digital magazine giugno 2010 Flying Lotus N.68 The Divine Comedy Pavement Ufomammut Sikitikis David Maranha // Villagers // Ariel Pink // Avi Buffalo // Peckinpah Clouds in a Pocket // was // Alessandro Fiori // Funki Porcini 68 Sentireascoltare n. Turn On p. 4 David Maranha 5 Villagers 6 Ariel Pink 7 Avi Buffalo 8 Peckinpah, Clouds in a Pocket, was 10 Alessandro Fiori 12 Funki Porcini Drop Out 20 The Divine Comedy 28 Flying Lotus Tune In 14 Ufomammut 17 Sikitikis Recensioni 36 Born Ruffians, Emeralds, Excepter, Indian Jewelry... Rearview Mirror 92 The Cure, Pavement, Frank Zappa, Starfuckers... Rubriche 88 Gimme Some Inches 90 Re-boot 102 Giant Steps 103 Classic Album 104 La Sera della Prima SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright © 2009 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare Direttore: Edoardo Bridda Direttore Responsabile: Antonello Comunale Ufficio Stampa: Teresa Greco Coordinamento: Gaspare Caliri Progetto Grafico e Impaginazione: Nicolas Campagnari Redazione: Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Stefano Pifferi, Stefano Solventi, Teresa Greco. Staff: Leonardo Amico, Marco Boscolo, Giancarlo Turra, Diego Ballani, Fabrizio Zampighi, Luca Barachetti, Fabrizio Zampighi, Andrea Napoli, Marco Braggion Guida 2 In spirituale: copertina: Adriano Trauber (1966-2004) flying lotus C ompositore rock-minimalista dalla sopraffina ricercatezza timbrica, il portoghese David Maranha è uno dei più interessanti talenti usciti da quella fucina malinconica e apparentemente periferica che è la Lisbona del nuovo millennio. Dopo aver dato il via alla seminale esperienza Osso Exotico ed aver girovagato nel mondo dell’avanguardia borderline tra sperimentazione minimalista, musica concreta e rock di confine con personaggi come Z’ev, Francesco Dillon e gli australiani Minit, catalizzando intorno a sé un nucleo mobile e avventuroso di sperimentatori sonori (Loosers, Curia, Gala Drop), David ha intrapreso un percorso in solo in cui confluiscono le sue grosse passioni musicali, ovvero una forma dilatata di rock acido e reiterato e un neo-minimalismo che più ossessivo e compresso non si può. Antarctica è la sua ultima release e per immaginario e atmosfere rappresenta l’ideale seguito dell’epocale Marches Of The New World, a testimonianza di un percorso di ricerca sui suoni e sulle suggestioni lontano dall’essere concluso, come lo stesso David, contattato via mail ci conferma: Considero ogni lavoro come parte di un processo continuo. Questo sarebbe il seguito di Curia II, anche se c’è una sorta di approccio riconoscibile che da Circunscrita passa per Marches e arriva a Antarctica. 4 Villagers Turn On Turn On David Maranha —Ad libitum...— —Per conto proprio— Rock e minimalismo: un suono preso dal corpo morente del rock e reiterato all'infinito. Questo il credo del compositore portoghese David Maranha. Un disco di formazione e un percorso esistenzial- musicale per l’esordio di Conor J. O’Brien con il progetto Villagers. E quell’approccio dietro gli ultimi lavori è sempre lo stesso: i Velvet più acidi e dilatati trattati con la lente dei campioni del minimalismo come La Monte Young, Tony Conrad, Terry Riley. Tutti questi artisti propongono musica che amo, ma ce ne sono altrettanti che mi hanno influenzato. A Maranha però interessa il processo, non l’immagine di qualcosa che ha ascoltato e non ha problemi nell'affermare che non gli interessa scoprire qualcosa di nuovo. Nella sua mente, per esempio, c'è Yves Klein che con la sua Monotone Symphony del 1958 è molto più seminale dei riferimenti che solitamente gli si appioppano. È un po’ come la relazione tra Hieronimus Bosch e il surrealismo. Yves Klein è un visionario e merita di essere riconosciuto per il lavoro che ha iniziato e che fu poi seguito da artisti come Conrad, Riley,Young. In pratica, nelle musiche di Maranha convivono la tensione del rock e la forza ossessiva del minimalismo e non che questo sia un problema o generi alcun conflitto in lui. Cerco di viverla in un modo che abbia senso per me, prima di tutto. Come biasimarlo. Le catalogazioni hanno senso per mettere ordine e presentare degli argomenti, viverli è tutto un altro paio di maniche. Stefano Pifferi C onor J. O’Brien, mente pensante dei Villagers, si mostra abbastanza imbarazzato dagli ingombranti paragoni fatti dalla stampa nei suoi confronti con Conor Oberst ed Elliott Smith, di cui peraltro è fan da sempre. Il moniker Villagers circola da almeno un anno e mezzo nell’ambiente per alcuni singoli ed EP, confermandosi ora nome piuttosto interessante con il bell’esordio Becoming A Jackal su Domino, un pop chamber personale ed espressivo che colpisce per intensità emotiva.. I Villagers nascono dopo una delusione, quella per lo scioglimento un paio di anni fa del primo gruppo di Conor, The Immediate, a seguito di sfortunate vicissitudini contrattuali. La band era divisa a metà con l’amico d’infanzia Dave Hedderman, con il quale il Nostro condivideva le esperienze musicali sin dall’età di 12 anni. Sciolto il gruppo, ma non l’amicizia, O’Brien si dedica al suo songwriting, anche se già durante la permanenza negli Immediate aveva provato a comporre per conto proprio. Il nuovo gruppo, di fatto sua esclusiva creatura, nasce allora con questi presupposti. “Cerco di non aspettarmi niente ora, dopo le esperienze precedenti negative, e di non dar nulla per scontato. Negli Immediate prendevo tutto troppo seriamente e a un certo punto si era creata moltissima pressione. Ho imparato adesso a concentrarmi solo sulla musica e ad essere più attento”. Un contatto con la Domino nato durante un concerto a supporto di Cass McCombs si trasforma positivamente in contratto, e da qui nascono le basi per Becoming A Jackal, che è un disco di formazione come il più classico degli esordi, arrangiato e suonato quasi per intero da Conor. Di songwriting pop si tratta, talvolta sinfonico, intimistico e malinconico quanto basta, con le necessarie inquietudini e variazioni stilistiche. Un percorso di iniziazione (la storia un ragazzo sciacallo che cerca il suo posto in mezzo agli uomini) informa il concept attorno al quale ruota l’album, in cui si raccontano una serie di prove che implicheranno la crescita e la conseguente evoluzione del protagonista. Si schermisce con imbarazzo Conor, dopo le prime reazioni positive, dei paragoni ingombranti fatti con alcuni suoi miti (Smith e Oberst), dribblando elegantemente e con il corretto approccio per uno agli inizi, rivelando che “scrivere una canzone in realtà non è un processo isolato e non dev’essere preso troppo seriamente, ma con il giusto spirito e humour. Il segreto è sorprendersi, se non lo sono io per primo, non sono soddisfatto del risultato”. Umiltà e ironia non gli mancano di certo, insieme a una buona dose di personalità. Ne sentiremo senz’altro parlare. Teresa greco 5 Avi Buffalo —Tempo di raccolta— —Piccoli folk singer crescono— Quello della bassa fedeltà non è mai stato un dogma. Con il nuovo album Ariel Pink cambia etichetta, si rimette in discussione ed è pronto a mettere a frutto anni di gavetta DIY. Avere vent'anni e un talento eclettico e raffinato: facciamo la conoscenza con la nuova, splendida realtà indie folk californiana e il suo giovanissimo leader. F è passato un anno da quando Mr. Pink lamentava di non aver mai ricevuto vere offerte da etichette. Oggi, l'"old fashion support" che cercava è arrivato dalla 4AD. "E' vero, ma non parlavo di pacche sulle spalle e parole d'incoraggiamento - afferma causticamente - No, grazie! Put your money where the mouth is!". Raggiunto via mail, l'artista ci racconta com'è cambiata la sua vita nel suddetto arco di tempo, a partire dai primi contatti con la con la nuova label. "Ho conosciuto Simon Hallyday quando era alla Warp. Ci siamo persi di vista per un po', poi ho scoperto che dirigeva l'ufficio della 4AD. Così gli abbiamo inviato del materiale spiegando la direzione che volevamo prendere". Cosa non andava con la Paw Tracks? "L'esperienza con la Paw Tracks è stata importante, ma ci sono solo alcune cose che una label del genere può fare. Nei miei riguardi non hanno mai avuto l'esclusiva. Potevo pubblicare materiale anche per altre indipendenti. Con 4AD invece il rapporto è usclusivo e mi auguro che facciano il possibile per trarre profitto dal loro investimento". Questo significa che non pubblicherai più CD-R? "No, a meno che non sia costretto a farlo". Diversa l'etichetta e diverso l'approccio in sede di registrazione. "E' stato tutto prodotto in digitale, con pro tools, 6 Turn On Turn On Ariel Pink mixato e registrato a più riprese. L'abbiamo realizzato come una vera band, lavorando e riarrangiando nuovi brani e altri che non avevo mai pubblicato". Si dice che sia stato registrato negli home studios di Tito Jackson, fratello di Michael. "Ci abbiamo passato tre giorni, principalmente per sistemare le parti di batteria. Per il resto è stato realizzato alla House Of Blues. E' stato Sunny Levine (produttore nonché nipote di Quincy Jones, ndr) a prenotarla e a chiamare Rikk Pekkonen come ingegnere del suono". Adesso partirà il tour che lo porterà in giro per il mondo, sebbene lui stesso in più occasioni abbia ammesso di non prediligere la dimensione live. "Dal 2004 sono stato in tour circa 3-4 volte all'anno per mesi, provando e riprovando le canzoni per adattarle ai vari cambi di line up. In tutto questo periodo, ufficialmente, non sono mai stati rilasciati album e non c'è stato supporto dall'etichetta. Il mio agente è stato la mia ancora di salvezza, nel senso che per tutto il tempo mi ha pagato l'affitto e mi ha tenuto lontano dalla strada. Suonare dal vivo, andare in tour, avere una band: un tempo tutto questo mi era estraneo, ma oggi è quello che so fare meglio". Diego Ballani accia pulita e un'età in cui, solitamente, i suoi coetanei si limitano a suonare a qualche raduno scolastico: la band di Avigdor Zahner-Isenberg (Avi per gli amici) è la nuova promessa targata Sub Pop, e a giudicare dalla maturità del suo songwriting, sembra che tale fiducia sia stata ben riposta. La sua storia inizia prestissimo, nel garage di casa: "Ho iniziato a suonare la chitarra quando ero in seconda media. In quel periodo mi esercitavo con classici blues e rock. Poi mi ho conosciuto i Wilco e ho iniziato ad appassionarmi a jazz e musica sperimentale". Faccia pulita e un'età in cui, solitamente, i suoi coetanei si limitano a suonare a qualche raduno scolastico: la band di Avigdor Zahner-Isenberg (Avi per gli amici) è la nuova promessa targata Sub Pop, e a giudicare dalla maturità del suo songwriting, sembra che tale fiducia sia stata ben riposta. La sua storia inizia prestissimo, nel garage di casa: "Ho iniziato a suonare la chitarra quando ero in seconda media. In quel periodo mi esercitavo con classici blues e rock. Poi mi ho conosciuto i Wilco e ho iniziato ad appassionarmi a jazz e musica sperimentale". L'ispirazione folk, gentile e rarefatta, è frutto di una serie di esperienze musicali sorprendentemente eterogenee per un diciannovenne: "Ho suonato blues con vecchi amici, studiato jazz e suonato in una jazz band a scuola, in un gruppo gospel a Los Angeles e salutariamente con un gruppo R&B". Il resto dei Buffalo sono amici avvicinati a scuola nel corso degli anni: "con Sheridan (Riley, il bassista) abbiamo iniziato a suonare insieme alle medie, con Rebecca e Arin (Co- leman e Fazio, rispettivamente voce/tastiere e basso) al terzo e quarto anno di liceo". Poi è arrivata la Sub Pop. "E' stato Aaron Embry, che ha registrato il nostro disco, a metterci in contatto. Aveva parlato di noi al manager dell'etichetta, ma hanno aspettato che avessimo registrazioni più professionali prima di contattarci". Non poteva essere altrimenti. L'etichetta americana ha un peso specifico rilevante nell'immaginario musicale della band. "Non ci sembra vero di essere parte della famiglia. Avevo tredici anni quando ho iniziato ad ascoltare Nirvana e Shins". A proposito di Shins: sarà la fragile vocalità di Avi, saranno le tiepide melodie temprate al sole dei Beach Boys, ma i paragoni con la band di James Mercer si sono sprecati. "Ho iniziato ad ascoltarli in un'età in cui musicalmente assorbi tutto come una spugna: ovvio che facciano parte del mio background". L'intellighentia indie ha imparato a conoscerli e ad apprezzarli al SXSW, prima fortunata tappa di una tournée che li vedrà protagonisti in numerosi festival. "Adoro i festival è un modo splendido per vedere e conoscere nuove band. Il massimo sarà partecipare all'ATP, a settembre". E per il futuro? E' qui che traspare l'entusiasmo del diciannovenne: "Ci sono tanti artisti con cui mi piacerebbe collaborare, anche al di fuori della band. Non vorrei dire troppo, ma uno dei prossimi progetti sarà con il mio amico Luis Gutee. E poi, naturalmente, spero tanti altri". Diego Ballani 7 Turn On Peckinpah/ Clouds In A Pocket/ WAS —Utopie in scatola— Scorie di sogno americano e rimasugli psych-pop d'Albione: tutto fa gioco se in gioco c'è il senso stesso dell'oggetto-disco. Da reinventare anzi da riciclare. Come il folk riciclato di Canebagnato. 8 C anebagnato è un'etichetta milanese tanto piccola quanto accanita. Come ce ne sono tante, d'accordo, ma intanto può vantare un logo dall'appeal irresistibile, come del resto la ragione sociale. Poi c'è la dignità di chi oppone alla povertà dei mezzi la cura delle proprie idee, la cocciutaggine di chi sceglie l'autunno come stagione di riferimento malgrado il volgere delle stagioni (una stagione buona per tutte le stagioni?), il sogno utopico - o la toccante velleità - di restituire al disco (al cd) un'identità e un senso al gesto di acquistarlo. Così da "creare qualcosa d'importante (...), almeno per qualcuno". E infatti, se il roster non è particolarmente affollato (ad oggi conta otto artisti), è vero però che nomi come Mauve e Gabriel Sternberg ti accendono ricordi particolari, sono piccole insidiose promesse che non hai mai smesso davvero di aspettare. Una strategia non eclatante, che non vuole spaccare in due l'onda né aggredirti come un siluro underground, ma fieramente galleggiare. Perché la qualità, come la cacca, non va a fondo. Ritorna sempre, è tenace e nutritiva, sfida il tempo e l'indifferenza del momento. In questo senso è piuttosto significativo il caso di Paolo Tedesco da Mazara del Vallo, che nella vita reale fa il venditore di auto e nell'altra si è inventato questo progetto Clouds In A Pocket. Inizialmente faceva da solo, poi ha finito per coinvolgere un manipolo di amici tra cui - tra gli altri - Christian Alati. L'esordio Ten Blown Feathers (6.9/10) propone folk declinato pop in maniera parecchio accorta per non dire apprensiva, sembra quasi che Paolo cammini su un pavimento di cristallo di boemia e invece sono trepide palpitazioni col santino dei Beatles nel taschino. Non a caso la traccia numero 2 porta il titolo di John Winston Lennon, non mancando di ammiccare a Working Class Hero, mentre Lullaby sembra un miraggio sospeso tra le beatlesiane Blackbird e Goodnight. C'è però che tanta devota delicatezza cova una passione consolidata, capace di ispessirsi all'improvviso tra inquietudini e slanci (Tunafish Can For Lunch, Oh, Elizabette!, Hannibal Lecter), riuscendo a ritagliarsi una dimensione propria e persino robustella. Ancor più emblematica è l'iniziativa Box Series. Trattasi di lavori di esordienti o side project editi in custodie di cartoncino riciclato, la grafica generosa al punto da stupire (eh, il fascino tattile della serigrafia...) e in un caso c'è pure una sorpresina che non sto a dirvi, se no ve la guasto. La confezione smette di sembrarti un pur gradevole guscio quando fai girare i dischetti nello stereo e ti accorgi che tutto si tiene, che ci sono impronte folk-pop tatuate nell'immaginario meritevoli di periodico riciclaggio, giacché il suddetto immaginario è anche - soprattutto? - questione di ritorni e ripetizioni, di ipnotica inesauribilità. Due le uscite sinora, simili nello spirito ma eterogenee per forma e sostanza. E' frugale ma intensa la proposta del cagliaritano Andrea Cherchi, che col moniker WAS esce dalla cameretta dei sogni cantautorali per sfornare l'esordio After Dinner (7.0/10), sei tracce di folk acustico (al bisogno c'è una tromba, un violino, un synh e un pizzico d'elettricità) sbilanciato dreamy (prezioso in tal senso il contributo vocale di Sara Cappai). I pezzi se la giocano tra ritrosia e incanto, palesando una certa discendenza sixties tanto palpabile quanto comprensibile, ma anche una sorprendente emulsione emotiva che sembra ricavata da dei My Bloody Valentine disidratati. Fatto sta che almeno Somebody Thinks To Know e Wakefulness squadernano l'intimismo con morbidezza implacabile, sono i tipici pezzi che lavorano in sordina impreziosendo i grandi album. Non resta quindi che aspettarlo, un album dei WAS da impreziosire. Quindi, signore e signori, c'è nientemeno che Peckinpah, alter ego - più che moniker - di Lorenzo Bettazzi, già noto per il suo lavoro come bassista per gli Zenerswoon. That's All Bad Folk (7.3/10) è il suo secondo titolo in solitario, di nuovo nel segno di un folk ombroso venato blues e psych, ad alta intensità emotiva come un fucile puntato appena dietro l'angolo, tuttavia portatore sano d'un lirismo speranzoso come chi getta comunque lo sguardo verso il migliore orizzonte possibile. Diciamo subito che Elle è un pezzo fantastico, ponte gettato tra il grunge acustico, i Gun Club e le pensosità salvifiche del post-post rock. Per il resto assistiamo ad abili declinazioni contemporanee di congetture Fred Neil (Drunken Lover), Nick Drake/Tim Hardin (None Of Them) e Graham Nash (In The Meantime). Con Call Me A Believer e The Seed si alza la temperatura, la prima essendo una melmosa retrovisione tra Small Faces e CSN&Y, la seconda una preveggenza beatlesiana di Mark Lanegan, mentre Grinder chiude il programma nella semplice intensità del piano-voce impastando particelle Mark Kozelek e Jackson Browne. Un gran disco, ma non ditelo troppo in giro. Stefano Solventi 9 Turn On Alessandro Fiori —Artigianato in rima— Quanto sia distante il "mainstream dell'amore spettacolare" dalla produzione di Alessandro Fiori ce lo dirà solo il tempo. Per ora c'è un disco che parla di una creatività affilata e sorprendente. A guardarlo bene sembra il Lucio Dalla degli esordi. Saranno forse i maglioni sdruciti che indossa nelle foto ufficiali, la barba lunga, il fisico tarchiato o l'occhio vispo. Un animo da fricchettone che ha molto a che vedere con l'indole del personaggio ma anche con la sua “seconda natura” vissuta da cantante dei Mariposa. Loro, davvero, figli adottati dei Settanta. Gente che tra ironia sottile e ritorni al prog, messe in scena ai limiti del demenziale e virtuosismi, i pantaloni a zampa d'elefante e le Clarks marroni non le ha mai archiviate. E il Nostro, in questo senso, non fa eccezione, visto che di pari responsabilità si parla quando si tratta di definire l'immaginario del gruppo bolognese: Gabrielli, Giusti, Marchi, Orvieti, Canè, Cimino a curare la linea editoriale, Fiori a dare forma a una poetica surreale che è un po' il tratto distintivo della formazione bolognese. La stessa che ritroviamo anche nel suo Attento a me stesso, spogliata dal divertissement dei Mariposa e indirizzata verso il folk e la canzone d'autore. Anche perché quando si parla di Alessandro Fiori ci si riferisce soprattutto a un cantautore, pur sopra le righe: “Credo d'essere un cantautore. Sono sia cantante che autore. Canto e autoro. Non so cosa ho mutuato dai colleghi del passato, senz'altro qualcosa. Oltre che dai vari Tenco, De Gregori, Dalla, Gaber, anche da Venditti, da Masini, da Paoli, da Cocciante, da Bennato, da Daniele eccetera eccetera eccetera. Ascolti e vivi, assorbi e rielabori, senza saperlo. Da quando l'ho conosciuto, mi sento molto vicino a Ciampi. Forse anche a certe cose del Jannacci più solo e disperato. In questo disco le influenze più dirette sono state Ivan Graziani, Manuel Agnelli e i cari Marco Parente e Paolo Benvegnù. Ma mi pare inutile far presente che il mondo di Attento a me stesso non è lo stesso di questi artisti citati.” Credo che in fondo ci sia tra l'altro dell'encomiabile merda. Io mi riallaccio facilmente a certi modi di vedere le cose perché sono rimasto un po' bambino, o meglio, perché da bambino ero già un cantautore-filosofo in miniatura.” Al di là dei punti di vista più o meno coerenti e delle sensazioni di chi scrive, resta comunque un disco riuscito, capace di raccogliere impressioni profonde e linguaggi musicali tra i più disparati (folk, jazz, arrangiamenti classici, ruvidezze o magari la musica rinascimentale del "Tu riposa un po' mentre faccio il borderò" che si ascolta in 2 cowboy per un parcheggio). Merito anche di un gruppo di illustri collaboratori che raccoglie Alessandro Stefana (“Devo moltissimo ad Asso. Mi ha aiutato in un brutto momento. Poi è il produttore artistico, ha registrato, ha dato il là ai missaggi."), Danilo Gallo e Zeno De Rossi (“Si sono prestati praticamente a scatola chiusa”), Marco Parente (“Avere Parente alla batteria è davvero una rarità!” ) e Enrico Gabrielli (“E' una specie di fratellino musicale”). Oltre ai curatori del progetto grafico Marino Neri ("il disegno di copertina l'ho trovato da subito perfetto”) e Chiara Scarselli e al binomio Giacomo Fiorenza/ Giovanni Versari dietro al mixer. Fabrizio Zampighi La dimensione autobiografica diventa la chiave di lettura per interpretare l'immaginario dell'artista toscano. Lo è per la musica – a tratti sognante, a tratti minimale -, per i testi delle canzoni e anche per i mini-racconti che Fiori colleziona sul suo sito ufficiale. Questi ultimi spaccati di vita vissuta in cui si mescolano l'amarezza per una passato popolare che non c'è più e una certa ironia da osteria. In questo senso, comprendere il lavoro di Fiori significa decifrare un intreccio di malinconiche leggerezze che descrivono una quotidianità sotto spirito, aliena, spiazzante. E in cui spesso è l'infanzia che rielabora il peso specifico dei sentimenti: “Io non voglio piangere / per riempir di lacrime una vasca / che reclama ancora quei miei occhi / la testa coi pidocchi / gli sbucci sui ginocchi / non ho più il cuore ché un bambino, col secchio, me lo ripesca ogni or / perché sta fermo”.Anche se il musicista, a tal proposito, stronca di netto ogni ipotesi di revivalismo romantico: “L'infanzia non è un metro di giudizio, è un burrone nero. 10 11 Turn On Funki Porcini —The Downtempo King— Dopo otto anni James Braddell torna con due album di ritmo a bassa velocità. 12 A vere l’opportunità di sentire un proprio eroe non capita tutti i giorni. James Braddell è uno dei pochi personaggi che mi hanno segnato musicalmente. Nel periodo in cui tutti restavano allibiti per lo spopolare del grunge, dell’indie rock alternativo o del metal, pochi si filavano la Ninja Tune dei maghi del sampling Coldcut (oggi guardacaso festeggia pure il suo ventesimo anniversario). Caposcuola di un sentire il ritmo più slow della techno e dell’acid - che di lì a poco avrebbe bruciato milioni di giovanissimi neuroni - l’etichetta col ninja che lancia i vinili come stellette agli esordi era un affare prettamente londinese. Senza internet, si leggeva della crew di personaggi che si drogavano di samples d’antan in qualche fanzine esclusiva o in qualche catalogo di distribuzioni underground d’importazione UK. Del personaggio Funki Porcini si sapeva ancora meno. Con quel nome che non capivi bene se lo dovevi scrivere proprio così, all’italiana. Uno che nella musica ci ha sempre messo tonnellate di umorismo e savoir faire stiloso. Sorprendentemente, per qualche scherzo del destino, la sua King Ashabanapal è stata inclusa nella riduzione cinematografica di Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Un film e un libro che alimentavano le fantasie dei tardoadolescenti del 1997. Io ero uno di quelli. Parte anche da quella folgorazione il microculto che oggi sono lieto di sentire via mail intervistando quel personaggio che se ne fotteva delle mode e faceva del dub elettronico mescolato a influenze jungle, tagliato con bordate che oggi sentiamo nei territori wonky. La storia nasce per caso. In uno dei soliti check che si fanno svogliatamente, a fine mese, quando il giornale sta andando in stampa e si è più rilassati sotto gli occhi capita il sito di Funki Porcini. Ci campeggiano ben due album nuovi di zecca: uno uscito in sola distribuzione sul sito/blog personale (Plod) e l'altro in stampa sulla fedele Ninja Tune confermata per maggio (On). In realtà “provengono entrambi dallo stesso corpus che ho scritto in questi ultimi anni”, sottolinea lui “Avrei voluto pubblicarli in un unico lavoro, ma alla Ninja hanno selezionato solo metà delle tracce, così ho pensato di pubblicare le altre su un canale indipendente”. Gli album sono le due facce di una medaglia targata Novanta. On è un concentrato di relax basato sugli strumenti live (e dunque senza campionamento). Moog che ti sparano il blues jazz di Moon River, l’attualizzazione con i teen wonky visionari (This Aint The Way To Live) e il bordone di un piano distante che ricorda i mitici Ambient Works di Aphex. Plod è l’altra faccia: le atmosfere da IDM warp tagliata con lo sporco della old school di crate digging in trip sampledelico (Carbide), fumi di assenzio, sigari ed erba. La malinconia della campagna inglese, quelle atmosfere da end of the party lisergico (Bed To Be). E' la nostalgia per quei ‘90 in cui tutto poteva succedere quella che si riflette nella mente sonica del britannico (“Oggi c’è più musica a disposizione, ma influisce meno nella cultura. Le radio e le TV sono diventate un mezzo per fare soldi, e non promuovono la cultura”) e non senza una punta di ottimismo e speranza (“Penso che lo stato in cui siamo sia comunque di transizione tra ventesimo e ventunesimo secolo. Ci aspettano ancora novità eccitanti”), James del resto è uno che si gode un meritato riposo dopo anni passatti a viaggiare in lungo e in largo. A 19 anni è fuggito dall’Inghilterra per atterrare a Los Angeles. Ha trascorso poi il suo bildungsroman tra San Francisco e New York per approdare pure in Italia. Tornato in patria, in un luogo top secret, si limita a dirci che è un paesino sperduto in campagna “in the middle of England”. E la parentesi romana? “Ho vissuto dieci anni a Roma e non ho mai dimenticato molti aspetti della cultura italiana. Ho parlato con Morricone una volta a Testaccio. C’erano poche persone e l’ambiente era molto intimo, ma se n’è uscito con una quantità di merda egotistica che l’ho lasciato perdere. Piero Umiliani è molto più interessante, sia come sperimentatore che come persona: aveva più sense of humour ed era più modesto nell’approccio. Un vero genio”. James ha quella consapevolezza di sé e un poco di rassegnazione. Fa le cose in piccolo ma come più gli piace “il più della gente coinvolta nel panorama culturale vive a Londra. Non mi piace lavorare a distanza, preferisco il faccia a faccia. Ultimamente ho lavorato con lo scrittore e regista Tony Grisoni. Abbiamo lavorato su due suoi film e mi è piaciuto molto”. Tra i nuovi progetti anche uno show “che sarà pronto in pochi mesi, un evento multimediale”. Alla prossima. Marco Braggion 13 Tune-In Ufo mammut —Vibrazioni dal parto primordiale— Appena uscito Eve, un concept album sulla progenitrice dell'umanità, abbiamo colto l'occasione per parlare con gli Ufomammut delle cose che ci stanno più a cuore. Donne e musica. Testo: Leonardo Amico 14 G li Ufomammut sono sicuramente una tra le band più pesanti del panorama italiano e, per una volta tanto, anche fiore all'occhiello dell'esportazione nostrana avendo suonato nei maggiori heavy festival internazionali come il Roadburn in Olanda o l'Hellfest francese ed avendo raccolto consensi a più riprese dai tipi di Aquarius (che sono tra i più importanti mailorder americani). Dieci e più anni di impegno a testa bassa, a levigare un sound ormai divenuto impeccabile. Tanto efficace in enormi palchi di concerto, come nella solitudine di una piccola stanza. La carica dirompente dei loro live, quella densa fisicità - fatta di frequenze risuonate lungo la schiena, è stato decisivo per farli amare anche al di fuori dagli angusti confini del nostro paese, riuscendo a sfondare quel muro di scetticismo che troppo spesso penalizza le band italiane all'estero. Mentre le suggestioni mentali di un suono riccamente psichedelico, fa di loro un nutriente cibo anche per gli spiriti psych-doom più solitari. Lo scorso aprile è uscito Eve, l'ultimo album della band di Tortona. Un ulteriore conferma delle qualità dalla band, se ce ne fosse ancora bisogno, e soprattutto un affascinante nuovo viaggio nel mondo della creatura Ufommammut. Prodotto dall'etichetta di casa Supernatural Cat con la solita cura grafica firmata Malleus ed una prestigiosa distribuzione Relapse, Eve è un ambizioso concept album sulla progenitrice dell'umanità. Ne abbiamo colto l'occasione per una breve chiacchierata via email. Su argomenti che difficilmente si possono pensare più comuni: donne e musica. L'ultimo album Eve. Se non sbaglio nasce dalla rielaborazione di alcune registrazioni di Urlo e Poia con una vostra precedente band. Una genesi strana per un disco. Parlateci di come è nata l'idea e di chi erano questi Judy Corda. POIA: I Judy Corda sono stati la nostra prima band, Urlo ed io suoniamo insieme dal 1991: ci sono due brani in un paio di compilation italiane degli anni 90, più tre demotapes a testimoniarlo. Credo che, al di là di alcune ingenuità, i Judy Corda fossero più innovativi degli Ufomammut. arpeggio di chitarra iniziale e accordi finali di Eve sono frammenti ritrovati da nostri vecchi nastri (non buttiamo via nulla): da questi, come fossero semi congelati, si è ramificato l'intero brano. URLO: Facevamo cose diverse, più progressive forse e più ingenue... Eravamo giovani... VITA: Seguivo spesso i Judy Corda durante i loro concerti perché mi piacevano molto, erano innovativi per l'epoca tant'è vero che abbiamo parecchie volte pescato dal loro repertorio, per esempio in Odio. Per mia fortuna il batterista lasciando la band ha involontariamente dato vita a Ufomammut... Un brano unico incentrato sulla figura della prima donna, Eva. Come si è sviluppata l'idea di questo concept, visto anche che il materiale su cui avete iniziato a lavorare non nasce originariamente con l'album? E che relazione c'è con i grandi concept album del passato? Penso ai Pink Floyd su tutti. POIA: I Pink Floyd fanno parte del nostro pane quotidiano e la loro musica si rinnova da sé, ad ogni ascolto: sembra provenire da un'epoca indefinita. Gli echi di Echoes si riverberano da sempre nella nostra musica. VITA: L'idea del lungo pezzo era nell'aria già da un po' ispirati da Meddle dei Floyd o anche, personalmente, da Thick As A Brick dei Jethro Tull. Un unico brano ma con più movimenti, cambi di tempo ed atmosfere psichedeliche che si intrecciano creando un unico flusso musicale. Eve credo che sia un concentrato di tutto ciò che ci piace. URLO: ...e che avremmo sempre voluto fare. Come dice Vita l'idea iniziale era quella di dar vita ad un album impostato come Meddle dei Pink Floyd, quindi una traccia lunga e varie più brevi. L'errore è stato cominciare dal brano più lungo che è andato ad espandersi come l'universo... Sludge, Heavy Psychedelia sono generi principalmente maschili, e in concerti di questo tipo raramente capita di vedere ragazze. Che rapporto ha la vostra musica e il vostro modo di fare musica con l'universo femminile, al di là delle figure mitologiche? POIA: Credo che sia più una questione di cultura musicale. Sicuramente in Italia il genere è decisamente seguito più dal pubblico maschile. Abbiamo invece notato (con una certa soddisfazione... eheh) come all'estero in realtà questo sbilanciamento sia più contenuto. E il rapporto con l'universo femminile è sempre stato molto profondo. Al di là del fatto che fare musica unisce le componenti del cervello maschile (gli aspetti numericirazionali) con quelle femminili (istinto ed emozioni), credo che tra le motivazioni iniziali che spingono a suonare uno strumento, ci sia quella, neanche troppo inconscia, di attirare a sé le femmine. URLO: La donna è bellezza, noi cerchiamo, sia con Ufomammut che con Malleus (di cui Poia ed io siamo 2/3), di celebrare la figura femminile. Comunque suonare davanti a belle ragazze è sempre meglio che alzar gli occhi e vedere energumeni barbuti che trincano birra... eheh) VITA: Devo dire che negli ultimi anni ho notato che le ragazze sono più presenti sia ai nostri concerti che ad altri di diversi generi musicali. Non so per quale ragione 15 Tune-In Sikitikis —Fuori dalle mode— effettivamente ma credo sia un dato di fatto. La donna piace ma Ufomammut non crea musica per conquistarle. URLO: Anche perché siamo talmente brutti che sarebbe dura... ahaha! Nella musica degli Ufomammut c'è un legame molto forte verso una certa tradizione musicale. Come se dal verbo originario dei Black Sabbath, magari attraverso la rielaborazione di Sleep e Kyuss non ci sia più bisogno di introdurre nuovi linguaggi, ma soltanto di declinare quell'intuizione. Qual è la vostra idea? VITA: Chiunque suoni in una band, famosa o no, si ispira o lo ha fatto in passato a qualcuno che prima di lui ha creato musica, è il cane che si morde la coda, è una catena... L'importante è cercare di essere sempre se stessi senza avere il bisogno di assomigliare a qualcun altro... POIA: Si tratta di seguire una traccia e vedere dove questa può portare. Se prendiamo la storia della musica moderna, non è poi così semplice trovare dischi che improvvisamente si liberano di quello che è stato prima. Stiamo ancora suonando Blues, dopotutto. E non vogliamo essere "strani" a tutti i costi (certe band mi danno questa sensazione, di scarsa spontaneità). È solo musica, suonata dal nostro punto di vista. Rielaborata in base a quelli che sono stati i nostri ascolti. A volumi molto alti. URLO: Tutto è già stato fatto, è dura inventare nuove sonorità... pensa a Tomorrow Never Knows dei Beatles... Anche nella vostra ricerca per strumentazioni vintage, vecchi effetti analogici, noto come una ricerca per quella formula perfetta. Da scovare attraverso una cura meticolosa di dettagli, piuttosto 16 che mediante radicali stravolgimenti. Mi sbaglio? POIA: Non siamo dei puristi del vintage e non viviamo nella nostalgia. Semplicemente, alcuni vecchi amplificatori valvolari suonano meglio di altri nuovi, alcuni distorsori sono più caldi e potenti. Ma ci sono anche prodotti più recenti che funzionano molto bene. C'è molta tecnologia moderna in Ufomammut (il miscuglio passato/futuro è una nostra caratteristica, credo). Cerchiamo il risultato, e i mezzi per ottenerlo sono svariati. URLO: Personalmente non ho nulla nella mia strumentazione che potrei definire vintage. Forse un paio di pedalini, ma sono lì solo perchè mi fanno ottenere i risultati che cerco. Come dice Poia, ogni cosa va bene per ottenere il suono che si cerca. L'importante è dosare il tutto per avere un risultato finale soddisfacente. VITA: Quando sperimenti cerchi sempre qualcosa di diverso ma il processo avviene per gradi, scopri un nuovo suono che ti può aprire più di una porta per arrivare il più vicino possibile alla formula perfetta, che sinceramente parlando credo non esista... Un'ultima domanda. Cosa state ascoltando di più in questo periodo? POIA: Cream e Circle. Sono alla lettera C. URLO: Anche io sono alla C! Sto ascoltando molto i Creedence e Cohen. Ma anche Assjack che non comincia per C... Vita: sarò banale ma ascolto spesso i Pink Floyd, i Beatles, i Black Sabbath e le vecchie band che mi fan sempre provare grandi emozioni... Come passare indenni attraverso un decennio di musica mescolando generi diversi e un immaginario pop, con il valore aggiunto di uno sguardo ironico e amaro sulla nostra realtà. Testo: Teresa Greco C i sono gruppi che non appartengono a nessuna cosiddetta scena, gruppi per i quali essere fuori dai circuiti canonici è un obbligo e un bisogno assoluto, e per i quali è in essere totalmente “fuori moda” e assolutamente non allineati. Prendiamo il caso dei palindromi sardi Sikitikis. Con alle spalle ormai ben due lustri di attività e tre album pubblicati, la band di Cagliari non è di certo l’ultima arrivata in ordine di tempo nella musica del Belpaese. La formazione si era fatta notare nel 2005 all’esordio sulla Casasonica di Max Casacci (Subsonica) con Fuga dal deserto del Tiki; il disco era un eclettico mix senza chitarre tra psych pop, ironia sferzante, electro punk funk, Ennio Morricone, modernariato e garage, rigorosamente cantato in italiano, con un immaginario fervido a cavallo tra Sessanta, spy, sci-fi e poliziesco Settanta. Li avevamo poi ritrovati tre anni dopo con B - Il mondo è una giungla per chi non vede al di là degli alberi (2008) e con un coraggioso e fruttuoso esperimento di distribuzione on-line e di vendita dei cd presso i concerti. Arrivano 17 ora alla terza prova, Dischi Fuori Moda (SA # 67) che ben compendia la loro attività, confermandone la cifra stilistica, insieme a una vena dissacrante, ironica e amara sull’attualità, e alla onnipresente tendenza a frullare un’ampia gamma di generi in un mix assemblato con una bella dose di personalità. Abbiamo incontrato il cantante Ale Diablo per una chiacchierata ad ampio raggio sulla band, su quel che ruota loro intorno e su molto altro ancora. La nostra intervista. Potresti ripercorrere la vostra storia finora, come ci siete arrivati e con quali esperienze? Il progetto è nato nel 2000 da iniziativa mia (Ale Diablo) e di Jimi (bassista), dopo lo scioglimento del nostro precedente gruppo: i Canidarapina. Daniele e Zico (batteria e tastiere) hanno aderito con grande entusiasmo. Dopo diversi anni alla ricerca di un suono che ci soddisfacesse e che sintetizzasse al meglio la nostra passione per le colonne sonore e il nostro background rock, abbiamo firmato un contratto con Casasonica, con la quale fra il 2004 e il 2008 abbiamo registrato e stampato due dischi: Fuga dal Deserto del Tiki e B. Sono stati anni straordinari nei quali abbiamo avuto modo di suonare su ogni tipo di palco e nei contesti più diversi. Abbiamo firmato colonne sonore e prodotto progetti di sonorizzazione per immagini, parole, danza, teatro e (addirittura) monumenti. Terminata l’esperienza con Casasonica abbiamo deciso di affrontare un percorso in cui essere ancora più padroni del nostro lavoro. Oggi collaboriamo con Manuele Fusaroli, produttore straordinario che ha creduto in Dischi Fuori Moda fin dall’ascolto dei primi provini. Le vostre influenze musicali sono variegate e si sente… Quali sono i punti di contatto comuni che poi portano fino alla vostra musica? Effettivamente siamo fruitori onnivori di musica. Abbiamo anche ascolti differenti fra di noi, ma una cosa da imparare quando si fa parte di una band è riconoscere la qualità oggettiva di quello che si fa, con il giusto apporto di autocritica e la necessaria dose di confronto. A tutti piacciono la spinta ritmica, le armonie asciutte e dirette, i testi ironici, l’amore per la vita. Come siete arrivati alle sonorizzazioni per cinema, letteratura e teatro, visto che è ormai un percorso parallelo? La rivisitazione di colonne sonore è stato il primo collante della band. Per almeno tre anni siamo stati chiusi in sala prove – le apparizioni live erano sporadiche – a fare una vera e propria attività di laboratorio sulla musica da cinema vintage, soprattutto italiana. Quando abbiamo iniziato a scrivere canzoni, a fare dischi e tour, non abbiamo voluto perdere il contatto con quel mondo che, in qual18 che modo, ci tiene sempre sul filo della sperimentazione. Così abbiamo fondato il Brain Dept. un “dipartimento” libero e destrutturato per i progetti più estremi. Gli anni 60 e 70 per voi… Credo che per tutti gli appassionati di arte e cultura contemporanea rappresentino il ventennio più ricco, quello da cui trarre maggior ispirazione. Molti artisti che hanno prodotto in quel periodo sono ancora vivi, questo rende più semplice mantenere un contatto diretto con quegli anni. Per i Sikitikis sono soprattutto musica e cinema a fare la differenza in quel periodo. La grande produzione di colonne sonore e l’esplosione del pop, la rivoluzione culturale e il cinema italiano che conquistava il mondo. Come vedete la scena musicale italiana attuale? I gruppi con cui vi sentite in sintonia… Mi sembra che i tempi bui stiamo passando, anche se non ne siamo ancora fuori. Molti pensano che siano le band a fare un “scena”, io credo che questa famosa scena non sia altro che il pubblico che va a vedere i concerti. In tal senso sembrano esserci timidi segnali di ripresa. I dischi usciti negli ultimi sei mesi parlano chiaramente di una qualità media che si sta alzando, anche nei dischi di esordio. Inoltre sembra esserci una certa compattezza nei contenuti, pur nella differenza di stile. In questo momento ci piace sentire delle affinità con i Tre Allegri Ragazzi Morti, con gli Zen Circus… ma anche coi Virginiana Miller e col Teatro Degli Orrori. Ci tengo a sottolineare che con questo non intendo dire che assomigliamo a tutti questi progetti, ma in ognuno di loro c’è qualche aspetto che stimiamo e in cui ci riconosciamo. Secondo chi scrive la scelta di esprimersi in italiano è fondamentale, cosa pensate invece di chi ha scelto l’inglese come lingua? Per noi il problema non si è nemmeno posto. Io scrivo i testi e conosco solo due lingue: l’Italiano e il Sardo. La speranza è che chi ha scelto l’inglese conosca davvero l’inglese. Conoscere una lingua, però, non significa solo avere la padronanza della sua grammatica e del suo vocabolario, ma significa anche saper cogliere sfumature e sfaccettature di una intera cultura. Solo un madrelingua credo si possa permettere di fare della poesia (perché di questo si tratta) in inglese, o magari anche uno particolarmente talentuoso che abbia vissuto un lungo periodo in un paese anglosassone. Quello che sento in giro in inglese prodotto in Italia, per la stragrande maggioranza, è inascoltabile per pronuncia e contenuti. Qualcosa si salva. Come è stata l’esperienza della distribuzione online e ai concerti del secondo disco B? Un bilancio… estremamente positivo. Basti pensare che abbiamo confermato i numeri del primo disco che aveva distribuzione major. Ora con la distribuzione indipendente abbiamo fatto un primo passo anche in quella digitale. Con ogni probabilità studieremo una formula per il futuro che si sbilanci sempre di più su quest’ultima. Come è nato l’ultimo Dischi Fuori Moda? Semplicemente scrivendo canzoni. Abbiamo iniziato a lavorare in grande libertà, proprio come se questo disco non dovesse mai uscire. Se devo usare un sostantivo che racchiuda la nostra sensazione in una sola parola ti dico “leggerezza”. Per il resto, è stato fondamentale il periodo di registrazione al Natural Head Quarter di Ferrara, dove il Fusaroli è stato capace di distillare al meglio l’essenza della band e l’umore della scrittura. Un mese di clausura nelle campagne romagnole che ha dato una dimensione bucolica ad un’esperienza, quella di registrare un disco, che per noi era, fino a quel momento, fortemente legata alla dimensione urbana del centro di Torino. Il vostro sguardo sull’attualità è ironico ma anche pessimista, penso per esempio all’immigrazione in Salvateci dagli italiani, o i ritratti generazionali in Uccidere compagni di scuola… Avere trent’anni … Come vedete la situazione attuale in tema di immigrazione, libertà… alla luce anche del vostro sostegno all’indipendentismo sardo? Abbiamo sicuramente uno sguardo più ironico che pessimista. Addirittura si può dire che lo sguardo sul futuro è addirittura ottimista! Descrivere l’attualità in chiave ironica (anche amara) è una modalità assolutamente istintiva. Avere Trent’Anni parla di una storia vera, Uccidere Compagni di Scuola è una rassegna stampa surreale con tanto di commenti e ritornello con spiraglio di speranza. Per Salvateci Dagli Italiani il discorso è più complesso, ci sono diversi piani di lettura, il testo è forte ed equivocabile. Gli extracomunitari sono una grande risorsa per tutti i paesi europei dove l’invecchiamento sta per diventare un problema serio. In chiave indipendentista, io credo che la nazione sarda debba conservare la sua indole inclusiva, aperta alla contaminazione e integrativa. Essere indipendentisti oggi non significa essere contro qualcuno, ma a favore di qualcosa. Immagino la Sardegna del futuro come una repubblica multietnica… magari anche noi avremo un presidente nero! Anche in questo album sono presenti le cover, qui Malamore di Enzo Carella… Come è nata questa scelta? Ho amato per anni questa canzone. I testi di Pasquale Panella sono straordinari. All’inizio, l’idea era di cercare un brano di Lucio Battisti. Nel gruppo proviamo tutti un amore folle per Battisti. Poi abbiamo scoperto che Enzo Carella era uno dei sui artisti preferiti. Così abbiamo colto questo legame ed abbiamo deciso di stravolgere Malamore per farne un pezzo “fuori moda". 19 the divine comedy —Semplicemente pop “M Drop Out A distanza di quattro anni dal disco precedente, i Divine Comedy ritornano con le loro atmosfere raffinatamente retrò per un disco maturo Testo: Marco Boscolo 20 i sento da Dio! Sento che adesso so esattamente quello che sto facendo!” Esordisce così Mr. Neil Hannon all'altro capo del telefono quando lo raggiungiamo per l'intervista. Una felicità e una confidenza che traspaiono in più di un episodio di Bang Goes The Knighthood, l'ultima fatica, la decima, a firma Divine Comedy. Se provate a dirglielo, probabilmente si metterà a ridere, ma oramai la sua creatura o, come preferisce dire lui stesso “il contenitore del mio cervello”, ha raggiunto lo status di icona. Certo, in ambito indie e lontano dai riflettori dell'hype, e di questo Neil Hannon potrebbe non dispiacersi più di tanto. Sicuramente la sigla Divine Comedy è sinonimo di pop raffinato, con uno stile classicheggiante e una tendenza demodé ai testi intelligenti. Tutte caratteristiche non propriamente in linea con il mondo del pop contemporaneo (indie o mainstream che sia), quasi che il Neil Hannon che esordiva nel lontano 1989, da quell'Irlanda del Nord non propriamente centrale nella musica britannica, fosse un'altra persona rispetto al tranquillo quarantenne di oggi. Gli anni Novanta raccontano che i dischi buoni Hannon li ha sempre scritti, soprattutto guardando all'accoppiata '96 - '97 composta da Casanova e A Short Album About Love. Con quest'ultimo, in particolare, fin dalla copertina che richiama quelle degli Smiths, sembra che Neil Hannon sia sull'orlo di di21 ventare una vera e propria popstar. Un altro disco (A Fanfare For The Comic Muse, meno convincente, ma non da buttare) e il circo si chiude, quasi improvvisamente, lasciando Neil Hannon in una certa difficoltà a capire che cosa fare della propria carriere musicale. Nuovo decennio e nuova vita per i Divine Comedy, che nel 2001 diventano una vera band per incidere Regeneration, un disco accolto piuttosto bene e che fa pensare che tutto può ancora essere recuperato. Ma come leggerete nell'intervista, Neil Hannon non era del tutto a proprio agio con il processo creativo che ha portato a quel disco. Così a partire dal 2001, mentre l'hype generato della stampa inglese si sta progressivamente spostando altrove (siamo ancora impelagati con il New Acoustic Movement, ma di lì a poco esplode il revival new wave che stiamo ancora vivendo), i Divine Comedy diventano sempre più l'idea di musica di Neil Hannon e di nessun altro. Absent Friends (2004) e Victory For The Comic Muse (2006) aprono una stagione diversa, si potrebbe dire della consapevolezza, che porta i Divine Comedy a inseguire in tutto e per tutto l'idea di pop orchestrale che l'esperimento di Regeneration aveva in parte messo in pausa. In tutti questi anni, Hannon ha costruito uno status tale che la sua musica finisce al cinema (Il favoloso mondo di Amélie, Guida intergalattica per autostoppisti) e in televisione (Doctor Who), mentre fioccano colalborazioni con altri musicisti (Air, Thomas Walsh) e si arriva al musical (Swallows And Amazons, “una cosa principalmente per ragazzi e bambini”, che andrà in scena in autunno a Bristol), che porta a compimento un percorso che in più punti sembrava affacciarsi già nei dischi. Sulla soglia dei quarant'anni, al ventesimo anno di carriera, Neil Hannon sembra aver pienamente raggiunto una maturità umana, prima ancora che musicale, tale 22 da poter vivere con serenità il rapporto con il pubblico, cioè con coloro “che mi permettono di continuare a fare quello che amo”, cioè raffinato pop cantautoriale fuori dal tempo e dal gusto retrò. Dobbiamo per forza chiedergli di più? Gli ultimi tre album dei Divine Comedy hanno l'aspetto di un tutto, di una storia che si sviluppa da un punto di vista musicale e danno l'impressione che tu abbia raggiunto una tua voce specifica, abbia trovato il tuo equilibrio. È così? Sì è proprio così! Ho sempre pensato di migliorare con gli anni, proprio come del buon vino! Credo che dipenda dal fatto che il mio stile per i testi è piuttosto narrativo, concentrato su alcune vere e proprie storie che voglio raccontare. Così mi succede quello che accede agli scrittori: più passa il tempo e più accumulo esperienza sulla vita e le persone, oltre – si spera – a un po' di saggezza. E questo aspetto credo che non abbia fatto altro che migliorare il mio modo di scrivere canzoni. Il periodo che coincide con questi ultimi tre dischi è stato un momento particolare. Anche negli anni Novanta ero sempre cosciente di quello che stavo facendo, ma attorno a me c'era una situazione diversa: avevo piazzato qualche hit e, insomma, ero una specie di popstar. Improvvisamente tutto questo è scomparso. E sono rimasto a chiedermi: e adesso che faccio? Ecco, gli ultimi dieci anni sono stati il mio tentativo di riposizionarmi, di cercare di trovare il modo di restare rilevante facendo musica lontano dai riflettori del popchart system. Questa omogeneità di intenti si è riflessa anche sul processo creativo che ha portato a Bang Goes The Knighthood? In quest'ultimo disco, in realtà ho avuto un approccio leggermente diverso al solito. Stavo scrivendo un musical, intitolato Swallows And Amazons, per il quale ho composto esclusivamente al pianoforte, una cosa che non sono abituato a fare. Normalmente uso le tastiere e il computer per costruire le mie canzoni, già con in testa delle idee per gli arrangiamenti. Per il musical ho voluto che le canzoni suonassero perfette già al pianoforte. Così ho iniziato a usare questo sistema anche per le canzoni che non facevano parte del progetto.Tutti i brani del disco sono stati creati così, con me da solo seduto davanti ai tasti del pianoforte. Tra l'altro questo mi ha fatto molto migliorare come pianista. Da bambino l'ho studiato un po', ma ho lasciato perdere quando avevo undici anni perché ero troppo pigro! Quindi non sono particolarmente attrezzato da un punto di vista tecnico, ma con il tempo passato sui tasti ho sviluppato una specie di mio stile originale. E mi piace l'idea che ora posso andare a casa di chiunque e semplicemente suonare le mie canzoni sul pianoforte del soggiorno! Anche in questo caso si migliora con l'età... Certo e senza fare sfoggio di falsa modestia, rispetto al passato, oltre a suonare meglio il pianoforte, adesso so precisamente come deve suonare una canzone e come fare perché ciò accada. Una volta mi trattenevo molto e quando un disco usciva, potevo solo sperare che piacesse. Ero meno sicuro. Considerando anche il tuo stile narrativo, cominci scrivere prima i testi o la musica? Cioè, come funziona il processo creativo di Neil Hannon? Di solito scrivo i testi e le musiche indipendentemente. Ho un sacco di bloc notes dove mi segno tutto quello che mi colpisce e che mi interessa. A volte scrivo solo un appunto, altre volte un paio di versi, ma sempre senza prendere in considerazione la musica. Allo stesso tempo, però, faccio un po' di casino al pianoforte e vedo quello che succede. Quando poi trovo una melodia che mi convince, penso che ho bisogno di un testo e allora me lo vado a cercare tra i miei bloc notes e cerco di mettere insieme le due cose. In alcuni casi funziona, in altri è semplicemente terribile e bisogna ricominciare da capo! Quando scrivi, come distingui quello che va bene per i Divine Comedy e quello che invece può andare bene per altri progetti o per altri interpreti, come per esempio è successo con Charlotte Gainsbourg? Certo, potrei avere scritto qualcosa con un'attitudine musicale diversa da quella che può andare bene per i Divine Comedy e quindi essere buono per un altro interprete o per un altro scopo. Ma nel caso della Gainsbourg, il fatto è che la produzione voleva che scrivessi qualcosa di intelligente, ma io non riesco a resistere all'idea di mettere qualche battuta ironica nei miei testi. La verità è che non sono bravo a fare il serio! Comunque, credo che l'operazione, in generale, sia andata piuttosto bene. Torniamo a Bang Goes The Knighthood e guardiamolo più da vicino. Con il primo singolo, Indie disco, hai evocato molti nomi della scena britannica di quegli anni, apparentemente con una certa nostalgia. Come ti sembra invece la scene attuale? C'è qualche artista 23 te Banker, in cui ti occupi della situazione in cui versa oggi il settore della finanza in tutto il mondo. Da dove nasce questa canzone? È una delle poche canzoni che ho scritto nella mia carriera con un vero sentimento di rabbia. Sono sconvolto dall'idea che abbiamo lasciato che il capitalismo rampante abbia prodotto questa situazione negli ultimi anni. C'è, però, una parte delle persone che lavorano nel mondo della finanza che non sono così orribilmente avare o dei veri bastardi, così ho scritto The Complete Banker. Mi rendo conto che è solo una canzone che non cambierà una virgola di questa situazione, ma scrivere canzoni è quello che posso fare ed è l'unica arma a mia disposizione. Ma cos'è un tentativo di raccogliere la rabbia della working class... Se solo lo fossi! La realtà è che sono parte della noiosa middle class anglosassone. Sono quello che sono e non voglio appropriarmi di battaglie che non mi appartengono. Ma la crisi del capitalismo ha a che fare con tutti, non solo con la classe lavoratrice. E a essere onesto, sono stupito che nessuno prima di me abbia scritto una canzone su questo argomento. o una band che ti piace e ti sembra assomigli a te? Mhmm... No! Non riesco a farmene venire in mente una... tu, hai qualche idea? È difficile. Mi piace Rufus Wainwright, ma è canadese. C'è una nuova band di Dublino, The Villagers, che esce per la Domino Records, che mi piace molto. Conor (O'Brien, ndr) è un amico e credo che la sua musica sia una delle migliori cose prodotte in Irlanda da molto tempo a questa parte. È un compositore davvero bravo e intelligente. Mi piacciono molto anche gli MGMT, anche se sono solo dei ragazzacci che vengono da un college americano! Sono completamente diversi da me e dalla mia musica, ma ieri sera ho fatto una cover della loro Time to Pretend, perché mi piace il testo, che parla di chi vive il sogno del rock'n'roll. C'è questo aspetto del “vivi veloce e muori giovane”, descritto in modo così profondo e sensibile, che mi diverte. Te lo chiedevo perché tu sembri avere uno stile che guarda più al passato che alla scena indie odierna... Non credo di poter rivendicare di essere indie pop! Non sono nemmeno sicuro di quel diavolo che sono. Ascolto tanta musica così diversa, da Stravinskij e Scott Walker, dai cantautori francesi a Randy Newman. Adoro il synth pop e credo che Dare! degli Human League sia il mio disco preferito di tutti i tempi. Mi piacciono cose anche molto diverse, ma questo non significa necessariamente che poi finiscano con l'influenzare lo stile della mia musica. C'è una certa differenza tra quello che mi piace e quello che mi ispira e mi influenza. Però, ecco, il punto fondamentale che mi fa ammirare gli Human League, nonostante il loro synth-pop non sia compatibile con il tipo di strumentazione che mi piace usare per la mia musica, è che le loro canzoni sono costruzioni pop perfette. È questo che mi interessa più di tutto. Tra le storie che racconti, ce n'è una che sembra un po' particolare. Sto parlando di The Comple24 Oramai alla soglia dei quaranta, con una carriera oramai ventennale che è appena approdata al decimo album di studio: è tempo di qualche bilancio. Di solito nel considerare la tua carriera nel suo insieme, i giornalisti tendono a dividerla in due parti: prima e dopo il 2001, dalle parti di Regeneration. Sei d'accordo che quello è stato un disco davvero di svolta, in qualche modo, nel tuo percorso? Oppure questa descrizione della tua carriera non ti piace? Regeneration è sicuramente stato una momento importante della mia strada, ma credo che sia stato una sorta di reazione al fatto che non volevo essere visto come il cliché dandy degli anni '90. Volevo che la gente mi prendesse sul serio. Il progetto, però, non mi ha convinto fino in fondo e sebbene a molta gente piaccia quel disco, io non mi sento del tutto soddisfatto. Intendiamoci, il disco mi piace e lo sento abbastanza mio, ma il problema è stato il processo che ha portato a quel disco: è quello a non essermi piaciuto. Probabilmente è perché non è che sul Regeneration io faccia poi molto! In effetti avevo un ruolo più piccolo del solito. La verità è che mi piace che i Divine Comedy siano la mia cosa e in quell'occasione lo sono stati solo per una parte. Rispetto agli altri dischi, Regeneration non è rappresentativo di tutto l'insieme di quello che è la mia musica. E continuando a parlare dei cliché, durante gli anni '90, specialmente nella prima metà, c'era in Gran Bretagna una visione di USA vs. UK, di grunge vs. britpop. Come ti ricordi quel periodo? Sei stato coinvolto in questa “lotta” nazionalistica? Certo che me lo ricordo, ma non mi sono mai sentito davvero parte della scene a quel tempo. Nessuno mi invitava alle feste! Non so, forse perché sono irlandese ero un po' ai margini. Quello che facevo all'epoca era di concentrarmi sulle mie cose e basta. In ogni caso, preferivo sicuramente la musica che veniva dalla Gran Bretagna, rispetto a quella americana di quel periodo. Non mi è mai piaciuto davvero il grunge. Mi ricordo di un mio amico che portò Nevermind dei Nirvana di qua dell'oceano prima che fosse pubblicato in Inghilterra. Mentre lo ascoltavo pensavo che per essere il futuro della musica, a me sembrava soltanto del noiosissimo heavy metal! Scherzi a parte, ad ascoltarlo oggi mi rendo conto che è un grande disco, ma credo che la maggior parte degli altri dischi grunge del tempo fossero orribili. D'altro canto io amavo i Blur e il pop, e tutta una serie di dischi che sono usciti in quel periodo in Inghilterra, sebbene non sia mai stato un grande fan degli Oasis... Bang Goes the Knighthood è il tuo primo disco a uscire dalla tua neonata etichetta, la Divine Comedy Records. Questo fatto ti ha permesso di essere più libero che in passato? Certamente. Quando ero in studio per registrare o lavorare all'album mi sono reso conto che c'era qualcosa di davvero diverso che stava accadendo, perché non c'era nessuno che mi teneva d'occhio, che entrava e mi diceva “Ehi Neil, il tuo cantato non mi convince”. Nessuno mi telefonava per chiedermi “Ehi, come sta andando?” Era tutto lasciato alle mie scelte personali, in un modo di lavorare che mi è piaciuto molto. Sai, mi piace molto l'idea di fare le cose in autonomia. Ma c'è anche un rovescio della medaglia, perché fare tutto da solo aumenta le tue responsabilità. Per esempio, dovevo prenotare le sessioni in studio, dovevo ricordarmi di portare gli hard disk con il materiale, ecc. Pensa che una volta ero all'aeroporto per andare a Londra a registrare gli archi e mi ero dimenticato gli hard disk a casa. Così ho dovuto telefonare a un amico che me li ha portati in tempo! La verità è che non sono troppo bravo con le responsabilità! E con la tua etichetta hai intenzione di pubblicare anche altri artisti? È un'idea intrigante, mi piacerebbe molto. Ma Nathalie, che si occupa dell'intero management, fa già il lavoro di trenta persone, che non so se posso chiederle anche di fare questo! Credo che sarebbe davvero chiederle troppo. Per il momento continuerò a pubblicare le mie cose sull'etichetta, ma magari in futuro, se mi ritrovo a non avere più idee per scrivere canzoni, potrei pensare di pubblicare qualche altro artista! 25 Flying Lotus —The (im)perfect beat Drop Out Sovraccarico e sovreccitato, svolta personale e termometro di tutta una ribollente scena, Cosmogramma è il pretesto perfetto per ricostruire il percorso di FlyLo alla ricerca del beat (im)perfetto Testo: Gabriele Marino 26 Per quel che ci riguarda, tra ritmi ed elettroniche, finora il 2010 è soprattutto l'anno di Gonjasufi. Un culto che monta, macinando consensi, un nome da cui aspettiamo, se non già il secondo album, sicuramente nuove e fresche produzioni. Chi si trova un gradino più in su, chi questo cursus l'ha già scalato tutto, è Flying Lotus: il 2010 doveva essere anche - e soprattutto - il suo anno. Non quello della consacrazione, avvenuta due anni fa, ma quello della grande conferma, delle certezze ribadite una volta e per tutte, l'anno di un nuovo grande lavoro. Fa un certo effetto registrare un consenso così compatto (pressocché unanime; bastino Wikipedia e Metacritics) nei confronti di questo disco: Cosmogramma piace e piace assai, pare avere messo d'accordo tutti, appassionati, musicisti, critici. Noi la nostra l'abbiamo detta e adesso ci premeva più che altro fare il punto della situazione: ricostruire il percorso che ha portato alla consacrazione su scala mondiale uno dei produttori più interessanti e importanti dei nostri giorni. 1983 Steven Ellison continua la nobile tradizione dei produttori dal destino segnato. Come e più di Otis Jackson Jr., si trova a crescere in una famiglia di musicisti e di musicofili. E se a Madlib tocca in sorte come zio il trombettista jazz Jon Faddis, Flying Lotus ha come prozia un vero 27 pezzo di storia della musica afroamericana: Alice Coltrane, moglie di John, musicista free e space visionaria. Lo Steven adolescente, al contrario del piccolo Otis, non ha però ancora ben chiaro cosa farà da grande: suona, disegna, dipinge, gira video. Classe 1983, natali a Winnetka (California, la città di Boogie Nights), Steven frequenta l'art school e prende dapprima la strada del cinema. Il suo film preferito è Fight Club (notare lo stacco culturale e generazionale da uno come Mad, "fermo" a Melvin Van Peebles). La tv non lo interessa: ad eccezione di Adult Swim, contenitore culto di cartoon supersballati e d'autore. Un giorno, tra un Family Guy e un Cowboy Bebop, legge un annuncio che invita gli spettatori a sottoporre i propri demo musicali al network. Detto, fatto. E’ così che le sue produzioni domestiche (anche qui si sente lo stacco, niente sampler né drum machine, 100% laptop) finiscono tra gli stacchetti (bumps) messi in onda tra un cartoon 28 e l'altro, accanto a selezioni tratte dai cataloghi delle più importanti label a cavallo tra hip hop, ritmi ed elettronica: Ninja Tune, Warp, Def Jux e ovviamente Stones Throw (che con le musiche realizzate appositamente per Adult Swim assembla le due antologie Chrome Children, 2006-2007). Il legame con la Stones Throw è doppio e segna profondamente il percorso di Steven, che proprio presso l’etichetta di Peanut Butter Wolf si trova a lavorare per un breve periodo (non sappiamo a che titolo): ha così modo di vedere in azione gente come Madlib e soprattutto J Dilla. Sono i suoi produttori-mito, assieme a Mr. Oizo, Aphex Twin, Timbaland, Dj Premiere e Dr. Dre. Steven si decide: farà il musicista. Il nome c’è – Flying Lotus – ed è venuto fuori come in un sogno lucido, perché «se potessi scegliere un superpotere, chiederei subito di poter volare». I primi frutti della scelta si vedono nel 2005, quando Steven mette su cd-r il primo beat-tape, July Heat («non so perché, ma mi trovo a produrre sempre durante l'estate»), raccolta di beat hip hop brevi e asciutti, sulla scia di Dilla non solo per il clap, ma anche per una certa diffusa vena malinconica-agrodolce. E’ un Lotus ancora molto derivativo, per quanto tecnicamente già consapevole. Lo stesso anno Steven produce il primo pezzo per altri, Off The Domain per John Robinson, e si trova così nei credits del disco accanto a Danger Mouse, MF Doom e Madlib. E’ il 2006 però l’anno decisivo, con un secondo cd-r, Raw Cartoons, più colorato, sperimentale e ruvido del precedente, e l’inserimento di Two Bottom Blues (pezzo spacey e naif) in The Sound of L.A., compila curata dal produttore Carlos Niño con dentro la crema della scena losangelina: Cut Chemist, Daedelus, Sa-Ra, Ras G, Nobody, Georgia Anne Muldrow e ovviamente l’onnipresente Madlib (a nome Young Jazz Rebels). Niño si fa sponsor di Steven presso la Plug Research, neonata indie label fondata da Allen Avanessian, che lo mette subito sotto contratto. Arriva così il primo album. Il titolo 1983 (7.1/10) è l’omaggio di Steven alla propria generazione: la stessa di altri produttori/amici come la Muldrow, GB, Black Milk, Gaslamp Killer, Samiyam e Blu. Il disco, fin dalla copertina, presenta atmosfere spaceysynth e Sixties sci-fi, flirtando apertamente con chill out e downtempo. La lezione di Dilla è sempre in evidenza e questo accostamento – inevitabile, eppure sostanzialmente rifiutato dal nostro – sarà un biglietto da visita che dividerà gli ascoltatori: chi lo vedrà come uno scopiazzatore, chi come l’abile continuatore di una nuova tradizione, chi come il visionario di "terza generazione" che dovrà portare a compimento la mutazione del beat. Beat lineari e amniotici, raffinati bozzetti ritmico-timbrici, con un paio di temini in evidenza (la title track, Orbital Brazil): per quanto ancora acerbo, Steven è qui già pienamente Flying Lotus. Si veda la seconda metà di Pet Monster Shotglass, con le due feature chiave dell’uomo perfettamente esposte: la ritmica scollata e la timbrica organica, a suggerire una stabilità precaria, una pulsazione incerta – parkinsoniana – eppure viva. Feat di Laura Darlington (non ancora stucchevole) e remix (non riuscitissimo) del marito di lei, Daedelus, amico e mentore musicale di Steven (la sua influenza negli anni si farà sempre più forte). 1983 è sicuramente un ottimo esordio e viene accolto da molti come la prima prova di un nuovo grande talento. Tra questi, c’è il boss di casa Warp, Steve Beckett, che fa di tutto per accaparrarselo. Steven fa il grande salto e così nel 2007 esce l’EP Reset (6.2/10). Nessun taglio netto col passato, nonostante il titolo, ma un feel più patinato e catchy, per un lavoro comunque di assestamento, con esercizi di loop di batteria, sperimentazioni con la voce, reminiscenze bumper (Massage Situation, non a caso utilizzata da Adult Swim; si nota un appesantimento dei suoni nel finale che indica alcuni degli sviluppi futuri del nostro), dance primitiva (Floot Stalker) e il bel feat della singer Andreya Triana nell’iniziale Tea Leaf, pezzo migliore del lotto. Si attende il lavoro di livello, che confermi e amplifichi quanto di buono si è già sentito. L’hype cresce. E a stuzzicare fan e addetti ai lavori ci si mettono anche due EP cuscinetto (prima parte di una trilogia che si concluderà nel 2009; complessivamente 7.0/10) con anticipazioni dall’album e remix realizzati da nomi importanti: Martyn, Samiyam, Ras G, Exile, Dimlite, Nosaj Thing (altro nome hot tra le giovani leve). L os A ngeles Inguantato da una copertina allo stesso tempo macabra e sexy che occhieggia a Mezzanine dei Massive Attack (il dettaglio di una scultura gigeriana realizzata appositamente dal duo di artisti Commonwealth, i coniugi Zoë Coombes e Francisco David Boira), Los Angeles (7.8/10) è a tutti gli effetti il precoce capolavoro di Flying Lotus e uno dei dischi chiave del 2008. Influenzato dall’atmosfera apocalittica e dal romanticismo fatto a pezzi di Blade Runner, il disco è pensato come un ritratto notturno e fantascientifico della metropoli americana, indeciso tra amore e odio, tra luce e buio. La poetica lotusiana è al picco della maturità tecnica, espressiva ed emozionale: Steven parte da Dilla e dall’hip hop strumentale di Dabrye e di Prefuse 73, si nutre di suggestioni lounge (come già su 1983) e techno e presenta al mondo la propria personale declinazione glitch, uno dei possibili manifesti di quello 29 che è stato chiamato wonky. Non lavora sui loop, ma atomizza la materia sonora alla ricerca del dettaglio, del singolo suono che faccia la differenza: vuole creare una propria sintesi bassy, «unire gli apparenti estremi di ambient e hip hop». E ci riesce. Los Angeles, sperimentale e godibile, è un lavoro che vive degli sfaldamenti dell’ossatura ritmica e delle sporcature della grana timbrica, esponendo tanto le crepe quanto le macchie con una piacevolezza d’ascolto che ha fatto opportunamente tirare in ballo metafore gastronomiche e pasticciarie: cioccolato fondente, granella, zucchero filato. Los Angeles è carbone di zucchero per un pic-nic tra le macerie: sentire Sleepy Dinosaur, un pezzo a tutti gli effetti edibile, un misto di suggestioni tattili e papillari. Ricollegandosi alla tradizione trip-hop, Steven dà maggiore peso alla voce, con la solita Darlington, con Dolly (la turca Ahu Kelesoglu), ma soprattutto con l’epifania gonjasufiana, in uno dei pezzi più belli del disco, Testament (ma questa - come si dice - è un’altra storia). Al di là dei singoli episodi, la forza suggestiva di Los Angeles sta nell’impasto che FlyLo è riuscito a creare, perfetta fotografia della convergenza qui e ora di hip hop ed elettroniche allo stato dell’arte. L'album lancia Flying Lotus nell’empireo dei grandi nomi dei Duemila. Per capire come girano le cose, basta sentire cosa dice di lui la dj e giornalista opinion leader Mary Anne Hobbs, figura chiave dell’ondata dubstep (con lei e Shackleton Steven divide il palco del Sonarlab 2008): «Flying Lotus è il Jimi Hendrix della sua generazione». Il mondo è ai suoi piedi e Steven non si risparmia. Remixa i Radiohead, Shafiq Husayn e i King Midas Sound, jamma con Prefuse 73, produce José James e Dudley Perkins/Declaime (l’EP Whole Wide World; 6.7/10), sonorizza pellicole d’essai e fa da opener per un inaspettato vicino di casa come RZA (il produttore del Wu-Tang Clan, trasferitosi da New York a Winnetka). Con il collettivo di dj, laptop artist e producer di cui fa parte, Brainfeeder (gente diversissima come Austin Peralta, Daedelus, Samiyam, Dr. Strangeloop, MatthewDavid, Ras G e Gaslamp Killer), fonda l’omonima etichetta indipendente e intesse una rete di relazioni e di scambi con altre fucine di ritmi come la LuckyMe di Hudson Mohawke (con il quale jamma) e la Hyperdub di Kode9 (ne vengono fuori alcuni eventi live e un paio di split EP). Il fermento è tanto e tale che ci scappa anche il fake dell’anno. Per quanto lui si dichiari a proprio agio più con le cuffie nel chiuso della propria stanza che non nella bolgia ovattata dei club, i live di Steven lo vedono sempre sorridente e scatenato ad accompagnare ritmi e cantati (colpa della "medicinal marijuana"?). Sono set eclettici ed esagerati, che frullano remix più o meno sorprendenti come A Milli di Lil Wayne o Promiscuous di Nelly Furtado (vedere per quest’ultimo il bootleg Shhh!; 6.7/10), hip e glitch-hop («ma quasi tutto il rap contemporaneo non mi piace»), pezzi prodotti per l’occasione o improvvisati sul momento («produco ogni giorno, soprattutto quando so che devo suonare dal vivo») e UK step (con Archangel, HudMo e Rustie in pole position). Succede allora che FlyLo posta sul proprio myspace un frammento tratto da uno di questi set, in cui mischia il Burial più ambient e un pezzo di Dimlite, Ravemond's Young Problems, uscito su un'oscura compilation. Succede che il popolo del web riconosce il primo ma non il secondo e che è troppo facile e troppo bello poter risolvere l'equazione come Burial + Flying Lotus. Il fake dura poco, ma fa sensazione e, soprattutto, trasmette l’idea del buzz che ruota attorno a Steven e alle sue mosse (e ovviamente alle mosse di Will Bevan). 30 Cosmogramma E’ tempo di anniversari e di festeggiamenti. Steven spegne le dieci candeline come produttore (2000-2010) e decide di fare un regalo ai propri fan: A Decade Of Flying Lotus (7.3/10), megamix di frattaglie inedite, scelte, tagliate e riassemblate dall’amico Gaslamp Killer. Un perfetto bignami del Lotus-modo in attesa del "secondo difficile album" (su Warp). Mentre raccoglie idee e mezzi per Cosmogramma (misunderstanding condensato di cosmic drama), Steven è iperstimolato e sotto pressione, come e più di prima. Alcuni dei suoi artisti preferiti, da Erykah Badu ai Portishead, si sono dichiarati suoi fan; Thom Yorke si è letteralmente innamorato di lui (e di Gonjasufi) e ha ricambiato il favore del remix di Reckoner offrendogli una propria collaborazione su disco e un posto come opener per i concerti del supergruppo Atoms For Peace. Steven, da par suo, suggestionato dai mille pad e dal Monome di Daedelus, è sempre più interessato allo sviluppo di un’elettronica live e suonata e sogna una band in carne e ossa da portare in giro.Vuole poi che il disco sia un omaggio alla prozia Alice, scomparsa nel 2007, sulla cui figura da anni sta preparando un documentario che «probabilmente non vedrà mai la luce». Queste le premesse del disco, questi i suoi ingredienti principali. Definito una cosmic opera ed etichettato - non senza ragioni - come experimental psychedelic hip hop, Cosmogramma soffre proprio questo eccesso di suggestioni, di input, di fonti, di strumenti e di materiali eterogenei messi in gioco, e segna lo spostamento di FlyLo da una foto in bianco e nero (Los Angeles) ad una virata a colori vivaci-acidi, da territori di sintesi a territori contaminati, da un glitch-hop memore di ricordi trip e attento ai fermenti dell'elettronica -step e post-techno a un hip hop onnivoro e progressivo. Cosmogramma è un disco da ascoltare con la massima attenzione, per poterne assaporarne tutti gli strati e coglierne i giusti scarti. Non un passo indietro, e neppure uno in avanti, piuttosto uno di lato. Steven, supportato da un consenso mediatico e critico senza precedenti, ne è entusiasta e già guarda all'orizzonte, programmando le prossime mosse: una big band live che integri laptop, cantanti e strumenti analogici/elettrici; un EP del suo duo FLYamSAM (assieme all’amico Samiyam); un remix per i Massive Attack. E fantasticando sui prossimi sogni da realizzare: collaborare con Björk, con Prince, con Lil Wayne (...) e con i Jaga Jazzist. Tutti assieme. Lo aspettiamo al varco. 31 Recensioni A Guy Called Gerald - Tronic Jazz The Berlin Sessions (Laboratory Instinct, Maggio 2010) G enere : T echno , deep Vada che il precedente Proto Acid: The Berlin Sessions era un trip techno e deep intinto di echi sci-fi, cassa in quattro e una deepness a scavare diritta nell'anima dell'uomo. A metà Duemila averlo inciso live a Berlino significava riazzerare le cose e ricominciare assieme a una nuova generazione di dj e producer. Il nuovo capitolo ne testimonia invece il ripiegamento in una sterile fierezza techno-soul. Ancora tutto strumentale (e perciò privo delle voci e del sudore black che da Voodoo Ray a Essence lo contraddistinguevano), Tronic Jazz è un superfluo distillato di carne e circuiti con qualche buon momento (Iland) ma soprattutto nostalgie canaglie che culminano, sul finale, in rimpianti dell'era Pacific State firmata 808 State. Gerald era uno di loro prima di buttarsi a pesce nella fantastica giungla dell'indimenticato Black Secret Technology (ristampato recentemente). Ora il suo moniker preferito è pienamente storicizzato e l'album per soli fan.(6/10) Edoardo Bridda AA. VV. - Indie Or Die (Disco Dada, Maggio 2010) G enere : vari Ci sfugge lo scopo di questa compilation promossa dalla neonata Disco Dada, visto che non si parla esclusivamente di un'opera celebrativa del lavoro della label. Optiamo per un vero e proprio manifesto programmatico redatto anche con l'aiuto di artisti esterni (tra i tanti, The Horrors, A Place To Bury Strangers, Umberto Palazzo, Schonwald, Who Made Who) col fine di ben rappresentare i variegati interessi e il raggio d'azione dell'etichetta. Nello specifico, un mix incoerente di wave, psichedelia, canzone d'autore, folk, elettronica. Gli artisti di casa rispondono al nome di Simona Gretchen, Letherdive e Nevica su Quattropuntozero, per un disco che tra gli ambienti electro imponenti di Tying Tiffany, le chitarre sferraglianti degli Audionom e gli Ottanta pop sintetici dei Fan Death 32 — cd&lp raggiunge l'obiettivo non rinunciando a una certa dose di coraggio.(6.7/10) Fabrizio Zampighi AA. VV. - Be Yourself - A tribute to Graham Nash’s “Songs For Beginners” (Grassroots, Giugno 2010) G enere : folk rock Fu (anzi: è) lo spigolo gentile di quel triangolo folk-rock che trovò formidabile quadratura in CSN&Y. Tempra di cantautor gentile anzi gentleman, il caro Graham Nash merita certo questo bel tributo organizzato da sua figlia Nile. La quale ha avuto l'idea e il buon gusto di concentrare il fuoco sull'album di debutto da solista del padre, chiamando una pletora di presumo amici o comunque simpatizzanti a reinterpretarne una traccia ciascuno. Tale procedimento conferisce una certa uniformità d'intenti pur nella inevitabile - e benvenuta - diversità degli approcci. Vale a dire, predomina una grana vintage in punta di nostalgia, ma quel che conta è il carattere e la cura che ogni pezzo testimonia. Se la cavano con bella disinvoltura i Vetiver, si disimpegna solenne e generosa Alela Diane, promanano lirismo acidulo e obliquo Port O Brien and the Papercuts, sprimaccia una flemma istrionica Brendan Benson, mentre il caro Bonnie Prince Billy ha ben pensato di concedersi una parentesi da mariachi tenerone. Forse quella meno in parte alla fine è proprio Nile, ma sono dettagli: il paparino ha buoni motivi per essere orgoglioso sia del disco che dell'erede.(6.8/10) Stefano Solventi AA. VV./Jon Tye - Milky Disco III : To The Stars (Lo Recordings, Giugno 2010) G enere : M inimal spacey disco Terzo volume della serie (il primo risale al 2007) che si propone di esplorare e sdoganare il microcosmo della cosidetta Nu Disco/Cosmic Disco. Siamo dalle parti della Minimal Wave recentemente riesumata dalla Stones Throw. La selecta (in doppia versione unmixed + mixed, curata dal boss di casa Lo Recordins, Jon Tye) com- highlight Born Ruffians - Say It (Warp Records, Giugno 2010) G enere : I ndie rock In Red Yellow & Blue si erano distinti per un indie collegale pimpante e vacanziero, zeppo di saliscendi contagiosissimi come se Libertines e Wombats venissero presi a scosse dagli Animal Collective e portati alle baleari dai Vampire Weekend. Del resto, la distanza per miscelare scene e sapori con l'atlantico nel mezzo c'erano: i ragazzi, pur sotto contratto con la londinese Warp, venivano da un piccolo ma delizioso villaggio del Canada, Midland, sedicimila abitanti affacciati sulla Georgian Bay che d'estate ne accolgo altri ottantamila facendo della città uno dei punti di riferimento per il turismo nell'Ontario il cui capoluogo è quella Toronto sede dei Broken Social Scene. Il super gruppo dalla coralità contagiosa è però un'inflenza soltanto indiretta per i Born Ruffians che in questo secondo lavoro maturano innanzitutto una personale via canora intersecando l'urgenza rurale dei Violent Femmes con un'indole più consapevolemente folk-punk e una serie di tricks neri nel fraseggio melodico. Luke LaLonde è diventato un frontman di un brand riconoscibilissimo, la scocca avant-folk di una scrittura facile eppure così complessa e piacevolmente afabulante, capace d'episodi confidenziali dai sapori r'n'b come What To Say (che aspira già a diventare un piccolo classico indie-rock '00) ma anche di pose arty come Nova Leigh (dall'accattivante tiro garage). Il resto non sbaglia un colpo: il valzer di Blood The sun And Water, i tagli cow punk tropicalizzati di Oh Man e le chitarrine esotiche di Retard Canard e lo strascicato crescendo di Sole Brother (il singolo d'apertura) ne sono i migliori testimoni. Saranno troppo raffinati per venir acclamati come devono, del resto i Born Ruffians hanno firmato fin'ora il miglior album indie rock del 2010.(7.3/10) Edoardo Bridda prende dodici piccole perle undeground che declinano in modi sempre diversi i verbi minimal e spacey. Questa Cosmic Disco, in pratica, mette assieme suggestioni di musica cosmica tedesca, minimalismo, la tastierosità di un Jarre e di certo Vangelis, la primissima electro e il funky della discomusic. Il risultato è deliziosamente demodè. I brani partono - geneticamente - da scansioni e ritmiche electro, per travestirsi poi minimal (Leo Zero), tribal (Ghostape), krautpop (Jonny Nash), disco e discofunky secondo vari gradienti di concentrazione (tutti gli altri). Agli estremi opposti si posizionano i giapponesi Cosmes, con una Iron Deck che resta electro al 100%, e gli Oneohtrix Point Never, con una Astral Project T.I.N.A. tanto dilatata da stingere in una intorpidita galleggiante psichedelia post-Tangerine Dream. Una goduria per i cultori, un'ottima introduzione per tutti gli altri.(7.2/10) Gabriele Marino AA.VV. - We Are Only Riders (Glitterhouse, Gennaio 2010) G enere : new roots tribute Viene da porsi la domanda sul (relativo) clamore che ha investito Jeffrey Lee Pierce tra la fine dello scor33 so anno e l’inizio del 2010. Sul perché abbiano visto la luce altre ristampe della triade Miami/Death Party/ The Las Vegas Story che ratificano l’importanza dei Gun Club e sul perché, alcuni mesi fa, è stata infine resa di pubblico dominio questa operazione. Forse che certi miti non muoiono davvero mai e a maggior ragione se a sostenerli ci sono sostanza e attualità. Probabile che sia così, e un valido sostegno alla tesi lo offre questo tributo dall’origine atipica. Le sedici tracce prendono infatti le mosse da registrazioni casalinghe di Pierce, in origine destinate all’album Ramblin’ Jeffrey Lee & Cypress Grove With Willie Love, rinvenute dallo stesso suo collaboratore Cypress Grove su una malmessa cassetta per puro, fortuito caso. Cosa giusta accantonare i sospetti di speculazione, perché nonostante il “peso” di alcuni dei nomi coinvolti lo spirito che anima l’operazione è senza dubbio sincero. Lo prova la fedeltà del respiro infuso sul pugno di originali - dove peraltro aleggia anche in senso “materiale” (una chitarra, una voce flebile) l’ectoplasma dell’uomo, scomparso da quasi tre lustri - e il fatto che i partecipanti siano stati in larga misura suoi amici e/o collaboratori. Superando una certa amarezza, non ci metti molto ad afferrare la contemporaneità di questi brani, la classicità che da potenziale (non era al meglio in quell’epoca, l’autore) diventa reale: che Lydia Lunch sorprenda in abiti folk (struggente When I Get My Cadillac, funerea St. Marks Place) o che Debbie Harry insegni una cosa o due a P.J. Harvey (Lucky Jim); che Mark Lanegan riallacci un filo andato perduto (Constant Waiting, la superba Free To Walk con Isobel Campbell) e Nick Cave lo accompagni (Ramblin’ Mind); che David Eugene Edwards mostri una volta di più da dove proviene e i Crippled Black Phoenix riconoscano un Maestro. Poco cambia, perché hai di fronte lignaggio, attitudine e stile sempre più rari. Come degli antichi blues e, al nocciolo, è proprio così che stanno le cose.(7.5/10) Giancarlo Turra Acorn - No Ghost (Bella Union, Giugno 2010) G enere : modern folk - rock Se una qualità non difetta ai canadesi Acorn, è proprio il coraggio.Arrivare col secondo disco Glory Hope Mountain arrischiando una sorta di “concept”, non è mossa da tutti; idem farla franca con un folk umanista e moderno, talvolta aperto con misura alla grandeur sonora tipica di 34 svariati loro connazionali per via di arrangiamenti ricchi nel dettaglio. Materia che torna anche qui e cammina a schiena dritta tra malinconie di tastiere, violini e plettri; nell’escogitare brani che - in linea con le tendenze dell’ultimo lustro - partono dalla tradizione per fuggire via lontano. Folk-rock nell’era del post? E sia, se del prefisso accantonate cerebralità sterili e invece abbracciate la curiosità a tutto tondo, la voglia di osare senza eccedere nel recinto della forma canzone. Questo è, a conti fatti, No Ghost: un’osservazione delle radici condotta con passione e acume tra up-tempo (Restoration) e impennate di classe (la percussiva title track, I Made The Law), tra oneste convenzioni che riscaldano (Slippery When Wet, Crossed Wires) ed esempi di Califone morbidi ma non torpidi. Sono questi a regalare gli episodi che s’imprimono nella memoria, al di là delle soluzioni produttive che su rifanno lampanti all’operato di Tim Rutili e soci. L’intensità spiccia di On The Line, la ticchettante e dolce Almanac e una Kindling To Cremation tra cielo e terra consegnano i vertici di un lavoro solido, che apprezzi per un’altra virtù degna di nota. Chiamasi discrezione.(7/10) Giancarlo Turra Actress - Splazsh (Werk Discs, Maggio 2010) G enere : E lettronica Esce per la Honest Jon's di Damon Albarn e non per la sua Werk il secondo lavoro a firma Darren Cunningham, dj e label manager che per Hazyville si era guadagnato comparazioni con Theo Parrish, Newworldaquarium e Anthony 'Shake’ Shakir. Continuando l'approfondimento dell’house piena di “magie del mondo black” di quel lavoro, il ragazzo rischia svelando un lato sperimentale a tutto tondo in piena tradizione AFX. Splazsch ne è il foglio d’appunti: materiale da remember Club dei 99 e di tutta la stagione Exogroove 1994/1995 in un’egregia house bituminoso/ narcotica perfetta per l’after hour (Lost, Senorita) da un lato, e un laboratorio di bassa fedeltà e degradazioni synth (Bubble Butts And Equations), riscaqui amniotici (Get Ohn in pratica il Moby degli esordi chiarificato della battuta e messo in lavatrice), sintetiche wave (Maze e Purple Splazsch:Vangelis, Kraftwerk, certi Ottanta molto pop e ritorno), lallazioni elettroniche berlinesi (Supreme Cunnilingus) e omaggi all'IDM storica (i Sabres Of Paradise in The Kettle Men) dall'altro. Un lavoro certamente di transizione, lontano dal dubstep (la sola Wrong Potion lavora sulla battuta dell'amico Kode 9) mediamente buono e affascinante con dei momenti davvero ottimi (il piccolo classico garage NY Always Human che pare rubato a un set di Ivan Jacobucci o Ralf). Actress si conferma moniker decisamente di culto.(7/10) Edoardo Bridda Alva Noto - For 2 (12k/Line, Aprile 2010) G enere : A mbient N oise Si diceva, recensendo Yannis Kyriakides, di come il fattore committenza possa trasformarsi in una seria ipoteca per la musica d'arte. Il discorso vale anche in contesti extra-accademici. For 2, secondo album di Carsten Nicolai/Alva Noto nel catalogo Line - etichetta sussidiaria della 12k di Taylor Deupree - sta qui a dimostrarlo. Ad accomunarlo al primo volume - licenziato sempre da Line nel 2007 -, più che il vezzo di dedicare ogni singolo brano a imponenti personalità dell'arte e della cultura, è la strategia compilativa. Nel 2010 come nel 2007, For significa infatti musica commissionata da musei, istituzioni culturali e, soprattutto, musica che il Nicolai artista visivo ha utilizzato nel corso degli anni (qui dal 2003 al 2008) per installazioni, sculture sonore, performance... Il disco, allora, si presta facilmente a una scansione che riesca a isolare tre livelli di pregnanza estetica: a brani che si intuiscono semplici riempitivi (per durata: Villa Aurora, Pax, Ans o ridondanza: T3), si affiancano esperimenti mimetici piuttosto di mestiere (la niblockiana Early Winter, dedicata al grande compositore inglese) ed episodi che invece meritavano senz'altro di essere ripescati da quel grande limbo che dev'essere l'hard disk dell'uomo Nicolai e della macchina Alva Noto (Argonaut, Stalker e, soprattutto, Anthem Berlin, fanta-inno per la nazione inesistente Ergaland Vargaland). Proprio per questo, For 2 è un lavoro che avremmo apprezzato molto di più sotto forma di EP - se una distinzione di formati ha ancora qualche potere residuale nell'arginare quella vertigine d'infinito che è l'iperproduttività di artisti siffatti.(6/10) Vincenzo Santarcangelo Anaïs Mitchell - Hadestown (Righteous Babe, Marzo 2010) G enere : F olk opera Ambizione. È la prima parola che viene in mente ascoltando quest'ultima fatica di Anaïs Mitchell, folk singer americana da qualche tempo accasata alla Righteous Babe di Ani Difranco. Si tratta della trasposizione in chiave folk del mito classico di Orfeo che, impazzito per la morte della sua amata sposa Euridice, decide di andare a riprendersela nel regno dei morti. La Mitchell, però, non si accontenta di mettere in musica questa storia, ma la ambienta - in modo vago come può esserlo un sogno nell'America degli anni Trenta: l'America di Little Orphan Annie e della Grande Depressione; l'America del New Deal e di Franklin Delano Roosvelt. Ne esce una folk opera resa efficace, oltre che dalle canzoni e le musiche composte tutte dalla stessa Mitchell, dalle orchestrazioni di Michael Chorney e la produzione di Todd Sickafoose (già con Ani Difranco e Andrew Bird). Oltre alla fragile e toccante voce dell'autrice, a dare valore alle composizione è la pletora di ospiti più o meno noti al grande pubblico che ha chiamato a raccolta. Ad Ani Difranco si sono aggiunti Justin Vernon/Bon Iver (nei panni di Orfeo), Greg Brown (la cui voce cavernosa dà vita in modo straordinario al personaggio di Ade, basti ascoltare Hey, Little Songbird e His Kiss,The Riot) e Ben Knox Miller (Ermes). La sforzo compositivo è elevato e la stessa Mitchell racconta che questo progetto ha cominciato a prendere forma nella sua testa già nel 2006, ma si è portato a compimento solo recentemente, quanto è riuscita a far uscire di bocca le proprie canzoni a molti dei suoi miti del mondo indie-folk di oggi. Emerge ovunque l'amore per il folk e per questi interpreti, con una cura non così comune per ogni sfumatura della composizione (basti ascoltare l'intricata struttura in rima dei brani). Il ciclo prende il via con il matrimonio (Wedding Song, tutta spazzole e dolcezze), ma come in tutti i drammi che si rispettino, serve una dose di epica (Epic I) per arrivare al primo episodio in cui i personaggi cantano tutti insieme: Way Down Hadestown, che sa tanto di Tom Waits, con il suo fare fintamente scanzonato, in realtà organizzatissimo, e un'idea generale di processione pagana, tra il mardì gras di New Orleans e le marchin' bands. Da come è concepito il disco, è difficile se non impossibile estrarre qualche brano in particolare (forse Our Lady of the Underground con il call and response bluesy di Persefone e il coro, o l'offertorio finale di I Raise My Cup To Him). Rari i veri e propri riempitivi strumentali, che pure sono necessari al disegno generale. Va invece sottolineato il lavoro al coro della Hades Triplets, che in Nothing Changes cantano a cappella, in uno stile già riportato sotto i rifelttori dalle Unthanks, ma che non suonerà certo nuovo a chi segue il mondo del folk. Un disco intrigante, che aumenta di valore con gli 35 ascolti e che fa venire la voglia di vederne, anche solo in DVD, una rappresentazione teatrale (che però non è chiaro se ci sia mai stata, almeno con questo cast). Ambizioso, ma riuscito.(7.3/10) Marco Boscolo Andrea Chimenti - Tempesta di fiori (Soffici Dischi, Aprile 2010) G enere : canzone d ' autore Sorprende Andrea Chimenti con questa nuova uscita a cinque anni da Vietato morire. Difatti, se anche avessimo ipotizzato una svolta dopo la pubblicazione dell'antologia ChimentidanzaSilenda, difficilmente avremmo potuto immaginare ciò che Tempesta di fiori presenta. Un Chimenti più solare, diretto, deciso a tornare a forme di scrittura tradizionali, dove la tematica amorosa viene sviscerata in una serie di ballate dalle tonalità se non proprio e sempre lucenti, quantomeno crepuscolari, o meglio albeggianti visto il generale clima di rinascita e cambiamento di cui si nutrono queste dodici canzoni. Laddove Vietato morire, album di per sé splendido, lo vedeva meditativo, finanche altero, per brani che accanto all'immancabile fascinazione per il songwriting complesso e maturo di David Sylvian continuavano una ricerca spirituale già praticata nei lavori sul Qoelet e il Cantico dei Cantici, Tempesta di fiori arriva come il primo raggio di sole dopo un'immersione notturna in sé stessi. Elettriche ed archi contornano di seta e aria primaverile canzoni dalle melodie ariose; la voce non ricorre come d'abitudine a quei bordi ombrosi che sono il marchio di fabbrica dell'ex leader dei Moda ma si lascia libera di vibrare. E proprio l'avventura ottantiana che gli aprì la strada solista traspare in certi frangenti, come uno spleen giovanile senza nostalgie ma con lo stesso vigore. Nelle tracce iniziali le tante novità disorientano un po', e lo stesso Chimenti pare dover prendere le misure, questo almeno fino alla loureediana Bellissima, quando cioè il meccanismo comincia a funzionare al meglio, e da lì in poi sempre di più. Proprio a metà scaletta il classicismo baluginante di Feroce e inerme e Stupido così come l'intensità Paolo Benvegnù di Sangue portano l'intero lavoro al suo zenit. Quasi in fondo invece la rilettura di Vorrei incontrarti di Alan Sorrenti conferma uno stato di forma che non ha reso vano un quinquennio di silenzio.(7.3/10) Luca Barachetti Angus & Julia Stone - Down The Way (Pias, Aprile 2010) G enere : folk pop I due fratelli australiani Angus & Julia Stone dopo il 36 discreto EP And The Boys uscito l’anno scorso, arrivati alla seconda prova mostrano tutti i loro limiti espressivi. Un folk chitarristico piuttosto malinconico è il loro, cantato alternandosi con le voci maschili e femminili, ricco di melodie ma prevedibilmente tendente al mainstream, come già era in precedenza. Questa volta troviamo qua è là anche qualche ambizione più orchestrale a riempire le loro trame e il tutto appare molto curato e pulito. Cocorosie, Bjork ma anche Emiliana Torrini i riferimenti più immediati, più di un omaggio al buon Neil Young e in generale un mood che non prende più di tanto; tutto rimane infatti in superficie, calligraficamente. Voci esili e sussurrate, delicatezza e un folk pop che non ha del resto molte pretese.(5.8/10) Teresa Greco Ariel Pink - Before Today (4AD, Maggio 2010) G enere : fantasy - psych Ariel Pink ha ottenuto quello che voleva. Non solo è approdato su 4AD, non solo si è costruito una band, ma ha completato un’operazione culturale. Ha portato il kitch Ottanta nel lo-fi. Lo vediamo dalla ovvia schiera di proseliti che dietro al glo-fi trovano sempre il suo lume. O la sua mancanza di lucidità, che il diretto interessato chiama fantasy-psych. Basta vedere Neon Indian dal vivo (con band) per capire la portata del lavoro preparatorio di Ariel. Il quale oggi arriva a sancire la sua paternità del fenomeno, offrendo con Before Today una sequenza di ricordi pop appannati Ottanta e fine Settanta - col senno di poi e l’accortezza di fare l’occhiolino a destra e a manca. In realtà le differenze ci sono eccome, rispetto ai capitoli precedenti dell’epopea pinkiana. Quella bassa definizione da macchina vintage e mal funzionante che arrivava all’orrido sublime in dischi come Underground, oggi, è sostituita da una sorta di “fedeltà” suonata che perde il sapore casalingo. Niente più patina di scortesia alla Residents. Pezzi come Round Round o Beverly Kills non mettono uno sull’altro piste disorientanti dei pezzi degli Abba, fanno gli Abba, punto. Non manca il distacco ironico del Nostro, che è gran visir e gran giullare insieme - e a tratti rimane divertente (Little Wig), specie nella seconda parte dell'album. Eppure ci sembra che Before Today soffra dell’onda da riflusso. Il luccichìo sotto l’acqua non scompare del tutto (Butt-House Blondies potrebbe segnare un nuovo avvio per la carriera di Pink, smutandando la scorza del grunge da sotto il pop sentimentalone). È per questo che va bacchettato, Mr. Pink, prima che scompaia dietro al personaggio.(6/10) highlight Divine Comedy (The) - Bang Goes The Knighthood (Divine Comedy Records, Maggio 2010) G enere : P op L'ultimo disco dei Divine Comedy, la sigla dietro cui si nasconde Neil Hannon, era datato 2006 (Victory for the Comic Muse), ma l'oramai quarantenne cantautore irlandese non è certo stato con le mani in mano. Oltre a realizzare un concept album sul cricket (The Duckworth Lewis Method, in coppia con Thomas Walsh), ad aver scritto canzoni per altri (vedi alla voce Charlotte Gainsbourg) ed essere apparso sull'ultimo album dei francesi Air, Neil Hannon ha anche scritto un intero musical (previsto per l'autunno), un numero che conoscendo le sue passioni musicali prima o poi doveva arrivare. Bang Goes The Knighthood, il primo disco a uscire per la neonata Divine Comedy Records, continua la ricerca iniziata con Absent Friends, subito dopo il punto di svolta Regeneration, del pop perfetto lontano dalle classifiche e dall'hype. E il discorso rimane lo stesso degli ultimi dieci anni: raffinato pop orchestrale, con un predilezione per il classico, spruzzato di vaudeville e musical. Un mini-musical sembra proprio l'iniziale Down in the Street Below, che dopo fin dall'introduzione con i campanelli rimanda il pensiero a Shaftesbury Avenue e al Charles Dickens di Cantico di Natale (ma forse Neil Hannon preferisce Anthony Trollope). L'aria di divertimento generale, che rimanda alle atmosfere degli album migliori degli anni '90, si propaga per molta parte del disco: da una Neapolitan Girl shuffle alla conclusiva I Like, passando per una The Complete Banker che nonostante il tono scanzonato da Broadway d'antan, in realtà si occupa della crisi finanziaria mondiale. L'attitudine generale, pur con i classici rimandi musicali a Scott Walker (la titletrack, When A Man Cries) fa pensare alle narrazioni in musica di Randy Newman, un maestro che lo stesso Hannon ammette di ascoltare e di amare, e con il quale negli ultimi anni ha in comune la composizione per il cinema. Altrove lo sguardo ironico si posa su quelli che per Hannon sono i mali della modernità: la tecnologie che ci fanno perdere l'abitudine a dialogare (The Lost Art of Conversation, puro Divine Comedy), la scena indie di oggi che sta già dimenticando il passato prossimo (il singolo At The Indie Disco, che nell'elenco infinito di campioni del britpop anni '90 intercala “we drink and talk about stupid stuff/then hit the floor for Tainted Love”). Lo sguardo musicale e sociale di stampo modernista raggiunge probabilmente il massimo splendore in Assume The Perpendicular (si parla di cricket per ironizzare sulle manie della middle class) e nella dolente When A Man Cries, dove Hannon sfoggia un'interpretazione ai massimi livelli. Se per certi versi l'album è un completamento del discorso iniziato con Absent Friends, per altri è un ponte gettato verso Casanova e A Short Album About Love. Neil Hannon sembra aver trovato un equilibrio tra il crooning e il pop, fusi in una visione musicale personale. Ma in Bang Goes The Knighthood non tutto è fuoco. Alcuni brani entreranno di diritto tra i suoi migliori, altri (Can You Stand Upon One Leg, che pare un b-side del musical riciclato alla bisogna, e il duetto in salsa Belle And Sebastian con Cathey Davey in Island Life) sono da intendersi come inciampi in un percorso comunque sopra la media, per la classe e l'esperienza del suo autore. Rimane un gradino sotto i suoi migliori lavori, ma gli episodi migliori hanno le potenzialità per crescere sulla distanza. In fin dei conti, cosa vogliamo ancora: una manciata di grandi canzoni non ci basta più?(7.4/10) Marco Boscolo Gaspare Caliri 37 Art Giraffefungal - Black Porridge Kaleidoscope (Pointy Bird Records, Marzo 2010) G enere : E lettronica pura Con un atteggiamento da scienziato pazzo assai simile a quello ravvisato in Rothkamm e, per certi aspetti, nel Kim Cascone di Anti-Musical Celestial Forces, Art Giraffefungal s'inventa per il secondo album una stramba forma di art-noise del tutto improvvisata. Realizzati con "limited computer skills" e liofilizzati in sedici rapidi bozzetti sonori - solo uno supera i tre minuti - gli strambi oggetti simulano maldestramente il formato canzone ma assomigliano in realtà assai più vistosamente ai primi vagiti di elettronica accademica emessi negli studi di fonologia d'Europa e d'America (o allo Xenakis degli electronic works). Chi già conosce il sound-artist inglese grazie a un album d'esordio (Balloon Animals, Pointy Bird Records, 2006) che viveva intero di una sola fonte sonora - i rumori emessi da un palloncino di gomma -, si stupirà di un formalismo che si concede qui il lusso di seguire le traiettorie ordinate di sinusoidi, onde, feedback, o addirittura rarefatti pattern ritmici (The Temple Of Black Square). A tutti gli altri sembrerà di esser capitati chissà come in un caleidoscopio oscuro - per parafrasare il titolo dell'album - generatore di strutture simmetriche ostinatamente monocrome. Ovvero, in un incubo.(6/10) Vincenzo Santarcangelo Ättestupa - Begraven Mot Norr (Release The Bats, Maggio 2010) G enere : B l ack N oise F olk Dopo una compilation (Utmarken) e un 12 pollici (1867), il famigerato combo, punta di diamante del noise svedese, torna con un secondo full-lenght. Se il precedente album si dipanava in maniera monolitica e lineare nelle due lunghe tracce che lo componevano, mescolando folk faunesco, kraut teutonico e suggestioni black metal, il nuovo sound acquisisce una tridimensionalità che, come suggerisce il titolo (Sepolto al Nord), non punta al cielo ma indaga le profondità degli abissi terrestri. Oltre all'usuale coltre di densa sporcizia, il trio di Goteborg rielabora la formula aggiungendo parti acustiche, intermezzi concreti ed una più opprimente componente percussiva. Nella nuova coppia di pezzi si alternano, come di regola, momenti grevi, passaggi astratti e umori da celebrazione funebre; la voce poi si mescola dentro la pasta di mestizia sonora, accrescendone ulteriormente la carica rituale e psichedelica. Begraven Mot Norr non è dunque una replica del primo, ma la sua naturale evolu38 zione, più articolata ed ambiziosa ma sempre immancabilmente riconoscibile sotto il nero vessillo Ättestupa.(7.4/10) Andrea Napoli Avi Buffalo - Avi Buffalo (Sub Pop, Maggio 2010) G enere : indie pop I falsetti nella Angie degli anni 00’ oggi rinominata Jessica, una vaga attitudine surf (nell’ottimo singolo What's In It For), il ripescaggio del migliori indie pop makers dello scorso anno (XX, Animal Collective, Pains Of Being Pure At Heart e Glasvegas) e un vago riferiferimento all’estate sognata del glo-fi. Ecco cosa ci vuole per fare un gruppetto che ha delle serie possibilità di infrangere cuori e diventare la nuova next big thing per la (fine della) prossima estate (Summer Cum appunto). Sdoganati su Sub Pop, i quattro tardoadolescenti da Long Beach, California son fieri di avere il passaporto americano. La sottile sottile linea rossa si allunga quindi toccando un miscuglio di folk country à la Wilco e qualche traccia Built To Spill, tutto ovviamente filtrato dalla lente under 20: i loro testi non possono che essere quindi un paradigma di amori insoddisfatti e di cliché chitarristici che guardano sì a quell’imprescindibile mondo now, ma con lo specchio retrovisore che punta ai '70 Fleetwood Mac (One Last). Epici, spirituali e sbarazzini. Potremmo innamorarcene.(7.3/10) Marco Braggion Bad Apple Sons - Bad Apple Sons (A Buzz Supreme, Aprile 2010) G enere : hard - wave - noise Vincitori dell'edizione 2008 del contest di Controradio, i Bad Apple Sons mettono in scena un hard-wave che ha in sé il germe della trasversalità. Un bignami in cui si riconoscono certi Birthday Party virati Jesus Lizard (The Claim), le dissonanze incendiarie dei Korn (Take This Mortal Tea), una new wave evocativa ai confini con la psichedelia (Backroom Facials), claustrofobie industrial in sbornia kraut (Whales Are Watching), i Sonic Youth (Namby Pamby), tribalismi sfilacciati del primo Nick Cave (I'm The Cutter). La virtù maggiore del combo fiorentino è il saper diluire le specificità di genere in una soluzione credibile e decisamente affascinante, sospesa tra rigore e sciabolate di chitarre elettriche. Con le dinamiche dei Tool a fare l'occhiolino dietro alle profondità oscure e teatrali di questo omonimo esordio e un pugno di ospiti del giro A Buzz Supreme - tra cui Samuel Katarro, Wassi- highlight Emeralds (The) - Does It Look Like I'm Here? (Editions Mego, Maggio 2010) G enere : kosmische new age Il problema con gli Emeralds è sempre lo stesso: come prenderli. Come una appendice stramba e weirder del nuovo noise americano o come un malato esempio di rielaborazione di ipotetiche trasversali kosmische/new age? Quale che sia la risposta a questo lecito dubbio di posizionamento e/o prospettiva, resta la certezza che le definizioni potrebbero andare bene entrambe così come nessuna delle due. Gli Emeralds sono una band coi controcoglioni e lo dimostrano ad ogni uscita, ufficiale o meno che sia. Nello specifico, Does It Look Like I’m Here? rappresenta per forza di cose un passo avanti per il trio. L’etichetta, innanzitutto, è la prestigiosa Editions Mego, segno che Mark McGuire, John Elliott e Steve Hauschildt (chitarre e chincaglieria analogica varia) sono ormai ufficialmente emersi dalla melma post-noise dell’underground americano. La musica poi viene di conseguenza: appare più screziata, meno incline agli stordimenti noise dei primi passi, sempre dilatabile verso lande kosmische sinthetiche e tappetini di suoni new age, seppur corposi e sfatti, con una certa predilezione per quest’ultima deriva. A stupire però è il procedere eccentrico dei tre di Cleveland. Eccentrico nella macrostruttura dell’album tanto quanto nelle microstrutture di ogni singolo pezzo, capaci, cioè, di partire da un centro e svilupparsi centrifugamente verso ogni reale direzione possibile. Se ne parlerà a lungo e a lungo si discuterà sull’effettivo valore di questo album, così come della svolta “educata” degli Emeralds. I giudizi saranno discordi ma non ci si potrà esimere da una grossa verità: nel revival dell'analogico, questo è uno dei gruppi più importanti di questo scorcio di terzo millennio.(7.2/10) Stefano Pifferi lij Kropotkin - a dare il proprio contributo nelle dieci tracce della tracklist.(7/10) Fabrizio Zampighi Band Of Horses - Infinite Arms (Columbia Records, Giugno 2010) G enere : C ountry R ock Con il sophomore post-Matt Brooke (nel frattempo Grand Archives), la band di Ben Bridwell, rilocatasi nella sua South Carolina, aveva ricalibrato e preso confidenza con la formula dell’esordio, riconsiderando ancora una volta il southern sound agrodolce dei My Morning Jacket, iniettandolo qua e là di spezie post-Neil Young di gente come Built To Spill, Wilco e Iron & Wine. Cease To Begin era però un lavoro ben lungi dal gettare il cuore oltre l’ostacolo; inferiore rispetto all’esordio giocava, non senza malizia, dentro stereotipi consolidati e liriche fin troppo consapevoli del proprio pubblico di nicchia. Per Infinite Arms la band ha voluto qualcosa di diverso, ottenendolo con maggiore successo. Firmando major si è dichiarata quintetto vergine e accogliendo due amici (quali Tyler Ramsey alla chitarra e Bill Reynolds al basso) ha voltato pagina a partire dall’iniziale Factory, il segno più tangibile di una maggiore sicurezza nell'espressione ma anche di un rinnovato arrangiamento: un suono pieno e spaziale nel quale cinematiche Black Heart Procession incontrano un chamber folk di tutto rispetto. Altre testimonianze si riscontrano nel tiro folk rock à la Crosby Stills & Nash della successiva Compliments e nei tagli indie rock di Laredo e Northwest Apartment, nonché negli episodi confidenziali (Blue Beard) quando non - senza troppo sorprenderci - pop (Dilly) o folk-pop (Evening Kitchen) fino al country circa Harvest dell'emblematica Older, degna di una classicità che ancora non saprà del tutto d’autentico, ma è quanto basta per averceli intorno senza star troppo a criticare. (7/10) Edoardo Bridda Benga - Phaze: One (Tempa, Giugno 2010) G enere : dubstep techno L’avevamo lasciato voglioso di ragga, ma il capellone guerriero insiste con delle bombe di acido squadrato da 39 spararsi in vena che ricordano la techno maraglia europea. Il nuovo EP di lusso (doppio vinile e due bonustrack per la digital version) è una cosa che ribolle hard dubstep calcato sull’analogico radioattivo. Un preambolo infarcito di cartooning Marvel subito prima dell’uscita del progetto uberhyped Magnetc Man con gli amici Skream e Artwork, una manciata di badilate sui denti fin dall’iniziale minimalissima e technoide Baltimore Clap, infiltrazioni 8 bit (eyeTunes e Your Band) senza farsi mancare dissing a distanza con Toddla T (808), uptempo sintetici Planet Mu, parentesi Ninja Tune (Rock Music) e il mesh firmato Crookers (No Bra, No Panties). Uscita per aficionados, Phaze One è la riconferma per un grandissimo produttore.(7.11/10) Marco Braggion Bettye LaVette - Interpretations: The British Rock Songbook (ANTI-, Giugno 2010) G enere : soul diva Difficilmente Madame LaVette potrà ripetere il magnifico I’ve Got My Own Hell To Raise che un lustro fa la rilanciò. Non per colpa sua, intendiamoci: anche qui l’ugola si appropria con invidiabili maestria e varietà di ogni composizione. Il fatto è che certe magie non le recuperi che occasionalmente perché vivono di un momento e si vestono di significati a esso legati. Piaceva infatti The Scene Of The Crime nel 2007, benché dobbiamo confessare che il riascolto lo abbia un poco sminuito, ma tant’è. Insomma, ci piace ascoltare ciò che poteva diventare Tina Turner se si fosse circondata di gente all’altezza e gli anni non fossero stati i vacui Ottanta, tuttavia vorremmo ogni volta un disco col cuore e le sofferenze gettate al di là dell’ostacolo. Non si può, e a pretendere l’impossibile si fa peccato. La Signora ci perdona con dodici brani (più bonus dal vivo in una squarciante Love Reign O’er Me di Peter Townshend) volti a omaggiare celebri songwriter britannici. Ci sono un’ennesima Don’t Let Me Be Misunderstood di classe e la mesta No Time To Live (dei bianchi per caso Jim Capaldi e Steve Winwood), una trascinante The Word sottratta a Rubber Soul e la struggente Isn’t It A Pity di George Harrison, eseguita come fosse l’ultimo saluto agli avventori prima del mattino. Ci sono sonorità tonde e nessuna traccia di manovalanza, persino in mosse meno 40 riuscite come la All My Love che comunque strapazza il melenso originale zeppelininano e alcuni momenti “solo” apprezzabili. Quando però dalla stonesiana Salt Of The Earth sorgono un afflato e una potenza che ingoiano ogni parola, capisci che non si deve chiedere sangue a chi ha già dato; a chi compie miracoli riabilitando nefandezze del calibro di Wish You Were Here e Nights In White Satin. Con buona pace del recensore di turno, fastidiosamente seduto a soppesare con vuoti numeri l’operato di un essere umano.(7.3/10) Giancarlo Turra Bitters (The) - East General (Mexican Summer, Aprile 2010) G enere : N oise P op A volte capita che qualche band del roster Captured Tracks sia in grado di riservare piacevoli sorprese e non solo cocenti delusioni. I fautori del piccolo miracolo si chiamano Bitters e sono un duo di Toronto formato dalla cantante Aerin Fogel e dal chitarrista Ben Cook, già negli arci-noti Fucked Up, nonché attivo in solo a nome Young Governor. La proposta dei due, fortemente caratterizzata dalla versatile impronta vocale della Fogel, è un noise pop che chiama a raccolta le paladine storiche del post punk al femminile come Slits, Siouxsie And The Banshees e Delta 5. Quindi chitarre ultra acide, primitivismo percussivo distorto a dismisura, sgraziati coretti da bambine ritardate e filastrocche al miele scaduto. Se questo era già chiaro dalle due precedenti uscite di breve durata, ora la coppia rilancia la posta e imbastisce un album di debutto denso e pastoso. Travelin’ Girl è un fuzz pop ramonesiano e No Anchor un garage sixties cristallino, mentre Wild Beast e il suo stomp faunesco, insieme con Nails In The Coffins, che traballa su di un ritornello memorabile, sono lo spirito più inquieto che infesta East General. In giro per il web, nelle pagine di blasonate testate d’oltre oceano, potete leggere di come I'm Feeling Good si trascini per sette minuti senza motivo, ma non dategli retta: è solo la giusta chiosa di un lavoro di lenta digestione, che mescola melodia e rumore, dolcezza e asperità. D’altra parte non si chiamano Amari per niente, con buona pace degli omonimi nostrani.(7.1/10) Andrea Napoli Blue Van (The) - Man Up! (Iceberg Records, Maggio 2010) G enere : I ndie rock Stavolta la periferia che prende dal centro, rielabora e rispedisce è la Danimarca dei Blue Van (che dalle loro parti è il furgone che trasporta i disabili mentali: in pratica l'Ottavo Padiglione). Innamorato di certi anni '60 (i nomi che ricorrono sono Kinks, Small Faces e Cream), il quartetto fonde le influenze in una miscela non priva di verve e disinvoltura, che innerva l'apparente semplicità dei brani articolando la struttura compositiva (l'iniziale Be Home Soon) o attraverso stratificazioni (la title track) o arguzie (The Socialite) di arrangiamento. Al terzo disco (uscito nel 2008 e distribuito nello stivale solo ora), però, l'amalgama non riesce ancora a fondersi in uno stile che abbia una personalità riconoscibile: per cui alla fine, nonostante l'efficacia del carrarmato Silly Boy (primo singolo) o il piglio della marcia I'm A Man con azzeccato duetto di sax e un coretto da Stones in America, ad un ascolto distratto il gruppo rischia di passare per uno dei tanti in zona Kapranos, a danno dell'intelligenza con cui lavorano di dettaglio e di una buona freschezza generale.(6.4/10) Giulio Pasquali Brendan Perry - Ark (Cooking Vinyl UK, Maggio 2010) G enere : elettronica trip hop La metà maschile dei Dead Can Dance mancava all’appuntamento solista dal 1999, anno di pubblicazione del magistrale Eye Of the Hunter. Lo si è visto poi, celebrare i fasti della reunion, insieme a Lisa Gerrard, con il tour del 2005 e recentemente come ospite per la traccia d’apertura dell’ultimo Piano Magic. Uno che fa le cose con calma quindi, del resto sulla maestria compositiva dell’australiano non ci sono più dubbi da decenni, da quando tutto il catalogo DCD ha riscritto le regole dell’arrangiamento rock pop per come lo conoscevamo, andando a sperimentare le più erudite contaminazioni di ogni epoca e latitudine. Ark è quindi il disco che segna il ritorno del Perry compositore da più di dieci anni, e con un piglio che per stessa ammissione del suo autore va a scavare nelle stesse coordinate della sua vecchia band. Niente cantautorato e chitarre acustiche, come nel precedente disco solista, piuttosto elettronica, samples, campionamenti, andando praticamente a posizionarsi li dove avevamo lasciato i DCD, con l’elettronica mid-tempo di Into The Labyrinth e soprattutto Spiritchaser. La base è quella, poi Brendan Perry si diverte come un pittore ad utilizzare scale, strumenti e percussioni di ogni zona del mondo per arricchire il quadro. Ripescati due brani scritti per la reunion, Babylon e Crescent, il disco si concentra però su un banale e noioso trip hop, senza troppe innovazioni o trovate di genio. Materiale di normale amministrazione per uno come lui. Un ascolto sicuramente piacevole per i fan dei DCD, ma visto il personaggio e l’assenza dalle scene era ampiamente lecito aspettarsi di più.(5.7/10) Antonello Comunale Bungaro - Arte (Egea, Marzo 2010) G enere : canzone d \' autore Mestiere ingrato quello degli autori per conto terzi. Si scrive su ispirazione ma anche su commissione, per interpreti d'eccellenza e per meteore bisognose di riempire un disco; talvolta poi ci si prende tutta la scena e si pubblicano dischi da sé. Così per Bungaro, giunto al sesto titolo di una carriera che lo ha visto fornire brani a nomi importanti della musica patria (Mannoia, Vanoni, Ruggiero, Patrizia Laquidara) ma anche a starlette da reality. Con Arte rieccolo alla dimensione originaria di cantautore in bilico tra Italia e Brasile, innamorato tanto di Caetanto Veloso quanto di Sergio Endrigo, e devoto ad una classicità raffinata che nell'aurea di João Gilberto e Jobim lo vede accostarsi ad un altro autore-outsider nostrano quale Joe Barbieri. E lungo una scaletta fin troppo estesa di quattordici tracce, con un'evidente fase di stanca giusto a metà, il brindisino ripassa le influenze descritte ed altre conseguenti: etno-world poppeggianti con veli sontuosi d'archi (Il motore immobile) o fragranze di bandoneon (Trafficante); bossanove purissime che accarezzano il palato (la title-track con Paola Morelenbaum); calligrafie fossatiane (Il deserto insieme ad un'ovvia ma fondamentale Fiorella Mannoia); vaporosità di synth e piano jazzato alla Sergio Cammariere (Vestimi di te); piano-voce-archi in crescendo cinematici tipo Niccolò Fabi (Non è tempo che passa); deviazioni popolari con liriche in dialetto e ospiti a fare da marchio di qualità (Madonna di lu finimundi con Ambrogio Sparagna e Lucilla Galeazzi; Piccenna Mia con Guinga). 
C'è spazio anche per Dal destino fortunato, testo inedito proprio di Endrigo musicato e arrangiato insieme al pianista cubano Omar Sosa e all'ex Avion Travel Ferruccio Spinetti che, tirate le somme, risulta l'episodio migliore fra liriche sempre dignitose ma con rari spunti memorabili. Del tutto da dimenticare invece il duetto con Neri Marcorè di Piacere di vederti, soffocante impasto di retorica sull'amicizia e i dubbi della mezza età. Osi di più la prossima volta Bungaro, e si prenda la classicità im41 bastardita (e non imperlucida come qui) di un Vinicius Cantuaria o il cosmopolitismo di un Arto Lindsay. Potremmo sentirne davvero di interessanti.(6.3/10) Luca Barachetti Canadians - The Fall Of 1960 (Ghost Records, Aprile 2010) G enere : guitar - pop Mettete insieme gli Hüsker Dü, i Dinosaur Jr., il college pop degli Weezer, le armonie dei Beach Boys e otterrete i veronesi Canadians. Un intreccio di chitarre elettriche corpose spalmato su un'attitudine punk/postqualcosa che vive di fraseggi uncinanti e melodie appiccicose. Ai tempi del precedente A Sky With No Stars qualcuno urlò al miracolo per un'opera che si limitava a riproporre nella giusta chiave un immaginario legato agli ultimi Ottanta/primi Novanta indie americani; di questo The Fall Of 1960 si dirà forse, commettendo un errore, che altro non fa se non ripetere quanto di buono si era già ascoltato in quell'esordio. Si tratta invece di un lavoro dalla scrittura certosina e l'organizzazione quadrata. Quel misurare muri di chitarre e melodia che porta la band di Duccio Simbeni, Michele Nicoli, Massimo Fiorio, Vittorio Pozzato, Christian Corso, a dar vita a un piccolo capolavoro di equilibri, produzione, sintesi e arrangiamento. Un po' come era successo agli Yuppie Flu del 2003, quando con Days Before The Day fecero intendere dove poteva arrivare la grazia di una piccola band italiana impegnata a trafficare con una musica lontana anni luce dalla tradizione del Bel Paese. Per i Canadians di The Fall Of 1960, pur con le dovute differenze stilistiche, vale lo stesso discorso: classe e fede incrollabile in un background di ascolti capace di dar vita a un pop ricercato ma con punti di riferimento riconoscibili. Fulgido esempio di un indie forse fuori moda ma tutt'altro che sepolto.(7/10) Fabrizio Zampighi Chrome Hoof - Crush Depth (Southern Records, Giugno 2010) G enere : psycho prog Il classico gruppo da amare o odiare. Una confusione di tante (belle) idee, (Sun Ra, ESG, Goblin, Parliament-Funkadelic e Black Sabbath), buttate giù un po' alla rinfusa sotto l'ombrello del psych prog. Nel nuovo capitolo Crush Depth l'amalgama mostra, rinnovamenti e non miglioramenti tanto che i Chrome Hoof di adesso sembrano una versione contratta dei Faith No More epoca King For A Day. Cristalline e One Day e Labyrinth sono le solite sfuriate progressive forti di metalliche dosi di funk e teatralità, eppure episodi come Sea Hornet (possente suite prog 42 con tanto di indovinato piano elettrico), Mental Peptides (che ai Faith No More aggiunge un filo di Primus) e Vapourise (electro presa di peso dai primi ’80), tutte strumentali, spiccano sul mucchio forse proprio perché tali.(6/10) Gianni Avella Crystal Method (The) - Divided By Night - Special Edition (Black Hole Recordings, Marzo 2010) G enere : E lectrock Quarto disco in studio per il duo americano, uscito esattamente un anno fa, ripubblicato adesso in edizione doppia (coi remix). Fan sfegatati dei Depeche Mode, i Crystal partono da lì per tirare su la loro electro rocciosa, rockettara e contaminata, sorta di aggiornamento dei modi e dei suoni big beat. Le loro produzioni non ci fanno impazzire, bene quando azzeccano il pezzo "pop" (Come Back Clean, Slipstream, Falling Hard) o il riff potente (è qui che si sente la filiazione Depeche; Dirthy Thirty, Kling To The Wreckage), male malissimo quando si abbandonano a intrecci di schitarroni e di tastierine. Messa in conto una certa dose di generalismo e di tamarragine (vedere alcuni feat vocali), i Crystal hanno bei momenti. Che, affinando un po' la formula, potrebbero fare un bel un passo avanti è una certezza. Ospiti il rapper Matisyahu e Peter Hook, al basso in due pezzi. Sui remix: come spesso accade, sono abbastanza superflui, se non dannosi. Cose pessime (Sine Language ad opera di Dunugoz e Tha Roofas Breakz; già l'originale è brutta, col rappato di LMFAO), tanta mediocrità e qualche isolato highlight (la title track deephousizzata da Andy Duguid, niente comunque per cui strapparsi i capelli).(5.7/10) Gabriele Marino Cypress Hill - Rise Up (Priority, Aprile 2010) G enere : C ros sover hip hop Considerando i sei anni di silenzio e la deriva qualitativa dei Soul Assassins di Dj Muggs, il ritorno dei Cypress Hill è molto meno brutto di come ce lo si poteva aspettare. Rise Up è un disco celebrativo (come già Intermission) il cui scopo principale è ribadire il ruolo del gruppo all'interno della tradizione hip hop e alle origini del fenomeno crossover. Ecco allora spiegato, da una parte, il classicismo funksoul di alcuni buoni pezzi (su tutti la Light Up prodotta dal maestro Pete Rock). Ecco allora spiegati, dall'altra, i riffoni hard di Tom Morello su Rise Up e Shut 'Em Down, le progressioni emozionali di Mike Shinoda dei Linkin Park in Carry Me Away e le declamazioni di Daron Ma- highlight Excepter - Presidence (Paw tracks, Febbraio 2010) G enere : psichedelia nera Rischiavamo di farcelo sfuggire tra le uscite dei primi mesi del 2010, questo colosso di 130 minuti diviso in due CD, quadratura del cerchio della dilatazione di mondi (e di pupille). Si parte con la saga Teleportation, un lungo viaggio - e come poteva non esserlo? - fortemente influenzato dai brandelli della “industrial music for industrial people” (Teleportation: Bre). Da Teleportation: Lil accade invece qualcosa di più interessante: nasce una sorta di Saucerful Of Secrets dei giorni nostri, con spunti minimalisti che si fanno tappeto, soffi di tastiere e un mood misto tra metropoli e le rovine di Pompei. Il ciclo dei brani del primo CD è il modo di Excepter di aprirsi le porte dell’aldilà, con culmine in Teleportation: Kop, un ibrido tra industriale e dub. E così, nel nuovo inizio, dopo la planata del teletrasporto, si confida passo passo qual è la chiusura del quadro, con prima tappa, pur con i filtri (personalizzanti) dei Nostri, su lande Steve Roach. Tutto è ancora giocato sulla prevalenza del nero rispetto al colore, con fortissime valenze psichedeliche, ma anche con quella ricerca colta che siamo sicuri gli Excepter abbiano sviluppato. Quando siamo sul punto di pensare che Presidence possa essere troppo intelligente a tutti i costi, arriva Leng, dove il dub si anima di una cosmica di eccezionale efficacia, pur nel rimando continuo a quelle musiche che gli anni in corso, specie nel sottobosco del rumore, procedono a sdoganare senza tregua, così come l’idea di suite, di lunga durata, di concentrazione. Nessuno direbbe più “non mi piace”, specie se si trova scritto “è come se i Wolf Eyes rifacessero i PIL che rifanno i Tangerine Dream”. Oppure “Eno/Fripp dei giorni nostri”, riferimento che si potrebbe spendere per l’impressionante tenuta compositiva della quasi mezz’ora di Og - per non parlare dei 33 minuti della title-track, geniale prestito Terry Riley (in un fanta feat. Experimental Audio Research) giocato sulle varianti di un unico arpeggio senza posa. Presidence è un monumento a una cultura musicale, un tout se tient. Può essere rifiutato come compilativo oppure strabiliare. Ma, all’interno di rimandi piuttosto chiari, il gioco è di tirare fuori un percorso (secondo un’etica Spacemen 3) poliedrico, che inizia dai borborigmi industriali e risale fino al kraut. Un album maturato nei tanti anni di attività del combo, interessato forse a orientare in modo abbastanza definitivo lo sguardo del passaggio ’00 / ’10 del nuovo millennio. Gli Excepter sono ora un gruppo eclettico di psichedelia totale, diversa però da quella dei No Neck Blues Band, da cui gli Excepter (con intercessione di John Fell Ryan) derivano, almeno biograficamente. Hanno deciso di essere portavoce - d’eccellenza - di un’epoca. Duro confrontarsi, d’ora in poi.(7.7/10) Gaspare Caliri lakian dei System Of A Down in Trouble Seeker, feat e pezzi efficaci, anche e soprattutto al di là del rappato di casa Cypress, che non sempre va a segno. L'iniziale It Ain't Nothin', primo singolo, spacca senza appello. La conclusiva Armada Latina, pezzaccio per il barrio con il ritornello di Marc Anthony (che nel video ufficiale si è fatto sostituire da un sosia), ribadisce le radici del gruppo. Una manciata di brani brutti o pasticciati (citiamo solo l'impacciato uptempo discomusic di I Unlimited) non riescono a far dimenticare le cose buone. Ma ad abbassare il voto sì.(5.8/10) Gabriele Marino Damien Jurado - Saint Bartlett (Secretly Canadian, Maggio 2010) G enere : folk rock Il coinvolgimento di Richard Swift - uno dei talenti più versatili e imprevedibili di casa Secretly Canadian - quale produttore artistico del nuovo di Damien Jurado può essere letto in modi diversi. Ad esser buoni, si è trattata di un'intesa sbocciata naturalmente fra i due, malgrado la sostanziale diversità delle rispettive proposte. Volendo fare invece un po' di dietrologia a gratis, potremmo supporre che l'intervento di Richard il Bizzarro sia stato foraggiato dalla stessa etichetta per dare una scossa alla 43 discografia di Jurado, le cui potenzialità finora non sono sbocciate come e quanto è lecito supporre. Il risultato è l'ennesimo buon disco del buon Damien, con gli stessi immancabili rimandi (le apprensioni Jason Molina, i malanimi stropicciati Will Oldham, l'incedere grave e struggente Black Heart Procession...) e la sensazione di trovarsi ad un passo dall'eccellenza in ambito folk rock. Giusto un passo indietro, ma è quello che fa la differenza. La mano di Swift va forse indovinata nella fibra onirica ed evocativa degli sfondi sonici (le cianfrusaglie mnemoniche di Pear, le perturbazioni sintetiche à la Sparklehorse di Kansas City...) e per qualche azzeccata intuizione in sede d'arrangiamento (l'ipnotico intreccio di arpeggi nel finale di Rachel & Cali, i coretti gospel di Beacon Hill...). Per il resto, a bilancio possiamo mettere un paio di pezzi notevoli come Wallingford (elettricità tra front porch e metropoli come il Neil Young di Freedom) e Cloudy Shoes (palpitazioni a volo d'uccello tra Nick Drake e Radar Bros.), mentre il singolo Arkansas giochicchia tra movenze fifties e inquietudine strisciante come uno Springsteen giovane posseduto dallo spettro di Scott Walker. Insomma, è un buon lavoro, ma a Jurado manca ancora qualcosa.(6.4/10) Stefano Solventi Dan Sartain - Lives (One Little Indian, Maggio 2010) G enere : garage & roll Passano gli anni e Dan Sartain da Birmingham, Alabama, assomiglia sempre più a un figlioccio sartorialmente più stiloso del buon Tav Falco. Pesca nello stesso immaginario sonoro - aggiungendo talvolta un po’ di primi sixties - ma la pianta è quella e guai a lamentarsi. Anche se non c’è stato e non potrà mai più esserci Alex Chilton a produrlo (troppo sperare in Billy Childish?), prosegue imperterrito nell’approccio basilare e minimale verso le radici del rock. Roba che dopo il successo planetario degli White Stripes ancora ti chiedi come faccia a rimanere di culto eppure è così: nonostante una stampa inglese finalmente in grado di capire il suo operato - omaggiare il passato e un intero mondo ivi racchiuso senza scadere nella cartolina: mica facile - non siamo andati oltre un apprezzabile successo indipendente. Però qualche copia in più della me44 dia deve smerciarla, se alla One Little Indian ancora non gli hanno fatto le scarpe di cemento. Significa che Sartain è tosto, è uno che con dedizione e pazienza prima o poi diventa “capo famiglia”. E’ sulla buona strada e amen se questo nuovo disco è un poco sotto al precedente Join Dan Sartain, per varietà di accenti e brillantezza della scrittura. Conta che Dan si confermi fedele al suo credo, ora che siamo pure orfani di Mink De Ville; conta che sia ancora qui tra vent’anni a rifilarci orologi d’oro rubati (Watcha Gonna Do? un folk-beat che non tradisce; quella The Passenger riportata alla Sun Records chiamata Prayin’ For A Miracle), auto usate col contachilometri ritoccato (i perfetti garage Yes Men e Bohemian Grove; l’affilata Bad Things Will Happen) e sigarette di contrabbando (una Ruby Carol sardonicamente noir; il romanticismo stradaiolo che muove Touch Me; l’innodia ubriaca di Atheist Funeral). Prendiamo, paghiamo e ringraziamo, perché il brivido del proibito ci piace. Hm, hm, magico Dan (7.3/10) Giancarlo Turra Daniel Johnston/Beam Orchestra - Beam Me Up! (Hazelwood, Marzo 2010) G enere : indie - pop Il percorso è coerente. Prima un disco come Is And Always Was in cui aggiornare le cassettine giovanili con un pop-rock adulto e rotondo, poi la big band di turno, a sondare un inedito classicismo orchestrale che vorrebbe forse richiamare - nei sogni, più che nelle intenzioni - il Let It Be degli amati Beatles. Il Phil Spector della situazione diventa Bart van Dongen - leader del collettivo olandese BEAM -, abile manipolatore di un tessuto orchestrale fatto di contrabbassi, percussioni, sax, violini, violoncelli e tromboni. Quest'ultimo ideale spartiacque con il passato sotterraneo sempre più lontano dell'artista americano. Tutto nella norma, a vederci chiaro. Il problema è che l'arrangiamento classico che spopola in Beam Me Up! brutalizza Johnston e lo obbliga a una disciplina che non gli appartiene. O meglio, che non appartiene a una voce come la sua, sgrammaticata e pasolinianamente neorealista, sgraziata e incapace di irregimentarsi, oltre che completamente inadatta all'intensità emotiva da crooner in smoking che le si richiede. Un elefante in un negozio di cristallo tediato dal Sondre Lerche primaverile di Try To Love, sballottato dalla Shirley Bassey di Must, schernito dagli elefanti effervescenti di Wicked World. Strumenti e cantato viaggiano paralleli senza incontrarsi quasi mai, se non nell'iniziale Syrup Of Tears, nella splendida True Love Will Find You In The End, in Walking The Cow e nella bandistica Devil Town. Guarda a caso gli unici episodi in cui l'orchestra si fa parzialmente da parte o opta saggiamente per il sincopato proprio del rock. Alla fine non ci si scandalizza più di tanto per il risultato finale - e pazienza se qualcuno si sperticherà in elogi fuori luogo - ma certo è che con Beam Me Up! ci si trova di fronte al primo disco in cui l'estrema sincerità artistica del personaggio Johnston non riesce a colmare del tutto il divario con il linguaggio musicale scelto per veicolarla.(6.6/10) Fabrizio Zampighi David Maranha - Antarctica (Roaratorio, Maggio 2010) G enere : drone - rock David Maranha torna al suo solo-project in cui unisce la fascinazione per il minimalismo e l’indubbio retroterra rock. Un po’ come succedeva per Marches Of The New World, di cui questo Antarctica è ideale prosecuzione, le lande toccate dal compositore portoghese sono quelle di confine tra i “generi” citati sopra: da un lato il minimalismo più rock-oriented che prende le mosse dal Dream Syndicate di LaMonte Young, passa per Terry Riley e arriva all’Outside The Dream Syndicate della premiata ditta Conrad/Faust; dall’altro l’insanabile amore per i Velvet più dilatati e trancey, tutti pelle, depravazioni e reiterazione. Ad accompagnare Maranha (a organo e violino) troviamo Riccardo Dillon Wanke alla chitarra elettrica, Joao Milagre e Stefano Pilia al basso, Patricia Machàs al tambourine e Afonso Simoes alla batteria. Dunque una grande band d’appoggio dalla notevole coesione e forza evocativa, per un suono reiterato che non si limita a disegnare nuovi paesaggi sonori nella coscienza alterata dell’ascoltatore, ma si offre corposo e ipnotico come non mai. Meritoria, in questo senso, la scelta del vinile: nelle facciate del disco le due suite untitled da 20 minuti l’una spalmano la catalessi sonora su un tempo in apparenza immoto, ma in cui le minime variazioni cromatiche sprigionano una agonizzante e monolitica versione dronerock dell’ottimo e screziato predecessore. Lande distanti, malinconicamente solitarie e gelide vengono evocate attraverso un ossessivo lavorio di cesello sui timbri di violino, organo e chitarre che pone Maranha ai vertici del genere per ricercatezza e risultati.(7.2/10) Stefano Pifferi dDamage - Aeroplanes (Ascetic, Aprile 2010) G enere : electrocros sover Al decimo disco, tra LP ed EP, i fratelli francesi Frederic e Jean-Baptiste Hanak appiccicano i soliti nomi di richiamo (Jon Spencer, Bomb The Bass, Mochipet; altrove erano MF Doom e Dose One) sulla loro poltiglia a base di electro rocciosa, hip hop commerciale, b-breaks e momenti più rilassati tra ambient e softechno, gettando anche uno sguardo tamarro su certa effettistica daftpunkiana. Brutto come la copertina.(4/10) Gabriele Marino Dead Meadow - Three Kings (Matador, Maggio 2010) G enere : H eavy psych Tempo di celebrazioni per il trio di Washington, dopo quel Old Growth che, spostando il loro heavy blues verso terreni psycho folk, ne ricalibrava le aspirazioni. Oggi si propongono come i figli prediletti della lunga genealogia stoner, tanto che potrebbero perfino aspirare ad essere l'act di maggior successo, se non fosse che a questi tre freak poco interessano le vaste platee. La loro è musica degli infiniti spazi e delle profonde introspezioni: i loro deliqui psichedelici partono da premesse terrene (la matrice sabbathiana è sempre presente), ma si aprono verso soluzioni free form o in lunghe jam che non perdono mai di vista la loro matrice umana, non tralasciano la melodia e la componente emotiva. Three Kings, lungi dall'essere un semplice live album, è un progetto che appartiene ad un'epoca in cui musica e immagine procedevano avvinghiate in una sorta di simbiosi. Il cd, infatti, è la colonna sonora di un vero e proprio film, che alterna suggestivo materiale video dal sapore mistico, a frammenti dal vivo: il risultato è quello di tracciare una volta per tutte le coordinate del dreaming landscape della band. Una sorta di manifesto, dunque, le cui aspirazioni non escludono la godibilità di un album estremamente pulito e potente nelle sue tracce live. I cinque nuovi brani testimoniano la crescita esponenziale del combo. Dal gruppo si stacca il singolo That Old Temple: sorta di War Pigs del terzo millennio, che fra stacchi jazzy e vagheggiamenti acid rock, concorre fin da ora al mio personale titolo di fuzz song dell'anno.(6.9/10) Diego Ballani 45 highlight Frank Bretschneider - EXP (Raster Noton DE, Maggio 2010) G enere : P ost -T echno Frank Bretschneider spartisce con snd, altro act di matrice techno di casa rastern-noton, la capacità di procedere in direzione dell'essenza del suono elettronico per sottrazione, o meglio sarebbe dire per via di progressive scarnificazioni - il termine non è casuale: è un processo caratterizzato da una violenza espressiva di fondo che lo rende davvero peculiare. Ma il co-fondatore dell'etichetta di Carsten Nicolai è dotato di maggiore inventiva rispetto al duo britannico Mark Fell/Mat Steel, maggior senso del ritmo, del movimento, più consapevolezza della struttura - diremmo, del dna - di quel suono e del suo farsi. E' anche più ambizioso, come mostra il nuovo lavoro EXP, poderoso esempio di gesamtkunwerk elettronica che si articola in un un album audio e un dvd contenente 18 minuti di visualizzazioni algoritmiche in formato .mov. La suddivisione in 35 brevi tracce è puramente convenzionale: ciò che qui si ascolta è l'incessante peregrinare di un unico segnale audio e delle sue esondazioni ritmiche, volumetriche, dinamiche (nel cd audio) e grafiche (nel dvd), realizzate secondo un procedimento che ricorderebbe molto da vicino le griglie autogenerantesi del Nicolai di Grid Index (libro-opera grafica di recente pubblicata da Gestalten) non fosse così fieramente improntato su principi stocastici. Le strade infinite di ritmo, volume, movimento, intensità e struttura sono scandagliate da Bretschneider con il piglio sistematico e l'acribia dello scienziato puro - ma con quella dose di spregiudicatezza che è dello scienziato sperimentale a là Albert Hofmann -, in ossequio al principio secondo cui "fine art should attain the abstract purity of music". Ciò che rende EXP un appuntamento al quale nessun ascoltatore curioso può sognare di sottrarsi. (7.4/10) Vincenzo Santarcangelo Dead Weather (The) - Sea Of Cowards (Warner Music Group, Maggio 2010) G enere : R ock Rispetto all'esordio Horehound, la differenza sta nel gioco di squadra. I Dead Weather, scemato l'effetto sorpresa della formazione (Jack White formalmente alla batteria) e nella formula (un hard-blues aperto al crossover, un taglio goth e post-modernista), si comportano come chi non ha bisogno di strafare per confermarsi. Sea Of Cowards pare registrato in poco tempo e con il menefreghismo necessario, gerarchizzando così - una volta per tutte - il progetto al numero tre nel cantiere ex White Stripes, ma anche conferendogli la scioltezza e l’inventiva necessarie. La maggiore presenza al canto di Jack (in due canzoni canta da solo, nelle altre duetta utilizzando call and response) è puramente casuale: Allison Mosshart guadagna sensualità e personalità in episodi come Gasoline e Jawbreaker, mentre l'uomo che fa veramente la differenza è Dean Ferita. Accanto a canonici riffoni primi 70 im46 partiti dal batterista, lo Stone Age infila effetti su effetti impiegando la chitarra a mo’ di synth e viceversa. L'apporto retro-modernista è, di fatto, l'incastro sottile che ne costruisce la cifra stilistica o se preferite il miglior sabotaggio al marchio di fabbrica White Stripes, presente e in alcuni casi pure ingombrante (No Horse). In questo contesto di regole autoimposte o accettate (alla fine dei conti è pur sempre un side project), scherzetti elettronici (Looking At The Invisibile Man) e cazzatine (I'm Mad) finiscono per acquisire una posizione “altra” rispetto al giochetto da rockstar compiaciute; piuttosto, tracciano un’alternativa ai consueti episodi dal taglio blues (Jawbreaker) e conferiscono al sophomore dinamica, varietà e un paio di momenti degni del miglior Jackie (Blue Blood Blues: formidabile gioco tra Sabbath e Zeppelin, effettistica e controcanti soul; The Difference Between Us: tensione sottotraccia e circolarità sintetiche che conducono a una coda d'esplosioni psych-blues). Rimane, è vero, un sapore di prodotto da supermercato dell'autenticità (o proprio di essa ci si prende affettuosamente gioco, il dibattito è aperto), eppure la contro- mossa è funzionale e l’album si gusta proprio in ragione dell’intesa tra i musicisti. A corrente alternata o congiuntamente blues-sintetica, Sea Of Cowards fa il suo dovere: arrivare dritto in pancia, e anche più giù.(7/10) Edoardo Bridda Digi G'Alessio - L'attentato ai mondiali (Signora Franca Records, Aprile 2010) G enere : uonchi banghra Una colonna sonora immaginaria per il nuovo disco di Cristiano Crisci. Il fiorentino importa le sonorità banghra nel suolo italico e inaugura una nuova stagione di elettronica contaminata per il Bel Paese. Se già con Uxo avevamo subodorato la possibilità di uno uonchi (scritto così perché de noantri’), con questo disco si capisce come gli impasti che vengono da M.I.A., Missill e tutte le ristampe pop della Sublime Frequencies non siano passati inosservati ai radar delle camerette di infiniti nerd. Di geekness si può decisamente parlare: il mood insiste su un tunnel strippato di tastierine cicciose (A pranzo dal nemico) e ricordi per maniaci di consolle a 8 bit (Wave Ya Mitrahs In Da Air). Ma il ragazzo fa di più, innesta un meticciato che spilucca sia dal Vicino Oriente (La Partenza) che dal Sud America e dalle colonne sonore di Morricone (L’attentato fallisce). In più c’è la mescolanza con le basi stictly hip-hop (L’ultimo giorno allo stadio) e darkstep infatuato di Supercar (L’invasione delle spie russe). Un modo di reinventare l’hip-hop - passando per tutto quello che sta succedendo ora - in uno streaming truzzo senza confini che sa il fatto suo e segna il nuovo corso (dopo il botto mainstream scoppiato con i Crookers) dell’indie italo-hop. La punta di un iceberg che (come ci ha confessato Cristiano via e-mail) segnala un’interessante e frastagliata realtà musicale italica. Licenziato su Creative Commons, L'attentato ai mondiali è il punto di partenza per l’esplorazione di un underground mutante in odore di next big thing. Stay tuned, folks!(7.3/10) Marco Braggion Dillinger Escape Plan (The) Option Paralysis (Season Of Mist, Marzo 2010) G enere : M ath C ore What did you expect? That we would never leave home? ... we can never get back what we choose to throw away. La maggior parte di ciò che è stato detto o scritto sui TDEP dall'epoca del secondo album, si è limitato ad un unica questione: la scelta di inserire elementi melodici in quel peculiare marasma sonico di ipertecnicismi prog/metal e rabbia punk che li ha resi, sin dall'esordio Calculating Infinity, nome imprescindibile per i nuovi HC kids, assieme ai vari Converge, Coalesce, Botch e Cave In. Da allora la critica si è polarizzata tra sostenitori e detrattori lasciando ben poco margine a giudizi di merito sugli album. Il sophomore Miss Machine, a parte l'effetto sorpresa di zuccherosi refrain, è in realtà poco più di un tentativo di ridefinire la formula dopo un massiccio cambio di line-up che vede la sostituzione del bassista Adam Doll con Liam Wilson e del cantante Dimitri Minakakis con Greg Pulciato. Formula che trova un migliore compimento nel successivo Ire Works dove le sfuriate math-core si sono bilanciate all'interno dei pezzi, ora propriamente canzoni con Pulciato ad alternare urla indemoniate e anatemi Power-Pop. Lungo il medesimo solco si colloca Option Paralysis, ancora in bilico tra tentazioni da classifica pop-rock e una sempre indomita furia hardcore, eppure con qualcosa fuori fuoco. Il tragico piano di Windower è decisamente sopra le righe, ed in altri episodi (I Wouldn't If You Didn't, Parasitic Twins) i ragazzi non riescono a ripetere la scrittura compatta che li caratterizzava in precedenza, anrzi forzando ancor più la convivenza tra le due anime. (6.4/10) Leonardo Amico Dirac - Phon (Valeot, Maggio 2010) G enere : drone post - rock I Dirac sono un trio viennese, qui al terzo disco, che a quanto afferma fa “musica da camera del 21esimo secolo”. Usano laptop e strumentazioni acustiche e a questo giro, ottengono un’unica suite di 42 minuti che come si legge nelle note di copertina è stata registrata in un’unica soluzione, sebbene ci sia anche l’indicazione “performer & arranged by Dirac 2007-2010”. I tre sembrerebbero quindi avere una percezione del tempo quanto meno singolare. Musicalmente, stiamo parlando di drone music dal risvolto post rock. Sembra di ascoltare le vecchie cavalcate, in lento e sistematico crescendo dei Godspeed You Black Emperor, ma non c’è la stessa emozione o la stesso piglio avventuroso.Tutto è previsto in precedenza. A partire dal diagramma della copertina che riporta le quattro parti in cui è idealmente suddiviso il brano, con relativo crescendo sonoro. Tutto troppo calcolato per emozionare.(5.5/10) Antonello Comunale 47 highlight Indian Jewelry - Totaled (We Are Free, Giugno 2010) G enere : psych - industrial Gli Indian Jewelry sono magistrali nel proporre un pot-pourri di questi anni. All’indomani dell’uscita di Free Gold, li avevamo già presi a esempio di una ondata psichedelica, poi altre band avevano dato vita al cosiddetto digital shoegaze (un'etichetta nostrana), e ci eravamo voltati a guardare di nuovo a loro da quella prospettiva. Oggi, Thrasher e Kerschen sono più digitali che mai, impredibili e auto-evidenti nelle citazioni più o meno volute e Totaled, il loro trip gotico, programmato e aderente certo vintage avant-synth inizio Ottanta (Cabaret Voltaire, primissimi Human League, D.F.A.), all'insegna di una psichedelia nera sempre più industriale. Vision, infatti, è versione ultra-downtempo di Heroes di David Bowie. Un potentissimo incedere Ottanta annegato nell’ultra-nero alla Royal Trux ancora alle prese con le droghe leggere. Trovano intersezioni uniche, gli Indian Jewelry e se il titolo dell'album sta tutto lì, i palesi riferimenti sonici sfumano dietro alla capacità di sfocare la profondità del campo acustico e nello sbilanciare il figurativo musicale dentro un bad trip tutto di cervello. E' da qui che nasce un'attitudine trasparente da un punto di vista armonico, di mestiere se vogliamo (come è evidente nelle tante drum machine e in particolare in Tono Bungay), furba e persino di moda nei circuiti lo-fi che oggi contano più che mai.Va però riconosciuto ai Jewelry il compimento di un percorso personale originato dall’esperienza NTX Electric e beatificato nel citato sophomore che oggi, su coordinate condivise, è comune a decine di altre band. Poche di loro riescono a condensare quanto interiorizzato (Ottanta/Duemila) e restituito con fragranza da brani quali Diamond Things, Never Been Better, Touching The Roof Of The Sun (sorta di All Tomorrows Parties per tastiere e fantasmi).(7.4/10) Gaspare Caliri Dirty Sweet - American Spiritual (Acetate, Giugno 2010) G enere : R ock Il nome bolaniano di questa band di San Diego potrebbe far pensare al glam, ma non è così: si tratta sì di nostalgici anni '70, ma di quelli dell'hard rock e dei live incendiari (a quanto dicono), benché non manchino sporcature della seconda parte del decennio che li portano su una rotta Zep/Black Crowes da nostalgici doc, con puntate dalle parti dei Fuzztones nell'opener Rest Sniper Rest ma anche dei Coral in You've Been Warned. In realtà il glam in qualche modo torna, ed è un po' il problema di questo secondo album: il quale conferma sì grinta, scioltezza e coesione, ma qua e là inclina pericolosamente verso vocalizzi propri del modo degenerato in cui quel genere è stato inteso nel metal-pop degli anni '80 (Crimson Cavalry). La scrittura poi non riscatta particolarmente il deja vu della formula e il pur innegabile piglio non può farlo più di tanto: per cui alla fine, a parte qualche eco Alice In Chains (vedi Kill Or Be Killed), la più interessante è pro48 prio la title track, uno spiritual notturno che riesce ad essere suggestivo pur sembrando semplicemente un Bon Jovi in buona forma. Gli amanti del genere ci troveranno tutto il "rock" che vogliono.(6.1/10) Giulio Pasquali Disappears - Lux (Kranky, Maggio 2010) G enere : hard - psych Inspessisce il proprio suono la Kranky, pubblicando l'esordio dei Disappears. Il combo chicagoano, con dentro ex membri di Ponys e 90 Day Men, si muove infatti su coordinate piuttosto distanti da quelle care all'estetica della label della windy town. Il perché di questa insolita scelta è presto detto: Lux era infatti destinato alla Touch'n'Go, etichetta più incline a strutture sonore corpose e grasse, ma purtroppo il recente ridimensionamento della storica label noise-rock ha comportato prima lo stallo dell'album, poi il recupero da parte della Kranky. Il suono del quartetto, si sarà capito, è bello possente e distorto, krauto e cosmico nelle accezioni più rovinose e generiche dei termini, incline a veleggiare su spazi aperti tramite ripetizioni strumentali ossessive, ritmiche quadrate e reiterate allo sfinimento, voci catacombali e una sensibilità oscura che spesso se non sempre ammanta i brevi pezzi di una coltre dark piuttosto evidente. Sullo sfondo i Can del primo periodo, ma disidratati; a distanza ma non troppo Spacemen 3 e Loop, tanto per fare nomi di pietre miliari del genere; in primo piano, tanto per rimanere alla contemporaneità, Warlocks ridotti all'osso e Wooden Shjips, in particolare nella versione ultra-minimal Moon Duo: questi i possibili referenti del suono Disappears. Ideali per orientare chi legge e per collocare una proposta che seppur di genere mostra accattivanti soluzioni e un briciolo di originalità che non fa mai male.(7/10) Stefano Pifferi DM Stith - Heavy Ghost Appendices (Asthmatic Kitty Records, Maggio 2010) G enere : pop lunare Heavy Ghost Appendices è un doppio CD retto sul tentativo evidente di massimizzare il profitto del meritevolissimo Heavy Ghost. DM Stith chiama compagni a raccolta e si impegna in svariate cover generalmente piuttosto riuscite, ma la domanda rimane sempre una: dietro a un tanto massivo dispiego di forze cosa resta? Rimane senz’altro la firma di David, nonostante meticciamenti (in levare nel caso di Pigs con la Jefferson Street Band), fino all’osso (di cui ringraziamo) messo in bella mostra nella versione demo di Thanksgiving Moon per voce di David, chitarra, piano, statura di cantautore indiscutibile. In Suzanne, poi, cover di Randy Newman, l’ennesimo riproporre di cori lontani quali ululati poi messi in loop delicati non va a noia ma anima un’essenzialità personale e convincente. Avanza forse qualcosa, una volta ascoltato tutto il disco A (presente anche la demo di BMB, nuovo singolo di DM), quando si snocciolano le tracce del disco B, quasi tutti remix. Rischio ipertrofia. Peccato perdonabile.(6/10) Gaspare Caliri Dr. Dog - Shame, Shame (ANTI-, Aprile 2010) G enere : pop rock Arrivati al sesto album (e qualche EP), i Dr Dog di Phidadelphia hanno un sound codificato e riconoscibile, che fa del rimescolamento della tradizione americana (e non solo) il punto di forza. Riferimenti (The Band, Byrds, Bob Dylan, ma anche Beatles lato Macca), armonie vocali e melodie restano anche in quest'ultimo lavoro gli elementi fondandi, questa volta espressi magari con maggiore irruenza e spontaneità ("Volevamo creare un clima prettamente live", hanno dichiarato), eppure una certa fiacchezza complessiva è il dato che emerge fin da subito ascoltando Shame Shame. Rispetto al precedente sforzo, è proprio la grana del suono a mostrare la corda: cose già sentite e cristallizzate, cliché certamente piacevoli ma tutto sommato non utili, gabbie del mestiere in cui i Dr Dog, come tanti altri, sono finiti.(5.5/10) Teresa Greco Dreadzone - Eye On The Horizon (Dubwiser, Aprile 2010) G enere : poprock / reggae Insalvabile.(3/10) Gabriele Marino Drums (The) - The Drums (Island, Giugno 2010) G enere : E ighties pop Con quella formula eighties a base degli intramontabili da cameretta quali Cure, New Order ma soprattutto Smiths e i loro adorati The Wake, gli innesti surf (ma anche girl group) e una gaiezza dichirata senza residui di antagonismo, i The Drums alle soglie del debutto sono, non solo l'indie act più chiacchierato dalla blogosfera da almeno un anno, ma a giudicare dal numero di date sold out infilate dal quartetto da febbraio a questa parte, i salvatori del pop britannico tout court. Chissà che faccia avranno fatto lo stesso Moz, Mike Joyce e Andy Rourke sentendo il singolo killer Let's Go Surfing (l'insuperata gemma pop), o la freschezza imbattibile di Best Friend (la più smithsiana del lotto) in una delle tre date londinesi alle quali hanno assistito. Date letteralmente sbancate dai ragazzi americani che si sono portati a casa uno dei premi di NME (il Philip Hall Radar Award) impennando ancor più l'hpye già satollo di aspettative per l'esordio. Risultato? Alcune tracce edite in The Drums (autoprodotto) e Summertime (secondo eppì uscito per Moshi Moshi) anticipavano un botto che la manciata d'inediti veri e propri non innescherà del tutto. Brani come Me And The Moon (sapori Factory al synth e l'oramai riconoscibile branding surf) e It Will All End In Tears (più accorata 49 e sintetica) funzionano a dovere ma a partire da un'ordinaria Book Of Stories il refrain surf si fa un po' ripetitivo e i testi non all'altezza degli episodi migliori. Mancando un equivalente di Marr, quando tutto si basa sull'hook melodico, scadere nel riempitivo è facilissimo (Skippin' Town e I Need Fun In My Life che finiscono irrimediabilmente per suonare come dei remix delle celebri Let's Go Surfing e Best Friend) e se la qualità altalenante potrebbe essere un paragone sensato con gli zii Smiths, sbagliare un singolo è un errore difficilmente perdonabile. Forever and Ever Amen, il nuovo 45'' del duo/quartetto infatti, non sembra godere dei numeri degli hit maggiori, o di alcuni episodi più interessanti del disco che rimangono comunque quelli più pacati.(6.7/10) Edoardo Bridda Drunken Butterfly - L'ultima risata (Irma Group, Aprile 2010) G enere : post rock Sarà forse il format che influenza il prodotto finale. Fatto sta che la tendenza a scrivere colonne sonore per film muti che sembra aver preso piede ultimamente in certi ambienti indipendenti, produce risultati a dir poco sorprendenti. Pensiamo al commento de Il Fuoco (1915) di Giovanni Pastrone ad opera dei Giardini di Miro', alla sonorizzazione de La caduta della Casa Usher (1928) di Jean Epstein proposta dal vivo dai Massimo Volume o a questi Drunken Butterfly, impegnati a musicare L'ultima risata (1929) di W. F. Murnau. Si tratta di ispirazione, è evidente. Far collidere immagini e musica in uno specchiarsi reciproco che vive di spazi vuoti e rimandi, in un percorso radicato nei temi proposti dai fotogrammi ma al tempo stesso libero di spaziare tra i livelli interpretativi che l'assenza di sonoro originale lascia in sospeso. Terreno fertile e concreto binario per quel post-rock immaginifico che ritroviamo nel DNA di tutte e tre le formazioni citate. Il gruppo marchigiano se la cava egregiamente, affidandosi a una girandola di riferimenti che cita i Sigur Rós (Ritorno a casa), si adagia su un'elettronica minimale (Il furto), riprende certe ruvidezze elettriche à la Mogwai (La vergogna) tra pianoforti e chitarre elettriche, laptop e parti vocali abbozzate. Il tutto in brani da tre minuti e mezzo di durata media che lasciano intendere una volontà comunicativa lontana dalle perifrasi autocelebrative, sostenuta da arrangiamenti ben calibrati, valorizzata da sprazzi di 50 creatività originali. Come in quella Etere in cui si colgono rimandi pinkfloydiani confusi tra le spire di un sintetizzatore à la Walter Carlos o in una title track che riprende i Radiohead di Ok Computer parafrasandoli. Da leggersi in maniera autonoma, questo quarto disco dei Drunken Butterfly. Parto riuscito di una formazione che riesce a unire semplicità, intensità e accuratezza in una sola soluzione evitando di impantanarsi nelle sabbie mobili della routine.(7.2/10) Fabrizio Zampighi Ed Harcourt - Lustre (Piano Wolf, Giugno 2010) G enere : P ower F olk “Lustre from the ruby red blood on my hands when you pull out all the thorns", oppure “Lustre when the dream is dead”. Lustre è costellato di sogni che non fanno neanche in tempo a trasformarsi in incubi, di contrasti. Quello del testo della title-track e il suo incedere angelico ad esempio, un “gioco” che si ripete un po’ per tutta la scaletta. Ed fa ormai parte dello squadrone di cantautori/loser che han indovinato il primo disco e poi, vuoi per carenze artistiche, vuoi per pura sfiga, non han visto la loro stella sorgere davvero. Peccato, perché di classe Ed ne aveva e con Lustre dimostra ancora di averne. La cifra stilistica ruota ancora attorno ad un cantautorato folk ricolmo di inflessioni soulful e pop sinfonico; al crocicchio tra Phil Ochs, Rufus Wainwright e Joseph Arthur insomma. Punte di diamante, la demoniaca (e pare quasi sia di Tom Waits di cui Ed è fan esagitato) Heart Of A Wolf, il soave dolore al calor bianco di Lachrymosity, il pestare catchy della scoppiettante A Secret Society. E non badate troppo alla copertina, un filo troppo kitch.(7/10) Giampaolo Cristofaro Eri Yamamoto Trio - In Each Day, Something Good (Aum Fidelity, Aprile 2010) G enere : modern jazz La pianista giapponese - ormai newyorkese d'adozione - Eri Yamamoto è giustamente famosa e apprezzata, per le sue collaborazioni (con William Parker ed Hamid Drake, ad esempio) e per gli album confezionati in una decade col suo trio. Siamo già al sesto album con questo In Each Day, Something Good, raccolta di pezzi originali alcuni dei quali composti per la sonorizazione di un film del 1932 di Yasujiro Ozu (Io sono nato ma...). Il tocco di Eri è elegante, indaga con inesorabile intelligenza nell'ordito armonico e ritmico (David Ambrosio al contrabbasso e Ikuo Takeuchi alla batteria sono più che semplici comprimari), lasciando intuire arguzie oblique Monk (l'opening track Attraction Of the Moon, Every Day) che presto stemperano in un intimismo atmosferico non privo d'inquietudini E.S.T. (Let's Eat, Then Everything Will Be Ok) o smanie blues più o meno riconducibili ai guizzi d'un giovane Keith Jarrett (Sheep Song, A Little Suspicious). Disco più godibile che coraggioso, attento a definirsi una contemporaneità compatibile coi dettami della tradizione.(6.8/10) Stefano Solventi Ethan Rose/Laura Gibson - Bridge carols (Baskaru, Aprile 2010) G enere : B oreal -G litch Casomai si sentisse bisogno di primavera, Ethan Rose e Laura Gibson, nel loro strano connubio stagionale, risponderanno all'appello dell'equinozio con foscotinte a cavallo di una pioggia infinita e di un montante sole dell'avvenire. Alla maniera del puntillismo, dipingono macchie boreali di post-glitch e colori australi di folk cameristico con la disinvoltura di materiali dal carattere passeggero ma incisivo, posti tra due bordi liminari e similmente flessi alla ricerca di una terza via d'incontro. Questa via la si potrebbe identificare in un folk scheletrico dal raro ingegno narrativo, e da un'elettronica attratta, tanto dal texture-glitch quanto dall'uso straniante di vecchi mezzi analogici. Lo dice Boris Borealis, reduce delle spiaggie fennesziane dei granulosi ossimori metafisici, così come il monologo costante della voce della Gibson, ogni tanto attraversata da qualche accordo timido come le basi di synth che attraversano la breve durata di un disco utopico quanto reale e sincero. Lo dice a più alta voce, la distesa armonia vocale di Introduction, fatta di angeliche percorrenze e moduli sonori ambient-paradisiaci. Tuttavia Bridge Carols soffre di un certo ordinariato strutturale: le figure sonore che si succedono quasi mai convivono di quella complessità tipica di un disco i cui pattern sono spesso isolati e parchi, senza sfondare mai il quadro complessivo. Tele pittate appena, la cui semplicità talvolta si nutre di un minimo segno bozzettistico, che non diventa mai contorno né calco. A comprometterne la portata una qualche uniformità d'arrangiamenti. Buono ma non imprescindibile.(6.8/10) Salvatore Borrelli Faithless - The Dance (Nate's Tunes, Maggio 2010) G enere : disco UK Assieme al ritorno in gran spolvero dei Chemical Brothers, annunciati più tech che mai, riecco un altro combo che è montato sul cavallone dance UK anni '90 sapendo abilmente miscelare tutti i contorni e dintorni del caso (trip hop, ragga, soul, funk ecc.). Maxi Jaxx - MC d’annata - alle vocals , Sister Bliss - DJ e ritmo - e Rollo - ombra e producer - ancora una volta rivangano le primigenie istanze del club, richiamando, come da prassi dei grandi ritorni, una mezza dozzina di ospiti illustri oltre a amici tra i quali sorella Dido (di Rollo, sì), Dougy Mandagi dei Temper Trap, Jonny 'Itch' Fox dei King Blues. La proposta si colloca su un tapis roulant che nelle vene ha la tamarraggine di Guetta e Tiesto mescolata a un gusto per il rave da stadio ereditato dai coetanei chimici Underworld (Sun To Me) e Orbital (pure loro in giro quest'estate). Il ricordo trippy nella sola voce di Maxi, al solito memore di Diagable Planets e Massive Attack (Not Going Home, Scandalous) fa un po' zio; del resto dopo quindici anni di carriera, i Faithless sono una SPA con cachet da paura e quello che fanno è capitalizzare un mondo sonico che già al tempo del loro esordio era prepotentemente cristallizzato. Di differente, c'è che quel zompare dentro e fuori dai club si è fatto calcolo, mentre prima sprigionava libertà d'azione (Reverence funziona meglio ora che allora). Not Going Home, singolo già da un paio di mesi in giro per i piatti d'Inghilterra, riporta i ragazzi di Trainspotting spalla a spalla con i neroni slack. Un ascolto facile facile come i ricordi bleep di Feel Me o la manciata di trance (Coming Around) e old skool assortita (Tweak Your Nipple) a seguire. Meglio sentirli in veste reggae (Crazy Bal'Heads) o raggamuffin (Fling Hi), ma poi nel circo ti devi sorbire tutta la new age della seconda parte (Love Is My Condition e Feeling Good con una pallosa Dido), altri riempitivi buonisti da quarantenne in remember "pasta" (North Star con ancora Dido...) e assenzi veramente duri da ingoiare (Sun To Me). Misuratevi l'appetito con il menù completo prima d'acquistare, oppure andatevi a sballare ai loro show, senz'altro più meritevoli.(5.5/10) Marco Braggion, Edoardo Bridda Films - Messenger (Noble, Maggio 2010) G enere : ethereal cl as sic Non è il più semplice dei territori quello che hanno scelto i Films per muovere i loro primi passi. L’enigmatico 51 duo giapponese, dal nome cinematografico e dal piglio fantasy, è in apparenza, ad un ascolto distratto e frettoloso, l’ennesimo riflusso di certa scuola post-rock mieloso islandese che ha preso tutto il peggio dai Mùm e dai Sigur Rós e l’ha riproposto enne volte da un decennio a questa parte. In realtà i Films, pur muovendo dall’esempio degli illustri predecessori d’Islanda, trovano una propria via personale all’etereo, in un modo che ricorda un po’ tutti e un po’ nessuno. C’è sicuramente molto della scuola dream pop anni ’80, Bel Canto su tutti, così come l’uso contemporaneo di elettronica minimal glitch e gli inserti neo classici vanno evidentemente a fare i conti proprio con i Sigur Ros e con un neppure tanto vago sentore di classica contemporanea. Sono diversi i momenti in cui fanno pensare a certi passaggi delle colonne sonore di Joe Hisaishi per esempio. Sono i momenti più classici, dove uniscono al meglio arrangiamenti ricchi e dettagliati a base di piano, viola, violino e cello. Messenger dovrebbe ruotare intorno ad una fiaba immaginaria, e altro non è dato sapere, vista la difficoltà di decifrare un canto quanto mai perso nei riverberi e negli echi de missaggio. Detto questo, la magia assoluta di momenti semplici eppure emozionanti come le frasi di piano di Water Horse, la nenia smaccatamente infantile di Liz & Lilly, il cullare agrodolce di Little Forest o i cori celestiali di I'm Sleeping Under The Dead Tree (che reggono facilmente il paragone con quelli del primo disco dei Silver Mt. Zion), riescono a riconciliare con un genere, di questi tempi, afflitto come non mai, dalla serie B.(7/10) Antonello Comunale solidato per proposte del genere, una nicchia consistente pasturata dai canali televisivi e radiofonici dedicati proprio all'indie major (la Brand New di MTV, le occhiute radio libere britanniche...). A differenza di quanto accadeva un decennio fa, la ricerca del successo non significa necessariamente prendere spunto dal rock alternativo per sviluppare un linguaggio mainstream (come fecero, ad esempio, i Muse ed i Coldplay). Oggi una band arguta e adeguatamente preparata tipo i Friendly Fires o - appunto - i Foals, può permettersi di fare la propria cosa restando sostanzialmente fedele ai propri riferimenti musicali (e - perché no? - culturali), perché sa di poter comunque contare su una fetta della torta. Il problema è che non sempre questi preziosismi semantici sono l'abito di un quid forte, espressivamente ben caratterizzato e potentemente contestualizzato. Intendiamoci, i Foals sono abili: pezzi come After Glow, la titile track, 2 Trees ed il singolo Spanish Sahara sono ambrosia per i timpani del tipico rockettaro sognatore. Ma non riescono a coinvolgere fino in fondo, la magia non scatta e i pur volenterosi marchingegni sonori non riescono a celare la loro natura di manufatto. Con le potenzialità emotive di un libretto delle istruzioni per l'assemblaggio.(5.9/10) Stefano Solventi Foals - Total Life Forever (Transgressive, Maggio 2010) G enere : rock pop wave Fol Chen - Part II: The New December (Asthmatic Kitty Records, Giugno 2010) G enere : elettropop I Foals sono un'altra band da Oxford. Esordirono due anni orsono con Antidote, album che guadagnò loro un più che discreto hype, in ragione del quale il qui presente sophomore Total Life Forever acquista i tipici connotati del banco di prova. Che superano in forza di una calligrafia tanto complessa quanto gradevole, all'insegna di un'enfasi ad ampio spettro ma allo stesso tempo fragrante. Tuttavia, non riescono a convincermi. Ad avvincermi. Il loro è un iper-pop che impasta benissimo riferimenti e reminiscenze "nobili" - i Talking Heads già etnofunk, olografie Brian Eno e Japan, persino particelle di traiettorie matematiche June Of '44 - con i tòpoi da mainstream alternativo definiti negli ultimi anni grazie a band tipo Manic Street Preachers, Elbow e sia pure Radiohead. Tutto ciò sembra accadere in forza di una consapevolezza tenace, che esista cioè un pubblico con- I Fol Chen operano dentro a un universo abbastanza limitato, quello dell’elettropop che più occhieggia all’indie e alla vecchia folktronica. È questo il limite e punto di forza insieme. I losangelini ricercano in quel mondo - e in maniera ostentata - uno spazio proprio, basato sulla capacità produttiva di incastri, sullo studio approfondito di quello che è successo negli ultimi anni, sul versante pop e anche nell’impero della percussione. I risultati interessanti ci sono, vedi Men, Beasts Or Houses, sorta di folktronica per Akron/Family agli esordi, e facendo zoom out il ritmo spezzettato di gran parte dei brani (C/U), che in qualche modo fanno tesoro di alcune scelte con mirino Ottanta e fucile ’00. Non sempre l'aritmia percussiva dà giovamento alla band - testimone Adeline (You Always Look So Bored), con composizione che rimanda un po’ a Brian Eno ma struttura melodica e 52 armonica che lascia a desiderare, con un refrain che rovina tutto. The New December è una profluvio di steel per una quasi cover dei Pink Floyd, che richiama anche Camofleur dei Gastr Del Sol. Anche qui apprezziamo dei Fol Chen l’inserto certosino di piccole elettroniche ritmiche, specie nell’atmosfera floydiana della traccia finale, che scorre senza fretta verso il termine. In effetti i pezzi lenti riescono meglio ai Chen, eppure, se dovessimo esprimere il sapore che resta in bocca, tutto torna all’operazione chirurgica: riprendere la folktronica e darle un sapore elettropop, continuando a oscillare tra queste due mode. Del resto, e tornando all’inizio, nell’elettropop difficilmente escono dischi memorabili, che dall’inizio alla fine possono essere considerati dei capolavori. Ci sono però opere che poi si tende a citare - come è successo per Blow, che di certo con Paper Television non avevano licenziato un disco sconvolgente, e ciononostante tutti lo citammo e lo ri-citiamo. Sarà forse lo stesso per Part II: The New December di Fol Chen.(6.5/10) Gaspare Caliri Food - Quiet Inlet (ECM, Aprile 2010) G enere : G litch J azz Il sassofonista inglese Iain Ballamy e il percussionista norvegese Thomas Strønen ripensano il loro gruppo Food e chiamano (dopo la dipartita del trombettista Arve Henriksen e del bassista Mats Eilertsen nel 2004) due nomi culto nei rispettivi ambiti: Nils Petter Molvær per il tech-disco-jazz e Christian Fennesz per i drone in distorsione chitarristica. Dopo aver pubblicato - tra gli altri - due album su Rune Grammofon, la nuova fatica del combo sale sul podio della puntigliosa etichetta/culto tedesca, rivelando connessioni con il Miles Davis più elettronico, con la mistica di Jan Garbarek e con le derive ambient di un certo dubstep contemporaneo di qualità (vedi alla voce Scuba). Il risultato sovrappone mondi che confluiscono in una feconda idea di nu-jazz per gli anni zero, con gli stupendi echi chitarristici in sordina di Fennesz (Tobiko, Mictyris e Fathom) e con la sempreverde classe trombettistica di Molvær. Un supergruppo da tener d'occhio, soprattutto per i non addetti ai lavori.(7.1/10) Marco Braggion Fuh - Dancing Judas (Escape From Today, Aprile 2010) G enere : grunge - noise - rock Extinct ce li aveva introdotti, Dancing Judas ce li mostra nella prima, piena realizzazione matura. Ennesima punta di diamante del cuneese rumoroso, esattamente a metà strada tra Washington e San Diego, i Fuh giungono all’esordio ufficiale per cui sembrano aver tenuto da parte le frecce migliori del loro arco. Se di base il sostrato è grunge, vedi l’innata capacità di mischiare melodia e rumore, i quattro svicolano sinceri e spavaldi tra generi e sottogeneri, sperimentando nuove vie di fuga tramite l’innesto dell’eredità più sperimentale dell’indie-rock dei secondi ’90, di un background fatto di ascolti d’ambito post-hc e di una certa passione per strutture mobili e intricate d’ascendenza math-. I quattro però, tra spigoli, curve a gomito, variazioni di tempi e luoghi, compongono canzoni. Non necessariamente lineari e legate agli stilemi della forma-canzone, ma pur sempre canzoni: melodiche, accattivanti, intelligibili nonostante le dinamiche interne non siano mai scontate e gli sviluppi dei pezzi possano portare in direzioni inusitate. Notevole l’estenuante lavorio sul particolare che rende ogni pezzo perfettamente equilibrato e affascinante per i mille rivoli sonici che scaturiscono dal corpo principale. Disco dalle sonorità retrò senza però mai risultare datato o tanto meno stantio, Dancing Judas è in definitiva un ottimo disco che farà la gioia di chi è cresciuto nel marasma indie dei nineties. Per chi invece di quei tempi ha solo una conoscenza indiretta, non c'è miglior biglietto da visita.(7.1/10) Stefano Pifferi General Elektriks - Good City For Dreamers (Audio Kitchen, Maggio 2010) G enere : funkpop Per parlare dei General Elektriks del francese Hervé Salters è necessario parlare del mondo di appartenenza, che è il mainstream. Lì sono ambientate le vicende di Good City For Dreamers, nei luoghi dei vari Cake, Jamiroquai, e altri personaggi così distanti l’uno dall’altro. Abbiamo scelto questi due nomi perché ai primi si accostano per fruibilità, al secondo per almeno due motivi: da un lato per un’aura di presunta creatività, dall’altro per riferimenti nella musica funk e in quella nera sbiancata. Nelle radio commerciali si parlerebbe (si parlerà?), a proposito di Salters, di creatività, eccentricità, se non altro per il potenziale di dare un po’ di vitalità a un mondo completamente morto. D’altra parte Good City fa in 53 highlight Greie Gut Fraktion - Baustelle (Monika Enterprise DE, Maggio 2010) G enere : elettro industrial James Holden - Dj Kicks (!K7, Giugno 2010) G enere : kraut , trance Lo scorso inverno James Holden al Kindergarden di Bologna si è presentato per quel grande DJ e producer che tutti dovrebbero conoscere e andarsi a cercare. Lui è un ragazzo che crede ancora che nei Club si possa esprimere della creatività e che far girare i dischi non sia solo un sincronizzare BPM. Holden è inoltre la mente creativa dietro alla svolta dance dell’amico e compagno di set Four Tet, oltre che il boss di quella Border Community, una piccola label che tre anni fa aveva fatto gridare a un nuovo rinascimento dance londinese senza più confini tra Londra e Berlino (Apparat, Ellen Allien), il passato e il presente di un’elettronica onirica da ballare. Non è un caso se quelli della !K7 l’abbiano voluto nella doppia uscita estiva della serie assieme ad un altro grande innovatore della scena brit 00 che è Kode 9 (a fine giugno), altro label manager (per Hyperdub) rispetto al quale James rappresenta un possibile contraltare bianco e spirituale, specializzato in crescendo calibrati che guardano al kraut rock e alla trance. Come una zona di decompressione dopo Club, il Kicks diventa un unico trip di stranianti groove coltivati con rigore e una conduzione quasi liturgica, un risultato affascinante soprattutto per questo frangiflutti di suoni arenati nell'alba dell'after party. Pure quando si tratta di mettere i pezzi di Caribou, Kieran Hebden (con Steve Reid), Piano Magic e persino Mogwai (in un remix dello stesso James), James fa comunque risaltare la polpa del soundo, un fiorire di beat che si avvicinano e allontanano trovando il perfetto bliss. L’estasi del ballo e della mente.(7.2/10) Edoardo Bridda modo che l’ascoltatore mantenga una sufficiente attenzione per cogliere la minuzia di particolari, nonché qualche buona idea di arrangiamento. È pressoché assente l’elemento perturbante, che, lo si ammetta o meno, ci fa sempre piacere. Ne è immune Helicopter, l’episodio “rumoroso” dell’album, popolato di folletti cyborg da film disney - traccia che rappresenta un po’ lo specchio dei limiti del disco. Più interessante, piuttosto, lo scazzo mieloso e un po’ melò di Cottons Of Inertia, che sviluppa sospiri in scale blu con finale di piatti assordanti a sorpresa. Per il resto, dettagli sciorinati con gran serenità.(6/10) Gaspare Caliri Granturismo - Il tempo di una danza (Live Global, Marzo 2010) G enere : funk - beat - pop Forse così suonerebbero oggi dei Baustelle più solari e non in fregola spectoriana. Veracemente beat e litoranei. Funky in cromatismi lucenti e un filino ormonali. Con lo stesso gusto per le storie d'amore e morte, ma con più leggerezza e ironia. Questi i Granturismo, alias Claudio Cavallaro e Vincenzo Vernocchi. Il primo, autore di tutti i brani eccetto uno, voce calda e adriatica. Il secondo 54 chitarre che scelgono a campione fra quattro decenni di elettricità da balera, ossia rockabilly, funk, beat, surf. Tutti mescolati in soluzioni pop spesso manualistiche tuttavia efficaci. Gospel in giugno apre su respiri soul non del tutto liberati; Rivedere lei e Addio tristi lunedì raccontano di eros e thanatos su paradigmi latin-rock che abborderebbero Tarantino e con le stesse liriche di un Bianconi primo tipo anche se meno patologico. E poi le loungerie leggere di una ballad soffusa come Prendo fiato, i Carnifull Trio smaltati della title-track, le giocosità Beatles dei fiati di La tua casa è dove sei felice e ancora il beat puro e corposo di E il tempo va. Ci sanno fare i Granturismo e qualche decennio fa avrebbero potuto scrivere per gente tipo Celentano o Johnny Hallyday. Peccato che a lungo andare si abbia l'impressione che su queste traiettorie ci sia ben poco da far evolvere. Comunque sia, per chi vuole prepararsi all'estate, ecco un efficace rimedio ai tormentoni a parte spegnere la radio e affogarla nel gin tonic.(6.7/10) Luca Barachetti Le foto che accompagnano la pubblicazione di questo disco dicono già tutto. Si vedono Antye Greie ovvero AGF e Gudrun Gut, che indossano entrambe un elmetto da muratori, in un paesaggio desertico e pietroso. La collaborazione tra le due signore dell’elettronica tedesca nasce sotto il segno della costruzione di nuove prospettive, ovvero “un posto di progresso,” nella nuova Germania del compromesso Merkel. Che i presupposti siano programmatici e per niente lasciati al caso lo indicano tanti elementi. In primis la provenienza delle due:AGF rappresenta la Germania dell’Est, Gudrun Gut quella dell’ovest; il titolo Baustelle, che sta per “sito in costruzione” e le due che hanno già portato il disco dal vivo, con tanto di scenografia corredata di nastri da operai edili. Che il pensiero, partendo da queste premesse, arrivi subito agli Einsturzende Neubauten, è quasi ovvio e la presenza di Gudrun Gut non fa che alimentare la speculazione a riguardo, ma la musica di Baustelle, pur con tutte le sue evidenti inflessioni industriali, non è direttamente paragonabile a quella della band di Blixa Bargeld. Di fatto, la somma delle parti è una sintesi sufficiente per brani così calati in una gradazione dub, da somigliare a tratti molto agli Scorn. Il resto ce lo mettono i campionamenti di trapani, legni, seghe, viti e bulloni che sono stati al centro delle registrazioni sul campo (ovvero veri cantieri in costruzione) dove AGF e Gudrun Gut si sono aggirati per un certo periodo di tempo, nel tentativo di assorbirne l’umore di fondo (oltre che le fonti sonore). L’iniziale Cutting Trees vale per tutto il lavoro, nel suo magistrale uso di campionamenti e voci filtrate, ma il pendolo può facilmente pendere per una (AGF) o per l’altra (Gudrun Gut), a seconda che si propenda per frangenti più in odore di minimal techno, come Wir Bauen Eine Neue Stadt o We Matter, o per le geometrie più arty e diagonali di sculture sonore dalle forme inedite come Baustein o China Memories. Il risultato è seducente e severo al tempo stesso. Le due dominatrix elettroniche non lesinano nemmeno in fatto di erotismo (“Un uomo in piena fioritura / le sue gambe spalancate”). Un disco definibile con una parola sola: tedesco.(7.3/10) Antonello Comunale Guido Maria Grillo - Guido Maria Grillo (AM Productions, Maggio 2010) G enere : chamber - pop Per Guido Maria Grillo il rischio principale è quello di disperdere capacità enormi in una rete di riferimenti entro i quali è difficile ritagliarsi uno spazio autonomo. Il chamber-pop asciugato negli arrangiamenti di questo esordio guarda infatti alla magniloquenza dolorante di un Rufus Wainwright, dove le lacrime però si trasformano in pulviscoli di luce più che in stinti lustrini. Così il pianoforte si circonda di reverse mesmerici come dei Radiohead da camera o di voci sinistre e dalla grana ectoplasmatica - in pratica uno Scott Walker guardato a rispettosa distanza. Il resto lo fanno i toni spesso teatralizzati e una voce che in zona Jeff Buckley risulta potente e impalpabile. Servirebbe insomma uno scatto di reni, qualche trovata da cappellaio magico alla Alessandro Grazian, o la forza sublime e onnicomprensiva di un Antony in italiano. Perché, a parte le evidenti derivazioni, un lavoro cantato, arrangiato e suonato (praticamente in solitario) così bene non capita di ascoltarlo spesso. Ancor di più se le canzoni non sono pose di virtuosismo ma concentrati di vibrazioni che dei nomi sopracitati condividono lo stesso fuoco.(6.5/10) Luca Barachetti Hacienda (The) - Big Red & Barbacoa (Alive Naturalsound Records, Maggio 2010) G enere : sixties sound Piccoli “chicanos” innamorati dei Sessanta crescono. Avevamo lasciato gli Hacienda a un’esordio esemplare, nel senso che delle opere prime possedeva la voglia di dire mentre mostrava il lavoro da fare e sulla scrittura in primis. Fa dunque piacere ritrovarli un anno e mezzo dopo maturati nell’approccio e tuttora convinti che non sia uscito nulla di davvero rilevante dopo il 1966. Piace, la loro rivisitazione garagista della solarità melodica dei Beach Boys (Younger Days, Hound Dog), e lo stesso dicasi per i gradevoli quadretti di taglio “roots” e fifties e gli omaggi plateali al Sir Douglas Quintet. E’ soprattutto in questi ultimi, e nella produzione studiata al millimetro per proporsi - controsenso oggi forse inevitabile - ruvida e spontanea, che risalta il ruolo del Dan Auerbach confermato alla regia. Mossa assennata per una competenza in materia che è fuori discussione e della sagacia nel pilotare i ragazzi verso il traguardo, per quanto il fiato corto non sia scomparso del tutto (ecco un riempitivo strumentale qui e un brano col pilota automati55 co là, alcune tortuosità compositive e la penna discontinua). Sono nondimeno episodi belli e sinceramente artigianali come il Phil Spector livido di You’re My Girl, la giostrina malinconica in abiti da valzer Got To Get Back Home, una bizzarra ma timida Prisoner a indicare potenzialità di vaglia. Sapranno spiccare il balzo, al prossimo giro?(6.9/10) Giancarlo Turra Half Seas Over - Half Seas Over (Brownswood, Maggio 2010) G enere : jazz folk Non è detto che un'occasione perduta lo sia del tutto. Prendi questo omonimo esordio degli Half Seas Over: uno è il cantautore alt-country Adam McBride-Smith, l'altro è Elan Mehler, apprezzato pianista e compositore jazz. Si sono incontrati in quel di Brooklyn, è scattata l'intesa e la pazza idea di partorire un combo col chiaro intento di trovare minimi comun denominatori tra due calligrafie apparentemente così lontane. Idea stuzzicante. Il risultato però è un mezzo fallimento, perché il timbro buonista - come un nipotino di James Taylor - di McBride non sviluppa una vera sinergia con la complessa eleganza delle trame di Mehler, mentre quando il pianista aggiusta le coordinate verso la folk ballad finisce per sembrare una guarnizione di lusso (ai limiti del pretenzioso) o poco più. I due insomma si annusano, si tollerano, si sfiorano senza sviluppare l'empatia necessaria. Però, come dicevamo, non tutto è da buttare. Anzi. Se non azzeccano una reale profondità, pezzi come Evensong, The New Breed e Into The Night sviluppano una leggerezza ammaliante, sono veri e propri bassorilievi in bilico tra swing, blues e folk. Con l'additivo di caligini europee, umori black e pensoso lirismo modern-jazz, gli Half Seas Over ipotizzano una formula pop ibrida, instabile ma in qualche modo armoniosa. Diversamente normale. E sorprendentemente godibile.(6.5/10) Stefano Solventi Harlem - Hippies (Matador, Maggio 2010) G enere : sixties - pop Il trend del momento è quello del sixties-pop tutto spensieratezza, coretti accattivanti e zuccherosi, lo-fi d’obbligo e dimensione gioiosa. Su questo credo non ci sia più dubbio ormai, e se ce ne fosse ancora qualcuno, 56 gli Harlem, terzetto garage-pop di Austin con la testa molti km più a Nord (e il cuore altrettanti a Ovest), sono qui per chiarirlo. The only band we like is nirvana; the only album we like is nevermind, the only song we like is smells like teen spirit, dichiarano sul loro myspace e se gli schitarramenti e l'attitudine sono da grunge-addicted, è la melodia vocale ad essere al centro di Hippies: clamorosamente appiccicosa, chubby e rassicurante come la quotidianità della middle-class americana di Happy Days. Neanche in termini temporali si supera mai quella invisibile linea di demarcazione, anzi se ci si allontana si va di retromarcia, spingendosi fino alla summer of love e allo psyh-pop meno lisergico e più canzonettaro dei 60s. Perfetta musica da festa dall’originalità vicina allo zero assoluto.(6.4/10) Stefano Pifferi Internal Tulips (The) - Mislead Into a Field by a Deformed Deer (Planet Mu Records, Aprile 2010) G enere : I ndie pop Lungo nella gestazione tanto quanto l’album d’esordio dei Tape Tum (con il quale condivide alcuni intenti artistici), la prima prova lunga del duo The Internal Tulips, cerca ancora una volta il sacro graal del pop wilsoninano dentro e fuori i Beach Boys facendone un case study per minuterie glitch e sporadici broken beat. Rispetto ai citati belga, il cui spettro d’azione era ben più ampio, il debutto di Alex Brandon Graham e Brad Laner si esprime restringendo il campo a un’elettrocustica indiepop ben nota a casa Morr ma totalmente inedita per Planet Mu, che pubblica il lavoro unicamente per trascorsi d’amicizia e passate produzioni elettroniche dei due americani dal cuore inglese. Laner infatti pubblicava come Electric Company a inizio duemila su Tigerbeat6 ed era considerato parte dell'assalto stellestriesce all'IDM assieme al più famoso Kid606, mentre Graham aveva effettivamente pubblicato per l'etichetta di Paradinas sotto il nome di Lexaunculpt, nel 2003, con l'album The Blurring Of Trees. Il succo di Mislead Into a Field by a Deformed Deer riorienta quelle esperienze attorno a una spremitura a caldo di dieci canzoni dei Grandaddy o trenta dei Grizzly Bear, ovvero gioca sul sublime sublimando folk e pop, trattandoli cioé come se fossero essenze di un profumo più che parti di un discorso poetico. Attentissimo l’intarsio tra suonato in presa diretta (piano, banjo, chitarra, batteria) e sintetico (synth, glitch, effetti) ma inevitabile anche un certa autoreferenzialità. Tanto perfezionismo si dimentica in fretta.(6/10) Edoardo Bridda highlight Konono N°1 - Assume Crash Position (Crammed Discs, Maggio 2010) G enere : congotronica Un fatto tristemente noto che nel terzo mondo abbondino materie prime e nondimeno scarseggi il minimo per vivere dignitosamente. Ringraziate i colonialisti occidentali - che poi sarebbero i nostri bisnonni - per tutto questo, e nel frattempo prendente nota di quanto colà si sappia, conseguentemente, fare di necessità virtù con invidiabile maestria. Lo dimostra il dub e i suoi rivoluzionari sonori che si avvalevano di una tecnologia oggi risibile ma avevano dalla loro inventiva e sagacia sconosciute. E una mano non indifferente a rafforzare la suesposta teoria la dà Konono N° 1, collettivo proveniente dalla Repubblica Democratica del Congo in circolazione dai primi anni Ottanta, avvezzo ad esibirsi per strada accompagnando balli e canto con un arsenale di percussioni metalliche e il likembe, strumento locale costruito fissando per un’estremità delle sottili lamine che, abbassate, producono una tagliente però piacevole vibrazione. Realizzavano a un certo punto costoro di aver bisogno di un’amplificazione: se la saranno mica comprata, come fa chiunque nel Nord del mondo? Manco per sogno. La costruivano da soli riciclando materiale dalle discariche e trovatemi voi altri che siano più DIY e “indie” di così. E lo stesso per chi riesca, nello stesso momento, a essere primordiale e futuribile, ipnotico con sensualità e sperimentale senza intellettualismi. Assume Crash Position respira di possanza comunicativa che si scioglie nella nostra mente attraverso brani lunghissimi, maree frenetiche in un perenne gioco di tensione e rilascio. Che avvincono e vanno mandate giù d’un fiato senza soffermarsi sui singoli episodi. Un mantra stordente, una danza contagiosa, una trance mesmerica di un nulla inferiore alla pietra miliare Congotronics. Necessario, ventiquattro volte al giorno.(7.7/10) Giancarlo Turra Isan - Glow In The Dark Safari Set (Morr Music, Giugno 2010) G enere : I ndietronica Dopo tre lustri passati a sperimentare nuove vie attraverso poemi tonali, ambient e origami sonori, gli ISAN si sono presi il loro tempo. Senza rivoluzioni li ritroviamo, a quattro anni dal delizioso Plans Drawn In Pencil, alle prese con una formula indietronica oramai classica che vive di piccoli ritocchi e tenta un rinnovamento dall'interno attraverso la cosidetta library music. Ed è così che il duo inglese più amato dal regista Paolo Sorrentino (tracce di quell’album presenti sia in Le Conseguenze dell’Amore che ne L’Amico di Famiglia) ci consegna un altro prezioso album di genere: un crocevia tra note scuole berlinesi (la Morr e la sua indietronica pienamente assimilata; Tarwater e To Rococo Rot) e ben incamerati tocchi britannici (la narrativa vintage/spooky di Ghost Box / Focus Group appunto), sempre in dialogo con le tradizioni elettroniche (Raymond Scott, il BBB Radiophonic Workshop ecc.). Tra qualche proverbiale momento morto, i due lati del sogno romantico di un futuro visto con gli occhi preinternet rivivono dignitosamente.(6.8/10) Edoardo Bridda Jack Rose/Charles Speer & The Helix - Ragged and Right (Thrill Jockey, Luglio 2010) G enere : C ountry & R agtime Necrofilia e ripescaggi per quest'eppì dalla brevissima durata per il defunto Jack Rose accompagnato da D. Charles Speer & The Helix. Anzi, ad onor del vero, trattasi più di un disco per voce e chitarra del secondo (Enos Slaughter, No-Neck Blues Band), diviso tra il traditional In the pines, ed altri due brani ispirati a Mordecai Jones/Link Wray, di cui solo uno co-firmato da Rose e Jones. Brani che risalgono alla primavera di un tour del 2008, ma che data la loro tradizionalissima affezione al Ragtime Country potrebbero pure appartenere a decine di anni prima, com'era attitudine del resto nella musica di Rose recuperare canzoni e registrarle coi sistemi più sgraziati, 57 highlight Marco Iacampo - Marco Iacampo (Adesiva discografica, Aprile 2010) G enere : songwriting L’ex GoodMorningBoy e Elle Marco Iacampo si è spogliato già da un po’ di nick ingombranti, l’abbiamo infatti trovato l’anno scorso nella compilation Il paese è reale, curata dagli Afterhours, proprio con un pezzo, Che bella carovana, che apre questo album a suo nome. Una messa a nudo e un ritorno all’italiano, per una musica d’autore autoctona; sono stati messi da parte i modelli di sempre (Sparklehorse, Eels, Alex Chilton, Neil Young) per una presa di coscienza autonoma. Ne ha guadagnato in espressività Iacampo e lo si avverte, in un album molto personale, come ha dichiarato da subito. C’è meno indie e più songwriting, con la ripresa di una tradizione italiana (lui cita Edoardo Bennato e Paolo Conte) e l’ispirazione anche dal vecchio amore, il blues. Intenso e lirico, il disco ha momenti più pop, come il singolo Miracolo eccezionale, e in generale un andamento rilassato e easy, che nasconde una lunga rielaborazione, realizzata con il produttore artistico Paolo Iafelice (Vinicio Capossela, Fabrizio De Andrè, PFM, Daniele Silvestri) incontrato dopo il distacco dalla Urtovox nel 2006. Echi country e reggae, qualche filastrocca, Bob Dylan che torna a riaffiorare qua e là, Lucio Battisti, il blues e la negritudine (Il mio lavoro con i fiati di Enrico Gabrielli dei Calibro 35), e in generale un mood malinconico e umorale, che lo ha sempre contraddistinto e che lo segue anche in questo self titled, dove tutto è calibrato e in sintonia. Il cantato in italiano lo aiuta parecchio in questa transizione adulta brillantemente superata, ma in fondo Marco Iacampo non ci sembra avesse niente da dimostrare ancora: l’album è semplicemente un altro tassello in un percorso di talento.(7.3/10) Teresa Greco proprio per eludere il presente dichiarando un amore infinito per il pre-war blues (come in Dr. Ragtime). Jack Rose è alla lap-steel elettrica, e la formazione si divide tra basso, batteria, chitarra ed una voce, quella di Speer che rimanda a quella del Johnny Cash dei primi quattro o cinque dischi. Una musica tutta roots-oriented, che non aggiunge molto al discorso di Charles Speer, così come non sembra vi siano grandi tracce del talento di Jack Rose, che più che comprimario, o musicista aggiunto, si sente nel disco come un fantasma tirato fuori da una seduta spiritica a tavolino. Un disco senza troppa gloria e senza alcuna lode a cui seguirà Honest Strings: A Tribute To The Life And Work Of Jack Rose, altra operazione di quelle che faranno Jack Rose leggenda in questi tempi in cui trovar qualcosa di leggendario è davvero difficile.(6/10) Salvatore Borrelli 58 Jackson Browne - Love Is Strange: En Vivo Con Tino (Inside Records, Giugno 2010) G enere : '70 s songwriter Non è nuovo a celebrazioni, il buon Jackson. In ciò coerente, essendo la dorata California dei 70 dalla quale proviene - alveo nel quale si sono consumati i suoi giorni migliori - un’epoca/oasi dove lui stesso, gli Eagles, Warren Zevon e diversi altri si passavano idee e spunti, confrontavano sogni e amarezze. Come se fossero una famiglia allargata, insomma, secondo l’ultimo lascito del sogno hippie che ancora oggi inscenano, anche se le cose sono inevitabilmente cambiate. Lo stesso che respiri a pieni polmoni in questo corposo doppio dal vivo (di nuovo: come si usava una volta) cronaca di un felice tour spagnolo del 2006, tenutosi in chiave acustica avvalendosi dell’apporto di musicisti locali. Un bel problema, però, parlarne con serenità: male non puoi dirne, giacché scorre gradevole e limita il reducismo a un tollerabile minimo sindacale; formalmente è ineccepibile - il sodale di sempre David Lindley alla chitarra è tuttora un asso - e molte canzoni si confermano autentici classici, qualcuna magari più datata e altre semplicemente databili. Tuttavia, di dischi pubblicati oggi con le idee e il portamento di ieri ve ne sono in circolazione sin troppi, a prescindere da che questo si elevi sopra la media di parecchi coetanei e colleghi dell’autore. I fan, comunque, gradiranno.(6.8/10) Giancarlo Turra James Yuill - Movement in a Storm (Moshi Moshi, Giugno 2010) G enere : I ndie pop Dopo il debutto del 2008, James Yuill non ha visto l'ora di pubblicare questo sophomore, scritto e prodotto in poco tempo e soprattutto fresco di composizione. Turning Down Water For Air era stato pubblicato un anno dopo la sua stesura mentre il nuovo lavoro, a detta del suo autore, è uscito con natualezza e velocità proprio durante la fase finale di una lunga tournée durata ben due anni (e 105 concerti). Ad ogni modo, di tanta frechezza (e soprattutto rinnovamento) non vi è traccia nelle dieci tracce dell'album.Yuill non è cambiato per nulla: la base di abusato songwriting folk-pop agrodolece rimane la radice folktronica di un aggiornamento che si riassume unicamente nell'acquisizione della cassa in quattro e qualche retaggio indie dance a contorno. Ancora una volta, come una sorta di cugino di Album Leaf, il ventottenne prepara le canzoni un po' con il pilota automatico, prima al piano (o alla chitarra) per riarrangiarle con macchine (synth, drum machine, glitch) o in un misto di acustico e elettronico. In pratica, è come rimettere gli Hot Chip dalla discoteca alla cameretta, senza alcuna ironia e disinvoltura, ma con le solite citazioncine Ottanta (First In Line) e arpeggi Tunng (Foreign Shore), tanto per gradire e non dar troppo fastidio. Più che disquisire sul valore della scrittura o soppesarne le canzoni, è l'invecchiamento rapidissimo di questa modalità del sentire e suonare (Ray Gun), l'aspetto più dolente del lavoro. Un prodotto figlio del suo tempo andato, come l'adult synth eighties che Yiull continuamente rimette in pista (Taller Song).(6/10) Edoardo Bridda Jana Winderen - Energy Field (Touch Music UK, Maggio 2010) G enere : field recordings Un disco a base di field recordings su Touch. Occorre andare a prendere quel paio di cuffie molto buone, acquistate solo per poter carpire tutti i dettagli di ascol- ti così complessi. L’etichetta inglese ritrova la maestra norvegese, già vista all'opera con il precedente Heated. Originaria di Oslo, con un curriculum che parla chiaro e dice di una personalità con specializzazioni in matematica, chimica ed ecologia marina. Energy Field è un lavoro che si pone nel suo genere con la sapienza e la maestria che occorrono. Il disco è composto integralmente ed esclusivamente di field recordings (quindi niente sovraincisioni digitali successive) presi nella regione del Barents Sea, ovvero la parte dell’Oceano Artico che si trova nelle regioni intorno a Norvegia, Russia e Groenlandia, dove i suoni sono stati carpiti con una strumentazione all’avanguardia che ha visto l’utilizzo di specifici device come quattro “8011 DPA hydrophones, DPA 4060 omni mics, a Telinga parabolic reflector mic and and a Sound Devices 744T digital hard disk recorder”. L’intento di Jana era quello di sviscerare il mistero delle profondità marine, restituendone una cartina sonora, che fosse al tempo stessa fedele e avventurosa, rispettosa e indagatrice. Il risultato finale, si articola in tre tracce dense e mesmeriche, che fanno interagire suoni attinti al regno animale (uccelli, pesci), con quelli presi da regno naturale e minerale (venti, flutti, ghiacciai, gorghi). Il paragone con Chris Watson viene quasi naturale, ma qui si regge il confronto. La Winderen tocca punte di assoluta visionarietà quando riesce a mimare l’immersione negli abissi neri delle profondità. Quella che lei chiama “sensory perception” e che viene tradotta in un suono ipnotico, magnetico, affascinante, capace di restituire un’idea dei mari del nord, che appare quanto mai fedele. Lo statement d’artista del resto parla chiaro. Jana è un’esploratrice delle regioni più nascoste del suono. “Nelle profondità degli oceani ci sono paesaggi sonori invisibili ma ascoltabili, a proposito dei quali siamo per la maggior parte ignoranti, anche se gli oceani coprono il 70% del nostro pianeta”.(7.2/10) Antonello Comunale John Parish - She, A Chinese OST (Dreamboat, Maggio 2010) G enere : wave soundtrack Un tipo versatile, John Parish. Lo sapevamo. Stavolta si cimenta con una soundtrack tutta intera. Compone, suona, organizza le proprie visioni su quelle di She, a chinese, film di Xiaolu Guo già premiato ai festival di Amburgo e di Locarno, nel quale si narra la storia di Li Mei, emigrante cinese in quel di Londra. Le diciotto tracce obbediscono spesso alla tipica fisiologia dei commenti sonori, presentandosi come schegge e bozzetti strumentali, più o meno ambientali, nel caso specifico tendenti ad una 59 inquietudine dal taglio ombroso, obliquo e talora aspro, che ai fans di Parish risulterà abbastanza familiare. Tra di esse, particolarmente suggestive sono l'astrazione blues di Unseen/Mr. Hunt, l'insidiosa frenesia di Snake At The Docks e lo spiegazzato abbandono di November, mentre Li Mei Makes A Break spennella quiete orientale su frenesia rock suggerendo stati di dissociazione esistenzial-culturali che solo la visione della pellicola saprà confermare. Quindi ci sono le canzoni vere e proprie, per interpretare le quali Parish si affida a band cinesi come le "riot grrrl" Hang On The Box (per quel vero e proprio anthem power pop che è There Is A City), i Muma (per una Fei Fei Run che impasta Bunnymen e Tears For Fears) e la cantante Tian Xhen (per l'angelica Wildflowers). Ultima, nel senso che chiude la scaletta, quella Lonely Lonely per la voce di Feist, tutto un malanimo madreperla, folk sospeso tra acustica frugale e vaghe nuances electro. Un lavoro notevole.(7.1/10) Stefano Solventi K'naan - Troubadour (Universal, Aprile 2010) G enere : pop rap world Keinan Abdi Warsame, nato a Mogadiscio nel 1978, nonno poeta e zia cantante, è cresciuto nel pieno della famigerata guerra civile: ascoltando i dischi hip hop che gli mandava il padre dall'America. Scappato a 13 anni con la madre e i fratelli, si è rifugiato in Canada. Questo è il suo terzo album (il secondo ad avere una distribuzione adeguata), dopo il successo di critica e pubblico di The Dusty Foot Philosopher (2005). K'naan alleggerisce il carico (meno folk-world, molto più pop-rock), si fa tentare dai featuring prestigiosi (I Come Prepared, con Damien Marley, niente di eccezionale) e sposa un eclettismo di bocca buona che lo porta a brutture indifendibili come Bang Bang (siamo a due passi da Ricky Martin, feat del cantante dei Maroon 5), Does It Really Matter (i peggiori stilemi dell'hip hop costruito con basi elettroniche) e If Rap Get Jealous (già sul disco precedente, ospite nientemeno che Kirk Hammet dei Metallica). Si salvano America, con Mos Def e Chali 2na, Fire In Freetown, leggera leggera ma che funziona, e la Wavin' Flag scelta da Coca-Cola (...) e Fifa per celebrare l'inizio dei Mondiali di calcio in Sudafrica, se non altro per l'innegabile appeal corale.(5/10) Gabriele Marino 60 k-os - Yes! (Universal, Maggio 2010) G enere : C ros sover hip hop Kevin Brereton aka k-os (leggi chaos) è un rapper e produttore canadese di colore. Yes! è il suo quarto album, in giro come promo da fine 2009, pubblicato ufficialmente lo scorso febbraio negli USA, arrivato adesso dalle nostre parti. Il suo ci sembra l'ennesimo lavoro che cavalca - male - il vento crossover hip hop. Ne ritroviamo tutti gli stilemi, con l'effetto finale della marmellata furba, non priva di un certo appeal e di un certo impatto, ma sostanzialmente senza sapore. Campioni di brani celebri, nella tradizione di Puff Daddy e come fanno adesso i Black Eyed Peas (il riff di Love Buzz dei Nirvana; una I Wish I Knew Natalie Portman, ospite nientemeno che Nelly Furtado, che in pratica è una cover di California dei Phantom Planet, l'ossessionante sigla del serial OC); cantati impiastricciati dall'autotune; flirt col reggae; cattivi modelli di rapping come Lil Wayne (Mr.Telephone Man). Alcuni pezzi non sono malaccio, soprattutto a livello di mixage tra suonato e campionato, ma sono troppo pochi - e sono troppo poco - per far passare in cavalleria le tamarrate e le brutture.(5/10) Gabriele Marino Keane - Night Train (Interscope Records, Maggio 2010) G enere : P op La notizia è che il 16 maggio, esattamente sei giorni dopo l'uscita ufficiale, il nuovo lavoro dei Keane ha raggiunto il numero uno della classifica degli album in UK. Considerando che i brani migliori dell'EP (dura considerarlo un vero e proprio album: 8 soli brani, tra cui uno strumentale di meno di un minuto e mezzo) sono un pezzo basato sul campionamento dello score del film Rocky su cui si adagia il rapping del canadese K'Naan (Looking Back) e una cover di un brano del 1983 dei giapponesi Yellow Magic Orchestra (Ishin Denshin, con ospite la cantante funk MC Tigarah), la notizia non è di quelle positive. Dopo un parziale tentativo di virare verso il synth-pop con il precedente Perfect Symmetry (2008), che nonostante il primo posto nella classifica inglese e il settimo in quella americana, aveva un po' spiazzato i fan, i Keane ritornano ad atmosfere più propriamente brit-pop, più congeniali alla voce delicata del cantante e allo stile pianistico di Tim Rice-Oxley, con la consueta assenza di chitarre di Hopes And Fears (nove volte disco di platino) e l'appena più movimentato Under The Iron Sea (2006). La ruffianeria è quella che nel 2004 aveva mandato in orbita l'esordio, con cori stucchevoli al limite dell'imbarazzo (Stop For A Minute, dove ritorna K'Naan), ballad plasticose buone per il suicidio di qualche teenager (Your Love) e il campionamento del rumore del modem che si connette in Ishin Denshin che sembra un gomitino messo lì per i meno ragazzi, del tipo:“Ehi, noi eravamo qui prima di questa era digitale. Tu dov'eri? Non siamo forse noi la tua colonna sonora di questo new millennium?” Nel 2004 i Keane cantavano praticamente ovunque “Everybody's changing and I don't feel the same”: ecco da allora hanno cercato di cambiarsi d'abito un paio di volte, ma sotto la giacchetta scura e il calzino rosso non è successo niente. Venderanno ancora una volta milioni di copie, dopo aver strizzato l'occhiolino al mercato giapponese e al mondo delle collaborazioni tra rap e pop (Alicia, dove sei?), i tre dell'East Sussex sono rimasti ragazzi e dopo quattro dischi è lecito pensare che le promesse non verranno mantenute nemmeno in futuro.(4.9/10) Marco Boscolo Kele Okereke - The Boxer (Polydor, Giugno 2010) G enere : T ech - pop Prima il call and response da jogging militaresco a ritmo di flamenco, poi le celeberrime colate laviche al sintetizzatore, infine qualche brandello di strofa del Kele che conosciamo. Si apre così l’album solista della voce dei Bloc Party, membro di una band che non ha mai negato la passione per la dance UK e qui in un personale approfondimento sintetico tra IDM e spezie dance. Ingredienti curiosamente e intelligentemente suggeriti dall’astro nascente dell’elettronica now on di casa Warp, quell'Hudson Mohawke che in una traccia come On The Lam svolta una classica house track britannica in un calibrato gioco di sponda drum’n’bass, basso spugnoso Mr. Oizo e citazionismo ’ardkore (c'è anche il sample di James Brown). Dunque nessuna angolarità fender per il Kele solista indaffarato al desk anche con un altro producer, XXXChange degli Spank Rock - combo hip hop americano con voglie raw electro e simpatie britanniche (remix per Santogold, Lady Sovreign) - che di riffa o di raffa avrà contribuito con i sintetismi più crudi, compresi quelli sotto ai cori Nine Inch Nails del singolo Tenderoni, un brano coca cola che è anche un po' il simbolo della rapida ossidazione di molte tracce dell'album. Nel full lenght però c’è dell'altro. La parte più profonda e amata di Kele viene fuori in Everything You Wanted: melodia in un misto di fervore (viene da famiglia e studi cattolici) e sessualità (recentemente si è dichiarato bisessuale sulle pagine di Butt magazine), mentre New Rules è un bel duetto lui/lei che mescola il formato confidenziale e una composizione per balletto (à la Laurie Anderson per intenderci). Niente che possa scomodare i numeri più incisivi della band, piuttosto è un cuore synth pop in combutta soul/ gospel - tratto maestro del nigeriano - lo scarto decisivo. Sulla scorta dei riferimenti cardine di sempre (i Depeche Mode), i picchi Rise e All The Things I Could Ever Say sono preghiere di ritmo e effetti sintetici che ricollocano il progetto nella veste migliore: un side project elettro (sulla falsa riga di quello di Thom Yorke) per indagarsi l'anima. Ed è un'anima pronta per le grandi masse quella di Kele. Che sia il nuovo Bono?(6.5/10) Edoardo Bridda Kelis - Flesh Tone (Interscope Records, Maggio 2010) G enere : disco pop Meno soul e più dancefloor: questa la nuova via di Kelis. Una vaga somiglianza con Donna Summer, il fidget ereditato dai Crookers (22nd Century) e l’attacco a Lady Gaga con le bombe pop. Nove pezzi che bruciano velocemente il sogno disco della prossima estate oscurando la spocchia dei Goldfrapp (4th of July). Kelis è l’essenza dancefloor ubercommerciale di un postsoul firmato major in combutta con zarri del calibro di Benny Benassi, Boys Noize e Diplo; blackness sciccosa per teen innamorate e col sudore del baraccone tamarro, i catenoni e le canottiere. Mossa Ottanta d'obbligo, cassa dritta e distorsioni analogiche oramai pienamente sdoganate per un paio di bombe da classifica (Home e Acapella prodotta con David Guetta stanno da tempo girando per le radio di mezzo mondo) e qualche intervallo interlocutorio. Non ancora la Madonna nera della disco, Kelis è sul crinale discendente della Ciccone di Hard Candy.(6.5/10) Marco Braggion King Bleso - King Bleso and the Voodoo Soul Unlimited - Oku (La Sapore prod., Giugno 2010) G enere : F unk Dario Troso aka Gopher, salentino classe '71, è uno che ha vissuto in prima linea gli anni pionieristici dell'hip hop italiano: membro dell'Isola Posse All Stars, featurer dei mitologici Sangue Misto di Neffa, Deda e Gruff, batterista nei Sud Sound System. Il meticciato come 61 orizzonte di vita. In questo secondo disco a nome King Bleso, dopo il dub, va a riscoprire le proprie radici funk, aiutato - tra gli altri - da Luca Tarantino aka Sotu Tetsune e dai due electro-rapper Smania Uagliuns. L'assemblaggio ha un sapore artigianale (alcuni cantati risultano particoloramente ruvidi), ma la miscela, tra funk bello grasso, latin funk (Mokele-Mbembe), hip hop jazzy Novanta (Testifyin'), soul (Damn, I'm So Sure) e richiami rock (Sittin' On My Sofa dei Kinks) e blues (Four O'Clock di Skip James), funziona.(6.4/10) Gabriele Marino King Britt - The Intricate Beauty (Nervous, Aprile 2010) G enere : H ouse King James Britt è il produttore degli storici Digable Planets, band che negli anni Novanta ha fissato uno standard hip hop fusion importante, che ancora oggi fa scuola. Una discografia frastagliata la sua, tra collaborazioni, remix per nomi prestigiosi, musica per il grande e piccolo schermo (per ultimo, il serial True Blood) e una manciata di album solisti. Nel 2009 una sola compilation mixata e adesso questo The Intricate Beauty, disco con cui intende salutare per sempre - così pare - il mondo dei ritmi e della dance, disco che pure è la sua prima prova esplicitamente house. Complici una svolta spirituale e l'avvio del progetto mixed media Saturn Never Sleeps (nato come omaggio a Sun Ra), che gli hanno aperto nuovi orizzonti, il nostro intende adesso dedicarsi alla sperimentazione e all'improvvisazione. Il nuovo modus, in realtà, pare avere preso avvio già con questo lavoro: Britt ha registrato e campionato centinaia di microsounds - niente loop - e li ha poi "mantecati" via Ableton Live (NB: la library da cui è partito verrà effettivamente pubblicata come tool per il celebre programma; operazione analoga a quella Dilla/Serato). Di questo lavorìo a livello micro (l'intricata bellezza del titolo?), l'orecchio dell'ascoltatore può beneficiare sotto forma di suoni morbidi e avvolgenti, come lievitati, una house classicissima e altrettanto fresca, magicamente congelata ai primi anni Novanta, con voci cariche di soul (Nightlife, Get Up), picchi minimal/ tribal (Keep It Movin', Los) e ricordi come di certo Jarre trancey (Inner Life). Ottimo.(7.1/10) Gabriele Marino 62 Laurent Robin And The Sky Riders Project - Ode To The Doodooda (Laborie, Maggio 2010) G enere : jazz electro Batterista francese piuttosto apprezzato sia in ambiti jazz che pop-rock, Laurent Robin mette assieme la squadriglia Sky Riders Project, ovvero i tastieristi Benjamin Moussay e Vincent Laffont, per solcare la nostalgia electro soul interstellare di Ode To The Doodooda. La rotta è di quelle piuttosto battute, ci senti le argute nostalgie e - ovviamente - i languori french degli Air (un vero festival di Hammond, clavier e Fender Rhodes), le calligrafie suadenti à la Zero 7 (in coincidenza dei setosi interventi vocali di Xiao Li), più un'estro post-fusion che chiama in causa l'Herbie Hancock dei settanta quando non certe inquietudini contemporaneee EST (Monica in London). C'è anche spazio per bambage melodiche jazzy dalle parti del Bacharach più soffice (The Sweetest Smile) e per una solenne "cover" di God Save The Queen (l'inno nazionale inglese, non lo sfregio formidabile che ne fecero i Pistols). Un disco suonato con molta competenza, intrigante ma senza intuizioni rivoluzionarie, melodicamente più azzimato che ispirato, in definitiva gradevole.(6.4/10) Stefano Solventi Little Annie/Paul Wallfisch Genderful (Southern Records, Maggio 2010) G enere : chansonnier pop Le basi su cui si fonda il sodalizio tra la regina dell’underground musicale newyorkese Annie Bandex e l’ex tastierista di Firewater e Botanica, Paul Wallfisch, sono più solide di quanto si sarebbe pensato inizialmente. Veterani di lungo corso, la sanno fin troppo lunga, consapevoli che dopo il precedente When Good Things Happen To Bad Pianos, il rischio maggiore era quello dell’archiviazione automatica al genere di riferimento: la ballad jazzata da chansonier francese, tra Jacques Brel e Serge Gainsbourg, e con più di qualche strizzata in direzione Antony. Eppure il nuovo Genderful, smuove sufficientemente la scaletta per poter dire che non si sono ripetuti. L’apertura sofisticata di Tomorrow Will Be dice già che l’uso dello studio è stato meticoloso: base elettronica, florilegio di frasi di tastiera, sussurato sexy. C’è persino una puntura di blues da cocktail nelle vellutate volute di Suitcase Full Of Secrets che odorano deliziosamente di Tindersticks, e fa ancora meglio, la malizia acustica di Billy Martin Requiem, che davvero cambia le carte in tavola. Poi, ovvia- highlight Michael Leonhart & The Avramina 7 - Seahorse And The Storyteller (Truth & Soul, Aprile 2010) G enere : psych - soul Sulle prime non ti capaciti proprio. Nel senso che fatichi a capire come Michael Leonhart sia arrivato solo adesso a fare un disco simile. Hai voglia pensare alla gavetta da trombettista, arrangiatore, produttore e via dicendo, al Grammy intascato da adolescente e la presenza alla corte dei redivivi Steely Dan. Puoi fare tutte le valutazioni che ti pare, fatto è che a una cosa del genere non eravamo preparati anche sapendo delle collaborazioni con - tanto per fare qualche nome - Yoko Ono e Arto Lindsay, Brian Eno e David Byrne. E questo non perché Seahorse And The Storyteller tiri fuori dall’armadio il temuto spettro del "concept” muovendosi in ambito black. Già lo hanno fatto e prima di lui dei tizi di nome George Clinton e Sly Stone. Che sono, guarda caso, due paletti da piantare saldamente nel terreno per delimitare le fughe per la tangente del nostro ragazzo, essendo un altro paio la psichedelia morbida venata di pop e oriente di fine ’60 e certe squadrature kraute che non sai bene come siano capitate lì. Musica di fusione, insomma, che puoi giustificare solo con lo sguardo attento di chi conosce e maneggia l’argomento sin da piccolo ed è così che sono andate le cose: solo che senza la visione resti un tecnico come tanti, non spicchi il volo. Serve prendere tempo e maturare, ed ecco un’altra possibile spiegazione. Progetto peraltro ambizioso, questo disco, allestito con un parterre prestigioso ma discreto (membri sparsi di TV On The Radio, Dap-Kings, Antibalas; svariati “cervelli” della New York intellettualmente deviata) che dell’eterogeneità e del multiculturalismo fa bandiera. Che oltrepassa le restrizioni di genere come, a ben pensarci, tutti gli artisti sin qui tirati in ballo: perché se The Story Of Echo Lake è pop chitarristico di tesa melanconia attraversato dal sax, Jaipur e Madhouse Mumbai mescolano Alice Coltrane e Bollywood come a Gonjasufi non riuscirà mai; se Dreams Of An Aquarian è Sly & Famiglia persi nei solchi di Tago Mago, Have You Met Martina? si porge da scioglilingua in apnea di somma orecchiabilità. Persino i due brevi strumentali che precedono la conclusiva Here Comes The Dragonfish possiedono vivace senso narrativo e preparano a un capolavoro dove Prince si inoltra nella giungla a cercare proprio Eno & Byrne. Ecco: ci piacerebbe affermare di aver trovato un plausibile erede “spirituale” di Roger Nelson, ma vorremmo aspettare la fine dell’anno. Scaramanzia pura e semplice, sappiatelo.(7.8/10) Giancarlo Turra mente, il resto dello spettacolo è sempre più o meno lo stesso: Annie ancheggia e sussurra per un pubblico di astanti dal vezzo intelletual chic e la mazzetta di banconote fermate con la pinzetta d’oro. E’ pur sempre tutta una messa in scena e il copione va rispettato.(6.5/10) Antonello Comunale Lombroso - Una vita non mi basta (Niegazowana, Aprile 2010) G enere : rock Per i Lombroso il citazionismo è il carburante di una macchina che soprattutto dal vivo riesce a dimostrare tutto il proprio vigore. Il beat nostrano e Lucio Battisti - e i suoi rapporti con Otis Redding - nei primi due dischi, la Motown rivisitata con indole mescolatoria (funk, new wave, pop nobilitato) in questo terzo lavoro che fin dal titolo denuncia un'urgenza canonicamente rock'n'roll, senza però dimenticare un'italianità che nella scrittura, rotonda ma mai troppo, sottolinea l'origine novantiana di uno dei due componenti del gruppo (l'ex Afterhours Dario Ciffo). E se già il precedente Credi di conoscermi allargava con convinzione lo spettro strumentale oltre la diade batteria-chitarra, è con Una vita non mi basta che i due milanesi rivestono i brani di fiati (Enrico Gabrielli), percussioni e basso ormai onnipresente (talvolta imbracciato da Enrico Molteni dei Tre Allegri Ragazzi Morti). A giovarne è la prestanza delle singole tracce in 63 particolare quando gli ascolti si ripetono, a fronte di liriche sempre in equilibrio sul filo sottile che separa chiarezza e banalità. Poi, in chiusura, il bozzetto beatlesiano di Immenso e fragile lascia spontanea una domanda: e se si cimentassero un po' più spesso con le ballate?(6.5/10) Luca Barachetti Luca Faggella - Ghisola (Goodfellas, Maggio 2010) G enere : canzone d ' autore Il riferimento a Ghisola, personaggio femminile di “Con gli occhi chiusi” di Federigo Tozzi, è solo uno dei tanti segnali dell'inquietudine intellettuale di Luca Faggella. Attore di teatro (ha recitato Beckett, Jarry, Borges), interprete fra i migliori di Piero Ciampi e ciampiano nell'animo, ma anche vincitore nel 2002 di una Targa Tenco come miglior esordio con il klezmer di Tredici canti - cui fece seguito il rock scuro e sessuale di Fetish - il livornese pare muoversi fra vite solo apparentemente parallele fra loro, in vero brucianti della stessa fiamma che non lascia scampo a concessioni di sorta e neppure, almeno fino ad oggi, ad un'identità precisa. Questo disco, prodotto da Giorgio Baldi (già all'opera coi dischi meglio riusciti di Max Gazzé), lo vede confrontarsi con certa new wave livida alla Diaframma (Come), comunque virata in senso cantautorale dalle parti di Faust'O (La prova) e con qualche interessante deviazione su architetture maestose di synth, chitarre in rifrazione e voce luciferina alla Scott Walker (Maremma sangue). Nomi importanti e di culto insomma, il cui spettro attraversa canzoni che non disdegnano nemmeno semplicità poppeggianti (la title-track), improvvisi trip-hop (una Ti bacio e torno volutamente antiquata nei suoni) e cover raffinate condotte in porto con maestria (St. Elmo's Fire di Brian Eno). Tuttavia a Faggella mancano ancora quegli spunti personali che lo rendano non tanto un emulo - non è questo il caso - ma certamente qualcosa di più che un (buon) proseguitore.(6.3/10) Luca Barachetti Magic Lantern - Platoon (Not Not Fun, Maggio 2010) G enere : heavy - psych Disco di snodo (e di fine corsa, a quanto pare) per i Magic Lantern dopo un silenzio biennale che di questi tempi 64 assume i contorni dell’era geologica. Chi segue le evoluzioni più nascoste dell’underground psichedelico americano avrà notato la bizzarria che accompagna la sigla: essere, cioè, un supergruppo a priori. Nel senso che, visti le sviluppi degli ultimi due anni - i Sun Araw di Cameron Stallones, i Super Minerals di William Giacchi e Phil French, la Stunned Records gestita da quest’ultimo - fa strano che l’allstar game sia stato giocato prima della regular season. E così Platoon sembra quasi un ritorno al futuro, una porta spazio-temporale che permette di sbirciare cosa e come si procedeva prima del big bang. Nessuna novità all’orizzonte, sia chiaro: si va come al solito di jam visionaria e reiterata, deformata in deliqui psichedelici, ma a differenza dei precedenti lavori si spinge molto sull’acceleratore funk e acid-rock. La componente più evidentemente psych - dilatata, rallentata e liquida - è evidente nel corpo centrale dell’album (Moon Lagoon Platoon, su tutte), ma per forza di cose sono i monoliti posti in principio (Dark Cicadas, 8 minuti di acid-rock dei 70s e groove alla Grand Funk Railroad) e coda (Friendship, melma desertica al servizio di una jam fuori dal tempo) a segnare la cifra dell’album. I due “classici” delle esibizioni live di Magic Lantern spostano la psichedelia “fattona” del quintetto verso lande funkadeliche, con continui solo di chitarre, echi di wah-wah, svisate d’organo e tromba che sfuggono ovunque, in ogni luogo e ogni tempo. La versione in cd, sempre targata NNF, aggiunge in coda anche le due tracce del 7” Showshopper (funkissima cover di Iron Knowledge a segnare ancor di più le posizioni del disco, più l’originale Cypress) in uscita ora sempre per la label di Brit, perciò se gradite un personal blend of psych-rock, sapete a chi rivolgervi.(7.2/10) Stefano Pifferi Mar delle blatte - Aspide (Avanthopperz, Gennaio 2010) G enere : D ark ambient Nel mare di produzioni underground italiane a circolazione esclusivamente digitale, peschiamo l'esordio del palermitano Mar delle blatte, del giro Avanthopperz. Lui dice di fare dark ambient e, in effetti, il ritratto che ne viene fuori è quello di una Palermo post-atomica, al contatore Geiger. Il disco, sette pezzi e venti minuti circa, ha un suo strano fascino, nonostante e forse proprio perché fatto di nulla, con pochi elementi musicali che si impongono all'ascolto come cattedrali nel deserto. Spazzole tribal-jazzy (IX), quattro note di contrabbasso (Heron #1), un arpeggio sinistro di chitarra (You'll Be Seing Red), una batteria caracollante fatta di lamiere ((Poison From) Standing Waters), un arpeggio di basso (This Is Not An Exit) emergono da un pulviscolo di rumori di fondo, di voci e di disturbi che filtrano come da un walkie-talkie. Nel pezzo finale, coerentemente con la citazione landolfiana, in una schiuma di droni di chitarra elettrica, si apre (forse) uno spiraglio di luce.(7/10) Gabriele Marino Martha Tilston - Lucy & The Wolves (Squiggly, Giugno 2010) G enere : F olk Non è artista di primo pelo Martha Tilston. Ha aperto concerti per Damien Rice, ha la sua etichetta personale (e di questi tempi è quasi qualcosa “di serie”) ed è stata nominata come best new act dei BBC Folk Awards per Of Milkmaids And Architects del 2007. Guardacaso folk è la parola chiave, ché di canzoni di folk pastorale è costituito anche Lucy & The Wolves. Pianoforte, chitarre acustiche e la voce di Martha sono i protagonisti di affreschi di intimità sonora, luminosa anche quando si fa crepuscolare, giusto mix di delicatezza e leggiadria, intessute in arazzi che rimandano a certo Bert Jansch senza Pentangle, a un Van Morrison in versione light e ad una Polly Paulusma di qualità. Al basso Jon Thorne dei Lamb, membri dei Woods ospiti qui e là, ma tra lupi, foreste e ruscelli emerge chiara l’ispirazione della Tilston. Riuscito.(7/10) Giampaolo Cristofaro Max Gazzé - Quindi? (Universal, Maggio 2010) G enere : canzone d ' autore In calo almeno dal precedente Tra l’aratro e la radio, il percorso di Max Gazzé non sembra riprendersi nemmeno con Quindi?, settimo lavoro in studio con appendice cinematografica al seguito. Il primo singolo Mentre dormi fa parte della colonna sonora del film di Rocco Papaleo “Basilicata Coast To Coast” (che vede lo stesso cantautore romano nei panni di un contrabbassista muto dopo una delusione d’amore) ed è anche la traccia più convincente di tutto il lavoro - tipica ballad d’amore alla Gazzé dove dolcezza e atmosfera onirica si mescolano sul volteggiare di un ritornello compiacente ma senza ruffianerie. Il resto presenta le solite raffinatezze del nostro, fra electro-pop in area Battiato (Storie crudeli), accelerazioni funky come dei Police in combutta coi Jamiroquai (Nuovi allineamenti di Stonehenge) e liquefazioni pinkfloydiane di synth (Io dov'ero) e chitarre. Una certa verbosità delle liriche e la mancanza quasi totale di brani incisivi lasciano però affiorare larghi momenti di noia. In altre parole: Gazzé è ancora quello de La favola di Adamo ed Eva - anche se in questo caso è Contro un’onda del mare il riferimento più preciso - ma senza la forza di quelle canzoni. E un singolo davvero buono - come lo fu Il solito sesso per Tra l’aratro e la radio insieme a pochi altri palpiti (La cosa più importante) non bastano. Così il titolo, sintesi dell’atmosfera di sospensione e dubbio che attraversa l’intera track-list, diventa un interrogativo altrettanto incerto sul futuro, a fronte di un presente piuttosto ristagnato.(5.8/10) Luca Barachetti Melvins - The Bride Screamed Murder (Ipecac Recordings, Maggio 2010) G enere : hard - rock Parte benissimo, l’ennesimo comeback dei Melvins. L’attacco di pura psicopatia rock dell’iniziale The Water Glass, schitarrate heavy che si aprono in un sing-a-long free-form fatto di urla nonsense, ne mostra il lato deforme e schizzato. A ruota segue Evil New War God e scatta l’evergreen melvinsiano: un carrarmato hard-rock cafone che si nutre di quel suono pachidermico, grasso e distorto che rimanda alle pesantezze di Stoner Witch e che è marchio di fabbrica di King Buzzo & friends da un quarto di secolo buono. Se Chicken Switch giocava sul versante più sperimentale e strambo al quale i nostri ci hanno abituato sin dai tempi della trilogia-omaggio (sberleffo?) ai Kiss, The Bride Screamed Murder è il classico album di studio dell’ormai consolidato quartetto (i due Big Business Coady Willis e Jared Warren sono ancora della partita). Un pizzico di slancio epico-coatto in più in alcuni passaggi chitarristici o in alcune vocals (Pig House), qualche ambientazione dark-funerea (I’ll Finish You Off), abbozzi di rumorismo doom semi-concreto che si fa totale follia (PG x 3). Per il resto si va sul sicuro con un mix di doom, hardrock, post-grunge, hc sperimentale alla NoMeansNo, su cui aleggia grigiore post-apocalittico e paranoia suburbana. I soliti vecchi Melvins, con soddisfazione.(6.9/10) Stefano Pifferi Mick Barr/Nondor Nevai Labyrintha (ugExplode, Marzo 2010) G enere : C haos -R ock Dopo una pubblicazione in MP3 su Brutal-Prog e un 65 highlight Natalie Merchant - Leave Your Sleep (Nonesuch, Aprile 2010) G enere : alt - rock Ventotto anni di carriera per l’ex cantante dei 10,000 Maniacs e non sentirli. Il cambio di etichetta (da Elektra a Nonesuch), l'accolita di mostri del calibro di Wynton Marsalis, Medeski Martin & Wood, i solisti della New York Philharmonic, i Klezmatics, i Memphis Boys e altri (superando il ragguardevole numero di 100 musicisti e collaboratori sonici, tra cui anche il produttore di David Byrne), più di un anno di lavoro e un cervello che non si ferma sono gli ingredienti per una nuova primavera compositiva ricca di gemme in fiore. Natalie è assente dal mercato dal 2003: l’anno in cui ha dedicato il buon Motherland alla neonata figlia Lúcia. Da quei giorni non ha smesso di leggere poesie e per far addormentare la baby era inevitabile cantargliele a mò di ninna nanna. Anche se il titolo potrebbe richiamare ad atmosfere in slowmotion, le 26 tracce non mancano di varietà e moto. La linea narrativa della cantante nordamericana si esplica in un progetto monstre’, lungo, pieno di citazioni: dal cajun (Adventures Of Isabel) al jazz, dallo swing (The Janitor’s Boy) ai tradizionali irlandesi (The Walloping Window Blind) e cinesi (The King Of China’s Daughter), dal blues al reggae (stupenda Topsyturvey-World), dal country (Calico Pie) alla balcanica. La giustapposizione di generi è coesa grazie alle citazioni da classici della letteratura inglese e americana: e e cummings, Mamma Oca (!), qualche poeta vittoriano e altre sorprese. In più è proprio la stessa voce della Merchant che tesse una trama solida e senza sbavature, confermandosi come una delle più convincenti chanteuses d’oltreoceano, capace di farci rabbrividire (ascoltate ad esempio il blues Griselda o la ballad Vain And Careless) con una naturalezza e una classe d’altri tempi. Per chi cerca un’alternativa alla presunta classe di Johanna Newsom e altre poshy amichette finto intellettualoidi, vale la pena di ritornare alla tradizione tout court con questo piccolo grande classico. Uno dei migliori dischi del 2010.(7.8/10) Marco Braggion Cd-R in tiratura irrisoria, la UgExplode di Weasel Walter stampa il primo vero album a nome Barr-Nevai. Verrebbe da chiedersi perché aspettare tanto, visto che le potenzialità del duo chitarra-batteria non hanno nulla da invidiare ai simili act ultracelebrati di Lightning Bolt o Hella. Potenti quanto i primi ma senza riffoni tamarri, caotici quanto i secondi eppure senza il piglio arty, sotto alcuni aspetti funzionano ancora meglio. Un free noise da urlo, sguaiato e vicino all'isteria. Assolutamente distanti poi, dalla fastidiosa mancanza di pathos che si criticava in occasione di Shred Earthship, colosso di tecnica selvaggia che vedeva Mick Barr collaborare con il batterista degli Hella, Zach Hill. Qui, quegli stessi frenetici funambolismi chitarristici di Barr, sciolti dalle costrizioni minimaliste auto-imposte con gli Orthrelm, suonano invece decisamente azzeccati. Vibrati ossessivi sulle sei corde costruiscono tensioni aliene, salvo poi esplodere in mille pezzi sotto le cariche distruttive di Nevai. Il batterista colpisce selvaggio tra 66 improvvisi cambi di tempo e assalti blast-beat urlando sguaiato al peggio della tradizione noise rock americana (Colossamite, Harry Pussy) finché, di tanto in tanto, i suoni si distendono in luridi duetti feedback/voce a salmodiare improbabili om per un infido sentore misticheggiante da dopobomba. Registrato dallo stesso Nevai nel suo Fuck You studio in un disastro di compressioni, Labyrintha si merita quello spazio vuoto che c'è tra i dischi di Ruins e di Napalm Death.(7.4/10) Leonardo Amico Mirco Menna/Banda di Avola - ...e l'italiano ride (Felmay, Marzo 2010) G enere : etno - world Tra i tanti microfenomeni degli anni zero italiani, quello del recupero della musica da banda è stato uno dei più curiosi e proficui. Merito di un manipolo di musicisti appassionatisi ad un mondo la cui tradizione va ben oltre il folklorismo da strapaese, su tutti Roy Paci e Fabio Barovero, e merito di un'etichetta come la Felmay che di alcune di queste riscoperte è stata convinta sostenitrice. Ci riferiamo al bel progetto ChantSong Orchestra (canzoni dell'indie anni novanta rifatte in chiave bandistico-orchestrale e ricantate da alcuni dei protagonisti di quella stagione) e ovviamente alla siracusana Banda di Avola. Ma rimanendo a sud, anche ai due splendidi dischi della Banda Ionica, il secondo dei quali (Matri Mia, assolutamente da avere) coniugava musica da banda e songwriting di qualità (coinvolgendo fra gli altri Vinicio Capossela e La Crus). Sugli stessi binari si muove questo lavoro della Banda di Avola insieme al cantautore Mirco Menna, titolare fino ad oggi di due discreti dischi del più tipico cantautorato italiano, che per l'occasione riprende alcune canzoni già pubblicate e le affida alle mani del maestro arrangiatore Sebastiano Bell'Arte, ovvero il direttore dei cinquanta elementi - età media sotto i vent'anni - della banda. L'esito dell'operazione è buono; la scrittura agile e densa sotto il profilo lessicale di Menna trova un'ulteriore pronuncia nelle vestiture bandistiche, le quali accrescono i toni più drammatici e danno al tutto maggior vigore e presa. Certo è che a lungo andare si percepisce come questi brani non siano stati scritti appositamente per l'occasione e nel confrontarsi con ance e ottoni pagano a tratti uno scarto coloristico. Ma è questione da poco. In ...e l'italiano ride ad emergere è soprattutto la carica vitale della Banda, sostegno perfetto a liriche spesso intrise di critica al malcostume del palazzo come del popolo. Tipico compito della musica realmente popolare.(6.8/10) Luca Barachetti Nada Surf - If I Had a Hi-Fi (Mardev Records, Giugno 2010) G enere : P ower pop Strani oggetti gli album di cover. Nella classifica dell'inutilità stilata da ogni appassionato di musica che si rispetti, si piazzano al terzo posto, dopo i live album e le raccolte senza inediti. Solitamente sono il modo con cui una band prende tempo, roda una nuova line up, tira su qualche soldo (il che non fa mai male), cerca di non perdere il contatto con i fan quando problemi di varia natura (crisi creativa? beghe con l'etichetta? la malasorte?) gli impediscono di mettere mano a materiale inedito. Il che, in alcuni fortunati casi, non impedisce di realizzare prodotti interessanti: una volta evitato l'effetto karaoke, la strada è tutta in discesa. Un esempio lo abbiamo avuto proprio all'inizio di quest'anno con l'album degli Hot Rats: rock'n'roll urgente, stringato e divertente come si conviene in questi casi. Ora arrivano i Nada Surf, che dal canto loro realizzano un album di maturo power pop, dalla vena vagamente malinconica ed intimista, in linea con lo stile inaugurato anni fa con il classico Let Go. Applicano la loro cifra a brani presi in prestito dai quattro cantoni del pop mondiale, passano in rassegna artisti delle più disparate epoche, background e collocazione geografiche (si va dagli Spoon a Kate Bush, dai newcomers Soft Pack a Coralie Clement) e se ne escono con quaranta minuti che li riconciliano con il proprio pubblico e con chi, come il sottoscritto, ha sempre seguito distrattamente la loro carriera. Il metro della loro capacità di reinterpretare sta tutto nella cover di Enjoy The Silence, ennesima versione del classico dei Depeche Mode, covertito in scintillante jangle pop, che mantiene pochi punti di contatto con l'originale. Il top si ha con i pezzi che, per loro stessa natura, meglio si sposano con i guitar pop del terzetto, quelli in cui i Nada Surf riescono a dar sfoggio dei loro sofisticati impasti vocali. La versione di Love Goes On dei Go Betweens, oltre a farci riscoprire un classico minore di incontaminata bellezza, ce li mostra totalmente a proprio agio. Si finisce persino per perdonar loro qualche piccola caduta di tono nel finale, quando qualche arrangiamento barocco di troppo finisce per incrinare una prestazione fin qui esemplare. Ma a quel punto il risultato è già stato portato a casa.(6.5/10) Diego Ballani Nedry - Condors (Monotreme, Maggio 2010) G enere : electro - rock La Monotreme non è nuova alle commistioni elettroniche in ambiti rock, prevalentemente di matrice indiee post-. Della serie, vedi alla voce 65daysofstatic per conferme. Non sfuggono al marchio della casa-madre anche questi Nedry, terzetto misto di stanza in quel di Londra in cui centrale è la figura della cantante nippo Ayu Okakita (anche loop station e percussioni), corpo minuto al servizio di voce bjorkiana e sex-appeal alla Kazu Makino. Quello del trio è un suono misto electro-rock dalla lampante sensibilità pop, che fa vibrare reminiscenze glitch 67 su slanci fuzzy creando paesaggi oscuri, a volte quasi ambient, ma sempre delicati e soffusi. Merito sicuramente della sapiente alternanza strumentale tra i restanti due membri del trio, Matt Parker e Chris Amblin, intenti a scambiarsi chitarre effettate e keyboard per creare ambientazioni eteree che sono l’ideale tappeto sonoro su cui si muovono le corde vocali della Okakita. A volte la ragazza è troppo dipendente dal modello bjorkiano, ma riesce sempre a soddisfare l’ascoltatore per sensualità e sensibilità, oltre che a donare quel tocco di esotismo che in tempi di interculturalità non guasta affatto.(6.5/10) Stefano Pifferi O'Spada - Pay Off (Despotz, Maggio 2010) G enere : P op - dance '80 Esordio di un quintetto con base a Stoccolma guidato dalla voce pulita di Julia, look ultrakitsch e capisci subito che musica fanno. Anni Ottanta a manetta, tastiere con progressioni rubate agli Steely Dan ma traghettate da synth e synthoni, chitarrine funky, stacchi a loro modo mozzafiato, eccessi produttivi alla Todd Rundgren. I primi tre pezzi sono ottimi, colori lucidissimi che quasi abbagliano, un revivalismo così sopra le righe che saresti tentato di dirlo consapevole e autoironico. Peccato che il livello sia molto disomogeneo e si finisca col battere spesso la fiacca, perché quei tre-quattro pezzi buoni sono davvero deliziosamente camp.(6/10) Gabriele Marino Oval - Oh (Thrill Jockey, Giugno 2010) G enere : acoustic glitch Ci aveva lasciato dieci anni fa con Ovalcommers, approdo pop di un personale percorso d'innovazione iniziato con Systemish, uno degli album che inaugurarono (anticipandola) l'epopea dell'errore teconologico come ragione estetica, procedurale e, perché no, filosofica e anti accademica. Oggi lo ritroviamo con lo stesso sguardo sdrucito e probabilmente la medesima indisponenza e asocialità d'allora, invecchiato, perplesso, ma con un distacco dal presente importante tanto quanto quello dell'autoesiliato Jim O'Rourke. Di fatto, quest'idea di chitarra come simulacro, del suo utilizzo come medium tra tanti presenti e un univoco passato condiviso, è senz'altro il tratto fondante di quest'eppì e il fuo68 co comune agli sguardi dei due musicisti, i più influenti peraltro nei rispettivi ambiti avant negli anni Novanta. Differentemente da O'Rourke, Oval ha tuttavia dovuto lavorare sodo per trasformarsi in un musicista impro canonico. E' ripartito suonando ogni strumento, imparando nel frattempo a farlo prendendosi così maggiori libertà d'osservazione. In Oh il glitch di cui fu pioniere suona acustico, ma acustico non è, ritroviamo il laptop (uno di quelli economici confessa nella press) ma forse è un effetto a pedale per elettrica, e quel che si ascolta sono una serie di brevi pièces per chitarra trattata, batteria, theremin e synth che rimandano a memoria certe schegge soniche dei Gastr Del Sol per rifiorire sottoforma di bozzetti melodici e astratti, dagli arpeggi folk o dall'intaglio astratto, spesso scossi dallo sconquasso free ma anche lasciati soli. Un risultato affascinante, familiarmente alieno, colorato à la Mirò, suonato con semplicità e attenzione al dettaglio. Qui la manomissione è tutto un aggiungere densità piuttosto che trasfigurare l'America di un Fahey, il nitore nipponico o il vento di certe contaminazioni post di Chicago.(7.3/10) Edoardo Bridda Paul White - Paul White & The Purple Brain (One-Handed Music, Giugno 2010) G enere : psych - hip - hop Essere dj e produttore madlibiano, oggi, significa spesso fare una cosa: trovare un concept e lasciare che innervi in maniera più o meno decisa il proprio stile. Disco su disco, concept su concept, e un flusso continuo della propria firma. Paul White per il sophomore ha scelto la produzione del guru psichedelico svedese S.T. Mikael, attento alle suggestioni orientali e al classico trip del rock Sessanta, come sfondo della propria stanza dei bottoni. Paul White & The Purple Brain è un’infilata di brani che ancora una volta fa parlare una cultura, un’ibridazione tra il sound di partenza e la personalità di Paul. Una sequenza che si fa entusiasmante da Ancient Treasures fino almeno a Fly With Me, cioè tra traccia 5 e traccia 11, e poi si distende, riprende, impenna, ci conduce con molti alti e pochi bassi fino alla venticinquesima e ultima siglatura di brano, Professional Criminals. Un disco che parte piano, dunque, senza troppo convincere, e poi gioca le sue carte a caldo. Gli stilemi evidenti sono la California targata UK di White. C’è meno melange con i suoni rock e con la tradizione chitarra-basso-batteria, rispetto all’esordio, sostituiti da un po’ di India fake (ancora echi Madlib, evidentemente, per l’orecchio allenato che va a un concept di qualche anno fa del producer della Stones Throw), strati di suoni ora soffusi ora determinati. Ci accorgiamo di una cosa, con Paul White & The Purple Brain, una volta di più, e cioè che siamo noi i nuovi dj che metteremmo questa musica a una festa.(7/10) Gaspare Caliri Perturbazione - Del nostro tempo rubato (Santeria, Maggio 2010) G enere : rock cantautorale Tornano a tre anni di distanza da Pianissimo Fortissimo ed è come se nel frattempo fosse successo di tutto. Ci sono state tournée teatrali piuttosto riuscite e apprezzate. C'è stata la rottura con la Emi ed il ritorno presso Santeria. Ci sono state esperienze professionali extra-band, defezioni e sostituzioni. Sono nati figli. Sono scoppiate bolle. C'è insomma che le cose accadono e devi prenderne atto, bene o male. Ecco quindi i Perturbazione uscire dagli anni zero con un album doppio (24 canzoni) nel quale danno voce e forma all'amarezza, al disincanto, alla disillusione, a quel po' di residua magia pasturata a speranza e passione. Il loro consueto genio tiepido è ancora alla base di questo Del nostro tempo rubato, ma l'approccio si è come squadernato in un ventaglio stilistico mai tanto vario ed estremo, entusiasta e feroce. Altro ritorno: Fabio Magistrali alla produzione e al missaggio, come già ai tempi di In Circolo (correva l'anno 2002) che li consacrò: una presenza che si sente nell'utilizzo incisivo ma sobrio degli elementi, sempre funzionali alla situazione, che siano gli archi o i cori o una salva di chitarre inviperite. Capita quindi che i folk indolenziti si alternino a pop-rock briosi quando non veementi (lo spasmo punk-folk di Vomito!, il malanimo espettorato ne L'Italia ritagliata) o segnatamente sintetici (Partire davvero), giocando con la densità delle atmosfere (che oscillano dalle volute eteree di Musica leggera all'estro ingrugnito di Niente eroi) per poi d'amblé rinfrescarsi errebì (La fuga dei cervelli) o con un sorso di para-tropicalismo piacione (Promozionale). E' un disco ambizioso, ovviamente, ma ha il grande merito di non suonare pretenzioso. Sembra proprio raccogliere - con mestiere pari alla genuinità - quel che di buono e urgente è uscito negli ultimi tempi dalla penna della premiata ditta. Una penna ancora in grado di sfornare piccoli gioielli di pop "senziente" come Mondo tempesta, Mao Zeitung e Buongiorno buonafortuna (in quest'ultima ospite quel buontempone malinconico di Dente), oppure stringenti quadretti cantautorali come la title track (a proposito di come l'impegno possa dribblare la retorica) e L'elastico. Nota di merito speciale per Primo, capace di descrivere il suicidio (di Primo Levi) con un delicato quanto efficace incastro di allusioni soniche e testuali. Avrebbero potuto restare i vecchi Perturbazione ad libitum, staccare comodamente il cedolino, vivacchiare in quel gradevole limbo di quasi grandezza. Invece hanno scelto di essere qualcosa di più. O comunque di provarci. Bravi.(7.1/10) Stefano Solventi Pjusk - Sval (12k, Marzo 2010) G enere : A mbient T echno Custode di una delle più credibili declinazioni di ambient techno a oggi disponibili, il duo composto dai norvegesi Rune Sagevik e Jostein Dahl Gjelsvik arriva al secondo album su 12k e conferma - va detto subito - quanto di buono dimostrato in Sart (12k, 2007), esordio già maturo di produttori dei quali tutto si poteva intuire tranne che fossero alle prime armi. Grazie a una cura del suono che definiremmo quasi maniacale, i due riescono infatti a rendere ancora attraente quella che è ormai lingua morta di un genere che ha attualmente nel ritornello deleuziano (differenza e ripetizione) di Biosphere - un altro norvegese - o nelle evoluzioni di Pantha du Prince o Monolake gli ultimi avamposti di creatività percepibili all'orizzonte. Sono le maestose aperture di brani come Validal e Sus non il canonico e costante frullare di beat sottopelle - il marchio di fabbrica di Pjusk, ciò che meglio sanno fare e li rende riconoscibili - come rende riconoscibile Biosphere e un certo modo di intendere l'elettronica tipico dei paesi scandinavi. Il disco funziona, specie se ascoltato a volume sostenuto sì da poter apprezzare le dinamiche texturali - davvero sopraffine - che sono qui più importanti di quelle armoniche o melodiche - rare e, quando presenti, piuttosto prevedibili. Con qualche colpo a vuoto in meno - il disco dura più di un'ora: troppo per queste sonorità - saremmo qui a parlare di un classico minore dell'ambient techno - o del primo vagito di una new school del genere.(7.2/10) Vincenzo Santarcangelo Pontiak - Living (Thrill Jockey, Maggio 2010) G enere : post hard rock Gente che viene dalla campagna i fratelli Van, Lain e Jennings Carney. Da noi si dice “scarpe grosse e cervello 69 fino”, nella loro Virginia non sapremmo, ma conta averli tra noi questi stacanovisti delle note - siamo all’album numero cinque - che non ne sbagliano una. Arrivano a una prima maturità, com’è giusto, spendendo più tempo nel granaio che hanno adibito a studio di registrazione (un poker di mesi in luogo dell’usuale settimana ) e apparecchiare quelle che sulle prime sono le “solite” chitarre pesanti, i “soliti” bassi rugosi, le “solite” melodie sabbathiane. Calma, che non ci troviamo al cospetto di uno tra i tanti gruppi di copisti che sia aggirano nel panorama di riferimento: qui nulla dura più del dovuto e l’urgenza espressiva prevale. Vero è che Young e This Is Living sono paradigmi di quanto appena elencato, nondimeno c’è un tono sardonico e oppiaceo nell’esecuzione e nella voce che tradisce l’approccio iconoclasta del trio. Demoliscono regole che, un tempo lontano, erano quando di più sonicamente eversivo potevi chiedere. I Pontiak lo hanno capito e sanno che non puoi più cadere nella prosopopea se ti misuri con queste sonorità. Ecco perché Original Vestal sfocia in colpi sparsi e feedback modulato in equilibrio paritario tra gli strumenti, e Algiers By Day e Thousand Citrus sottraggono zolfo a Tony Iommi per farne acidume da California ’68. Questo il motivo dietro And By Night e Second Sun, sperimentali parossismi col sorriso sulle labbra come li pensavano magari i Thin White Rope; questa la motivazione che libera le Virgin Guest e Beach vicine ai Pink Floyd estatici e intorpiditi nell’alveo dei primi 70. Dal quale proviene - ancorandosi tra la Londra degli Hawkwind e la Detroit degli Stooges - la tenebrosa e spezzettata Lemon Lady, laddove i sei minuti di psichedelico ondeggiare di Pacific riassumono il senso della band americana come meglio non si potrebbe. Stato dell’arte per un certo rock chitarristico, un disco siffatto, perché prende a esempio il passato per non farsi impaludare. Hai detto niente.(7.5/10) Sei brani e altrettanti remix degli stessi, nati tramite contatti umani veicolati dalla rete, tra un social network e l’altro. Accompagnati magari da video come quello di Ad Occhi Chiusi, realizzato come collage di filmati personali e d’epoca esenti da copyright, transitato addirittura per il sito di NME. Premesse interessanti per pezzi che coniugano immediatezza ad arrangiamenti che ammiccano ai generi citati poco su, peccando in quanto a qualità compositiva e pagando pegno per un’affinità troppo marcata con i Subsonica pre Microchip Emozionale. E paradossalmente poi son proprio i remix (Crime su tutti) a spiccare, tiro dance e strizzatine d’occhio al dubstep ben congeniate comprese. Da calibrare.(5/10) Giancarlo Turra Stefano Pifferi Giampaolo Cristofaro Pttrns - Science Piñata (Altin Village, Maggio 2010) G enere : p - funk Cominciare il proprio disco d'esordio con un titolo come Apocalypso è come indicare una via in maniera piuttosto eloquente. La musica dei tre Pttrns - tedeschi di Colonia - è appunto una apocalisse, uno svelamento incessante di fonti e rimandi evidenti e voluti, in cui si staglia tutto quel sottobosco di matrice p-funk che da !!! e Rapture in poi ha segnato l’indie-music del decennio scorso. Se i gruppi citati sono il punto di partenza per Benjamin Riedl, Daniel Mertens e Patrick Hohlweck (indifferentemente chitarre, basso, batteria e percussioni) c’è da dire che le destinazioni intraprese sono piuttosto stimolanti: tropical-indie alla Vampire Weekend più corposi, meticciato culturale alla Mi Ami con minore asprezza e tensione, funkettoni hard tagliati con l’accetta, terzomondismo alla Radio 4 o Panico che mischia coretti e dub, voci bianche e slanci dancey, poliritmi alla Black Eyes e funk bianco che più fine ’70 non si potrebbe. Insomma, inserito il cd ecco che in un attimo la fredda Colonia d’origine si trasforma in un caleidoscopio di sensazioni coloratissime e multiformi. Nulla di innovativo e molto di derivativo, ma classe sonora, gran tiro dancefloor-oriented e spessore non da runners ce li fanno apprezzare.(6.5/10) Popuccià Band - Pop 2.0 (Autoprodotto, Maggio 2010) G enere : F orma canzone dub Rowland S. Howard - Pop Crimes (Infectious, Maggio 2010) G enere : pop mitteleuropeo Nato come progetto del tutto hip hop, i calabresi Popucià (“proprio ciao” in vernacolo) diventano band vera e propria e con Pop 2.0 coniugano l’amore per dub, drum n bass e jungle ad una visione concettuale "moderna" della composizione e della struttura del disco. Annus horribilis questo 2010, almeno a giudicare dai troppi trapassi che ne hanno funestato questa prima, scarsa metà. Tra i tantissimi, anzi tra i primi visto che risale al 30 dicembre 2009, c’è da segnalare anche quello di Rowland S. Howard, comprimario di lusso di quel 70 highlight Oneohtrix Point Never - Returnal (Editions Mego, Maggio 2010) G enere : synth trance Nil Admirari. Non stupirsi di niente. Vecchio adagio degli stoici, che lo consideravano come la base della felicità. Non stupitevi quindi di inserire l’ultimo disco di Oneohtrix Point Never nel lettore cd (mai come nel suo caso il supporto cd diventa fondamentale. No vinile, no cassetta. Compact Disc!) e di trovarvi di fronte all’annichilente bellezza del rumore. L’apertura noise del nuovo disco di Daniel Lopatin, salda ponti importanti con gente come Aphex Twin e Venetian Snares: caotico, abrasivo, brutale eppure esteticamente bello, con l’uso di una voce umana che nella parte finale del brano sembra soccombere all’atroce rantolo delle macchine. Lopatin passa ora, ufficialmente, dal rango di culto a quello di portabandiera di una serie di cose che si muovono nella caotica scena musicale di questi anni. Lui è il punto di contatto tra i nuovi corrieri cosmici, gli esteti di una nuova ambient new-age, gli intellettuali pop della scuola hipnagocica. Daniel Lopatin sta da qualche parte li in mezzo, forte di una personalità che oltrepassa l’accerchiamento e si permette di citare i classici di sopra come si compete ad uno che guarda ben oltre l’orizzonte quotidiano. Poi, in generale, i sintomi che Returnal sarà il best seller del settore quest’anno sono un po’ ovunque. I precedenti di Zones Without People e Rifts hanno sedimentato. Ora Lopatin viene citato in egual misura da Pitchfork e dal più carbonaro dei blogs, l’etichetta di distribuzione è diventata la lungimirante ed esposta Editions Mego e dulcis in fundo ci sono gli artwork “designed by” Stephen O’Malley e il mastering di James Plotkin, le griffe più alla moda per l’underground che perde la verginità. Returnal si presenta quindi subito con le vesti del classico. Describing Bodies e Stress Waves migliorano ulteriormente gli standard del suo paesaggismo androide, prima di inaugurare un nuovo esempio di ballad robotica, cantata da una voce pesantemente effettata e compromessa nell’umore. Un sentore di mestizia cosmica, che va oltre la semplice dicotomia uomo/ macchina. Non è un caso che tutto finisca con l’assumere un profilo vagamente esotico. Qui siamo oltre il quarto mondo di Jon Hassel. E’ il quinto mondo di Daniel Lopatin, un mondo fatto di microchip, synth e circuiti valvolari, un mondo che viene raggiunto nelle tracce finali: Ouroboros e Preyouandi. Ormai da Tron, siamo passati a Tron Legacy.(7.8/10) Antonello Comunale rock australiano maledetto e rinnegato che ha segnato l’ultimo trentennio. Ecco così che il compianto chitarrista consegna involontariamente a questo Pop Crimes il proprio epitaffio. Un disco che, seppur carico di ovvi significati emotivi, non può prescindere dalla temperie musicale in cui il Nostro è cresciuto: dai seminali Boys Next Door/Birthday Party ai Bad Seeds del sodale Nick Cave (pur non facendone mai parte materialmente) passando per Crime & The City Solution e These Immortal Souls, senza contare le mille collaborazioni con Lydia Lunch, Einsturzende, Barry Adamson e tanti altri ancora. Come a dire tutti gli stadi intermedi che dal post-punk più isterico e bluesy arrivano a una moderna forma di pop-song dall’eleganza mitteleuropea. Nonostante questo evidente e ingombrante background, Pop Crimes si mostra perfettamente compiuto nelle trame ricercate e nella raffinatezza di fondo. A risaltare sono la fine eleganza strumentale messa al servizio di un mood gothic, appassionatamente oscuro e dal taglio mitteleuropeo e un songwriting maturo, composto, da crooner esistenzialista: che siano ballads in coppia (l’opener (I Know) A Girl Called Jonny con Jonnine Standish degli HTRK), incessanti torch songs (Nothin’) o cavalcate badseedsiane (Life’s What You Take It e Pop Crimes), Rowland S. Howard si dimostra artista di spessore, dalla sensibilità profonda e di cui sicuramente si sentirà la mancanza. Buon viaggio.(7.2/10) Stefano Pifferi 71 highlight Sursumcorda - La porta dietro la cascata (Egea, Maggio 2010) G enere : cantautorato avant Se la sono presa comoda i Sursumcorda per dare un seguito all'eccellente L'albero dei bradipi, un lustro intero. Non che il quintetto milanese sia rimasto con le mani in mano, anzi. Rubricati i fisiologici cambiamenti di organico (della formazione originale sono rimasti Giampiero “Nero” Sanzari, Piero Bruni e Francesco Saverio Gliozzi), in questo lasso di tempo hanno composto ben sette soundtrack per documentari di varia natura, cioè hanno seguito l'estro, quella sontuosa attitudine che li porta a realizzare stanze sonore per situazioni particolari, coincidenze poetiche, traiettorie narrative, frame visuali... E' quindi nel segno della suggestione musicale applicata al cantautorato che nasce La Porta dietro la cascata, album di canzoni dalle grandi aperture melodiche, sorrette da una apprensiva solennità chiosata da generose però mai eccessive partiture orchestrali. Un folk pervaso di aromi mediterranei come orizzonte mentale, il languore accorto e pensoso degli chansonnier - e vagamente Tenco - a spigolare intuizioni liriche, un esotismo sperso e a tratti balcanico a condire i guizzi: queste le principali coordinate di una calligrafia stratificata ma estremamente fruibile, interpretata con sobrietà disarmante dal Sanzari, voce non certo virtuosa ma ben dentro al quid poetico della cosa, anche quando si cimenta della "cover della cover" con So che mi vuoi (la versione che Mina fece della beatlesiana It's For You). Pezzi indubbiamente riusciti come Infinito, Il palazzo, Bambina che schiaccia i pinoli e Nascita nuova sembrano la sintesi ideale tra pop di qualità e musica d'autore. Poi ci sono i "frattali", variazioni strumentali più o meno brevi di spunti melodici raccolti nel secondo CD, un'appendice che torna a mettere l'accento sulla capacità di imbastire situazioni soniche tra poetico e cinematico, ribadendo la statura di una band da tenere in grande considerazione.(7.8/10) Stefano Solventi Sage Francis - Li(f)e (ANTI-, Maggio 2010) G enere : post hip - hop Sin dai giorni in cui gravitava attorno alla galassia Anticon, Sage Francis ha avuto poco a che spartire col ruolo dell’MC tradizionale. La dimensione che gli appartiene è un podio spartano da poeta beat con una piccola folla attorno che lo ascolta rapita. Siccome si è trovato a scrivere rime tra secondo e terzo millennio, non poteva che caricarsi sulle spalle la timbrica agra e snocciolarle, quelle rime, con fare da rapper. Benissimo così finora ed era logico che, prima o poi, entrasse nell’asilo per menti libere e sovversive della Anti-. Li(f)e arriva dopo Human The Death Dance, lavoro oscuro che a tratti finiva per raggomitolarsi e tirare sin troppi calci a chi gli si avvicinava. Avercene, però di intimazioni così coraggiose. Come avercene della maturità esibita qui, chiamando a sé facce inattese ma non se si pensa a quando detto in apertura: tra i tanti, sono della partita Brian Deck, Jim Becker e Tim Rutili dei Califone; l’energica Three Sheets To The Wind è a quattro mani con 72 Chris Walla; la splendida, amara apertura Little Houdini ospita un decisivo Jason Lytle. Come dire che tutti questi fan di Sage non possono sbagliarsi e così il Nostro, che ha deliberatamente scelto collaboratori non appartenenti all’area hip-hop: bene ha fatto quando gli esiti sono - per spremere il succo più saporito - l’amarcord tra narcosi e vetriolo I Was Zero e la minacciosa però malinconica Diamonds And Pearls, la The Baby Stays che meglio di altre si integra con l’anima Califone e una favolosa 16 Years cigolante di cupezza. Abbuonato il paio di episodi che fatica a prendere corpo, ripensi all’integrità del personaggio, alla conclusiva narrazione The Best Of Times e a ciò che l’ha preceduta. Ci scopri canzoni, la vita e le bugie che questa ci spaccia. Ma quello lo spiega già il titolo del disco, con un calembour geniale tanto quanto lo è una sua consistente parte.(7.1/10) Giancarlo Turra Sleepy Sun - Fever (ATP Recordings, Giugno 2010) G enere : psych rock e Smiths mentre l'organo gracchia tepori sixties (come nel bel singolo I Saw You Blink). Tutto ciò senza mai staccare la spina - pardon - le radici Non sposta una virgola il sophomore di Sleepy Sun. dal grembo di un front porch immaginario (immaginato?), Nessuno, del resto, poteva aspettarsi che potesse cam- laddove accanto alle ballate country sono benvenute le biare qualcosa, e l’ascoltatore mezzo salvato non reste- marcette errebì come non sarebbero spiaciute al giovarà sostanzialmente deluso, da Fever. Si potrà godere la ne Van Morrison (The End Of The Movie). Chiesastici e produzione di buon effetto alzando il volume e restando sbrigliati, frugali e stradaioli, sbarazzini e intensi, capaci di immobile, nell’afa estiva, a lasciar scorrere la psichedelia servirsi alla bisogna e con disinvoltura di trombe, violino e campane, gli Stornoway sono l'ennesima dimostrazione torrida del combo di San Francisco. Il maggiore rilievo attorno al disco sta qui: l’efficacia ma di come il pop sappia declinarsi in infinite, sempre gradeanche la mancanza di appigli per la memoria del lento flu- voli, sfumature.(7.2/10) ire delle tracce. Normale forse, per un rock pachidermiStefano Solventi co basato sulla ri-proposizione, ma che si regge su buona qualità costruttiva di psych song fortemente tradizionali Sur - Il limite (Sidecar, Aprile eppure dirette, nonché, in fin dei conti, ben scritte. Come 2010) dai Black Sabbath in avanti, la formula vincente è quella G enere : jazz folk della melma ferma che fa da intro a moderate accelera- Già assieme nei Caputolindi, band che sul finire dei zioni lisergiche (il tutto contenuto in Sandstorm Woman) novanta si cimentava nel sempre florido incontro tra - anche se a noi piacerebbe sapere dove sarebbero in jazz e bossanova, la cantante e musicista Eloisa Atti ed grado di arrivare se seguissero le piccole novità polirit- il versatile strumentista Francesco Giampaoli hanno poi miche quasi in coda a Marina. dato vita ai Sur, che nel corso del tempo è diventato Per ora - anche alla luce dei loro live - non ci si chiede un quintetto sfornando un esordio omonimo nel 2006 quanto potrà durare, ma la domanda sta lì, dietro l’ango- e dando vita oggi ad un sophomore che merita d'essere lo.(6.5/10) raccontato. Undici canzoni Gaspare Caliri che galleggiano su un tessuto languido e soave per quanto composito. Stornoway - Beachcombers Un intreccio di modi e Windowsill (4AD, Maggio 2010) suggestioni colti dal jazz al G enere : pop folk E' una storia sentita mille volte, quella degli Stornoway. canzoniere italiano, dal reQuattro studenti di Oxford che fanno la loro cosa so- pertorio popolare latinonora nella cameretta del college per poi rosicchiare en- americano al fado, questi tusiasmo e favori con esibizioni pubbliche sempre più af- ultimi omaggiati con le versioni del tradizionale messicafollate, finché non cadono sotto i riflettori dell'etichetta no La sandunga (pezzo ottocentesco scritto da Máximo occhiuta (nientemeno che la 4AD) e ti sfornano un de- Ramón Ortiz) e del classicone portoghese Lagrima (di butto saturo di entusiasmo giovane e prospettive a lungo Carlos Gonçalves e Amàlia Rodrigues). Interpretazioni termine. Si chiamano Stornoway, come il nome di un e arrangiamenti si fanno apprezzare per la sobrietà apvillaggio portuale scozzese dalle note origini vichinghe. passionata, per l'inventiva sempre organica alla situazione espressiva, per l'ingegno e la misura con cui certe vibraCosa c'entra? Non ci è dato sapere. Certo è che le undici canzoni di Beachcombers Win- zioni contemporanee (grazie soprattutto al micromoog) dowsill conservano una natura ondivaga o se volete iti- si mimetizzano nell'impasto. nerante, impastando le suggestioni alternative e doo-wop Tutto ciò nel caso dei pezzi originali significa disimpedegli Housemartins con l'alone traditional-folk degli gnarsi tra oniriche suggestioni (la splendidamente indefiOkkervil River, cogliendo dalla corolla Belle And Se- nibile Cavallino di vetro), argute ballatine (Colibrì) e ferventi bastian petali di tenerezza indolenzita (la toccante Fuel ibridi jazz-folk (Pelle), passando dalla marcetta traslucida Up) ed estro stradaiolo (quella Watching Birds dall'estro di Gloria del mattino e dalla flemmatica inquietudine dixie quasi Modern Lovers), concedendosi il sussiego bu- della title track. E' disco da meditazione come certi vini colico di certi Hidden Cameras (We Are The Battery che ti chiedono la giusta disposizione d'animo.(7.2/10) Human) o un pizzico di depistaggio postmodernista LoStefano Solventi cal Natives (On The Rocks), spacciando retaggi R.E.M. 73 Sweet Apple - Love & Desperation (Tee Pee, Maggio 2010) G enere : grunge - rock Gone incantevoli e ricolmi di amore nero. No Snare conquista il suo posticino nell’interstizio spazio/temporale in cui regnano Postal Service, Beach House e Gli Sweet Apple sono J. Mascis (batteria/chitarra/voce), Frozen, mentre Melanie una tenuta sulla distanza che gli ex Cobra Verde Tim Parnin (chitarra) e John Petkovic non era poi così scontata all’esordio.(7/10) (voce/chitarra) e Dave Sweetapple degli Witch (basso/ Giampaolo Cristofaro voce) e Love & Desperation una macchina spazio-temporale che ci fa uscire centrifugati a dovere nel Nord-Ovest Terror Pigeon Dance Revolt (The) americano agli inizi dei ’90. Sì, esattamente in quella città - I Love You. I Love You. I Love You che nessuno osa più nominare da un buon quindicennio And I'm In Love With You. Have An si può collocare l’esordio di questo che non si sa bene Awesome Day! Have The Best Day Of se sia un side-project ben definito o un gruppo estem- Your life! (Luaka Bop, Maggio 2010) poraneo. G enere : I ndie mes s Di sicuro lì va a parare la musica, un power-pop dalle Sull'etichetta di David Byrne, accanto a Tom Zé, Os tinte hard e grunge troppo riconoscibili e lineari: più Foo Mutantes e Zap Mama, l'esordio di questa band/colletFighters che Nirvana, qualche reminder dei Meat tivo numerosa come un condominio (18 persone: quelPuppets del medio periodo (altezza Too High To Die), le che affollano la copertina?), capitanata da tale Neil ovviamente Dinosaur Jr, uno sbiascicamento sofferente Fridd. Per capirci subito, il tutto suona come se diciotto alla Eddie Vedder (Never Came), una spruzzatina di main- tizi sbronzi di birra si fossero infilati in studio mettendosi stream-rock sporchetto alla White Stripes/Dead We- a cazzeggiare con gli strumenti. Un po' come - pare - facather, per capirsi (Flying Up A Mountain), una bottarella ciano effettivamente dal vivo i Terror Pigeon. di aor-rock di quello zuccheroso al limite della ballatona Il modus operandi, figlio degenere di un'epoca già postda accendino (Dead Moon) Animal Collective, è semplicissimo: prendere un moe il gioco è fatto. Insomma, tivetto pop e incasinarlo, strepitarlo, stonacchiarlo, scimscivolano via senza sussulti i miottarlo. Il disco è tutto così, un flusso di (in)coscienza 40 minuti di quest’album e a base di (s)cazzeggio alt/indie, un pasticcio che mischia l’unico piacevole passatem- piano acustico ed elettronica analogica, soul e dancefloor po è quello di mettersi lì a demente, con titoli assolutamente autoesplicativi come trovare e riconoscere i rife- iotdwykirhtbr. rimenti. O al massimo dare Non ci sono, ma ci fanno, e quindi ci stanno meno simuno sguardo alle due belle patici di quanto potrebbero. Sprazzi di divertimento, ma, in copertina, anch’essa a ben vedere un deja-vu, visto che sinceramente, troppo facile.(6/10) è un palese omaggio a Country Life dei Roxy Music. Gabriele Marino Decisamente prescindibile, seppur ben suonato. E ci mancherebbe.(6/10) Têtes de Bois - Goodbike (Ala Stefano Pifferi Tender Forever - No Snare (K Records, Giugno 2010) G enere : E lectro - pop Bianca, Aprile 2010) G enere : canzone d ' autore I Têtes de Bois amano i percorsi trasversali, fatti non solo di canzoni - scritte, riscritte (vedi l'omaggio a Leo Ferré del 2002), recuperate - ma capaci di coinvolgere La capacità di inanellare melodie a presa rapida è uno dei teatro, letteratura, ricerca sul campo e negli archivi. E' il talenti che un musicista che si vuol misurare con qualsiasi caso di questo Goodbike, secondo concept del grupforma di pop deve riuscire prima o poi ad acquisire. Ca- po romano dopo quell'Avanti Pop del 2007 dedicato pacità che Melanie Valera/Tender Forever ha dimostra- al lavoro, nonché verace atto d'amore nei confronti della to avere innata, indipendentemente dai vestiti che con- bicicletta e del suo immaginario. I Têtes, come tanti altri fezionava per il suo electro-pop sensuale e drammatico. cantautori nostrani prima di loro (Conte, De Gregori, Magari Wider continua ad essere il suo lavoro meglio Ruggeri), ne indagano il lato romantico, talvolta epico ma riuscito, ma No Snare gli è di poco dietro, pervaso da sempre in senso esistenziale, e pure quello politico, poatmosfere cangianti, tra effusioni di “indie gospel”, tappeti nendo le due ruote come mezzo di locomozione libertaritmici tribali e quel tocco lugubre che rende pezzi come rio - se non addirittura rivoluzionario - o come principio When I’m The Dark You Take The Light o Like Snare That’s costitutivo di uno stile di vita possibile e sostenibile. 74 highlight Teenage Fanclub - Shadows (PeMa, Maggio 2010) G enere : P ower P op In un mondo più giusto l'hype riservato, magari dopo appena un singolo o un EP, a certe mezze calzette della scena britannica dovrebbe invece essere riservato alle uscite discografiche di Norman Blake, Gerald Love e Raymond McGinley, le tre firme delle gemme power pop che da un ventennio vengono dispensate sotto la sigla Teenage Fanclub. Dopo un singolo (Baby Lee) messo in circolazione già qualche tempo fa attraverso il loro sito ufficiale, i tre tornano con un disco che conferma la loro solidità compositiva, le loro capacità melodiche fuori dal mondo e la freschezza dei loro arrangiamenti per farci tornare tutti sedicenni. I detrattori obietteranno che non c'è nulla di diverso dal solito disco Teenage Fanclub (eccezion fatta, forse, per una concessione pianistica in Dark Clouds, in un contesto altrimenti dominato come sempre dalle chitarre), che la formula è sempre la stessa e che i grandi dischi sono stati Bandwagonesque, Grand Prix e Songs From Northern Britain. Certo, qui siamo un gradino sotto, ma quante altre band riescono a suscitare lo stesso sentimento bittersweet dell'iniziale Sometime I Don't Need To Believe In Anything, come viaggiare sulla metropolitana del destino, cuffie calate nelle orecchie mentre il sole tramonta e gli archi che sorreggono il ritornello spargono tutt'intorno l'odore dell'oceano? E quell'organo che suona in lontananza in Shock and Awe non è il tocco di classe a una canzone pop perfetta (anche qui sorretta da violini delicati e bellissimi)? E non vi viene voglia di tornare brufolosi solo per poter dedicare a qualcuno When I Still Have Thee, con i suoi raggi di sole che si insinuano tra le tende della cameretta (“It's a minor song/ in a major key/ but the stars still shine/ and you see'em spin/ no I don't need much/ when I still have thee”)? Poche volte come in Shadows è sembrato evidente che il pop dei Beatles e di Ray Davies e la gioie musicali della costa californiana dei Beach Boys e di Van Dike Parks si possono fondere in un unico atto estetico definitivo rappresentato dallo spleen adolescenziale. E che lo amettiamo o meno, a sedici come a sessant'anni, è quel tipo di emozione che ci fa mancare un battito al cuore. (7.1/10) Marco Boscolo Da qui dunque la traduzione di un classico di Yves Montand come La bicicletta e la rilettura del Paoli minore di Coppi (entrambi assai riuscite e molto molto francesi), e da qui allo stesso modo il funk-ska urbano di Corrosivo acido e il pop festante di Noi siamo il traffico. Cosa manca? Forse una canzone all'altezza di una tradizione che alla bicicletta, e al ciclismo in particolare, ha dedicato più di un capolavoro. Anche se La canzone del ciclista, autografo però risalente allo splendido Pace e male (2004), sta proprio a un passo da Diavolo rosso e Il bandito e il campione. Tuttavia di Goodbike si apprezza soprattutto l'organicità del progetto. Reading letteraria prima (il cantante Andrea Satta ha dedicato alla bici un romanzo), spettacolo teatrale poi, ora disco multistrato. Che per comprendere e sognare (sul)la bicicletta raduna vignette (di Sergio Staino), featuring oblique (Militant A degli Assalti Frontali in Alfonsina e la bici dedicata ad Alfonsina Strada, unica donna a partecipare al Giro nel 1924), voci e penne ciclistiche più o meno storiche (Gianni Mura che firma il testo montanaro di Le bal des cols, Claudio Ferretti, Maurizio Crosetti, Alessandra de Stefano e Marco Pastonesi) e pareri eminenti (Alfredo Martini, Marc Augé, Margherita Hack, Chris Carlsson).Traguardo raggiunto tra i primi ma senza distacchi pesanti dal gruppo.(6.8/10) Luca Barachetti Thee Jones Bones - Electric Babyland (Il verso del cinghiale, Maggio 2010) G enere : rock ' n ' roll Fanno il verso ad un mostro sacro del rock come Jimi Hendrix, questi due bresciani: nel titolo come nella cover, splendida riproposizione della foto di Electric Ladyland. Luca Ducoli (voce, chitarra) e Michele Federici (batteria) hanno però piedi e testa ben piantati nel 75 rock’n’roll più scalmanato e senza freni possibile: slanci country, bellezze blues-punk, richiami garage come se piovesse, energia e sudore d’obbligo si alternano senza soste in Electric Babyland tanto che se in prima battuta a venire in mente sono le scarne trame della Blues Explosion e discendenti vari, nel corso della scarsa mezzora dell’album ci si rende conto che il duo bresciano è molto più inzaccherato nei crismi del rock’n’roll più selvaggio e sboccato. Per capirsi, quello che da Jerry Lee Lewis arriva fino agli oscuri garage-heroes delle varie Back From The Grave, passando per il sixties-pop più rumoroso, il rockblues storico, gli Stooges e gli Stones. Quella è la tradizione cui attingono e di cui non fanno mistero alcuno, anzi la mantengono in vita alla grande sullo slancio di freschezza strumentale e energica passione. I vari ganci e indizi disseminati qua e là ne fanno più che un disco, una sorta di caccia al tesoro negli ultimi 50 anni di r’n’r. Di più non oseremmo chiedere. Bravi.(7/10) Those Furious Flames - Trip To Deafness (Bagana Records, Maggio 2010) G enere : hard - rock Il progetto dei ticinesi Those Furious Flames è stracolmo di stereotipi riconducibili all'hard-rock. Dal nome scelto per la ragione sociale, alle note biografiche riportate sul sito della band - “It was born at the end of 2003, when 5 motherfuckers with a big passion for rock'n'roll met and decided to form a new band. As soon as they began to play some music, what they all had in their minds became clear: they wanted their real rockers attitude - turned on by sex, drugs and rock’n’roll - to grow wilder” -, alle foto ufficiali in pose da “supertosti”, a una grafica del disco - peraltro apprezzabile - in bilico tra 13th Floor Elevators e Grateful Dead (Malleus docet). In realtà si tratta di molta “fuffa” e di un po' di sostanza, visto che tolta la sovrastruttura fatta di immaginari riciclati a oltranza, rimane una base abbastanza solida in cui Stefano Pifferi far convivere Unida, porzioni di Radio Birdman, spauracchi Guns & Roses - più citazioni nel suono che altro - e un pizzico di rock-pop fine Settanta / inizio Ottanta Thee Oh Sees - Warm Slime (In The da capelloni ormai stemRed Records, Maggio 2010) piati (la I Love Rock'n'roll via G enere : garage - rock Non si può dire che si risparmino i Thee Oh Sees di Arrows / Joan Jett And John Dwyer vista la pletora di uscite brevi e lunghe che The Blackhearts suggeridonano ad ogni giro di calendario. Nello stesso modo ta da When The City Is Slenon si può dire che non sorprendano ogni volta, pur gio- eping). Nulla di stravagante cando sempre sul terreno garage-psichedelico infiltrato o particolarmente originain egual misura di scorrettezze soniche e sommessi slanci le, insomma, ma nemmeno l'opera di qualche residuato soul. Warm Slime si apre con un pezzo, l’omonima title track, criogenico in pantaloni in pelle del decennio reaganiano. che da sola occupa esattamente una buona metà dell’in- Un viaggio verso la sordità che nasconde meno pericoli di tero disco e che in un quarto d’ora scarso di stomp- quel che potrebbe sembrare.(6/10) garage psichedelico non fa un prigioniero che sia uno. Fabrizio Zampighi C’è l’intero universo targato Thee Oh Sees in quel pezzo: coretti twangy e sensibilità Nuggets, umore sfascione e Titiyo - Hidden (Despotz, Maggio elettricità a manetta, brandelli di wave, punk e sixties-pop 2010) maciullati insieme in un saliscendi da ottovolante dera- G enere : R\' n \'B gliante. È lì, forse, che risiede il grande segreto dell’ascesa La lunga carriera della regina dell'R'n'B svedese, nonché del quartetto nell’odierno panorama (ex)garage, testi- sorellastra di Neneh Cherry che alla musica la avviò, moniato anche dalla centralità che la sigla ha assunto in non aveva regalato pagine particolarmente memorabili, questi ultimi 2 o 3 anni tra i mille progetti del suo leader: come si evince dal Best Of del 2004: un disco ogni tanriuscire a condensare in dosi uguali asperità e melodie, to, piazzato anche dove gli competeva - ossia nelle chart lo-fi e garage, psych e sixties pop, evocando solari e aci- americane, ma il tutto all'insegna di un pop che seguiva di panorami retrò così come sguaiate performance da senza grossi sussulti i trend del periodo. rock’n’roll marcio. Insomma, miscelare tutti gli ingredienti Dopo esser passata però dallo stardom di Come Along (noti) ma tirandone fuori ogni volta pietanze ricche, gu- allo stallo creativo dell'album non terminato nel 2004, stosissime e appetitose.(7.2/10) Titiyo ha avviato un percorso di ridiscussione che l'ha Stefano Pifferi portata, tra le altre cose, a scrivere da sé il repertorio. Ne è risultato Hidden (del 2008 ma distribuito in Ita76 lia solo adesso), il quale fin dal titolo - da intendere più come "intimo" che come "nascosto" - si muove su linee nuove rispetto al passato, mollando il dancefloor per una malinconia che non viene meno nemmeno quando si recupera un po' di tiro ritmico, vedi l'opener Awakening (con melodia di celtico pathos su bassi house) o una Clear Crystal Mud con furtino-Eurythmics. Il pop lo cerca semmai nei Portishead di Stumble To Fall, nel bordone vagamente Harvey di N.Y. o nel duetto con Moto Boy della If Only Your Bed Could Cry: per il resto la nostra preferisce insistere sul celtico nelle movenze sinuose di piano, archi ed elettrica di Standby Beauty o cercare delicatezze mitchelliane in Longing For Lullabies, misteriose in Drunken Gnome. Pop lo è ancora, dell'R'n'B ne rimane, eppure Titiyo ha trovato una mano già ferma per farne qualcosa di segno opposto rispetto al poco carattere del passato.(6.8/10) Twin Stumps - Seedbed (Fan Death, Maggio 2010) G enere : N oise R ock D owntempo Dei Twin Stumps cennavamo il mese scorso parlando dei colleghi Drunkdriver, oggi una nuova uscita ci sorprende di per sé dato un EP omonimo di pochi mesi fa e considerata la violenta aggressione di cui è stato vittima il bassista Mike Yaniro. Se il 12 pollici stava precariamente in bilico tra acre punk hardcore downtempo e rumore puro, con il primo full-lenght, grazie al prezioso lavoro di Ben Greenberg dei Pygmy Shrews, il suono s'ingrossa perdendo in atmosfera e guadagnandoci in impatto e irruenza. Giulio Pasquali Ascoltando le sinuose linee di basso (Child Republic), i clangori delle chitarre (Missing Person) o la marzialità metronomica (Landlord), il paragone con i Pissed Jeans può Tracey Thorn - Love And Its nascere spontaneo, eppure Seedbed non è un lavoro di Opposite (Strange Feeling, Maggio purificazione o una svolta, piuttosto rappresenta una ver2010) sione più mirata e cinica dell’hardcore sudicio della band, G enere : songwriting Ci sono voluti quasi tre anni all’ex Everything But The in cui i rarissimi momenti di quiete (i droni subliminali di Girl per dare alla luce un nuovo disco. Registrato tra Pigs At The Trough) e quelli turbati (Body Plan), ne fanno apLondra e Berlino, prodotto da Ewan Pearson e infar- prezzare ancor più l’incedere greve. I Twin Stumps sono cito con collaborazioni d’eccellenza (tra cui la voce di autori di un hard blues-noise da ultimo giorno sulla TerJens Lekman, la chitarra e la batteria degli Hot Chip, ra.(6.9/10) al secolo Al Doyle e Leo Taylor) l’album è una meditazioAndrea Napoli ne diretta e senza peli sulla lingua sull’immaginario sentimentale della mezza età. Tying Tiffany - Peoples Temple La Thorn confessa sul suo blog che questo è uno dei di- (Trisol, Maggio 2010) schi più acustici su cui ha lavorato. Come a dire che col G enere : dark electro cl ash passare del tempo le macchine servono solo in fase di Tiffany prende di pancia le eredità Depeche Mode e le post-produzione e ci si concentra più sui testi che su- buone intuizioni dei primi Crystal Castles nel suo velogli FX. Piano, chitarra e live drums per dei piccoli grandi cissimo terzo disco. Addestrata nella palestra Gomma e quadri di un’esposizione su come la “middle age non sia sui palchi del post-electroclash, la ragazza se ne esce con un periodo di rilassamento, anzi è più una zona di guerra”. dieci tracce di buon dark pop tagliato per la Kitten geneE quindi vai di divorzi, scazzi, depressioni e altre amenità ration. L’azzardo fuori tempo massimo rischia l’emulazione over 50. Ma se la riflessione si fa dura, la voce riesce a plagiarista, ma dopo qualche ripetuto e piacevole ascolto, cullare e a far passare tutte le tensioni. si capisce come il genere sia ancora ad uso e consumo Tracey ha ancora voglia di esprimere il soul che in una di una nicchia selezionata che può contare su personaggi carriera più che decennale le ha fatto meritare il rispetto di fiducia. Tying furbescamente piazza il dark sulle distorda chanteuse sinuosa (stupenda la piano ballad in free sioni vocali (3 Circle), non sfigura con le cavalcate che downloading Oh, The Divorces!), folk rocker indispettita ricordano il rock dei Garbage tagliato Bowie (One Bre(Hormones), bohemien wave epifanica (Kentish Town) e ath) e riporta tutto ai nostri giorni sulla linea delle Yeah blueswoman west-morriconiana (Come On Home To Me). Yeah Yeahs e delle post-rrriot più commerciali (Still In My Adult, sì, ma che voce, Tracey.(7.2/10) Head). Un discone per i teen emo dark (Cecille) e per i Marco Braggion darkettoni con l'immancabile cerone bianco (Border Line). Solo per aficionados, ma comunque ben fatto.(6.5/10) Marco Braggion 77 highlight Walls - Walls (Kompakt, Aprile 2010) G enere : A mbient , noise chill Villagers - Becoming A Jackal (Domino, Maggio 2010) G enere : songwriting , chamber La personalità non difetta di certo al dublinese Conor J. O’Brien, titolare del progetto Villagers arrivato ora all’esordio su Domino con Becoming A Jackal. Deus ex machina del progetto e nome che circola da un anno e mezzo almeno con alcuni singoli ed EP all’attivo, il Nostro è titolare di un songwriting di matrice classica, che si abbevera alle fonti consuete dei Bob Dylan, Neil Young e Simon e Garfunkel per molte soluzioni armoniche; ne rinnova poi la tradizione, innestandosi su una scena, che ha visto negli ultimi anni la stella di Conor Oberst - Bright Eyes, e parallelamente quella di Micah P. Hinson e Eugene Mc Guinness, non dimenticando l’intensità di un Eliott Smith di cui Conor peraltro è fan. Becoming A Jackal ha il suo valore aggiunto nella matrice chamber che non è secondaria, anzi, contribuendo alla costruzione di un pop talora sinfonico, intimistico e malinconico il giusto. Che non si esaurisce in questo, presentando variazioni e inquietudini tipiche di un disco di formazione qual è quest’esordio, incentrato non a caso sul crescere ed evolversi. Sensibilità e mood che avvicinano Conor ai soliti Robert Wyatt e Scott Walker, ma anche ai più recenti Divine Comedy e Owen Pallett. Il nostro plauso va allora al progetto Villagers per essere riuscito ad unire intensità emotiva ed espressività, personalità e sintesi in un album riuscito.(7.4/10) Teresa Greco Ulaan Khol - III (Soft Abuse, Aprile 2010) G enere : giutar solo Unbunny - Moon Food (Affairs Of the Heart, Maggio 2010) G enere : folk rock Terzo e conclusivo episodio per Steven R. Smith sotto le mentite spoglie del moniker Ulaan Khol. L’episodio numero III della trilogia Ceremony accentua ancor di più il solipsistico procedere heavy-psych a base di riverberi, echi, feedback e distorsioni che caratterizza il progetto, presentandosi come l’anello più duro e a tratti incompromissorio dell’intera trilogia. Convivono anime diverse e apparentemente inconciliabili nelle 8 tracce untitled che, come da costume, sono da intendersi come movimenti più che come veri e propri pezzi a sé stanti: dilatazioni doom e introspezioni eteree di matrice folk, aperture heavy-rock reminiscenti la kosmische più materica e deadmaniani solo di chitarra riverberata. A caratterizzare Ulaan Khol è però il mantenere sempre vivo un taglio rurale, primitivista, di ovvia ascendenza Jewelled Antler Collective, insieme mistico-spirituale e rumoroso ma depurato da ogni manifestazione urbana o industriale. L’intera trilogia è disponibile anche in edizione limitata in box di betulla, perciò affrettarsi è d’obbligo.(7/10) Già un pugno di album per etichette ruspanti e sparse, e adesso questo Moon Food che celebra il quindicesimo anno di attività per Unbunny, band dietro cui opera l'attività di songwriter di Jarid del Deo. Tutto un estro folk-rock sbilanciato sixties (l'enfasi acida, il trasporto fideistico) mantecato in un disincanto magico di quelli che Linkous buonanima ci distillava capolavori, coi germi del power pop ad illanguidire i contorni. In queste dieci tracce per poco più di mezz'ora assistiamo perciò ad un gradevolissimo teatrino di situazioni melodiche che se non sembrano avere la forza per affondare il colpo riescono però a blandirti con garbo e arguzia. Un placido caleidoscopio dove scorgi i Birds tra fregole country e fervore religioso (Young Men Are Easy Prey), vivide cartoline Neil Young e raccomandate elettriche CSN&Y (Whispers), palesi tracce - appunto - Sparklehorse (Winning Streak, Landslide) e un impasto indefinibile di umori Lennon e Grandaddy (la splendida February Secret). Un piccolo disco da tenere caro.(7.1/10) Stefano Pifferi Stefano Solventi 78 I Fuck Buttons, in quel mix di cosmica '70 e noise, nu rave e new age, felpe con il cappuccio e sneakers sono stati i capostipiti di quel che abbiamo chiamato digital shoegaze segnando l'immaginario di una piccola generazione allo stesso modo di quanto ha fatto (e sta facendo) il movimento glo fi e la stonata voglia d'evasione che lo alimenta. Sulla falsariga di tutto questo germogliano piante e fiori dai profumi particolarissimi, il mese scorso abbiamo scoperto i Gayngs e la loro internazionale downtempo, ed ora tocca ai Walls, altro combo dai sintetismi (e dall'elettroacustica) svagati, dalle coordinate non necessariamente coerenti, eppure con il fuoco giusto dove doveva stare in una formula tra le più fresche e now on che ci potevano essere. Il duo composto da Sam Willis (ALLEZ-ALLEZ) e Alessio Natalizia (Banjo Or Freakout ma soprattutto Disco Drive), dopo essersi fatto conoscere per i remix di Pantha du Prince e The Field, partendo proprio dalle escrescenze del suono di quest'ultimi, girano la chiave giusta, quella che tutti avevano davanti agli occhi ma che nessuno ancora aveva avuto l'intuizione d'utilizzare: svoltare chill out i Fuck Buttons e farne una versione balearic. Era la mossa perfetta, soprattutto se ad alimentare l'idea dietro il progetto c'è stata una mano ferma nel dosare misticanza psych, disinvoltura post-tutto e un pizzico d'antico spirito punk. Disco di culto Walls, umile ed efficacissimo pure nel gestire l'immaginario, spingendo magari i venti artici di Pantha sopra i campfire pastorali di certi Animal Collective, oppure facendogli calare gli ufo dei Boards Of Canada (Austerlitz Wide Open); il tutto servito a caldo e senza farsi mancare la voglia d'estate e di sabotaggio (la techno poverissima di A Virus Waits). Se lo volete è come nei primi Novanta: di sera le chimiche dance di James Holden, Pantha Du Prince, Four Tet e The Field e quando il sole sale tutti in spiaggia con The Walls.(7.1/10) Edoardo Bridda Weasel Walter Septet - Invasion (ugExplode, Marzo 2010) G enere : F ree -J azz /P unk Weasel Walter non è di certo uno a cui piaccia starsene con le mani in mano. Finiti i fasti Now! Wave di una Chicago ormai in declino, si è spostato ad Oakland. Lì ha continuato a pubblicare dischi a nome Flying Luttenbachers fino a dismettere la ragione sociale nel 2007, sempre senza mai smettere di intraprendere nuovi progetti e collaborazioni (Burmese, Lake Of Dracula, Lair Of The Minotaur, To Live And To Shave In LA...) e di occuparsi della sua etichetta UgExplode. Per ultimo, avendo esaurito tutto quello che la California potesse dargli, dallo scorso 2009, si è trasferito a New York dove suona come nuovo batterista nella band progdeath Behold...The Arctopus. Come se non bastasse, parallelamente alla sua carriera rumorosa ed iconoclastica, da qualche anno a nome Weasel Walter sono stati pubblicati anche diversi album che lo vedono a fianco di figure di spicco dell'avanguardia jazz. Gianni Gebbia, Paul Flaherty sono solo alcuni dei nomi che troviamo nelle miscele esplosive di jazz-punk di Apocalyptik Paranoia, Particles, Lichens o altri dischi. Uscito per la solita UgExplode a nome Weasel Walter Septet, l'ultimo Invasion si avvale della collaborazione tra gli altri, del chitarrista Herry Kaiser e del contrabbassista John Lindberg, entrambi attivi come improvvisatori free sin dagli anni '70. Ma pensare che la presenza di personaggi del genere intimorisca Weasel, significa non aver ben colto il personaggio. “Il mio credo oggi è di spingere i musicisti con cui suono sempre un po' oltre a quello di cui sono abituati” dichiara in un intervista per AllAboutJazz. E nei 70 minuti di Invasion infatti, raramente capita di tirare il fiato. Le percussioni di Weasel, in coppia con William Winant, spingono fino in fondo l'acceleratore, costringendo gli altri musicisti a fronteggiare velocità insolite per il jazz. Ed in questa situazione si susseguono le frenetiche scale della tromba di Liz Allbee o del sax di Vinny Golia, gli spunti atonali sharrockiani della chitarra di Kaiser, come le sfuriate del contrabbasso di Lindberg e di Damon Smith. Trame fittissime, abbaglianti, con tante diverse personalità in gioco da generare una creatura pluri-schizofrenica. Non si finirebbe mai di sviscerare ogni aspetto nel dettaglio, ognuno dei sette componenti apporta le sue particolarissimi caratteristiche. Ma è il risultato complessivo a fare la differenza, come una reazione esotermica, la musica sprigiona calore, energia. E se si dovesse trovare un tratto comune, è proprio l'energia l'elemento ricorrente in tutte le produzioni di Weasel Walter. Più che un musicista, un Re Mida della velocità.(7.1/10) Leonardo Amico 79 Woodpigeon - Die Stadt Muzikanten (End Of The Road Records , Giugno 2010) G enere : indie country Da Calgary, Canada, al crocevia tra memoria e moderna composizione indie. Il collettivo Woodpigeon capitanato da Mark Andrew taglia il traguardo del terzo disco mostrandosi ancora una volta combo tradizionalista dai tratti peculiari. Oltre che nei fraseggi strumentali e nell’uso delle vocals (in comproprietà tra lo stesso Andrew e le donzelle del progetto), nella musica dei canadesi batte un cuore folky, un'alchimia agreste che, alla pari dell’influenza dichiarata Fairport Convention, rimanda al lavoro di Gram Parsons in combutta con Emmylou Harris (Morningside, Enchantee Janvier e Redbeard ). Suonano come degli hippy svagati in gita fuori porta i Woodpigeon, armoniosi (otto elementi, più una mini orchestra che il classico gruppo rock) e coraggiosi nel viziare la storia con elementi "altri" senza offenderne l’originaria lettera (Spirehouse tra ottoni, archi e vibrafoni, somiglia tanto a degli Efterklang in licenza folk; oppure nella delicatissima e onirica Our Love Is As Tall As The Calgary Tower affidata a celesti violini e chitarre pizzicate). Esistono due versioni di Die Stadt Muzikanten, la presente marchiata End Of The Road Records e una per Boompa che al disco accorpa un ep registrato con Steve Albini.(7/10) Gianni Avella Woods - At Echo Lake (Woodsist, Maggio 2010) G enere : lo - fi pop E così mentre i Woods sportivi non sembrano imbroccarne una che sia una, i Woods musicisti trovano la proverbiale quadratura del cerchio. Quella quadratura, senza troppi giri di parole, ha un nome e un luogo ben definiti: Jerry Garcìa e la west coast. È infatti dall’altra parte degli States che Jeremy Earl, band-leader oltre che fondatore e unico responsabile di Woodsist, ha definitivamente spostato il cuore dei suoi Woods, alla ricerca della melodia lo-fi perfetta. Quelle di At Echo Lake sono infatti piccole gemme, tratteggiate in bucolici quadretti sonori abbozzati in forma-canzone, che rimandano ad un immaginario ultranoto come quello della summer of love, delle coste assolate e un po’ malinconiche della California, delle droghe leggere smazzate al tramonto. Pulite le asperità e le dissonanze dei precedenti album, At Echo Lake si offre nitido e sobrio in uno scintillio lo-fi di sixties-pop adattato al mondo indie dei ’90, risultando a tratti accecante nella sua perfetta semplicità. Cristallino è uno degli aggettivi 80 che vengono in mente ciondolando la testa all’ascolto di Blood Dries Darker o Suffering Season, semplici e deliziose pop-songs cantate in punta d’ugola da Earl. La sua voce, infatti, è uno degli elementi portanti dell’album: un “ibrido tra Jad Fair, Jonathan Richman e Neil Young” secondo la definizione dell’etichetta che ci sentiamo pienamente di appoggiare. Cattura di brutto, mr. Woodsist, senza strafare e senza mai andare sopra le righe, ma risultando irresistibile mentre infila, una dietro l'altra, trame melodiche da urlo. E se lo conoscevamo come leader di una band weirdlo-fi pop e come scopritore di talenti underground, ora possiamo dire di conoscerlo e apprezzarlo pienamente anche come cantante.(7/10) Stefano Pifferi Wounded Lion - Wounded Lion (In The Red Records, Aprile 2010) G enere : G arage R ock L.A. da sempre ha la reputazione di città violenta, dove gli eccessi delle star e la brutalità della polizia e delle gang riempiono le strade, le pagine della cronaca e spesso anche i dischi. Risulta così piuttosto strano che da lì venga un gruppo come i Wounded Lion, quintetto al primo album su In the Red dopo l’aggiunta di Monty Buckles dei Lamps dietro le pelli. Ritroviamo un pizzico della furia ritardata del gruppo di Monty in questi solchi (Carol Cloud), anche se a caratterizzare maggiormente l’omonimo debutto sono filastrocche demenziali e ballate strampalate assai più ironiche che aggressive (I Think It’s Hungry, che saccheggia a man bassa Velvet e Gories, e i coretti ilari alla Television Personalities di Belt Of Orion). Il gruppo di Dan Treacy viene alla memoria anche per i testi naif e surrelai in cui i WL cantano di strane creature amichevoli ed improbabili casi umani. Wounded Lion è per il resto un divertente garagepunk dai toni ora circensi (Black Sox, Degobah System) ora beffardi (Silver People), che, se non aggiunge nulla di nuovo alla tavolozza del genere, di certo è una salubre ventata d’aria fresca, utile per l'arrivo imminente della calura. (7/10) Andrea Napoli Year Of No Light - Ausserwelt (Conspiracy Records, Aprile 2010) G enere : P ost -R ock /S ludge Un lieve feedback tenuto per un paio di secondi e subito l'aria si riempie del suono delle chitarre elettriche. Denso, compatto, come solo una nutrita line-up, con 4 elementi a percuotere corde, riesce a creare. Un suono che non è destinato a caratterizzare tutto il corso dell'album, ma che di sicuro imprime la sua carica a più riprese. Una materica zavorra per riportare il peso della realtà quando la foschia onirica dei riverberi prende il sopravvento, in un dualismo sonico che è tratto peculiare dei Year Of No Light. Ausserwelt è il secondo disco della band francese, dopo Nord, uscito per Crucial Blast, e una manciata di split e partecipazioni a compilation. E nonostante scrivano "shoegaze" tra i generi praticati, la loro musica sembra semmai un post-rock in drop-tuning. Più un incrocio tra i tribalismi di casa Neurosis e le andature progressive dei Godspeed You! Black Emperor che le effusioni di rumore di My Bloody Valentine, neppure nella versione rivisitata metal di Jesu. I saliscendi, pregni di un emotività malinconica, vengono sospinti da ritmi incalzanti, con due batterie a raddoppiarne l'intensità, mentre le chitarre tingono lo spettro di un caleidoscopio di suoni, ognuna a sovrapporre uno strato diverso all'intensa tela musicale. Non sarà lo stato dell'arte del genere, ma probabilmente a Year Of No Light non interessa nemmeno.(6.8/10) Leonardo Amico Zero Centigrade - I'm not like you (Twilight Luggage, Marzo 2010) G enere : A vant -F olk Il limite di certe sonorità avant sta nel superarsi ostentatamente ed ostinatamente, senza bastarsi mai. Proiettarsi in avanti, raggiungere il rush senza più un corpo, un'idea, per il fatto di non avere abbastanza fiato nè fiuto per guardarsi indietro. L'avant-folk dei Zero Centigrade fortunatamente non ne risente affatto: mantiene nelle proiezioni un saldo appoggio all'origine più oscura che ci sia, il blues dei primi tempi - passato per l'azzeramento totale, il riduzionismo, il limite, il microsuono, l'atonalità. Vincenzo De Luce e Tonino Taiuti (l'uno architetto, l'altro artista, attore teatrale, pittore), adescando qua e là linee percorribili, tornando alla musica cotoniera e con solo due strumenti (chitarra acustica e tromba), suonano come se fossero nella giungla amazzonica, oppure all'inizio (o alla fine) del mondo. Chitarra e tromba sembrano due reperti fossili, due strumenti il cui difficile unisono si collega al primitivismo informale con cui i due non- musicisti tingono a piene mani. Griglie elettriche marcescenti fanno spola con diramazioni tessil-acustiche, tutte briglie ordinate su distese di fiati, che fanno dei beat (Dirty Times), claustrofobica presenza inquieta, tutta centrata sull'assurdo minidrone ventilato e i coltelli di chitarre. Sembra di stare in mezzo alle piantagioni, non quelle del Mississipi, che sarebbero piaciute a Sleepy John Estes, quanto piuttosto quelle del Delta velenoso, fatto di liquami e piante carnivore, nero come la pelle di un bluesman rapito dagli alieni. A gettare catrame sulla costellazione infinita di macerie più o meno liquide di chitarra e tromba è l'assenza totale di effetti, macchine, mastering, missaggi vari - cosa che spinge ancor più nella ricerca di una forma verace, inossidabile, taumaturgica. Il disco, secondo di una serie che si spera essenziale quanto i due primi episodi, è licenziato da Twilight Luggage, in formato cd-r oppure scaricabile e stampabile con copertina. Più di così non si poteva proprio.(7.5/10) Salvatore Borrelli Zero In On - Silly Lilly (Autoprodotto, Maggio 2010) G enere : I ndie rock Che ci fa un disco come questo tra le autoproduzioni? Per trovare l'America non serve andarci davvero: basta farci arrivare i dischi, a restituire gli stimoli che da lì e dall'Inghilterra hanno colonizzato il mondo, Locarno compresa, da dove vengono gli Zero In On. Il trio italo-svizzero nelle terre del rock c'era però stato davvero; dunque non si capisce come mai Silly Lilly non sia pubblicato da chi di gruppi come loro ne ha sfornati a decine, spesso peggiori. Il disco non sfigurerebbe nell'indie-rock odierno, quello che rallenta i Green Day, canta come Casablancas e somiglia a mille altri, dai Franz Ferdinand e dintorni: niente di eclatante ma complessivamente una buona disinvoltura, energia e una produzione che ogni tanto spara qualche finezza (il piano e i fiati miniati in duetto su Los Angeles Is Burning, una Seargent Dylan Sand che dopo la Intro psichedelica passa a fare ska come lo farebbero i Beirut). Lo stomp della title track, poi, è una freccia - MTV-proof - che non hanno proprio tutti in faretra.(6.4/10) Giulio Pasquali 81 — libri Franco Battiato. Soprattutto il silenzio A nnino L a P osta (G iunti , 2010) Frank Zappa - Il Don Chisciotte elettrico N eil S l aven (O doya , 2010) Odoya si fa coraggio in un mercato allo stesso tempo desertico e inflazionatissimo e rimette in circolazione la traduzione di Electric Don Quixote di Neil Slaven, ponderosa biografia di Frank Zappa che aveva avuto una prima edizione italiana nel 1997 per la misconosciuta Tarab. Operazione meritoria "a prescindere", data la scarsità di testi in generale e di biografie in particolare dedicati a FZ: l'unica altra disponibile è infatti quella firmata da Barry Miles uscita per Kowalski nel 2006. Per quanto simili nella struttura e nelle intenzioni (percorso rigidamente cronologico, grande ricchezza di dettagli, volontà di proporsi come "libro definitivo") e per quanto pure quello di Miles citi tra le sue fonti quello di Slaven (scritto quasi dieci anni prima), i due volumi hanno un taglio profondamente diverso, risultando di fatto complemetari. Sposiamo la lettura che del libro di Slaven fa il guru zappiano Ben Watson (guru controverso, si veda il suo The Negative Dialectics of Poodle Play) in una affilatissima recensione su The Wire (n. 154, dicembre 1996): gli zappiani conosceranno quasi tutto (ma, aggiungiamo noi, è proprio su quel quasi che si coagula il maniacale interesse zappofilo) e i non iniziati non riusciranno a leggervi una storia organica, con la sensazione di trovarsi di fronte ad un collage, arido e frammentario. Se Miles infatti esplicita spesso la propria lettura del fenomeno Zappa, da studioso dell'underground USA quale è (e si può essere più o meno d'accordo con quel che dice), Slaven (esperto di blues, produttore discografico) si limita a riportare - con colore, sia chiaro - gli eventi, senza interpretarli (per quanto si possa leggere in filigrana una insistita sottolineatura del ruolo del caso nelle vicende zappiane), lasciando a giustificazione del titolo scelto - Zappa Don Chisciotte rock in lotta contro i mulini a vento della cultura americana, ipocrita e bigotta - giusto un paio di considerazioni incipitarie e conclusive. Questo il grosso limite di fondo del testo. Andiamo adesso ai grossi pregi di superficie. Il libro scorre veloce nonostante le 400 pagine, ed è accuratissimo, pieno di informazioni contestuali (fino alla pedanteria del gusto per le trattazioni ab ovo, si veda l'iniziale descrizione della città di Baltimora), di dichiarazioni, interviste e recensioni (anche e soprattutto negative, cosa questa assai interessante per una possibile "storia della ricezione zappiana") tratte da pubblicazioni d'epoca (e addirittura da quotidiani locali), di analisi e commenti molto arguti su alcuni brani del repertorio zappiano (con annessa la storia compositiva e le traversie discografiche). Si nota con un certo stupore il poco spazio riservato ad alcuni musicisti/comprimari di prim'ordine: giusto due parole, per esempio, sul fondamentale Vinnie Colaiuta, il batterista preferito di FZ. Venendo all'edizione Odoya, un dubbio sulla parte iconografica (assente nell'originale), spesso utile perché esemplificativa, altre volte un po' spiazzante: va bene la copertina di Infidels di Bob Dylan, perché scopriamo che Zappa avrebbe dovuto produrlo; un po' meno la foto di Giorgio Moroder, al quale Zappa avrebbe voluto affidare gli arrangiamenti di sintetizzatori del disco. In sintesi, resta l'appetibilità contraddittoria del volume di Slaven, così come sintetizzata qui sopra, con la certezza che a livello di informazioni, dati, date, cronologie, nomi, eccetera, si tratti in pratica di un reference book. Resta pure la conferma che il libro definitivo su Zappa (checché ne dica Colin Larkin, il fondatore della Encyclopedia of Popular Music, nella presentazione) non è ancora stato scritto. Per quello aspettiamo Gianfranco Salvatore. Gabriele Marino 82 Compito non facile quello di delineare nel dettaglio la carriera di Franco Battiato. Nel corso di oltre quarant'anni - esordio nel 1965 con il singolo L'amore è partito, inserito in un numero della Nuova Enigmistica Tascabile - il cantautore siciliano ha alternato, a volte mischiandoli tra loro, canzonette d'intrattenimento, musica sperimentale, classica contemporanea, pop più o meno da classifica, musica sacra, collaborazioni eccellenti (Caterina Caselli, Alice, Milva, Giuni Russo), deviazioni world ed elettroniche, ultimamente anche cinema. E' bravo dunque Annino La Posta in Soprattutto il silenzio a ripercorrerne la traiettoria con piglio entomologico, ricostruendola attraverso le parole dello stesso Battiato e una serie di esaurienti schede dedicate ad ogni singolo disco pubblicato. La Posta non tralascia alcun dettaglio, dagli spostamenti geografici agli incontri, passando per le collaborazioni e le produzioni per altri artisti anche sotto pseudonimo, e quel che ne risulta alla fine è una cronologia in forma di narrazione ottima per muoversi nel mare magnum - si pensi all'iperproduttività della prima metà degli anni ottanta - del repertorio di Battiato. Aneddoti e riferimenti culturali sono dosati e ben mischiati tra loro, quel che manca invece è un apparato critico sufficiente ad accompagnare la narrazione. Ma forse l'intento dell'autore era quello di illustrare più che di criticare, e sarebbe interessante a questo punto leggere un seguito di questo volume che proponga in modo più diffuso - qui, seppur a sprazzi, qualche cosa si coglie - l'idea che La Posta, sicuramente competente in materia, ha di Battiato. Altro capitolo, quello di un'esegesi di un percorso certamente variegato ma anche molto contraddittorio, che merita la stessa dose di attenzione e approfondimento che in questo volume viene riservato soprattutto agli aspetti biografici. Luca Barachetti Swordfishtrombones D avid S may (N o R eply , 2010) In uscita per i tipi di No Reply nella collana Tracks la bella traduzione di questo volumetto pubblicato in origine nel 2004 su Continuum. Per analizzare Swordfishtrombones (1983), il disco che ha rappresentato l'inizio di una svolta compositiva nella carriera di Tom Waits, il giornalista americano David Smay sceglie un trattamento spiazzante, rimescolando le carte di vita, carriera e influenze del musicista californiano. L'autore preferisce quindi non trattare la materia Waits in modo lineare e canonico, ponendosi, con alcuni artifici letterari, perfettamente in linea con l'universo sbilenco del musicista. Il disco in questione ha segnato a inizi Ottanta l'avvio di un periodo assolutamente fervido per Waits, il quale nel 1982 si veniva a trovare contemporaneamente al verde, senza il controllo di quello che pubblicava e senza il manager Herb Cohen, ma con dalla sua il fondamentale appoggio della moglie e collaboratrice artistica Kathleen Brennan; da qui partirà il periodo che sarebbe stato un importante referente musicale da allora in poi fino alla nostra contemporaneità. Giocando con il naturale istrionismo e la tendenza a celarsi mediaticamente del Nostro, Smay imbandisce un mondo fervido di tracce e sottotesti da disco nel disco, ben condotto, orchestrato e approfondito. Rivelando che preferisce in realtà il seguente Rain Dogs, il giornalista riesce a tracciare uno degli itinerari possibili alla guida del disco, collegando abilmente personaggi, canzoni e ambienti sparsi. Swordfishtrombones è allora un volume che si legge agilmente, corredato da un' azzeccata postfazione di Dente. Teresa Greco 83 — live report John Zorn A rena del S ole , B ologna (17 M aggio ) Ad Angelica 2010 John Zorn ha presentato Essential Cinema: sonorizzazioni live on stage, in formazione con la rodatissima Electric Masada (Ribot, Saft, Dunn, Baron, Wollesen, Baptista, Mori, lui alla direzione e al sax), di alcuni dei suoi cortometraggi avant preferiti. Rose Hobart, di Joseph Cornell (1936), rimontaggio condensato del film esotico East Of Borneo, enigmatico monumento alla diva del titolo: immerso nel buio e sovrastato dallo schermo, l'ensemble ha sciorinato venti minuti della più classica romantic Zorn exotica. Oz: The Tin Woodman's Dream, di Harry Smith (1967; il musicologo della Anthology Of American Folk Music), corto di animazione giocattoloso e psichedelico, ispirato al Mago di Oz: l'accompagnamento musicale è stato qui opportunamente più elettronico e spigoloso; nel finale, con suggestive immagini caleidoscopiche, tappeto tribale dominato dagli intrecci Baron/Wollesen/Baptista. Aleph, di Wallace Berman (1966), ipercinetico collage realizzato manipolando direttamente la pellicola, frammenti di vita metropolitana spezzati da apparizioni improvvise di simboli ebraici: grande botta freejazz in trio (batteria, contrabbasso e sax), fluviale tostissima improvvisazione colemaniana. Ritual In Transfigured Time, di Maya Deren (1946; una delle grandi passioni di Zorn), onirico rituale danzante che racconta la maturazione di una donna e la sua fuga dai propri desideri: intro di contrabbasso, motivetto minimal in 5/4, romantic Zorn. Collage #36 (1953), ancora di Cornell, corto di ambientazione naturalistica, "protagonista" un procione: sotto la solita palla romantic, Ikue Mori fa cinguettare il suo laptop mentre sullo schermo si vedono degli uccellini. Pubblico entusiasta e letteralmente scalpitante, per cui seguono tre lunghi bis a luci accese, che durano quasi quanto le proiezioni, per un totale di due ore: Little Bittern da O'o (2009), uno dei pezzi più morbidamente rock del catalogo zorniano; una versione superveloce di Hath-Arob dal primissimo repertorio Masada, giostrata con la classica conduction impro/rumorosa; un pezzo di morbida fusion con Zorn al sax, finale con lunghi assolo (Joey Baron e un Marc Ribot davvero sempre 84 troppo uguale a se stesso). Una buona sonorizzazione, soprattutto quando lo spartito ha rinunciato alla sincronizzazione punto per punto e si è tenuto lontano dalle sottolineature effettistiche (la Mori con gli uccellini), ma performance che troppo spesso ha visto JZ & Co. mettere il pilota automatico e perdersi senza troppi sforzi in quel trip post-The Gift che va avanti da tutto il 2009.Tre bei momenti: l'elettronica su Harry Smith, la sfuriata free e la conduction del bis. Zorn non butta via niente, forte della qualità intrinseca della proposta e dei musicisti con cui lavora, forte soprattutto di un culto che lo avvolge e che non lo farà mai stancare del pubblico che "applaude per il motivo sbagliato". Il programma prevedeva anche - e soprattutto, visto che il concerto rientrava nell'ambito del progetto JeanLuc Godard: compositore di cinema? - la prima mondiale dello spot realizzato dal regista francese per la Nike (1989) e mai utilizzato. La proiezione non c'è stata e nessuno è parso accorgersene e lamentarsene. Il parallelo Zorn-Godard è illuminante, non solo perché il regista rappresenta una grande fonte di ispirazione per il nostro (vedere Godard, 1986), con la sua concezione antiromantica del lavoro dell'artista (opera sovraindivuale e "centro aggregatore di citazioni"), ma anche perché entrambi hanno fatto del proprio iniziale radicalismo avanguardista una forma manierata e altamente stereotipata. Gabriele Marino The Residents E stragon , B ologna (14 M aggio ) Non era così scontato che il nuovo show di uno dei gruppi più amati della wave mondiale di sempre fosse così deludente. Gli album certamente lo sono stati, almeno a partire da quelli post-Wormwood, eppure i loro show, così pieni di tutto e perciò totali, hanno sempre catturato l’immaginario e l’attenzione, rappresentando di fatto la vera novità che il combo di volta in volta proponeva al mondo. L’ultimo che mi è capitato di vedere riguardava la performance live della loro filmografia storica (Icky Flix) e per l’occasione, al Teatro delle Celebrazioni di Bologna nel 2002, i quattro occhiuti avevano imbastito un sceno- grafia di tutto rispetto: colori al fosforo, gabbie Mad Max e un bel maxischermo azionabile con telecomando che Mr Skull, accompagnato dal fedele membro aggiunto Molly Harvey, azionava a piacere testimoniando di una band tutt’altro che stanca. Anzi, i Residents, se hanno avuto un problema, discograficamente parlando, era proprio quello di non sapersi più fermare. Irrefrenabili, nell’era di Internet, hanno sfornato un quantitativo di materiale paragonabile ai loro periodi più fervidi, abbassando la qualità media delle produzioni "adulte" Ottanta/Novanta e accentuando, da un lato, una senescenza basata sul ripetere all’infinito se stessi in versione collagista à la Duck Stab (Animal Lover, Tweedles, Bunny Boy) e dall’altro cercando nella narrazione una via di salvezza. Proprio su quest’ultimo punto s’inserisce la traiettoria che dal drammatico Demons Dance Alone (che rantolava nel buio dopo il nine eleven) ci porta a Talking Light, anch’essa opera teatrale esclusivamente basata sui testi (e i gesti) del cantante - non più col teschio - vestito come un mix tra Elephant Man e lo scienziato pazzo in pigiama (come è accaduto in quest’ultima performance). Emblematico che lo spettacolo al quale abbiamo assistito non sia stato preceduto da una pubblicazione in cd. C’è una versione ultra limitata e soltanto strumentale, ma non l’album con ragioni presto chiare nell’ora scarsa di durata. Lo show, musicalmente, è stato un ronzare wave (soli synth e chitarra) di puro accompagnamento alle storie di fantasmi raccontate dal performer e da alcune ospiti (non presenti) azionate a schermo. Ma il dato più doloroso è l’assenza del quarto Rez che, a detta di un ironico Skull, se n'era uscito dal rock’n’roll way of life per occuparsi della madre in Messico (!?). Di Karl i superstiti ci rivelano soltanto il nome, non menzionandone l’importante ruolo. Lui era il percussionista. Ringo Starfish, come si legge nelle note di Meet The Residents, e mancando lui, una Semolina proveniente dal citato Duck Stab non è proprio la stessa, così come una seconda parte dello show, incentrata sul loro recente passato, non ha sollevato le sorti di una serata piuttosto noiosa, con storie di fantasmi un po’ senili di cui soltanto qualcuna degna del loro tocco sarcastico-surreale. Unico momento intenso, la ripresa della vena catastrofica di fine Ottanta, quando si erano cimentati nel revisionare la storia della musica contemporanea (e c'era da sbellicarsi dalle risate). Anche in quel periodo avevano intrapreso concept a tema piuttosto focalizzati (Cube E) ma mai come ora la stanchezza del combo è evidente. Edoardo Bridda ?Alos, Void Ov Voices S pazio S pettacoli S an P ietro T orino (14 M aggio ) in V incoli , Inserito tra gli eventi Salone Off del ventitreesimo Salone del Libro di Torino e organizzato dalla compagnia Il Mutamento Zona Castalia, il mini-festival Il Tempo del Tempo che si può fermare offre cinque giorni di teatro sperimentale e musica all'interno del suggestivo scenario dell'ex cimitero di San Pietro in Vincoli – luogo assolutamente sconosciuto prima per chi, come il sottoscritto, non è torinese. ?Alos e Void Ov Voices si dividono il palco durante la seconda serata, per una doppia performance che potrebbe essere presa a modello di ciò che è meglio fare o non fare quando l'obiettivo è la sperimentazione. Al di là infatti di ogni estesa e necessaria riflessione sul significato del termine oggi, è la credibilità il concettocardine attorno a cui girano esperienze come quelle in programma. Discrimine in positivo per Stefania Pedretti che nella sua performance lunga il giusto (non più di mezz'ora) si alterna fra elettrica e corpo, talvolta con l'aiuto di alcuni scampoli preregistrati, e ripercorre quelli che sembrano i nodi fondamentali di una ricerca fino ad oggi proficua nei risultati e mai fine a se stessa. La prima parte la vede alla prese con la chitarra, da cui ricava bordoni tellurici tutt'altro che casuali, sui quali s'innalza il solito cantato preverbale ricco di sussurri e grida uterine come di momenti di autentico noise vocale. Nella seconda parte invece è lei stessa a far vibrare, grazie ad una serie di movimenti corporali assai prossimi alla danza, dei campanellini e altri ammennicoli sonori appesi sui lunghi dreadlocks e sulle mani. L'effetto è quello prenatale e onirico di una primigenia apertura al mondo, ma continua una ritualità che dall'iniziale condivisione di una scodella di vino con i presenti termina in un'accennata figura a uovo, possibile confine – azzardiamo – da cui ripartire verso altre esperienze già in atto. E soprattutto chiude l'immersione in una performance nella quale femminilità, subconscio, ancestralità e catarsi sono un tutt'uno, segnale distintivo di un percorso ostico ma estremamente comunicativo qualora si sia disposti ad accettarne i presupposti. Di tutt'altra misura invece l'esibizione di Attila Csihar dei redivivi Mayhem, qui alla prese con un progetto che vorrebbe mettere al centro dell'attenzione la voce se al contrario non scadesse in un siparietto a dir poco stucchevole. Riempita la sala di un fumo sepolcrale alla vista ma dolciastro all'olfatto – è lo stesso che usavano i Pooh ai bei tempi – l'ungherese si presenta bardato di cappuccio e mantello tipo Darth Vader con tanto di teschietto e cerini d'ordinanza. Non ci sarebbe nulla di male se poi 85 Brian Jonestown Massacre ?Alos non avviasse un brano dalla durata interminabile dove la sovrapposizione di loop vocali è solamente accessoria alla mera prova di forza della voce del titolare stesso, il quale pare lanciare chissà quali strali mortiferi, ma tanto parlando in ungherese nessuno lo capisce. Il sottoscritto resiste una ventina di minuti e poi se ne va. A dire il vero con l'amaro in bocca, perché come parodia del prode Anakin passato al Lato Oscuro della Forza Csihar non fa neanche tanto ridere. Qualcuno glielo dica. Luca Barachetti Liars I nit , R oma (13 M aggio ) C’è il pubblico delle grandi occasioni per il ritorno dei Liars all’Init ma l’inusuale calca all’ingresso dimostra anche che ormai il terzetto americano ha definitivamente acquisito lo status di band di prim’ordine. Ad aprire la serata sono i Fol Chen, quartetto californiano sulla bocca di molti ma che in realtà sembra mostrare la corda sin da subito. Con una miscela piuttosto banale di indie schizzato, wave bislacca, post-punk che vira spesso verso il p-funk con solito scambio vorticoso 86 di strumenti e ruoli e una voce in falsetto che è a dir poco fastidiosa, i quattro non riescono minimamente a evitare la noia già dopo qualche canzone. Ce ne ricorderemo soprattutto per l’affascinante tastierista. I Liars si affacciano sul palco poco più tardi e in formazione allargata, con due membri del gruppo spalla a suonare seconda chitarra e basso. Fatto quest’ultimo non trascurabile, dato che libera Angus Andrew da incombenze strumentali permettendogli di agire da vero e proprio frontman. È lì, infatti, il centro nevralgico dello show, nella figura allampanata e incendiaria del cantante completamente vestito di nero, al centro del palco, pronto a catalizzare su di sé l’attenzione del pubblico mentre mette in scena una pantomima continua, tra il buffonesco e il demenziale, si dimena, prova passi di ballo piuttosto improbabili, s’improvvisa sensuale e ammiccante tra pose spastiche e retrò. Tutto intorno, composti e apparentemente distaccati, i degni compari storici Julian Gross e Aaron Hemphill e i due occasionali, ci danno giù saccheggiando il nuovo Sisterworld, così come i classici dei primi dischi, A Visit From Drum e We Fenced Other Gardens... su tutte. La perizia strumentale è ormai stranota, così come l’affiatamento e l’interplay che permette di piegare i pezzi in versioni più ampie, diversificate e free quasi preferibili alle registrazioni affidate al disco. Quando poi i tre, e solo loro, si ripresentano sul palco per il bis, esce tutta la malattia che da sempre ne contraddistingue la produzione musicale: Be Quiet Mr. Heart Attack! e Broken Witch ci lasciano sempre più esterrefatti di fronte ad una band più che mai sorprendente, pienamente padrona del palco, matura verrebbe da dire se non ci fosse sempre lui, Angus Andrew con quella sua aria gigionesca a dissacrare quello che i suoi compari architettano. Lunga vita ai bugiardi. rare con quale efficacia questa musica - interpretazione sincretica di 45 anni di psichedelia dalla California al Texas, passando per astrattezze shoegaze, minimalismi alla Velvet Underground, policromie folk-rock e parafrasi Spacemen 3 - sia stata baciata da successo nelle mani sapienti degli Warlocks e in quelle più ruffiane di Black Rebel Motorcycle Club, i cui membri hanno parzialmente militato nelle fila dei Brian Jonestown Massacre. Ennesima prova della preziosa funzione di Newcombe, esperto della materia e anticipatore, in tempi in cui tutti bollavano la cosa come nostalgia da retrogradi, di uno stile efficace e robusto, ben più cangiante di quanto Stefano Pifferi frettolosi o inesperti possano sostenere. Non da tutti, infatti, stipare il palco con otto elementi (la metà chitarristi: roba da ricordare i Plan 9…) smorzando la seriosità con Brian Jonestown Massacre lo stralunato percussionista ballerino Joel Gion (apparso C ovo , B ologna (1° M aggio ) E’ in un Covo stracolmo che - da italiani decentrati ri- in un episodio della serie televisiva Gilmore Girls!); cedespetto al mondo anglofono - capiamo finalmente quanto re spesso il microfono al sodale di lunga data - col quale Anton Newcombe sia uno degli ultimi “artisti di culto”. parrebbe essersi riappacificato - Matt Hollywood e caDel tipo come lo intendevamo prima di internet e della tapultare sin dal primo minuto gli astanti in un esaltante sovrapproduzione discografica, però, capace di chiamare trip. E, soprattutto, permetterselo rinunciando all’elettrogente da ogni dove in un giorno festivo e, lungo due ore nica degli ultimi lavori in studio, viceversa affidandosi alla e passa di concerto, far più volte letteralmente esultare componente “classica” del proprio stile, attingendo spesso e volentieri da album come Strung Out In Heaven. la platea agli attacchi dei brani più amati. Quelli eretti su incroci di corde e distorsioni calibrate, Alla base di ciò trovi la robustezza di un ideale “indipendente” nel senso pieno dell’aggettivo: la testardaggine su ritmica ipnotica e ponteggi d’organo. Come si faceva di chi poteva avere il clamore planetario (breve: chi se una volta, non fosse che dalla mistura sale un inebriante li fila più, i suoi ex amici Dandy Warhols?) e vi ha ri- profumo di attualità.Tale da persuadere che, ribaltando la nunciato, preferendo un’integrità rara pur con le tipiche filosofia di Tricky, “retro is brand new”. idiosincrasie da genio maledetto che guarda ai fab Sixties Giancarlo Turra e al loro spirito senza sterile revivalismo. Basta conside87 Gimme Some Inches #6 Il Record Store Day è la mecca per appassionati e collezionisti di vinili. Questo mese facciamo un piccolo resoconto delle molte uscite limited di Moon Duo, Wooden Shjips, Male Bonding, Dum Dum Girls. Il mese scorso è stato il mese del Record Store Day, iniziativa encomiabile che vede coordinarsi bands, etichette, distributori, insomma, tutta la filiera musicale alternativa per celebrare i negozi di dischi. Non quelli virtuali, asettici e smaterializzati, ma quelli fisici: piccoli, bui, sporchi e puzzolenti spazi di ricreazione per chi ama ancora toccare con mano l’oggetto fisico prima di goderne le prelibatezze incise, e che a loro volta allungano gli orari di apertura, si trasformano in venues improvvisate, propongono sconti e offerte. Ad ogni Record Store Day molti artisti, famosi e non, partecipano con live show nei negozi o rilasciando piccole edizioni limited in onore della ricorrenza. Usanze che da noi, nonostante una buona partecipazione di negozi all’iniziativa, stentano ancora a prendere piede; la speranza è che a breve diventi consuetu88 dine com’è nei paesi anglofoni. Nel frattempo possiamo crogiolarci con le piccole e grandi gemme targate RSD: da mostri sacri come Beatles (un 7” esclusivo con Paperback Writer e Rain) e Rolling Stones (Plundered My Soul, outtake da Exile On Main Street) ai campioni del britpop Blur, anch’essi con l’inedita Fool’s Day, e via via giù fino a Built To Spill, Yeah Yeah Yeahs, Editors, Weezer, Goldfrapp e molti altri. Titoli appetitosi che sono finiti da subito su Ebay a prezzi da capogiro. Molto probabilmente non farà la stessa fine il 12” in vinile blu targato Devo. Introduttivi all’upcoming Something For Everybody, prima manifestazione dopo uno iato ventennale, i due pezzi sinceramente non passeranno alla storia: Fresh sul lato A e What We Do su quello opposto vivono di un synth-pop tronfio, pompato e parodico che nulla o quasi eredita della passata storia del Mothersbaugh affaire. Detto dei redivivi ma fiacchi Devo, inabissiamoci nel sottobosco segnalando solo alcune tra le release più underground, perché altrimenti non basterebbe una monografia. Cominciamo dall’ottimo 7” split tra due band emergenti che cortocircuitano perfida Albione e States in nome del sacro fuoco del lo-fi in modalità diy: Dum Dum Girls e gli inglesi Male Bonding. Quest’ultimi spappolano una melodia che più lo-fi anni ’90 non si potrebbe sotto una coltre di piatti ronzanti e giri di chitarra/basso tanto elementari quanto irresistibili. Appiccicume totale, tanto che ci si ritrova a cantare anthem, dimentichi della corazza di mille e mille ascolti. Miss Dee Dee invece è una catapulta a zero fronzoli che ci sbatte anch’essa al tappeto con lancio diretto nel pieno universo Blondie: cassa dritta, circolarità strumentale, melodia eterna per 2 minuti e mezzo di pura estasi lo-fi pop. Si va invece giù di turbinio psych col 7” pubblicato da Permanent con protagonisti due side-projects di altrettante interessanti band del sottobosco hard-psichedelico americano: i prolifici Moon Duo, costola dei Wooden Shjips, e gli esordienti Bitchin’ Bajas, offshot dei Cave. Ossessività brumosa, synthetica e ritmicamente meccanica per i primi (Bopper’s Hat con splendida voce 4ADiana di Sanae Yamada), circolarità ascensionale infinita e priva di ritmica per i secondi (Fresh Air), che evidenziano come il minimalismo di stampo rock abbia fatto breccia nei cuori di molti giovani musicisti americani. Non paghi, gli inarrestabili Moon Duo hanno appena aggiunto l’ennesimo piccolo tassello vinilico alla propria discografia. Catch As Catch Can esce per la neonata Agitated Records e ripropone il sound apprezzato su Escape, spingendo se possibile ancor di più sul versante ritmico alla Suicide (la title track) e pagando pegno ai padrini The Scientists (la cover stranita di Set It On Fire): kraut-garage, se servisse una definizione. E per non essere da meno, anche il gruppo madre si fa vivo: What It Is è il 7” tour edition che celebra la conquista dell’estremo down under del mondo, Australia e Nuova Zelanda, da parte dei losangelini Wooden Shjips senza aggiungere né togliere nulla al mondo sonoro del quartetto. Passando oltre, ecco alcune no- vità prossime venture. Nuovo sideproject per un paio di membri dei Teenage Panzerkorps a nome Horrid Red, al debutto su cassetta per la giovanissima Campaign For Infinity (gestita da Brett dei Pink Noise, tanto per rimarcare, qualora ce ne fosse bisogno, la dimensione DIY di queste operazioni). Se vi siete mai chiesti come suonerebbe una versione ancora più minimale del gruppo tedesco-americano, eccovi la risposta. Gli accordi vengono abbandonati in favore di riff ultra basilari, la batteria sostituita da una drum machine di soli cassa e rullante, l’atmosfera è creata dagli immancabili synth liquidi che tanto ci piacciono. Una decina di pezzi cantanti in tedesco che presto verranno riversati su vinile dall’ormai iperattiva Holidays, e non a torto dato che, nel momento in cui leggerete, i cinquanta esemplari della tape saranno già sold out da tempo. Nuovo miniLP anche per Kurt Vile, ormai stabilmente accasato presso Matador. Nei sette brani che compongono Square Shells, il ragazzo prodigio di Philadelphia attenua i riverberi che avevano areato le precedenti release per consegnarci una versione più diretta e domestica di sé. Come già accadeva per God Is Saying This To You, è la lezione imperitura del folk di Leonard Cohen ad aleggiare per i solchi del vinile, alternata da un paio di episodi più robusti ma sempre intimi e sentiti, con la chitarra ora pizzicata ora energica in pieno stile Vile. Tornando all’orticello di casa nostra, i local heroes Movie Star Junkies continuano la loro sfilza di singoli nell’attesa del nuovo album in uscita a Giugno. Per ora i torinesi ci rimpinzano il gozzo con due nuovi 7 pollici: il primo esce per la francese Kizmiaz e propone, manco a dirlo, due pezzi in lingua d’oltralpe, tra cui la cover di Requiem Pour Un Con di Serge Gainsbourg. Il secondo invece è ora nelle mani dell’americana Rococo e dovrebbe vedere presto la luce; conterrà un inedito ed una versione alternativa di un brano già presente su Melville. Stefano Pifferi, Andrea Napoli 89 Re-Boot M isticanza #5 di mezza primavera Folk, blues, funk, electro, cantautorato, pop, stoner, math, post, psych... Il setaccio che mensilmente immergiamo nel calderone del rock emergente nostrano ci restituisce pietruzze più o meno grezze, più o meno preziose, soprattutto diversissime per natura e intenzioni. Una vera e propria misticanza a base di gustosi germogli in diretta dallo schizofrenico orticello sotto casa. Andiamo a incominciare. Se c'è qualcosa oggi che unisce i Perturbazione e i Thee Silver Mt. Zion sta nei veneziani manzOni. Gli ex Maladives, stella dei primi anni zero mai del tutto illuminatasi, tornano con un demo (Autoprodotto, 7.8/10) dove la voce del cinquantasettenne Gigi Tenca – cadente e incantata come quella di Tommaso Cerasuolo – declama-canta l'intimismo di un Piero Ciampi attraversato dal nulla metafisico della più densa provincia italiana, mentre i compagni d'avventura spargono mantra elettrici GY!BE che s'accumulano scarni prima di esplodere in 90 Un mese di ascolti emergenti italiani campi bianchi senza rumore. L'esordio ufficiale dovrebbe giungere entro la fine dell'anno, lo attendiamo trepidanti: “e scrivo / …di campi di colza che non hanno bisogno di dio per essere così gialli!”. Non di esordio ma di secondo disco si tratta nel caso di Jolanda, songwriter venticinquenne anglofona e anglofila che alle ultime novità femminili in materia sembra guardare soprattutto. Joan As Police Woman e Regina Specktor infatti nel suo Aubade (Autoprodotto, 7.2), venato di frangiflutti scuri, meccaniche da crepuscolo burtoniano e smaniosità come un PJ Harvey alle prese con il cabaret berlinese. Nella parte è assolutamente credibile, e la scrittura supplice a qualche ammanco di personalità. Tuttavia, pur comprendendo la scelta idiomatica conseguenze alle influenze, vorremmo tanta espressività – in primis fonetica – alle prese con la nostra lingua. Ci provi. Poche semplici note e un nome, Giuseppe, a corredare il progetto Good Lucifer Inferno per il demo omonimo (Autoprodotto, 6.8/10) che comprende cinque pezzi. Di musica elettronica strumentale si tratta, piuttosto evocativa, per un songwriting crepuscolare con un codice genetico prettamente dark wave e onirico, che in alcuni episodi si movimenta abbastanza. C’è sintesi sufficiente nella produzione e nel progetto, e convincente variazione da fare pensare a margini buoni di evoluzione futura. Per ora non si può che definire molto promettente. Da Genova provengono invece i Belzer, gruppo di una certa esperienza - già di supporto a Giorgio Canali -, con l’album L’ultimo giorno d’inverno (Pirames International, 7.0/10); trattasi di band pop rock che possiede un suono di matrice prettamente anglofona (Cure, Radiohead, Coldplay, Beatles) e spiccata sensibilità italiana (gli Scisma i referenti principali ma anche Lucio Battisti o Paolo Benvegnù volendo fare qualche nome), per testi e melodie. Oscillando tra indie rock e songwriting, mostrano un gusto per l’armonia e una buona facilità espressiva; un sentire pop li caratterizza infatti al meglio e non in senso deteriore, anzi. Non c’è infatti ricerca di particolare facilità ma piuttosto l’equilibrio tra gli elementi. Già sufficientemente bravi. Andiamo adesso dalle parti di Bologna, con la neonata Monster Records. Curioso l'approccio della label: “La forma è quella di una cooperativa con lo scopo di giungere direttamente ai media e agli ascoltatori saltando i canali di distribuzione e di promozione classici. L'etichetta svolge semplicemente attività di comunicazione e servizio di vendita per corrispondenza dei dischi ma non finanzia né produce i dischi, che rimangono a spese e di proprietà degli artisti.” 200 copie per ogni CD e gli esordi di Brain In Vain e Morse Code a fare da apripista. I primi sono un duo chitarra e batteria impegnati con Inner Crowd (Monster, 6.9/10) a trovare una personalissima via di fuga tra funk, blues, cadenze quasi math-hendrixiane racchiusa in una girandola di controtempi e rivisitazioni delle classiche dodici battute (Superimposition). I secondi arrivano direttamente dal catino iper-virtuoso e ormai ufficial- mente defunto dei Caboto - si parla di tre dei sei musicisti che costituivano l'ossatura della band bolognese – e rinvigoriscono a suon di funk, post-rock, jazz, free, psichedelia, tempi dispari, una concezione di musica totale e decisamente sperimentale. The Night An Artificial Light (Monster, 6.7/10) impressiona, ai limiti dell'ubriacatura. Ci spostiamo un po' più a nord con l'alt-country dei Dead Man Watching, che già ci convinse ai tempi del precedente lavoro autoprodotto, in virtù di un "farsene carico" intenso e disinvolto, come se il veronese fosse disseminato di highway che rosicchiano le frontiere e di front porch che raccolgono stanchezze e disillusioni. E forse, chissà, è davvero così. Fatto sta che questo Dead Man Is Coming To Town (Autoprodotto, 6.8/10) è un ep che ripropone la formula senza mostrare cedimenti, una triangolazione Red House Painters-Mojave 3-Wilco che è garanzia di ballate e palpiti (splendida Les Moods), ma anche di qualche guizzo che ravvivi il falò (Love In The Afternoon). Canonici, ma adorabili. Quanto ai Wheelman On Bushpig, sono Francesco Provengano e Marcello Fauci, due romani dotati di una prolificità spaventosa, visto che dichiarano d'aver messo giù una cinquantina di brani in neanche un anno di collaborazione. Hanno deciso di raccoglierne 6 per questo Nice Story EP (Autoprodotto, 7.1/10), un piccolo prodigio nel quale l'industrial compie strane mutazioni indie, stoner e math. Una formula che ti incalza (Shape) e circuisce (la title track), ti strattona con garbo Motorhead (Climb & Collapse) e ti spalma di delirio e frenesia (Smooky Scream). Una realtà che attende solo la breccia giusta per imperversare. Anche per questo mese è tutto. Ci rimettiamo in ascolto. Luca Barachetti, Teresa Greco, Stefano Solventi, Fabrizio Zampighi 91 Rearview Mirror —ristampe highlight Cure (The) - Disintegration (Deluxe Edition) (Rhino, Giugno 1989) G enere : dark pop AA.VV. - Next Stop Soweto Vol. 3 Giants, Ministers And Makers: Jazz In South Africa 1963-1984 (Strut Records, Giugno 2010) G enere : afro - jazz Si conclude - di già? di già - con il terzo volume la serie dedicata a frugare tra gli archivi sonori del Sud Africa, ed è chiudendo un cerchio con intelligenza che avviene il congedo. Ovvero pescando in un fiorente panorama jazz e, al suo interno, in un arco temporale esteso su due decenni. Non facile per gli artisti qui antologizzati poter proporre musica in modo libero, essendo la mano del governo pesante e oppressiva: l’alternativa una fuga all’estero per una carriera a testa altissima, come ad esempio Hugh Masekela e Miriam Makeba. Prendeva dunque corpo negli anni ’50 una “scena” sulla scia di Charlie Parker e Duke Ellington, poi trasfigurati innestando le tradizioni autoctone marabi e kwela sul be-bop. Non facendo altro che riportare a casa lo spirito rubato agli schiavi, riappropriandosi di qualcosa che era loro da sempre. Che fosse in fondo questo a spaventare il governo che concepì la vergogna dell’apartheid? Probabile, e allora che l’ennesimo brindisi in onore di chi ha versato sangue per cambiare le cose sia accompagnato da questo dischetto, impreziosito (com’è ormai consuetudine chez Strut) da un apparato iconografico esemplare e note altrettanto. A contare è comunque il contenuto sonoro, qui “classico” con bello stile che mai avresti detto e là propenso a 92 spingere sul pedale del groove, quando non indaffarato a contaminarsi e omaggiare i fratelli Coltrane e Shorter. Miglior fine non poteva esserci, davvero.(7.5/10) Giancarlo Turra Black Tambourine - Black Tambourine (Slumberland, Maggio 2010) G enere : noise - pop È incredibile come ultimamente a venire “riscoperti” siano gruppi che in vita hanno prodotto veramente poco, se non addirittura nulla. L’ultimo esempio in ordine di tempo sono gli ottimi Method Actors, ma in scia possiamo aggiungerci anche i Black Tambourine. Il quartetto di Silver Spring (Mike Schulman, Archie Moore, Brian Nelson e la cantante Pam Berry) è un culto ormai pienamente consolidato nonostante un’esistenza brevissima e una discografia che definire parca è eufemistico: non più di un paio di singoli per Slumberland e qualche pezzo sparso qua e là su compilation ormai dimenticate. Eppure, una così scarsa produzione ha segnato trasversalmente l’indie più noise-pop e/o shoegaze di oggi - da The Pains Of Being Pure At Heart fino a Vivian Girls e Crystal Stilts, giusto per citare i più noti - decretando un postumo successo di culto che ha come piacevole conseguenza il ritorno in pista dei quattro. Black Tambourine infatti non si limita a replicare quello che l’ottima retrospettiva Complete Recordings aveva posto in essere ormai un decennio fa, ma aggiunge un paio di Nel 1989 la diffusione delle cassette era ancora larghissima. Le mie preferite erano le TDK e le Maxwell, ma non per qualche specifico merito audio-tecnico, quanto per l’assai più futile motivo che la label rigata che faceva da copertina, quella suddivisa in lato A e lato B, era molto larga e ti permetteva di scrivere tutti i titoli delle canzoni senza dover (orrore!) abbreviarli. Fu su una di queste cassette che all’epoca registrai - o meglio - “duplicai” Disintegration, l’ottavo disco dei Cure che era rapidamente diventato il best-seller del “dark”, termine stupido ma efficace, che contribuì a diffondere un minimo di cultura goth, nella provincia italiana. Ovviamente era solo la punta dell’iceberg, ovviamente in Italia arrivavamo dopo, ovviamente quella dei Cure era una versione edulcorata e facilmente commerciabile di un mondo che loro stessi avevano contribuito a costruire tempo addietro con l’ormai mitico trittico Seventeen Seconds / Faith / Pornography, prima di darsi alle gioie pop delle charts di Billboard con le varie In Between Days e Close To Me. All’epoca, quindi, Disintegration fu una specie di ritorno al passato, tanto quanto l’attuale Deluxe Edition è un po’ una sorta di ritorno al futuro. Che la riedizione, rimasterizzata, ampliata e filologicamente studiata in tutti i dettagli, arrivi ora in pieno riflusso eighties e di dibattito hypnagogico è sintomatico di come stiano andando le cose da qualche anno a questa parte. Non sorprende allora che i demo, gli outtakes e le rarities che sono incluse nel secondo dei tre dischi della Deluxe Edition, nella loro primitiva rozzezza da sala prove, siano del tutto assimilabili alle sortite attuali dei vari Ducktails, Washed Out, Neon Indian, ecc. Non sorprende nemmeno la cura maniacale con cui Robert Smith ha preparato questo 21esimo anniversario del suo capolavoro, approfittando di questa occasione, per mettere su un vero e proprio studio filologico delle canzoni contenute nel disco. Il primo dei tre cd, riproduce per intero l’album originale, con la differenza che tutto è stato rimasterizzato digitalmente dallo stesso Smith, presso gli studi Soundmasters di Londra. Il risultato è che vengono regalate nuove profondità ad una produzione, che per l’epoca era già “piena” e “ricca”. Quindi, a maggior ragione vale oggi, quello che Smith scrisse ieri nelle note di copertina del disco: “THIS MUSIC HAS BEEN MIXED TO BE PLAYED LOUD SO TURN IT UP”. Il piatto forte di questa edizione però sta nel secondo disco, Rarities 1988-1989. Già la versione RS Home Demo (ovvero registrazione casalinga di Robert Smith) di Prayers For Rain fa capire che il ripescaggio di questi provini, vale come una fotografia d’insieme della nascita delle canzoni di Disintegration. Pictures Of You in queste vesti spartane non ha tutta la sua dinamica epica e sembra un brano depresso dei tempi di Faith, mentre Fascination Street è oltremodo affascinante per i suoi proto arrangiamenti esotico / hawaiani che davvero fanno pensare a Ducktails. Dai provini con la band (Band Reharsal e Band Demo) saltano fuori altrettanti fantasmi, in forma di strumentali inediti e b side dimenticate: Fear Of Ghots, Noheart, 2 Late, Babble, Out Of Mind, Delirious Night.Alla fine l’effetto è come quello di aver dissepolto un cassetto pieno di vecchie foto ingiallite e consumate. Il terzo dei tre dischi, rispolvera Entreat, un vecchio live del 1991 nella Wembley Arena. Lo rispolvera ampliandolo per ottenere l’esatta scaletta di Disintegration dal vivo e per questo viene ribattezzato Entreat-plus. Live album tecnicamente già pregevole nella sua versione originale, ma che Smith rimasterizza ugualmente, forse per ottenere un livello omogeneo dei volumi o forse perché è un perfezionista come sempre. La Deluxe Edition di Disintegration farà certamente la gioia dei fan della prima e della seconda ora. Per tutti gli altri rimane interessante come documento storico e come ricostruzione filologica del processo creativo di Robert Smith. Di fatto, ormai abbiamo una fotografia completa di tutte le fasi creative di queste canzoni. Dai provini casalinghi di Smith, alle prove in studio con la band, al prodotto finale su cd, fino alla resa live. Nascita, ascesa e fine di un capolavoro.(8/10) Antonello Comunale 93 demo versions (For-Ex Lovers Only e la significativa Throw Aggi Off The Bridge, necessaria per individuare l’influenza fondamentale della band) e addirittura quattro canzoni nuove, appositamente registrate per questa compilation e equamente suddivise tra originali (Heartbeat e Lazy Heart) e cover (Tears Of Joy targata Buddy Holly e l’incredibile resa di Dream Baby Dream dei Suicide). Ben ritrovati o bentornati, poco ci cambia. Resta sempre il piacere di perdersi dentro zuccherose melodie in overdrive. Ieri, oggi, per sempre.(7.5/10) Stefano Pifferi Kenny Graham - Moondog And Suncat Suites (Trunk Records, Aprile 2010) G enere : jazz Basta dire chi c’è e quasi tutto il resto va di conseguenza. È anzitutto la figura di Moondog a rendere questa ristampa - che mette a disposizione un materiale indisponibile da più di mezzo secolo - consigliata. Un invito all’ascolto a tanti tipi di utenze, non solo al fidato ascoltatore di jazz, che saprà a memoria la vicenda del figlio della luna stradaiolo, ma anche all’orecchio di chi ne è digiuno e non discerne nella massa indistinta e a volte sterilizzata della musica nera per eccellenza. Moondog fu quel compositore e polistrumentista non vedente che per vent’anni si è aggirato per le strade di New York facendone non solo il proprio palcoscenico ma anche il luogo di paradossale intimità. Il Vichingo della Sixth Avenue (così veniva chiamato) creava una continua colonna sonora urbana tramite trasognate composizioni; non un artista di strada punto, un compositore riconosciuto e storicizzato. Era la metà degli anni Cinquanta quando, dall’altra parte dell’Oceano, il jazzista e compositore inglese Kenny Graham (classe 1924, morto nel ’97) decise di fare un disco di cover - a nome Kenny Graham And His Satellites - dell’amato Viking. Nel luglio del ’56, complice l’ingegnerizazione del suono di Joe Meek, fu registrato Moondog And Suncat Suites, dove alla “Moondog Suite” - le prime dieci tracce, dalla meravigliosa One Four a Fog On The Hudson -, composizioni moondoghiane appunto, faceva seguito la “Suncat Suite”, composta da Graham ma fortemente suggestionata da atmosfere e tecniche compositive di Moon. La parola chiave, nel sound diffuso dalla dozzina e più di strumenti coinvolti (Moondog ea anche creatore di 94 nuovi strumenti, come di vestiti), è “incanto”. Per quanto il Nostro pare traesse ispirazione dai suoni della Grande Mela, auto, metro, sbuffi e animosità urbana, non si sente la New York delle strade, in Moondog And Suncat Suites, quanto una magia sospesa nell’aria (Chant). L’astrazione di chi non poteva separarsi fisicamente dal corpo della metropoli è tutta nella testa, quindi nella musica. Arrendiamoci alla gran quantità di fascinazioni che tutto questo comporta.(7.5/10) nico di brani come Commotion scorrazzano proprio in quei territori. E' musica che ascoltata oggi risplende in tutta la sua impressionante attualità.(7/10) Gaspare Caliri A cosa si deve questa goduriosa rispolverata di uno dei più grandi album della Storia del rock? E' ancora un po' presto per celebrarne il quarantennale (sarà fra due anni esatti), quindi: niente anniversario. E allora? Forse perché sono stati miracolosamente rinvenuti pezzi inediti? No, sembra piuttosto che Jagger e Richards siano stati interprellati per esaminare antichi nastri allo scopo di estrarne materiale interessante per fornire un alibi all’operazione. Ovvero: il progetto precede la scoperta degli inediti. E allora? Allora, non ci resta che elucubrare. E non c'è bisogno di andare troppo lontano: oggi che l'idea stessa di album si sta estinguendo dall'immaginario delle giovani (e non solo) generazioni, non stupisce che una major come la Universal - sotto la cui cappella gli Stones si sono appena trasferiti - tenti di rinvigorire il mercato riproponendo uno degli album mitologici per eccellenza. Exile On Main St. fu per gli Stones e per il rock una tappa estremamente significativa. Musicalmente eccelso quanto bizzarro, emblema di bastardaggine stilistica (country folk, blues, gospel, errebì...) e sanguigna ispirazione, frutto di dissennatezze varie e fughe dalla rettitudine, di contrasti e illuminazioni, testimonia forse l'ultimo rigurgito di un'utopia già sepolta. Un album estremamente coeso malgrado l'eterogeneità formale, sostanzialmente privo di singoli: i due prescelti si comportarono benissimo (Tumbling Dice e Happy), ma fu l’aura straordinaria del long playing a trainare loro e non viceversa. In un certo senso, Exile - uscito nel '72 - fu l'ultimo grande disco rock degli anni sessanta, o la straordinaria lapide che sigillava definitivamente quell'epoca gloriosa. Tutto ciò lo rende un feticcio perfetto, inossidabile, capace di aprirsi una breccia nell'attuale cappa d'indifferenza verso il disco come "raccolta di canzoni". Chiaro il concetto? Ecco quindi il nuovo fiammante missaggio, ed è un bel lavoro in effetti: ti sembra di mettere maggiormente a fuoco i volti, le espressioni, le folate di Method Actors (The) - This Is Still It (Acute Records, Maggio 2010) G enere : P ost punk Ho sempre avuto un'inspiegabile passione per i gregari. Adoro pensare che all'ombra di band blasonate sia stata una scena brulicante di validissime formazioni, che solo il capriccio del fato ha relegato alle seconde (o terze) file. Nel caso dei Method Actors oltre al fato ci si è messa una buona dose di schizofrenia e la follia artistoide dei protagonisti Vic Varney e David Gamble. Troppo spigolosa e poco incline ai facili antusisami la loro musica per compiere la medesima scalata al gusto popolare di altri act come R.E.M. e B-52's, che pure dalla stessa scena (Athens, Georgia, a cavallo fra 70 e 80) provenivano. Inutile fingere conoscenze pregresse: quello che sappiamo di loro lo apprendiamo dal libretto di questo splendido This Is Still It, antologia di una carriera durata appena tre anni, giusto il tempo di incidere un singolo e due album attualmente introvabili. Il secondo, Little Figures, venne definito dalla rivista Sound il migliore dell'anno di grazia 1981. Peculiari fin dalla formazione: un duo chitarra/voce e batteria che in epoca pre White Stripes costituiva una bizzarria non da poco. La musica poi raccoglieva il meglio dell'art rock del periodo e lo declinava in agilissime canzoni che mescolavano le nevrosi chitarristiche dei Devo e il post punk geometrico dei Wire. Urgentissimi e spigolosi come solo chi fa musica lontano dalle logiche del music business può suonare, eppure capaci di infilare una manciata di anthem (vedi il surf robotico di Hi-Hi-Whoopee) che avrebbero meritato ben altro destino. Difficile dire quanto abbiano influenzato o quanto a loro volta siano in debito nei confronti di act come Pylon e Talking Heads, di certo il funk punk asciutto e nevraste- Diego Ballani Rolling Stones (The) - Exile On Main St. (Universal, Maggio 2010) G enere : rock genio selvaggio su quei lineamenti giovani che la musica ha fotografato per sempre. Quanto alle dieci tracce "previously unreleased", rispondono in pieno alle aspettative, sono pur sempre propaggini ma si amalgamano al contesto (al Contesto) con bella naturalezza. Degne di nota Plundered My Soul che gioca a fare la Tumbling Dice un po' più sanguigna, di cui Good Time Women sembra essere una vera e propria versione scollacciata. C'è poi I'm Not Signifying che recupera il passo ebbro del banchetto degli straccioni, c'è l'allucinata fuga garage strumentale di Title 5, mentre destano curiosità le versioni alternative di Loving Cup (più lenta e melmosa) e Soul Survivor (cantata da Richards e perciò più scapigliata e alcolica). C'è quindi il "caso" Following The River, in origine uno strumentale su cui Jagger ha cantato un testo nuovo di zecca: operazione filologicamente discutibile, ma a pastrocchi del genere ormai siamo vaccinati. Va detto in ogni caso che il pezzo è piuttosto bello, situabile in un solco immaginario tra Wild Horses e You Can't Always Get What You Want. Le super-deluxe edition prevedono versioni in vinile con sontuosi libretti fotografici e DVD (contenente estratti dai peraltro già noti Cocksucker Blues e Ladies and Gentlemen: The Rolling Stones): prezzi ovviamente alti ma in fondo equi, proprio perché commercialmente in giro c'è poco di altrettanto appagante da un punto di vista rock. Del resto, non è la prima operazione del genere. Vedrete che non sarà l'ultima. Anzi. P.S. Il voto che segue ovviamente si riferisce all'operazione. Il disco sarebbe da 9 pieno.(7/10) Stefano Solventi Starfuckers - Ordine '91-'96 (Sometimes, Maggio 2010) G enere : rock destrutturato Era sinceramente tempo che qualcuno facesse ordine nel percorso discografico degli Starfuckers. È merito dell’etichetta romana Sometimes se oggi ci rigiriamo tra le mani questa retrospettiva con rarità e inediti che riaccende le luci dei riflettori su una tra le poche band italiane in grado di sviluppare un percorso personale, non derivativo e soprattutto impossibile da imitare. Non è infatti azzardato affermare, a un quinquennio buono dalla trasformazione in Sinistri e a un passo dalla rinascita, che gli Starfuckers siano un unicum nel panorama musicale italiano e non, per capacità sperimentali, portato eversivo e lucidità di intenti. Partiamo dal principio. Nati come rockers rumorosi sulle orme di Stooges e Stones (l’esordio Metallic Disease, qui non presente ma prossimo anch’esso alla ristampa), al varco della seconda uscita (Brodo Di Cagne Strategico, 1991) l’allora sestetto fece tabu95 la rasa del passato rock, e i rimasugli ancora intelligibili venivano deturpati in una strategica dichiarazione d’intenti sonori che, parole di Eterogenio nel corposo booklet, “scagliava una manciata di caos nelle orecchie degli ascoltatori”. Free-jazz, rumorismo, no-wave, freenoise incompromissorio, come lo chiameremmo oggi, convivono e si scontrano nei pochi minuti del minialbum, lasciando un segno profondo nel percorso personale. Sinistri (Underground, 1994) è oltre. Il rock non esiste più, neanche nelle forme sconquassate del mini. Ordine, testo anarchicamente epocale e incedere pachidermico, è l’ultimo lascito vagamente rock dell’album. Il resto è ricerca timbrica, sperimentazione strumentale, testualità da cut-up, ideologia eversiva, decomposizione materica, indagine sul vuoto e poetica della frantumazione. Anello di congiunzione ideale col futuro prossimo della band, ormai raggrumatasi intorno al trio Manuele Giannini, Alessandro Bocci e Roberto Bertacchini, Sinistri mostra in nuce ciò che nei successivi di Infrantumi e (Infinitive Sessions) diverrà effettiva disgregazione sonora. A corredo di questo esaustivo approfondimento sul primo piano quinquennale targato Starfuckers, alcune rarità sparse su compilation (la malata Mechanical Man, cover mansoniana acidamente riletta e affidata al tribute album Comin’ Down Fast), magazine (Dear P. rivisitazione di un pezzo dei Beatles, affidata ad una compilation del magazine Bananafish) e inediti (Quattro Studi (Su Un’intervista) I), tutti rigorosamente rimasterizzati da Giuseppe Ielasi. Retrospettiva dell’anno? Molto probabilmente sì.(8/10) Stefano Pifferi Frank Zappa - Greasy Love Songs (Zappa Records, Aprile 2010) G enere : M oustache doo - wop Il doo-wop e le stupid songs sono una delle componenti di base della musica di Zappa (altre due potrebbero essere il blues e Stravinskij), un amore e una pratica che risalgono alla gavetta, fine anni Cinquanta, quando FZ sbarcava il lunario scrivendo e suonando per misconosciuti gruppetti r'n'b e lounge dai nomi esotici come Joe Perrino & The Mellotones. Amore e pratica che lo accompagneranno fino alle propaggini estreme della sua vita live on stage. Il doo-wop baffo&mosca di Zappa è sì una parodia, ma da intendere in senso - ancora - stravinskijano, un remake umoristico che è anche un sentito omaggio. E' nel ribollente 1968 che il baffuto dichiara ancora una 96 volta al mondo la propria alterità pubblicando un disco zuccheroso e grottesco, interamente dedicato a questo genere, Cruising With Ruben & The Jets (registrato durante le session del capolavoro Uncle Meat). Sono tredici deliziosi underground lollipop (quattro ripresi da Freak Out!) da piluccare con distacco e partecipazione, strizzando l'occhio, oscillanti come sono tra retorica pomatosa anni Cinquanta e doppi sensi spinti, tra armonie rubate ai cugini pachuco dei Platters e criptocitazioni colte (spesso gonfiate dalla critica). Greasy Love Songs, nella serie Audio Documentary, permette finalmente di riascoltare la versione originale di Cruising, quando finora era disponibile su cd soltanto il terribile remix 1984 (con le parti di batteria e di basso risuonate da Chad Wackerman e Arthur Barrow). Pochi gli extra, giusto qualche versione alternativa e una Valerie dell'epoca Cucamonga/Studio Z (pezzo che ritroveremo come "fetta di chiusura" di Burnt Weeny Sandwich). Il doo-wop zappiano è una delle più compiute dimostrazioni della americanità di FZ e della stranezza (molto più che della difficoltà) della sua musica: Zappa non è per tutti e questo Zappa qui (come pure quello superkitsch degli anni Ottanta) lo è ancora meno.(7/10) Gabriele Marino Rearview Mirror —speciale Forever Young Pavement Quando eravamo indie Uno spettro si aggira per l’Europa e il suo nome è Pavement. Dopo un inizio da autentico ectoplasma, ora sta provando a rivelarsi... 98 Testo: Giancarlo Turra Non vogliamo recitare la parte odiosa di coloro che se l’aspettavano, ché a noi la dietrologia ha sempre disgustato. Però, nel momento in cui mettevi i dischi da solo di Stephen Malkmus, dei Preston School Of Industry, di Spiral Stairs e ogni altra robetta che - da fan: ma l’amore è cieco e non sordo - ci eravamo procurati speranzosi (o forse disperati), ecco, quando prendevi tutti questi dischi e li poggiavi su un piatto della bilancia, li osservavi volare in aria. Dall’altra parte c’era Slanted And Enchanted, c’erano la possibilità di essere serenamente arguti, sardonici e partecipati. C’era il momento definitivo di un percorso del college rock che si guadagnava lo scranno meritato, i riflettori a lungo scansati con quell’atteggiamento timidamente scazzato e l’understatement a scorrere nelle vene. Come i Nirvana, ma diversi. Adesso, dopo aver raccolto testimonianze di un compitino svolto sui palchi britannici senza brio, ci troviamo davanti ad alcune date - nostrane e non - in cui lo sgradevole odore di “marchetta” tipico delle reunion pare scomparso. E' vero: ognuno fa quel che ci si aspetta da lui, inclusa la musica, e il dibattito sulla necessità di queste operazioni è di quelli che conducono lontano. Nondimeno, i Pavement sono di nuovo in circolazione a recitare se stessi, e pur nella bontà della musica proposta e delle esibizioni (serviva forse scrollarsi di dosso un pò d'acciacchi), resta un dubbio, un tarlo: se un atteggiamento fieramente indipendente avrebbe tollerato tutto questo, nell'Anno in cui il Punk fece il Botto 1992. Aspettate a darci dei talebani. I Clash, finché Joe Strummer era ancora vivo, se n’erano ben guardati nonostante i milioni di sterline offerti loro. Ed erano dei punk da sempre sul libro paga di una major. Ognuno tragga le sue conclusioni in merito, ché il mondo è bello perché vario. Chi scrive preferisce pensare a quando Malkmus e soci riuscivano - mentre noi guardavamo “oltre” la nozione di rock - a coniugare un approccio svagato e in apparenza fragile alla materia (sul versante pop chitarristico, smembrato nelle sue componenti e ricostruito daccapo) con la robusta conoscenza del passato. Collocando un'altra pietra miliare sulla via della canzone "sperimentale ma anche appassionata" che va dai Velvet Underground ai primi R.E.M. attraverso Fall, Sonic Youth, Pixies. Conoscevano il segreto per proporsi in modo viscerale e autoironico, costoro, oscillando come un pendolo tra l’amore e il distacco: romantici e sarcastici al contempo e quanto talento puro serve per vivere su ambo i lati della strada con agilità. Ecco perché ci siamo abbandonati a lungo - e tuttora replichiamo la magia - a quelle robe sghembe, tortuose ma fischiettabili, suonate con una casualità studiata benché mai posticcia o forzata. Domandandoci quali sottotesti misteriosi si nascondessero dietro liriche confuse, quale realtà di annebbiamento sociale potesse partorire un’indolenza vocale che dicevi restia a comunicare; che quando lo faceva, manteneva il sorriso di chi la sa lunga e te la sta facendo sotto il naso. Personaggi da una pagina di Douglas Coupland, magari. Più verosimilmente gente come noi, disinteressata alla carriera e a certe responsabilità; che lavora nel castello, ma più per sé che nell’ombra dei monarchi. In brani fratturati, gioiosamente caotici e ricchi di svolte pericolose, la bassa fedeltà di questi universitari americani troppo smart per non giungere lontano si è rivelata uno degli esempi più imitati. E per un fantastico, ragionevolmente lungo momento, ha funzionato a meraviglia. S lanted ? E nchanted ! Abbiamo nondimeno corso e urge riavvolgere la scalcinata C90 - del tipo che tanto piace a Thurston Moore - tornando nella California placida e sonnacchiosa di metà ’70. Ovviamente è a scuola che cementano la propria amicizia due ragazzi come tanti: dopo alcune false partenze, per un po’ Pavement non saranno che il progetto di studio guidato dai cantanti e chitarristi Stephen Malkmus e Scott Kannberg. Siamo nel declinare degli anni Ottanta, una stagione felicissima del suono indipendente a stelle e strisce che sta per chiudersi, essendo i suoi pilastri disciolti o entrati nel grande mondo senza vendersi. E che effetto, per chi se ne accorge, i primi 7” ed e.p. di quella che gradatamente diventerà una band a tutti gli effetti raccattando per strada Mark Ibold al basso, Bob Nastanovich a percussioni e tastiere e il batterista - un hippie quarantenne! - Gary Young. Grafica caotica, giustapposizioni estetiche finto casuali che fanno bel paio con la musica, coacervo da mandare in visibilio i critici affamati di citazionismo e i fratelli maggiori degli spocchiosi indie-kids odierni: dinoccolata orecchiabilità tra storture Pixies, noise di scuola Sonic Youth e ruvidezze new-wave d’oltremanica (titoli dei brani e - lo ribadiamo - grafiche che sono smaccati saluti ai Fall; talune atmosfere che ricordano gli Swell Maps) e non solo. Manna che regge benissimo il riascolto d’un fiato - raccolta dalla Big Cat su Westing (By Musket And Sextant) nel ’93 (7,3/10) - a partire da You’re Killing Me da Wire intubati, dalla Box Elder favoloso bubblegum masticato allo sfinimento per Wedding Present e John Peel, dalla cingolata She Believes e dalla malinconia stridente di Perfect Depth. Citazioni dei Faust di Tapes, incrostazioni Electric Eels e ruggine Rocket From The Tomb si mescolano ai disturbi sparsi dentro il tes99 suto sonoro come indizi da decifrare. Seguendo una logica perversa, da primi della classe che vogliono portarti al limite per saggiare la tua reazione. Sono passi registrati in necessaria economia e autoprodotti in un 1989 che pare lontanissimo e che creano un alone arcano rinunciando alle informazioni sulla line-up e accreditando le composizioni a "S.M." e "Spiral Stairs". Dall’autoproduzione passano, in forza del clamore, all’attenta Drag City per i 45 e 12” che precedono, in parallelo allo stabilizzarsi della formazione e alle prime esibizioni dal vivo, il primo LP. A tutt’oggi, di Slanted & Enchanted (Big Cat, 1992; 9,0/10) colpisce l’abilità di padroneggiare affermati vocabolari altrui al punto di cavarne tonalità nuove, volando altissimi su una scrittura inattaccabile. Trentanove minuti e sette secondi da cui non sottrai nulla: non la Summer Babe che è anthem alla Husker Du per tempi nuovi; non gli episodi che incrociano Black Francis, Mark E. Smith e Lee Ranaldo (in ordine casuale: Trigger Cut/Wounded Kite At :17, In The Mouth A Desert, No Life Signed Her, Loretta Scars), non i Velvet del terzo LP ricordati con Zurich Is Stained e la sospensione finale Our Singer. Soprattutto non una Here che, ballata di paralizzante bellezza, omaggia cosciente gli Smiths ed è riluttante inno per chi desidera ancora rincuorarsi. Non lo capivi all’epoca, tuttavia era già un suono di “sintesi” che rintracciava nell’attitudine critica e in nella solidità intellettuale i propri pilastri: la stampa ai loro piedi e non poteva essere altrimenti. Duro, però, gestire qualcosa spinto oltre il passatempo e ne fa le spese Young, il quale non regge neanche un minimo di professionalità bastante ad affrontare il palco con sicurezza. Un mini-lp eccellente come Watery, Domestic ne saluta la dipartita, s’è fatto autunno e subentra il solido Steve West in una band che resterà da qui immutata. Lo stile si ripulisce e per qualcuno smarrisce verve: un errore, perché semmai incontra alla propria classicità felice di essere considerato pietra di paragone. Avresti quindi predetto, con buone probabilità di centrare il pronostico, che la replica Crooked Rain, Crooked Rain (Big Cat, 1994; 7,4/10) avrebbe segnato l’accesso nell’alta società. Sì e no: va bene l’approdo nelle charts statunitensi, MTV che s’inchina alle satire Cut Your Hair e - acquerello remiano di sottovalutata bellezza - Range Life (ma non abbiamo mai veramente capito quale fosse il bersaglio…) e altrettanto “Rolling Stone”. Ma vuoi mettere la congiuntura favorevole di un ’94 drammatico epperò fecondo, a giustificare la nuova sensazione? Se stelle erano, rimanevano nel sottobosco: parlavano chiaro le ruberie jazz (5-4=Unity è Take Five di Dave Brubeck), la pigrizia sexy di Newark Wilder e Gold 100 Soundz, un Buddy Holly decontestualizzato per Silence Kit. Su tutto spicca la magistrale psichedelia aggiornata tramite liquidità, estasi e moviole del calibro di Stop Breathing, di Heaven Is A Truck, di Fillmore Jive. Il quintetto, dopo, si mette in disparte a contemplare la “gloria” e inganna il tempo. Malkmus e Nastanovich collaborano al debutto lungo dei Silver Jews dell’amico David Berman nel mentre progettano di allontanarsi da ciò che sta per degenerare in clichè. Coraggio che premia, perché se Wowee Zowee (Matador, 1995; 7,6/10) è eclettico e policromo da adombrare talvolta la penna e l’equilibrio, contiene comunque idee da regalare agli angoli delle strade. Un suono più brillante, la cura per il dettaglio - prima erano disturbi, ricordate? - e la ricchezza degli arrangiamenti giovano alla classe di Brinx Job, Best Friends Arm, At & T più che altrove. La band si concede sfizi come insegnare un paio di mosse ai dEUS (Kennel District) dopo aver omaggiato Alex Chilton (We Dance), alternando linearità e intimismo pastello (Father To A Sister Of Thought) e svagatezze (Grounded) tramite le pregiate mini-suite Fight This Generation e Half A Canyon. Paradosso confacente è che i Nostri proseguano sulla cresta dell’onda ricavando soldini ma anche frustrazione: al quinto Lollapalooza sono fuori posto e a pochi frega di quel che suonano. II gioco iniziava a non valere più la candela. Terror At Twilight Nella storia è accaduto continuamente: a un certo punto, un gruppo si trova a un bivio. Deve scegliere se continuare a salire oppure altrimenti fermarsi, implodere per stanchezza, prostrazione, esaurimento delle idee. Film che va in replica anche qui. Il 1996 si consuma in uno stallo interrotto soltanto dal mini Pacific Trim, non male e che in Europa segna il passaggio alla Domino, preludio alla lavorazione del quarto album con la presenza di Mitch Easter alla consolle. Si limita a farli suonare e accendere i microfoni, in sostanza, ma non è questo che fa storcere il naso di Brighten The Corners (Domino, 1997; 6,8/10). E neppure un’ulteriore accessibilità che regala vendite apprezzabili: è il riportare le lancette indietro di due dischi, l’assenza di una evoluzione che non convince. L’onestà mai messa in dubbio, disorientano il fiatone, una A Date With Ikea gag FM che non fa ridere, le troppe carinerie di un lavoro normale da parte di individui mai stati tali, che anzi avevano dettato nuove regole per definire il concetto stesso di normalità. Stanchezza è la ragione, e non aiuta un nuovo giro concertistico di cui si narrano mirabilie che li sfibra in via definitiva. Aria di fronda, o per lo meno di “pausa di riflessione”. E, diciamola tutta, quante ne conoscete di coppie felici dopo di essa? Ecco: se c’è un momento in cui Pavement avrebbero potuto (dovuto…) chiudere bottega, questo era l’estate 1998. Quando è ora di decidere, chiamano il già affermato Nigel Godrich a spargere fumo sopra la monotonia di Terror Twilight (Domino, 1999; 6,0/10). Affidatisi al mestiere, scampano l’autoparodia per un pelo. Non c’è però alcuna canzone di Spiral Stairs e ne puoi allora quasi parlare come del primo “solo” di Malkmus. Nulla ci toglierà comune dalla testa che i migliori Pavement dovessero esere cercati nel disco omonimo dei Blur, meraviglioso favore restituito come fu nel 1994 Expermental Jet Set Trash And No Star della Gioventù Sonica. I titoli di coda scorrono l’ultimo 20 novembre del decennio, allorché nella londinese Brixton Academy, Stephen teatralizza i saluti ammanettandosi all’asta del microfono: simbologia e finezza da piazzata condominiale che da lui non ti saresti aspettato, e benché la casa americana Matador annunciasse una messa in naftalina, chi aveva orecchie, intese. Ognuno restituito a sé, i ragazzi si separano e affrontano il trauma come possono e, da soli, si smarriscono nei meandri di cui in apertura. Più vicino a noi, ristampe “espanse” certificano la grandezza del trittico iniziale e il DVD Slow Century funge da lussuoso placebo. Il resto è storia di ieri l’altro: dischi sempre più inconcludenti, l’annuncio di spettacoli nuovamente insieme, un “best of” scarsamente significativo. La mezza età e le sue crisi sono del resto ardue da affrontare. Nondimeno, quel che fa sul serio riflettere della reunion sono la maturità e il classicismo di un (non) stile partito dal basso e giunto lontano. Che a un certo punto si è raggomitolato e di superarsi non ha voluto saperne. Bastava dirlo, avremmo preferito la nuda verità a un gioco di paraventi poco robusti andati rapidamente in frantumi. Scomposto nelle parti che sommate lo rendevano immenso, il suono dei Pavement è Genio scaduto in modestia impiegatizia. Oggi, alla luce della loro presenza su un palco, li guardiamo transumare da “il futuro? bah…” a “il futuro? beh…” con flemmatica dignità. Rimane un passato da Maestri cui tornare ogni volta che lo desideriamo, quello sì resistente a ogni riunione tra amici. 101 (GI)Ant Steps #39 classic album rev Eric Dolphy Type O Negative Far Cry (Prestige, Dicembre 1960) Slow, Deep And Hard (Roadrunner Records, Giugno 1991) Aveva 32 anni Eric Dolphy in quel 1960 che lo vide letteralmente esplodere. Un'esplosione di quelle che lasciano il segno, come un asteoride piombato nel punto nevralgico del pianeta jazz. Uscito dai fifties e dal quintetto di Chico Hamilton, eccolo incrociare il cammino del travolgente Charles Mingus, assieme al quale - tra le altre cose - inciderà l'incredibile Mingus At Antibes, semplicemente uno dei più fenomenali live album che si ricordino. Nello stesso anno, oltre ad altre performance come side man e ben sei album a proprio nome, gli accade d'incontrare Ornette Coleman intento a progettare uno snodo fondamentale che avrà per titolo Free Jazz, il che è tutto dire. Dolphy vi partecipa e saprà distinguersi nella bolgia formidabile. Le sessioni avvengono il 21 dicembre. Incredibile a dirsi ma in quello stesso giorno, solo poche ore più tardi, un'altra seduta d'incisione attende, nello studio di Rudy Van Gelder ad Englewood Cliffs, New Jersey. E' la sera che vede nascere Far Cry, album che suggella al meglio l'anno della consacrazione dolphiana. Il quintetto allestito, a leggerne i nomi oggi, è da paura: il nome meno celebre è quello Jaki Byard, pianista destinato a lasciare il segno nei successivi capolavori di Mingus, quanto alla sezione ritmica, è curata da due calibri come Ron Carter e Roy Haynes. Ma il vero pezzo da novanta, impossibile da relegare al ruolo di comprimario, è il fenomenale trombettista Booker Little, i cui imprendibili virtuosisimi valgono da soli il prezzo del biglietto, rappresentando allo stesso tempo una straordinaria pietra di paragone per lo stile del leader. I cui assolo (di sax alto, di clarinetto basso, di flauto) frullano angolosi e lirici, lievi e risoluti, sono guizzi d'uccello e traiettorie algebriche, sono uno stupefacente conflitto controllato tra razio- 102 nalità e istinto. Non a caso la scaletta si apre con due brani - composti da Byard - dedicati al grande Charlie Parker, l'uomo chiamato Bird forse perché insaziabile amante di pollo arrosto, più probabilmente per lo stile "ornitologico" della sua mostruosa calligrafia. Little si esalta, sembra voler incendiare la tromba in memoria di Parker, ma Dolphy ribatte con una padronanza sbalorditiva, soprattutto nel condire d'imprevedibilità free la fibra dell'improvvisazione. Questo mix di puntualità, potenza, frenesia, ebbrezza e ingegnosità percorre la rilettura di standard come It's Magic e di originali come la title track, nuova elettrizzante versione della già nota Out There. Il programma originale si chiude con Dolphy al sax solitario nella Tenderly firmata Gross & Lawrence, melodicamente stravolta per ricavarne una morbidezza assieme soave e scostante, autentico capolavoro di "ri-composizione istantanea" che non lascia indifferenti oggi come allora. Cosa dire quindi di Far Cry se non che somiglia al respiro più profondo prima del tuffo, un farsi carico di tutto ciò che sei stato con la consapevolezza già incontenibile di ciò che dovrai essere. Verranno album indimenticabili sia come leader che come side man extra lusso, tra cui due autentiche pietre miliari come Africa/Brass e Olé di John Coltrane. Quindi, nel 1964, sfornerà l'epocale Out To Lunch, autentico vangelo di avanguardia jazz, proprio come i testi bibilici infinitamente dibattuto e adorato. La traiettoria per un'avventura imprevedibile a quel punto era saldamente impostata. Quattro mesi più tardi Eric s'involerà tragicamente verso il punto di non ritorno. Silenzio. Stefano Solventi Ha il suono sottile della beffa, eppure Peter Steele è morto per un semplice attacco cardiaco. Lui ci aveva sempre girato intorno, spesso aveva messo in giro false voci sul suo decesso ed era solito celebrare il culto del suicidio come unica forma virtuosa di farla finita. Ora siamo qui a sentenziarne la grandezza post-mortem come si compete a tutti i grandi protagonisti del metal anni ’80 e ’90 che se ne sono andati in questi anni, da Dimebag Darrell dei Pantera, a Chuck Shuldiner dei Death, passando per "Piggy" dei Voivod. Peter Steele, al secolo Peter Ratajczyk, sta li in mezzo, in un pantheon di assoluto rispetto, ma in una nicchia tutta sua, non fosse altro che a dispetto di un ego smisurato, di celebrazioni non ha mai voluto farne. Ex poliziotto, ex militante in formazioni trash-hardcore mai troppo elogiate come i Carnivore, grandissimo maniaco depressivo, morboso patologico con evidenti problemi di ordine sessuale, dal fisico scultoreo e imponente e dalla smodata propensione all’esibizionismo (celebri le sue foto a cazzo duro per il paginone di Playgirl, che gli valsero gli sfottò invidiosi di mezzo mondo metal). Il fascino storto e diagonale dei Type O Negative sta tutto nel suo modo di guardare al mondo, tanto che l’identificazione tra lui e la band è totale e imprescindibile. L’unico modo degno allora per celebrarne la buonanima è quella di andarsi a ripescare il primo, indimenticato, capolavoro dei Type O Negative, datato 1991, ristampato e rimasterizzato appena l’anno passato. L’ormai leggendario Slow, Deep And Hard, da più parti (per lo più esterne alle file della metal intellighenzia) considerato il miglior disco di metal estremo. Una ben strana medaglia di cui fregiarsi, quando si sono attraversate stagioni e decadi di brutali espressioni oltranziste originatesi dal trash metal della bay area, passate nel tritacarne gore del death e del grind e arrivate al funerale definitivo con il black. Ma i Type O Negative si mettono a stimolare le zone buie dell’anima, senza fare bieca didascalia splatter, ed è per questo che hanno sempre avuto un risvolto, per certi versi, più “intellettuale”. Dopo l’ascolto di Slow, Deep And Hard si capisce che tutte le definizioni stanno strette, in primis quella di metal, in vero contaminata fino al midollo, al punto che per lunghi tratti è più simile ad una forma di hardcore evoluto e progressivo, con lugubri passaggi di organo monastico a centrare un melodismo gotico e tenebroso, con tanto di cori che riprendono il ritornello in terza persona, alla maniera dei Beatles, notoriamente la band preferita di qualunque maniaco che si rispetti, e quindi anche di Peter Steele. Slow, Deep And Hard si presenta quindi come un parto doloroso e complicato e a conti fatti come un vero e proprio concept album. Il concept è Peter Steele stesso. Il disco quindi non potrebbe essere più complesso di così, tanto che stimola l’analisi dettagliata delle sue parti più minute nel tentativo di decifrarne il disegno generale, quasi come se si componesse un puzzle sistemando i pezzi l’uno con l’altro. I brani viaggiano sulla media degli 8 minuti di durata, si articolano in vere e proprie suite a più movimenti. E’ il dramma teatrale secondo i Type O Negative. Dal dolore dell’infedeltà della sua ex che sta al centro di Unsuccessfully Coping With The Natural Beauty Of Infidelity (con micidiale umorismo maschilista di Peter: “Tu c’hai il cazzo nella testa e lo sperma sul fiato / Ti sei messa il diaframma prima di farti praticare un po’ di ginecologia freelance”), alle disgrazie della società afflitta dai debosciati dell’assistenza sociale in Der Untermensch, fino alla seduzione dell’omicidio (si suppone della ex) a colpi di piccone in faccia in Xero Tolerance, alla degradazione dello stupro (con martello pneumatico) in Prelude to Agony, alle trovate cinematografiche di Glass Wall Of Limbo (Dance Mix) e The Misinterpretation Of Silence And It's Disastrous Consequences, tra cori di monaci medioevali, schiavi che tirano catene, male interpretati silenzi, e fino alla chiusura della propria autorealizzazione tramite il suicidio, nell’atto d’amore finale di Gravitational Constant: G = 6.67x10-8 cm3gm-1sec-2, in cui Peter, sedotto dalla forza di gravità, si unisce in matrimonio con il suolo terrestre, non prima di aver fatto atto di dolore, riconoscendo che come minimo qualche problema c’è ("Ho un problema / Un problema con l’odio / Non posso continuare a trascinarmi questo peso"). Per essere capito fino in fondo, Slow, Deep And Hard va letto e sentito esclusivamente attraverso la mente del suo autore ed è li che si nasconde tutto il suo estremismo. Antonello Comunale 103 la sera della prima Gli amori folli A l ain R esnais (F rancia , I talia , 2010) Parigi e l’Isle de France, Oggi. Marguerite Muir, Sabine Azéma, viene scippata a Parigi, fuori da un negozio. Poco dopo Georges Palet, André Dussollier, ritrova un portafogli in un parcheggio di un centro commerciale della periferia. Non lo riconsegna subito, indugia e s’invaghisce della proprietaria. I due iniziano un balletto atipico del rituale di corteggiamento e sembra che siano destinati al perdersi sino all’esito finale. Alain Resnais fa ciò che vuole. L’ha sempre fatto e ora, con l’età e i tributi riconosciutigli, amplifica i modi e i tempi con i quali dire. Non inventa nulla ma stravolge tutto. Prende quella che apparentemente sembra una commedia amorosa assodata e piana e la riveste della sua arte. Nel suo ultimo film (in originale Les Herbes Folles, 2008) l’erba matta - il titolo italiano elide la logica! cresce dove vuole, senza chiedere spiegazione oppure offrire motivazione alcuna. L’erbaccia è la metafora della presenza umana sulla Terra, delle relazioni interpersonali che tale presenza contraddistinguono e rendono unica e, 104 —recensioni allo stesso tempo, sempre simile a un’altra sentita chissà quando e dove. Quando si esce dal cinema tutto è possibile e nulla stupisce più, dice la voce narrante. Un imprevisto, un incidente - L’incident è il romanzo di Christian Gailly da cui parte Resnais - e tutto cambia, un incrocio di destini altera un equilibrio apparente al quale pareva essere abituati. Si dirà che questo è il macguffin di tutto il cinema corale da Robert Altman a Paul Haggis fino a Alejandro González Iñarritu.Va detto, però, che in questo caso si presentano all’incrocio solo due individui, due cespugli arbustivi, come li racconta la delicatissima locandina originale del film. Qui entra in gioco il touch of evil. Tutto quanto è narrato giace su una base d’interrogativi, di questioni irrisolte che allo spettatore sono consegnati come aspetti frivoli e senza valore, come caratteri dei protagonisti ma che, in realtà, fanno lentamente sgretolare ogni certezza o deducibile propensione per una parte o per l’altra, per una visione chiara della vicenda. Tutte queste domande sono poste in secondo piano dal regista, dal ritmo brillante della commedia e dalla straordinaria prova degli attori ma tale scollamento erode lentamente e trova, nel finale, un giusto tripudio e dimostrazione nell’inspiegabile sequenza conclusiva. Resnais gioca con il montaggio, lo fa sin dal suo esordio del 1956, Toute La Memoire Du Monde, altera gli spazi e la successione logica degli eventi. Attraverso il richiamo all’amatissimo fumetto, le nuvolette introspettive di Dussollier e Azéma, l’incursione nella citazione cinefila, la macchina da presa mossa con piglio imprevedibile tra il dentro e il fuori, il regista bretone fa se stesso, gigioneggia e chiede che gli amori folli del titolo siano i nostri per lui. Mette in scena egocentricamente tutta l’idea di cinema che chiude saldamente nell’obiettivo e la serve nella forma semplice e condivisa della commedia amorosa. Lascia subodorare al melodramma ma per confondere ancora una volta. Fa sorridere ma dissemina d’insicurezza ogni risata che concede. Tutto è riflesso, visto attraverso, filtrato. Diceva Resnais, ormai tanto tempo fa, che “ognuno vive nei propri fantasmi e che è questo a rendere impossibile la comunicazione tra le persone”. Si prendano i dialoghi nei quali è presente il protagonista maschile, dal volto segnato da una malattia o da una tragedia, diranno nel film, così come dice il poliziotto che farà incontrare i due: - Faceva certi ragionamenti che non ho capito niente. Che parli con la moglie, con un poliziotto e con l’oggetto del proprio desiderio, Palet parla a se stesso guardando dinanzi a sé, senza sollievo da un peso che porta con sé. Ecco, oltre tutti i divertissement e le gigionerie, la cifra di Alain Resnais che spunta magnificamente, ancora una volta, a ottantasette anni. Aldo Romanelli La nostra vita D aniele L uchetti (I talia , 2010) “Perché col tempo cambia tutto, lo sai, e cambiamo anche noi...” Vasco Rossi, Anima Fragile Nelle parole e nella voce traballante di uno dei migliori Vasco Rossi di sempre sta tutto il nuovo meraviglioso film di Daniele Luchetti, La nostra vita. Unico film italiano in competizione a Cannes dove Elio Germano, il protagonista Claudio, ha meritato la Palma d'Oro come migliore attore in ex aequo con il divo spagnolo Javier Bardem, è stato applaudito accoratamente ed è nelle sale italiane dal 21 maggio. Roma, periferia. Oggi. Claudio ed Elena vivono insieme ai loro due figli piccoli Samuel e Christian - forse senza H in onore del primogenito di Francesco Totti e un terzo è in arrivo. Si chiamerà Vasco. Il parto, però, non va bene ed Elena, Isabella Ragonese, muore in sala operatoria. L'uomo deve sopravvivere al lutto ed essere un buon padre per i tre bambini nella realtà quotidiana delle ingiustizie, degli abusi e dell'ignoranza con la quale lui sceglie di accompagnarsi per rendere la vita dei suoi piccoli migliore. Decide lucidamente di dare loro quanto non hanno mai avuto fino a quel momento e di non far sentire loro la mancanza della madre. Luchetti affresca l'Italia di oggi. Lo fa con vernici tutt'altro che tenui o naturali - come si potrebbe, poi?! - sceglie materiali caldi e olezzosi, spesso acidi ma veri e concreti, mai sfumati o vacui. La vicenda di Claudio è raccontata senza pietà, con la macchina da presa che accoglie quanto accade quasi ponendosi come lo sguardo di un quinto figlio, il quarto sarà il romeno Andrei, Marius Ignat, legato a Claudio inevitabilmente.Testimone della ferrea volontà di un uomo di andare oltre comunque, questo sguardo non è mai giustificante o rassicurante, mai è una carezza per il protagonista al quale le cose vanno di male in peggio. Infatti, d'un tratto, ci si accorge che lo sguardo della macchina da presa è quello di Elena, partita ma mai andata via, giudice silenziosa di quanto accade. Era suo, infatti, il ruolo ferreo tra i due genitori della coppia, era lei quella che diceva sempre no a Samuel e Christian. Solo alla fine, quando tutto ha trovato il suo esito, quando il male è stato chiuso fuori dalla porta, non vinto ma arginato, Claudio riapre la camera da letto della coppia chiusa dal giorno della morte di Elena. Si immerge nel talamo nuziale e nell'abbraccio dei suoi bambini, di quanto resta, di quanto vale ogni collusione, ogni tolleranza verso il male. Per aspera ad astra, si dirà. Quel letto pare il mare tanto mostrato nel film e raccontato dai titoli di coda. Pare il destino naturale delle cose, lo sciabordio inevitabile e sordo delle onde che tutto muta e se ne frega. Lo spacciatore Ari, Luca Zingaretti, dice che su di loro uno tsunami e non un'onda si abbatterà se non pagheranno i creditori zingari; lo dice Vasco Rossi in Anima fragile, lo canta Claudio per due volte nel film, lo vivono tutti i protagonisti sulla loro pelle. Il mare, quel qualcuno che avrebbe deciso di portare via la mamma ai piccoli, come dice Claudio - lo si può accettare solo con una “barchetta di affetti”, con una “scialuppa di sentire comune”. Ed è lo stesso modo in cui la vita in questo paese può essere ancora affrontata. Lucchetti racconta la stagione di un riflusso mai finito, cosa realmente è accaduto dopo il ’68 e il ’77, alla fine dell’impegno civile. Di Pier Paolo Pasolini è il fantasma che aleggia qui prepotentemente. Tutti gli attori del cast sono bravi: Raul Bova e Luca Zingaretti, Isabella Ragonese e Stefania Montorsi si prestano come perfette spalle a Elio Germano. Bravo più che in ogni suo altrove, il ventinovenne romano diventa 105 Claudio, regalando una lezione di recitazione al Cinema Italiano. Ampi spazi d'improvvisazione in cui la macchina da presa figlio/moglie lo guarda e non può che tacere intimidita. Su tutti la sequenza del funerale durante la quale l'uomo canta l’inno alla vita dell’unico vero rocker italiano. Non ve n'è traccia in sceneggiatura ma è nata, dice l'attore, venuta dal nulla e non potuta trattenere. Premiato a sorpresa a Cannes, Luchetti e lui erano rientrati in Italia il giorno prima e sono stati richiamati all'ultimo in Francia, l'attore ha dedicato la vittoria all'Italia e agli italiani che fanno di tutto per rendere questo un paese migliore malgrado la sua classe dominante. Oltre la denuncia politica, importante e necessaria, Germano dà così le chiavi interpretative di questo film semplicemente bello e, soprattutto, sincero, come la vita di certi quartieri sempre meno realtà geografica limitata e sempre più stato mentale diffuso. Come pronosticava amaramente Pasolini ormai trent’anni fa, in un esempio di film neorealista oggi. Aldo Romanelli Iron Man 2 J on F avreau (USA, 2010) Il secondo episodio cinematografico di questo ennesimo prelievo dai tipi della Marvel comincia dove si era interrotto il precedente capitolo, Iron Man (Jon Favreau, 2008). Il protagonista Tony Stark, Robert Downey Jr., si toglie la maschera e urla al mondo la propria identità. Come spesso capita con gli adattamenti delle storie di supereroi, nel secondo episodio, all’affermazione e manifestazione pubblica del protagonista, succede la difficoltà di collocarsi nei ranghi sociali e di dialogare con le autorità, qui l’esercito degli Stati Uniti d’America. In più, altro topos narrativo condiviso, le condizioni di salute di chi incarna il ruolo del supereroe si aggravano tanto da mettere a repentaglio la sua vita e la sua lotta contro il male. Il reattore che lo tiene in vita, alimentato a Palladio, lo sta dannosamente contaminando di scorie difficili da smaltire. C’è un cattivo, si tratta di un fisico russo, Ivan Vanko, Mickey Rourke, che dopo anni di prigionia riesce a mettere in pratica la sua vendetta nei confronti del nome Stark. All’antagonista sarà dato aiuto dal peggior rivale commerciale dell’ex costruttore di armi, Justin Hammer, Sam Rockwell. C’è anche un nuovo compagno di battaglie, Don Cheadle nei panni del Tenente Colonnello Jim "Rhodey" Rhodes. In Iron Man il ruolo del militare era interpretato da Terrence Howard. Il film non stravolge la logica semplice della successione narrativa tipica dei comic movies e all’interno di un genere ben specifico e dai confini ben nitidi dà il via a 106 un buon sequel e funge da teaser per un terzo episodio attualmente in lavorazione. Come alla fine del primo film era mostrato il ritorno a casa del protagonista dopo l’ammissione d’identità e l’incontro con un misterioso personaggio interpretato da Samuel L. Jackson; allo stesso modo qui, dopo tutti i titoli di coda, ha luogo una brevissima sequenza dalla quale si evince che, in Messico, è stato rinvenuto qualcosa, o qualcuno. Un istantaneo zoom su un martello nella sabbia e tutto è rimandato di un anno o due. Si tratta, a quanto pare di Thor, altro reclutato, dopo Iron Man, nello S.h.i.e.l.d. di Nick Fury, Jackson. Lo stare nei canoni del genere non ferma l’iniziativa di Jon Favreau, anche attore qui, e del suo sceneggiatore, il poliedrico Justin Theroux, brillante attore altrove. La coppia rende il personaggio di Stark sempre più calzante e consolidato sulle corde di quanto mostrato nel film del 2008. Il pubblico si affeziona a una figura come la sua, perfettamente adesa al volto e ai modi di Robert Downey Jr. Ironico e scanzonato, distrattamente miliardario, avezzo all’alcool e alla compagnia femminile, scurrile e mai banale, si avvicina qui, dopo lunga attesa, alla sua segretaria Pepper Pots, Gwyneth Paltrow, dopo aver flirtato con la nuova arrivata, la polifunzionale Natalie Rushman/Natasha Romanoff, Scarlett Johansson. Il film fa sorridere spesso e ridere a tratti. Avvince e convince nell’eccesso luccicante del product placement endemico agli high concept movie come questo. Si arricchisce, poi, del tratto tipico dei sequel di successo per il quale la riconoscibilità di figure e mezzi è un richiamo all’attenzione dello spettatore che corre a vedere le nuove avventure dell’eroe. Mancante completamente è, purtorppo, l’approfondimento dei tratti dell’antagonista Vanko, del quale è troppo poco detto e solo lasciato intendere. I connotati per la creazione di una nemesi mitica, si prenda il Joker di Heath Ledger in Il cavaliere oscuro (The Dark Knight, 2008), ci sono tutti ma vengono tralasciati in favore del montaggio e del ritmo sebbene Rourke colmi di se ogni inquadratura. Montando velocemente insieme battute vincenti, gadget tecnologici all’avanguardia, un invidiabile lifestyle e le migliori canzoni degli AC/DC, il film arriva in Italia inondando il mercato di 604 copie e la programmazione nelle multisala è oberata per far fronte alla richiesta sia di biglietti, sia di introiti da parte della distribuzione, incassando 3.536.021 euro nel primo weekend. Aldo Romanelli Saw VI K evin G reuter (USA, 2010) Anche la saga come il suo diabolico anfitrione Jig Saw ha una malattia che la divora dall’interno, ed è lo stesso principio che porta le cellule tumorali o infette a riprodurre altre cellule infette. Ma la proliferazione continua, e nella sua assoluta mostruosità che porta in scena brandelli impietosi di carne, scene assuefatte di sevizie e negligente refrattarie di ogni morale dimenticata, l’antica sbudellerai del corso riesce ancora, se non a colpire, a saziare il retrogusto macabro di ogni insospettabile Dr. Jekyll. Ormai completamente disinteressati alla trama, ai colpi di scena rattoppati, ad una recitazione da cani, a ritorni dall’oltretomba, gli spettatori chiedono da subito il sangue. E sangue hanno. Ancora prima del titolo il teaser è eloquente: riprende in matrice l’ormai luogo comune cui ci hanno abituato i primi episodi, quello del “E dove cazzo sono moh?” in cui due malcapitati si ritrovano nella Gardaland della sevizia e ci restano secchi o quasi. Qui un ciccione che si affetta modi mortadella e una figa isterica che poi si mozza un braccio. Roba da urlo, più credibile della trippa e dei nervetti che dovrebbero essere i resti di Strahm (Scott Patterson) o della mano morta con 107 cui Hoffman (Costa Mandylor) va in giro a firmar autografi. Dalla mano chirurgica da bisturi di John (Tobin Bell) si è passata a quella marcata di Hoffman che impugnato un coltello seghettato, nasconde dietro il velo di una giustizia sommaria il desiderio unico del sangue. Saw si cristallizza e si contorce su se stesso come le spirali rosse ormai brand dell’architettura del terrore o come gli itinerari frustranti tra porte scorrevoli e congegni infernali cui sono obbligati i malcapitati ospiti. C’è chi ne vede la forza di una log line ancora in grado di sfuggire alla morsa del tempo e in grado di replicarsi in una indefinita quantità di monadi infette e chi ne vede solo l’ultimo guizzo di un corpo agonizzate e condannato a destino certo. Per sopravvivere alla morte si è riprodotto in fretta (il secondo film fu completato in poco più di 20 giorni), si è camuffato nel citazionismo di genere, rifugiato nel flashback poco convincente e molto esplicativo, è divenuto culto, si è autocitato, arrivando nel sesto capitolo ad istallare come protesi veri e propri spezzoni. Putrescenze più che fili conduttori... Gioca. Gioca con la pazienza dello spettatore, con la sua sadica e ferina voglia di mattatoio, gioca con se stesso e il genere. È qui che si cela l’aspetto sociologico più interessante e si consuma una differenza fondamentale con parte del torture porn di cui ormai è araldo. Da un lato la rinuncia assoluta da tempo a questa parte ad ogni accezione metafisica, gotica o soprannaturale. Il male è qui, oggi, si chiama Guantanamo o Abu Ghraib. Ma se un certo filone ha portato all’estremo l’assoluta casualità del male, ricalcando la noia borghese di Hostel( Eli Roth, 2005), è anche vero che il nuovo Gran Guignol (e il nuovo imbonitore del circo di Jig Saw viene dalla polizia come per lo storico teatro parigino) ha bisogno di una giustificazione del male. Il male insomma può essere una forma artistica peculiare, che mostra la debolezza del corpo umano, non a caso la tendenza al gore ritorna alla ribalta nell’epoca dell’edonismo patinato di silicone e riviste; se la pornografia ha avuto origine anche dalle spinte della body art e del culturismo/edonismo, il gore ricorda vagamente quella sezione estrema cui faceva parte l’azionismo viennese di Nitsch e del suo Orgien-Mysterien Theater, il teatro delle orge e dei misteri. Proprio come per l’azionismo infatti ci si concentra lentamente sul gesto in modo che il dolore causato o patito, quello che i media riducono a informazioni asettiche o sensazionali (telegiornali) e spettacolarizzazioni fini a se stesse (horror movie), ritornino a shoccare come tali. Si pensi alla giostra cui sono legati gli squali dello studio delle assicurazioni, la lenta agonia cui sono sottoposti, la consapevolezza della condanna che spetta all’ultimo di loro. 108 I seguaci del filone continuano a moltiplicarsi dentro, e fuori il film con lo Splat Pack - Eli Roth, Rob Zombie, Alexandre Aja, James Wan, Darren Lynn Bousman, Greg McLean, Neil Marshall - e quando scelgono di veicolare un messaggio possono farlo anche senza mezzi termini e finzioni, dando libero spazio all’aberrazione come nel caso dell’asiatico Tokyo Gore Police (Nishimura, 2008) o in Baise Moi - Scopami (Coralie Trinh Thi e Virginie Despentes, 2000). Diventano un j’accuse generazionale, ma non si va più a ripescare nelle paure inconsce, nel retaggio gotico. Sulla scomparsa della trascendenza gotica possiamo tessere un confronto con Nightmare, proprio in attesa dell’uscita del prossimo capitolo della saga. Anche la nostra generazione è cresciuta quotidianamente con i reportage di guerra, con una pornografia oculata a grado zero tra l’altro tutto molto più accessibile grazie al web: per questo il Gore gode di maggiore vigore di quello che ai tempi fu il New Graphic Horror, che non disponeva di elementi gore e blood di partenza così ricchi, da cui si discosta radicalmente. Potrebbe sembrare tipicamente gotica l’ascendenza di una violenza difensiva che serve a riassestare situazioni di squilibrio: in una visione di male cosmico, anche i personaggi pre- sumibilmente buoni giunti alla resa dei conti con il male sono costretti a ricorrere a questo tipo di violenza fino a vestire i panni del cattivo. Ma Amanda e Hoffman, così come la moglie Jill (Betsy Russel) non sono la Nancy di Wes Craven, una ragazzina che deve espiare le colpe dei genitori. Il loro è il loro proprio male, non partono da un’innocenza iniziale, ma dal marcio. L’uomo viene presentato così com’è: il risultato chimico della civiltà della violenza, senza più orpelli, senza infinite simulazione con cui nasconde il suo atto primordiale, quello sacrificale, quello del versamento gratuito del sangue, inizialmente quello altrui e, grazie alla terapia (d’urto) dell’enigmista, anche il proprio. Altro tratto comune evidente è quello della Mad House, tematica che trova supporto nel capostipite della produzione craveniana, L’ultima casa a sinistra (Wes Craven, 1972), e ne La casa nera (Craven, 1992), ennesimo capitolo dedicato all’argomento a distanza di un ventennio. Ma il male made in Jig Saw si muove in senso contrario rispetto a quello di Nightmare, ad esempio: se la transizione metaforica di Craven è induttiva e va dall’universo del micro a quello del macro, perciò ci si muove dall’universo familiare agli altiforni dell’impianto industriale, quello di Saw è deduttivo, parte dall’universo industriale per percorrere i micro-drammi familiari. L’America riscopre l’acqua calda e si rende conto che ha un servizio sanitario imbarazzante, proprio mentre si discute del nuovo progetto sanitario obamiano. Come già successo con Drag Me To Hell e la bolla delle speculazioni edilizie, o Green Zone e la guerra in Iraq servivano i popcorn perché loro i libri, i giornali o anche i documentari di quel comunista di Michael Moore non se li filano. È la finta morale. La stessa che porta Tiger Woods a doversi giustificare pubblicamente per le proprie tresche extramatrimoniali, ma che rende assolutamente normale il sadico spettacolo di Saw se protetto da una campagna di beneficienza per la donazione del sangue. God Bless America. Il male ha qualcosa di biblico. L’Enigmista è schiattato, ma si ha la paura che resusciti da un momento all’altro, mo’di primo capitolo, e Dio ce ne scampi per il settimo capitolo in 3D. È un Cristo pazzo che insegna la via, che fa sfruttare talenti e mette alla prova per il dono della vita eterna. O per lo meno fino alla busta successiva. I suoi discepoli continuano a predicare il verbo. E si scopre che anche loro si moltiplicano o diventano stacanovisti perché da soli riescono a rapire persone con nonchalance. Ma del resto non li si può biasimare di certo se i poliziotti a loro volta resuscitano e vorrebbero condurre il gioco. Tutti vogliono condurre il gioco. Il nuovo regista Kevin Greuter, storico montatore del- la serie, dimostra di saper padroneggiare tutti i tasselli, a volte la fa fuori dal vaso, ma pulisce subito con una bella spruzzata di sangue. Ma i personaggi nuovi e l’apertura di una nuova trama non fa altro che ritardare un destino che comunque prima o poi toccherà anche al burattinaio per eccellenza. E probabilmente sarà quello che toccò anche a Freddy, una morte (in)gloriosa in 3D. Speriamo solo di non doverlo vedere parodia di se stesso o troppo giuda ballerino, perché Tobin Bell un posto nella storia se l’è già meritato. Saw è comunque culto. Nonostante le lacune, nonostante il facile compiacimento e l’adozione di scelte a volte scontate, a volte troppo tirate, ha riscritto il genere, riportando alla ribalta il torture porn e generando film cloni, con tutti i limiti che un clone di un clone può avere. Per ingannare l’attesa che separa dall’uscita nazionale prevista per giugno, una maratona delle mattanze precedenti non sarebbe male. Oppure lancio un sasso e nascondo la mano: A Serbian Movie, che tanto in Italia non sarà mai distribuito. Luca Colnaghi Robin Hood R idley S cott (USA - GB, 2010) In Come vi piace di William Shakespeare il duca, esiliato nella foresta di Arden, si chiede se quella sua vita esposta al gelo e ai pericoli non fosse diventata assai più dolce di quell’altra, affatturata e pomposa della corte: qui, almeno non c’è adulazione: questi miei consiglieri (il vento e il gelo) mi fanno sentire al vivo quello che io sono. Con l’allegra brigata dei suoi buontemponi, il duca si trova a vivere come il vecchio Robin Hood d’Inghilterra e, come lui, scambia volentieri le false adulazioni della corte e i suoi intrighi di potere con i dolci vantaggi dell’avversità. È questo, forse, il nucleo principale che ci rende simpatica e affascinante la figura di Robin Hood - un simbolo che piace a tutti, ha detto Ridley Scott - la sua mitica e idealistica figura di uomo della Natura che combatte i potenti e dà libertà al popolo. Non per altro lo troviamo nella letteratura inglese per almeno quattro secoli e nella cultura popolare da un tempo indefinibile. Nel cinema americano il primo Robin Hood è del 1922 con Douglas Fairbanks e Mary Pickford. Lascerò agli appassionati l’andare a ripescare gli eroi in calzamaglia del passato e mi concentrerò su quest’ultima versione che - in realtà - non convince totalmente. Ridley Scott, come saprete, è stato anche un grande pubblicitario così colgo l’occasione per pensare il film in termini di marketing seriale. Quando il personaggio e il suo universo narrativo sono appesantiti da miriadi di testi precedenti, una delle strategie migliori, al cinema, è 109 la di presentarsi sotto mentite spoglie. In realtà, sempre parlando in termini 'seriali’ (ma non troppo seri, questa volta) Robin Hood sembra più che altro un remake. Di quale film? del Gladiatore; tesi che, peraltro, avvalora l’idea che, più che altro, Scott sia il migliore imitatore del suo stile al fulmicotone (gli skip frame erano già in quel film del 2000): a Cannes lo hanno ribattezzato 'Gladiator a Sherwood’. Persino la scelta della location ha privilegiato la regione del Surrey, la stessa dell’incipit del Gladiatore. Potrebbe non piacere la figura che Scott fa fare ai francesi (tra l’altro portando il film a Cannes), potrebbero non piacere le lungaggini storiografiche, potrebbe persino non piacere troppo il gigionismo di Russel Crowe - che magari fa rimpiangere il nostalgico e invecchiato Robin di Sean Connery - ma, di certo, il punto forte del film è Cate Blanchett: il modo in cui cammina, dopo aver appreso della morte del marito, verso la mdp, inciampando sul terreno sconnesso e sulle proprie emozioni Se andate sul sito ufficiale del film e cliccate sul bottone 'lionhearts program’ avrete, invece, un bellissimo esempio di come si possono trovare, oggi, nuove forme di marketing incrociato, in questo caso davvero determinanti e autentiche. Costanza Salvi quella del reboot. Si tratta di trovare un ri-avvio, ovvero una rifondazione del trito contesto narrativo per cercare qualcosa di nuovo. In genere, si fa ripartire tutto dalle origini. Questa è l’operazione che sta dietro al Robin Hood di Scott: raccontare la nascita del mito sotto una luce più realistica, sul fondo storico estremamente accurato che lo sceneggiatore Brian Helgeland (collaboratore di Mel Gibson e autore dello script di Mystic River) ha rielaborato nel suo tipico modo aggressivo. Così assistiamo alla nascita dell’eroe in una maniera, per certi versi, non dissimile dal racconto delle origini in Batman Begins, entrato nella saga pipistrellesca in maniera così prorompente e tipico esempio di reboot. Inoltre il film sembra avere un finale aperto (una sorta di cliffhanger senza l’elemento di suspance) tanto da far pensare ad un possibile seguito e ad avvalorare l’operazione (di marketing) del reboot. Curioso è il fatto che nel tentativo di restaurazione avessero pensato ad una confusione simulacrale fumettistica: lo sceriffo di Nottingham doveva essere l’identità segreta di Robin Hood. Invece si è aggiustato il tiro verso l’idea - in fondo non troppo innovativa - del mascalzone e insincero brutto ceffo che, però, salva l’intero popolo inglese: la prima scena lo ritrae come l’uomo 'leale, coraggioso e sincero’ che Riccardo sta cercando ma l’azione successiva è quel110 Draquila l’Italia che trema S abina G uzzanti (I talia , 2010) Draquila è un documentario in digitale di un’ora e mezza che dà un’interpretazione a quanto accaduto nei giorni successivi al terremoto de L’Aquila del 6 aprile 2009. Adoperando diverse forme narrative, il documentario, l’animazione, il fumetto e la parodia, Sabina Guzzanti racconta la sua visione dei fatti e, seduta su un cumulo di macerie, salomonicamente divide i buoni dai cattivi. Le scelte multiple non sono solo di tipo formale ma anche interpretative e così la protagonista veste i panni di una giornalista simile a quelli della redazione di Michele Santoro, di Michael Moore e del Presidente del Consiglio. Purtroppo per il film l’imitazione del giornalista d’inchiesta non è sufficiente: le luci sempre a favore durante le interviste più importanti la rendono ancor più furba di com’è, fa trasparire un protagonismo di fondo ingente e manca il tratto neorealista tipico delle inchieste di Riccardo Iacona, Alberto Nerazzini, Stefano Maria Bianchi o Sandro Ruotolo. Purtroppo per il cinema italiano lei non è Michael Moore e non ce la fa, neppure ci prova in realtà, a trattenere il suo risentimento per Silvio Berlusconi. Il regista americano riesce sempre, invece, a non perdere mai la posizione a causa del sentimentalismo o del personale pregresso, si veda Roger&Me (id., 1989), e convoglia attraverso l’ironia il proprio messaggio, mandandolo a segno. Purtroppo per lei, per noi e per quegli aquilani che non lo credono dio, l’imitazione del Presidente del Consiglio non fa più sorridere, non solleva il morale, non fa confidare che presto la Storia italiana prenderà un’altra direzione. In una topografia romana del terremoto de L’Aquila, tutto per Guzzanti si snoda tra Palazzo Grazioli e Cinecittà. Tra il potere politico e quello televisivo incarnati nel Presidente del Consiglio, il bastone e la carota utilizzati con gli italiani in generale e gli aquilani in particolare. In quei dieci chilometri sta “la dittatura della merda” (cit.), il suo think tank preciso e spietato. Le lacrime sono 117 chilometri più a Sud e sono tante e per sempre. A tratti Draquila è un pugno allo stomaco che lega a “quella gente derubata” per dirla con Pasquale Cicchetti e non si sente più il livore al quale Guzzanti aveva abituato, non si sente più niente dopo il forte fischio dell’arrivo del sisma. Dinanzi allo spettacolo delle rovine lei capisce e tace. Quanto è mostrato dice tutto. I fragorosi applausi di chi la ritiene un’eroina, di chi arriva a paragonarla a Ipazia, sfruttando la concorrente distribuzione cinematografica di Agora (id., Alejandro Amenabar, 2009), di chi le chiede di parlare della Calabria e del nucleare favoriscono la suggestione con La dolce vita (id., Federico Fellini, 1960) quando al Caracalla’s qualcuno domanda ad Adriano Celentano: “Adriano, suonaci un po’di rock&roll!” e lui scimmiescamente esaudisce in uno stentato playback. Dall’incontro con la regista al cinema Astra, Padova, lunedì 10 maggio scorso, questo è parso: la sala piena, la gente che va a vedere lei e il suo film e crede basti per essere migliori di chi sta dall’altra parte; la necessità di una presa di coscienza generale, di una nuova politica e della partecipazione di tutti nel piccolo per condizionare il grande; i social forum e la censura. In playback, però. Ormai questo rock&roll del cambiamento e della rivoluzione tanto imminente da non arrivare più suona stantio. E a quelli che stanno ancora nei campi tenda a L’Aquila non gliene frega niente né del Popolo Viola né di Nichi Vendola. Aldo Romanelli 111