentale importanza
nello studio della comunicazione umana: ogni processo comunicativo tra esseri umani possiede due
dimensioni distinte: da un lato il contenuto, ciò che le parole dicono, dall'altro la relazione, ovvero
140
quello che i parlanti lasciano intendere, a livello verbale e più spesso non verbale, sulla qualità della
relazione che intercorre tra loro.
Il modello di Friedemann Schulz von Thun: il quadrato della comunicazione.
In epoca recente (1981), lo psicologo Friedemann Schulz von Thun, dell'Università di Amburgo, ha
proposto un modello di comunicazione interpersonale che distingue quattro dimensioni diverse, nel
cosiddetto "quadrato della comunicazione":
Contenuto: di che cosa si tratta? (lato blu del quadrato, in alto).
Relazione: come definisce il rapporto con te, che cosa ti fa capire di pensare di te, colui che parla?
(lato giallo, in basso).
Rivelazione di sé: ogni volta che qualcuno si esprime rivela, consapevolmente o meno, qualcosa di
sé (lato verde, a sinistra).
Appello: che effetti vuole ottenere chi parla? Ciò che il parlante chiede, esplicitamente o
implicitamente, alla controparte di fare, dire, pensare, sentire. (lato rosso, a destra).
Queste quattro dimensioni si possono tenere presenti sia nel formulare messaggi che nell'ascolto e
nell'interpretazione dei messaggi di altri. In questo secondo caso la "scuola di Amburgo" parla delle
"quattro orecchie" (corrispondenti ai "quattro lati del quadrato della comunicazione") su cui ci si
può sintonizzare. Ad esempio, per riuscire a "prendermela", ad offendermi nell'ascoltare la
comunicazione x, dovrò assegnare ad essa significato sintonizzandomi sull'orecchio "giallo", quello
che tende a vedere nella comunicazione degli altri il loro soppesarci, il segno cioè di quanto questi
ci rispettino. Questo modello visualizza come noi si sia sempre liberi di assegnare a qualsiasi
comunicazione un significato oppure un altro, evidenzia così il potere di chi ascolta nel contribuire
a definire la qualità di una interazione. Con un poco di allenamento è possibile, ad esempio,
sintonizzarci sull'orecchio verde, invece che su quello giallo, e chiederci, dentro di noi, di fronte ad
una comunicazione che ci pare irritante (e lo farà solo se siamo sintonizzati sull'orecchio giallo!):
"come si sente, la persona che parla, per sentire il bisogno di parlarmi in questo modo?"
La comunicazione interpersonale, che coinvolge più persone, è basata su una relazione in cui gli
interlocutori si influenzano vicendevolmente come in un circolo vizioso.
La comunicazione interpersonale si suddivide a sua volta in tre parti.
141
La comunicazione verbale, che avviene attraverso l'uso del linguaggio, sia scritto che orale, e che
dipende da precise regole sintattiche e grammaticali.
La comunicazione non verbale, la quale invece avviene senza l'uso delle parole, ma attraverso
canali diversificati, quali mimiche facciali, sguardi, gesti, posture.
La comunicazione para verbale, che riguarda in ultima analisi nella voce. Ossia nel tono, nel
volume e nel ritmo. Ma anche nelle pause e in altre espressioni sonore quali lo schiarirsi la voce ad
esempio oltreché nel giocherellare con qualsiasi cosa capiti a tiro di mano.
LA COMUNICAZIONE ASSERTIVA
"L'assertività è la capacità del soggetto di utilizzare in ogni contesto relazionale, modalità di
comunicazione che rendano altamente probabili reazioni positive dell'ambiente e annullino o
riducano la possibilità di reazioni negative".
La comunicazione assertiva è un metodo di interazione con gli altri fondato su alcuni elementi
quali:
Un comportamento partecipe attivo e non "reattivo"
Un atteggiamento responsabile, caratterizzato da piena fiducia in sé e negli altri
Una piena e completa manifestazione di sé stessi, funzionale all'affermazione dei propri diritti senza
la negazione di quelli altrui e senza ansie o sensi di colpa
Un atteggiamento non censorio avulso dall'uso di etichette, stereotipi e pregiudizi
La capacità di comunicare i propri sentimenti in maniera chiara e diretta ma non minacciosa o
aggressiva.
Lo stile assertivo si basa sul diritto di essere trattati con rispetto, di essere sé stessi e di essere liberi
di credere nei propri valori. Ciascuno di noi ha uno spazio personale che gli altri debbono rispettare,
ma quando ne usciamo per muoverci in pubblico, allora dobbiamo rispettare i diritti degli altri.
Un altro importante elemento dello stile assertivo è il senso della responsabilità delle proprie azioni,
da intendersi come affermazione e difesa dei nostri diritti accettando le conseguenze delle nostre
azioni.
142
Caratteristiche dello stile assertivo
Il comportamento assertivo si riconosce da alcune espressioni corporali particolarmente aperte,
cordiali e coerenti nei vari livelli della comunicazione.
Presupposto fondamentale dell'assertività è il saper ascoltare ovvero prestare attenzione non solo al
contenuto razionale ma anche a quello emotivo della comunicazione, riassumere e dare feed-back e
chiedere chiarimenti.
La riduzione dell'ansia e l'emergere delle convinzioni positive conseguenti al comportamento
assertivo permettono lo sviluppo e la crescita della fiducia in sé stessi.
La componente verbale
E' bene usare parole che esprimono fiducia in sé stessi e negli altri. A questo scopo è opportuno
descrivere il comportamento altrui in maniera non censoria, vale a dire senza imporsi ed evitando
giudizi ed ordini categorici.
È importante anche evitare di ferire la sensibilità altrui con espressione o giudizio offensivo.
La componente cognitiva
La componente cognitiva comprende tutti i pensieri che condizionano il nostro comportamento.
Esistono persone talmente esigenti nei propri confronti da negarsi una possibilità di essere assertivi
o che rinunciano a farsi valere per mancanza di fiducia in se stessi sconfinando in atteggiamenti
rinunciatari. Sarebbe invece utile l'atteggiamento opposto: credere nella propria capacità di
affermarsi e di immaginarsi nell'atto di riuscire.
La componente emotiva
La componente emotiva comprende il livello di emotività e il tono e il volume della voce. È
importante trasmettere il proprio messaggio al livello emotivo più adatto alla situazione, perché il
tono di voce ha un ruolo decisivo nell'opera di persuasione.
143
La componente non verbale
La componente non verbale è estremamente importante. Gran parte della comunicazione avviene
infatti non verbalmente, e la comunicazione non verbale ha un forte impatto sull'interlocutore.
Un'analisi dei vari comportamenti non verbali può essere basata sul contatto visivo, sulle
espressioni del volto, sul silenzio, sul tono, volume e inflessione della voce, sui gesti e sul
linguaggio del corpo.
LA RELAZIONE CON IL PAZIENTE
Un “modo di essere” dell’operatore sanitario nella relazione con i pazienti
Gli operatori sanitari si trovano oggigiorno a lavorare tra mille difficoltà dovute a carenza di
organico, scarsità di risorse, mutato rapporto coi pazienti (Perino, 2002). C’è inoltre una notevole
amplificazione di ciò che accade nel mondo sanitario da parte dei media, che non aiuta chi ci lavora
perché sottolinea quasi esclusivamente aspetti negativi (scandali, malasanità…) o eclatanti(terapie
ultrainnovative, interventi chirurgici molto complessi…). La buona sanità, fatta da migliaia di
operatori che quotidianamente svolgono con serietà, impegno e professionalità il proprio lavoro è
troppo “normale” per fare notizia. Nonostante il diffuso senso di insoddisfazione che spesso
riferiscono, ho comunque l’impressione che la maggior parte degli operatori ami ancora il proprio
lavoro e cerchi di svolgerlo con passione. Questa almeno è l’idea che ho dopo tanti anni di lavoro in
comunicativo per il personale sanitario. A volte ho addirittura l’impressione di condurre corsi di
“sopravvivenza” e forse lo sono, perché aiutare gli operatori ad essere più in contatto col proprio
vissuto, a comunicare meglio con pazienti e colleghi significa aiutarli a vivere meglio, a “resistere”
e a continuare a svolgere il proprio lavoro. Significa anche aiutarli ad acquisire maggiore
consapevolezza delle proprie esigenze, maggiore autostima, più coraggio e determinazione nel
proporre cambiamenti organizzativi. Per raggiungere tali obiettivi ho organizzato i corsi in modo da
dare la possibilità ai partecipanti disviluppare le 3 condizioni individuate da Carl Rogers, necessarie
e sufficienti per instaurare una efficace relazione di aiuto. In questo articolo desidero proporre
alcune riflessioni su quale impatto esse hanno sulla relazione operatore sanitario – paziente.
144
EMPATIA
L’empatia è un processo che consiste nel percepire i sentimenti ed i significati personali che l’altra
persona sta sperimentando, anche quelli che si trovano appena al di sotto della superficie cosciente,
e nel comunicare questa comprensione. Nei suoi ultimi scritti Rogers l’ha definita “una capacità
intuitiva di comprensione empatica”, sottolineando l’importanza di sintonizzarsi con l’altro: “il
nucleo interiore di me si relaziona al nucleo interiore dell’altra persona e capisco meglio di quanto
non faccia la mia mente, meglio di quanto non faccia il mio cervello.” (Rogers, 2002,trad. it. pp.
317). Empatia significa assumere il suo punto di vista, “mettersi nei suoi panni”, comprendere i suoi
vissuti: questi concetti sono alla base della medicina centrata sulla persona (Zucconi, 2003).Nella
pratica clinica spesso gli operatori sanitari si focalizzano solo sui sintomi fisici che i pazienti
presentano (febbre, dolore, astenia, vertigini ecc.). Se invece prendono in considerazione anche le
numerose emozioni che questi ultimi provano (paura, preoccupazione, tristezza, impotenza,
speranza, incertezza…) li potranno aiutare a diventarne più consapevoli e ad elaborarle, con
conseguenti migliori outcomes clinici e più efficace coping rispetto alla malattia.
Le emozioni infatti sono strettamente correlate alla salute:
a) hanno effetti fisiologici diretti su sistema cardiovascolare, respiratorio, gastroenterico,
immunitario ecc.,
b) influenzano la selezione, memorizzazione e valutazione cognitiva delle informazioni, quindi la
percezione del rischio, il riconoscimento di sintomi, la ricerca di aiuto,
c) influenzano la mobilizzazione delle proprie risorse personali, cognitive e motivazionali,
d) per evitare emozioni spiacevoli l’individuo può ricorrere ad abuso di alcool, droghe,
psicofarmaci o a comportamenti dannosi per la salute,
e) hanno un ruolo importante per quanto riguarda la socializzazione, che è un fattore protettivo
rispetto a molte malattie.
Le emozioni sono una delle quattro aree della cosiddetta “Agenda” del paziente (Moja, 2000, pp.5377) e rappresentano la “chiave” per accedere alle altre 3, che sono: 1) l’interpretazione che il
paziente dà dei suoi disturbi (“la causa sarà una allergia…lo stress….”), 2) le sue aspettative (“mi
faranno fare una TAC…mi prescriveranno un antibiotico….”), 3) il suo contesto famigliare, sociale
e lavorativo.
145
Solo esplorando l’agenda del paziente, l’operatore può instaurare una vera alleanza terapeutica e
fornire una assistenza globale, che tenga conto delle sua dimensione bio-psico-sociale.
Ascoltare senza giudicare
Ascoltare con empatia richiede il superamento dei pregiudizi, della naturale tendenza a giudicare,
valutare, approvare o disapprovare ciò che l’altro dice, soprattutto quando esprime forti emozioni
(Rogers, 1988).
Il medico, in particolare, ascolta il racconto dei disturbi del paziente, li interpreta, li organizza in
base alla propria visione di salute e malattia e seguendo un proprio schema mentale (la propria
“agenda”) cerca di arrivare nel più breve tempo possibile ad una diagnosi. Nella maggior parte dei
casi non lascia parlare il paziente per più di 18 secondi consecutivi; interrompe e pone domande per
confermare l’ipotesi diagnostica che ha già formulato dopo sue le prime parole. Questa “rapidità”
può essere dovuta alla esigenza di dover fare molte prestazioni in breve tempo, ma probabilmente
anche alla sua scarsa propensione a dare spazio a ciò che non riguarda strettamente gli aspetti
organici della malattia. In realtà se il paziente non viene interrotto parla al massimo per 2-3 minuti
ed aggiunge molte informazioni utili riguardo la sua “agenda”.
Il suo racconto comprende spesso moltissimi elementi, che il medico interrompendo e ponendo
domande non riuscirebbe a raccogliere. Racconta ad esempio di disturbi precedenti che possono
essere correlati a quelli attuali, di tentativi terapeutici che non sono serviti, di allergie a farmaci,
dell’ambiente sociale in cui vive, dell’attività lavorativa, delle sue aspettative ecc.
Empatia ed autoesplorazione
L’empatia secondo Rogers “è correlata coi movimenti di autoesplorazione ed elaborazione” daparte
del cliente (Rogers, 1980, trad. it. pp. 126, 133-5).
In molte situazioni gli operatori devono aiutare il paziente ed i suoi famigliari a prendere decisioni
importanti, come sottoporsi ad un intervento chirurgico rischioso o demolitivo, iniziare una
chemioterapia con importanti effetti collaterali, eseguire indagini invasive, ecc. In tutti questi casi le
persone possono esprimere il loro assenso (consenso informato) se hanno ricevuto informazioni
chiare e dettagliate ma anche se sono state accompagnate ad esplorare gliaspetti emozionali, oltre
che razionali, della decisione: dubbi, paure, speranze….
146
Alcune malattie (neoplasie, infarto miocardico, ictus, sclerosi multipla ecc.) hanno un impatto
profondo sulla vita delle persone, che devono riorganizzare radicalmente le proprie abitudini, le
relazioni, l’attività lavorativa, devono rivedere la propria scala di valori e cercare nuovo significato
nella propria esistenza (Gordon, 1995, pp. 167-178; Bonino, 2006, pp. 26-30).
I pazienti talvolta chiedono di poter condividere anche aspetti della propria spiritualità
(Perino,2002; Perino, 2003), lanciando dei messaggi che non sempre gli operatori sanitari riescono
a decodificare correttamente: “Ma devo proprio prendere tutte queste medicine? Ormai sono
vecchio….” “Dottore, vedrò crescere i miei figli?”
Gli operatori inoltre ascoltando con empatia possono aiutare i pazienti a riflettere sui propri stili
divita e sullo stress: due elementi oggigiorno all’origine di moltissime malattie (Zucconi, 2003).
Empatia e sostegno
L’empatia permette di creare relazioni caratterizzate da partecipazione, calore e vicinanza, che sono
di grande sostegno al paziente ed ai suoi famigliari nei momenti di particolare difficoltà. Non è raro
che appresa la diagnosi di una malattia a prognosi infausta, ad esempio, il paziente scoppi a
piangere. Dare rassicurazioni, minimizzare, sviare il discorso sono barriere comunicative che quasi
sempre hanno effetto controproducente. Spesso è meglio parlare poco e ascoltare, comunicando con
l’espressione degli occhi e del viso, con un gesto o alcune parole partecipazione e disponibilità,
lasciando così la possibilità al paziente di condividere la propria sofferenza.
Secondo un antico aforisma cinese:
Se basta una parola, non fare un discorso.
Se basta un gesto, non dire una parola.
Se basta uno sguardo, evita il gesto.
Se basta il silenzio, tralascia anche lo sguardo.
La malattia, il dolore cronico in particolare, possono creare solitudine, separare l’individuo dagli
altri. I pazienti talvolta vengono isolati fisicamente a causa della loro malattia, come nei reparti di
rianimazione, ematologia, unità coronarica ecc. In tutti questi casi ogni momento di contatto con
l’operatore ha una valenza importantissima per diminuire il senso di solitudine. Così anche mettere
147
una flebo, portare il vassoio col cibo, rifare il letto, possono diventare momenti significativi di
contatto umano.
L’empatia “riconnette” l’individuo agli altri esseri umani, “dissolve l’alienazione “.
L’empatia favorisce inoltre il “raccontarsi” del paziente, promuove la condivisione di forti
emozioni, costituisce una sorta di catarsi costruttiva (Gordon, 1995, pp. 61).
Informare con empatia
Le informazioni che gli operatori sanitari danno, hanno talvolta un notevole impatto emotivo su
pazienti e famigliari, che rende loro difficile o impossibile comprendere cognitivamente ciò che
viene detto. Non è raro che usciti dal colloquio col medico, ad esempio, non ricordino nulla di ciò
che è stato detto, talvolta neanche l’aspetto fisico del loro interlocutore. Se l’operatore si sintonizza
emotivamente con il paziente e “legge” le sue reazioni verbali e non verbali, ha la possibilità di
“dosare” le informazioni, scegliere il linguaggio più adatto, verificare ciò che l’altro ha compreso,
riassumere ed eventualmente riprendere il discorso in un successivo incontro, in modo da lasciare
tempo alla comprensione ed alla elaborazione. Questo modo di procedere viene adottato ad esempio
nei progetti di educazione terapeutica, nei quali, in incontri successivi, si insegna a pazienti e
famigliari, come gestire una malattia cronica quale diabete mellito, asma, malattia reumatica,
eczema atopico ecc. L’empatia è importante anche quando si deve comunicare la diagnosi di una
malattia con impatto importante sulla vita (neoplasia, malattia genetica ecc.). Dal punto di vista
legale il medico ha il dovere di dire la verità al paziente, anche se i famigliari non vogliono. Non di
rado però il paziente stesso non vuole sapere o non vuole sapere “tutto” e questo è un suo diritto: se
non ha le risorse per affrontare una situazione grave, può essere più funzionale (almeno
temporaneamente) una strategia di coping basata sulla negazione (Buckman, 1992, trad. it. pp. 75).
Per questo il medico dovrebbe essere sempre in contatto empatico col paziente e valutare momento
per momento quanto desideri sapere. Si può anche chiedere esplicitamente se vuole conoscere
l’esito di un esame o se preferisce che venga comunicato a qualche altro familiare (Buckman, 1992,
trad. it.pp. 7-11).
148
Empatia e giusta distanza emotiva
L’operatore deve essere abbastanza sicuro di sé stesso e non temere di perdersi quando entra nel
mondo dell’altro (Rogers, 1980, trad. it. pp. 123). Deve restare in contatto con le proprie emozioni,
in modo da poter continuamente monitorare l’entità del proprio coinvolgimento. Lavorando con
persone sofferenti esiste infatti il rischio concreto di perdere la “giusta distanza” e di coinvolgersi
eccessivamente o di essere troppo distaccati (freddezza, cinismo…), con il rischio di entrare in
burnout. La consapevolezza invece aiuta l’operatore a correre ai ripari e a ritrovare il giusto
equilibrio.
Empatia ed empowerment
Con l’empatia l’operatore sanitario entra nel mondo del paziente, vede le cose dal suo punto di vista
e può, dandogli fiducia, valorizzare le sue risorse. Anziché assumersi la responsabilità totale della
sua salute potrà promuoverla coinvolgendolo, aiutandolo a prendersi cura di sé e a mettere in atto le
strategie più utili per stare meglio (Zucconi, 2003).
Effetto dell’empatia sugli operatori
Un aspetto forse trascurato è che le relazioni empatiche fanno bene non solo agli utenti ma anche
agli operatori (Larson, 1993, trad. it. pp. 42-46). Chi sceglie il mestiere di helper cerca di soddisfare
il proprio bisogno di aiutare e questo lo può fare sia grazie alle proprie competenze tecniche sia,
soprattutto, a quelle relazionali.
Offrire una relazione caratterizzata da empatia aumenta il grado di soddisfazione per il proprio
lavoro (Larson, 2005). L’ascolto empatico rappresenta anche uno strumento utile per “disinnescare”
forti emozioni di rabbia ed aggressività da parte del paziente, che spesso mettono in difficoltà gli
operatori. Tali emozioni sono di solito collegate alla sensazione più profonda di non sentirsi
rispettato.
La rabbia è una frequente risposta emotiva alla malattia, la quale può costituire una minaccia, reale
o simbolica, alla persona, alla sua autostima ed alla sua dignità (Goleman, 1995, trad. it. pp.84).
I pazienti la possono provare in caso di diagnosi di neoplasia (Buckman, 1992), in caso di handicap
fisico dopo un incidente, un ictus, un intervento chirurgico ecc.
149
Comprendere questo permette all’operatore di poter mantenere una certa distanza emotiva, di non
farsi coinvolgere troppo e non vivere le espressioni aggressive del paziente (o dei famigliari) come
un attacco personale.
Prevenzione delle denunce per malpractice. Una relazione medico paziente basata su empatia e
partecipazione reciproca è un forte deterrente contro le denunce per malpractice (Anfossi, 2008,pp.
24; Gordon, 1995, pp. 67-68) che nascono più da difetti di comunicazione che da errori di diagnosi
e terapia.
Comunicare l’empatia
L’empatia per essere efficace deve poter essere percepita dall’interlocutore. Non è una tecnica da
utilizzare ma un processo, un modo di “essere in relazione con il cliente” (Mearns, 1999, trad. it.pp.
56), che si può esprimere in molti modi, in particolare con il linguaggio non-verbale: contatto fisico,
sguardo, posizione e movimenti del corpo, tono di voce (Schmid, 2007). Pertanto ogni azione può
essere fatta con empatia: misurare la pressione, fare un prelievo, visitare, accogliere la persona in
ambulatorio, aiutare un anziano a vestirsi ecc.
Gli ambienti stessi possono essere strutturati in modo tale da mettere a proprio agio l’utente: locali
accoglienti, angolo giochi per i bambini, assenza di barriere architettoniche ecc.
Il paziente di solito non esprime esplicitamente ciò che prova ma utilizza un codice, verbale e non
verbale, che l’ascoltatore deve poi decodificare.
Ad esempio: si isola, diventa taciturno, usa un linguaggio ironico, aggressivo, non mangia il cibo
che gli viene portato, trascura la cura del corpo, arriva tardi agli appuntamenti ecc. Uno strumento
utilissimo è allora l’ascolto empatico o “attivo” (Rogers, 1987), che consiste nell’ascoltare con
attenzione ciò che il paziente comunica, decodificarne il messaggio e rinviare il risultato della
decodifica per verificarne l’esattezza (rimando empatico).
Il cliente ha la possibilità di correggere il feedback dell’ascoltatore. Nasce e si sviluppa così un
processo di influenzamento reciproco, come una danza, in cui si crea una relazione che pian piano si
approfondisce. Il cliente si sente valorizzato, accompagnato con delicatezza e, in un clima di
sicurezza psicologica, può esplorare il proprio vissuto. Secondo Rogers ogni messaggio ha due
componenti, entrambe importanti perché gli danno significato: il contenuto (aspetto cognitivo) e le
150
emozioni o attitudini che sottostanno a questo contenuto. Il terapista è più efficace quando risponde
ad entrambe (Rogers, 2002, trad. it. pp. 318).
E’ perciò il significato complessivo del messaggio che va compreso (Rogers, 1987).
Recentissimi studi di neuroscienze hanno scoperto che nel caso dell’empatia emozionale (“sento ciò
che senti tu”) si attivano circuiti neuronali diversi da quelli che si attivano nell’empatia cognitiva
(“comprendo ciò che provi”)
CONSIDERAZIONE (ACCETTAZIONE) POSITIVA INCONDIZIONATA
Questa condizione si riferisce all’accogliere l’altro per quello che è riconoscendogli il diritto di
vivere la vita in base ai suoi valori, senza giudicarlo ma anzi accettandolo incondizionatamente,
valorizzandolo, credendo nelle sue potenzialità (Lietaer, 2001).
E’ un atteggiamento di apertura e rispetto verso chi è diverso da noi, per colore della pelle, etnia,
religione, orientamenti sessuali, stili di vita ecc. Coltivarlo permette all’operatore di potersi centrare
realmente sulla persona e di entrare nel suo mondo senza giudicare. Questo è particolarmente
importante in una società sempre più multiculturale come la nostra.
Autoesplorazione
Nella relazione la considerazione positiva incondizionata favorisce l’autoesplorazione e il
cambiamento. L’assenza di giudizio (e la comprensione empatica) crea un clima facilitante che
permette all’interlocutore di esprimere più liberamente aspetti di sé o affrontare tematiche
imbarazzanti come omosessualità, violenze subite, abuso di farmaci, di alcool, malattie tabù quali
HIV, disordini mentali ecc.
Considerazione positiva incondizionata ed etica
Accettare che gli altri abbiano una visione del mondo diversa dalla propria è diventato un tema
molto attuale in medicina. Gli operatori infatti sempre più spesso vengono confrontati con situazioni
quali eutanasia, manipolazioni genetiche, fecondazione artificiale, cellule staminali ecc. rispetto alle
quali vi sono profonde implicazioni etiche. Il diritto di ogni singolo di decidere per la propria vita,
ricorrendo a ciò che la scienza oggi mette a disposizione, può entrare in collisione con i valori degli
operatori sanitari (Marino, 2009).
151
Qualità di vita
Ci sono numerose malattie croniche, nelle quali gli operatori hanno il compito di accompagnare
pazienti e famigliari per molti anni, aiutandoli a raggiungere e mantenere la miglior qualità di vita
possibile.
Non è realistico considerare la salute uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale…”
perché questa è una condizione ideale ed irraggiungibile. E’ più funzionale pensare la salute come
una situazione che muta nel tempo, che oscilla lungo un continuum che va da un massimo di
sofferenza a un massimo di benessere (Bonino, 2006, pp. 9-12).
E’ un costante processo di adattamento che le persone cercano, con l’aiuto anche di chi lavora nella
sanità.
La qualità di vita riguarda diverse aree: salute fisica, salute psicologica, indipendenza, relazioni
sociali, ambiente, spiritualità, religione, credenze personali, qualità di vita generale (Delle Fave,
2007, pp. 9-13).
Solo il paziente può decidere cosa rende la sua vita degna di essere vissuta e di cosa ha bisogno
perché sia tale: se l’operatore accetta i suoi punti di vista riesce ad accompagnarlo, mettendogli a
disposizione le proprie risorse professionali ed umane, in modo da aiutarlo ad avere un coping
efficace con la sua patologia.
Considerazione positiva incondizionata e cambiamento
Quando una persona si sente accettata può esplorare i propri vissuti ed entrare in contatto con i
propri bisogni. In tale stato è più probabile che avvenga un cambiamento. Le relazioni caratterizzate
da questa condizione sono pertanto più efficaci quando si cerca di aiutare una persona a cambiare il
proprio stile di vita (fare dieta, smettere di fumare, adottare precauzioni durante i rapporti sessuali
ecc.). L’approccio direttivo e paternalistico in cui gli operatori agiscono il loro potere sgridando,
minacciando, dando ordini ecc., crea invece facilmente resistenze al cambiamento; non produce
empowerment, ma dipendenza.
152
CONGRUENZA
La congruenza è uno stato del sé (Mearns, 1999, trad. it. pp. 96), chiamato anche genuinità o
autenticità, che si riferisce alla consapevolezza delle proprie emozioni. Consiste in un grado di
coerenza fra i 3 livelli dell’esperienza organismica: contatto con le percezioni sensoriali e viscerali,
consapevolezza e simbolizzazione di tali esperienze, comunicazione (Rogers, 1980, trad. it. pp.19).
Essa ha quindi un aspetto interno (la percezione) ed uno esterno, la comunicazione verbale e non, di
se stessi, detto “trasparenza” (Lietaer, 2001).
La congruenza è ciò che consente al terapista di entrare nel mondo del cliente senza perdersi, di
gestire le proprie aree di vulnerabilità per poter accettare incondizionatamente l’altro. Congruenza
ed accettazione sono correlate, sono le due facce della stessa apertura di base: non ci si può aprire
all’esperienza dell’altro se non ci si apre alla propria. E senza apertura non può esserci empatia.
Consapevolezza dei propri punti di forza e di vulnerabilità
L’operatore sanitario usa “sé stesso”, la propria persona, per aiutare i pazienti in una miriade di
situazioni difficili. E’ importante quindi che conosca i propri punti di forza ed i propri punti deboli.
Spesso è un “guaritore ferito”, cioè una persona che ha fatto esperienza della sofferenza, l’ha
riconosciuta, elaborata, integrata, sviluppando maggiore sensibilità, apertura e comprensione verso
chi soffre (Brusco, 1997, pp. 85-99).
Le sue ferite sono diventate una risorsa, tuttavia ci possono essere delle tematiche che egli non ha
ancora sufficientemente elaborato, che costituiscono punti deboli, di vulnerabilità. Possono
riguardare paura della morte, lutti, bisogno di controllo, autonomia, dipendenza, timore di essere
ferito, vecchiaia ecc. (Novack, 1997). Se toccati, tali punti scatenano forti emozioni come tristezza,
rabbia, frustrazione, compassione, dolore ecc. e possono compromettere la relazione perché
l’operatore in questi casi tende a coinvolgersi eccessivamente o a essere molto distaccato: è meno
attento nell’ascolto, fa errori nella valutazione del livello emotivo, ha fretta, evita certe tematiche, si
sofferma eccessivamente su altre ecc. (Stewart, 1995, pp. 98).
153
Congruenza e benessere dell’operatore
Nelle istituzioni sanitarie c’è stato negli ultimi anni un notevole aumento di stress e disagio degli
operatori. Secondo recenti statistiche il 30% dei medici italiani è vittima di burnout, il 12% soffre di
disturbi psichici e dipendenza da sostanze: 8-10% alcoolismo, 2-3% altre sostanze, 2% disturbi
mentali gravi. L’incidenza del suicidio è 6 volte superiore rispetto a chi esercita un’altra professione
(Villa, 2010, Wallace, 2009).
Il loro malessere si riflette sulla qualità dell’assistenza: molti episodi di malasanità sembrano
esserne una conseguenza. La congruenza è correlata al benessere della persona perché le permette
di essere in contatto con ciò che avviene al suo interno sia a livello fisico che psichico, di percepire
messaggi che indicano distress (palpitazioni, cefalea, tic, sbalzi di umore, tensione…) e porvi
rimedio (Zucconi, 2003, pp. 228-230).
Congruenza, trasparenza e limiti
E’ necessario che gli operatori sanitari siano in contatto con sé stessi anche per poter mettere un
limite al proprio coinvolgimento emotivo. Per molti non è facile, specialmente se sono molto
empatici e sensibili alla sofferenza degli altri; riesce loro difficile ammettere di non poter far fronte
alle aspettative altrui, temono di apparire inadeguati, deboli o poco disponibili. È responsabilità
dell’operatore ascoltarsi, comprendere dove sono i propri limiti, i propri confini, comunicarli e
difenderli (Greggio, 1998, pp. 62-66; Rogers 2002, trad. it. pp. 319-320).
Autorivelazione
Il paziente è la parte “debole”, che necessita aiuto, mentre gli operatori sanitari sono visti come
sani, senza problemi, onnipotenti. In realtà pure loro sono vulnerabili, hanno problemi personali,
familiari, di salute, possono essere stanchi, frustrati, tristi, sentirsi inadeguati, feriti.
Come l’operatore dovrebbe essere disponibile verso il malato ed i suoi famigliari, allo stesso modo
questi dovrebbero avere un po’ di attenzione e comprensione verso il personale sanitario. Tanto più
che negli anni nel mondo sanitario si sono acuiti disagi quali carenze di organico, mancanza di
risorse, aumento dei carichi di lavoro e stress.
154
Una reale alleanza terapeutica deve tenere conto della reciproca vulnerabilità e richiede una
comprensione delle reciproche difficoltà (De Hennezel, 2004, trad. it. pp. 180-183).
Nella relazione quindi gli operatori potrebbero essere più trasparenti, rivelando, con modi e tempi
appropriati, almeno in parte il proprio disagio. (McDaniel, 2007). Se un operatore, ad esempio, sta
vivendo un momento di grande sofferenza (lutto, malattia, ecc.) che incide sulla qualità della sua
comunicazione, è utile che lo verbalizzi, senza necessariamente condividere le proprie vicende
personali. Questo momento di condivisione, di sfogo, potrà essergli di aiuto e lo renderà una
persona “reale”, umana agli occhi dei pazienti, che potranno comprendere meglio il suo
comportamento (Gordon, 1995, pp. 93).
«A seconda del paziente e del tipo di relazione, il medico può apertamente riconoscere di essere
esausto e dire al paziente che la visita sarà più breve del solito. Una tale ammissione rende il
medico più umano e permette al paziente di restituirgli alcune delle emozioni di sostegno che in
passato il medico gli aveva dato, migliorando così la relazione di reciproco sostegno e rispetto»
(Quill, 1989)Thomas Gordon ha individuato 4 tipi di messaggi di autoapertura, che l’operatore può
inviare (Gordon, 1995, pp. 94-99):
1) Messaggi dichiarativi: condivisione di proprie credenze, idee, preferenze, opinioni. Alcuni
esempi: “Credo sia importante alimentarsi in modo corretto”, “Quando lei torna al controllo è
importante che sia puntuale, così potremo avere più tempo a disposizione per parlare…”…,
2) Messaggi di risposta: comunicano come ci si sente di fronte ad una richiesta (di ulteriori
analgesici, di potersi assentare dal reparto, di eseguire indagini in realtà inutili ecc.). Ad esempio:
“Questa sua richiesta mi mette proprio a disagio perché….”, “Sono contento che abbia
deciso…”,“Mi spiace che lei rifiuti….”,
3) Messaggi preventivi: comunicano un proprio bisogno all’altro, che così può regolare il suo
comportamento, ed evitano l’insorgenza di un possibile conflitto. Ad esempio informare i pazienti
quando si allunga il tempo di attesa per avere una visita, quando dopo un intervento è verosimile la
comparsa di alcuni sintomi ecc..,
4) Messaggi di confronto. Si inviano quando il comportamento dell’altro interferisce con un nostro
bisogno. Inviare questi messaggi richiede assertività, in particolare quelli dell’ultimo punto.
155
Il confronto
Circa il 15% degli incontri con i pazienti viene vissuto come “difficile” da parte dell’operatore
sanitario. Questo dipende non tanto da problemi tecnici, procedure o dal tipo di malattia, ma dalle
“agende inconsce” che entrambe le parti portano nella relazione (Stewart, 1995, pp. 96).
Le difficoltà più frequenti sono con pazienti scontrosi, aggressivi, pretenziosi, non cooperativi,
ipercritici, che arrivano tardi agli appuntamenti, non vogliono attenersi alle regole e alle abitudini
dell’ospedale, non seguono i piani terapeutici.
Gli operatori sanitari trovano inaccettabili tali comportamenti perché interferiscono con lo
svolgimento dei loro compiti professionali (Gordon, 1995, pp. 98-99). Le reazioni emotive che
nascono possono essere di rabbia, irritazione, frustrazione, noia, indifferenza ecc. e rappresentano
l’indizio di un problema che va risolto per non compromettere la qualità dell’assistenza.
La comprensione empatica e la considerazione positiva incondizionata possono senz’altro essere di
aiuto. Si può “decodificare” il comportamento del paziente come espressione di paura, insicurezza,
rabbia, dolore dovuti alla malattia. Ma in alcune situazioni può essere necessario arrivare al
confronto per porre un limite ad un comportamento che ferisce l’operatore, è dannoso per la salute o
compromette l’esito delle cure.
Questo implica il rischio che l’altra persona possa sentirsi attaccata, si arrabbi e il rapporto si
deteriori (Rogers, 2002, trad. it. pp. 319-320). Per questo richiede coraggio ed assertività.
La modalità direttiva di confronto che si fonda sul potere dell’operatore (minacciare, ammonire
ecc.) produce resistenza al cambiamento, fa sentire l’altro non considerato nei suoi bisogni, provoca
forte difensività ed aggressività.
Esistono però altre modalità, più efficaci, che prevedono l’uso della propria congruenza e
trasparenza, in un clima di rispetto ed empatia.
Vi è innanzitutto una auto-confrontazione: quando il paziente ascolta i rimandi empatici si
autoconfronta, si vede come riflesso in uno specchio (Lietaer, 2001a, pp. 99).
Un’altra possibilità è comunicare le proprie impressioni sul paziente ed i sentimenti che ha suscitato
in noi. Questo implica la perdita del principio di attenersi esclusivamente al suo campo
esperienziale, perché il feedback parte dallo schema di riferimento dell’operatore. Questo tipo di
messaggio comunque non costituisce un rifiuto dell’altro come persona (Lietaer, 2001a, pp. 99) se
vengono rispettati i seguenti punti (Lietaer, 2001a, Lietaer 2001b):
156
- va inviato quando il terapeuta ha emozioni forti, persistenti, che gli impediscono di focalizzarsi su
quelle del cliente e non rivelarle lo indurrebbe a mettersi una maschera di falso interesse,
- bisogna considerare se il cliente può trarre giovamento, recepire ed integrare in se il messaggio di
confronto. Essere trasparenti quindi con responsabilità, in modo che non sia un acting-out,
- deve riferirsi a situazioni recenti,
- deve riguardare l’impatto che il comportamento del paziente ha sull’operatore, non lui come
persona,
- deve essere esplicito e concreto, descrivere precisamente cosa del comportamento ha creato
problemi e quali sono state le emozioni che ne sono conseguite,
- deve essere inviato in un clima positivo, chiarendo che l’intenzione è di migliorare il rapporto,
approfondirlo,
- non va imposto ma deve essere un atto di congruenza e trasparenza, che esprime un malessere
dell’operatore (e non colpevolizza),
- bisogna essere pronti ad accogliere la reazione del paziente.
CONCLUSIONI
Le 3 condizioni necessarie e sufficienti individuate da Carl Rogers sono un patrimonio che ogni
persona possiede, anche se in misura diversa. Se gli operatori sanitari le implementano, le fanno
diventare parte integrante di sé, le “armonizzano”, possono acquisire un “modo di essere” centrato
sulla persona: in contatto con se stessi, consapevoli delle proprie emozioni, in grado di percepire
quelle dei pazienti e di accettare, senza giudicare, un modo di vedere il mondo diverso dal proprio.
Il loro modo di interagire con i pazienti terrà allora in considerazione la “persona” ed i suoi bisogni
nelle innumerevoli interazioni quotidiane e nei più svariati ambiti, dai più semplici (prelievo
sanguigno, misurazione della pressione ecc.) ai più complessi (comunicazione di diagnosi infausta,
intervento chirurgico ecc.).
In un mondo sanitario complesso, martoriato da grandi problemi (scarsità di risorse, tagli al
personale, scandali, denunce per malpractice, stress, burnout, mobbing…), difficile da migliorare
anche per politici ed amministratori, formarsi e migliorare la propria capacità comunicativa mi
157
sembra una strada efficace che gli operatori sanitari possono percorrere, per “resistere” e continuare
a svolgere con soddisfazione un lavoro che in moltissimi hanno scelto per passione.
STRUTTURE RICREATIVE E DI AGGREGAZIONE
Il Centro Diurno Anziani fornisce un servizio di assistenza a carattere integrativo e di sostegno alla
vita domestica e di relazione. Si propone di assicurare agli anziani effettive possibilità di vita
autonoma e sociale, favorendo il rapporto di comunicazione interpersonale e le attività ricreative e
culturali.
Il Centro Diurno Anziani si rivolge a cittadini anziani autosufficienti quale luogo ed occasione di
aggregazione ludica e culturale (bassa soglia), dove vengono organizzate, progettate e realizzate
attività di promozione e di socializzazione per il benessere della condizione anziana.
Il Centro Diurno Anziani provvede alla:
Organizzazione, promozione e sviluppo di attività ricreativo-culturali interne ed esterne al centro,
anche mediante visite di luoghi o strutture nell'ambito urbano ed extraurbano;
Promozione della partecipazione agli avvenimenti culturali, sportivi e ricreativi della vita cittadina;
Promozione di attività ludico-motoria ed espressivo-ricreativa con organizzazione di attività
laboratoriali presso il Centro o presso altri impianti;
Promozione di attività di tipo artigianale anche con l'impiego di utensili vari;
Promozione di corsi di educazione sanitaria, alimentare, di prevenzione ecc., in collaborazione con
le istituzioni competenti;
Promozione e programmazione di attività ricreative e di informazione anche quale strumento di
salvaguardia dei valori culturali e delle tradizioni popolari da realizzare anche con l'impiego di
idonei strumenti quali: proiettori cinematografici, registratori, impianti fonici, giochi vari, televisori,
giornali, quotidiani, rotocalchi, piccoli e medi elettrodomestici, strumenti informatici e
multimediali, ecc.;
Organizzazione di incontri/feste in occasione di particolari festività;
158
Offre attività di animazione, ludiche e culturali e la possibilità di usufruire del pasto nei limiti della
capacità recettiva.
LE ATTIVITA’ EDUCATIVE
Prestazione socio-educativa
Definizione
La prestazione socio-educativa consiste di una pluralità di attività di osservazione, di ascolto, di
interazione e di guida sia con la persona disabile o con il gruppo, sia con la rete familiare e sociale
che la circonda; ciò garantisce all'utente l'indispensabile accompagnamento educativo ed affettivo
nel suo processo di socializzazione, di acquisizione della maggior autonomia possibile e di
integrazione sociale.
La presa a carico si basa sul programma di sviluppo individuale e fa leva sulle risorse fisiche,
psichiche, sociali e ambientali (famiglia, istituto, rete sociale) della persona disabile, tutelandone al
contempo i diritti.
Finalità
Educare e accompagnare la persona disabile, compatibilmente con le sue esigenze soggettive
(vissuto personale, età e stato civile, ecc.),nello sviluppo di un'autonomia personale e sociale e
nell'acquisizione e/o mantenimento di competenze comportamentali, cognitive, affettive e
relazionali, finalizzate ad un’adeguata integrazione sociale.
Obiettivi
• Assicurare all'utente accompagnamento e progettualità educative rispetto a tutte le dimensioni
della sua quotidianità (lavarsi, vestirsi, mangiare, ecc.).
• Stimolare lo sviluppo del potenziale dell'utente nella gestione della propria vita.
• Favorire il processo di socializzazione e integrazione sociale della persona disabile.
• Sostenere l’utente nei suoi rapporti affettivi e sociali.
• Favorire e coordinare i contatti con il nucleo familiare di appartenenza e la rete sociale dell'utente.
159
Attività
La struttura definisce liberamente una propria strategia di presa a carico dal punto di vista
dell'intervento socio-educativo, programmando in maniera continuativa una serie di attività e
iniziative puntuali e ricorrenti. La prestazione socio-educativa si realizza
Catalogo dei servizi e delle prestazioni
invalidi – adulti – prestazioni – prestazione socio-educativa attraverso la definizione, la
realizzazione e l’aggiornamento del programma di sviluppo individuale che considera i seguenti
aspetti:
• Attività individuali o di gruppo (accompagnamento uscite ricreative; organizzazione corsi,
vacanze e tempo libero; attività ludiche; ecc.).
• Affettività-emozionalità-relazionalità (contatti con compagni e operatori; relazione ospitefamiglia; contenimento dell'ansia e dell'aggressività; ecc.).
• Autonomia e integrazione (aiuto uso mezzi pubblici e azioni di routine; aiuto negli spostamenti;
aiuto nel vestirsi e svestirsi, bagno ecc.).
• Comunicazione (aiuto nell'uso dei mezzi di comunicazione; aiuto nella comprensione e
codificazione di messaggi; aiuto nella comunicazione verbale e simbolica; ecc.).
• Mantenimento e sviluppo delle capacità cognitive (aiuto nel fare di conto, leggere, scrivere,
nell’orientamento nello spazio e nel tempo; ecc.).
• Gestione dei bisogni pratici (aiuto nella gestione della contabilità, negli acquisti ecc.).
Destinatari e modalità d'erogazione
La prestazione socio-educativa deve essere garantita a tutti gli utenti della struttura. Le attività
socio-educative sono erogate e gestite dal personale dipendente dell'Ente.
Figure professionali
La struttura deve dotarsi di personale adeguato, sul piano quantitativo, della preparazione
professionale, delle conoscenze empiriche e delle capacità relazionali, necessario per poter garantire
160
l'erogazione della prestazione conformemente ai livelli di qualità dichiarati, prescritti dalle
normative in materia o specificamente richiesti dell'Ente finanziatore.
Le prestazione socio-educativa è erogata da:
• Educatore diplomato o con titolo equivalente.
• Operatore socio assistenziale.
La definizione, il controllo e l’aggiornamento del programma disviluppo individuale e di
mantenimento e sviluppo delle capacità cognitive, relazionali e affettive competono all'educatore
diplomato o
Catalogo dei servizi e delle prestazioni
invalidi – adulti – prestazioni – prestazione socio-educativa con titolo equivalente, che svolge
queste attività in una logica di lavoro di rete, coinvolgendo le altre figure professionali di
riferimento interne o esterne alla struttura, l’utente stesso e/o il suo rappresentante legale e/o i suoi
familiari.
Specifiche in relazione alla casistica
Le modalità di erogazione della prestazione e l'impiego delle risorse in termini di figure
professionali devono essere relazionati ai contenuti dei programmi di sviluppo individuali, tenendo
conto inparticolare dei livelli di autonomia e dell'età degli utenti.
EMPOWERMENT E QUALITA’ DELLA VITA
Con il termine empowerment viene indicato un processo di crescita, sia dell'individuo sia del
gruppo, basato sull'incremento della stima di sé, dell'autoefficacia e dell'autodeterminazione per far
emergere risorse latenti e portare l'individuo ad appropriarsi consapevolmente del suo potenziale.
Questo processo porta ad un rovesciamento della percezione dei propri limiti in vista del
raggiungimento di risultati superiori alle proprie aspettative. L'Empowerment è un costrutto
multilivello che in base alla tripartizione di Zimmerman (2000) si declina in: 1. psicologicoindividuale; 2. organizzativo; 3. socio-politico e di comunità. Questi tre livelli sono analizzabili
individualmente ma strettamente interconnessi fra di loro.
161
Livello Individuale
Il livello individuale rimanda al concetto di self-empowerment e si riferisce al processo di crescita
del singolo individuo che attraverso percorsi di natura diversa (terapeutico, formativo, esperienziale,
ecc.) sviluppa nuove abilità e competenze. Zimmerman (2000) si è occupato di empowerment
psicologico individuale come percorso che porta dalla learned helplessness (cioè la passività
appresa accompagnata da senso di sfiducia e sconforto nell'affrontare problemi quotidiani) alla
learned hopefulness (maggiore fiducia in se stessi e apprendimento della speranza). Tale costrutto
viene scomposto in tre componenti che, considerate insieme, costituiscono un modello di base per la
valutazione dell'empowerment a livello di analisi dell'individuo:
1. La componente intrapersonale - controllo- (corrisponde a controllo e competenza percepiti.
Include caratteristiche di personalità, caratteristiche cognitive e aspetti motivazionali).
2. La componente interpersonale – consapevolezza critica- (corrisponde alla capacità di analizzare il
contesto socio-politico in cui si vive per comprendere il proprio ambiente. Essa si concretizza nella
capacità di individuare le risorse necessarie per raggiungere un obiettivo e nella scelta di un piano di
azione).
3. La componente comportamentale – partecipazione- (corrisponde alle azioni svolte per esercitare
il controllo attraverso la partecipazione attiva).
Rappaport (1981) delinea l'empowerment come un processo sociale multidimensionale che aiuta le
persone a raggiungere un maggior controllo sulla propria vita. Permette, quindi, di incrementare il
potere delle persone, per fare in modo che utilizzino tale capacità nella loro vita, nella loro
comunità, nei loro gruppi. Sono tre gli aspetti in questa definizione che risultano centrali:
processo sociale: processo in quanto è un percorso, un viaggio che si sviluppa e si definisce in
itinere;
multidimensionale: si esprime a diversi livelli (comunità, gruppi, individui) ma anche su diverse
dimensioni (sociologiche, psicologiche, economiche);
controllo: inteso come potere positivo, possibilità di scelta e azione.
Bruscaglioni (1991) introduce il termine “self-empowerment” e sostiene che l'attenzione debba
cadere maggiormente sul polo positivo di questo processo: su una tensione positiva, un desiderio
162
piuttosto che su un sentimento di mancanza. Egli parla di “io desiderante” come elemento che avvia
il processo di empowerment; per cui, colui che promuove il self-empowement deve cercare di
attivare fiducia, ambizione e desiderio nell'altro per “l'apertura di una nuova possibilità all'interno
del soggetto” (Dallago, 2008). La possibilità di scegliere è la condizione necessaria per l'assunzione
di responsabilità. L'approccio generale del self-empowerment ritiene che il comportamento sia
causato dalla personale percezione di successo o insuccesso e quindi sia cognitivamente
determinato. Per empowerizzare l'individuo bisognerà intervenire, dunque, sui suoi schemi
cognitivi. Il modello del self-empowerment prende in considerazione quattro dimensioni:
1) Autoefficacia;
2) Collocazione interna della causalità;
3) Speranzosità (la hopefulness in Zimmerman);
4) Pensiero positivo.
Lo specifico percorso formativo di self-empowerment proposto da Bruscaglioni (1991) prevede
diverse tappe:
l'insorgenza di un nuovo desiderio;
capacità di crearsi rappresentazioni mentali positive della situazione desiderata;
acquisizione di consapevolezza delle proprie risorse esterne e interne per poter mettere in atto il
cambiamento;
messa in atto di una prova sperimentale della realizzazione concreta del desiderio;
ulteriore mobilitazione di risorse sulla base del feedback ricevuto dall'azione sperimentale;
messa in atto di un vero tentativo di realizzare il proprio desiderio.
Una criticità della proposta teorica di Bruscaglioni sta nell'aver sottolineato solo l'importanza dello
sviluppo di tali competenze per il benessere individuale, trascurando ,invece, la centralità di una
prospettiva circolare di interazione fra individuo e ambiente, presa invece in considerazione da
Zimmerman. Infatti l'empowerment individuale è necessariamente connesso con il rafforzamento
163
della dimensione sociale e della sua esperienza nei contesti di vita quotidiana. Individui
maggiormente empowered sono tasselli di base per il gruppo, l'organizzazione e la società.
Kiefer (1984), invece, si occupa di empowerment individuale in un'ottica completamente
comunitaria. Il suo modello di sviluppo naturale e spontaneo dell'empowerment psicologico viene
elaborato dopo una indagine concretamente compiuta fra individui attivi nella loro comunità e con
un alto livello di empowerment individuale. Il modello si struttura in modo circolare; qui la
partecipazione, l'empowerment psicologico e il vivere in ambienti che favoriscono l'empowerment
può cambiare la minaccia percepita e rafforzare il senso di comunità che, a sua volta, avrà risvolti
positivi sull'individuo. Gli stadi dello sviluppo spontaneo dell'empowerment individuale sono: 1)
Entrata: questa fase si basa su presupposti quali un forte senso di comunità da parte degli individui e
la presenza di una minaccia ai loro interessi. Ciò porta a mettere in discussione l'autorità. 2)
Avanzamento: in questa fase l'individuo si lascia affiancare da una guida che lo aiuta a superare
eventuali difficoltà, che condivide le sue stesse preoccupazioni e cerca con lui possibili soluzioni,
ampliando la comprensione di aspetti sociali, economici e politici della situazione. 3) Integrazione:
momento cruciale in cui le nuove conoscenze ed esperienze vengono integrate con la propria
identità. In questa fase ci si inizia a percepire come leader e a sentirsi bene nel portare avanti tale
ruolo. Contemporaneamente, però, possono emergere dei conflitti legati alle altre sfere della vita e
ad altri impegni. 4) Impegno: questa fase inizia nel momento in cui si riesce a risolvere i conflitti e a
stabilizzare la propria identità. L'individuo si sente in grado di partecipare più attivamente alla vita
di comunità, di avere una maggiore comprensione della realtà e possedere risorse individuali e
collettive.
Strumenti e strategie di sviluppo dell'empowerment
Le strategie messe in atto dagli psicologi di comunità per promuovere lo sviluppo
dell'empowerment, condividono alcune caratteristiche di base (Dallago, 2006):
Lavorare considerando vari aspetti del problema;
Valorizzare il gruppo e gli individui rafforzandone le competenze relazionali e di cooperazione;
Valorizzare le esperienze di vita e di lavoro, attraverso l'uso di metodi e attività coinvolgenti;
Favorire la partecipazione attiva dei soggetti interessati, aumentare la motivazione, creando spazi
per la condivisione di idee e abilità;
164
Creare reti di istituzioni e di individui in grado di condividere sforzi, risorse e idee, e di diventare
nuova risorsa per la comunità;
Promuovere la cultura della valutazione, indicando l'importanza della raccolta dei dati sui processi e
sui risultati delle attività,
Fare in modo che il lavoro non si concluda con l'uscita di scena dello psicologo e dell'operatore ma
che continui e diventi patrimonio della comunità.
Livello Organizzativo
L'approccio organizzativo deriva dall'ambizione di superare le dinamiche strettamente individuali
considerando rilevanti anche altre prospettive come i legami tra le persone, le dinamiche relazionali
e la struttura delle organizzazioni. Nonostante questo approccio faccia riferimento a molteplici
contesti e situazioni, gli studi si sono limitati a considerare lo sviluppo dell'empowerment
individuale all'interno dei gruppi, delle organizzazioni e delle associazioni principalmente a livello
aziendale. Esistono due tipi di organizzazione con caratteristiche riconducibili alla definizione di
empowerment di Zimmerman (2000):
a) Organizzazione Empowering:
ha come obiettivo basilare quello di promuovere l'empowerment personale dei suoi membri;
è costituito da strutture e norme orizzontali (controllo);
sono mobilitate risorse interne (consapevolezza critica);
le decisioni sono prese da più membri (partecipazione).
b) Organizzazione Empowered:
ha come obiettivo principale quello di influenzare il contesto in cui è inserita;
nella comunità allargata e nei dibattiti deve riuscire a prendere voce in capitolo (controllo);
sono mobilitate risorse interne e esterne (consapevolezza critica);
è coinvolta in reti di organizzazioni o in attività di governo della comunità (partecipazione).
165
Livello di Comunità
A livello di comunità, l'empowerment fa riferimento all'azione collettiva finalizzata a migliorare la
qualità di vita e alle connessioni tra le organizzazioni e le agenzie presenti nella comunità.
Attraverso l'empowerment di comunità si realizza la “comunità competente”, in cui i cittadini hanno
“le competenze, la motivazione e le risorse per intraprendere attività volte al miglioramento della
vita”. Le strategie di empowerment di comunità sono volte a favorire il processo di crescita di
potere nei cittadini tramite la partecipazione di questi ad esperienze significative. In tal senso,
pertanto, questi cittadini costituiranno una risorsa per le altre persone. Secondo Iscoe e Harris
(1984), le comunità competenti sono caratterizzate da tre fattori:
1. Il potere di generare opportunità ed alternative
2. La coscienza di come ottenere risorse ovvero gli strumenti necessari per risolvere un problema
3. L'autostima considerata in termini di orgoglio, ottimismo e motivazione.
Martini e Sequi (1999) ne aggiungono una quarta, ovvero l'identità, che ha il ruolo di collante
affettivo nella comunità. In questo senso, l'empowerment di comunità è inteso come un processo
che conduce i membri a uno sviluppo della propria percezione di potere, del proprio sentimento di
appartenenza e della capacità di prendere decisioni. Contemporaneamente, la comunità può offrire
agli individui opportunità per accrescere il controllo sulle proprie vite oppure favorire alle
organizzazioni la possibilità di influenzare la vita della comunità stessa. D'altra parte una comunità
può influenzare le decisioni politiche o raggiungere in qualche modo i propri obiettivi. Una certa
comunità locale può presentare una sola o entrambe queste caratteristiche. Gli approcci più noti per
accrescere il potere collettivo, inteso sia come controllo di risorse sia come influenza sulla
partecipazione dei cittadini, che come modo di prendere in considerazione e definire i problemi
comuni, sono quattro:
1. Lo sviluppo di comunità tramite la partecipazione attiva dell'intera comunità per creare le
condizioni di progresso sociale ed economico.
2. L'azione sociale che ha lo scopo di accrescere la consapevolezza dei problemi tra coloro che ne
sono afflitti e che possono trarre vantaggio dal cambiamento. Un'efficace azione sociale necessita di
un'organizzazione coesa e di molti cittadini che si oppongono all'ingiustizia in modo legale.
166
3. Favorire la consapevolezza dei problemi sociali, ovvero aumentare la comprensione del
significato che alcune condizioni sociali hanno sugli individui.
4. L'advocacy è un approccio che comprende tutti i modi per far sentire la propria voce, per
influenzare le decisioni, le politiche o le leggi.
Nella realtà i quattro approcci spesso si intrecciano in modo da favorire la nascita di una spirale di
cambiamento che ha come fulcro l'ottenimento dell'empowerment. Laverack (2001) individua nove
domini operativi che possono servire come mezzo attraverso cui sviluppare empowerment di
comunità:
1. Partecipazione: tramite il coinvolgimento attivo, gli individui possono influenzare la propria vita
e quella altrui.
2. Leadership: quella condivisa da tutti i partecipanti.
3. Strutture organizzative: tutti i gruppi come le organizzazioni parrocchiali e giovanili che sono
fondamentali per la socializzazione e per la risoluzione dei problemi.
4. Valutazione dei bisogni e dei problemi: spesso comporta l'acquisizione di nuove competenze e
abilità per individuare soluzioni.
5. Mobilitazione delle risorse sia all'interno che all'esterno delle comunità.
6. Chiedersi il perché delle cause sociali, politiche o economiche che provocano il malessere o il
benessere della comunità.
7. Legami con persone e organizzazioni.
8. Agenti esterni che possono fungere da facilitatori, dare supporto o aumentare il livello di analisi
critica.
9. Gestione dei progetti: include il controllo da parte di tutti gli attori coinvolti nelle decisioni.
IL SOCIOGRAMMA
Progettazione di un sociogramma
Il test sociometrico permette di ottenere una dettagliata mappa delle relazioni e di individuare lo
status sociale dei singoli soggetti all’interno del gruppo.
167
Può essere utilizzato non solamente in ambito scolastico, ma in qualsiasi contesto dove esiste un
gruppo organizzato e strutturato di cui si vuole approfondire la conoscenza (in fabbrica, nelle
comunità terapeutiche, in caserma, nelle colonie giovanili, in ambiente di lavoro e sportivo, nelle
comunità religiose, ecc…).
In questo articolo sarà utilizzato, a fine esemplificativo, un sociogramma somministrato in una
classe prima di scuola media superiore, composta da 17 maschi e 10 femmine.
Gli allievi saranno individuati con una sigla, perché, in sociometria, è consuetudine indicare i
soggetti esaminati con le iniziali del loro cognome e nome.
Individuazione del criterio di indagine
Il test sociometrico è uno strumento semplice e facile da adattare all’obiettivo che si vuole
raggiungere. L’obiettivo è strettamente collegato all’aspetto della vita di gruppo che si vuole
indagare. L’individuazione del criterio faciliterà l’esatta formulazione delle domande che saranno
presentate ai soggetti componenti il gruppo in fase di somministrazione del test.
I criteri sociometrici maggiormente utilizzati riguardano essenzialmente:
l’aspetto affettivo - relazionale, che ha come contesto di riferimento la vita in comune o lo stare
insieme (esempi: chi vuoi o non vuoi come compagno di gita, di stanza, di banco, di vacanze,
ecc…). La configurazione delle interrelazioni che si ottiene utilizzando questo criterio fa
riferimento a rapporti affettivi che si fondano su affinità psicologiche e non su considerazioni delle
abilità pratiche dell’individuo.
La domanda potrebbe essere formulata così: “Se si dovesse organizzare una gita (oppure una festa)
chi sceglieresti tra i tuoi compagni?”. Per rispondere a questo tipo di domanda, l’allievo terrà in
considerazione questo tipo di ragionamento: ”Scelgo Tizio perché mi è simpatico, mi fa molto
divertire e con lui mi trovo a mio agio”.
l’aspetto relativo alla organizzazione gerarchica del gruppo, che punta ad avere informazioni su chi
può svolgere funzione di guida o di direzione (esempi: chi vuoi o non vuoi come capoclasse,
caporeparto, capo di équipe, ecc..)
l’aspetto relativo alla organizzazione del gruppo finalizzata al raggiungimento di un obiettivo
condiviso (esempi: chi vuoi o non vuoi come compagno in un gruppo di studio o nel tuo lavoro).
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I criteri del tipo 3, e in parte anche quelli del tipo 2 implicano, invece, processi di valutazione delle
capacità e abilità altrui.
Se la finalità del test è collegata alla necessità di indagare e di migliorare la capacità organizzativa
del gruppo, allora la domanda può essere così presentata: ”Chi sceglieresti tra i tuoi compagni per
organizzare dei gruppi di studio (o di lavoro)?”.
Le opzioni che saranno effettuate per questo tipo di domanda non faranno riferimento al costrutto
“Simpatia/Antipatia” utilizzato in precedenza, bensì saranno dettate dalla necessità di individuare
nei compagni da scegliere la disponibilità alla collaborazione, la serietà e la capacità nel portare a
termine i compiti assegnati.
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