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Università di Pisa
ELEMENTI di PSICOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE
per i CORSI di LAUREA IN INFORMAZIONE SCIENTIFICA SUL
FARMACO, FARMACIA e SCIENZE ERBORISTICHE
Dott. Prof. Fulvio Corrieri, psicologo
Avvertenza.
Il presente lavoro costituisce un supporto per la didattica universitaria dell’Ateneo di
Pisa. La Sua riproduzione è quindi riservata ai Corsisti e alle persone autorizzate
che possono effettuare il downloading della stessa. L’eventuale utilizzazione e/o
riproduzione per scopi diversi dalla consultazione per motivi di studio e/o di ricerca,
d’interesse scientifico e/o culturale, comunque non autorizzato al di fuori del Corso
di Laurea e dell’Ateneo di Pisa, è da considerarsi perciò illegittima. E’ ovviamente
possibile la citazione di parti dello strumento didattico nelle forme riconosciute
indicandolo lo stesso quale fonte sitografica.
Presentazione
Fulvio Corrieri, psicologo iscritto all’OPT (Ordine degli Psicologi della Toscana,
posizione 1154) con studio clinico libero professionale ove svolge attività
psicodiagnostica e di sostegno, da anni collabora alle attività di ricerca psicologica
dell’Ateneo di Pisa e del CAFRE, sotto la direzione di Piero Paolicchi ed Elena
Calamari. Docente a contratto presso la SSIS per l’insegnamento di Psicologia e per
Psicologia e Mediazione (corso base) presso il Corso di Laurea in Scienze per la
Pace. Fa parte del CISP dell’Ateneo di Pisa. Fa parte della Commissione di
Psicologia e Scuola (OPT). E’ membro del CUG presso l’USR della Toscana. Ha
realizzato numerosi interventi in campo formativo ed educativo.
E-mail: [email protected]. - [email protected]
Cellulare: 360-903883; oppure: 0586-889470.
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Programma
Definizione di comunicazione
I modelli della comunicazione
Le funzioni della comunicazione
La pragmatica della comunicazione umana
CV e CNV
Stili di comunicazione: passivo, aggressivo e assertivo
Comunicazione e gruppo
Il gruppo sociale e il gruppo di lavoro
Le reti comunicative nei gruppi
Comunicazione e leadership
Comunicazione, stereotipi e pregiudizi
Comunicazione e conflitto
La gestione costruttiva delle emozioni e dei conflitti nelle relazioni interpersonali
Life-skills e comunicazione efficace
Empowerment, self-empowerment e comunicazione
Cos’è comunicare?
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“(…) la comunicazione non è solo razionalità,
ma anche e soprattutto espressione
di emozioni, di sentimenti, di valori”
(S. Castelli, 1996)
Comunicare e comunicazione sono termini che etimologicamente rimandano
alla parola latina communis, composta dal prefisso cum, con, indicante lo stare
insieme, e munis, cioè svolgere una funzione. Com-munis rimanda a ciò che è
comune e condiviso, in opposizione a ciò che è proprius, perciò non condivisibile per
sua natura con altri. Nella sua accezione più ampia, come sottolinea Galimberti
(1992), il termine viene impiegato in ambiti diversi, quali quelli della biologia, della
cibernetica *, della etologia, intesa come lo studio del comportamento animale nelle
condizioni più prossime a quelle dell’habitat naturale, per indicare lo scambio di
messaggi tra soggetti, organismi e macchine.
La comunicazione umana nell’ottica della psicologia è un processo sociale.
Essa, infatti, è un sistema che richiede più attori impegnati in una serie di eventi.
La comunicazione è perciò un’attività eminentemente sociale: “per
definizione, infatti, si ha comunicazione soltanto all’interno di gruppi (o comunità),
in quanto il gruppo rappresenta una condizione necessaria e un vincolo per la genesi,
l’elaborazione e la conservazione di qualsiasi sistema di comunicazione” (Anolli,
2006, p.13). A sua volta, qualsiasi sistema di comunicazione alimenta, influenza e
modifica in modo profondo la vita stessa del gruppo, per cui socialità e
comunicazione sono due dimensioni distinte ma intrinsecamente interdipendenti; esse
si evolvono in modo congiunto, “con un andamento a spirale senza fine, attraverso un
processo reciproco di continui rimandi” (ibidem). La comunicazione ha quindi una
natura relazionale. La comunicazione inoltre è un’attività cognitiva perché ci
consente di esplicitare ad altri ciò che pensiamo e sperimentiamo nel nostro “teatro
interiore” come, ad esempio, le emozioni. Infine la comunicazione è strettamente
connessa all’azione perché implica sempre un fare qualcosa nei confronti di un altro.
Essa perciò rappresenta “un’attività umana sofisticata, oltremodo complessa e
articolata, costitutiva dell’identità dei soggetti partecipanti e delle culture di
riferimento” (Anolli, cit., 2006, p. 14). Bateson (1972) ha posto in evidenza che gli
individui non solo si mettono in comunicazione, né semplicemente prendono parte
alla comunicazione, bensì sono in comunicazione e attraverso di essa mettono in
gioco se stessi e la propria identità. “Dal punto di vista psicologico ‘essere in
comunicazione’ significa che nella e mediante la comunicazione le persone
costruiscono, alimentano, mantengono, modificano la rete delle relazioni in cui sono
immerse e che esse stesse hanno contribuito a tessere” (Anolli, cit., 2006, p.33).
Occorre quindi distinguere tra comportamento, inteso come qualsiasi azione motoria
di un individuo, osservabile in qualche modo da un altro, informazione, intesa come
contenuto del messaggio, e interazione, che è un qualsiasi contatto (sia fisico che
virtuale) che avviene tra due o più individui, anche involontariamente, e che ha la
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capacità di modificare lo stato delle cose preesistente fra di loro. Queste distinzioni ci
consentono di rilevare che la comunicazione, a differenza dell’informazione, implica
l’intenzionalità comunicativa: infatti, A vuole comunicare qualcosa a B, e vuole che
il suo atto comunicativo sia riconosciuto in quanto tale da B. Inoltre ogni
comunicazione implica un’interazione, ma non tutte le interazioni sono
comunicazioni. Fatte queste distinzioni, si può affermare che “la comunicazione (in
quanto atto comunicativo) può essere definita come uno scambio interattivo
osservabile fra due o più partecipanti, dotato d’intenzionalità reciproca e di un
certo livello di consapevolezza, in grado di far condividere un determinato
significato sulla base di sistemi simbolici e convenzionali di significazione e di
segnalazione secondo la cultura di riferimento” (Anolli, 2006, p. 37). La cultura
costituisce perciò un elemento essenziale per la definizione della comunicazione.
Essa è l’ambiente invisibile nel quale viviamo senza rendercene conto, un po’ come il
pesce che vive nell’acqua e che non può fare a meno di essa. La cultura è dentro e
fuori le nostre menti, essa è ovunque. La stessa comunicazione peraltro, come la
cultura, è esterna ed interna a noi: infatti, essa trae origine “da un lato, dal progetto
interno e dall’intenzione comunicativa di un soggetto e, dall’altro, dalla
manifestazione pubblica di tale intenzione in modo ostensivo ** (verbale e non
verbale) ad altre persone” (Anolli, 2006, p. 76). Il rapporto tra cultura, gruppi sociali
ed individui è dialettico: la cultura plasma gruppi sociali e persone e questi
trasformano la cultura. La comunicazione fa parte integrante di questi processi di
interdipendenza dai quali si originano anche nuove forme di comunicazione, come
dimostra lo sviluppo recente dei “nuovi media”.
* con il termine cibernetica s’intende quel “ramo della scienza pura ed applicata, che
si prefigge lo studio e la realizzazione di dispositivi e di macchine capaci di simulare
le funzioni del cervello umano, autoregolandosi per mezzo di segnali di comando e di
controllo in circuiti elettrici ed elettronici o in sistemi meccanici” (De Voto, Oli,
2011). Fu introdotto dal matematico americano N. Weiner (1947), derivandolo
dall’espressione greca “l’arte del pilota”.
** ostensivo significa “diretto a mostrare”
Modelli di comunicazione
Una delle prime formalizzazioni teoriche apparse in tempi moderni dei modelli
di comunicazione è il classico modello di Shannon e Weaver (1949), in cui si
definisce la comunicazione come il trasferimento di informazioni da un emittente a
un ricevente a mezzo di messaggi.
Lo schema teorico è semplice e lineare: esso prevede un emittente che, dopo
averlo codificato, trasmette un messaggio attraverso un canale a capacità limitata ad
un ricevente, che lo decodifica. Il processo avviene nell’ambito di un contesto che
consente di definire la natura e il tipo di comunicazione che si realizza tra i due poli
dell’interazione.
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La presenza di “rumori” che possono disturbare la trasmissione del messaggio
è una delle caratteristiche peculiari del modello che consente di indagare le
condizioni che rendono più efficiente ed efficace la comunicazione. I “rumori”
possono essere di varia natura: parole difficili, concetti confusi, perifrasi, evocazioni
connesse alla storia emozionale dei due poli del processo comunicativo ne sono
esempi. Esistono inoltre errori connessi alla educazione ricevuta o alla struttura stessa
di personalità, che spingono a distorcere sistematicamente alcune parole o alcuni
significati. Il rischio di questo schema è quello di interpretare come “rumore” anche
ciò che in effetti essenziale alla piena riuscita del processo comunicativo, come, ad
esempio, l’insieme delle conoscenze, credenze, convinzioni, aspettative dei soggetti
che interagiscono tra loro e che condizionano sia la trasmissione che la ricezione del
messaggio e del suo contenuto. In altri termini, lo schema rischia di sottovalutare
l’importanza della pre-comprensione che i soggetti possiedono relativamente ai
contenuti del messaggio e che può distorcere la corretta ricezione e codifica e
decodifica dello stesso. Inoltre fa parte di questa pre-comprensione dei soggetti
comunicanti l’idea che gli stessi hanno del comunicare e di come si comunica.
Si pensi, in proposito, all’uso errato delle modalità d’interazione comunicativa
dettate dai nuovi strumenti di comunicazione, in particolare dalla CMC, la
comunicazione mediata attraverso il computer, oppure all’utilizzo degli SMS, sempre
più diffuso, con i quali si tenta spesso di esprimere contenuti in forme inadeguate (ad
esempio, si è costretti a utilizzare immagini convenzionali come le cosiddette
emoticons per dare informazioni sul senso da attribuire al contenuto del messaggio).
La stessa posta elettronica richiede di essere utilizzata in forme adeguate,
altrimenti si può distorcere anche nel suo utilizzo il senso del messaggio trasmesso.
Da qui l’attenzione crescente anche agli aspetti etico - giuridici, quali quelli legati
alla privacy e al contrasto degli abusi, talvolta involontari, dovuti alla scarsa
conoscenza del mezzo comunicativo.
Con l’estendersi degli studi sulla comunicazione, prendendo soprattutto in
esame le modalità non verbali, si è reso necessario abbandonare modelli lineari come
quello di Shannon e Weaver, nonostante permanga intatta la loro importanza storica,
per rendere conto del fatto che la comunicazione non solo “passa” da un emittente ad
un ricevente, ma che viene in ogni istante modulata dalle risposte che il ricevente
elabora. Infatti l’informazione trasmessa dall’Emittente al Ricevente origina
inevitabilmente un feedback, un segnale di ritorno che consente all’emittente di
modulare la propria comunicazione successiva, adattandola a quella che gli appare
essere la situazione di chi riceve.
Il passaggio da modelli di comunicazione a causalità linearità a modelli a
causalità circolare ha rappresentato una vera e propria rivoluzione scientifica
nell’ambito degli studi della comunicazione.
Nei modelli lineari il rapporto di causa-effetto è di tipo deterministico: si può
dire cioè che l’evento A (il passaggio dell’informazione) viene per primo, e che
l’evento B (il comportamento conseguente) è causato dal verificarsi di A. I modelli
circolari o interattivi della comunicazione, invece, introducono nuovi concetti tra cui
è fondamentale quello di retroazione o di feedback: tra le due parti implicate nel
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processo comunicativo; perciò nello scambio comunicativo si attua sempre un
processo di retroazione negativa con il quale il ricevente è in grado di far pervenire
all’emittente la sua reazione a quanto gli viene comunicato. Il ricevente è così in
grado di influire con le sue parole e con il suo comportamento sul successivo
procedere del processo comunicativo.
Pertanto la comunicazione non segue più un processo lineare (da A a B a C
ecc.), bensì circolare: il messaggio torna al punto di partenza, proprio come i dati in
uscita rientrano nel sistema arricchendo lo spazio vitale in cui si realizza l’interazione
comunicativa di ulteriori dati, essenziali al mantenimento dello stesso processo
comunicativo. La comunicazione è quindi un processo di interazione circolare dove
non ha più senso dire che l’evento A viene per primo e che l’evento B è causato dal
verificarsi di A, (non è possibile stabilire qual è la causa determinante e l’effetto
determinato, cosa viene prima e cosa viene dopo), perché commettendo lo stesso
errore si potrebbe dire che l’evento B precede l’evento A a seconda di dove si scelga
di interrompere la continuità del processo circolare. Non c’è generalmente un inizio
ed una fine, bensì ogni messaggio o comportamento è insieme effetto e causa di altri
messaggi o comportamenti. L’assenza della consapevolezza di questo carattere
circolare del processo comunicativo produce errori spesso fatali per le relazioni
interpersonali, come accade quando sia la persona A sia la persona B dichiarano che i
loro comportamenti comunicativi sono soltanto la reazione al comportamento del
partner, senza accorgersi che sono loro stessi ad influenzare l’altro con la loro
reazione.
In ogni caso l’idea che esista una struttura comune a tutte le possibili forme di
comunicazione è universalmente accettata nella forma che stata elaborata dal
linguista Jakobson (Galimberti, 1992).
Le funzioni della comunicazione
Jakobson ha indicato sei principali funzioni della comunicazione: referenziale
(denotativa e cognitiva), espressiva (emotiva), conativa, fàtica, metalinguistica e
poetica.
Lo scambio di informazioni tra gli interlocutori su determinati temi ed
argomenti è essenziale per l’adattamento all’ambiente e il linguaggio costituisce il
veicolo privilegiato per eseguire la 1) funzione referenziale o proposizionale, che è
orientata verso il referente, cioè verso il contesto, la realtà extralinguistica. Sono
esempi di tale funzione asserzioni come “oggi piove”, “la felicità esiste”, “i marziani
sono verdi”. Questa funzione è detta denotativa perché l’enunciato non contiene
alcuna sfumatura di carattere soggettivo o emotivo (De Voto, Oli, 2011) (il suo
opposto è la connotazione), ma è anche cognitiva perché serve ad elaborare,
organizzare e trasmettere conoscenze fra i partecipanti, processi questi che
avvengono attraverso la formulazione di proposizioni. Il linguaggio riveste qui un
ruolo essenziale perché rende comunicabile il proprio pensiero. La 2) funzione
espressiva si riferisce all’espressione diretta dell’atteggiamento del soggetto riguardo
a ciò di cui si comunica ed è concentrata sul mittente, mentre quella 3) conativa è
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diretta al destinatario; ne sono esempi le espressioni verbali all’insegna
dell’imperativo (un comando). A differenza di una frase dichiarativa (ad esempio,
“questo oggetto è rosso”), la frase imperativa (ad esempio, “alzati e cammina!”) non
può subire alcuna “verifica di verità” (Galimberti, 1992, p. 206). La 4) funzione
fàtica si riferisce, invece, alla capacità che i messaggi possono avere per stabilire,
mantenere, prolungare o interrompere la comunicazione o a verificare il
funzionamento del canale (ad esempio, “Pronto, mi senti?”). Nella 5) funzione meta
- linguistica o meta - comunicativa gli interlocutori possono comunicare sulla stessa
comunicazione in atto, precisando le caratteristiche della relazione o il significato del
messaggio stesso; ad esempio, dopo aver pronunciato una frase ambigua o pesante, si
può dire “Volevo solo scherzare!” (Pedon, 2011). Tale funzione comporta due
operazioni distinte, costituite dalla riflessione sul linguaggio che si usa e
dall’evidenziare gli aspetti relazionali implicati negli scambi comunicativi. La prima
operazione consente di decodificare in modo corretto il messaggio (ci aiuta a capire
cosa significa il messaggio, oppure se il messaggio ha un valore puramente
dichiarativo – è così e così - o direttivo – fai così e così), mentre la seconda consente
di chiarire la relazione che sussiste tra gli interlocutori. Essa permette di “precisare la
definizione di sé che ciascuno intende proporre” (Pedon, cit., 2011, p. 79).
“M’illumino d’immenso” di Ungaretti è un esempio tra i più famosi della 6) funzione
poetica della comunicazione: qui l’accento è posto non sul destinatario né sul
mittente oppure sul canale o sulla relazione, quanto sul messaggio per se stesso
(Galimberti, 1992). Si può comunque osservare che a queste funzioni sono sottese
funzioni ancor più generali, come la funzione relazionale della comunicazione, che
evidenzia come la comunicazione “genera e rinnova le relazioni ed è alla base della
intersoggettività dialogica nella negoziazione dei significati e nella condivisione degli
scopi” (Anolli, 2006, p. 42).
La pragmatica della comunicazione
“Di ciò di cui non si deve parlare si deve tacere”
(L. Wittgenstein, Tractatus logicus-philosophicus, 1920)
Negli anni Sessanta - settanta del secolo da poco trascorso, un gruppo di
studiosi, del quale facevano parte studiosi come Watzlawick e a cui comunemente ci
si riferisce come “scuola di Palo Alto” (la località californiana dove sorgeva il loro
laboratorio di psicologia della comunicazione, il Mental Research Institute),
analizzarono sistematicamente gli effetti pragmatici, cioè comportamentali, della
comunicazione, ponendo in evidenza il ruolo patogenetico dei processi comunicativi
nelle patologie psichiatriche (ad esempio, nella schizofrenia).
La loro ricerca si concentrò quindi sul modo in cui la comunicazione influenza
il comportamento, considerando sia il contenuto verbale sia gli aspetti non verbali dei
processi comunicativi.
A differenza degli studiosi del modello lineare della comunicazione, il loro
interesse non era limitato all’effetto della comunicazione sul comportamento del solo
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ricevente, ma si rivolgeva anche all’effetto che la reazione del ricevente produceva
sull’emittente.
Nel loro studio ormai classico "Pragmatica della comunicazione umana"
(1967), gli Autori indicarono le "proprietà semplici della comunicazione che hanno
fondamentali implicazioni interpersonali" (Watzlawick et al., p.40).
Tali proprietà hanno quindi una natura assiomatica, trattandosi di affermazioni
basilari che consentono di dimostrare l'influenza che la comunicazione stessa esercita
sui comportamenti umani, e derivanti da una vasta gamma di osservazioni dei
fenomeni di comunicazione.
Gli assiomi della comunicazione sono cinque.
Il primo assioma
Il primo assioma sostiene che “non si può non comunicare”.
“Se si accetta che l’intero comportamento in una situazione di interazione ha
valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che comunque ci si
sforzi, non si può non comunicare”, per cui l’attività e il suo opposto, le parole o il
silenzio sono comunque messaggi in grado di influenzare gli altri “ e gli altri, a loro
volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano
anche loro”(ibidem, p.41).
In effetti qualsiasi comportamento, le parole o i silenzi, l’attività o l’inattività
dei soggetti hanno il valore di messaggio, influenzando gli interlocutori che non
possono non rispondere a queste comunicazioni.
Occorre ricordare che gli Autori il termine di comunicazione viene usato come
sinonimo di comportamento e il comportamento non ha un suo opposto, non è
possibile non avere un comportamento.
Il passeggero di un treno che siede con gli occhi chiusi o tenendo ben fisso un
giornale davanti a sé, sta comunicando di non voler parlare con nessuno e di non
voler essere disturbato. I vicini di solito afferrano il messaggio e rispondono in modo
adeguato, lasciandolo in pace.
La comunicazione comunque avviene, anche quando non è intenzionale e
conscia. Il che significa che il processo comunicativo non s’identifica con la
comprensione reciproca dei soggetti in interazione tra di loro.
Il secondo assioma
Il secondo assioma “metacomunicazionale” afferma che “ogni
comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione di modo che il
secondo classifica il primo, ed è quindi metacomunicazione” (ibidem, p.46).
In ogni processo comunicativo sono implicati due livelli comunicativi, cioè il
livello del contenuto e quello della relazione, per cui “una comunicazione non
soltanto trasmette informazione, ma al tempo stesso impone un comportamento”
(ibidem, p.43).
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Se vi trovate di fronte ad un cartello indicatore che vi segnala la direzione della
città che dovete raggiungere, e sotto il nome della città trovare scritto “ignorate
questa indicazione”, costituisce un esempio di comunicazione paradossale dovuta al
conflitto tra il contenuto della comunicazione e la metacomunicazione, intesa come
comunicazione sulla comunicazione stessa.
Ciò equivale a dire che, quando vi è una comunicazione tra due o più persone,
non vi è mai solo uno scambio di contenuti e informazioni, ma viene definito anche il
tipo di relazione che sussiste tra le persone e implicitamente se stessi.
Dire ad un guidatore inesperto che sta imparando a condurre l’auto “è
importante togliere la frizione gradatamente e dolcemente”, non è diverso, nel
contenuto del messaggio, dal dire “togli di colpo la frizione e rovinerai la
trasmissione del mezzo!”, mentre è assai diverso dal punto di vista relazionale,
perché nel primo caso la relazione si caratterizza nel senso dello sforzo per sostenere
le difficoltà dell’allievo, mentre nel secondo caso l’accento cade sulla posizione di
subalternità di questi rispetto al guidatore esperto che rimarca la sua superiorità
sull’altro proprio attraverso in cui comunica il messaggio.
L’informazione sul contenuto è perciò data dagli aspetti semantici, mentre ciò
che codifica quella relazione è il modo del nostro messaggio: tono, gesti, parole
scelte, determinano il significato del contenuto stesso.
Lo stesso identico contenuto cambia di valore in funzione della modalità in cui
viene espresso; infatti, la domanda: “perché non provi ad ordinare il materiale
cartaceo prima di inserirlo nel PC? Vedrai che ti troverai meglio” non presenta alcuna
informazione diversa dalla frase “Ordina le schede prima di inserirle nel PC!”.
Quello che cambia è la relazione: nel primo caso un collega propone una
relazione più o meno paritaria, collaborativa, mentre nel secondo caso la relazione
che viene proposta è di dominio-sottomissione.
Le risonanze emotive e le risposte comportamentali che provocano questi due
messaggi sono molto diverse: perciò è l’aspetto di relazione che chiarisce il
significato del contenuto.
Come nel caso dei due colleghi, quando qualcuno non accetta un certo
messaggio, il rifiuto spesso non è rivolto al contenuto, ma alla relazione proposta, al
“come” si comunica piuttosto che al “cosa” si veicola nel processo comunicativo.
Non seguendo il suggerimento del suo collega, il soggetto A non ha fatto altro
che contestare il tipo di relazione veicolato dalla comunicazione.
Molti dei conflitti della comunicazione nascono proprio perché i due
interlocutori non sono d’accordo su come impostare la loro relazione comunicativa.
Spesso si crede di scontrarsi per ragioni di contenuto, in realtà lo si sta facendo a
livello di relazione.
È probabile che ognuno di noi abbia fatto esperienza di scambi di opinioni,
discussioni o litigi che avevano come oggetto argomenti di nessuna importanza:
quello che è in gioco non è la scelta di un mobile rosso o di una lampada blu, ma la
definizione di “chi gioca quale ruolo” all’interno della relazione interpersonale.
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Quanto più una relazione è spontanea e sana, tanto più l’aspetto relazionale
della comunicazione (“ecco come mi vedo… ecco come ti vedo… ecco come ti vedo
che mi vedi..”) recede sullo sfondo.
Viceversa le relazioni patologiche sono caratterizzate “da una lotta costante per
ridefinire la natura delle relazioni, mentre l’aspetto del contenuto della
comunicazione diventa sempre meno importante” (ibidem, p.44).
Perciò “la capacità di metacomunicare in modo adeguato non solo è la conditio
sine qua non della comunicazione efficace, ma è anche strettamente collegata con il
grosso problema della consapevolezza di sé e degli altri”(ibidem, p.45).
Il terzo assioma
Il terzo assioma, che si richiama agli studi del matematico Bernard Bolzano
sul concetto di infinito, afferma che “la natura di una relazione dipende dalla
punteggiatura dalle sequenze di comunicazione tra i partecipanti” (ibidem, p.51).
L’alternanza continua fra messaggio e feedback rende la comunicazione umana
un processo continuo per cui un osservatore esterno potrebbe considerare una serie di
comunicazioni come una sequenza ininterrotta di scambi.
Poniamo la situazione di un capo e del suo collaboratore in cui il primo si
comporta in maniera sempre più autoritaria e il secondo non perde occasione di
manifestare atteggiamenti sempre più polemici. Se si chiede spiegazioni di questa
situazione ai due protagonisti presi separatamente, essi si pronunceranno in maniera
simmetrica: il capo giustificherà il proprio autoritarismo a causa degli atteggiamenti
polemici del suo collaboratore, mentre quest’ultimo sosterrà di difendersi dal
comportamento del proprio capo contestandolo apertamente. La lettura non si
differenzia per i contenuti, ma per il diverso ordine in cui li pongono, o come sostiene
il terzo assioma, per il diverso modo di punteggiare la comunicazione, per cui ognuno
interpreta il proprio comportamento come una risposta a quello dell’altro.
Partendo da posizioni diverse, i due punteggiano diversamente lo stesso
scambio con la pretesa di entrambi di imporre la propria punteggiatura su quella
dell’altro.
L’errore non nasce dal fatto che una delle due prospettive sia meno corretta
dell’altra, ma da un’imprescindibile esigenza umana, quella di voler attribuire una
linearità, un inizio e una fine, ad un fenomeno che invece si configura come circolare,
al fine di renderlo più compatibile con i nostri schemi mentali per lo più improntati
alla causalità lineare.
La possibilità di interpretare il processo comunicativo in tanti modi, fa sì che
persone mosse da emozioni, aspettative, desideri diversi, segmentano diversamente la
comunicazione fra di loro. Per risolvere i casi di malintesi o di conflitti che si
generano per il diverso modo di punteggiare l’interazione, è necessario spostare il
piano del confronto: il capo e il collaboratore possono uscire dall’empasse soltanto a
patto di comunicare sulla loro comunicazione, cioè di metacomunicare. Si tratta cioè,
di parlare del loro modo di rapportarsi l’uno all’altro, di come comunicano.
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E’ necessario passare dal piano dei contenuti a quello delle relazioni, cioè dagli
argomenti della comunicazione alla sua modalità: il loro problema, infatti, non è sulle
informazioni, ma sul modo, rispettivamente autoritario e polemico, di trattarle.
Finché il capo contesta il contenuto delle polemiche del proprio collaboratore,
per esempio la sua convinzione di essere sempre sfavorito nei turni, nulla cambierà; è
parlando della loro comunicazione, cioè dei loro diversi punti di vista, del loro
trattarsi reciprocamente in maniera polemica e autoritaria, che riescono a confrontarsi
sul problema.
Questo passaggio al piano della relazione (che è la metacomunicazione),
rappresenta l’unico strumento per risolvere gli inconvenienti che derivano dalla
circolarità della comunicazione.
Il quarto assioma
Nel quarto assioma si afferma che “gli esseri umani comunicano sia con il
modulo numerico che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una sintassi
logica assai complessa e di estrema efficacia ma manca di una semantica adeguata
nel settore della relazione, mentre il linguaggio analogico ha la semantica ma non
ha nessuna sintassi adeguata per definire in un modo che non sia ambiguo la
natura delle relazioni” (ibidem, p.57). Gli esseri umani quindi comunicano sia con il
linguaggio numerico (verbale) sia con quello analogico (non verbale). Il fatto che la
specie umana, grazie alle sue caratteristiche biologiche, ha saputo sviluppare un
linguaggio inteso come sistema di segni e simboli altamente complessi, non vuol
perciò dire che gli esseri umani utilizzino solo il linguaggio verbale per comunicare.
Quando noi comunichiamo utilizziamo due modi principali: la parola e tutte le
modalità che rientrano nell’area della comunicazione non verbale (gesti, posizione
del corpo, espressioni del viso, inflessioni della voce, la prossemica).
Si può perciò affermare che fondamentalmente esistono due specie di segnali:
“quelli digitali, che sono simbolici, astratti, spesso complicati e con tutta probabilità
specificamente umani, e quelli analogici, che sono diretti, figurati, propri del
comportamento corporeo”, per cui “le parole trasmettono segnali digitali, i gesti
segnali analogici”. Il linguaggio verbale ha un’importanza particolare perché serve a
scambiare informazioni sugli oggetti, a nominarli e trasmettere la conoscenza da
epoca in epoca; il linguaggio verbale, rispetto a quello non verbale, è molto più ricco,
articolato, flessibile, capace di piegarsi alle infinite esigenze della comunicazione, in
quanto funzionale ad esprimere concetti mentali, oppure serve per indicare oggetti
concreti o per fissare grandi idee o accennare a sottili sfumature. Esiste però un
settore in cui facciamo assegnamento quasi esclusivamente sulla comunicazione non
verbale, il settore della relazione.
Il quinto assioma
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Il quinto assioma della comunicazione afferma che “tutti gli scambi di
comunicazione sono simmetrici o complementari a seconda che siano basati
sull’uguaglianza o sulla differenza” (Watzlawick, 1967, op. cit., p.60).
Si ha un’interazione simmetrica quando il comportamento di un individuo
tende a rispecchiare quello dell’altro: se viene comunicato un comportamento di
sfida, le stesse caratteristiche saranno messe in evidenza dal partner, nel tentativo di
minimizzare le differenze.
Nelle relazioni complementari il comportamento di un individuo completa il
comportamento di un altro individuo: un partner assume una posizione superiore o
dominante (one-up) e l’altro occupa la posizione corrispondente (one-down).
Si può quindi descrivere le prime relazioni come basate sull’uguaglianza e le
seconde basate sulla differenza.
Appartengono alla categoria delle interazioni complementari non soltanto i
rapporti legati a certe idiosincrasie di una data coppia, ma anche quelli stabiliti dal
contesto culturale: è il caso dei rapporti tra padre-figlio, tra insegnante e alunno, tra
medico e paziente.
In molti casi è da notare che queste relazioni asimmetriche non vengono
imposte in modo esplicito, ma ciascun soggetto si comporta in modo da presupporre
il comportamento dell’altro, offrendoli al tempo stesso le ragioni perché tale
asimmetria esista e perduri nel tempo.
Nella comunicazione, i termini simmetria e complementarietà, non sono in sé
sinonimi di “buono e cattivo” o “normali e anormali”, perché entrambe svolgono
delle funzioni importanti e sono necessarie nelle relazioni sane, ovviamente
alternandosi e operando in contesti diversi.
Anche nelle relazioni più asimmetriche, come quelle fra genitore e figlio, si
può cambiare: ad esempio, nel caso di un figlio con competenze informatiche che il
padre non ha, nell’ambito dell’utilizzazione di un PC è certamente in posizione up
rispetto al padre.
Se, invece, nelle relazioni si irrigidisce una delle due modalità di entrare in
rapporto con il partner, allora si producono patologie o fallimenti comunicativi: la
simmetria, ad esempio, può degenerare in una relazione patologica in cui è dominante
una dinamica di competizione per dimostrare “che io sono meglio di te”, come
accade, ad esempio, se alla violenza si risponde con violenza, creando un escalation
di violenza senza fine.
Il legame complementare diventa patologico quando allarga la forbice della
differenza fino agli estremi, e, chi domina, lo fa in forma assoluta. Ad esempio, se ad
una critica si risponde con un complementare atteggiamento di sottomissione e a
questo fa seguito un’ulteriore risposta critica, col passare del tempo i messaggi
diventano rispettivamente sempre più critici e sempre più sottomessi.
Il limite del modello della comunicazione della Scuola di Palo Alto è così
sintetizzato da Anolli (2006): “la sovrapposizione fra comportamento e
comunicazione (...) ha implicato nefaste conseguenze teoriche, poiché, se si fanno
coincidere comunicazione e comportamento, tutto diventa comunicazione (anche
l’azione più accidentale e inconsapevole) e non si ha più alcuna possibilità di
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comprendere quali siano le proprietà e le specificità della comunicazione in quanto
tale, dalla significazione all’intenzione, alla condivisione, al percorso di senso, ecc.”
(Anolli, 2006, p. 37).
La comunicazione non verbale (CNV).
Il linguaggio non verbale svolge nella relazione una funzione elettiva,
esprimendo in modo adeguato stati d’animo ed emozioni nel segnalare atteggiamenti
(superiorità/inferiorità, amicizia/ostilità) e nell’influenzare il tipo di relazione che si
stabilisce con l’altro.
In altre parole, con la mimica non possiamo certo addizionare due più due, né
parlare della pace nel mondo, ma con un sorriso, più che con le parole, siamo in
grado di segnalare all’altro la nostra disponibilità a voler simpatizzare con lui.
Il codice verbale e il codice non verbale sono complementari e servono a
rinforzare reciprocamente il messaggio; tuttavia, quando il non verbale e il verbale
sono incongruenti, chi riceve il messaggio presterà più attenzione ai messaggi non
verbali e darà ad essi maggiore credibilità proprio perché comunemente sono ritenuti
dalle persone più veritieri e diretti.
Si è soliti indicare come tipici della comunicazione non verbale i segnali vocali
non verbali, i segnali cioè che accompagnano l’espressione verbale (il tono della
voce, la sua altezza, le pause, la velocità del parlare), le espressioni facciali (ad
esempio, aggrottare le sopracciglia, spalancare gli occhi, storcere il naso o la bocca,
ecc.), il contatto visivo (lo sguardo, l’abbassare gli occhi, il fissare negli occhi, ecc.),
il contatto corporeo (ad esempio, prendere sottobraccio l’altro), la postura e
l’orientazione del corpo (ad esempio, lo stare in piedi con le braccia conserte), i gesti
e la distanza tra i soggetto comunicanti.
E’ possibile disporre gli elementi della CNV secondo una scala che procede
dall’alto verso il basso, dai segnali più manifesti e più facilmente percepibili
dall’interlocutore, a quelli meno evidenti e più mutevoli (Bonaiuto, Maricchiolo,
2012). Tale scala si può così riassumere:
ASPETTO ESTERIORE
Conformazione fisica
Abbigliamento
COMPORTAMENTO SPAZIALE
Distanza interpersonale
Contatto corporeo
Orientazione
Postura
COMPORTAMENTO CINESICO
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Movimenti di busto e gambe
Gesti delle mani
Movimenti del capo
VOLTO
Sguardo e contatto visivo
Espressione del volto
SEGNALI VOCALI
Segnali vocali verbali
Segnali vocali non verbali
Silenzio
L’aspetto esteriore.
Diversi comportamenti comunicativi non verbali sono quelli legati all’aspetto
esteriore, tra cui vanno ricordati, oltre al volto, la conformazione fisica,
l’abbigliamento, il trucco, l’acconciature dei capelli, lo stato della pelle.
L’aspetto esteriore perciò può essere considerato una forma di CNV,
affermano Bonaiuto e Maricchiolo (2012), “poiché fornisce informazioni sugli
individui,
influenza
la
formazione
delle
impressioni
e
provvede
all’autopresentazione”( cit., p. 40). Gli elementi che la compongono sostanzialmente
sono riconducibili alla conformazione fisica e all’abbigliamento. Si tratta di
elementi descritti come “statici” perché non sono modificabili nel corso
dell’interazione, almeno a breve termine. Nella conformazione rientra tutto ciò che è
costituzionale del fisico della persona come la corporatura, la forma del volto, il
colore degli occhi, il colore e lo stato della pelle. L’abbigliamento, invece, è
decisamente più mutevole dell’aspetto esteriore; esso comprende gli abiti, il trucco,
l’acconciatura, gli accessori, gli oggetti posseduti, i segnali status symbol. Questi
elementi sono meno “statici” della conformazione fisica. L’abbigliamento viene
considerato come canale privilegiato di presentazione di sé. Ciò avviene soprattutto
nell’adolescenza in quanto permette definire il senso della propria appartenenza al
proprio gruppo di riferimento, per cui tale aspetto della CNV contribuisce alla
costruzione della propria identità sociale, perciò è strumento di socializzazione.
La funzione comunicativa degli abiti segue un processo di sviluppo
nell’individuo. Nella prima infanzia con la distinzione dei ruoli sessuali, nella
fanciullezza e soprattutto nell’adolescenza con la ricerca di ruoli legati a modelli reali
o immaginari offerti, ad esempio, dai media. Infine “raggiunge una fase di
costruzione e codificazione dell’apparenza di sé, accessibile a tutti e utilizzata per
mostrare agli altri e a se stessi un’identità e un ruolo sociale specifici”, come, ad
esempio, accade con le uniformi, come quelle professionali, quali il camice del
personale sanitario (Bonaiuto, Maricchiolo, cit., 2012, p.43).
All’interno dell’interazione sociale l’abbigliamento svolge il ruolo di
definizione della categoria sociale di appartenenza della persona; mantiene tale
funzione “anche in rapporto agli altri indici comunicativi”, sia verbali che non
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verbali, “rappresentando una cornice interpretativa” (ibidem). Le funzioni principali
dell’abbigliamento e degli accessori sono quella di aiutare a negoziare le proprie
identità con gli altri e a definire le situazioni e i contesti d’interazione. Essendo
associato a identità e ruolo sociale, l’abbigliamento ha effetti significativi sulle
relazioni interpersonali. Infatti, influenza l’immagine della persona negli
interlocutori. La ricerca ha confermato il detto che “l’abito fa il monaco”, nel senso
che le persone vestite, ad esempio, in modo formale o informale, vengono percepite
in maniere differente dai loro interlocutori. L’individuo viene positivamente
percepito se c’è congruenza tra l’aspetto esteriore e le altre fonti informative.
L’abbigliamento influenza l’immagine percepita dagli altri sia nella formazione della
prima impressione sia nel suo permanere nel corso del tempo.
Dato che l’abbigliamento cambia in funzione del momento che il soggetto sta
vivendo, dettato dall’organizzazione della vita sociale che è complessa per la varietà
dei ruoli sociali ricoperti dalla singola persona, per cui nel corso di una stessa
giornata questa può presentare diverse facce di sé, “diverse identità sociali” e che
“variano a seconda dell’immagine di sé che si vuole comunicare agli altri in quel dato
momento e in quel determinato contesto” (Bonaiuto, Maricchiolo, cit., 2012, p.44).
L’abbigliamento può persino assumere una funzione “discorsiva”: si pensi, ad
esempio, quando ci togliamo la giacca, ci leviamo la cravatta, per sottolineare
l’informalità del momento).
Il linguaggio del corpo.
Se il linguaggio verbale è il mezzo più raffinato ed evoluto attraverso cui gli
uomini si mettono in relazione tra loro, la CNV può comunque essere definita come
comunicazione a tutti gli effetti, essendo una trasmissione di contenuti, una
costruzione e condivisione di significati che avviene a prescindere dall’uso delle
parole (Bonaiuto, Maricchiolo, cit., 2012, p.7). Si è infatti sostenuto che più che di
CV (comunicazione verbale) e CNV (comunicazione non verbale) sarebbe più
opportuno distinguere la comunicazione che fa uso di parole da quella che non ne fa
uso, e altri Autori (in particolare Argyle, 1972) affermano l’esistenza di un vero e
proprio linguaggio del corpo o di un’autentica comunicazione corporea (bodily
communication). Fermo restando il dibattito scientifico sul tema, per finalità
didattiche si possono adottare i due termini di CV - CNV e linguaggio del corpo
come interscambiabili (Bonaiuto, Maricchiolo, ibidem).
Occorre peraltro pensare che la comunicazione umana non si può ridurre, come
si è affermato in precedenza, alla mera trasmissione lineare di messaggi secondo un
modello che alcuni Autori definiscono come “telegrafico” (Wikin, 1996; Akoun,
1994; in Lalli, 2001) e che contrappongono ad un modello “orchestrale” della
comunicazione, in cui le modalità non verbali rientrano a pieno titolo nei processi
comunicativi.
Le funzioni della CNV
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Nelle relazioni con gli altri spesso sono decisivi sono proprio gli aspetti non
verbali della comunicazione. Un leggero tremolio alle mani può dire molto di più
sullo stato emotivo di una persona rispetto a quanto dice verbalmente di provare.
I messaggi non verbali, infatti, sembrano essere meno soggetti al controllo
consapevole da parte del soggetto e possono influenzare in modo decisivo
l’interazione sociale.
Questi aspetti sono stati studiati osservando pazienti psichiatrici, scoprendo che
chi tra loro era sotto tensione, angosciato o preoccupato, rivelava all’osservatore
questa condizione attraverso i gesti del corpo, i movimenti delle braccia e degli arti
anche se i soggetti tentavano di mascherare questa loro condizione, simulando una
condizione di maggior equilibrio a livello verbale. Questi pazienti riuscivano a
controllare il movimento del capo ma non quello del resto del corpo i cui messaggi
erano più efficaci nel mostrare la loro autentica condizione emotiva.
Dunque il corpo ha un suo linguaggio che, a differenza di quello verbale, è
meno controllato in modo consapevole dal soggetto ed esprime in maniera più
efficace gli atteggiamenti e le emozioni proprie della persona più del contenuto delle
sue parole.
Si tratta di un risultato che era stato anticipato dalle osservazioni di Darwin
(1872), il naturalista che scoprì l’evoluzione biologica delle specie animali e che
studiò le espressioni delle emozioni nell’uomo comparandole a quelle degli animali.
Alcuni studi verificarono sperimentalmente l’efficacia della comunicazione
non verbale nel trasmettere gli stati emotivi e le reazioni dei soggetti. Si chiedeva ai
soggetti di valutare lo stato di superiorità (one-top) o inferiorità (one-down) del
protagonista di un video che comunicava messaggi verbali contraddittori o coerenti
con messaggi non verbali. In uno di questi esperimenti una donna veniva presentata
nel ruolo di una docente universitaria molto decisa e determinata, che comunicava
atteggiamenti di grande superiorità, ma ai quali erano accompagnati da messaggi non
verbali di inferiorità, quali il sorriso rispettoso, la testa abbassata, il tono della voce
nervoso. Questi messaggi non verbali apparivano ben più potenti di quelli verbali nel
valutare la donna come effettivamente superiore o autorevole (Forgas, 1995).
Le implicazioni di tali ricerche sono chiare: possiamo esprimere con il nostro
corpo ciò che tentiamo di nascondere a parole e questi messaggi non verbali
saranno decisivi nell’interazione sociale, quindi nel rapporto con gli altri. Se non
adeguiamo i nostri movimenti corporei al contenuto del messaggio rischiamo di
trasmettere messaggi contraddittori e inefficaci.
La ricerca psicologica ha analizzato da molti anni i diversi aspetti della CNV
ma occorre ricordare i singoli segnali raramente sono utilizzati da soli, per cui “il
messaggio complessivo è sempre la somma di più parti” (Forgas, op. cit., p.159).
La postura.
La postura, ad esempio, intesa come la modalità con cui il corpo nella sua
globalità si atteggia nello spazio, ha un particolare rilievo persino nella diagnosi
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medica e psicologica: un soggetto gravemente depresso presenta un modo particolare
di ‘comunicare’ colla posizione del proprio corpo la sua sofferenza interiore. Essa
Lo sguardo.
Un altro di questi canali comunicativi non verbali è sicuramente lo sguardo.
Basti pensare che la pubblicità utilizza questo canale in modo privilegiato per
persuadere i potenziali acquirenti della bontà dei prodotti reclamizzati. Gli occhi non
mentono, sostiene la cultura popolare, e se non alzi gli occhi verso l’interlocutore
vuol dire che provi vergogna; negli occhi si dice che si specchia l’anima.
In effetti lo sguardo ha un grande potere: basterebbe che il condannato a morte
guardasse negli occhi il boia perché questi dubiti della giustezza dell’ordine che gli è
stato dato di ucciderlo. La benda posta sugli occhi del condannato serve proprio ad
impedire che il plotone d’esecuzione possa evitare di colpirlo durante la fucilazione a
causa del suo sguardo. Eppure molte convinzioni in proposito diffuse a livello di
senso comune vanno ridimensionate. Talvolta i selettori inesperti, nelle selezioni del
personale da inserire in posti di lavoro, tentano di mettere in difficoltà i candidati
fissandoli intensamente per vedere quanto tempo riescono a sostenere lo sguardo
dell’esaminatore o per vedere come reagiscono. Si tratta di un comportamento
controproducente e da evitare perché sappiamo che fissare intensamente una persona
acquista il significato di una sfida e può assumere un valore aggressivo. Infatti, se
fissiamo intensamente un guidatore ad un semaforo rosso, egli scatterà in avanti più
velocemente dei guidatori che non sono stati fissati (Ellsworth et al., 1972; in Forgas,
1995).
Lo sguardo intenso infatti esprime anche intimità che può diventare eccessiva,
invadente, in qualche modo voyeuristica ed offensiva, mentre guardare poco può
assumere il significato di una negazione dell’altro.
Il contatto fisico.
Il contatto fisico ha un intenso valore comunicativo. Si tratta infatti di una
modalità comunicativa in grado di esprimere grande intimità: essa è usata dalla
mamma e dal bambino nei loro primi contatti fisici e corporei.
Il tatto perciò costituisce uno dei più antichi modi di comunicazione con gli
altri (comunicazione aptica). Toccare è quindi uno dei segnali non verbali più
importanti nella vita di un individuo; da adulti questa modalità di comunicazione non
verbale è regolamentata da regole complesse, che variano da cultura a cultura.
Il valore comunicativo del contatto fisico varia anche in relazione al sesso: gli
uomini toccati da un’infermiera prima di entrare in sala operatoria per un intervento
chirurgico manifestarono più ansia e un innalzamento della pressione arteriosa ben
più significativa delle donne che ricevettero lo stesso contatto fisico (Whitcher e
Fisher, 1979; in Forgas, 1995).
Il comportamento spaziale: la prossemica.
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Con il termine ‘prossemica’ s’intende riferirsi al fatto che la distanza e il modo
in cui noi occupiamo e ci disponiamo nello spazio ha un valore comunicativo. Lo
spazio occupato dai soldati e dai loro ufficiali è preordinato dalle relazioni
gerarchiche e di obbedienza che caratterizzano la vita militare. Analogamente, se un
uomo sconosciuto si avvicina troppo ad una donna, potremmo pensare che abbia
intenzione di molestarla o tentare un approccio. Questo perché esiste uno spazio
personale che caratterizza la nostra sfera di intimità e di privacy che non può essere
superato da tutti e quando si vuole. Una persona possiamo giudicarla invadente
proprio perché infrange quella invisibile ‘bolla’ che circonda il nostro corpo nello
spazio fisico.
Le ricerche degli anni sessanta – settanta del secolo scorso sono riuscite ad
individuare diversi tipi di distanza derivanti dalla maggiore vicinanza o lontananza
tra soggetti.
Sono tre i tipi di distanza che caratterizzano le relazioni interpersonali nella
nostra società occidentale (Forgas, 1995):
la distanza personale, che è quella che caratterizza i rapporti di tipo amichevole e va
da cinquanta centimetri a un metro - un metro e mezzo;
la distanza sociale, che caratterizza le posizioni di ruolo e va da un metro - un metro e
mezzo a tre metri;
la distanza pubblica, che è quella che caratterizza le posizioni pubbliche (ad esempio,
in una conferenza).
Attraverso lo spazio possiamo esprimere il rifiuto o l’accettazione dell’altro.
Oltre alla vicinanza-distanza esiste un’altra dimensione prossemica, legata al
contatto-non contatto tra soggetti: posso avvicinarmi alla mia fidanzata e posso
toccarla. Se, però, a comportarsi così fosse un amico, potrei interpretare un tale
comportamento come intrusivo e persino offensivo e agire di conseguenza,
richiamandolo ad un maggiore rispetto verso di lei. In un altro caso, potrebbe essere
proprio lei a dimostrarsi ‘fredda’ nei miei confronti, sottraendosi alla mia vicinanza
fisica, magari per esprimere una sua delusione nei miei confronti per un fatto
accaduto tra noi.
L’esistenza di tale spazio personale e intimo si rende esplicita anche in
numerosi contesti della vita quotidiana. Basti pensare a quando ci troviamo in
ascensore con altre persone. Quando siamo costretti a ridurre drasticamente le
distanze interpersonali, la nostra reazione abituale è di ridurre o evitare di guardare
gli altri; evitando lo sguardo diretto, noi evitiamo anche di parlare con chi stavamo
parlando in precedenza. Uscendo dall’ascensore, riprendiamo a parlare come prima.
Questo fenomeno è conosciuto come “fenomeno dell’equilibrio nell’intimità”, per
cui, diminuendo la distanza interpersonale e aumentando di conseguenza i segnali di
intimità, tendiamo a compensare tale turbamento nell’equilibrio comunicativo
diminuendo altri segnali di intimità (come il contatto visivo).
Tale fenomeno consente inoltre di rendersi conto che la CNV, nell’uso dello
spazio e della distanza, è centrale anche per regolare i rapporti sociali.
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In alcune culture avvicinarsi troppo ad una persona socialmente importante
significa rompere una specie di ‘regola non scritta’: ricerche condotte negli Stati
Uniti, ad esempio, hanno dimostrato che i bambini bianchi appartenenti al ceto medio
preferiscono stare meno vicino ad altre persone in genere rispetto ai bambini neri e ai
bambini appartenenti alla classe operaia che sono, invece, più ‘invadenti’ lo ‘spazio
invisibile’ che circonda ognuno di noi.
Questo ‘spazio sociale’ in cui ci troviamo condiziona di conseguenza
fortemente il nostro modo di interagire con gli altri. Se entrate in un’aula scolastica vi
accorgete che il modo in cui sono disposti gli arredi (la cattedra, le seggiole, i banchi)
condiziona il tipo di relazione e comunicazione tra docente ed alunni.
La gestualità.
I gesti, come abbiamo già accennato in precedenza, costituiscono uno dei
canali più significativi della CNV e risentono dell’influenza culturale.
Per gestualità si può intendere “l'insieme dei gesti di una persona
considerati come mezzo di espressione e di comunicazione” (Gobbi, Sobrero,
1999).
Dato che la comunicazione fra gli uomini non passa infatti solo attraverso il
canale verbale, dato negli scambi comunicativi quotidiani si attivano, parallelamente
e contemporaneamente, anche canali paralinguistici (ritmo, intonazione, pause,
esitazioni ecc.) e cinesici (posture e movimenti del corpo), i gesti sono gli elementi
cinesici fondamentali. Essi sono le posizioni e i movimenti del corpo, delle mani,
della testa, le espressioni della faccia (e in particolare degli occhi) che,
volontariamente o involontariamente, comunicano una o più informazioni.
Si può inoltre distinguere fra gesti espressivi (o emotivi), gesti illustratori e
regolatori, e gesti simbolici (Gobbi, Sobrero, 1999). I gesti espressivi sono indicatori
dello stato emotivo del parlante e sono per lo più prodotti non intenzionalmente (per
es., piangere, ridere); il loro canale principale è il volto, ma hanno una funzione
analoga anche i gesti compiuti con altre parti del corpo, come, per es., picchiare un
pugno sul tavolo, pestare i piedi in segno di rabbia ecc. I gesti illustratori vengono
realizzati contemporaneamente alla produzione verbale con lo scopo di illustrare,
ampliare, sottolineare il contenuto della comunicazione (ad esempio, indicando forme
di oggetti, direzioni di movimento ecc.). I gesti regolatori hanno la funzione di
regolare la conversazione: dare e chiedere la parola, mostrare interesse ecc. I gesti
simbolici, infine, dotati di alta specificità e di notevole forza comunicativa, vengono
prodotti intenzionalmente e sono codificati secondo regole socialmente condivise (per
es., il saluto, la preghiera).
Gli indicatori paralinguistici.
Accanto a questi canali non verbali, esistono una serie di modalità
comunicative extraverbali particolarmente importanti che accompagnano la
comunicazione verbale, quali il tono della voce, il suo volume, il ritmo, l’altezza. Si
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tratta dei cosiddetti ‘indizi (o indicatori) paralinguistici’, il come pronunciamo ciò
che diciamo.
Con il tono della voce possiamo influenzare il comportamento degli altri: se
invitiamo alla calma un gruppo di persone urlando e agitandosi a più non posso, con
una voce spaventata, l’effetto sarà di elevare ulteriormente la tensione.
La persona affetta da depressione accompagna il suo parlare con un tono della
voce piatto e monocorde, mentre in alcuni soggetti cerebrolesi la voce appare cupa.
Perciò, a differenza di quanto comunemente si crede, non sono gli occhi a svelare se
una persona non dice la verità: per scoprire questo occorre piuttosto analizzare ancora
una volta il tono della voce. Parlare con la lentezza della lumaca o come se fossimo
una mitragliatrice che spara parole al posto dei proiettili sono modi errati di gestire un
altro importante indicatore paralinguistici, la velocità di emissione delle parole.
Anche il silenzio è un indicatore paralinguistico, come lo può diventare il
balbettare pur non essendo affatto balbuzienti, che può essere rivelatore delle
tensioni emotive che stiamo provando in una certa situazione (ad esempio, se
abbiamo sbagliato qualcosa e non abbiamo il coraggio di dire la verità per timore
della punizione o di ammettere l’errore).
Le caratteristiche della comunicazione problematica.
Le forme che la comunicazione problematica può assumere sono molteplici, e
possono coinvolgere aspetti diversi dell’interazione, riguardando uno degli
interlocutori o entrambi, oppure riferirsi al contenuto del messaggio o, ancora, alla
relazione fra i soggetti interagenti, o ad entrambi gli aspetti.
I problemi di contenuto si verificano nel caso di un mancato incontro fra le
intenzioni del parlante e l’interpretazione dell’ascoltatore.
Se si considera il soggetto che partecipa all’atto comunicativo, possiamo
distinguere fra incomprensione dell’ascoltatore, quando comprende oppure interpreta
in modo sbagliato le intenzioni sottostanti al discorso dell’altro, e rappresentazione
erronea, quando invece è il parlante a causare il fallimento della comunicazione (non
necessariamente in modo deliberato), pronunciando frasi non corrette o non
chiarendo in modo accurato le proprie intenzioni.
Nelle situazioni in cui due interlocutori desiderano, in buona fede, comunicare,
e che nonostante questa premessa hanno difficoltà a farlo, possono verificarsi errori
dal punto di vista dell’emittente, quali:
la percezione interiore di ciò che si ha da dire;
la scelta del proprio codice di trasmissione;
il canale di trasmissione e l’ambiente esterno sono ‘rumorosi’.
Errori tipici dal punto di vista di chi riceve la comunicazione sono invece:
il rischio di interpretazioni eccessivamente soggettive;
le deformazioni dovute agli atteggiamenti personali del “ricevente”;
la valutazione giudicante del contenuto.
L’incomprensione da parte dell’ascoltatore e la rappresentazione erronea da
parte del parlante sono due aspetti della comunicazione problematica che riguardano
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il contenuto delle frasi, il mancato incontro fra le intenzioni del parlante e
l’interpretazione dell’ascoltatore.
L’incomprensione si ha quando l’ascoltatore comprende oppure interpreta in
modo sbagliato le intenzioni sottostanti il discorso dell’altro.
Le difficoltà nascono dal fatto che in generale viene dato per scontato che gli
altri comprendano esattamente ciò che si vuole comunicare, così come si pensa di
intendere correttamente ciò che gli altri esprimano.
Gli psicologi cognitivisti hanno verificato che noi non raccogliamo
semplicemente l’informazione, ma la elaboriamo. Per rappresentarci le nostre
conoscenze e per inserire nuovi elementi di informazione utilizziamo gli schemi
cognitivi. Questi non hanno semplicemente una funzione organizzativa. Quando
un'informazione è parziale o ci pare "strana" tendiamo a completarla e a far sì che
diventi coerente con tutte le altre informazioni che già abbiamo a disposizione, se
questo non è possibile, tendiamo ad ignorarla, a sottovalutarla o a ritenere la fonte
poco attendibile. Questo modo di manipolare le informazioni ha un ruolo adattivo,
ossia ci rende la vita più facile; ci permette, infatti, di utilizzare delle informazioni
più semplificate, di lavorare anche con informazioni incerte o frammentarie, di essere
"intuitivi". A volte però la nostra elaborazione diventa una vera e propria distorsione
cognitiva: ci allontaniamo troppo dalle informazioni ricevute e facciamo delle
operazioni di "inferenza indebita".
I problemi di comunicazione nelle relazioni tra gli interlocutori.
La comunicazione problematica è tuttavia un fenomeno più ampio che riguarda
le interazioni riuscite o fallimentari tra le persone.
Il modello pragmatico-relazionale focalizza le proprietà o assiomi che agiscono
indipendentemente dalla nostra consapevolezza e che, se vengono rispettate, danno
luogo ad una comunicazione efficace; al contrario la comunicazione risulta disturbata
quando cerchiamo di evaderle.
Quindi una modalità per analizzare i fallimenti comunicativi nelle relazioni tra
interlocutori è analizzare cosa accade quando questi assiomi o proprietà della
comunicazione vengono evase o si irrigidiscono.
Per quanto riguarda l’impossibilità di non comunicare, cercheremo di mettere
in atto tentativi di non comunicazione ogni volta che vogliamo evitare di impegnarci
in una comunicazione. Mettiamo il caso di trovarci nella sala d'aspetto del dentista
con un estraneo che per passare il tempo dell'attesa vuole parlare con noi mentre noi
non ne abbiamo nessuna voglia. Non possiamo andarcene e non possiamo noncomunicare. Vediamo cosa possiamo fare in una situazione di questo genere:
possiamo rifiutare la comunicazione facendo capire al nostro interlocutore che non
vogliamo parlare con lui. Questo atteggiamento però potrebbe essere considerato
maleducato e oltre a farci trovare in un pesante silenzio, non ci avrà evitato di parlare
con quella persona;
possiamo accettare la comunicazione rassegnandoci a comunicare, sperando che il
nostro interlocutore si stanchi presto;
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possiamo squalificare la comunicazione rispondendo in modo vago,
contraddicendoci, cambiando argomento, dicendo frasi insensate;
infine possiamo comunicare attraverso il sintomo facendo finta di non avere capito, di
avere sonno, di stare male, un qualche malessere fisico che ci aiuti a giustificare la
nostra impossibilità di comunicare.
Quello che trasmettiamo in questo caso in effetti è: "mi piacerebbe parlare con
lei ma non posso".
Peraltro il sintomo somatico può diventare esso stesso una forma di
comunicazione.
Molto spesso le difficoltà di comunicazione sono provocati dalla confusione
che facciamo tra aspetti di contenuto e aspetti di relazione di un problema. Mentre
cerchiamo di metterci d'accordo con l’interlocutore sul piano del contenuto, il
problema è sul piano della relazione. Al di là di ogni contenuto, ciò che
comunichiamo in ogni messaggio è come ci vediamo noi rispetto alla persona con cui
stiamo parlando. Per esempio, se ci vediamo come amici (la definizione che io offro
di me) possiamo avanzare un invito a cui la persona in questione può rispondere in tre
modi:
può confermarlo (per esempio, accettando l'invito);
può rifiutarlo (per esempio, rifiutando l'invito);
può disconfermarlo (per esempio, ignorando l'invito)
Se non si risolvono le discrepanze relative alla punteggiatura delle sequenze, la
comunicazione arriverà ad un punto morto dove gli interlocutori possono arrivare a
lanciarsi reciprocamente accuse di cattiveria e di pazzia. Differenze nelle
punteggiature si hanno normalmente quando nei casi in cui almeno uno dei due
comunicanti è all'oscuro di alcuni fatti senza saperlo. Se lasciamo continuamente
messaggi in segreteria ad un’amica che non ci richiama (mettiamo che lei non sappia
di avere la segreteria rotta), potremmo considerare questo come segnale di un suo
disinteresse nei nostri confronti; d’altra parte, l’amica potrebbe considerare che noi
non teniamo alla sua amicizia, dal momento che non ci facciamo mai sentire. Da qui
in poi potremmo entrambe decidere di allontanarci oppure cercare di contattarci per
capire cosa è successo. In questo caso un fatto esterno impedisce di punteggiare
correttamente la sequenza di eventi.
Più spesso capita di non conoscere le sequenze di pensiero dell'altro, il
ragionamento che ha fatto per arrivare a quella conclusione e a quel comportamento
che ci è sembrato offensivo. In linea di massima non è corretto ritenere che un
interlocutore abbia il nostro stesso grado di informazioni e che tragga le nostre stesse
conclusioni, ma sembra un fatto inevitabile determinato dalla necessità di operare una
selezione sui dati sensoriali a cui siamo sottoposti continuamente per impedire che i
centri più elevati del cervello vengano sommersi dalle informazioni irrilevanti.
Alla base di molte incomprensioni c'è la convinzione profondamente radicata
che esiste soltanto una realtà, la nostra, e che ogni opinione diversa dipenda
dall'irrazionalità dell'altro o dalla sua mancanza di buona volontà. Si stabiliscono così
dei circoli viziosi che non si possono interrompere a meno che la comunicazione
stessa non diventa oggetto di comunicazione. Per fare questo però dobbiamo essere
23
fuori dal circolo vizioso. Nei casi in cui si presentano discrepanze sulla
punteggiatura, solitamente si produce un conflitto su ciò che si considera la causa e su
ciò che si considera l'effetto in un'interazione.
Questo ci porta al concetto di “profezia che si autodetermina” (self-fulfilling
prophecy). Se, per esempio, una persona è convinta di non piacere a nessuno, tenderà
a mettere in atto comportamenti sospettosi, difensivi o aggressivi ed è probabile che
questi stimolino negli altri reazioni di antipatia che confermeranno la convinzione di
fondo di non piacere a nessuno (Watzlawick, op. cit., p.88). L'aspetto tipico di questa
sequenza è che la persona in questione è convinta di reagire ai comportamenti degli
altri e non di provocarli.
Simmetria e complementarietà nei processi comunicativi.
Oltre alla definizione di se stessi, in ogni scambio comunicativo i soggetti sono
impegnati anche nella definizione della relazione esistente tra di loro, che può essere
basata sulla simmetria o sulla complementarità. In una relazione sana è necessaria la
presenza di entrambe.
In una relazione simmetrica è sempre presente il pericolo della competitività: si
può osservare che l’uguaglianza sembra apparire più rassicurante se si riesce ad
essere “un pò più uguali degli altri”, per citare Orwell di Animal Farm (1934). È
questa tendenza alla competitività intrinseca alla simmetria comunicativa a cui si
deve la qualità tipica di escalation della conflittualità che si sprigiona allorchè le
interazioni abbiano perduto la stabilità (la cosiddetta runaway, i litigi tra coniugi o le
guerre tra nazioni). Ad esempio, è frequente osservare nei conflitti coniugali
l’escalation di un modello decisamente frustrante e conflittuale che i coniugi
perseguono nelle loro interazioni, caratterizzate da litigi, rimproveri, critiche,
ripicche, aggressioni verbali, persino fisiche, e che s’interrompono solo perché
entrambi sono spossati fisicamente o emotivamente; essi mantengono una tregua
inquieta finché non si sono sufficientemente ristabiliti per lo scontro successivo.
Perciò “la patologia della interazione simmetrica è quindi caratterizzata da
uno stato di guerra più o meno aperto o scisma”(ibidem, p.96).
Nella relazione complementare invece la relazione patologica consiste nella
fissazione dei ruoli degli interlocutori che si trovano costretti dall’interazione sempre
in una posizione one-up l’uno e one-down l’altro, senza che venga quasi mai offerta
ad entrambi la possibilità di modificare tali posizioni.
Quando i partners di una relazione simmetrica arrivano alla rottura, ciò è
dovuto al fatto che uno dei due arriva a rifiutare l'altro.
Nelle relazioni complementari la patologia equivale a disconferme del Sé
dell'altro piuttosto che ai rifiuti di tale Sé (ibidem, p.97).
Persino la traduzione di un messaggio analogico in numerico può comportare
degli errori. I messaggi analogici, come abbiamo visto, danno indicazioni sulla natura
della relazione tra le persone che stanno comunicando; se ci sono controversie
interpersonali sul significato da dare ad un certo messaggio analogico, viene
automaticamente fatta la traduzione numerica che consente di mantenere costante
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l'idea preesistente su quella relazione. Portare un dono è un esempio di
comunicazione analogica. Tuttavia chi riceve il dono lo giudica a seconda della
relazione che ha con il donatore: può sembrargli un segno di affetto, un tentativo di
corruzione, un ringraziamento o altro.
Abbiamo detto che il linguaggio numerico è particolarmente adatto per
comunicare a livello di contenuto, mentre quello analogico offre indicazioni al livello
della relazione. Nel tradurre il materiale analogico in numerico è necessario ricorrere
a funzioni che mancano al modulo analogico; una di queste è la negazione. E'
semplice infatti trasmettere un messaggio analogico del tipo "ti aggredirò", ma è
molto più difficile trasmettere "non ti aggredirò".
Quello che si verifica, paradossalmente, è che, nel tentativo di dimostrare di
non avere l'intenzione di fare del male all’altro, stimoliamo in lui reazioni di paura e
di allontanamento che stimolano a loro volta in noi disperazione (che rende
ulteriormente necessario dimostrare che non vogliamo fare del male): ciò provoca la
disperazione di essere respinti e di non poter dimostrare che non abbiamo intenzione
di fare del male.
Gli stili di comunicazione: passivo, aggressivo, assertivo.
I tre principali stili di comunicazione sono lo stile passivo, aggressivo,
assertivo. Per comprendere le differenze tra i tre stili possiamo prendere ad esempio
alcune situazioni tipiche della vita sociale quotidiana.
Un amico è teso e nervoso. Tu gli chiedi cosa è accaduto e lui ti risponde in
malo modo. Ti scusi per averlo disturbato e te ne vai. Sul lavoro un cliente si rivolge
a te in malo modo per un fatto di scarso rilievo. Abbassi gli occhi, non rispondi. Un
collega ti passa la pratica di un cliente in maniera rude e sgarbata. La prendi, senza
dire niente, solo qualche parola di commento sottovoce. Si tratta di situazioni diverse,
ma la modalità comunicativa è la stessa. Si tratta di uno stile comunicativo
all’insegna della passività. Nonostante il silenzio, il fatto che neanche rispondi ai
comportamenti comunicativi altrui, tu comunque comunichi rassegnazione,
incapacità di reagire, assenza di coinvolgimento nella situazione. Questo stile
comunicativo non solo non è efficace per interagire con gli altri ma è anche dannoso
per se stessi se diventa la modalità dominante con cui ci relazioniamo con gli altri. Ci
avvertiamo impotenti, siamo condizionati negativamente dagli altri, non riusciamo a
rapportarci con loro in modo da far valere ciò che proviamo e ciò che vorremmo dalla
relazione con l’amico, il cliente, il collega. Il livello della stima in noi stessi,
l’autostima, si abbassa; ci avvertiamo inoltre poco efficaci nell’interazione con gli
altri, per cui sviluppiamo pensieri negativi su di noi, sulla nostra capacità di operare
nella vita sociale in modo costruttivo e positivo.
Nel caso dello stile comunicativo aggressivo, invece, la condizione è
all’opposto di quella passiva. Ad esempio, durante una cena al ristorante con un
amico ordiniamo una pietanza. Il cameriere ce la serve poco cotta, nonostante gli
avessimo detto durante l’ordinazione di cucinarla a dovere. Chiamiamo il cameriere,
gli diciamo in modo sgarbato di riportare indietro il cibo, ci arrabbiamo se questi
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tenta di giustificarsi. Se il collega non ti passa velocemente la penna che gli hai
chiesto gli dici: “Ma che fai?! Allora, me la passi o no ‘sta penna?!?”.
Nonostante che i comportamenti descritti siano opposti a quelli passivi, anche
lo stile aggressivo si rivela del tutto inefficace nel mantenere relazioni interpersonali
positive e costruttive, e anch’esso rischia di danneggiare noi stessi. Infatti,
l’emozione dominante nello stile aggressivo e nello stile passivo, seppure in forma
più mascherata, è la rabbia che appare però vissuta in maniera poco adattiva.
La rabbia è infatti un’emozione, e come tutte le emozioni fa parte integrante
del nostro modo di vivere l’esperienza. Arrabbiarsi perciò non è un male, ma lasciarsi
dominare da questa emozione può essere assai rischioso per la nostra stessa salute
fisica. La rabbia si genera proprio per il senso di frustrazione sperimentato nelle
diverse situazioni di vita quotidiana. Allora avverti le tipiche manifestazioni
somatiche che accompagnano questo stato di tensione. I muscoli sono tesi, il battito
cardiaco aumenta, il respiro diventa meno profondo, la pressione sanguigna s’innalza,
il soggetto avverte sensazioni poco piacevoli, si sente braccato. Non puoi fuggire, ma
neanche puoi attaccare l’altro. Ti rappresenti il momento come una sorta di scontro in
un’arena, da cui si esce solo da vincitori o da sconfitti. La rabbia quindi si trasforma
in aggressività che può rivolgersi contro noi stessi. Perciò la rabbia, che di per sé è
un’importante ed utile emozione per l’uomo, può causare danni organici, in
particolare al nostro muscolo cardiaco, che deve fronteggiare la produzione di un
eccesso di sostanze che sono prodotte dal nostro organismo quando ci arrabbiamo, tra
cui gli ormoni come l’adrenalina, la noradrenalina e il cortisolo. Soprattutto
quest’ultimo svolge una funzione importante perché attiva processi che consentono al
nostro organismo di reagire prontamente alla situazione. Ma, come nel caso degli altri
ormoni, un eccesso di cortisolo può ridurre le nostre difese immunitarie, colpendo
anche in questo caso il cuore, affaticandolo troppo.
Ecco perché uno stile comunicativo aggressivo o passivo possono essere
persino pericolosi per la propria salute fisica.
Dalla rabbia distruttiva all’assertività.
Lo psicologo Albert Ellis ha sviluppato tra gli anni cinquanta e sessanta del
Novecento un sistema per combattere le idee o le convinzioni assurde che modificano
il nostro stato d’animo provocando rabbia o risentimento, sostituendole con
affermazioni più attinenti alla realtà dell’esperienza vissuta (Ellis, 1990; Palacios,
2007).
I pensieri o i punti di vista che Ellis definisce “irrazionali” generano percezioni
e valutazioni errate o fuorvianti delle situazioni sociali che possono provocare o
accrescere l’impatto emotivo della rabbia. Tali pensieri, che arrivano persino ad
insorgere nella nostra mente in forma di “pensieri automatici” impediscono od
ostacolano l’adozione di stili di comunicazione all’insegna dell’assertività, generando
piuttosto comportamenti comunicativi di tipo passivo o aggressivo.
Un esempio di tali pensieri irrazionali è costituito dalle ipergeneralizzazioni,
per cui da una singola esperienza negativa arriviamo ad estendere a tutti i casi
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similari quanto ci è accaduto in un’unica occasione. Partiamo da un fatto isolato e
arriviamo a generalizzare in maniera ingiustificata e fuorviante le caratteristiche
sperimentate in una situazione.
Altri esempi di tali convinzioni irragionevoli sono costituiti dalla tendenza a
dipendere in maniera esagerata dalle opinioni altrui, oppure dai cosiddetti “pensieri
filtrati” che consistono nel valutare qualcuno solo in base ai risultati ottenuti nei
compiti che più ci stanno a cuore.
I “pensieri polarizzati”, “estremi” sono anch’essi particolarmente pericolosi:
ragionare in termini di “tutto o niente”, “bianco o nero”, passando da un estremo
all’altro, costituiscono forme di interpretazione dell’esperienza che soprattutto in
ambito relazionale e lavorativo possono ostacolare la comunicazione efficace.
Formulare “pensieri catastrofici”, esagerando oltre misura le conseguenze di
un fatto accaduto, oppure il perfezionismo con il suo opposto, il pressapochismo,
sono ulteriori modalità di pensare l’esperienza che condizionano negativamente le
relazioni con gli altri e i proprio benessere psicologico, oltre a influire sulle proprie
performances lavorative e professionali accrescendo il senso di insuccesso, scarsa
efficacia e frustrazione.
Ellis ha perciò ideato un sistema per combattere tali idee e convinzioni assurde
che modificano il nostro stato d’animo provocando rabbia e risentimento,
sostituendole con affermazioni e modalità di elaborazione dell’esperienza più
attinenti alla sua realtà. Egli ha offerto anche delle indicazioni, una specie di
“vademecum psicologico”, per affrontare in maniera più efficace e costruttiva le
difficoltà della vita sociale, operando così modificazioni sul piano cognitivo che
permettono di sperimentare emozioni più positive o di contenere gli effetti perniciosi
di quelle negative.
Ellis, ad esempio, ha consigliato di apprendere dai propri errori piuttosto che
colpevolizzare gli altri o noi stessi. E’ assai più positivo intraprendere delle azioni
utili a correggerli onde evitare che si ripetano in futuro. Mettere in atto tattiche di
evitamento dei problemi piuttosto che affrontarli in modo realistico e costruttivo
impedisce di accrescere la propria competenza psicosociale e di migliorare la propria
performance lavorativa e professionale. Se qualcosa ci preoccupa, evitiamo di
rimuginare sulla situazione: utilizzando le abilità di problem-solving analizziamola,
per attivare la valutazione critica, ipotizzando grazie alla creatività scenari diversi per
affrontarla e risolverla.
Lo stile di comunicazione assertivo.
Gli stili comunicativi passivi e aggressivi sono dunque assai poco efficaci nel
produrre e mantenere relazioni interpersonali.
A differenze dei suddetti stili, lo stile comunicativo assertivo è il più efficace
per produrre comportamenti positivi al fine di instaurare e mantenere relazioni
costruttive con il cliente e con gli altri attori sociali (i colleghi di lavoro, i dirigenti,
ecc.) presenti nel contesto organizzativo dell’azienda per la quale si lavora.
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La ricerca scientifica ha focalizzato l’attenzione su tale stile comunicativo sia
per la sua importanza nelle relazioni interpersonali in funzione del benessere
psicologico che per lo svolgimento efficace delle mansioni lavorative nei contesti
professionali in cui la relazione con il cliente è essenziale per l’organizzazione, il suo
funzionamento e il suo successo.
Tale stile comunicativo accresce la competenza psicosociale e comunicativa.
Con questi termini s’intendono le capacità di saper gestire le relazioni con gli altri
attraverso i comportamenti comunicativi; ad esempio, sono competente non solo se
conosco che il linguaggio del corpo e la comunicazione non verbale sono elementi
essenziali per gestire in modo efficace le interazioni comunicative, ma se riesco a
mettere in pratica tali conoscenze nelle diverse situazioni lavorative in cui posso
venirmi a trovare nella vita quotidiana. Ad esempio, conosco l’importanza del tono
della voce per comunicare con gli altri e quando sono al telefono riesco a gestire il
tono della mia voce per rispondere in modo adeguato al cliente.
Perciò la competenza psicosociale e quella comunicativa includono sia la
capacità di gestire in maniera efficace i diversi aspetti della relazione comunicativa
che la capacità di saper interagire in maniera costruttiva con gli altri (i clienti, i
superiori, i colleghi, le altre figure professionali con cui mi dovrò confrontare
quotidianamente nell’esercizio delle mansioni lavorative).
“Nulla è più molle e debole dell’acqua. Eppure nessuno la supera nell’attaccare ciò
che è duro e forte. Niente può cambiarla. La debolezza vince la forza. La mollezza
vince la durezza”.
Così si legge nel secondo dei 36 stratagemmi, opera letteraria dell’antica Cina
che contiene alcuni principi ispiratori della strategia militare dell’antica civiltà
orientale e che costituiscono ancora oggi una fonte di ispirazione anche per il
potenziamento della competenza psicologico - sociale (cfr. anche Nardone, 2003).
L’aforisma cinese può esprimere in modo metaforico lo stile comunicativo di
tipo assertivo. Esso, infatti, restituisce il senso della fermezza nella flessibilità, della
capacità di adeguarsi ai diversi contesti senza rinunciare alla propria natura, quindi
alle proprie idee, convinzioni, punti di vista, pur essendo sempre disposti a metterli in
discussione.
Come realizzare lo stile comunicativo assertivo?
Lo stile comunicativo assertivo richiede alcune abilità per poter realizzarsi. Si
tratta di abilità che fanno parte delle cosiddette life-skills, cioè “abilità per la vita”, e
che sono essenziali per la competenza psicosociale.
Esse possono essere così sintetizzate: l’abilità nel prendere decisioni,
cosiddetta decision making; nell’analizzare e nel risolvere problemi, il cosiddetto
problem solving; occorre inoltre essere capaci di creatività (occorre quindi avere
pensiero creativo - creative thinking) per formulare ipotesi di soluzione ai problemi
innovative. Occorre inoltre essere dotati di senso critico (perciò capaci di pensiero
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critico - critical thinking). Centrale è la capacità di comunicazione efficace (la
cosiddetta effective communication), che si accompagna alla capacità di costruire e
gestire relazioni interpersonali (interpersonal relationship skills). E’ necessario
inoltre essere autoconsapevoli (self-awareness) di ciò che stiamo pensando e
sperimentando, perciò di riconoscere i nostri limiti. Bisogna essere capaci di empatia
(empathy), e saper gestire le emozioni (coping with emotions) e lo stress (coping with
stress).
Queste abilità possono essere apprese e potenziate in modo da rendere la nostra
capacità di interagire positivamente con gli altri, a partire dal cliente, per arrivare ai
colleghi, ai superiori, ai collaboratori.
Decision making
Quando scegliamo di fare qualcosa, di mettere in atto un comportamento
piuttosto che un altro, di adottare una strategia d’azione selezionandola tra più
opzioni, operiamo delle decisioni. Talvolta agiamo d’impulso, e ciò può produrre
conseguenze spiacevoli o involontarie persino dannose per gli altri o per noi stessi.
Occorre essere capaci di prendere decisioni costruttive per noi stessi e per gli altri al
fine di evitare di incorrere in situazioni pericolose o dannose.
Problem-solving
La capacità di prendere decisioni richiede l’analisi, obiettiva e realistica della
situazione in cui ci troviamo a scegliere. Quindi prendere decisioni significa valutare
le situazioni, reperire informazioni utili per intraprendere le azioni ritenute più
opportune, vagliare criticamente le stesse, verificarne l’utilità, disporle in una
gerarchia d’importanza rispetto all’obiettivo che vogliamo raggiungere. Occorre
perciò pensare a più opzioni, confrontandole tra loro in relazione a ciò che vogliamo
conquistare. Ecco perché la competenza nel prendere le decisioni si accompagna alla
capacità di risolvere i problemi.
Spesso i contrasti più gravi all’interno di un gruppo di lavoro nascono da vari
fattori, tra cui: il non aver chiarito i ruoli dei partecipanti rispetto ai compiti che il
gruppo deve realizzare; le loro effettive responsabilità rispetto al compito; non aver
chiaro i contorni del problema da affrontare; non aver condiviso gli scopi del lavoro
comune; non avere un modo comune per affrontare il problema e per prendere
decisioni sul da farsi. Per evitare questi problemi si può adottare una procedura detta
di problem-solving che consiste in sei passi successivi che il gruppo deve articolare
nei tempi e nelle modalità pratiche di esecuzione condividendoli prima di avviare il
lavoro sul problema.
I passi del problem-solving nella sua versione più semplice sono i seguenti:
esporre con chiarezza i contorni del problema;
ipotizzare le varie soluzioni possibili;
valutare gli aspetti positivi e negativi di ogni proposta;
eliminare le soluzioni non adatte e selezionare le più idonee;
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predisporre i mezzi per attuare le soluzioni individuate;
verificare i risultati ottenuti.
Creatività
Il pensiero creativo, spesso indicato come pensiero divergente, proprio perché
ci consente di elaborare soluzioni alternative e modalità innovative per raggiungerle
rispetto alle prassi consolidate e ai modi abituali di pensare (pensiero convergente), è
esso stesso una abilità fondamentale che interagisce con le due capacità del decision
making e del problem solving. La creatività, tra l’altro, è anche capacità di pensare in
maniera diversa uno stesso problema e la sua soluzione, ma essa ha bisogno
dell’ordine e della routine per potersi manifestare. Essere creativi non significa essere
eccentrici, perché tutti abbiamo bisogno di poter pensare nuovi modi di risolvere
problemi vecchi e nuovi. Possiamo percorrere sempre lo stesso tragitto per giungere
alla soluzione di un problema, ma può essere utile talvolta sperimentarne dei nuovi,
magari anche più lunghi, per scoprire nuove opportunità di conoscenza. Essere
creativi non significa perciò essere fantasiosi, bensì, anche utilizzando la fantasia,
ideare nuove soluzioni ai problemi. Nel caso analizzato si possono ipotizzare diverse
soluzioni, alcune delle quali più fattibili di altre. Per valutare quelle più fattibili
occorre utilizzare il pensiero critico.
Pensiero critico
Essere creativi è perciò indispensabile come essere capaci di pensiero critico.
Se ci fidiamo solo di ciò che altri ci dicono, dei pregiudizi, delle facili soluzioni allora
rischiamo di vivere in maniera illusoria, e di buttare il cervello all’ammasso. E’ vero
che si può giungere a soluzioni condivise all’interno di un gruppo, ad esempio di
amici o di compagni di scuola. Ma queste soluzioni devono essere sempre il frutto di
un confronto libero, aperto, critico appunto, per saggiarne la correttezza, l’efficacia,
la giustezza. Altrimenti ciò che può accadere è che prevalga la logica del branco
piuttosto che quella del gruppo che, a differenza del primo, è sempre ispirata alla
riflessione e alla capacità di agire in maniera da evitare le azioni impulsive o i
comportamenti superficiali, che non si curano delle conseguenze per sé e per gli altri.
Saper relazionarsi con gli altri
Saper comunicare è perciò una tra le più importanti competenze che dobbiamo
sviluppare e che consente di realizzare pienamente l’altra abilità di base, quella
relativa alla capacità di costruire adeguate relazioni interpersonali. E’ necessario per
vivere in maniera piena e costruttiva edificare relazioni positive con gli altri che
hanno un’importanza spesso decisiva per il nostro benessere e per la vita comunitaria.
Questa capacità si manifesta non solo nella costruzione di nuovi legami e nel
mantenerli ma anche di porre fine ad essi in modi e forme che non siano lesivi della
propria e dell’altrui dignità. Si può cessare una relazione in modo che ciò non
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provochi risentimenti e rancori, rabbia e frustrazione. Rompere un legame con
un’altra persona può avvenire in modo che sia l’uno che l’altro protagonista della
relazione possano vivere l’esperienza, sia pure comunque dolorosa e spiacevole, in
maniera che esso possa lasciare tracce importanti per la nostra vita emotiva ed
affettiva, da cui trarre insegnamenti per la costruzione di altre future relazioni.
Interagire con gli altri è essenziale per il benessere personale e comunitario. Vivere
esperienze costruttive e creative con gli altri produce benessere, fa provare senso di
soddisfazione, permette di vivere relazioni armoniche che non negano affatto
l’esistenza di contrasti e conflitti che vengono gestiti nel rispetto reciproco e senza
che le emozioni negative, come la rabbia, assumano connotati puramente distruttivi.
L’autoconsapevolezza
Tale abilità consiste nell’essere capaci di auto-osservazione, di riconoscere i
tratti della nostra personalità, i nostri punti di forza e le nostre debolezze, i nostri
desideri e ciò che non ci piace. Sviluppare tale abilità può aiutarci a capire quando
siamo sotto stress oppure quando siamo sotto pressione. Si tratta di un prerequisito
per la comunicazione efficace e per le relazioni interpersonali, così come per
sviluppare la capacità di sperimentare empatia per gli altri.
Comunicazione efficace
In questo contesto la capacità di comunicare in modo efficace è essenziale per
analizzare le situazioni, elaborare strategie per risolvere i problemi, essere creativi.
Infatti, questo insieme di attività di analisi, elaborazione e messa in atto di strategie
per affrontare e risolvere problemi vecchi e nuovi richiede un confronto continuo con
gli altri, potendo esprimere pensieri, vissuti emozionali, richieste, bisogni in maniera
appropriata rispetto al contesto nel quale ci troviamo al momento. Tale contesto è
culturale e relazionale insieme, perché anche quando siamo soli in realtà il nostro
pensiero è sempre diretto verso altri.
L’empatia
Si possono esprimere liberamente le proprie emozioni senza che questo
avvenga in maniera distruttiva o nociva per se stessi e per gli altri, valorizzando nel
contempo un’altra competenza di base essenziale, quella di sperimentare empatia nei
confronti degli altri.
Essa consiste nella capacità di sperimentare ciò che gli altri vivono, e che nelle
forme più mature si manifesta nel poter sentire ciò che un altro sente senza
dimenticare che quel che avvertiamo in noi è distinto dal vissuto dell’altro, è una
capacità essenziale nella comunicazione interpersonale e per la vita sociale.
Empatia e comunicazione efficace: ascolto empatico e ascolto attivo.
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Carl Rogers (1902-1987), psicologo umanista, ha indicato nell’ascolto
empatico uno strumento particolarmente utile per realizzare un ascolto comprendente
e non giudicante.
Rogers (1951) notò che tre erano le condizioni necessarie e sufficienti per
produrre un cambiamento positivo in una persona che vive una situazione di
conflittualità, di confusione, di malessere, rispetto ad una certa situazione. Queste tre
condizioni sono capaci di far evolvere la persona verso il superamento della difficoltà
e quindi verso la crescita.
Esse sono:
l'empatia, intesa come la capacità di mettersi nei panni dell'altro, pensare e sentire
"come se" si fosse l'altro, mantenendo nel contempo il contatto con se stesso e con le
proprie emozioni;
la congruenza, intesa come stato di accordo interno;
l'accettazione positiva dell'altro che presuppone una visione alterocentrica della
vita, secondo la quale si dà per scontato che ogni persona è diversa dall'altra.
L'ascolto empatico rappresenta quindi una struttura psicologica di accoglienza,
nel senso che l'empatia comporta il "sentire" e "l'essere consapevole" delle proprie
emozioni, (congruenza), ma anche il "sentire " e "l'essere consapevole" delle
emozioni dell'altro (empatia in senso stretto).
Questo processo determina la capacità dell'io di relazionarsi e quindi è indice di
maturità affettiva (posizione alterocentrica).
Secondo quanto osservava Rogers, se in un’interazione a due, uno dei due partners si
pone in modo alterocentrico (e quindi non egocentrico), questo modo di relazionarsi
nella persona si "contagerà" all'altro e determinerà corresponsabilità nella relazione, il
che è indice di maturità sociale.
Gli strumenti di applicazione dell'empatia sono l'ascolto passivo e l'ascolto
attivo. Il primo si avvale della comunicazione non verbale ma anche della
comunicazione verbale (esprimendo, mentre si ascolta una persona, con parole e
suoni, riconoscimento e accettazione, ad esempio, "Va bene, continui";"Si, sono
d’accordo", ecc.).
Relativamente alla CNV, è utile adottare la postura sia aperta e leggermente
inclinata in avanti, indicando così disponibilità verso l'altro, evitando una postura
chiusa (braccia incrociate, gambe chiuse), che solitamente indica un atteggiamento
difensivo, poco incline ad accettare davvero quello che viene detto dall’interlocutore.
L'espressione del volto indica, ad esempio, se una persona è preoccupata,
arrabbiata, triste o altro. Se rivolgiamo lo sguardo a una persona mentre le parliamo o
mentre l'ascoltiamo, le comunicheremo attenzione, rispetto e valorizzazione; è come
se dicessimo che quello che ci sta comunicando ci interessa.
Al contrario, distogliere lo sguardo dal proprio interlocutore può esprimere
scarso valore per ciò che l'altro ci sta dicendo, a meno che esso assuma il significato
di una pausa di riflessione rispetto a ciò che viene comunicato nel corso
dell’incontro.
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Accompagnare il discorso con una gestualità morbida (movimenti lenti e
rotatori delle braccia e delle mani) comunica serenità e senso di rilassamento,
mettendo l'interlocutore a proprio agio.
Occorre inoltre prestata particolare attenzione agli indicatori paralinguistica,
cioè a tutto ciò che accompagna linguaggio, come il timbro di voce, il tono di voce,
le pause.
Nell'ascolto passivo, i canali di comunicazione non verbale che entrano in
gioco più degli altri sono il contatto oculare (lo sguardo) e la postura aperta e
leggermente inclinata in avanti, perché questi due elementi testimoniano attenzione
all’interlocutore.
Altro elemento importante che entra in gioco nell'ascolto passivo è il silenzio.
Il silenzio non è solo da intendersi in senso verbale, di non-parole, ma anche e
soprattutto silenzio interiore, come vuoto interno di pensieri e sentimenti, come
presupposto per il sentire e l'esprimere verso l'altro, interesse e accettazione.
L'ascolto passivo si avvale inoltre della comunicazione verbale, attraverso
l’espressione di riconoscimento e accettazione dell'altro, tramite l'uso di parole e
suoni (come, ad esempio, “Va bene...”, “Uhm,....”, ecc.).
L’ascolto attivo si avvale soprattutto della comunicazione verbale e anche
della comunicazione non verbale, esprimendo empatia attraverso il tono della
voce e l'espressione facciale.
L'ascolto attivo significa ascoltare con partecipazione, cercando di capire
quello che l’altra persona sente o vorrebbe esprimere.
Comprendere il punto di vista dell’altro non significa comunque adottare il
modo di vedere dell’altra persona.
Se una persona ha la possibilità di parlare fino in fondo e si sente compresa, è
più disposta ad ascoltare con attenzione gli altri e a mostrare comprensione.
Per verificare se si è capito bene l’una o l’altra, il mediatore può avvalersi delle
seguenti tecniche: la riflessione del contenuto di ciò che dice il parlante, la riflessione
del sentimento sottostante al messaggio e il confronto attraverso il messaggio in
prima persona.
La riflessione del contenuto (o parafrasi) consiste nell'abilità di parafrasare ciò
che dice l’interlocutore, usando parole diverse e frasi sintetiche. Prendiamo, ad
esempio, la frase seguente: "Il nuovo direttore non lo capisco proprio, così rigido, con
le sue regole immodificabili...." – Parafrasi - "Stai dicendo che non riesci a cogliere il
senso del suo comportamento?"
La riflessione del sentimento consiste nell'abilità di cogliere il vissuto emotivo
del cliente sottostante al contenuto e rimandarglielo, verbalizzandolo.
Nell'esempio di prima, si può dire: "Si sente sorpreso da questo
comportamento?". In tal modo l’altro è aiutato a mettersi in contatto con la propria
parte più emotiva.
Il confronto attraverso il messaggio in prima persona consiste in un atto di
auto-rivelazione, attraverso il quale il parlante esprime il proprio punto di vista.
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Esprimere il proprio punto di vista significa dire ciò che si vuole dire usando
frasi come "Secondo me..”, “Io penso che...", e non invece frasi come "questa è la
verità..”, “Si fa così...".
Esprimersi usando messaggi in prima persona significa contestualizzare (e non
generalizzare) ciò che si pensa e si dice, assumendosi nel contempo, la responsabilità
del proprio pensiero.
Invitando i contraenti ad usare messaggi in prima persona, si aiutano a dire con
chiarezza quel è il problema reale e che tipo dio sentimenti questo suscita loro
La parafrasi e la riflessione del sentimento determinano una condizione
psicologica di apertura nell’interlocutore. La persona che riceve questo tipo di
atteggiamento si sente infatti capita, accettata e non giudicata. E' come se gli si
dicesse (metamessaggio) che può aprirsi, farsi vedere, abbassare le difese. La
parafrasi e la riflessione del sentimento creano un clima di fiducia. In questo clima di
fiducia è possibile poi confrontarsi con l'altro, dire il proprio punto di vista, attraverso
l'uso del messaggio in prima persona. Ciò facilita la convergenza tra i partners della
relazione, portandoli verso la soluzione del problema. L'empatia che si esprime
attraverso la riflessione del contenuto e la riflessione del sentimento fa sì che quando
ciò che l'altro ci dice non ci è ancora chiaro, ci può essere chiarito attraverso l'uso di
queste due modalità.
Inoltre l'atteggiamento empatico determina nell'altro una condizione di
abbassamento delle difese dall’ansia del confronto con l’altro, proprio perché la
persona non si sente giudicata e si auto-esplora più facilmente.
In un’interazione, quando uno dei due ha ricevuto un atteggiamento empatico
da parte dell'altro, sarà più disposto a sentire e quindi a mostrare altrettanta apertura e
comprensione. Per questo, il messaggio in prima persona, usato per confrontarsi,
esprimendo il proprio punto di vista si rivela più efficace quando segue ad un
intervento fatto in termini di rimando empatico.
Per introdurre l'ascolto attivo è utile usare alcune frasi tipiche. Se siete
abbastanza sicuri di aver capito bene, è opportuno usare frasi come "Ti senti...”,
“Secondo te...”, “Tu pensi che...”, “Mi stai dicendo che..”, “Vuoi dire che...". Se
invece non siete abbastanza sicuri di aver capito bene, conviene usare frasi
come..."Potrebbe essere che..”, “Mi chiedo se...”, “Non so se ho capito, ma...”,
“Correggimi se sbaglio, ma...”, “E' possibile che...”, “Sembra che tu...”, “Forse ti
senti...".
Gestire le emozioni
La capacità di empatizzare è strettamente correlata con un’altra competenza di
base, la capacità di gestire le emozioni . Per poter vivere in modo adeguato la nostra
vita quotidiana abbiamo bisogno di riconoscere le nostre e altrui emozioni. Saperle
gestire non significa affatto negarle o reprimerle. Gestire le emozioni significa invece
essere in grado di poterle esprimere in modo adeguato al contesto, senza che questo
avvenga dimenticando ciò che tale espressione significa per gli altri.
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Gestire lo stress
La gestione delle emozioni s’intreccia la capacità empatica ma anche con
l’altra competenza essenziale per la nostra vita psicologica e sociale, relativa alla
gestione dello stress. La parola stress non ha in psicologia un’accezione negativa. Si
parla infatti di eustress per indicare una condizione stressante positiva per il proprio
organismo. Se, però, lo stress assume il senso di una pressione ambientale che si
realizza per un prolungato periodo, allora esso diventa distress, stress negativo cioè, e
può, se non adeguatamente gestito, causare conseguenze nocive anche sotto il profilo
organico oltre che psicologico. Essere capaci di gestire in modo adeguato al contesto
ed efficace i diversi livelli di distress al fine di evitare che insorgano vere e proprie
patologie.
Comunicazione e gruppo sociale.
In psicologia sociale si è soliti definire il gruppo come un insieme di individui
che interagiscono tra loro facendo riferimento a modelli comuni di comportamento,
che si ritengono membri del gruppo medesimo e che sono considerati, da altri
individui o gruppi, come parte del gruppo inteso come un insieme omogeneo
(Vianello, 1998).
Un gruppo è perciò un insieme dinamico (una totalità dinamica) costituito da
individui che si percepiscono vicendevolmente come interdipendenti per qualche
aspetto.
Si tratta di una definizione che risale a Kurt Lewin, uno dei padri fondatori
della psicologia sociale, e da lui elaborata negli anni Trenta - Quaranta del secolo
XX°, ispirandosi alla psicologia gestaltista che aveva contribuito a sviluppare in
Europa, prima dell’avvento del nazismo e dell’emigrazione forzata negli Stati Uniti.
La psicologia della Gestalt aveva scoperto che la nostra percezione seguiva
leggi basate sul principio secondo cui l’insieme delle sensazioni percepite aveva
proprietà non riducibili alle proprietà delle singole sensazioni.
In altri termini, il tutto ha proprietà specifiche diverse dalla somma delle parti
costituenti e che sono in grado di strutturare queste stesse parti in una totalità
organica.
Quindi l'identità, il riferimento a modelli di comportamento comuni e il senso
di appartenenza sono i tratti distintivi dell'essere gruppo.
All’interno del gruppo ogni componente ha uno status sociale ed esercita un
ruolo sociale. Lo status indica la posizione che l’individuo ricopre all’interno del
gruppo, il ruolo di un individuo è l’insieme delle azioni che ci si aspetta che egli
metta in atto nelle interazioni con gli altri. Lo status può essere ascritto, come, ad
esempio, l’età o il sesso, oppure acquisito, come la posizione professionale, il tipo di
lavoro che si svolge.
Gruppi primari e secondari.
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Si è soliti distinguere tra i gruppi primari, come il gruppo degli amici più
intimi, e gruppi secondari, come può esserlo un gruppo di frequentanti un corso di
formazione o un gruppo di lavoro di insegnanti. La famiglia è l’esempio tipico di
gruppo primario, in cui i componenti sono affettivamente legati fra di loro.
L'interazione tra i componenti di un gruppo primario è perciò molto intensa,
emotivamente ed affettivamente coinvolge, a differenza di quanto accade in un
gruppo secondario in cui invece l'interazione è meno profonda e spesso legata ad
obiettivi determinati dal contesto organizzativo in cui il gruppo opera.
In effetti accade, come dimostrarono le ricerche condotte negli Stati Uniti tra il
1927 e il 1932, conosciute come "esperimenti Hawthorne" (dal nome dell’industria
elettrica in cui tali ricerche si svolsero), che un gruppo secondario possa tramutarsi in
un gruppo primario, come nel caso del piccolo gruppo di operaie che lavorava
all'interno di quella azienda e che risultavano, alle osservazioni dei sociologi, molto
legate fra di loro al punto che il fattore che maggiormente incideva sulla loro
produttività era proprio rappresentato da questo ‘spirito di gruppo’.
Perciò quel che contava per farle produrre di più non era tanto la promessa di
premi in denaro bensì piuttosto la loro opinione collettiva su quanto fosse giusto
lavorare di più o di meno.
Una successiva ricerca su di un gruppo di circa quindici operai della stessa
azienda confermò che anche all'interno di un gruppo secondario potevano svilupparsi
regole comuni di convivenza simili a quelle dei gruppi primari, e che si attuavano
anche attraverso le comunicazioni tra loro, con la creazione di un particolare gergo,
una suddivisione spontanea di ruoli diversi all'interno del gruppo, per cui c'era chi
guidava gli altri ma anche chi interveniva per ridurre le tensioni tra i membri o chi
invece impediva agli altri che il lavoro svolto fosse superiore a quanto stabilito dal
gruppo stesso.
Gli altri membri potevano svolgere una funzione esattamente opposta,
segnalando a chi rallentava troppo il lavoro di incentivare la sua produzione,
indicandolo con nomignoli quali ‘cesellatore’, oppure appellando ‘spione’ chi dava
informazioni che potessero mettere in difficoltà un altro membro del gruppo davanti
al caporeparto.
Le caratteristiche del gruppo.
Quando e come accade che un semplice aggregato di persone si trasformi in un
gruppo psicologico? Perché non è sufficiente che un insieme di persone condivida
una stessa situazione per definirlo un gruppo?
Esistono alcune condizioni essenziali perché un aggregato di individui diventi
un gruppo, costituenti dei veri e propri parametri con i quali è possibile definirlo tale
(Cartwright, Zander, 1998).
Il primo parametro per caratterizzare un gruppo è che esso necessita di una
determinata ampiezza (parametro della numerosità).
Infatti, occorrono almeno quattro persone per fare un gruppo.
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Una coppia non è un gruppo vero e proprio, ma nemmeno una triade è un
gruppo in senso specifico perché solitamente due membri si ‘alleano’ tra di loro e il
terzo viene escluso dal ‘rapporto di complicità’ diadico, di coppia, che si crea. Il
motivo psicologico più profondo per spiegare questa difficoltà nel “fare gruppo in
tre” è rappresentato dal riattivarsi della dinamica edipica, con la diade che rievoca la
coppia parentale e il terzo escluso che assume nei fatti il ruolo di ‘membro filiale’
della triade.
Se quattro è il limite inferiore, tra dieci e quindici è il limite superiore. Questo
criterio è di natura quantitativa nel senso che per ogni persona in più presente nel
gruppo, il numero di relazioni che si forma nel gruppo medesimo non aumenta di una
sola unità bensì di un numero di volte che risulta dalla seguente formula matematica:
½ Numero dei componenti • (Numero dei componenti – 1)
In altri termini, il numero delle relazioni di un gruppo è equivalente al numero
corrispondente alla metà delle persone presenti moltiplicato per il numero meno uno
delle stesse persone.
Ad esempio, considerando equivalente a 10 il numero dei componenti del
gruppo, in esso si costituiranno ben 45 “canali” di rapporto (canali di comunicazione)
fra le persone. Se solo aumentiamo di 2 unità il gruppo, il numero delle “relazioni”
tra i componenti aumenterà del 46%, passando da 45 a 66. Quando il numero delle
persone componenti il gruppo supera il numero dei canali di comunicazione che è
ragionevole aspettarsi di essere gestito da un conduttore, allora il gruppo sarà un
grande gruppo e tenderà a suddividersi in tanti piccoli gruppi.
Il secondo parametro che permette di definire un gruppo è la possibilità offerta
ai suoi membri di interagire in un tempo significativo (parametro della
temporalità). La durata temporale deve essere tale che il gruppo possa avere la
possibilità di passare dalla pura e semplice interazione alla relazione vera e propria, il
che accade quando i componenti del gruppo cominciano ad avere una storia comune.
Il terzo parametro è costituito dagli obiettivi condivisi (parametro della
condivisione degli obiettivi). Un insieme di persone diventa gruppo quando elabora
al suo interno, in modi e forme anche inconsapevoli, degli obiettivi comuni. Nel
gruppo di lavoro gli obiettivi vengono dati dall’esterno (ad esempio, dal
‘committente’, dall’ufficio superiore, ecc.) ma per lavorare davvero in gruppo occorre
che tali obiettivi divengano i propri obiettivi, rielaborandoli in modo da condividerli.
Il quarto parametro è strettamente connesso al precedente, e riguarda le norme
di funzionamento del gruppo e i suoi valori (parametro della elaborazione delle
norme). La fase del confronto (e talvolta del conflitto) è qui ineludibile. Proprio
grazie a questo confronto, se costruttivo, il gruppo arriva a darsi le sue regole e il
processo di normazione, risolta la fase del conflitto, produce i valori del gruppo che
ne costituiranno la base fondamentale per la sua vita.
Il quinto parametro per caratterizzare un gruppo in senso psicologico e sociale, è
costituito dai ruoli che si costituiscono al suo interno e che sono le attese che gli altri
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hanno nei confronti di un membro del gruppo per il fatto che quel membro occupa
una determinata posizione nel gruppo stesso (parametro del ruolo).
Le aspettative che gli altri hanno su di noi, la loro origine, su cosa esse si
basano, quanto effettivamente siano in grado di rispecchiare le nostre effettive
capacità o di soddisfare il nostro piacere, sono questioni che devono essere affrontate
proprio nella relazione col gruppo. Il riconoscimento dei ruoli, indica il grado di
accettazione delle differenti competenze. Questo rafforza il senso di utilità di ognuno
e la messa in atto di un’interdipendenza positiva. Si può contare sul contributo di tutti
perché tutti hanno qualcosa da mettere a disposizione. Oltre ad avere una notevole
incidenza sul clima di gruppo, la gestione dei ruoli ha importanti effetti anche sul
gruppo operativo.
Il ruolo può essere definito come un insieme di aspettative condivise circa il
modo in cui dovrebbe comportarsi un individuo che occupa una determinata
posizione nel gruppo. Si comprende da qui come l'attribuzione di un ruolo assicuri un
certo grado di prevedibilità nel comportamento che verrà eseguito. I ruoli non
evidenziano solo una differenza tra gli individui, ma conseguentemente anche la loro
interrelazione, una complementarietà per il conseguimento di finalità e obiettivi
comuni.
Infine, il sesto parametro è costituito dall’esistenza di relazioni di tipo socioaffettivo ed emozionale tra i componenti del gruppo (parametro del clima). Questo
clima è in grado di condizionare, spesso in modo decisivo sia in senso positivo sia in
senso negativo, la performance del gruppo stesso in relazione ai suoi obiettivi.
Perché il gruppo è una risorsa.
Lasch (1981; 1987) ha posto in evidenza le difficoltà del “fare gruppo” nella
società attuale caratterizzata da un narcisismo diffuso e dalla costruzione di microidentità (l’io minimo) che allontana piuttosto che avvicinare gli individui tra di loro.
Nonostante i limiti culturali della vita sociale contemporanea che spingono più
verso l’individualità che la gruppalità, molteplici sono i vantaggi del costituirsi in
gruppo.
Innanzi tutto perché, essendo il gruppo qualcosa d’altro della semplice somma
delle singole parti, sviluppa, una volta raggiunta la stabilità psicologica propria, una
sorta di “mente gruppale” che può però degenerare in una vera e propria “patologia
della vita di gruppo” (group think), nella quale il conformismo, l’unanimismo e la
percezione distorta dell’outgroup rispetto all’ingroup, sistematicamente
sopravvalutato, sono i sintomi in grado di condizionare negativamente i processi
decisionali del gruppo stesso (Janis, 1972, 1982, 1989).
In altri termini, se il “pensiero di gruppo” viene contrastato in maniera efficace,
l’insieme delle capacità singolari dei componenti si potenziano tra di loro ed essi
diventano capaci di produrre qualcosa che i diversi componenti da soli non sarebbero
stati in grado di creare.
Il gruppo inoltre è necessario per vedersi riconosciuto nel proprio status che
costituisce la dimensione complementare ed opposta al ruolo: perciò, se il ruolo
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prescrive i doveri che ho verso gli altri, lo status sancisce i miei diritti che devono
essere rispettati dagli altri per una buona qualità della vita in gruppo.
Il gruppo inoltre sostiene la stima dei suoi componenti. Quindi, se è indirizzato
alla sua realizzazione, esso influisce positivamente sull’autostima dei membri del
gruppo stesso.
Nel darsi delle regole, il gruppo indica dei limiti al vivere sociale che sono
preziosi proprio per la qualità della vita individuale.
Il gruppo peraltro fornisce regole che sono meno costrittive e inibenti delle
regole macrosociali.
I gruppi si distinguono tra di loro per il modo in cui realizzano le caratteristiche
distintive dell’essere gruppo, per cui esiste una sorta di “indice di gruppalità” che
permette di valutare in modo qualitativo lo scarto del gruppo considerato rispetto al
prototipo del gruppo sociale (De Grada, 1999; Mannetti, 2002).
In relazione ai parametri descritti è possibile che tale “indice” sia maggiore se
le persone interagiscono tra di loro in modo integrato e orientato al raggiungimento di
uno scopo comune e se si percepiscono come membri di uno stesso gruppo,
caratteristica questa molto valorizzata dalle ricerche orientate in senso cognitivo,
perché consente al gruppo e ai suoi componenti di costruire la loro stessa identità
sociale attraverso processi di autocategorizzazione (Tajfel, 1981, 1982; Turner et al.,
1987).
Inoltre le persone componenti un gruppo con l’”indice di gruppalità” più alto
nutrono sentimenti positivi nei confronti degli altri membri dell’insieme e verso le
attività comuni, determinando il “sentimento del noi” (we feeling), quel senso di
appartenenza del singolo al gruppo che ci consente di valutare gli individui come più
o meno affiatati tra di loro.
L’identificazione reciproca consente inoltre di sviluppare un’elevata
influenzabilità tra i componenti, tale che esiste una specie di idem sentire in cui la
proposta del singolo viene accolta con condivisione ed entusiasmo.
Il gruppo ad elevata coesione presenta un’elevata articolazione interna, con una
struttura organizzativa e gerarchica in relazione alle attività, ai ruoli e agli status,
funzionante, riconosciuta e accettata.
Infine il gruppo condivide il sistema di norme implicito o esplicito che ha
prodotto, dando origine ad una struttura normativa solida, capace di creare una vera e
propria ideologia o cultura del gruppo.
Bion (1961) usa l’espressione “cultura di gruppo” in modo assai estensivo,
includendovi anche la struttura che il gruppo produce nel corso dei diversi momenti
della sua esistenza ed evoluzione, le attività che svolge e l’organizzazione che adotta.
Struttura e dinamica del gruppo.
Ogni gruppo, da quello familiare ed amicale al gruppo secondario di lavoro, ha
una sua struttura, perché ogni membro ha un suo ruolo, di cui si può essere più o
meno consapevoli.
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Nel caso del ‘mobbing’ la vittima ha appunto il ruolo di ‘capro espiatorio’ dei
conflitti che esistono nel gruppo.
Talvolta accade che ci sia chi vuole utilizzare il gruppo per tentare di
manipolarlo per suoi scopi e questo può accadere perché l’individuo ha bisogno di
essere riconosciuto come capace di avere successo.
In altre occasioni invece un individuo può ostacolare le attività del gruppo,
opponendosi sistematicamente, nel caso di un gruppo di lavoro, al conduttore delle
attività per dimostrare in negativo il suo ‘potere’.
In altri casi all’interno di un gruppo alcuni individui possono sentirsi
emarginati, mentre altri non pensano di esserlo e invece di fatto lo sono. In altri casi,
alcuni membri vogliono mettersi ‘al di sopra degli altri’, alzando la voce
continuamente oppure ponendosi sempre al centro dell’attenzione.
Si tratta di fenomeni abbastanza abituali che, finché si manifestano in maniera
sostanzialmente rispettosa degli altri e nelle prime fasi della vita di un gruppo, sono
spesso riconducibili a preoccupazioni e timori legati proprio al vivere l’esperienza
stessa dello stare in gruppo.
Possono invece emergere sul lungo periodo comportamenti di ‘dipendenza’ da
parte dei membri di un gruppo: ci sono persone che cercano in esso certezze acritiche
in grado di compensare le loro insicurezze e tali bisogni possono essere così forti da
creare veri e propri gruppi ‘settari’, che possono persino impedire ai componenti di
poter manifestare comportamenti autonomi dalle rigide regole stabilite dal gruppo
stesso. In altri casi i comportamenti ostili o negativi dei singoli possono continuare e
in tal caso può essere necessario ristrutturare il gruppo in modo da rendere possibile
il suo lavoro.
Solitamente si può intervenire nell’analizzare la struttura e le dinamiche del
gruppo per prevenire fenomeni eccessivamente conflittuali o disagi all’interno del
medesimo attraverso l’osservazione e la formazione dei gruppi stessi al vivere
insieme, come avviene nei cosiddetti T-Groups (Training-Groups), in cui s’apprende
a convivere positivamente insieme, sperimentando in condizioni controllate le
difficoltà che questo comporta e imparando dai propri errori.
Uno degli strumenti più utili per comprendere la struttura e la dinamica di un
gruppo è costituito da un vero e proprio test, detto Test Sociometrico, ideato da
Jacob Levi Moreno, celebre per la tecnica terapeutica nota col nome di psicodramma.
Il Test consente di rappresentare anche graficamente la struttura e la dinamica
di un gruppo in un certo momento della sua vita e consiste nella richiesta, fatta ai
membri del gruppo, di esprimere preferenze o rifiuti verso gli altri componenti del
medesimo. La raccolta dei dati viene elaborata in un sociogramma che può essere
variamente rappresentato e che permette di individuare la posizione di ogni singolo
individuo nel gruppo rispetto agli altri e ad un ipotetico punto di massima coesione
del gruppo stesso. Si tratta di un utile strumento per comprendere chi in effetti
conduce il gruppo, chi si trova distante o persino isolato dagli altri componenti, chi
invece è più vicino ad altri, costituendo così dei sottogruppi interni al gruppo.
La comunicazione nel gruppo.
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I modi in cui i componenti di un gruppo interagiscono e comunicano tra di loro
configurano la struttura del gruppo stesso e le sue modificazioni determinano la
dinamica del medesimo.
Le reti di comunicazione di un gruppo sono perciò il modo in cui i suoi
componenti comunicano tra di loro e la loro rilevazione è indispensabile per
mantenere la coesione del gruppo. Vi sono diversi tipi di queste reti: a Y, a catena, di
tipo circolare, a ruota, e altre ancora (Leavitt, 1951).
Queste reti sono descrizioni delle modalità di interazione comunicativa tra i
componenti di un gruppo, ma non ci dicono quale struttura comunicativa sia più utile
da adottare in assoluto.
Si potrebbe, infatti, pensare che una rete di comunicazione aperta e circolare
che descrive un gruppo in cui tutti interagiscono tra di loro in maniera cooperativa e
paritaria sia da preferirsi sempre ad altre strutture comunicativo-relazionali, come
quella più centralizzata.
Shaw (1964) ha dimostrato sperimentalmente che quest’ultimo tipo di rete
di comunicazione a Y o a ruota (reti centralizzate), sono più funzionali di altre
solo se i compiti sono cognitivamente semplici, mentre nel caso di compiti
complessi queste reti comunicative sono meno produttive di quelle non
centralizzate.
Fra gli indici per descrivere vari tipi di reti, importanti sono l'indice di distanza
(il numero minimo di legami di comunicazione che un individuo deve attraversare
per comunicare con un altro membro del gruppo) e l'indice di centralità, che misura il
grado di centralizzazione di una rete (cioè misura quanto le comunicazioni in un
gruppo siano centralizzate su una persona o distribuite più o meno uniformemente fra
i membri).
Si sono messe in luce delle correlazioni tra l'indice di centralità di una rete e
certe espressioni del lavoro di gruppo: più la rete è centralizzata, meno numerose
sono le comunicazioni e più rapido è lo svolgimento del compito, anche se il morale
medio del gruppo diminuisce con la centralità. Successivamente altre ricerche
corressero l'idea che i gruppi centralizzati risolvessero i compiti più rapidamente: ciò
vale per i compiti semplici, mentre di fronte a compiti più complessi, sono più
efficienti i gruppi a rete circolare.
In un gruppo efficace la comunicazione è bi-direzionale: l' espressione aperta e
accurata delle idee e dei sentimenti, è accettata e favorita.
In un gruppo di lavoro cooperativo i membri cercano di finalizzare gli scambi
(comunicazione finalizzata) al raggiungimento sia degli obiettivi condivisi che di
quelli del singolo. La comunicazione finalizzata è un'attività concreta perché porta a
sviluppare soluzioni alternative di un problema, a prendere decisioni, a gestire
relazioni. E' una comunicazione pragmatica, perché da più importanza ai fatti e ai
dati e meno alle opinioni e ai giudizi di valore personali; si orienta perciò verso
l'operatività del gruppo.
Lavorare in gruppo è rischioso?
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Occorre poi ricordare che nei gruppi possono prodursi fenomeni di distorsione
interpretativa e decisionale già a partire dalla semplice triade, come hanno dimostrato
alcuni esperimenti ormai classici di Sherif (1935) e Asch (1951; 1955,1956).
In uno di questi studi, un piccolo gruppo era inserito all'interno di una stanza
completamente buia dove si proiettava su di una parete un punto luminoso e si
chiedeva ai componenti del gruppo di valutare l'entità dello spostamento del punto
nel corso del tempo. In effetti, ciò che accade è che il punto luminoso sembra
muoversi per un effetto percettivo conosciuto come "effetto autocinetico", una vera e
propria illusione ottica. In altri termini, il punto non si muoveva per niente ma i
componenti del gruppo concordavano su valutazioni pressoché unanimi di questo
spostamento di fatto puramente illusorio.
In un altro esperimento (Asch, 1952, 1955) un soggetto che rappresentava la
"cavia" della situazione veniva inserito in un gruppo di collaboratori dello
sperimentatore (che facevano finta di non conoscersi tra loro). Lo sperimentatore
successivamente chiedeva al gruppo di valutare collettivamente l'eventuale differenza
di lunghezza tra delle immagini di bastoncini proiettati su di uno schermo,
comparandoli rispetto ad un altro bastoncino "campione". I collaboratori dello
sperimentatore si erano in precedenza accordati nel fornire le medesime risposte
sbagliate anche nel caso di evidenti differenze di lunghezza tra i diversi bastoncini. Il
soggetto sottoposto all'esperimento, assolutamente ignaro di tutto, spesso si
uniformava al giudizio espresso dal resto del gruppo. Solo in pochi casi (seppur
significativi) le “cavie” rifiutavano le valutazioni del gruppo, dimostrando così come
un gruppo può arrivare a valutazioni errate per l'influenza esercitata sui singoli
componenti dal gruppo stesso.
Per evitare queste distorsioni può essere utile l’adozione di strategie di analisi
dei problemi come il problem-solving.
La leadership.
Gli stili di leadership costituiscono un ulteriore elemento costitutivo del gruppo
di lavoro. All'interno di ogni gruppo, alcuni individui assumono sia spontaneamente
sia per designazione la funzione di guida delle attività del gruppo stesso. Questa
funzione, detta di leadership, può essere svolta anche da più persone in momenti
diversi. Solitamente si pensa che i gruppi sociali o le organizzazioni siano in genere
guidati da personaggi "carismatici", capaci cioè di imporre la propria volontà al
gruppo grazie alle particolari attitudini e doti di comando di cui sono dotati.
Pur essendo questo del ‘leader carismatico’ un fenomeno reale, la leadership
nei diversi gruppi può essere esercitata da individui "comuni", per cui la capacità di
esercitare tale funzione può essere appresa e perfezionata attraverso l'esperienza.
Diversi individui possono esercitare all'interno di uno stesso gruppo forme di
leadership di tipo diverso.
Alcuni individui possono indirizzare gli altri al raggiungimento degli obiettivi
del gruppo, essendo in grado di richiamare il gruppo stesso alle regole che lo
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guidano, alla responsabilità di raggiungere nei tempi previsti di obiettivi condivisi,
sollecitandoli a superare le difficoltà e suggerendo soluzioni efficaci ai problemi
incontrati.
Questa forma di conduzione del gruppo viene definita come leadership
funzionale e il leader che la svolge come orientato al compito.
Altri, invece, potranno manifestare in modo più efficace la capacità di
esprimere le esigenze specifiche dei componenti del gruppo, i loro bisogni di tipo
affettivo ed emotivo.
Questa forma di conduzione dei gruppi è invece definita come leadership
espressiva o socio-emotiva e il leader che la svolge come orientato alla relazione.
L'equilibrio tra le diverse forme di leadership, funzionale ed espressiva, è
indispensabile per garantire la vita del gruppo, per aumentarne la coesione, per
migliorarne il clima interno e per promuovere il benessere dei suoi componenti.
Tipologie di leadership
Leadership funzionale, orientata al compito.
Il leader, tra l’altro, orienta continuamente il gruppo all’obiettivo da raggiungere,
supporta gli sforzi dei suoi componenti nelle attività necessarie al lavoro da svolgere,
stimola la loro creatività e l’apporto attivo alla discussione, favorisce un clima sereno
di collaborazione reciproca, riformula continuamente gli apporti dei componenti per
tenere aperti i canali comunicativi, media i conflitti per evitare che possano
degenerare in scontro aperto senza impedire peraltro che si manifesti la diversità di
opinioni e di punti di vista).
Leadership socio-emotiva, espressiva.
Il leader, tra l’altro, ascolta con attenzione ed empatia il contributo degli altri, intesa
come capacità di sperimentare il vissuto affettivo ed emotivo dell’altro senza mai
immedesimarsi totalmente in esso, esprime e riformula i bisogni più profondi del
gruppo, collaborando alla leadership funzionale ed evitando che la loro espressione
possa tradursi in conflitto antagonistico tra i membri del gruppo).
Gli stili di leadership.
Il conduttore del gruppo può assumere stili di leadership assai diversi tra loro.
Il leader può esercitare una conduzione di tipo autoritario in cui non permette al
gruppo di discutere su ciò che si deve fare e imponendo forme di comunicazione e
relazione che privilegiano il rapporto diretto tra i singoli componenti del gruppo e il
conduttore stesso.
Questo stile di conduzione può essere necessario in momenti particolarmente
difficili della vita di un gruppo, ad esempio nel caso in cui vi sono forti tensioni
dovute a fattori esterni al gruppo stesso oppure in situazioni in cui il tempo necessario
a raggiungere obiettivi indispensabili per il gruppo sia limitato.
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All'opposto, in altri casi chi esercita la leadership può evitare di assumere
alcuna responsabilità, promuovendo un clima di caotica interazione tra i membri del
gruppo, senza consigliare o suggerire alcun comportamento funzionale a
raggiungimento degli obiettivi (stile di conduzione laissez-faire).
Altri stili di conduzione del gruppo di lavoro sono invece di tipo democratico e
autorevole.
In questi casi il conduttore assume comportamenti che favoriscono la
comunicazione reciproca tra i membri del gruppo, manifestando attenzione e rispetto
per le diverse idee e opinioni in relazione alle attività da realizzare in modo da
assicurare una partecipazione democratica alle decisioni senza però, nel caso dello
stile autorevole, perdere di vista le finalità fondamentali del gruppo. Le tipologie di
leadership e di stili di leadership sono perciò così sintetizzabili (Corrieri, 2003;
Corrieri, Piz, 2003):
Leadership autoritaria.
Chi ha la responsabilità di guidare il gruppo lo fa senza ascoltare gli altri
membri, distribuendo i compiti secondo criteri fissati apriori e non negoziati col
gruppo stesso.
La comunicazione privilegia la rete a Y o a catena perché i componenti del
gruppo si limitano per lo più ad eseguire le indicazioni date dal leader che non si cura
più del necessario degli aspetti socio-emotivi dei componenti del gruppo i quali
spesso entrano in conflitto tra di loro.
Domina la passività nell’esecuzione del compito affidato e l’aggressività che
può prodursi nei momenti di maggiore stanchezza può esprimersi contro il ‘capro
espiatorio’.
Vantaggi: è utile quando gli obiettivi sono semplici da definire e c’è poco tempo per
raggiungerlo. Un esempio potrebbe essere quello di un gruppo che deve soccorrere
immediatamente persone in difficoltà, anche se lo stesso risultato positivo si può
avere con un gruppo ‘ben affiatato’ proprio grazie ad uno stile di leadership meno
autoritaria esercitato prima di entrare in azione.
Limiti: c’è scarsa soddisfazione per quel che si fa, stare in gruppo diventa faticoso, e
c’è il rischio di vivere l’esperienza come frustrante soprattutto per i più motivati al
lavoro, mentre i più dipendenti dall’autorità possono essere eccessivamente
compiacenti rispetto al ‘capo’, alimentando rancori e gelosie tra i componenti del
gruppo.
Leadership permissiva (laissez-faire)
Paradossalmente può essere la forma più negativa di conduzione di un gruppo
perché può esprimere in forma mascherata un bisogno aggressivo dello stesso
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conduttore, indotto anche da possibili frustrazioni sperimentate prima o durante
l’esecuzione del lavoro comune.
Questa forma di leadership, infatti, è caratterizzata da una sostanziale
deresponsabilizzazione del leader dal suo ruolo di conduzione, per cui il gruppo è
completamente abbandonato a se stesso nell’attività da svolgere. La coesione del
gruppo è debole, il suo rendimento è basso, si lavora male, i conflitti insorgono
continuamente e non si riesce a mediarli in modo efficace perché manca chi interpreti
tale ruolo di negoziazione in maniera continuativa.
Vantaggi: se non è espressione di incapacità o demotivazione sostanziale all’esercizio
del ruolo di conduzione del gruppo da parte del leader, questo stile può talvolta essere
utile in situazioni di difficoltà; ad esempio, quando è difficile -se non impossibileattuare efficacemente le attività lavorative, consentendo al conduttore di prendere
tempo in attesa che chi occupa posizioni più elevate di responsabilità
nell’organigramma dell’organizzazione (cioè nella struttura gerarchica della
medesima) chiarisca gli obiettivi che il gruppo deve effettivamente raggiungere, le
risorse realmente disponibili, ecc.
Ciò peraltro potrebbe prestarsi proprio a ‘colpevolizzare’ il conduttore del gruppo che
dimostrerebbe così la sua ‘incapacità’ nell’esercitare il ruolo assegnato e diventare il
‘capro espiatorio’ della situazione.
La rete comunicativa che si determina in conseguenza di questo stile di leadership
potrebbe essere anche di tipo aperto, in cui tutti interagiscono tra di loro, ma se
l’obiettivo da raggiungere è a breve termine questo potrebbe costituire un ostacolo.
Limiti: se la conduzione è all’insegna del laissez-faire il rendimento è decisamente
basso, i componenti del gruppo, magari anche motivati all’obiettivo, possono
progressivamente vivere un senso di deresponsabilizzazione crescente e che rende più
facile l’emergere di tensioni nel gruppo.
Lo spreco delle risorse è eccessivo.
Spesso uno stile di questo genere si configura come l’altra faccia dello stile
autoritario, perché chi lo esercita può vivere l’esperienza della conduzione come
esercizio di autoritarismo invece di essere l’assunzione di una responsabilità
consapevole e da esercitarsi in contesti definiti.
Leadership democratica - autorevole
Forse è la forma di conduzione di un gruppo più apprezzata perché consente di
valorizzare l’apporto creativo e autonomo di tutti i suoi componenti. Il leader appare
aperto al contributo di tutti, stimola la comunicazione diffusa, evita di precludere la
discussione, accetta la diversità, valorizzandola in modi adeguati. Essa però richiede
anche una certa direttività da parte del conduttore, intesa come guida equilibrata e
rispettosa del lavoro del gruppo anche nelle sue esigenze emozionali ma nel rispetto
del raggiungimento degli obiettivi, peraltro discussi e condivisi. In questo senso
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richiede autorevolezza del conduttore, che talvolta, soprattutto se il gruppo è
paritario, può non essere immediatamente evidente o condivisa da tutti i componenti.
Vantaggi: la coesione nel gruppo così diretto è alta, buono è il rendimento; tutti
partecipano al lavoro con soddisfazione, mentre sono stimolati dal leader che
riformula i problemi continuamente alla luce dei diversi apporti. La comunicazione è
diffusa e aperta, si esce da una riunione solitamente soddisfatti del lavoro svolto.
Limiti: occorre tempo per condurre in porto il lavoro, perché la soddisfazione che i
componenti nel lavorare in questo modo provano può indurli a cercare più
l’esperienza di gratificazione che il raggiungimento dell’obiettivo che talvolta può
essere vissuto come estraneo o scarsamente definito o persino impossibile da
raggiungere. Si ha talvolta la sensazione di trovarsi in un ‘salotto a conversare’ più
che in un ‘gruppo a lavorare’.
La comunicazione tra stereotipi e pregiudizi.
"Gli italiani sono passionali"; "le donne non sono portate per la matematica";
"gli adolescenti sono ribelli". Queste frasi son esempi di ciò che in psicologia sociale
chiamiamo stereotipi, ovvero le credenze sugli attributi personali di una determinata
categoria sociale, in particolare di alcuni gruppi sociali, per esempio, le donne. In
altre parole, lo stereotipo è un insieme coerente e abbastanza rigido di credenze che
un certo gruppo condivide rispetto a un altro gruppo o categorie di persone (Mazzara,
1997; Villano, 2003).
Come sostiene Brown (1997) lo stereotipo è una rappresentazione della realtà
spesso arricchita da aspetti valutativi e affettivi, i quali segnalano alla persona che li
mette in atto quali aspetti siano positivi e quali sono invece irrilevanti e negativi.
Per quanto riguarda il pregiudizio, dal punto di vista etimologico questo
termine indica un giudizio precedente all'esperienza, o in assenza di dati empirici, che
può intendersi quindi come più o meno errato, orientato in senso favorevole o
sfavorevole, riferito tanto ad eventi che a persone o gruppi. Le scienze sociali
interessate ad evidenziare l'utilità di questo concetto per la comprensione dei
fenomeni socialmente rilevanti, hanno aggiunto due specificazioni di significato del
termine pregiudizio, ormai diventato parte integrante del suo uso comune.
La prima specificazione riguarda il fatto che il pregiudizio si riferisca a
specifici gruppi sociali, piuttosto che a fatti o eventi; la seconda che tale pregiudizio
sia di solito sfavorevole. In quest’accezione più specifica e ristretta, il pregiudizio è
pertanto definito come la tendenza a considerare in modo ingiustificatamente
sfavorevole persone che appartengono ad un determinato gruppo sociale. A
quest’accezione si associa inoltre l'idea che il pregiudizio non si limiti alle valutazioni
rispetto all'oggetto, ma sia in grado di orientare concretamente l'azione nei suoi
confronti.
Il "passaggio all'azione" è, infatti, la caratteristiche che differenzia il
pregiudizio dallo stereotipo. Uno dei modi per orientarsi fra le diverse interpretazioni
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che nel corso del tempo sono state elaborate per comprendere questi fenomeni, è
quello di individuare alcuni criteri discriminanti, rispetto ai quali le diverse
spiegazioni possono essere considerate come alternative.
Il conflitto.
Il conflitto è l'espressione di una tensione e di incompatibilità tra alcune parti
che prima avevano un equilibrio positivo. Comunemente i conflitti sono vissuti come
qualcosa di fastidioso, minaccioso, distruttivo doloroso e la maggior parte delle
persone tenta di evitarli. D'altra parte è chiaro che i conflitti ci saranno sempre, per
questo motivo i conflitti devono essere considerati in un modo diverso e più
adeguato. I conflitti sono il segnale importante di qualcosa che non va più e deve
essere modificato, sono quindi un'opportunità per migliorare e sviluppare i
rapporti reciproci.
E' il modo (costruttivo o distruttivo) in cui il conflitto è gestito a stabilire se
quest’opportunità sarà colta o meno.
Una divergenza di opinioni o di idee può degenerare in un conflitto personale.
I diversi modi di vedere rispetto a determinati problemi vengono, infatti,
trasformati in rimproveri verso l’altra persona o illazioni sul suo carattere, le sue
intenzioni, e i suoi motivi. Invece di affrontare il problema, si identifica la persona
con il problema stesso. Nella maggior parte dei conflitti, i contenuti della
controversia cambiano con l’intensificarsi del conflitto.
All’inizio si trattava di un problema singolo, col passare del tempo emergono
però nuovi e diversi problemi d’altro tipo. Il colloquio sui problemi diventa sempre
meno specifico e sempre più vago. I problemi proliferano e lasciano una sensazione
di confusività.
Alla fine anche la comunicazione diventa sempre più indiretta e sempre meno
precisa. I contendenti hanno sempre meno contatto tra loro e tendono ad intensificarlo
con le persone che condividono le loro idee. Alla crescente intensità e al crescente
coinvolgimento emotivo corrisponde la minore capacità di ascoltare e di comunicare.
In questo modo difficilmente si raggiungeranno soluzioni soddisfacenti.
Risolvere i conflitti in modo costruttivo significa cercare una soluzione al
problema senza attaccare la persona che ci sta di fronte. Quindi si tratta di evitare di
identificare la persona con il problema.
Nello stesso modo in cui si opera una distinzione fra persona e problema, così
occorre distinguere tra posizione e interesse. Le singole posizioni, vale a dire le idee
ben strutturate su come andrebbe risolto un problema, spesso sono inconciliabili tra
loro (esempi). Non sembra perciò possibile una soluzione concordata del problema.
Tuttavia nella maggior parte dei casi gli interessi che vi stanno alla base, che alla fine
sono la cosa più importante, possono essere soddisfatti in modo diverso. Se gli
interessi sono esplicitati, diventa possibile trovare delle soluzioni soddisfacenti per
tutti.
Occorre perciò focalizzarsi sugli interessi (bisogni), non sulle posizioni
(soluzioni). Nello stesso modo in cui si opera una distinzione tra persona e problema,
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così occorre distinguere fra posizione e interesse. Le singole posizioni, vale a dire le
idee ben strutturate di come dovrebbe essere risolto un problema, spesso non sono
conciliabili fra di loro. Non sembra quindi possibile una soluzione concordata del
problema. Tuttavia, nella maggioranza dei casi, gli interessi che vi stanno alla base che sono alla fine dei conti la cosa più importante - possono essere soddisfatti in
molteplici modi. Se gli interessi sono esplicitati, diventa più semplice trovare delle
soluzioni soddisfacenti per tutti.
Due sorelle si contendono un’arancia. Alla fine convengono di dividere il frutto. Una
prende la sua metà, mangia la polpa e getta la buccia. L’altra invece butta la parte
interne e usa la buccia per fare il dolce.
Come mostra l’esempio, persino interessi diversi potrebbero benissimo essere
utilizzati per raggiungere una soluzione ottimale comunque se si decidesse soltanto
dopo avere preso in esame le posizioni (“Io voglio l’arancia”) sulla base degli
interessi (“Io voglio mangiare la polpa” - “ Io voglio la buccia per fare il dolce”). Il
processo di soluzione costruttiva porta per entrambi le parti a soddisfazione e
migliora spesso il rapporto reciproco.
Quando si parla di conflitto generalmente viene in mente una lite o discussione
fra due o più persone causata dai loro diversi punti di vista su una determinata
questione: è la modalità che le persone sperimentano più facilmente e riconoscono in
quanto "conflitto". In realtà si possono distinguere tre diversi livelli:
intrapersonale: quando qualcuno deve decidere per esempio se accettare o meno una
proposta di lavoro che ha i suoi pro e i suoi contro
interpersonale: quando due persone sono in disaccordo perché hanno esigenze ed
obiettivi diversi;
nel gruppo (intragruppo) o tra gruppi (intergruppo)
Il conflitto intragruppo e intergruppi.
Spesso, soprattutto all’inizio di un’attività di un gruppo, i suoi componenti
possono entrare in contrasto tra di loro. Se questo contrasto degenera in conflitto
aperto questo potrebbe causare lo sfaldamento del gruppo stesso.
Ma non tutti i conflitti in un gruppo sono negativi: ad esempio, la diversità di
opinioni all’interno del medesimo sul modo in cui raggiungere uno stesso obiettivo
non è affatto un limite all’inizio di un’esperienza di lavoro insieme.
Il gruppo deve però riuscire a trovare modi e forme di negoziazione dei
conflitti, per riuscire a valorizzare queste stesse diversità nell’interesse di tutti i suoi
componenti. Questo è legato anche a modo in cui il gruppo comunica al suo stesso
interno.
In effetti, il conflitto nel gruppo sembra essere legato alle fasi di sviluppo del
gruppo stesso, come evidenziato da Tuckman (1965; Tuckman e Jensen, 1977) che ha
individuato cinque fasi di tale evoluzione: la fase di Forming, la fase di Storming, la
fase di Norming, la fase di Performing, la fase di Adjourning. Nella fase 1. i
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componenti del gruppo stabiliscono le relazioni reciproche iniziali, ma si chiedono
anche se sia o meno il caso di far parte del gruppo stesso. Se trovano di avere
“qualcosa in comune”, allora si passa alla fase 2, di ‘turbolenza’ (storming è la
tempesta), in cui prevalgono il conflitto e la disorganizzazione perché tutti cercano di
affermare i propri bisogni e di influenzare gli altri. Nella fase 3 i componenti si
avvertono più in relazione tra di loro, la coesione aumenta e si definiscono le
posizioni di status e di ruolo. Nella fase 4, i membri del gruppo cooperano per il
raggiungimento dello scopo. Si tratta della fase in cui il gruppo ha raggiunto la
maturità di performance. Nella fase finale, una volta raggiunto l’obiettivo, cresce il
disimpegno e l’interdipendenza diminuisce.
Il conflitto può nascere tra gruppi, come dimostrato sperimentalmente sul
campo da Sherif (1961) con il famoso Robbers-cave Experiment (l’esperimento della
caverna dei ladri) in cui due gruppi di pre-adolescenti si misero in competizione l’uno
contro l’altro semplicemente perché i ricercatori, nella previsione di realizzare una
situazione conflittuale, li avevano divisi fin dal loro arrivo nel campo estivo in cui si
svolgeva lo studio.
Fu possibile ridurre il conflitto solo introducendo scopi sovraordinati, come
quello di far funzionare il camion per gli approvvigionamenti alimentari.
Tajfel (1981) ha approfondito il significato di tale conflittualità intergruppo,
dimostrando che la semplice assegnazione degli individui a categorie diverse poteva
originare il contrasto anche in assenza di qualsiasi motivo di competizione oggettiva,
ponendo così in evidenza la centralità del processo cognitivo di differenziazione
categoriale nella costruzione del mondo fisico e sociale.
Questo processo di categorizzazione induce a distinguere tra gli ingroups e gli
outgroups e a privilegiare nelle relazioni e nei comportamenti gli appartenenti al
‘nostro’ gruppo rispetto a quelli dell’altro gruppo. L’identità sociale dipende proprio
da questo senso di appartenenza ai gruppi di riferimento.
Strategie personali di risposta ai conflitti interpersonali.
Il primo passo per gestire i conflitti fra persone è capire come gli individui
affrontano queste situazioni: di fronte ad un conflitto si reagisce mettendo in atto
quello che l'abitudine e l'esperienza ha permesso di acquisire, ovvero una serie di
strategie personali di risoluzione dei conflitti. Johnson e Johnson (1991; in Atzei,
2003) affermano che per ognuno esiste un modo abbastanza spontaneo e naturale di
risolvere i conflitti.
Secondo questi studiosi è possibile associare metaforicamente le cinque
strategie che hanno individuato a cinque animali che nella nostra cultura richiamano
un modo di agire caratteristico.
La tartaruga (fuga).
La tartaruga si ritira dentro la sua corazza per evitare il conflitto. In questo modo
rinuncia ai suoi obiettivi personali e alla relazione con gli altri. Si tiene lontana da
ogni situazione conflittuale. E' ormai convinta che non esistono soluzioni ai conflitti.
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Lo squalo (violenza).
Lo squalo cerca di forzare i suoi "nemici" forzandoli ad accettare la sua soluzione.
Per lui ciò che conta è raggiungere i suoi obiettivi a tutti i costi disprezzando la
relazione con gli altri e quindi non ponendo attenzione ai loro bisogni.
L'orsacchiotto (modo gentili, affabili, educati).
Per l'orsacchiotto sono molto importanti le relazioni con gli altri e meno gli obiettivi e
gli interessi personali, dal momento che gli piace farsi ben accettare e dagli altri. Per
questo i suoi modi sono sempre affabili pur di non uscire male da una situazione
relazionale.
La volpe (compromesso).
La volpe non cerca né gli obiettivi personali né la relazione con gli altri, ma piuttosto
un compromesso tra i due modo di agire: in parte rinuncia ai propri interessi, in parte
persuade gli altri a rinunciare ai propri. Quindi cerca una soluzione in cui entrambi le
parti possono guadagnare qualcosa.
Il gufo (confronto).
Il gufo persegue sia i propri obiettivi che la relazione con gli altri. Egli cerca una
soluzione che soddisfi tanto se stesso che gli altri con cui è in disaccordo.
Queste cinque strategie si distribuiscono su una scala che oscilla tra le due
dimensioni su cui si struttura il conflitto:
Il soddisfacimento dei propri bisogni ed interessi personali
vs.
Il mantenimento della relazione con l'altro.
E' opinione diffusa che risolvere un conflitto voglia dire che una delle due parti
esce come vincitore, ottenendo così una posizione di potere e ponendo l'altro in una
situazione di sottomissione. In realtà dalla conflittualità si può uscire in più modi:
1. Dominio. (vincente vs. perdente).
Questa modalità è messa in atto da chi cerca in tutti i modi di raggiungere solo gli
obiettivi personali. Il conflitto è visto come uno spazio in cui sopraffare l'altra
persona e uscirne come vincitori. Ma la propria vittoria è strettamente collegata alla
sconfitta di chi è visto come avversario.
2. Compromesso (né vincente, né perdente).
Con questa strategia non vi è né un vincitore, né un perdente. Ciò che le parti mettono
in atto non è il tentativo di trovare una soluzione di soddisfacimento per entrambi, ma
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di salvaguardare la relazione raggiungendo un accordo in cui nessuno delle due abbia
avuto più dell'altro.
3. Fuga difensiva (perdente/perdente).
Questa modalità non vede nessun vincitore, ma solo perdenti, in quanto vi è una
rinuncia sia agli obiettivi personali sia alla relazione con gli altri. Chi adotta questa
soluzione non riesca ad intravedere soluzioni; riesce solo ad allontanarsene.
4. Accomodamento (perdente/vincente).
Il binomio perdente/vincente questa volta è invertito. Con l'accomodamento la
priorità è riservata alla relazione interpersonale e al suo mantenimento, piuttosto che
al raggiungimento di interessi, obiettivi concreti. Anche qui vi è una rinuncia agli
interessi, ma soltanto da una delle due parti, la quale proprio per timore di
compromettere la relazione con l'altro, anticipando gli sviluppi negativi, preferisce
piegarsi ai suoi interessi e alla sua volontà.
5. Integrazione (vincente/vincente).
Qui le parti hanno entrambe lo scopo di perseguire il mantenimento della relazione.
L'atteggiamento e quello di comprendere e avvicinarsi ai bisogni e ragioni dell'altra
persona, e viene anche detto di collaborazione confronto, in cui si possono osservare
azioni quali indagare sull'origine del disaccordo, non rinunciare ad esprimere le
proprie opinioni ascoltando con empatia, lasciarsi convincere della forza delle
ragioni, ecc.
Come si è evince ognuna delle strategie propende prevalentemente o per
l'aspetto del raggiungimento dei bisogni o interessi, o per l'aspetto del mantenimento
della relazione. Abitualmente si converge o verso l'obiettivo o verso l'altro: o si
propende per la relazione rinunciando a veder soddisfatti i propri interessi, oppure ci
si focalizza su ciò che si vuole ottenere in termini pratici e si trascura la relazione,
rischiando di incrinarla.
Essere consapevole delle proprie strategie di soluzione dei conflitti
interpersonali è il primo passo non solo per capire su quale versante ci si trova, ma
anche per preveder la possibilità di cambiare e acquisire nuove modalità di
comportamento in situazioni conflittuali. Va precisato, comunque, che non in tutte le
situazioni conflittuali è proficuo usare la stessa modalità di risoluzione, anzi si
dovrebbe possedere l'abilità di saperne usare diverse.
Empowerment, self-empowerment e stili di comunicazione.
Le conoscenze di base della psicologia della comunicazione si muovono nel
senso di promuovere il self-empowerment e l’empowerment. Con tali espressioni si è
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soliti riferirsi all’incremento che possiamo sperimentare nel riuscire ad affrontare una
situazione problematica attraverso il reperimento di risorse utili alla sua soluzione,
che possono essere trovate nell’ambiente o attraverso modificazioni dei nostri
pensieri, atteggiamenti, comportamenti. Pensiamo al caso analizzato. In alcuni
passaggi dell’analisi della situazione è apparso chiaro che l’operatore alla reception
non poteva risolvere da solo il problema del cliente: egli ha dovuto attivarsi per
reperire ulteriori risorse utili, persino indispensabili, per trovare la via d’uscita. Nel
contempo essere riusciti a gestire la relazione in modo efficace ha incrementato ciò
che Albert Bandura (1997) definisce come self-efficacy. Si tratta del modo in cui
l’individuo percepisce se stesso in relazione alla capacità di dominare specifiche
attività, situazioni o aspetti del proprio funzionamento psicologico e sociale (Caprara,
2001).
La mente umana non si limita a reagire all’esperienza esterna ed interna; essa
piuttosto opera attivamente sul mondo interno ed esterno per modificarli secondo
obiettivi e standard personali che richiedono di essere valutati nella loro efficacia.
Incrementare tale capacità è essenziale anche nei contesti lavorativi. Essa può essere
accresciuta attraverso la consapevole adozione di stili di comunicazione adeguati al
contesto situazionale in cui i soggetti si trovano ad interagire. Se ciò accade, allora il
soggetto acquisisce una maggiore capacità di modificare la situazione problematica
che interagisce positivamente con il senso di autoefficacia. La persona si sente
sempre meno vittima di eventi esterni incontrollabili e sempre più capace di
affrontare le sfide del momento in vista di un auto-miglioramento che viene avvertito
come un processo continuo, caratterizzato da comportamenti comunicativi in grado di
mostrare una maggiore sicurezza della propria professionalità. Si tratta di una
sicurezza che si origina dalla consapevolezza critica dei propri limiti, motivata da
assunti su come la nostra capacità cognitiva opera nell’apprendere dagli errori
compiuti. Tale combinazione di aspetti cognitivi, affettivi ed emozionali, si traduce in
comportamenti comunicativi che manifestano autenticità nella gestione della
relazione interpersonale con gli altri.
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