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Geraldina Colombo
(Università Cattolica del Sacro Cuore)
Recensione di Claire Keegan, Dove l’acqua è più profonda, Neri Pozza Editore,
Vicenza, 2010 (traduz. ital. di Massimiliano Morini)
La scrittrice irlandese Claire Keegan (1968, Co. Wicklow) esordisce nel panorama
letterario nel 1999, con la pubblicazione della raccolta di racconti Anctartica (riproposta
in Italia nel 2010 da Neri Pozza con il titolo Dove l’acqua è più profonda). I quindici
racconti, o short stories, che la costituiscono, ne definiscono la trama (figurativamente)
circolare, a metà strada fra realismo (privo, tuttavia, della classica ironia irlandese) e
simbolismo, che coniuga la tradizione (irlandese) della short fiction e della gothic
fiction, sconfinando, quasi, in una letteratura di matrice femminista.
Apprezzata dalla stampa irlandese ed internazionale (si vedano, ad esempio, le
entusiastiche recensioni riportate sulla quarta di copertina dell’edizione italiana Neri
Pozza, e i non pochi commenti favorevoli che si ritrovano nel web), la raccolta
“ricompensa il lettore con inaspettati scorci di struggente bellezza e sorprendente
vitalità” (Sunday Telegraph), proponendo alcuni “fra i migliori racconti contemporanei
in lingua inglese” (Observer), attraverso la “memorabile visione poetica […] e lo stile
posato, quasi etereo” (Sunday Tribune) dell’autrice, premiata con importanti
riconoscimenti internazionali (fra cui il “Los Angeles Times Book of the Year”, il
“William Trevor Prize” e il “Rooney Prize” per la letteratura irlandese).
Le celebrazioni della stampa, tuttavia, non lasciano (quasi mai) spazio ad una
rilettura lasci intravedere la completezza dell’identità testuale in sé; pertanto, si cerca
qui di suggerire una prospettiva di lettura che tenga, invece, conto del ruolo primario di
questo elemento, e che aiuti a cogliere, almeno in parte, alcune delle scelte (narrativostilistiche) “strategiche” attuate dall’autrice.
La rilettura qui proposta procede lungo il percorso che va dall’esterno della raccolta,
prendendone in considerazione il (macro)titolo, al suo interno, osservando come la
portata simbolica dell’elemento paratestuale individuato, si riverberi nel contenuto
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specifico di ogni racconto, cosicché le due dimensioni, paratestuale e testuale, risultino
coordinate fra loro (secondo l’intenzione della scrittrice).
Una prima considerazione, dunque, riguarda l’opzione traduttiva italiana del
(macro)titolo della raccolta, “Dove l’acqua è più profonda”, che va a recuperare il titolo
della terza storia (nella versione italiana), discostandosi dal (macro)titolo originale in
inglese, Antarctica. La resa in italiano sembrerebbe focalizzarsi sul senso di terrore che,
classicamente, può evocare l’immagine di un’esistenza sull’orlo dell’abisso (l’incubo
che il bambino di cui si occupa la ragazza alla pari protagonista proprio della terza
storia venga inghiottito, per noncuranza della stessa?, dalle acque tenebrose, è in questo
senso rappresentativo), e sulla connotazione psicologico-onirica dell’acqua, intesa come
proiezione dell’inconscio, e dei suoi lati oscuri, della contraddittorietà della natura
umana (il “cuore di tenebra” di conradiana memoria…).
Una valenza simbolica ulteriore, forse più forte, è invece suggerita dall’originale
(macro)titolo in inglese, Antarctica. Il richiamo qui è alla terra dei ghiacci, l’Antartide,
costituita non di sola “acqua”, ma di acqua ghiacciata, facile metafora di un’esistenza
chiusa su se stessa, che, anche qualora dovesse dischiudersi, sarebbe comunque
destinata alle profondità inesorabili degli abissi.
L’associazione Antartide → Polo Sud → ghiaccio → abisso rimanda, dunque, alla
visione pessimistica della scrittrice. Il sud, cioè, è inteso in senso lato come simbolo
della “fine” (in opposizione alla “luce” della stella polare, a nord – diversi racconti,
peraltro, sono ambientati alla fine del Novecento, e durante il periodo invernale), della
claustrofobia che soffoca le vite precarie e sterili (l’acqua, che dà la vita, se ghiacciata
risulta improduttiva) dei protagonisti delle storie. Si tratta, nella maggior parte dei casi,
di donne, madri, figlie, sorelle, spesso vittime di uomini-padroni (bianchi-irlandesi, o
neri-americani), violenti ed autoritari, provenienti da contesti principalmente rurali o
middle class, la cui routine è interrotta da uno shock-factor, che introduce nelle loro
esistenze normali il dramma, attraverso un linguaggio a tratti crudo.
Nel tentativo di sfuggire al senso dell’insufficienza esistenziale, che, spesso, à la
Joyce, prende forma attraverso rivelazioni repentine (epifanie), i protagonisti sono spinti
a varie forme di “trasgressione” (il loro lato oscuro, di cui sopra), le quali si possono
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concretizzare, di volta in volta, nella violenza contro la moglie, nel tradimento del
coniuge, nello stupro, nella fuga.
Abbandonare le acque chete della quotidianità per inoltrarsi in quelle sconosciute,
torbide, del (possibile) cambiamento, è un tentativo fallimentare, che va a ridefinire un
panorama umano completamente desolante (l’unica speranza di rinnovamento,
sembrerebbe investire soltanto alcune coraggiose figure femminili, disposte a “rischiare
un po’ nella vita”, pag. 123 – il condizionale è dettato dai finali spesso aperti delle
storie).
L’Antartide, come suggerito nel primo racconto, si pone come il “continente
perduto” (pag. 15), il luogo della (ri)scoperta esistenziale, meta del viaggio di ricerca
dell’uomo che termina, tuttavia, inevitabilmente, con un esito negativo, essendo
l’Antartide stesso soltanto terra di “neve [, …] ghiaccio […] esploratori morti” (pag.
23).
Tale visione drammatica, non ha una connotazione “locale”, non riguardando, cioè,
soltanto la fetta di mondo anglosassone specificatamente Irish, da cui l’autrice proviene.
In effetti, si assiste, nel corso della lettura, ad un continuo spostamento spaziale, che
conduce dall’Inghilterra della prima storia all’Irlanda e al sud degli Stati Uniti. Un
itinerario transcontinentale, per certi versi, universalizzante, rispetto alla condizione
umana in sé, che ricalca la vicenda biografica della Keegan (infanzia trascorsa in una
fattoria a Wicklow; esperienze giovanili fra il Galles e la Louisiana; ritorno in Irlanda in
età adulta), e che collega due, o meglio, tre continenti, l’Europa, l’America e l’Antartide
del macrotitolo, muovendosi in direzione sud.
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