Schiller e il melodramma di Verdi

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UNIVERSITÀ
DEGLI
STUDI
DI
MILANO
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Pubblicazioni
della
Facoltà
di
Lettere
e
Filosofia
VIRGINIA
CISOTTI
Schiller
e
il
melodramma
di
Verdi
Firenze,
La
Nuova
Italia,
1975
(Pubblicazioni
della
Facoltà
di
Lettere
e
Filosofia
dell’Università
degli
Studi
di
Milano,
77)
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PUBBLICAZIONI
DELLA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
DELL'UNIVERSITÀ DI MILANO
LXXVII
SEZIONE A CURA DELL'ISTITUTO DI STORIA DELLA MUSICA
1
VIRGINIA CISOTTI
SCHILLER
E IL MELODRAMMA DI VERDI
LA NUOVA ITALIA EDITRICE
FIRENZE
Proprietà letteraria riservata
Printed in Italy
Copyright 1975 by « La Nuova Italia » Editrice, Firenze
l edizione: dicembre 1975
a
Alla cara memoria dì mio padre
che tanto amò e seppe farmi amare
la musica dì Verdi.
INDICE
PREFAZIONE BIBLIOGRAFICA
p. XI
INTRODUZIONE
1
1. - Argomento
1
2.
3.
4.
5.
-
Schiller in Italia
Andrea Maffei, il traduttore
Il libretto d'opera neh" '800
Il rapporto Schiller-Verdi
GIOVANNA D'ARCO
1. - Consonanza della Jungfrau von Orleans con il clima del melo­
dramma romantico
2. - Raffronto tra la Giovanna d'Arco e la Jungfrau von Orleans
I MASNADIERI
1. - La composizione del libretto e l'apporto di Andrea Maffei alla
trascrizione dei Rauber schilleriani
2. - La truculenza nei Rauber e le forzature verbali nel libretto
3. - I personaggi
4. - Il taglio delle scene nei Masnadieri
LUISA MILLER
1. - Carattere social-rivoluzionario del dramma di Schiller
2. - Caratteri romantici della trascrizione librettistica di Salvatore
Cammarano
3. - Le scene e i personaggi del libretto nel raffronto con Kabale und
Liebe
3
7
13
23
33
33
40
48
48
51
59
67
81
81
86
94
X
INDICE
III ATTO DELLA «FORZA DEL DESTINO»
DON CARLOS
1. - La vicenda storica e il perché di un mito
2. - Interesse storiografico per le figure di Filippo II e di Don Carlos
nell'età di Verdi
3. - La tormentata Entstebungsgeschichte del dramma di Schiller e
dell'opera di Verdi
4. - Le principali varianti presentate dal libretto rispetto al Dramatisches Gedicht
5. - Raffronto tra scene e personaggi delle due composizioni
p. 108
114
114
120
121
134
151
CONCLUSIONE
158
INDICE DEI NOMI
169
PREFAZIONE BIBLIOGRAFICA
Le indicazioni di autori e di testi contenute nel presente saggio non pretendono di offrire un quadro bibliografico completo dell'argomento trattato.
A titolo di orientamento si fa noto che:
La bibliografia riguardante i quattro drammi di Schiller che hanno costituito
la base dei melodrammi verdiani è ricavata essenzialmente dalla serie: Grundlagen
una Gedanken zum Verstàndnis klassischer Dramen - Schiller: Die Rauber - Kabale
und Liebe - Don Carlos - Die Jungfrau von Orleans, a cura di Rudolf Ibel, Edizione Diestervveg, Frankfurt/M., Berlin, Munchen. Ultime edizioni 1970 - 1972.
La bibliografia riguardante G. Verdi è ricavata essenzialmente da Verdi - Index,
Voi. I (1960) e Voi. II (1966), pubblicati dall'Istituto di Studi Verdiani, Parma.
Per i riferimenti generali alla storia dello spettacolo ci si è serviti délYEnciclopedia dello Spettacolo, curata da Silvio D'Amico.
I testi schilleriani sono citati secondo la Nationalausgabe, Weimar (abbreviato:
Nat. Ausgabe).
Le traduzioni italiane dei drammi di Schiller sono di Andrea Maffei (Schiller
Federico, Tragedie tradotte da Andrea Maffei, Milano 1842-1852).
La traduzione di testi storici e critici, di cui non viene trascritto l'originale
tedesco, è dell'autrice del presente saggio, qualora non venga citato espressamente il
nome di altro traduttore.
I testi dei libretti di Verdi sono citati secondo le edizioni Ricordi, il testo del
Don Carlos francese (1867), secondo l'edizione Escudier, Parigi.
L'opera: Franco Abbiati, Giuseppe Verdi I - IV, Milano 1959, è citata come
Abbiati, I o II o III o IV.
Il volume Atti del II Congresso Intemazionale di Studi Verdiani, edito dall'Istituto di Studi Verdiani, Parma 1971, a cui vergono fatti assai numerosi riferimenti nella sezione Don Carlos, è citato con l'abbreviazione « Atti » IL
* *
*
Per il presente studio mi sono avvalsa della collaborazione con gli Istituti di
Storia della Musica e di Lingue Germaniche dell'Università Statale di Milano, e
XII
PREFAZIONE BIBLIOGRAFICA
con l'Istituto di Studi Verdiani di Parma. Rivolgo pertanto un vivo ringraziamento
al Professor Guglielmo Barblan e al Professor Giorgio Dolfini dell'Università di
Milano e al Maestro Mario Medici dell'Istituto di Parma per le indicazioni e i con­
sigli di cui mi sono stati prodighi.
VIRGINIA CISOTTI
INTRODUZIONE
1. - ARGOMENTO.
La fortuna di Schiller in Italia nel secolo scorso è legata in non
piccola misura ai libretti d'opera tratti dalle sue tragedie
Per quanto « indici e fattori indiretti della notorietà di Schiller »
l'importanza di questi testi non può essere sottovalutata qualora si pensi
alla parte che il melodramma ebbe nella cultura dei ceti popolari, borghesi e aristocratici dell'Italia risorgimentale e immediatamente postrisorgimentale e alla funzione sociale e politica tutta particolare che
2
1
Dalì'Historisches und systematisches Verzeicbnis sàmtlicher Toniverke zu den
Dramen Schillers, Goethes, Shakespeares, Kleists und Kórners di A. Schafer, Lipsia 1886, integrato con l'elenco di tutte le opere tratte dai drammi di Schiller riportato alla fine della Dissertation di Ingeborg Hausler, Die Dramen Schillers als
Grundlagen filr Opernlibretti, Vienna 1956, si ricavano questi dati:
i Rauber hanno ispirato due compositori, entrambi italiani;
la V erschivar ung des Fiesko (1 italiano);
Kabale und Liebe 2 (1 italiano);
Don Carlos 3 (tutti italiani);
Wallenstein 6 (2 italiani);
Maria Stuart 7 (5 italiani);
Die Jungfrau von Orleans 11 (3 italiani);
Die Braut von Messina 3 (1 italiano);
Wilhelm Teli 2 (1 italiano).
Le creazioni melodrammatiche più alte composte sulla base di testi schilleriani
sono il Guglielmo Teli di Gioacchino Rossini (1829) e il Don Carlos di Giuseppe
Verdi (1867).
2
Cfr. Lavinia Mazzucchetti, Schiller in Italia, Milano 1913. L'opera è fondamentale, ma l'autrice si esime dal trattare a fondo la questione dei rapporti tra
Schiller e il melodramma, indicando tuttavia l'importanza dell'argomento.
2
SCHILLER E IL MELODRAMMA DI VERDI
competè al teatro d'opera dall'epoca della Restaurazione sin verso la
fine del secolo XIX. Basti pensare che secondo « L e Monde Musical »
di Pietroburgo (novembre 1966) nel 1865 vi erano in Italia (escluse
le regioni di Trento e Trieste) non meno di 348 teatri in attività, e
3
quasi tutti i teatri italiani erano dedicati all'opera . Nel mondo piuttosto rarefatto e accademico della cultura italiana, il melodramma dell' '800 è un fenomeno unico, perché raggiunse e conquistò un pubblico
a cui molto spesso eran rimasti ignoti Petrarca, Tasso, Parini, Alfieri,
Foscolo, Leopardi; e fu il melodramma a creare per primo un linguaggio letterario unitario, comprensibile a tutti in ogni parte di un paese
con altissime percentuali d'analfabetismo e politicamente diviso. Il melodramma volgarizzò i miti dell'età romantica: gli umili li ricevettero
4
sostanzialmente nella forma che esso predispose e fissò . La conquista
dell'Italia ottocentesca da parte di un autore straniero attraverso il
melodramma era quindi la più avventurosa, comportando
trasforma-
zioni e fraintendimenti, ma anche quella che dava le maggiori garanzie
di durata e di solidità.
Il presente lavoro, esaminando il rapporto che intercorre tra l'opera drammatica di Federico Schiller (1759-1805) e il melodramma di
Giuseppe Verdi ( 1 8 1 3 - 1 9 0 1 ) attraverso l'analisi delle cinque composizioni di Verdi ispirate direttamente da Schiller, si propone di studiare
un aspetto solitamente trascurato della capacità di penetrazione del
teatro schilleriano in un mondo con cui il drammaturgo tedesco sentiva
5
poca affinità e della reattività di questo mondo sul piano sia emotivo,
sia intellettuale, sia morale. Capacità di penetrazione da una parte e
ricettività dall'altra potranno essere colti nella trasposizione di componimenti scritti per essere recitati, ed eventualmente anche solo letti,
dalla dimensione drammaturgica loro connaturata alla dimensione melodrammatica.
3
La notizia è riferita nel saggio di Marcello Conati, Verdi, il Grand Opera
e il Don Carlos, in « Atti » II.
Cfr. Vittore Branca, Manzoni librettista, in « Corriere della Sera », Milano
23 marzo 1973. Il critico dimostra come l'influenza esercitata dal Manzoni sulla
librettistica italiana a partire dal terzo decennio del secolo scorso sia la prova inconfutabile e massima della « popolarità » dell'autore, nel senso romantico del
termine. L'assunto del presente lavoro è di dimostrare, attraverso il medesimo
mezzo, la « popolarità » di Schiller.
« Schiller non ha conosciuto, non ha amato, non ha sentito mai l'Italia »
afferma e comprova L. Mazzucchetti (op. cit., p. 19).
4
5
3
INTRODUZIONE
Le cinque composizioni di Verdi che costituiscono l'oggetto dell'analisi sono:
Giovanna d'Arco. - Opera in un prologo e 3 atti. Testo di Temistocle
Solerà. Prima rappresentazione: 1 5 febbraio 1845 alla Scala di Milano.
(Dalla ]ungfrau
/ Masnadieri.
von Orleans,
1801).
- Opera in 4 atti. Testo di Andrea Maffei. Prima rappre-
sentazione: 22 luglio 1847 al Her Magiesty's Theatre, Londra.
(Dai Rauber,
1782).
Luisa Miller. - Opera in 3 atti. Testo di Salvatore Cammarano. Prima
rappresentazione:
8 dicembre 1849 al San Carlo di Napoli.
(Da Kabale und Liebe,
Atto
III
1783).
(Scene 10-14) della Forza del Destino.
- Testo di Francesco
Maria Piave. Prima rappresentazione: 10 novembre 1862 al Teatro
Imperiale di Pietroburgo.
(Dal Wallensteins
Lager,
1797).
Don Carlos. - Opera in 5 atti. Testo di Francois-Joseph Méry e Camille
D u L o d e . Prima rappresentazione: 1 1 marzo 1867 all'Opera di
Parigi.
(Da Don Carlos, Infant von Spanien,
1787).
Le date dei drammi schilleriani sono quelle della prima
sentazione in teatro.
rappre-
2. - SCHILLER IN ITALIA.
Le strutture del teatro d'opera, cosi come si rilevano attraverso la
melodrammaturgia del maggior compositore italiano, possono essere
considerate come il medium che ha permesso, in determinate condizioni
storiche e di costume, la conoscenza e l'assimilazione da parte di un
vasto pubblico, il più vasto possibile nel? '800, di molti temi della poesia drammatica di Schiller. Sicuramente tali strutture hanno spesso anche deformato l'opera originaria, non solo nella lettera ma anche nello
spirito: ma l'esame di tali deformazioni, o meglio, data l'accezione pregiudizialmente negativa che assumerebbe tale termine, di tali trasformazioni o trasposizioni, può rivelarsi singolarmente efficace per determinare i limiti dell'influenza di Schiller sullo sviluppo della vita cultu-
rale, sociale e politica dell'Italia risorgimentale, mentre d'altra parte
può evidenziare aspetti interessanti di una mentalità che mirava a cogliere, a filtrare ed eventualmente a rielaborare dell'opera o del pensiero di un grande autore ciò che sentiva a sé più congeniale.
Il dramma di Schiller, come fatto di invenzione e di racconto, crea
un campo magnetico, in cui la carica di disponibilità del lettore è attratta invincibilmente. Come succede per i grandi autori, ogni epoca,
ogni gruppo, ogni individuo che non sia sfuggito alla sua suggestione,
è portato a cogliere in lui ciò che meglio sembra adattarsi ai propri
schemi mentali, alle proprie passioni, ai propri gusti. La matrice soggettiva , più che epica, dell'ispirazione schilleriana, rende i suoi drammi particolarmente adatti ad operazioni di questo tipo; la potente carica emozionale delle tragedie, e non solo di quelle del primo periodo,
si trasmette al lettore e allo spettatore e diviene in vario modo stimolatrice della fantasia individuale. La quantità di rifacimenti, di adattamenti, di tradimenti, se si vuole, dell'opera del drammaturgo tedesco
sono pur sempre una prova di tale fermento creatore, nonché l'attestato di una genuina anche se acritica ammirazione per Schiller.
6
La fortuna del poeta di Marbach fu soggetta neh" '800 a notevoli
oscillazioni, ma soffermarsi su di esse esula dal mio assunto; basti ricordare che nel 1859, quando si celebrò il primo centenario della nascita, essa era al suo culmine in Germania.
Cfr. la pubblicazione: Schiller, Zeitgenosse aller Epochen. Dotalmente zur Wirkungsgeschichte
Schillers in Deutschland. Teil I, 17821859 I Herausgegeben, eingeleitet und kommentiert von Norbert Oellers, 1970 Athenaum Verlag. Nell'Introduzione si legge (pp. 1 4 - 1 5 ) :
Schiller divenne l'avvocato di molte correnti e di molti partiti; divenne colui
che si aveva sempre a disposizione per commentare molti tipi di mentalità e molti
fatti. Liberali e conservatori, monarchici e repubblicani, cosmopoliti e nazionalisti,
credenti e miscredenti, antisemiti e fìlosemiti, filantropi e misantropi, tutti potevano indicare in Schiller il compagno, il teste principe per le proprie convinzioni.
Tra le molteplici testimonianze dell'entusiasmo per il drammaturgo
6
Schiller scriveva a Gottfried Kdrner il 25 maggio 1792 a proposito della
scelta dei soggetti dei suoi drammi: « Ich glaube, es ist nicht immer die lebhafte
Vorstellung eines Stoffes, sondern oft nur ein Bediirfnis nach Stoff, ein unbestimmter Drang nach Ergiessung strebender Gefuhle, was Werke der Begeisterung erzeugt.
Das Musikalische eines Gedichtes schwebt mir weit òfter vor der Seele, wenn ich
mich hinsetze es zu machen, als der klare Begriff von Inhalt, iiber den ich oft
kaum mit mir einig bin » (Friedrich Schiller, Briefe, Monaco, p. 272).
nel paese d'origine, cito F. W . Riemer che nel 1841 con disappunto
scriveva:
Schiller ist der Abgott der Jugend, der Liebling der Frauen, das Orakel der
Alteri, die Begeisterung des Kriegers in Schlachten und Erstiirmungen, die Devise
und der Wahlspruch der debattierenden Republicaner .
7
8
In Germania si creò un mito di Schiller .
La situazione in Italia, nella prima metà del XIX secolo, era ovviamente diversa; oltre a tutto, l'opera schilleriana si diffuse tra un
pubblico relativamente vasto attraverso la traduzione organica che ne
diede Andrea Maffei, che attese a questo compito a partire dal 1827.
Sino a quell'epoca, come afferma e dimostra la Mazzucchetti, « escludendo i pochi famigliarizzanti col tedesco e il limitato gruppo di tedescofili lombardi, F. Schiller rimane più che altro un nome che serve
di vessillo e di richiamo, dopo Shakespeare, nella polemica sulle teorie
drammatiche; egli insomma è un autore di cui molto si parla e poco si
legge ».
I romantici e i classicisti italiani vedono in Schiller un romantico
senza possibilità di equivoco: come drammaturgo, lo collocano subito
dopo Shakespeare; a partire dalla Lettera semiseria di Crisostomo del
Berchet lo nominano spesso insieme a Bùrger, essendo rimasti completamente all'oscuro della polemica che divise clamorosamente e irreparabilmente i due autori, dopo che nel 1 7 9 1 era apparsa la recensione
di Schiller Uber Burgers Gedichte.
Sostanzialmente il giudizio dei letterati italiani del primo '800 riflette quello di Madame de Staél (cfr. De la littérature, cap. X V I I di
De l'Allemagne), che, assecondando la propria tendenza a chiarire, spiegare, illuminare ogni lato oscuro di qualunque fenomeno, creò per i
primi romantici italiani « il cliché di uno Schiller il quale, redento dalle
aberrazioni di gioventù, diventa poi virtuoso » (L. Mazzucchetti, op.
cit., p. 82).
È significativo il fatto che il primo traduttore italiano di Schiller,
Pompeo Ferrano, abbia dato alle stampe nel 1 8 1 9 La Pulcella d'Orléans, Maria Stuarda, Don Carlos, La Sposa di Messina, Guglielmo Teli
7
F. W. Riemer, Mittheilungen uber Goethe, Berlino 1841, voi. I, p. 459. Citato a p. 13 di Schiller, Zeitgenasse aller Epoche?!.
Naturalmente non mancarono le voci di chi fu di diverso avviso, anche nella
prima parte del secolo XIX: cfr. R. Gottschall, Schiller ini Urteile seiner Gegner,
in « Deutsche Revue », maggio 1905. Ma i dissidenti non fecero storia.
8
e, nel 1820, la Congiura del Fiesco di Genova^ ultima sua fatica in questo campo. Queste traduzioni ebbero valore esclusivamente come strumenti di lavoro per coloro che non conoscevano il tedesco, ed erano
una gran folla; di esse una sola, la Congiura, riguarda un dramma giovanile e vi è implicato il nome di una famiglia principesca italiana;
delle altre cinque, ben quattro riguardano personaggi storici di cui la
leggenda s'era prepotentemente impadronita rendendone familiari le
vicende vere o immaginarie a quel « popolo » di berchettiana memoria,
lontano tanto dalle raffinatezze dei Parigini quanto dalla ottusità degli
Ottentotti.
Anche il Maffei iniziò la serie delle traduzioni dai drammi della
Klassik .
È un fatto che Schiller, pur essendo accolto come un romantico,
conciliò, intorno al 1830, le simpatie sia dei classicisti sia dei seguaci
della nuova scuola; non è un caso che i suoi primi traduttori appartenessero alla prima schiera.
Ciò si doveva, come già accennato, alla conoscenza molto più ridotta dei drammi giovanili in prosa rispetto a quella dei drammi della
maturità, e alla diffusione di odi e liriche di aspetto classico, e soprattutto dell'ode Die Gòtter
Griechenlanàes.
D'altra parte, l'indole oratoria del suo ingegno non poteva dispiacere a chi aveva l'orecchio avvezzo alle dignitose e misurate architetture classiciste .
Si può parlare comunque di schillerismo, non di una profonda
adesione dello spirito italiano all'opera del poeta di Marbach, né di
una sua retta comprensione. Tra gli estimatori romantici, e cito per
tutti il Pellico, l'entusiasmo offusca del tutto la coscienza critica.
Chi studiò più a fondo la drammaturgia schilleriana, dando un
fondamento abbastanza solido alla propria sconfinata ammirazione, fu
G . Mazzini; risalgono al 1830 i due scritti: Del dramma storico e
Della fatalità considerata come elemento drammatico .
9
I0
11
9
La sposa di Messina, Maria Stuart (1827), La Vergine di Orléans (1830).
Accanto al Maffei, ricordiamo tra i classicisti cui fu caro il nome di Schiller,
il Londonio a cui è dedicata la traduzione della Jungfrau, l'Ambrosoli, il Gherardini. L'austriacante e classicista « Biblioteca Italiana » era nel 1827 tutta dalla
parte di Schiller.
Mazzini voleva un dramma « che fosse irraggiamento della umanità, un riflesso, un'espressione di quello spirito universale che la religione traduce in coscienza, la filosofia in idea, la storia in fatti, l'arte in rappresentazione ed immagini ». (Scritti editi ed inediti di G. Mazzini, voi. I l i , p. 169 e ss.).
10
11
Anche in questo caso è l'entusiasmo a guidare la penna dello studioso, un entusiasmo che scaturisce dalla scoperta di notevoli affinità
spirituali: di principi schilleriani è pervaso tutto il programma mazziniano. L'entusiasmo però conduce Mazzini a considerazioni critiche che
sono le più valide tra quelle comparse su Schiller sino a quel momento
in Italia: da Schiller egli apprende « il valore simbolico del dramma
storico, la necessità cioè del principio che, come il sole, vada irraggiando gli avvenimenti » (cfr. Mazzucchetti, op. cit., p. 1 7 5 ) . Il Mazzini filosofo era il più adatto a comprendere la forza del pensiero metafisico contenuta in tutte le tragedie di Schiller. Egli inoltre intuì e illustrò la differenza fondamentale che intercorre tra Shakespeare e Schiller. « Schiller non è mai stato un misurato indagatore degli intimi aspetti che la passione assume nei singoli individui, né ha posseduto mai
l'oggettivismo e la fantasiosa vigoria di Shakespeare ». « Il realismo di
Shakespeare dista dall'idealismo di Schiller come il sole dalla terra »
(Mazzucchetti, op. cit., pp. 1 7 6 - 1 7 7 ) .
Il Tommaseo, altro entusiasta ammiratore di Schiller, lo spiega difendendolo e biasimandolo in base al criterio della moralità e della scrupolosità storica (« Antologia », 1830). Il Cattaneo si soffermò anch'esso
su uno Schiller storico; nel 1839, in un articolo del « Politecnico » affermò: « Schiller trattò con gloria la sola tragedia storica; espose in
Teli ed in Wallenstein le due forme popolari della nazionalità germanica, un comune di pastori e un quartier di soldati ». « Dacché siamo
dunque al dramma istorico, addio sogni dell'immaginazione, addio bella
libertà di ridere e di piangere a libera fantasia ». Insomma, con la sola
eccezione del Mazzini, per tutta la prima metà del XIX secolo il dramma schilleriano è inteso come dramma storico-nazionale; tale interpretazione, dettata inconsciamente dalle necessità politiche del momento,
divenne uno dei più validi sostegni dell'ideologia risorgimentale.
3. - ANDREA MAFFEI, IL TRADUTTORE.
Dato che Verdi non conosceva il tedesco e lesse i drammi di Schiller nella traduzione del Maffei ', è necessario spendere almeno qualche
v
12
I legami di amicizia tra Verdi e la famiglia Maffei, amicizia che durò tutta
la vita, sono illustrati dai seguenti testi: Raffaello Barbiera, Il salotto della Contessa Maffei, Milano 1904; Alessandro Luzio, Studi e bozzetti di storia letteraria
e politica - Carteggio Verdi - Clarina Maffei, Milano 1910; Giuseppe Verdi, I copialettere (a cura di G. Cesari e A. Luzio), Milano 1913.
parola sull'opera e la fama di questo poeta e traduttore trentino (17981884) pur senza addentrarsi nell'analisi filologica delle sue fatiche schiln
leriane. Verseggiatore in proprio di stile e spirito montiano , non fu
certo il fautore di un'arte impegnata, mentre ai suoi tempi i drammi
di Schiller venivano considerati un esempio di letteratura
militante.
D'altra parte certe qualità del suo ingegno, quali la passività e la ricettività, unite alla notevolissima cultura, lo rendevano adatto al lavoro
del traduttore. Tradusse moltissimo, dal tedesco (oltre a Schiller, Gessner, Klopstock, Goethe) e dall'inglese (Milton, Moore, Byron).
I suoi legami con la cultura germanica erano molto stretti. Nato in
un territorio che fu austriaco sino alla conclusione della Y guerra mondiale, Riva del Garda, (benché nel 1866 facesse valere la sua origine veronese per avere la cittadinanza italiana), trascorreva lunghi periodi in Baviera (un suo zio era stato consigliere del Re di Baviera) e in Sassonia.
Può darsi che ciò abbia avuto un'influenza sulle oscillazioni del suo pensiero politico, o meglio, sulla mancanza di chiare idee politiche. Scrisse
ballate patriottiche, ma forse è sua anche la versione ufficiale italiana dell'Inno nazionale austriaco, comparsa nel 1854 in occasione delle nozze
M
tra Francesco Giuseppe ed Elisabetta di Baviera . Fu insignito di medaglia commemorativa per non essere stato inattivo durante le Cinque
Giornate di Milano, e nel 1879 fu eletto Senatore del Regno, ma i suoi
sentimenti italiani furono sempre messi in forse; ciò era assai grave in
un periodo politicamente tanto arroventato, e la tiepidezza dell'impegno
politico ebbe il suo peso nella separazione del Maffei dalla moglie, la
contessa Clara.
La sua fisionomia è quella di un malinconico gentiluomo, che vive
nel rimpianto di un'Arcadia perduta e preferisce il colloquio con i grandi
delle letterature straniere ai dibattiti sui problemi d'attualità.
II signorile distacco dagli avvenimenti dell'epoca sua non contribuì
certo alla sua fama; tutti i critici che sentivano la politica come un impegno morale gli furono irrimediabilmente contro, dal Cantù al Carducci.
Né valse a richiamarlo dall'oblio l'appassionato studio di Edoardo
13
Cfr. i suoi Studi poetici, Milano 1836.
Gliela attribuisce, in una nota, Vittorio Fainelli: U inno di Francesco Giuseppe nella traduzione ufficiale, in « Lettura », Milano 1923. Il Maffei negò sempre
questa responsabilità, e probabilmente non mentiva, ma rimane il fatto che per
tale attribuzione non sarebbe mai circolato il nome di un ardente patriota, anche
se ottimo conoscitore del tedesco.
14
Benvenuti: Andrea Maffei poeta originale e traduttore, « Pro Cultura »
I I , Trento 1 9 1 1 .
Ma l'oblio e l'aria di sufficienza con cui si guarda, nel secolo XX, alle
traduzioni di questo autore, non sono a parer mio giustificate. In particolare, i dieci volumi di traduzioni schilleriane comparse tra il 1842 e
il 1852 in un mondo che non conosceva il tedesco ed era naturalmente
maldisposto verso ciò che era tedesco, assolsero un compito culturale la
cui portata è difficile giudicare, ma fu senz'altro ampia; e fu più facile
parlar male dell'autore che far meglio di lui. Non si può accettare sul
piano critico la posizione della Mazzucchetti, là dove ironicamente afferma che il merito maggiore del Maffei sarebbe potuto essere quello di farsi
da parte e di lasciare il campo ad altri, che fossero in grado di tentare
versioni più oneste e coscienziose della sua e che invece non osarono
tanto perché impediti dalla fama ingombrante del traduttore trentino .
15
16
17
I rilievi mossi da G . C u s a t e l l i alla traduzione della celebre scena
tra il Re ed il Marchese di Posa (Don Carlos, Atto I I I , scena 10) sono
invece filologicamente fondati e pienamente condivisibili: il traduttore
sfoca e sfuma la chiarezza e la precisione storico-politico-giuridica del linguaggio di Schiller, per creare un contesto generico e atemporale ed evitare o confondere i riferimenti ideologici troppo scoperti. Basti pensare
a Untertan reso con umile vassallo, a Biirger dieser Welt reso con cittadin
dell'universo e soprattutto alle parole cardine della scena Geben Sie
Gedankenfreiheit
rese con Danne l'arbitrio (!) del pensiero!. (È vero
che a partire dall'edizione Le Monnier del 1863, in un mutato clima
politico, la versione del flessibile Maffei suona in questi termini: Fa'
libero il pensiero!). D'altra parte però, questo era il passo che più doveva scottare sotto la penna del Maffei e che quindi sollecitò la sua cautela. In generale egli è meno sfuggente e impreciso, ma è sicuramente
enfatico: la tendenza all'enfasi è sempre più o meno latente in Schiller,
ma per il Maffei diviene una regola costante. Nella prefazione ai suoi già
citati Studi poetici l'autore aveva scritto che « all'animo riscaldato dall'ispirazione dei Grandi è difficile temperarsi dal desiderio di significare
anche la propria » e le traduzioni in versi gli danno il destro di far con-
15
Schiller Federico, Tragedie tradotte da Andrea Maffei, Milano, Pirola, 18421852. Una copia di questa edizione, elegantemente rilegata, si trova nella Villa di
Verdi a Sant'Agata accanto alle traduzioni dei drammi di Shakespeare.
Cfr. Lavinia Mazzucchetti, op. cit., p. 171.
G. Cusatelli, Don Carlos di Schiller tradotto da Andrea Maffei, in « Atti »
II, p. 170 e ss.
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17
suonare la sua ispirazione con quella dell'originale. In genere egli adopera un numero maggiore di parole che non Schiller, e dilata frasi e concetti. Basti un solo esempio, tratto dalla scena tra il Re e il Grande
Inquisitore del Don Carlos (V, 10). Il Re tenta di giustificare la sua arrendevolezza nei confronti di Posa:
Ich sah in seine Augen — halte mir
Den Rùckfall in die Sterblichkeit zugut.
Die Welt hat einen Zugang weniger
Zu deinem Herzen. Deine Augen sind erloschen.
Questa è la traduzione del Maffei:
Negli occhi io l'ho guardato; a me condona
Un ritorno del core alla fralezza.
Pensa che il mondo per entrar nel tuo
Trova un adito chiuso. Orbo di luce
Tu sei.
Siamo decisamente su un piano stilistico diverso, più aulico. L o attestano le parole fralezza (Sterblichkeit = condizione mortale, è termine
ben più comune) adito (Zugang è parola del parlar corrente), orbo costruito col genitivo, al posto della semplice constatazione: I tuoi occhi
sono spenti. Ma v'è di più. Il testo originale presenta quattro proposizioni principali, tre dichiarative e una imperativa; ciascuna va scandita
a sé, senza legami grammaticali con la successiva.
Il traduttore introduce un nesso subordinante nel terzo periodo:
Pensa che il mondo per entrar nel tuo / Trova un adito chiuso. Inoltre
quel Pensa, che è una sua aggiunta, richiama l'altro imperativo della proposizione precedente a me condona e rompe enfaticamente l'effetto di
staccato che si rileva nel testo originale. L'enfasi è poi sottolineata dalla
posizione finale del verbo nella prima e nella quarta proposizione: Negli
occhi io l'ho guardato e Orbo di luce / Tu sei mentre nel testo tedesco
si osserva l'allineamento normale di soggetto-predicato-complemento; e
dalla dilatazione del terzo periodo: Pensa che il mondo per entrar nel
tuo I Trova un adito chiuso dove, oltre all'aggiunta di una proposizione
reggente, abbiamo un tradimento nella sostituzione di cuore con occhio;
il termine non compare ma è ripreso con un sottinteso dalla frase precedente, il che serve a legare e collegare ancor più il discorso del Re.
La scelta di vocaboli dotti, l'effetto di legato sostituito allo staccato, l'uso dei nessi subordinanti al posto di quelli coordinanti colpisce
continuamente nel raffronto fra i testi poetici di Schiller e quelli del suo
traduttore. Che ciò sia un tradimento è fuori dubbio (ma quale traduzione non lo è ? ) ; però bisogna pur considerare che quel tradimento, perché veniva incontro a determinati gusti e non contrastava con certe abitudini di lettura, permise a suo tempo la diffusione dell'opera di Schiller
meglio di quanto traduzioni più fedeli e di linguaggio assai più moderno
non siano riuscite a fare nell'epoca nostra.
Inoltre, la parola e n f a s i non va intesa solo in senso negativo.
Nell'accezione classica essa indicava s i g n i f i c a t o ; più tardi indicò
la sottolineatura di un significato, quale conseguenza, retoricamente ben
percepibile, della pienezza del sentimento, della capacità di entusiasmo.
L'animo dell'uomo del Risorgimento era naturalmente enfatico; egli
era capace di abbandonarsi alla generosità del suo sentire con una forza
e una serietà che per l'uomo del XX secolo è ormai perduta; il linguaggio
enfatico era la naturale espressione di tale disposizione d'animo. G l i elementi di tale linguaggio possono urtare il nostro gusto, ma non devono
indurci a disprezzarne la matrice. D'altronde anche in Schiller, specialmente nei drammi in prosa, la commossa oratoria non è sempre poesia;
anche il linguaggio patetico di Schiller è invecchiato, oggi « noi non sapremmo più amare con le parole di Max e Thekla né odiare con quelle
di Franz » scrive la Mazzucchetti (op. cit., p. 1 4 ) ; eppure fu proprio quel
linguaggio a colpire e trascinare la generazione contemporanea al Poeta.
Per rettamente giudicare la traduzione del Maffei v'è poi da considerare anche la tradizione aulica del teatro tragico italiano. Paolo Costa , un drammaturgo autore di un Don Carlos (1826) che ebbe un discreto successo sulle scene italiane della prima metà dell'Ottocento, e
che risulta, intenzionalmente e dichiaratamente, dalla combinazione dell'opera schilleriana con il Filippo dell'Alfieri, nell'introduzione al suo lavoro, spiegando la necessità in cui si era trovato di ricondurre a forme
alfieriane il dramma tedesco, scrisse tra l'altro:
18
L'elocuzione tragica degli Alemanni sarebbe in Italia poco conveniente al
verso dignitoso, al quale abbiamo accostumate le orecchie, come quella che non
isdegna di abbassarsi talvolta ai ruoli più familiari, e di esprimere concetti assai
naturali e proprii degli uomini, ma secondo noi discordanti dall'alta idea delle per
sone illustri operanti nella tragedia.
Tale tradizione si trasmise dal teatro drammatico al melodramma;
18
Paolo Costa (1771-1836), uomo politico romagnolo di spiriti liberali, deputato della Cisalpina al Congresso di Lione (1802) fu, letterariamente, allievo del
Cesarotti. Prima del Don Carlos, che incorse nei fulmini della censura, aveva scritto
una Porzia de' Rossi (1818) ispirata dal dramma Stella di J. W. Goethe.
anche il linguaggio dell'opera romantica è enfatico, ma cosi com'era venne accettato da tutti, colti e incolti, anzi, prima di tutto dagli incolti.
Quanto all'osservazione del Mazzini (cfr. Del dramma storico, voi.
I di Scritti editi ed inediti, p. 328), in sé e per sé ineccepibile, che bisognerebbe sempre tradurre in prosa, si può controbattere con l'argomento
che Schiller adduceva per giustificare il passaggio dall'uso della prosa a
quello del verso nella sua produzione: lo schema metrico, il ritmo, rimanendo costante, costituisce l'atmosfera per la creazione poetica, è il
segno della durata che permane attraverso il flusso variabile del linguaggio (cfr. la lettera a Goethe del 24 novembre 1 7 9 7 ) .
Si può osservare, in generale, che la traduzione in prosa è preferita
da chi è in grado di leggere l'opera nella lingua originale, mentre colui
che non ha questa possibilità è attratto maggiormente da quella in versi,
che sembra restituirgli meglio l'aura del componimento per lui inaccessibile. Merito del Maffei è d'aver fatto intuire quest'aura a una generazione, la cui sensibilità e i cui gusti non erano quelli di oggi.
D i proposito, perciò, nel riportare i passi del teatro di Schiller, utili
ai fini del presente saggio, ho fatto ricorso alla traduzione maffeiana:
essa era quella che il mondo colto dell' '800, e specificatamente, Giuseppe Verdi, aveva davanti agli occhi o sentiva nell'orecchio quando si
faceva il nome di Schiller.
* * *
I drammi di Schiller che interessano l'opera verdiana furono tradotti dal Maffei in questa successione: la Vergine d'Orléans nel 1830;
Don Carlos nel 1842; la trilogia del Wallenstein nel 1844; i Masnadieri nel 1846; Amore e Cabala nel 1852.
Per i drammi giovanili di Schiller il Maffei non provò certo il trasporto che senti Verdi; li tradusse per compiacere l'editore Pirola che
desiderava la completezza del ciclo drammatico; lo urtava il fatto di
dover tradurre in « vile prosa » testi che non avevano avuto una stesura in versi; vagheggiò persino la possibilità di volgere in versi il
« Fiesco ».
Dalla documentatissima esposizione di Bianca Cetti Marinoni, Andrea Maffei traduttore di Schiller, tenuta a Parma al Convegno di Studi
Verdi-Schiller del novembre 1 9 7 3 , i cui atti sono in corso di pubblicazione, si desumono inoltre questi dati: contro le 1430 copie della tiratura della Vergine di Orléans del 1830 e le 1500 del Don Carlos e del
Wallenstein, stanno le sole 500 dei Masnadieri. La Marinoni fa notare
che si tratta di edizioni costose, lussuose, quali potevano permettersi
bibliofili agiati oltre che colti; è un fatto che anche al pubblico ultraselezionato a cui l'opera del Maffei era destinata, l'editore attribuiva, evidentemente con serie motivazioni, i gusti del traduttore.
4. - IL LIBRETTO D'OPERA NELL' '800.
La storia del Risorgimento è stata fatta anche nei teatri d'opera;
come già accennato, il melodramma assolse nell' '800 una funzione
che oggi sarebbe demandata ai mass-media e ad una propaganda che si
servisse di strumenti altamente scientifici: la funzione di saldare i diversi strati della popolazione, in particolare il ceto aristocratico progressista e la borghesia illuminata con il ceto popolare, superando barriere
di tradizione e di censo. L'opera dell' '800 fu diversa da quella del '600
e del 7 0 0 perché si rivolgeva ad un pubblico diverso, un pubblico che
d'altra parte essa contribuiva a plasmare e ad educare. Lo spettacolo
d'opera s'integrò nella vita dell'Italia del I e del I I Romanticismo diversamente da quel che era avvenuto nel '600 e nel '700. Il melodramma
del '600 interessava per il lato spettacolare, come scenografia e decorazione, piuttosto che come musica e poesia (cfr. Remo Giazotto, Poesia
melodrammatica e pensiero critico del '700, Milano 1952).
Nel '700 la musica è intesa come ornamento e diletto; la concezione edonistica è una conseguenza della funzione, soprattutto ricreativa
e di accompagnamento, riservata a quest'arte (cfr. Enrico Fubini, L'estetica musicale dal '700 ad oggi, Milano 1960).
« Il melodramma del '700 è ancora aulico. Si scrive per la corte:
re e cortigiani sono il pubblico a cui quasi esclusivamente ci si indirizza,
precipuo, dominante » (cfr. Serafin - Toni, Stile, tradizioni e convenzioni
del melodramma italiano del '700 e dell' '800, Milano 1958).
La musica non è ancora considerata, generalmente, il punto convergente dell'azione drammatica. Questa verità, balenata a Mozart, sarà
invece la sostanza della drammaturgia musicale dell' '800. Si verificherà
un processo d'identificazione tra il pubblico e i personaggi che agiscono
sulla scena del teatro d'opera, i quali acquisteranno una verità diversa.
Una parte fondamentale nel mutamento di questa ottica spetta al libretto.
Quella del valore da attribuire al libretto d'opera è una vexata
quaestio intorno a cui si dovrà lavorare ancora a lungo prima che i risultati delle indagini dei valenti studiosi che se ne occuparono o che
se ne occupano giungano alla coscienza, oltre che alla conoscenza del
pubblico cui un fenomeno culturale cosi vasto come quello del melodramma si rivolge. Presumo che sia difficile che si cancellino o si modifichino sostanzialmente nel concetto di chi, pur frequentando i teatri
d'opera, non è un addetto ai lavori, le immagini spregiative, divertite e
beffarde che si accompagnano a questo genere, il cui torto sembra essere
quello di non piegarsi con facilità a classificazioni di tipo alessandrino.
Dopo tanto tuonare contro le suddivisioni in generi, e l'abitudine
di giudicare il prodotto artistico secondo la categoria d'appartenenza,
pare quasi che nell'opinione comune un fenomeno culturale come quello del libretto d'opera sia destinato a rimanere al di fuori, o al più ai
margini della vita artistica, solo perché negli schemi tradizionali non v ' è
una casella in cui collocarlo. L'opinione denigratoria non è solo volgare,
ma ha anche l'avallo di autorevoli studiosi del melodramma e dei librettisti stessi. Valga per i primi la definizione che A . Galletti dà dei libretti
delle opere di Verdi, visti come « carrettacci sgangherati e inzaccherati » ( ) e per i secondi le parole di S. Cefanini, autore di una Maria
d'Agamonte (1856) musicata da Maestrini:
19
A comporre un melodramma basta rubare onestamente un argomento a qualche romanziere indigeno o transalpino; incastrarvi dei gallici colpi di scena; raggranellare e raffazzonare qualche nebuloso concettino tratto dal museo del romanticismo; e quindi stemperare il tutto in un po' di prosa rimata, come Dio vuole .
20
Viene poi spontanea un'altra riflessione: la distinzione tra f o r m a
e c o n t e n u t o non è più uno strumento valido di critica dopo Francesco De Sanctis; ma per il libretto, inteso come la f o r m a vile che
racchiude il nobil metallo delle melodie ottocentesche, essa sembra ostinatamente sussistere, come se fosse possibile separare, ad esempio, nel
Trovatore, la realizzazione musicale, dalle situazioni, dai personaggi, dai
versi predisposti dal librettista e tra l'altro suggeriti perentoriamente
dal musicista che aveva bisogno di quelle situazioni, di quelle scene, di
quei versi per mettere in essere la sua musica.
Anche il crocianesimo, nella misura in cui generalizza il concetto di
p o e s i a p u r a da distinguersi dalla non poesia che ad essa spesso si
accompagna nella forma di struttura impoetica, contribuì e contribuisce
19
A. Galletti, Introduzione a " Giuseppe Verdi e l'ascensione dell'arte sua "
di Gino Roncaglia, Napoli 1914.
Questa prefazione è riportata in: U. Rolandi, Il libretto per musica attraverso i tempi, Roma 1951, opera di compilazione vasta e preziosa per una conoscenza generale della librettistica.
2 0
a deprimere l'opinione critica riguardo al libretto. N é lumi maggiori ci
vengono dall'impostazione marxista del problema, dato che da essa ricaviamo indicazioni valide per una sociologia dell'opera, ma non per un'indagine sul valore estetico del melodramma.
Non sarà quindi inopportuno prendere in esame alcune regole e
convenzioni della tecnica librettistica che differenziano questo genere da
quello del dramma parlato, con cui viene solitamente e ingiustamente
confrontato . Partiamo da alcune premesse. Il teatro d'opera, sino a
tutta l'epoca romantica, è antinaturalista per eccellenza; una volta accettata la convenzione del canto in sostituzione della parola, è chiaro che
si permette al giuoco delle illusioni di spingersi molto più in là di quanto non accada con altre forme di teatro. Inoltre, l'opera è rappresentazione, ancor più degli altri tipi di dramma: si realizza in pratica solo
nell'esecuzione sulla scena, mentre per il dramma parlato esiste anche
la dimensione della lettura . Si può obiettare che, almeno nei tempi
nostri, di un'opera si possano ascoltare le incisioni fonografiche, e comunque il suo fruitore anche nell' '800 ha sempre avuto la possibilità di
eseguirsela perlomeno al pianoforte. Ma il punto è proprio questo:
un'opera va eseguita, in un modo o nell'altro, e il risultato di un'esecuzione è la visualizzazione. Anche se non si trova in teatro, l'ascoltatore
deve essere indotto a ricreare nella sua fantasia lo spazio scenico e a
21
22
21
Uno studio completo e organico delle strutture dell'opera e della loro evoluzione manca ancora. Il lavoro scientificamente più valido in questo campo è
quello di L. K. Gerhartz, Die Auseinandersetzungen des jungen Giuseppe Verdi
mit dem literarischen Drama, Berlino 1968. Spunti interessanti sono offerti da:
Luisa Miragoli, Il melodramma italiano dell' '800, Roma 1924; Edgar Istel, Das
Libretto, Berlino 1914; Ralph Muller, Das Opernlibretto im 19. Jahrhundert, Dissertation, Zurigo 1966. Più particolarmente, per il libretto verdiano e i suoi rapporti col Romanticismo, cfr. A. Galletti, I libretti musicati dal Verdi e il dramma
romantico, Introduzione a G. Roncaglia, Giuseppe Verdi e l'ascensione dell'arte sua,
Napoli 1914; Cenciarini, Giuseppe Verdi e il romanticismo musicale, in « Musica »,
30 gennaio 1918; G. Barblan, L'opera di Giuseppe Verdi e il dramma romantico,
in « Rivista Musicale Italiana », 1941. Interessanti indicazioni si ricavano da una
tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Lettere dell'Università Cattolica di Milano nel 1953: Claudio Siro-Brigiano, Interventi di Verdi nell'opera dei suoi librettisti. Del significato storico-sociologico del libretto verdiano s'è occupato Luigi Baldacci in Libretti d'opera e altri saggi, Firenze 1974.
22
La Theaterwissenschaft non è concorde nello stabilire il rapporto tra le due
dimensioni: le posizioni oscillano tra chi vede nella rappresentazione teatrale un
accessorio, in fondo inutile, del testo letterario, e chi invece valuta il testo come
la partitura che acquista senso solo nella realizzazione scenica. (Per questa problematica, cfr. anche P. Chiarini, Letteratura e società, Bari 1959, nota delle pp. 86
e 87).
vedere l'azione. La parola dei drammaturghi è per principio molto pili
riassuntiva, completa e definita di quella dei librettisti, aperta invece a
tutte le suggestioni.
L'opera deve « presentare » una vicenda, cioè renderla presente
con i mezzi che le sono a disposizione e che riguardano l'orecchio e
l'occhio. « Le figure e le situazioni dell'opera non cercano la loro legittimazione in una credibilità e verosimiglianza che si spinga oltre la
vita del palcoscenico, ma direttamente nella capacità scenico-musicale
di impressionare e di convincere » . Nell'opera « non v'è alcuna separazione netta fra parola e azione; l'azione sembra piuttosto consumarsi
già nell'espressione musicale della voce e dell'orchestra » . Con la capacità evocativa che è propria della musica assai più della parola si crea
uno spazio in cui passato e futuro, vicinanza e lontananza si confondono
e si sovrappongono.
B
2 4
Certo, pure in questa nuova dimensione creata dalla musica, pur
avendo coscienza dello spazio maggiore che può essere lasciato all'illusione, il librettista non può rinunciare ad una logica che ricorda quella
del teatro parlato, ma che se ne discosta in alcuni punti fondamentali.
In primo luogo, ciò che vien rappresentato dev'essere di piena evidenza: dall'impostazione delle scene e dalla loro successione, dalla comparsa dei personaggi legati a precisi ruoli vocali, lo spettatore deve
esser messo in grado di farsi un'idea generale ma precisa degli avvenimenti, dato che la comprensione delle parole del testo non può essere
che imperfetta. Introduzioni discorsive, motivazioni troppo sottili, posizioni molto sfumate sono difficilmente sfruttabili dall'opera romantica,
che deve concentrarsi sui momenti essenziali dell'azione. Ma quali sono,
per il melodramma, i momenti essenziali? Quelli delle « crisi liriche, di
cui la musica moltiplica l'impeto e l'irresistibile slancio » . Vale a dire
che mentre il dramma parlato, dovendo essere costituito nell'accezione
normale da una catena di elementi predisposti organicamente a suscitare una tensione sempre maggiore e sfocianti in atti che portano ad un
significativo scioglimento, si interessa principalmente di ciò che prepara
il culmine emotivo, al melodramma interessa questo culmine emotivo.
Il dramma cura l'organizzazione logica delle motivazioni di un'azione,
l'opera romantica bada agli effetti emozionali dell'azione stessa. Non il
2 5
23
L. K. Gerhartz, op. cit., p. 306.
R. Mùller, op. cit., p. 8.
A. Galletti, I libretti musicati dal Verdi e il dramma romantico, Introduzione a G. Roncaglia, Verdi e l'ascensione dell'arte sua, Napoli 1914, p. xv.
24
25
perché di una determinata azione, ma l'espressione del sentimento ch'essa
produce su chi la compie e su chi la subisce diventa di primaria importanza. Il dramma sollecita il raziocinio, il melodramma il sentimento.
Per fissare e prolungare l'emozione concorrono voci e strumenti,
recitazione e scenari, l'organico della compagnia di canto e l'apparato
del teatro, di cui nessun grande uomo di teatro ha mai disdegnato di
servirsi. N e l libretto romantico l'interesse degli autori — poeta e musicista — alla scenografia è attestato dalla minuzia delle didascalie. Il che
non comprova, naturalmente, la maligna affermazione di Bertolt Brecht,
secondo il quale nella storia del melodramma si è creato un tipo di
valutazione che ha di mira più l'apparato scenico che non la composizione in sé, per cui si verifica non tanto l'idoneità dell'apparato all'opera,
quanto l'idoneità dell'opera all'apparato .
Ogni genere di arte si avvale di mezzi esteriori, che soltanto i
grandi sanno vivificare dall'interno. L'esecuzione di un melodramma
richiede più prestazioni tecnico-artistiche di qualsiasi altro genere drammatico; questa è una constatazione, non può divenire un giudizio di
merito, negativo o positivo. D'altra parte, la stessa denominazione di
o p e r a contiene il riferimento ad un lavoro collettivo.
Ma oltre alle crisi liriche, generalmente espresse attraverso arie e
cabalette o anche attraverso i cori, il melodramma ama l'indugio epico
sulle scene d'insieme che, fissandosi in un quadro anche scenograficamente ben costruito, assumono qualcosa di statuario e sollecitano l'ammirazione come scene in sé e per sé. Il librettista e il musicista lavorano per la riuscita e la compiutezza del quadro, mentre il drammaturgo
di solito non ama soffermarsi sul quadro di per sé, ma si preoccupa
essenzialmente di connetterlo con ciò che vien prima e ciò che vien
dopo. Un drammaturgo come Schiller , o come l'Alfieri, concepisce il
proprio lavoro non perdendone mai di vista la totalità, avendo in mente
l'ultima scena al momento di comporre la prima e facendo in modo che
anche lo spettatore o il lettore intuisca la conclusione sin dalle prime
battute. L'Alfieri lavora in linea retta, mentre Schiller sa variare il
grado di tensione e dosa in modo più ricco gli effetti, ma il principio
compositivo è identico, ed è veramente antitetico a quello della melodrammaturgia, dove il compito di creare una tinta unitaria e quindi un
2b
27
26
Beltolt Brecht, Schriften zum Theater, Ed. Suhrkamp, p. 14.
Cfr. Benno von Wiese, Bermerkungen uber epische und dramatische Strnkfuren bei Schiller, in « Jahrbuch der Schillergesellschaft », voi. II, Stoccarda 1958.
27
organico collegamento di ogni elemento dell'intreccio può essere assolto
magnificamente dalla musica.
I concertati che concludono gli atti, i terzetti, i quartetti, i quintetti, i sestetti che raggruppano per alcuni minuti sulla scena i personaggi principali dell'opera, e talora (come nei drammi giocosi) tutti i
personaggi al gran completo, rispondono a questa esigenza epica e figurativa.
Anche il fatto che presso i grandi operisti i finali siano spesso la
parte più riuscita, non dipende dalla perfetta e naturale concatenazione
dell'ultima con le scene precedenti, ma dalla carica di energia teatrale
che si sprigiona sempre dalla soluzione di un nodo drammatico. N o n si
dà ii caso dì un dramma parlato condotto fiaccamente che si salvi per
la potenza della scena finale, mentre è frequente il caso di un melodramma, il cui ultimo atto si stacchi nettamente dal livello dell'ispirazione precedente.
A l di là delle differenze, una legge essenziale hanno in comune il
dramma parlato e il melodramma romantico: quella del contrasto. La
situazione drammatica è sempre una situazione di conflitto, interno o
esterno, dichiarato o latente.
Inoltre, le regole e le convenzioni interne a un genere non sono
mai cosi esclusive da non poter essere occasionalmente fatte proprie da
un altro genere e non è detto che quest'ultimo ne debba scapitare. La
rapidità e la decisione del taglio drammatico avvicinano Verdi ad Alfieri
ed anche a Schiller. Non sono ignote ai drammi di Schiller, soprattutto
agli Jugenddramen, le c r i s i l i r i c h e e neppure il gusto dei « concertati », cioè delle scene d'insieme che presentino una grandiosità e
una compiutezza epica; vi si aggiunga l'amore per le scene finali arroventate, estremamente significative, in alcuni casi stringatissime (ad
esempio quella della Verschwòrung, del Don Carlos e della Maria Stuart)
e risulterà evidente il fascino melodrammatico di questo autore, ad onta
delle incongruenze e delle imperfezioni della favola e dell'enfasi del linguaggio.
È giusto ricordare che sui palcoscenici italiani il dramma di Schiller che fu ed è più spesso rappresentato, nell' '800, come anche ai giorni
nostri, è la Maria Stuart.
La Mazzucchetti ha magistralmente dimostrato le consonanze tra
le ultime scene dell'Atto V , le scene della Regina che si avvia al patibolo perdonando e benedicendo, con l'agonia di Ermengarda, dall'Adelchi del Manzoni, osservando che se l'opera che è servita di modello
sia per il congedo della Stuarda, sia per quello dell'eroina manzoniana,
è VEnrico Vili di Shakespeare (che presenta il congedo di una regina
ripudiata, Caterina d'Aragona) Schiller fece da mediatore tra Shakespeare e il teatro italiano. Ebbene, in campo lirico il congedo della Regina votata a ingiusta morte è stato ripreso nella scena finale dell'Anna
Bolena di G . Donizetti e della Beatrice di Tenda di V . Bellini, oltreché,
naturalmente, nella Maria Stuarda di Donizetti, direttamente ispirata da
Schiller.
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Ridotta all'essenziale, la storia della vexata quaestio si presenta in
questi termini e con questo sviluppo cronologico:
1) Il libretto viene impietosamente e irrevocabilmente condannato perché è visto attraverso gli schemi del teatro parlato, il genere ad
esso più affine, e da cui, in mancanza di meglio, si prendono a prestito
i parametri di giudizio.
2) Si riconosce la validità, ossia il diritto all'esistenza, del libretto
in quanto g e n e r e
a sé stante, con leggi, strumenti e fini propri; se
ne coglie l'indiscutibile complementarietà con la musica; ma all'atto pratico, quando si passa dal discorso generale all'analisi particolare, riaffiorano tutte le prevenzioni contro il testo letterario sottoposto alla musica, e quasi si chiede scusa di aver cercato di dargli ospitalità nel mondo
dell'arte. Si esalta l'organismo musicale in cui si riconosce la vera e unica
forma di teatro romantico italiano; si considera il libretto parte integrante di tale organismo, ma lo si vede ancora come un male necessario,
come qualcosa che sta troppo al di sotto dell'ispirazione musicale a cui
fa da traballante supporto; non si coglie ancora con sicurezza il fatto
che esso stesso è lo strumento attraverso il quale l'ispirazione musicale
si esprime, forgiato a immagine e somiglianza di quell'ispirazione.
3) Nel II dopoguerra è iniziata l'opera di reintegrazione pieno
iure nel mondo artistico del libretto, considerato suscitatore di musica
(e non suo semplice, benché necessario, supporto) e come tale espressione schematizzata, semplificata, convenzionale, ma estremamente interessante di tutta la sintesi culturale del musicista.
A questo punto la ricerca delle fonti e il confronto con l'opera
drammatica da cui il testo prende le mosse e, in genere, il titolo, non
è più una curiosità intellettuale fine a se stessa, ma un elemento di im-
portanza indiscutibile per una comprensione più profonda e completa
della partitura musicale .
Fatta questa constatazione, si deve necessariamente passare all'indagine caso per caso; perché in una produzione che per il solo sec. XIX
abbraccia 10.000 libretti (l'approssimazione è per difetto) v'è materiale
a sufficienza per sostenere le tesi più disparate.
2S
Per Verdi il discorso è relativamente semplice: tutte le sue 28
opere (26 più Jerusalem e Araldo, rifacimenti dei Lombardi alla I Crociata e di Stiffelio) hanno testi talvolta belli, più spesso dignitosi sotto
il profilo letterario, e comunque interessantissimi sotto quello melodrammaturgico, che è poi quello che importa. Solo i primi due l i b r e t t i furono accettati passivamente dal Maestro; a partire dal Nabucco la collaborazione coi librettisti è molto stretta e anche dispotica, e gli epistolari
(contenenti anche le lamentele dei librettisti) ne sono una fedele testimonianza; ma anche quando la documentazione manca o è molto carente
come per la Giovanna d'Arco e per i Masnadieri, possiamo esser sicuri
che il Solerà e il Maffei abbiano lavorato interpretando o intuendo le
direttive e le esigenze di Verdi. È un fatto ch'egli, come del resto altri tra
i maggiori operisti dell' '800, ebbe rapporti di amicizia piuttosto stretti
con tutti gli autori dei testi delle sue opere (escluse le prime due, come
già accennato); a partire dal Nabucco non scrisse un'opera del cui libretto non fosse convinto: o che il librettista cogliesse nel segno prevenendo i desideri del musicista, avendo assimilato la sua poetica, o che
egli gliela dovesse suggerire e magari imporre, il libretto verdiano risulta
perfettamente funzionale alla musica cui diede occasione nelle varie fasi
dell'evoluzione artistica del compositore: esso è inconcepibile senza quella musica, ma è vero anche il viceversa: il libretto del Macbeth è diverso
da quello dell'Otello, non perché il tanto bistrattato (e per contro tanto
29
28
Franca Cella nel saggio: Prospettive della librettistica italiana nell'età romantica, in « Contributi dell'Istituto di filologia moderna », Serie Storia del Teatro,
voi. I, Milano 1968, indica come dal confronto tra il libretto e la sua fonte si possa
« recuperare il modo di lettura e di trasfigurazione artistica del musicista » aggiungendo che « l'apporto di questa indagine si affianca al lavoro d'interprete sulla partitura: la comune ricerca di una chiave di lettura porta lo studioso a scoprire nei
confronti letterari e nelle analogie culturali ciò che le linee interne del discorso
musicale sono in grado di confermare al direttore d'orchestra » (p. 222). Si può
completare l'osservazione ricordando come il modo di lettura e di trasfigurazione
artistica serva a darci lumi anche sull'autore « trasfigurato ».
Oberto Conte di San Bonifacio di A. Piazza, 1839, riveduto e corretto dal
ventiduenne Temistocle Solerà il cui nome però non comparve sull'intestazione del
libretto; Un giorno di regno di Felice Romani, 1840.
29
stimato dal Maestro) Francesco Maria Piave avesse una statura letteraria inferiore a quella di Arrigo Boito, ma perché il Verdi del 1847, l'anno
del Macbeth,
non era il Verdi del 1887, l'anno dell'Otello.
È del tutto
ozioso domandarsi cosa avrebbe composto il Maestro nel 1847 se avesse
avuto un collaboratore del calibro di Arrigo Boito: avrebbe composto il
Macbeth
che noi possediamo, secondo un libretto del tutto simile a
30
quello del P i a v e ; avrebbe semplicemente dovuto lottare di più per imporre le sue direttive ad una personalità assai meno docile di quella del
Piave.
È inimmaginabile un Otello con i versi del Macbeth, ma lo è altrettanto la musica del Macbeth con un libretto di Arrigo Boito.
Nell'ambito dei melodrammi tratti da Schiller, è evidente la differenza tra la relativa sommarietà e rapidità dei primi tre libretti
(Giovan-
na d'Arco, Masnadieri e Luisa Miller) e il gusto dell'indugio in particolari atmosfere e stati d'animo proprio del Don Carlos; questa differenza
non è rilevabile in Schiller, il quale non ha per abitudine la concisione
alfieriana; le ragioni di tale differenza sono da ricercare nell'evoluzione
dell'arte di Verdi, che nel 1849 (l'anno di Luisa Miller) aveva la capacità di scorciare potentemente caratteri e situazioni, ma non sapeva ancora scendere miracolosamente a scandagliare le profondità dell'animo
umano come nel 1867, l'anno della I edizione del Don
Carlos.
Il Don Carlos verdiano, nell'originale francese, ha una versificazione
più accurata che non i primi 3 libretti; ma questo è conseguenza diretta
del rinnovato modo in cui il musicista concepisce il canto, una linea di
declamato drammatico in cui ogni accento, ogni sillaba ha la sua importanza.
Concludendo: Verdi ideava e sceneggiava i suoi libretti, reinventando, o facendone reinventare la favola in funzione della sua musica.
Anche quando lo spunto gli veniva proposto da altri (è il caso di
tutti e quattro i libretti schilleriani, mentre per la rielaborazione del Wallensteins
Lager nelle scene finali del I I I atto della Forza del
Destino
risulta che fu il musicista stesso a prendere l'iniziativa) dal momento
30
I carteggi, i copialettere e il capitolo dedicato al Macbeth in: Gerhartz, Die
Auseìnandersetzungen
des jungen Giuseppe
Verdi mit dem lìterarischen
Drama,
Berlino 1968, dimostrano del resto che l'ideazione, la sceneggiatura, e in parte
persino la verseggiatura di quest'opera sono di Verdi stesso. Non è più il caso
quindi di compiangere il musicista per la sorte che non gli mise a fianco dei geni
per la compilazione dei libretti.
2
V . CISOTTI,
Schiller
e il melodramma
di
Verdi.
31
ch'egli lo accettava, lo faceva s u o . N o n v ' è nulla di casuale in Verdi,
in un uomo che affermava: « Io non ho sempre raggiunto quello che mi
ero prefisso, ma ho sempre saputo quello che volevo »; tanto meno può
esserlo il fatto di aver messo in musica circa la metà del teatro schil32
leriano .
La venerazione di Verdi per Shakespeare è attestata da parecchie
esplicite dichiarazioni; su Schiller non risulta ch'egli si sia mai espresso,
tranne che per criticare l'idealismo di certi personaggi del drammaturgo
33
tedesco, al tempo della composizione del Don Carlos .
Verdi, uomo di
teatro, pratico e realista, non ha mai scritto opere teoriche né s'è mai
31
Nel 1848, dopo aver composto i Masnadieri e prima del Corsaro, Verdi scriveva al Piave: « È proprio impossibile ch'io faccia della buona musica s'io non ho
capito bene il dramma e di cui non sia persuaso ».
A dimostrare inoltre l'imperiosità di Verdi bastino queste righe di una lunga
lettera ch'egli scrisse al Du Lode, il librettista del Don Carlos andato in scena a
Parigi due anni prima: «... Conviene inoltre che gli artisti cantino non a loro
modo, ma al mio, che le masse, che pur hanno molta capacità, avessero altrettanto
buon volere; che infine tutto dipenda da me; che una volontà sola domini tutto:
la mia. Ciò vi parrà un po' tirannico; (...) ed è forse vero; ma se l'opera è di getto,
l'idea è una, e tutto deve concorrere a formare quest'uno » (8 dicembre 1869) (A.
Luzio, Carteggi Verdiani, IV, Roma 1947, p. 170).
Qui si parla di esecuzione, non di stesura di un libretto, ma espressioni cosf
lapidarie scolpiscono al vivo l'uomo Verdi e ci danno un'idea di come egli concepisse globalmente e unitariamente il proprio lavoro.
Oltre ai cinque accolti e realizzati, Verdi si vide proporre altri due soggetti
schilleriani. Nel 1849 il Cammarano, autore dei testi di Alzira (1844), La battaglia
di Legnano (1849), Luisa Miller (1849) e Trovatore (1852) si disse pronto a trarre
un libretto dalla Congiura del Fiesco. Nel 1860 il Maffei, già autore del libretto
dei Masnadieri (1848) fece presente al musicista i vantaggi melodrammatici del
Demetrius.
I due progetti non ebbero seguito, anche se erroneamente si è creduto che il
Simon Boccanegra composto da Verdi nel 1857 su libretto del Piave, e riproposto
in una seconda edizione al cui testo mise mano Arrigo Boito, nel 1881, benché
tratto da un dramma di Garcia Gutierrez del 1843, avesse dei punti di contatto
con la Verschwórung. Tali punti di contatto sono riducibili esclusivamente all'ambientazione (Genova) e al nome di Fiesco.
Si può rilevare che gli unici drammi di Schiller che non entrarono mai, neppure per un istante, nella visuale di Verdi sono la Maria Stuart e il Wilhelm Téli.
A conferma di una certa affinità di gusti tra Schiller e Verdi non è inutile
ricordare che il Maestro musicò gli stessi drammi di Shakespeare (Macbeth e Otello)
di cui il poeta aveva curato l'allestimento per il teatro di Weimar. Inoltre la traduzione del Macbeth su cui lavorò il Piave era del Maffei, che aveva trasposto in
italiano la versione tedesca di Schiller.
32
33
1901.
La notizia è riportata da Italo Pizzi in Ricordi verdiani inediti, Torino
impegnato in modo continuato ed organico nel campo della critica. Ricaviamo il suo pensiero attraverso alcune sue illuminanti ma frammentarie osservazioni, conservateci nelle sue lettere o negli scritti delle persone che gli furono vicine, e soprattutto attraverso la sua opera. Alieno
dal discorrere in astratto su cosa avrebbe fatto o cosa aveva fatto, nella
composizione inverava tutto se stesso.
Ora, cinque dei suoi ventisei melodrammi attestano inequivocabilmente come nella cultura di Verdi la presenza di Schiller fosse un dato
fondamentale ed ineliminabile. Lo lesse nella traduzione di Andrea Maffei e lo interpretò in chiave di romanticismo italiano, come del resto i
suoi conterranei e contemporanei; è probabile che ne conoscesse solo i
drammi, e non l'opera speculativa e storiografica che comunque non
lasciò traccia nelle sue creazioni.
5. - IL RAPPORTO SCHILLER-VERDI.
Due elementi, tra loro strettamente collegati, valsero a Schiller l'attribuzione di Romantico e gli guadagnarono l'ammirazione anche entusiastica dell'elite intellettuale del Risorgimento, favorendo la volgarizzazione delle sue tragedie attraverso il melodramma: il suo mondo etico
e il suo pathos.
Il Romanticismo italiano nasce da un'esigenza di moralità e di verità prima ancora che da una speculazione filosofica o dalle suggestioni
della « audace scuola boreale ». S'innesta direttamente sul pensiero illuministico lombardo, permeato di concretezza e di buon senso. Auspica e
crea una letteratura capace di rivolgersi ad un pubblico di non iniziati,
intrisa di ragioni morali, civili e patriottiche, vibrante di attualità attraverso una serie di rievocazioni storiche allusive; le profondità (e nebulosità) metafisiche, l'irrazionalismo, il gusto del bizzarro fine a se stesso,
il vago e l'indeterminato come valori estetici assoluti le rimasero estranei. Il nome del Manzoni, l'autore che coi suoi scritti meglio realizzò
l'aspirazione romantica ad una lingua e letteratura popolare, è emblematico per quelle caratteristiche che rendono il Romanticismo italiano
più vicino ai presupposti dell'Aufklàrung che non alle teorie di Herder,
Wackenroder, Novalis, Schleiermacher, Schelling e F. Schlegel. I romantici italiani vogliono una letteratura conforme a ragione e a religione e
su questa strada incontrano presto Schiller, legato alla cultura settecentesca preromantica assai più che non al Romanticismo tedesco, i cui esponenti non gli furono avari di critiche.
(L'unico romantico della I scuola che gli professò un'ammirazione
illimitata fu Novalis; con gli altri i rapporti, anche dal punto di vista
umano, furono piuttosto tesi).
La forma grandiosa e semplice con cui si esprimevano nelle parabole
drammatiche i principi etici di questo autore, che i parenti avevano destinato alla carriera ecclesiastica (all'ufficio di Pastor) per la sua predisposizione all'eloquenza da pulpito, che veniva dalla Svevia, terra di
grandi mistici, e nella cui opera confluiva anche la tradizione del severo e
moralmente rigoroso teatro barocco di Gryphius, conquistò gli intelletti
e accese le fantasie. Si, perché le tragedie di Schiller sono in fondo parabole religiose espresse in forma drammatica; sono la rappresentazione
di un'idea etica, che trionfa pur nel moltiplicarsi di lutti e rovine, inevitabili, data l'inadeguatezza della realtà ad accogliere l'ideale. Questo
colsero gli Italiani contemporanei a Verdi nell'opera schilleriana. Che poi
la religiosità di Schiller non fosse quella cristiana, né tantomeno coincidesse con quella cattolica, non costituì un problema per la sua accettazione. Piacque la salda impostazione morale, l'architettura delle sue
tragedie, il tono da giudice istruttore delle coscienze e coerentemente
il carattere di giudizio finale delle soluzioni dei nodi drammatici. L'autore si sostituiva a Dio e giudicava la realtà umana in nome dell'idea;
i suoi personaggi, vittime o colpevoli, andavano incontro al loro destino consapevoli, e accettandolo redimevano la loro umanità; anche
se il tema della salvezza eterna, capitale nella letteratura barocca, resta
fuori della veduta di Schiller, il suo dramma continua per numerose caratteristiche quello umanistico, incentrato sulle idee piuttosto che sulla
realtà. Gli uomini del Risorgimento, che non vivevano certo la crisi di
valori e di fedi sperimentata da altre generazioni, ammirarono in Schiller
drammaturgo la saldezza e l'intransigenza dei principi ideali, che il groviglio delle passioni non faceva che mettere in rilievo. Colpi anche,
persino attraverso le traduzioni, il suo modo di scandire il dramma secondo la progressione dell'idea morale, che in concreto si fissava in massime chiare e inequivocabili, racchiuse nel giro di un verso, secondo
l'eredità barocca.
Il p a t h o s ha un posto fondamentale nell'arte e nel pensiero critico-filosofico di Schiller. La teorizzazione del pathos la troviamo in saggi
come Uber die tragische Kunst (1792) e Uber das Vathetische ( 1 7 9 3 ) ,
scritte nel periodo di stasi drammaturgica che va dal Don Carlos ( 1 7 8 7 )
al Wallensteins Lager (1798) riempito dagli studi di storia e di filosofia
(soprattutto dall'approfondimento del pensiero di Kant); ma la teoria è
l'elaborazione critica di principi già operanti nelle prime quattro composizioni drammatiche.
Nel p a t h o s , secondo Schiller, si manifesta la dignità di una figura: esso è l'espressione di una tensione interna, di uno stato di disagio
e di manchevolezza, che è il frutto del tentativo di portare la parte sensibile dell'uomo (Sinnlichkeit) ad un accordo con la parte morale.
L'arte tragica deve darci il senso di questo disagio, perché la sua
prima legge è la rappresentazione della natura sofferente (die leidende
Natur); la seconda legge è la rappresentazione della resistenza morale
alla sofferenza; un'azione nobile non può aversi senza che venga indicata la forza di resistenza soprasensibile.
Solo in una azione cosi configurata è espressa la situazione di pathos,
e l'autore consiglia i colleghi drammaturghi di accentuare il contrasto tra
la forza della natura morale e la debolezza della natura sensibile.
Il tragico e il sublime devono ridursi in termini di pathos:
Man gelangt... zur Darstellung der moralischen Freiheit nur durch die lebendigste Darstellung der leidenden Natur, und der tragische Held muss sich erst als
empfindendes Wesen bei uns legitimiert haben, ehe wir ihm als Vernunftwesen
huldigen und an seine Seelenstarke glauben .
34
Anche gli indugi lirici hanno il compito di renderci con maggiore
evidenza la sofferenza d'un personaggio e l'eroismo schilleriano non è
mai assoluto, ma come oppresso da tutta l'ambiguità che è la regola
della vita.
Il pathos si concentra nel comportamento dell'eroe, che stringe ancor pili il
nodo fatale o che sorprendentemente lo tronca. Coerentemente, è una necessità
artistica che Schiller, già nell'ideare la situazione, abbia di mira un costante crescendo verso soluzioni estreme, stupefacenti, crudeli .
35
Il linguaggio ha il compito di comunicare
Schiller, specie negli Jugenddramen, vive d'una
manda sempre a qualcosa che è al di là di essa.
rale, verista: è la lingua di chi avverte la corda
al massimo.
34
il pathos. La lingua di
tensione interna che riNon è una lingua natudel sentimento tendersi
Schiller, Nat. Ausgabe, XX, p. 196.
Cfr. il già citato saggio di Benno von Wiese nello « Jahrbuch der Schillergesellschaft », II, Stoccarda 1958, p. 62 e ss.
35
L'autore padroneggia molto bene il suo strumento, e sa dare ad
esso un'intonazione imperiosa, nota lo Staiger , attraverso la sottolineatura di parole o intere espressioni da cui si ripromette un determinato
effetto; sottolineatura ottenuta con la collocazione enfatica nel contesto
sintattico, con l'arditezza degli accostamenti nella creazione di nuove parole composte, eventualmente con il ricorso alla rima (è il caso della
Jungfrau von Orleans).
36
Si può ben parlare perciò della presenza di « parole sceniche » in
Schiller, usando la magnifica espressione coniata da Verdi e che indica
« la parola capace di scolpire esattamente una situazione drammatica »
(cfr. G . Barblan, Verdi e il Romanticismo musicale). È noto che il musicista richiedeva con insistenza la « parola scenica » ai suoi librettisti perché la carica espressiva in essa contenuta si trasformava facilmente in
musica.
In Schiller il nucleo drammatico di una situazione è spesso condensato in una parola o comunque in una breve espressione, capace di
scuotere con l'effetto di una rivelazione il più tetragono degli spettatori
e di chiarirgli il significato di un evento con la rapidità e l'intensità di
un lampo.
Questo linguaggio patetico crea oggi non poche difficoltà alla recitazione delle opere di Schiller, perché l'attore la prima volta che prova
il testo si lascia trasportare istintivamente dal suono in un mondo vago
e indistinto di sentimento.
Eppure fu proprio quell'apertura alle infinite possibilità del linguaggio che propiziò a Schiller il pubblico dei contemporanei; Schiller
colse il tono giusto, diede una concreta veste linguistica a un mondo
di sentimenti in fermento, in rivolta, a un mondo di aspettative, di fede
in un nuovo ordine ormai prossimo a realizzarsi .
V ' è qualcosa di orgiastico, di irrazionale nella lingua di Schiller; e
ciò l'accosta alla musica ben più dei drammi francesi del '700, a proposito dei quali Schiller stesso ebbe a dire, ch'era difficile per lo spettatore credere che un eroe di quel teatro soffrisse, perché quell'eroe si
diffondeva a parlare delle proprie condizioni di spirito come la più tranquilla delle persone, preoccupato solo dell'effetto che esercitava sugli
altri, senza permettere alla natura in se stessa di manifestarsi liberamente (Uber das Pathetische, Nat. Ausgabe, V o i . XX, p . 1 9 7 ) .
3?
36
Emil Staiger, Schiller, Zurigo 1960.
Cfr. Gustav Rudolf Sellner, Schiller and die heutige Buhne, in Schiller Reden im Gedenkjahr, Stoccarda 1955.
37
Nella lingua di Schiller il sentimento non si manifesta « senza limiti di sillabe » perché ciò è consentito solo alla musica, ma in molti
passi sembra proprio tendere a questo assoluto. Inoltre il pathos schilleriano, se può apparire di dubbio gusto in alcuni passi, e sorpassato in
altri, è un elemento essenziale della sua antiletterarietà e quindi della
sua teatralità.
3 8
39
I critici più moderni, Benno von Wiese ed Emil S t a i g e r riconoscono che, ad onta di certe posizioni teoriche e anche di sue esplicite
affermazioni, Schiller fu essenzialmente un uomo di teatro, che non
scelse i suoi argomenti in vista di un'idea, ma che si interessò prima di
tutto della potenziale energia scenica delle sue trame . In un secondo
momento le illustrò alla luce del suo pensiero, ma sostanzialmente « non
fu il palcoscenico che servi alle sue idee; furono le sue idee a mettersi
al servizio del palcoscenico ». Il fatto che il drammaturgo stesso non ne
fosse cosciente , ha un'importanza molto relativa. Curava la messa in
scena dei propri e degli altrui lavori, aveva l'orecchio al linguaggio che
poteva fare effetto dal palcoscenico, e l'occhio alla recitazione degli
attori, alla scenografia e ai costumi. È questo un tratto, sia detto per
inciso, che l'avvicina notevolmente a Verdi il quale per tutta la vita
dichiarò di essere un uomo di teatro.
40
41
La riprova di ciò è nella semplice considerazione che i drammi schilleriani, anche quelli della Klassik, a parte qualche inevitabile difficoltà
di esecuzione, seguitano ad essere rappresentati e sembrano ancora oggi
lontani dal condividere il destino di tanti Lesedramen dal testo impeccabile.
Nell'opera di semplificazione, volgarizzazione, adattamento dei librettisti, il mondo morale dello Schiller apparve, benché più vasto,
molto affine a quello dell'Alfieri. Ma l'Alfieri è un nume tutelare del
38
La locuzione, riferita alla musica, è di S. Agostino, dal De Musica, ed è
riportata nel saggio di Augusto Hermet, Verdi e la cultura germanica, in « Atti
dell'Accademia Musicale Chigiana », XVII, Siena 1951, p. 13.
Cfr. anche: Paolo Chiarini, Problemi e questioni di metodo nella più recente
letteratura critica su Schiller, in « Società », XIV (2 marzo 1958).
Cfr. Emil Staiger, op. cit., p. 405.
Schiller scrisse a Heribert von Dalberg, in occasione d'una rappresentazione
di Kabale und Liebe: « Niemals werde ich mich in den Fall setzen, den Werth
meiner Arbeit von diesem (vom Theater) abhangig zu machen ».
Per contro, innumerevoli altre lettere, nonché le testimonianze di contemporanei, e Goethe è fra questi, ci dimostrano la cura con cui Schiller si occupava dei
particolari più t e a t r a l i per la messa in scena dei suoi lavori.
39
40
41
Risorgimento, l'ispiratore della letteratura operistica della prima metà
del secolo XIX, che da lui impara « una tipizzazione nuova e ferreamente costruita su contrasti morali, su personaggi d'eroica o di tirannica grandezza » come scrive l'attento studioso di questo rapporto, Lorenzo A m i g a .
4 2
Quel tanto di alfieriano che può avvertirsi in Schiller — l'idealismo, la tensione verso l'assoluto, la veemenza esasperata dei sentimenti,
almeno negli Jugenddramen, la tendenza a universalizzare, condensandolo in forma epigrammatica, il nocciolo di una situazione — fu un
titolo di merito per il drammaturgo tedesco presso pubblico e musicisti
del Risorgimento. Anima alfieriana può dirsi quella di Verdi, che chiamò
alfierianamente Virginia e Icilio i due figlioletti prematuramente scomparsi, ma che non scelse mai le trame delle sue opere tra quelle offerte
dalle tragedie del poeta astigiano. Troppo lineari forse, quelle trame, e
di un solo tipo, benché enormemente affascinante, il contrasto a cui si
riducevano: quello tra libertà e tirannia. L'affresco schilleriano offriva
ben altre suggestioni. Il dramma di Schiller è singolarmente composito;
al suo apparire fu salutato come shakespeariano in Germania, e nelle
scritture dei romantici italiani i nomi di Shakespeare e di Schiller sono
quasi sempre abbinati. Per quanto errato possa essere l'accostamento,
esso era una realtà per Verdi e la cultura a lui contemporanea ed è necessario prenderne atto per comprendere l'incidenza di Schiller nel teatro
d'opera italiano.
Dopo la comparsa della traduzione francese del Corso di Letteratura Drammatica di A . W . Schlegel ( 1 8 1 4 ) , si diffonde anche in Italia,
benché in proporzioni assai ridotte rispetto ai paesi di lingua tedesca,
il fenomeno della S h a k e s p e a r o m a n i a
.
Shakespeare fu uno dei miti del Romanticismo europeo, uno dei
pili incontestabili e duraturi; non è il caso di parlare, in questa sede,
dell'immagine romantica di Shakespeare, ma è opportuno ricordare che
per più generazioni ciò che era shakespeariano era bello e ciò che era
bello era shakespeariano. Rientra in questo clima anche l'ardente ammirazione di Verdi che chiamava il tragico inglese « il papà », perché
4 3
4 2
Lorenzo Arruga, Incontri tra poeti e musicisti nell'opera romantica italiana,
in « Contributi dell'Istituto di filologia moderna », Serie Storia del Teatro, voi. I,
Milano 1968.
II termine si trova in capo ad un'opera di scarso valore critico ma fortemente polemica nei confronti di Shakespeare scritta da Roderich Benedix: Die
Shakespearomanie. Zur Abwehr, Stoccarda 1873.
43
maestro dell'arte di « inventare la verità » ch'egli poneva a paradigma
della propria opera. Ora, il parallelo, tante volte stabilito, tra Shakespeare e Schiller non è certo il modo migliore per capire l'uno e i'altro
drammaturgo; resta che qualcosa di shakespeariano si può davvero cogliere in Schiller, specialmente nel realismo di alcune sezioni dei drammi
giovanili in prosa, e, elemento importante soprattutto agli effetti della
trasposizione melodrammatica, nella varietà dei casi e dei costumi, nella
libertà e familiarità con cui vengono accostati grandi personaggi storici, nella ricchezza di particolari che non compromette mai la nitidezza del disegno generale della tela. Sono analogie piuttosto generiche
ed esteriori, ma fissarono il binomio Shakespeare-Schiller nella coscienza
risorgimentale, consacrando l'accettazione definitiva del poeta tedesco.
Nella drammaturgia di Schiller ha poi amplissima parte un elemento che nel teatro umanista di idee da cui discende più direttamente
e nel teatro ' shakespeariano, dei cui influssi risente, è posto in assai
minore evidenza: l'intrigo. Ciò imparenta Schiller con il teatro francese
del '700 e viene generalmente messo sul conto dei suoi errori.
La critica è orientata nel senso in cui Lessing scriveva: « Je simpler eine Maschine ist, je weniger Federn, Rader und Gewichte sie hat,
desto vollkommener ist sie » (Hamburgische Dratnaturgie, 82. Stùck).
Ora non si può negare che, specialmente nei primi quattro drammi, il
meccanismo dell'azione sia piuttosto scoperto, gli interventi per metterla
in moto e imprimerle una svolta siano alquanto esteriori, e portino talvolta ad incongruenze a cui, come mi sforzerò di chiarire nella seconda
parte del presente lavoro, gli stessi librettisti hanno cercato in parte di
ovviare con risultati abbastanza buoni. Eppure, dal punto di vista tecnico-strutturale, il dramma d'intrigo trovò la strada del melodramma
romantico prima e meglio del dramma ideologico di tipo umanistico o
alfieriano e della tragedia di carattere di tipo shakespeariano.
Il fatto è che, se il libretto della prima metà dell' '800 è alfieriano
negli spiriti e nei fini, conserva però ancora l'impalcatura settecentesca,
cioè metastasiana: la presentazione dei personaggi, la loro entrata e
uscita di scena, la stessa suddivisione delle scene in n u m e r i , cioè
in arie, recitativi, cori, duetti, terzetti, concertati è retaggio dell'epoca
precedente.
Ma per l'opera a numeri i colpi di scena sono indispensabili: il suo
congegno pare fatto apposta per rendere evidente il meccanismo dell'azione, cioè proprio quello che Lessing avrebbe voluto che fosse tenuto
nascosto il più possibile.
Le quattro tragedie di Schiller musicate da Verdi si prestano in
modo eccellente a questo gioco. Il melodramma romantico ricerca occasioni che facciano divampare le passioni; se esse nascono da una tensione etica appagano lo spettatore meglio che se germinassero su un
altro terreno, ma perché si abbia l'impennata, la fiammata, occorre qualche alimento esterno, un gioco di circostanze ben congegnato. L o spettatore dell'opera non bada tanto alla rozzezza o alla perfezione del
congegno, perché gli interessa solo il risultato emotivo che si trasfonde
nella musica. Le motivazioni di un'azione sono molto meno importanti,
per l'opera, della reazione passionale a cui l'azione stessa dà luogo.
Ora si prendano in considerazione i Rauber, Kabale und Liebe,
Don Carlos: è chiaro, e spero di riuscire a dimostrarlo nelle successive
analisi, che in un primo momento sono balenati davanti a Schiller certi
caratteri, certe passioni, certe reazioni; in un secondo momento egli
ha predisposto una dinamica di avvenimenti atta a giustificare quei
comportamenti.
Nell'ordire la trama è incorso in ingenuità e incongruenze; ma ha
raggiunto ugualmente l'effetto che si prefiggeva. Cosa importa a noi
che l'inganno di cui è vittima il suo primo eroe, Karl Moor, sia stato
grossolanamente ordito? A Schiller interessava la violenta esplosione
anarchica cui dà luogo quell'inganno: essa aveva preso forma in lui,
prima che le avesse escogitato un'occasione per manifestarsi.
Ma questo modo di procedere è tipico del melodramma: non una
concatenazione impeccabile degli avvenimenti, ma l'effetto che essi hanno sull'animo dei personaggi, le passioni da essi suscitate sono il punto
costante di riferimento.
Concludendo, la presenza di Schiller nel melodramma verdiano è
dovuta sia a motivi intrinseci alla sua opera, sia a una serie di circostanze contingenti.
La temperie spirituale del mondo risorgimentale si presentava
adatta ad accogliere il pathos morale di Schiller; era un mondo in fermento che anelava alla definizione dei propri principi, e Schiller sembrava offrire questa definizione, chiara, suggestiva, assoluta e drammaticamente viva; gli accostamenti all'Alfieri da una parte e allo Shakespeare dall'altra, anche se piuttosto esteriori e frutto in parte (ma non
del tutto) di fraintendimenti, giovarono enormemente alla sua fama; la
qualità della sua ispirazione e certe peculiarità della sua tecnica teatrale
resero relativamente facile la trasposizione dei suoi drammi nella forma
melodrammatica.
L'analisi delle cinque composizioni di Verdi sulla base del rapporto
con i testi di Schiller vorrebbe portare un modesto contributo alla comprensione dell'uno e dell'altro autore, partendo da un'angolazione a cui
non si fa solitamente ricorso. Più precisamente, se il raffronto SchillerVerdi è stato già f a t t o per lumeggiare l'opera del compositore italiano, per studiare Verdi più che per studiare Schiller, non risulta che
l'elemento melodrammatico in Schiller sia stato oggetto di particolari
indagini; quando è stato rilevato, è stato considerato senz'altro una
pecca, un errore del drammaturgo t e d e s c o .
44
45
44
Cfr.: E. Bienenfeld, Verdi and Schiller, in «The Musical Quarterly », New
York 1931; I. Hausler, Die Dramen Schillers als Grundlagen fur Opemlibretti.
Dissertation, Vienna 1956; A. C. Keys, Schiller und Italian Opera, in « Music
and Letters », Londra 1960; Janos Liebner, L'influence de Schiller sur Verdi, in
« Schweizerische Musikzeitung », 1961; L. K. Gerhartz, Verdi und Schiller, in
« Verdi. Bollettino dell'Istituto di Studi Verdiani », voi. II, n. 6, Parma 1966;
L. K. Gerhartz, Die Auseinandersetzungen des jungen G. Verdi mit dem literarischen Drama, Berlino 1968; la sezione Schiller - Verdi degli «Atti del II Congresso Internazionale di Studi Verdiani », Parma 1971, pp. 156-240, dove il problema è studiato prevalentemente in rapporto al Don Carlos, cui quel Congresso
tenutosi a Verona dal 30 luglio al 5 agosto 1969 era dedicato. Il raffronto Schiller Verdi è stato anche il tema di un Convegno di Studi svoltosi a Parma presso l'Istituto di Studi Verdiani dal 3 al 5 novembre 1973, i cui Atti sono in corso di pubblicazione. Il Convegno ha impostato un dibattito per cui i tempi sono evidentemente maturi, anche se nella maggioranza degli interventi si è notata la tendenza
a trattare ancora separatamente i due autori.
Se, nell'accezione comune, la qualifica di m e l o d r a m m a t i c o è negativa, persino quando viene rivolta alla produzione del teatro d'opera, il che è una
vera assurdità, a maggior ragione lo è quando è riferita a un dramma parlato.
Riaffiora in essa tutta la tradizione di denigrazione della librettistica a cui si è fatto
precedentemente cenno, ma anche un equivoco sorto dall'artificiosa distinzione tra
d r a m m a t i c o e t e a t r a l e che nessun serio autore di teatro accetta nella
pratica: ciò che viene rappresentato deve piacere agli spettatori, e il pubblico dell' '800, del teatro d'opera come di quello di prosa, era abbastanza composito e in
gran parte costituito da non specialisti, perché gli autori non dovessero tentare di
accaparrarsene il consenso con tutti i mezzi che non sentivano incompatibili con la
propria ispirazione. Il discorso è inutile per Verdi che dichiarava di occupare gran
parte del suo tempo assistendo a spettacoli d'opera per cercare di capire che cosa
suscitasse di più il tedio o il gradimento del pubblico; ma anche Schiller ebbe a
dire una volta che avrebbe sacrificato tutto ciò che sapeva sull'estetica elementare
« fùr einen empirischen Vorteil, fùr einen Kunstgriff des Handwerks » (lettera del
27 gennaio 1798 a Goethe). Non si comprende proprio perché ciò che appartiene
al teatro non dovrebbe essere teatrale; né si comprende come in una tragedia la
parte teatrale (cioè la presa che essa ha sul pubblico) possa essere distinta dalla
parte drammatica (cioè dagli elementi di poesia pura che esercitano una più elevata, e non specificata, forma di suggestione). Ricadiamo nella distinzione crociana
di poesia e non poesia, fatale ai librettisti e, non a caso, anche a Schiller: si conosce
infatti il severo giudizio che il Croce espresse sul letterato svevo cui negò in pra45
Dal confronto con i libretti verdiani può invece emergere come la
componente operistica indubbiamente presente nelle tragedie schilleriane, anche al di fuori delle rielaborazioni cui il poeta le sottoponeva per
la presentazione in palcoscenico * , sia un fattore decisivo per la resa
drammatica e l'efficacia scenica di quelle stesse tragedie, quindi, in una
parola, per la piena realizzazione dell'opera schilleriana nell'ambito di
quella dimensione teatrale cui era destinata.
6
tica la qualità di drammaturgo. Il fatto è che ogni composizione, quando è giudicata con schemi che non le sono propri, si rivela difettosissima, e sorge il problema
di giustificare il divario tra il piacere ch'essa suscita e che è la garanzia della sua
riuscita, e la critica pesantemente negativa fatta nei suoi riguardi. Anche questa
singolare sorte accomuna il melodramma romantico, e in particolare verdiano, alle
opere drammatiche di Schiller. Ma la distinzione tra d r a m m a t i c o e t e a t r a l e , cioè, in definitiva, tra drammatico e melodrammatico coinvolge anche
Shakespeare; l'epoca romantica legge in lui il primato dei personaggi sulla struttura, perché « vuole » che una tragedia non sia altro che la storia di un sentimento
e di una passione. (Cfr. Benvenuto Cuminetti, Dibattiti romantici sulle strutture
drammaturgiche, in « Contributi dell'Istituto di Filologia moderna », Serie Storia
del Teatro, voi. I, Milano 1968). Rimane però difficile spiegare il fatto che anche
Shakespeare riprendendo dai suoi predecessori una quantità di materiali, mantenendo le scene che trovava buone, cioè d'effetto, eliminando o rifacendo per intero
quelle malriuscite, mescoli intuizioni geniali a molti tratti convenzionali, che l'autore spesso ricopia dalle fonti o sceglie come la soluzione più semplice e più comoda, ma che sono in contrasto con l'immagine di maestro della psicologia che si
è costantemente voluto vedere in lui. Come superare questa difficoltà? Chiamando
in causa un'ennesima volta il melodramma! Cosi Gustav Rùmelin, negli Shakespeare-Studien eines Realisten, Stoccarda 1866, scrive che il drammaturgo inglese
« compose una bella musica su libretti sgangherati ». Certe immagini sono proprio
dure a cancellarsi!
4 6
Giova osservare che il Maffei non tradusse le Buhnenbearbeitungen e che
quindi Verdi ebbe presenti solo i testi dei drammi dell'edizione che Schiller curò
per la stampa.
GIOVANNA D'ARCO
1. - CONSONANZA DELLA « JUNGFRAU VON ORLEANS » CON IL CLIMA
DEL MELODRAMMA ROMANTICO.
Temistocle Solerà (1815-1878), buon conoscitore della lingua tedesca per esser stato educato nel Collegio Imperiale di Maria Teresa in
Vienna, poteva conoscere la Jungfrau von Orleans anche nel testo originale.
1
Pure, in una lettera all'editore Giovanni Ricordi, si affannò a
sostenere l'assoluta originalità del suo libretto della Giovanna
d'Arco:
2
Non conosco il dramma francese di cui mi parli . Ti affermo dunque rigorosamente che la mia Giovanna d'Arco è dramma affatto originale italiano; solamente
ho voluto come Schiller introdurre il padre di Giovanna come accusatore; in tutto
il resto non ho voluto lasciarmi imporre né dall'autorità di Schiller, né da quella di
Shakespeare (Shaspare — sic —), i quali fanno Giovanna bassamente innamorata
dello straniero Lionello. Il mio dramma è originale; anzi ti prego di far annunciare
sul giornale che, avendo alcuno profetizzato che io avrei desunta la tela da Schiller,
ho studiato per iniziare un dramma affatto originale.
In efletti, la Giovanna d'Arco è la meno schilleriana delle opere
di Verdi tratte da Schiller, per cui se ne tratterà in forma relativamente
breve.
È pregio del Solerà non rifarsi mai direttamente ad una fonte letteraria; ma la rivendicazione dell'assoluta originalità del dramma fa
1
Abbiati - I, p. 534 (la lettera è del settembre 1844).
Impossibile dire a quale dramma si riferisca il Solerà. L'editore poteva avergli
nominato: A. Soumet, Jeanne d'Are (1825); A. Dumas Padre, Charles VII chez
ses Grands Vassaux (1821); J. F. C. Delavignes, Charles VII (1843).
2
parte del carattere presuntuoso di questo singolare avventuriero, non
privo di estro e di talento. Avrebbe potuto per lo meno degnarsi di
ammettere d'aver tolto da Schiller la trasfigurazione di Giovanna, che
nell'ultima scena, contro tutta una fermissima tradizione storica e letteraria, non muore sul rogo, ma in mezzo ai suoi soldati, accanto alla
sua bandiera.
Un'omissione di questo tipo può far concludere solamente che la
Jungfrau schilleriana era assai poco nota, per non dire ignota, nell'Italia della prima metà dell' '800. Detto questo, si deve concedere al Solerà di non essersi fatto certo un problema della fedeltà all'originale. La
sua Giovanna consta di una serie di oleografie popolari che illustrano
lo spirito religioso, guerriero e patriottico. Venivano incontro al desiderio di autoesaltazione del pubblico d'allora, all'esigenza di sentirsi
uniti nell'ammirazione per la bella leggenda dal significato morale cosi
ben sottolineato dalla conclusiva ascesa in cielo.
La rappresentazione concreta, tangibile del miracolo cristiano ha
una lunga tradizione nella poesia e nella melodrammaturgia italiana, una
tradizione che fa capo alla Gerusalemme Liberata. È una interpretazione
ingenua che travisa il significato dell'opera di Schiller; il punto è vedere in che misura la Jungfrau offra il destro a questo travisamento.
Esso intanto ha una abbastanza solida tradizione anche in Germania,
dove il dramma vien fatto leggere troppo presto nelle scuole, per cui
nella presentazione e interpretazione di esso si pone l'accento sulla leggenda, sul miracolo, sulla santificazione dell'amor patrio; la missione di
Giovanna su questa terra è infatti la salvezza della sua nazione ed essa
la realizza consegnando la corona ad un re che non mostra d'essere all'altezza della situazione . Estremamente difficile è far comprendere a
dei giovinetti che la Jungfrau, non diversamente da Maria Stuarda, Don
Carlos, il Marchese di Posa, e anche Karl Moor, è una martire, ma non
in senso cristiano: essa rende, su questa terra, testimonianza della divinità in maniera paradossale, proprio attraverso la strada che conduce
nell'intrico del m a l e . Solo che per indicare questa Verstrickung Schiller non rinuncia a usare elementi favolosi.
3
4
La suggestione di certi elementi poetici e scenici, diciamo pure
operistici, contribuì notevolmente alla fama del dramma; esso era davvero •&£CCTQOV, spettacolo, .più di qualsiasi altra creazione schilleriana, e
3
4
Cfr. R. Ibel, Die Jungfrau von Orleans, Frankfurt 1967, p. 74.
Cfr. Benno von Wiese, Schiller.
come tale fu una delle opere di quest'autore più spesso rappresentata,
perché dava l'occasione ad una messa in scena assai pomposa. Ci è conservata la notizia che il grande attore, nonché direttore di teatro, Iffland,
coltivò il proposito, che poi non realizzò, di rappresentare la sola scena
della processione che entra in chiesa per la cerimonia dell'incoronazione,
senza il dramma; la processione sarebbe stata cosi minuziosa e precisa
nei particolari, che avrebbe riempito l'intera serata .
5
Per la prima e ultima volta Schiller rappresenta in un suo lavoro
l'apparizione di una creatura soprannaturale (lo Schwarzer Ritter che
Johanna vede prima dello scontro fatale con il capitano inglese Lionel, e che sparisce sotterra quando l'eroina fa per assalirlo, dicendole:
« T ò t e , was sterblich i s t » ) nonché un evento prodigioso: la rottura
delle catene che permette a Johanna di precipitarsi fuori del carcere e
correre al suo destino sul campo di battaglia . La comparsa del prodigioso e del soprannaturale attirò a Schiller aspre critiche in ispecie da
parte di quei giornalisti e scrittori di formazione illuminista come Garlieb Merkel, il quale osservò che del meraviglioso si può sentir parlare,
ma che esso non deve esserci fatto vedere; possiamo sentir aleggiare
intorno a noi il mondo degli spiriti, ma l'illusione si dissolve se tale
mondo ci vien messo sotto gli o c c h i .
6
7
s
Il favore di cui la Jungfrau godette sulle scene di Berlino, Monaco,
Stoccarda, Francoforte, Lipsia nei primi decenni del XIX secolo diede
però ragione agli avversari di Merkel, per esempio ad August Klingemann ( 1 7 7 7 - 1 8 3 1 ) , romanziere e drammaturgo di successo, direttore del
Braunschweiger Nationaltheater, il quale vedeva in questo dramma il
trionfo della fantasia sulla ragione, del vago e dell'indefinito (il meraviglioso rientrerebbe in questa categoria) sulla piatta realtà; con ciò
l'opera rientrava perfettamente nel clima del romanticismo.
Vale la pena di riportare le parole con cui il Klingermann giustifica l'uso del meraviglioso sulla scena, perché esse valgono appieno per
l'opera romantica:
Il meraviglioso si deve giustificare solo da un punto di vista poetico; esso
non ci può ingannare, dato che l'inganno ha luogo soltanto nella realtà; solo nella
poesia noi ci abbandoniamo ad esso come ad una volontaria illusione.
5
« Bibliothek der redenden und bildenden Kiinste », voi. I, 1806, p. 61.
Die Jungfrau von Orleans, atto III, scena 9.
Die Jungfrau von Orleans, atto V, scena 11.
Cfr. Garlieb Merkel, Briefe an ein Frauenzitnmer uber die wichtigsten Produkte der schònen Literatur, voi. I l i , Berlino 1801, p. 566.
6
7
8
La realtà è il campo della ragione: è essa soltanto a decidere di ciò che è
vero e ciò che è falso, poiché sottopone tutto ad un esame logico, prima di dargli
la sua sanzione; essa nega ogni miracolo perché non se lo può spiegare; ma per la
fantasia il meraviglioso conserva l'antica dignità .
9
L'illusione insomma è il presupposto di qualunque rappresentazione scenica, anche della più r e a l i s t i c a ; la stessa struttura materiale del teatro, con il velario che divide il palcoscenico dagli spettatori, è un'espressione deU'illusorietà del tutto; il fatto che talvolta gli
spettatori trovino il velario sollevato prima dell'ora d'inizio dello spettacolo, e vedano gli attori agire in una sorta di preludio anticonvenzionale, recitando la parte di attori che aspettano l'inizio dello spettacolo
— si pensi ai Sei personaggi in cerca d'autore di Pirandello — non cambia nulla, anzi sollecita un meccanismo più complicato di illusioni.
In definitiva, per quanto trascinante, avvincente, impegnata possa
essere una forma di spettacolo teatrale, sarà difficile dimostrare che la
cortina, visibile o no, che separa gli esecutori dai fruitori di un avvenimento artistico, possa annullarsi. E allora, basta spingere un poco più
in là il gioco dell'illusione, e accanto ai fatti « reali », spiegabili razionalmente, ecco i fatti che la sola ragione non può motivare; accanto ai
personaggi « storici », i fantasmi.
I personaggi che cantano non sono la realtà, ma non lo sono neppure quelli che recitano in endecasillabi sciolti o in pentapodie giambiche e neppure quelli che agiscono usando la prosa. Per quel che riguarda
rillusione, la differenza è piuttosto quantitativa che qualitativa.
Ciò si può ripetere anche per il linguaggio poetico della « Jungfrau »: Schiller fa rimare spesso i versi conclusivi di un discorso o di una
scena , specialmente se sono posti in bocca a Johanna; alla quale competono anche due lunghe scene completamente rimate (Prologo - 4 e
I V , 1) che corrispondono, presso a poco, alle due arie della Giovanna
del libretto del S o l e r à .
10
11
9
A. Klingemann, Briefe uber Schillers Tragodie: Die Jungfrau von Orleans,
1802. Citato da: N. Oeller, op. cit., p. 93.
La rima compare in: Prologo, scena III, versi 364-365; Atto I, scena X,
versi 1108-1110; Atto I, scena XI, versi 1222-1225; Atto II, scena II, versi 14591460; Atto II, scena IV, versi 1522-1523; Atto III, scena IV, versi 2267-2270;
Atto III, scena V, versi 2289-2291; Atto III, scena IX, versi 2452-2453; Atto V,
scena IV, versi 3195-3196; Atto V, scena VI, versi 3242-3245; Atto V, scena VII,
versi 3285-3288; Atto V, scena XIV, versi 3542-3544.
Giovanna d'Arco: Prologo, scena 4. « Sempre all'alba ed alla sera »; Atto
I, scena 3: « O fatidica foresta».
10
11
La rima posta a suggello di alcune scene segna indubbiamente un
ulteriore grado di avvicinamento all'opera in musica; la rima acquista
una funzione di risalto ancora maggiore se costituisce un'eccezione nel
contesto ritmico; quando compare prima dell'entrata d'un nuovo personaggio, di un cambiamento di scena, o comunque, dell'intervento di un
nuovo stimolo alla prosecuzione dell'azione, conclude il precedente episodio, al punto da separarlo quasi da quel che segue, e da farlo ammirare in sé e per sé; il dramma risulta cosi quasi diviso in « numeri ».
La prima scena dell'atto quarto ( « D i e Waffen ruhn/des Krieges
Sturine schweigen ») è recitata su di un sottofondo musicale (la didascalia indica flauti ed oboe) ma è costruita in modo da suggerire inevitabilmente l'idea del canto: la rima, l'uso del polimetro, l'alternarsi di
momenti descrittivi e riflessivi a momenti di effusione, di abbandono
ai ricordi della propria condizione di umile pastora, di esaltazione e di
malinconia; una pagina lirica, già melodrammatica nella sostanza; l'azione non procede di un passo, perché l'eroina, pur dichiarando i termini
di un conflitto drammatico tra la sua missione e il suo essere di donna,
evita di darsi una risposta, di prendere una decisione, e si oblia nell'evocazione dell'immagine del bel guerriero, o in quella della vita pastorale.
Cosi al passo:
Wer? Ich? Ich eines Mannes Bild
In meinem reinen Busen tragen?
Dies Herz, von Himmelsglanz ertullt,
Darf einer irdschen Liebe schlagen?
Ich, meines Landes Retterin,
Des hbchsten Gottes Kriegerin,
Fùr meines Landes Feind entbrennen!
Darf ich's der keusche Sonne nennen
Und mich vernichtet nicht die Scham!
segue la risposta musicale, e quindi irrazionale, esposta su di un ritmo
ottonario:
Wehe! Weh mir! Welche Tone,
Wie verfiihren sie mein Ohr!
Jeder ruft mir seine Stimme,
Zaubert mir sein Bild hervor!
12
JOHANNA:
Impressa h o d u n q u e nel v i r g i n e o core
L ' i m a g i n e d'un uomo? Il cor r i p i e n o
D i celeste grandezza e di splendore
N u t r e la fiamma d'un amor terreno?
I o , c a m p i o n della Francia e del Signore,
(la didascalia, prima di questo mutamento di ritmo, avverte che la musica dietro le quinte si va smorzando in una flebile melodia).
In modo analogo, nei versi che seguono, dalla considerazione sulla
propria missione, che è quella di essere un « blindes Werkzeug » di
Dio, e che è stata tradita dal repentino affiorare di una passione terrena,
si passa ad una « stille Wehmut » che si esprime ancora attraverso il
ritmo degli ottonari:
Frommer Stab! Oh, hatt ich nimmer
Mit dem Schwerte dich vertauscht!
Hàtte es nie in deinen Zweigen,
Heilge Fiche! mir gerauscht!
Warst du nimmer mir erschienen,
Hohe Himmelskonigin!
Nimm, ich kann sie nicht verdienen,
Deine Krone, nimm sie hin! etc. .
n
Il verso di otto sillabe, ordinato generalmente in quartine è forse
quello di cui si fa più largo uso nell'opera; in ottonari è tradotto dal
Solerà questo momento di nostalgia della sua Giovanna:
Oh fatidica foresta,
O mio padre, o mia capanna,
Nella semplice sua vesta
Tornerà tra voi Giovanna;
Deh, ridatele i contenti
Che più l'alma non senti!
(I, 3).
P o r t o il n e m i c o della Francia in seno?
E al Sol rivelo, al sole intemerato,
N é vergogna m'uccide, il m i o peccato?
O h qual suon m i p e r c o t e l . . . o h q u a l e ascolto
Lusinghiera, dolcissima armonia,
Che la cara sua voce e il caro volto
R i c h i a m a alla d o l e n t e a n i m a m i a ? . . .
JOHANNA:
P i o vincastrol ah perché m a i
Colla spada i o ti cangiai?
N o n ti avessi, arcana pianta,
Sussurrar de' rami intesa!
E tu Vergine, t u , Santa,
M a i n o n fossi a m e discesai
D e h riprendi il t u o bel serto!
Lo riprendi! Io n o n lo merto.
Quest'aria, è bene notarlo, non è seguita dalla tradizionale cabaletta, ma si unisce direttamente al « numero » successivo, il duetto tra
l'eroina e Re Carlo.
Concludendo, il dramma schilleriano contiene quel tanto di fantastico e di popolaresco, di coreografico e di cantabile che ne fa un soggetto ideale per il libretto di un'opera romantica. Né si può dire che
l'invito non sia stato raccolto: dal 1821 al 1881 la Jungfrau ispirò ben
10 opere liriche , più di qualsiasi altro testo di Schiller. D'altra parte
anche prima che il drammaturgo tedesco ponesse mano alla sua Jungfrau, la vergine guerriera di Dom-Remy aveva fornito lo spunto per
rappresentazioni musicali: per la Jeanne d'Are à Orléans di R. Kreutzen, testo di Desforges, andata in scena al Théàtre Italien di Parigi nel
1790, e la Giovanna d'Arco di Andreozzi, comparsa sulle scene del
Grand Théàtre di Venezia nel 1793 .
14
1S
16
Questa vicenda quindi era assurta ad un significato mitico ; Giovanna d'Arco è uno dei miti del Romanticismo europeo. La musica fu
una potente mediatrice per la rilettura trasfiguratrice di questo episodio
medioevale che proprio attraverso il melodramma fu messo sullo stesso
piano della materia eroico-cavalleresca dei poemi dell'Ariosto e del Tasso. Se una delle chiavi per penetrare nello spirito dell'epoca romantica
è l'allontanamento dal mondo classico e il conseguente avvicinamento a
quello medioevale, tale avvicinamento è nel melodramma addirittura
coevo all'inizio del genere stesso; il Medoro del Gagliano, la Liberazione di Ruggero del Caccini, VErminia sul Giordano di M . Rossi na-
14
Le trovo citate (e in parte commentate) in Schillers Dramen als Unterlagen
fùr Opernlibretti, Diss., Vienna 1956 di Ingeborg Hausler (pp. 290-291).
Eccone l'elenco:
1821 Giovanna d'Arco di M. Carafa;
1827 Giovanna d'Arco di Nicolò Vaccaj;
1830 Giovanna d'Arco di Giovanni Pacini;
1839 Jeanne d'Are di M. W. Balfe (in inglese);
1840 Johanna d'Are di Von Hoven, testo di Otto Prechtler;
1845 Giovanna d'Arco di Verdi, testo del Solerà;
1865 Jungfrau von Orleans, A. Langert, testo di Rein;
1865 Jeanne d'Are di Gilbert Louis Duprez, testo di Mery ed Edward
Duprez;
1876 Jeanne d'Are di A. Mermet;
1881 Jeanne d'Are, testo e musica di P. I. Cajkovskij.
15
16
H. Hausler, op. cit.
Cfr. E W. Grenzmann, Die Jungfrau von Orleans. Stoff und Motivgeschichte
der deutschen Literatur, I, Berlin 1929.
11
scono nella Camerata Fiorentina . Se il 1600 e il 1700 non trascurano
completamente il Medioevo, lo si deve all'epica cavalleresca; ma essa
raggiunge il pubblico, il pubblico delle corti, naturalmente, attraverso il
balletto e l'opera. La vicenda di Giovanna d'Arco, che tiene sia del
dramma pastorale, sia del poema eroico, è Arcadia ed è epica cavalleresca. Inoltre si presta all'esaltazione del sentimento nazionale come
e più della Chanson de Roland, e a quella del sentimento religioso come
e più della Gerusalemme Liberata, contiene quel tanto di bizzarro e di
stravagante che è collegato ad una figura femminile chiusa in ferrea
corazza, letterariamente l'ultimo anello di una catena che ha il primo
nel mito greco delle Amazzoni.
In epoca romantica, all'eroina francese competè anche un altro
significato: quello di vessillo contro la dissacrazione delle fedi e del
sentimento popolare operata dell'Illuminismo.
Può essere interessante ricordare che nell'epoca della prima giovinezza di Schiller era sorto in Germania un tipo di opera patriottica, e
che proprio al Teatro di Mannheim, non dedicato a un genere specifico
di rappresentazioni, era stato eseguito nel 1 7 7 7 il Glint ber von Schwarzburg di I. Holzbauer sul testo di Klein e nel 1 7 8 0 la Rosmunda
di Schweitzer, su testo di Wieland; Schiller assistette a una rappresentazione del Gunther von Schwarzburg nel 1 7 8 5 .
18
Il teatro musicale ha dato a Schiller modelli, schemi, idee, tutta
una serie di stimoli, soprattutto per la composizione della Jungfrau; è
abbastanza ovvio che poi questa materia sia ritornata nelle mani dei
musicisti che nella Jungfrau schilleriana trovarono il più naturale punto
di riferimento, lo volessero o, come nel caso del Solerà, non lo volessero ammettere.
2. - RAFFRONTO TRA LA « GIOVANNA D'ARCO » E LA « JUNGFRAU VON
ORLEANS ».
Il Solerà offre a Verdi un soggetto carico di epicità storico-leggendaria e ampiamente consacrato dalla letteratura; e glielo presenta
come una serie di situazioni drammatiche, dopo aver proceduto a una
drastica riduzione di scene (da 1 2 a 6) e di personaggi (da 26 a 5).
17
Alfred Einstein, Il romanticismo musicale, pp. 148-149 (ediz. italiana).
Cfr. Friedrich "Walter, Geschichte des Theaters und der Musik am Kurpfalzischen Hofe in Mannheim, Lipsia, citato in H. Kretschmar, Geschichte der
Oper, Lipsia 1919.
18
Verdi si fida del librettista che ha già firmato due dei suoi maggiori successi: il Nabucco (1843) e i Lombardi (1844); mancano le
prove di una intensa collaborazione del musicista per la stesura del
libretto. La Giovanna d'Arco ripete la tecnica delle due precedenti creazioni del Solerà: viene sottolineato l'elemento epico, a discapito di
quello drammatico; il conflitto della protagonista viene esteriorizzato,
attraverso cori di angeli e di demoni, lo sviluppo psicologico dei personaggi superstiti (rispetto al dramma originario) è praticamente nullo,
l'elemento corale è di primaria importanza; il prologo e i tre atti sono
quasi sempre incorniciati da cori.
È evidente che nella temperie risorgimentale preme porre l'accento
sul destino di un popolo piuttosto che su un destino individuale, per
quanto carico di significato simbolico esso si presentasse.
L'opera si apre con un coro che è più vicino al mondo del Berchet
e del Manzoni delle odi civili che non a quello di Schiller e che dovrebbe già contenere la vera morale della vicenda: borghigiani e ufficiali francesi, davanti alla reggia di Dom-Remi, dopo essersi scambiate
notizie su Orléans e sulla resa che si prospetta imminente, e aver cosi
portato gli spettatori nel vivo della vicenda con soli sei versi, uniscono
le loro voci in una melodia solenne, sacrale, ma che contiene anche una
vibrazione minacciosa, nell'accenno al castigo divino che attende in tutti
i tempi i trasgressori dei confini e quindi dei diritti altrui:
Maledetti cui spinge rea voglia
Fuor del cerchio che il Nume ha segnato!
Forse un di, rivarcando le soglia,
Piangeranno dell'empio peccato...
Ah! Noi pur desiammo altri lidi,
Ecco Dio che il ricambio ci dà.
(Prologo - l ) .
1 9
Il tema del melodramma è la riconquista del patrio suolo, opera
19
Cfr. Manzoni, Marzo 1821:
Chi v'ha d e t t o che sterile, eterno
Saria il l u t t o dell'itale genti?
Chi v'ha detto che ai nostri lamenti
Saria sordo q u e l D i o che v'udf?
Manzoni pubblicò questa ode solo nel 1848. Data la bellezza concettuale, ritmica e musicale del coro d'apertura della Giovanna è motivo di meraviglia che ad
esso sia mancata la popolarità del coro dei Lombardi o di quello del III atto dell'Ernani.
di giustizia divina, prima ancora che azione di politica e di guerra, che
il Signore appoggia visibilmente attraverso il miracolo; naturalmente richiede agli uomini una collaborazione, che si esplica, per Giovanna, come
sacrificio degli affetti terreni ed anche della vita. L'eroina muore in
pace con se stessa, con il cielo e con la terra; già in Schiller una conclusione del genere esclude la tragedia, che si basa su di una dissonanza
insanabile che si produce tra l'individuo e l'ordine delle cose o nell'intimo dello stesso individuo; nella Jungfrau abbiamo il trionfo dell'idea
etica, nel libretto del Solerà la gloria di chi muore per la patria e per
la fede. La morte di Giovanna ricorda quella di Pagano alla fine dei
Lombardi, e quella di Arrigo nella Battaglia di Legnano: la santa gesta
è compiuta, il sangue versato lava e cancella qualsiasi colpa, qualsiasi
ombra, il trapasso diventa un'apoteosi, per sottolineare la quale basterebbe un coro terrestre; ma nel caso di Giovanna, creatura venuta « di
cielo in terra a miracol mostrare » ai soldati e al popolo s'uniscono gli
Spiriti beati e gli Spiriti infernali.
Schiller aveva giudicato « in hohem Grade riihrend » l'argomento
del suo dramma ; Solerà ha tradotto questa commozione nei termini
più popolareschi e ingenuamente oleografici. In questo senso si capisce
com'egli abbia voluto presentarci la sua eroina non « bassamente innamorata dello straniero Lionello », ma dello stesso Re Carlo; non era
certo un innamoramento dell'ispirata protagonista ciò che poteva sorprendere il pubblico dell'opera, che anzi considerava la vicenda d'amore
e il relativo duetto inscindibili dal concetto stesso di melodramma, e
Verdi stesso sperimentò la forza di questa tradizione nell'accoglienza tutto sommato tiepida che fu fatta nel 1847 al suo Macbeth, che contravveniva a questo canone; ma se un fallo d'amore era perdonabile e in un
certo senso addirittura indispensabile, l'affetto per un nemico del proprio popolo sarebbe parso un'imperdonabile stonatura. L'eroina d'un
melodramma risorgimentale può spasimare per un nemico della propria
famiglia, ma mai per un nemico della patria .
20
21
A l libretto della Giovanna d'Arco s'attaglia bene la definizione di
« favola di un affresco » . Questo affresco presenta 6 quadri, suddivisi
in un prologo e 3 atti. Il primo ci presenta la corte di Re Carlo V I I
a Dom-Remi; il re dice di voler sciogliere tutti dal giuramento di fedeltà
2 2
20
21
22
Lettera a Korner del 28 luglio 1800.
Cfr. U. Rolandi, Il libretto per musica attraverso i secoli, Roma 1951.
G. Bastianelli, L'opera e altri saggi di teoria musicale, Milano 1919, p. 82.
alla sua persona e narra che in sogno gli è apparsa un'immagine della
Vergine che gli ha comandato di deporre ai suoi piedi elmo e brando; il
brano del sogno non appartiene alla peggior letteratura:
trascorrere m'intesi
Ignoto senso per le vene. Un dolce
Sopor quindi mi vinse
E divo sogno all'anima si pinse.
Sotto una quercia parvenu
Posar la fronte mesta
Splendea dipinta Vergine
In mezzo alla foresta
Mosse di là comando
Che, — Sorgi — disse — o Re,
Elmo deponi e brando
Di questa imago al pie.
Il coro interviene avvertendo che là, nelle vicinanze, esiste una immagine della Vergine come quella comparsa nel sogno, ma che il bosco
in cui si trova è fatato, e vi si danno convegno i demoni e le streghe,
non appena il sole è calato.
Nel racconto pieno di terrori e superstizioni dei borghigiani v ' è una
variazione di ritmo tra il 4° e il 5" verso, che in modo abbastanza rozzo
ma indubbiamente efficace rende lo scatenarsi delle sinistre forze d'Averno:
Allor che i flebili — bronzi salutano
Il di che muore
E lento naviga — per l'aere tacito
L'astro d'amore
Nell'orribile foresta
Sempre infuria la tempesta,
Fra l'orror di lampi e tuoni
Là convengono i demoni
etc.
(Prologo - 2).
Re Carlo decide ugualmente di recarsi nella foresta. Questo primo
quadro ci immerge già in un'atmosfera fiabesca: il sogno, l'ingenua fede
nell'evento miracoloso, il terrore superstizioso ispirato dalla cupa foresta. Nulla di tutto questo troviamo in Schiller.
Nel secondo quadro Carlo porta-la spada e l'elmo ai piedi della
immagine; Giovanna che attende proprio quei segni della sua celeste
missione, se ne cinge tutta felice, tra lo stupore estatico di Carlo e la
disperazione del padre Giacomo che, avendo spiato di nascosto la scena,
immagina che la figlia si sia data al demonio per sedurre il re. Nel I I I
quadro (atto I) siamo nel campo inglese; dopo un coro di soldati, parallelo a quello con cui s'era aperto il prologo, compare Giacomo che
piangendo promette di consegnare agli inglesi Giovanna perché espii la
sua presunta colpa sul rogo se gli vien permesso di combattere fra di
loro. Il quadro I V ci conduce a Reims, nel giardino della reggia dove
Giovanna, salutata come salvatrice della patria, sente che la sua missione
è compiuta e vorrebbe ritornare alla sua capanna e alla « fatidica foresta »; ma interviene il re che le professa il suo amore: Giovanna proclama anch'essa il suo sentimento, ma la confessione le è appena sfuggita di bocca che un coro di « voci eteree » ripete a lei sola ( ! ) l'ammonimento che è alla base della sua missione: « Guai se terreno affetto /
Accoglierai nel cor! ».
Ma intanto vien portata la bandiera ch'ella reggerà nella cerimonia
della incoronazione. Questa cerimonia, che inizia nel fasto e nella gloria
e finisce nello sgomento suscitato dalle denunce e dalla maledizione di
Giacomo, occupa il quadro V , che costituisce l'atto I I e corrisponde a
Jungfrau von Orleans, I V , 10 e 1 1 .
La Giovanna di Verdi però, a differenza di quella di Schiller, non
tace, ma fonde la sua voce nel concertato finale; quello che canta è un
discorso ch'ella fa per sé, non è una risposta alle domande del padre;
d'altronde l'opera ha questa possibilità, che i drammaturghi le invidiano,
della espressione simultanea dei più disparati sentimenti. Il silenzio di
un personaggio può essere eloquente in un dramma parlato, ma non ha
senso in un melodramma.
Il V I quadro, che costituisce il I I I e ultimo atto, ci riporta nel campo inglese e ci fa vedere Giovanna in catene, poi liberata dal padre che
sentendola pregare si convince della sua innocenza; ci fa sentire fragor
di battaglia (noi vi assistiamo attraverso le parole di Giacomo); ci presenta l'apoteosi dell'eroina.
Ogni quadro è un ciclo compiuto, ed ha una relativa autonomia da
quello che precede e da quello che segue; l'atteggiamento psicologico
dei personaggi non è mai sufficientemente motivato, e non ha sviluppo,
ma in compenso è estremamente chiaro; quand'essi compaiono in scena
non ci si rivelano a poco a poco attraverso il dialogo, ci si offrono con
quella che è la loro qualità dominante: languidamente malinconico Carlo, fiera e appassionata Giovanna (però più primadonna che inviata del
Cieio), tutto chiuso nella sua cieca ostinazione che rasenta la follia Giacomo, la cui figura è resa accettabile, se non credibile, dal dolore per la
figlia da lui ritenuta una strega; è difficile che una figura paterna non suggerisca ai musicista accenti di elevata commozione, e la realizzazione più
alta della parte di Giacomo è l'aria « Speme al vecchio era una figlia »
( I , 2) intonata poco prima della drammatica pubblica accusa di sacrilegio. Non fosse per questo tratto, tale personaggio ci farebbe l'effetto
d'un demente.
Per amor di semplificazione, è lo stesso Giacomo a condurre tra gli
inglesi Giovanna, mentre nell'opera originale padre Thibaut si limita all'accusa davanti alla cattedrale di Reims e la vergine guerriera, dopo aver
cercato invano rifugio in una capanna di poveri carbonai, viene fatta prigioniera dalla regina Isabeau. Il miracolo delle catene infrante è ridotto
a proporzioni naturalistiche; in genere tutto l'elemento sovrannaturale è
concepito e trattato in modo molto tangibile .
23
Abbastanza abile è stato il Solerà nel ridurre la complessa trama
degli affetti ad un nodo unico: quello dell'amore tra Re Carlo e Giovanna. Naturalmente, senza aver presentato quel contesto da Corte
d'Amore, in cui il debole re, dimentico dei suoi guerreschi doveri s'abbandonava all'immaginazione di un mondo di grazia e di eleganza, dominato dall'arte e dalla eàle Minne (I, 2) e avendo puntato tutto sulla
vicenda militare, il sentimento che sboccia fulmineo tra i due personaggi
ha qualcosa del teatro delle marionette. Tornano quindi opportune le
già citate parole del Gerhartz:
24
Nicht in einer iiber ihre Biihnenexistenz hinausweisenden Glaubwùrdigkeit
und "Wahrscheinlichkeit suchen die Figuren und Situationen der Oper ihre Legitimation, sondern allein in ihrer direkten szenisch-musikalischen Eindrucks- und
Uberzeugungskraf t .
25
Un duetto d'amore è perfettamente logico in un melodramma; il
concetto di grottesco si forma sulla base di un confronto con la realtà
che per l'opera non ha il minimo motivo di sussistere. Molto è lecito
23
La Hausler parla a questo proposito di una tendenza insita nella psicologia
dei popoli latini, per cui anche ciò che è meraviglioso e mistico deve essere concretato in forme captabili dai sensi. Faccio però notare che l'esigenza di concretezza è
insita nell'opera romantica: gli eventi anche i più fantastici devono avere evidenza
e rilievo, parlare all'occhio ancor prima che all'orecchio.
Schiller ci presenta varie vicende d'amore: quelle di Carlo e di Agnès Sorel,
quelle dei pretendenti Dunois e La Hire per Giovanna (per non parlare del pretendente scelto da padre Thibaut, Raimond) e della stessa Giovanna per il capitano inglese Lionel.
Leo Karl Gerhartz, op. cit., p. 306. Il passo è tradotto ivi, p. 16.
3 4
2 5
nel melodramma che non sarebbe lecito al dramma parlato, almeno nella
sua interpretazione tradizionale. Alcune considerazioni merita la scena
ultima della Jungfrau. L'apoteosi è sempre sfruttabile in senso melodrammatico; la concezione classica della tragedia esclude un finale dove
tutti i contrasti vengano composti senza stridori in una superiore armonia. Nell'opera invece la morte è sempre anche trasfigurazione (cfr.
Loschelder, Das Todesproblem in Verdis Schaffen, Colonia 1938). Non
è perciò un caso che il Solerà si sia tenuto molto fedele al testo schilleriano nella trascrizione librettistica. SÌ confrontino le ultime parole della
Jungfrau:
Seht ihr den Regenbogen in der Luft?
Der Himmel òffnet seine goldnen Tore,
Im Chor der Engel steht sie glanzend da,
Sie halt den ewgen Sohn an ihrer Brust,
Die Arme streckt sie làchelnd mir entgegen.
Wie wird mir? — Leichte Wolken heben mich.
Der schwere Panzer wird zum Flugelkleide.
Hinauf — hinauf — die Erde flieht zuriick —
Kurz ist der Schmerz, und ewig ist die Freude!
7 6
con i versi del Solerà, particolarmente alati, e senz'altro migliori di
quelli pesanti e pleonastici della traduzione del Maffei:
S'apre il cielo... Discende la Pia
che parlar mi solea dalla balza...
Mi sorride... Mi addita una via...
2 6
L ' i r i d e n o n vedete? il ciel m i s c hiude
Le sue candide p o r t e . . . Ella risplende
Fra gli angelici cori — Accolto i n seno
T i e n s i il d i v i n o suo F a n c i u l . . . la m a n o
Sorridendo mi p o r g e . . . O h che n'avviene?...
U n a leggera n u g o l a m'innalza...
Il grave acciaro che m i fascia il p e t t o
In alata si cangia eterea v e s t e . . .
In a l t o . . . in a l t o . . . la terra m i s f u g g e . . .
Breve è il dolore, la letizia eterna.
Si notino in particolare i due versi:
Il grave acciaro che m i fascia il p e t t o
in alata si cangia eterea veste
in cui troviamo raddoppiato, in virtù delle aggiunte del traduttore, l'unico versodi Schiller:
D e r schwere Panzer w i r d zum F l u g e l k l e i d e .
Il Solerà scrive invece con felice levità:
Ohi
L'usbergo tramutasi i n
alel
Pare accenni che seco mi vuol.
Ecco!... Nube dorata m'innalza...
Oh! L'usbergo tramutasi in ale!
Addio, terra!... Addio, gloria mortale!
Alto io volo! Già brillo nel sol!
Le immagini sono quelle schilleriane, ridotte a proporzioni popolaresche, ma conservano un loro fascino, e su queste immagini si sviluppa una frase musicale ascendente. Un esempio di quella frase ascendente tipica in Verdi che non ha solo significato descrittivo ma che indica « un ascendere intellettuale a scoprir nuovi mondi, un affannoso
anelito delle anime, una vaga e confusa aspirazione a più nobili ed elevati concetti ». (Cenciarini, op. c i t . ) .
27
27
Una recente edizione della Jungfrau von Orleans messa in scena dal Deutsches Schauspielhaus di Amburgo con la regia di Wilfried Minks e presentata come
Gastspiel a Milano nell'ottobre 1974 sottolinea appunto l'aspetto melodrammatico
del testo, visto come il « più appassionato, il più dinamico, il più audace per
quanto riguarda i mezzi teatrali, il più insolito, il più personale di Schiller. È la
storia di una bambina che vive per un'utopia, e che trova la realizzazione dell'utopia nella morte ». Johanna agisce come una contadina rozza, incolta, semi-invasata,
in fondo anche un po' strega, ma in buona fede; il testo di Schiller è aperto anche
a questa possibilità interpretativa, che pure non era nelle intenzioni dell'autore,
e il regista non ha avuto bisogno di mutarlo. Lo spessore teatrale d'un testo si
misura anche dalle aperture che concede alle operazioni di ricupero e di reinvenzione per gli spettatori non più contemporanei dell'autore.
I MASNADIERI
1. - LA COMPOSIZIONE DEL LIBRETTO E L'APPORTO DI ANDREA MAFFEI ALLA TRASCRIZIONE DEI « RAUBER » SCHILLERIANI.
La scelta, e la traduzione, del titolo di un'opera drammatica è già
spesso indicativa. La traduzione maffeiana di Rauber con Masnadieri
ha soppiantato quella di Briganti del Ferrario (che invece rimase nell'intestazione del libretto dell'opera di Mercadante) ; il termine è classico e, senza risultare eccessivamente aulico e ricercato, ha una dignità
letteraria che il popolaresco « briganti » non possiede.
1
La prefazione del Maffei a questa che è la sua quasi unica fatica
melodrammaturgica è una dichiarazione di ossequio a Schiller da una
parte, e alle esigenze del teatro musicale dall'altra. L'attuazione, mi
sembra, non risulta per nulla in contrasto con queste intenzioni; ragione per cui tale libretto offre più degli altri tre un interessante campo
d'osservazione: esso è infatti il più fedele all'originale schilleriano, nella
forma e soprattutto nello spirito, e nello stesso tempo si adegua in
maniera oserei dire scolastica agli schemi melodrammatici della prima
2
1
I Briganti: Melodramma serio in tre parti di Giacomo Crescini. Musica di
Saverio Mercadante. Rappresentato per la prima volta al San Carlo di Napoli nell'inverno del 1839.
II Maffei aveva scritto nel 1829 il testo di una Scena Lirica, per l'inaugurazione del busto di Vincenzo Monti. Rappresentato nel teatro dell'Accademia dei
Filodrammatici in Milano, con Giuditta Pasta nella parte del Genio dell'Eternità.
Nel 1850 scriverà il libretto del David Riccio, dramma in due atti con prologo.
Musica di Vincenzo Capecelatro. Su invito di Verdi collaborò alla seconda edizione
del Macbeth, intervenendo, ma in modo non sostanziale, sul libretto di Francesco
Maria Piave.
2
I MASNADIERI
49
metà dell' '800. Proprio perché l'attività poetica del classicista Maffei
si era indirizzata del tutto occasionalmente al teatro d'opera, l'autore
non volle apportare innovazioni in un genere che aveva già una sua
fisionomia tradizionale e consacrata, e accettò senza difficoltà le regole
o, se vogliamo, i compromessi che questa comportava. Il testo ha un
decoro e una dignità poetica superiore a molti altri libretti del medesimo periodo, a cui invece è simile per la struttura e l'impianto drammatico. Non si comprendono quindi le obiezioni e imputazioni rivolte
ai Masnadieri del Maffei nella misura in cui tendono a vedere in questo
libretto qualcosa di diverso, in senso decisamente negativo, da tutta la
produzione di quei decenni.
Ancora meno comprensibile è a mio parere la posizione di chi pretende che il libretto sia « letterariamente buono, ma teatralmente mancato » e che Verdi non si sia trovato a suo agio con versi aulici e
ampollosi collocati in un testo poco sintetico e drammatico. Il succo
di tanti giudizi spesso contraddittori ma comunque frettolosi è che il
Maffei non ha saputo fare un'opera teatralmente valida; al massimo, per
i commenti più benevoli, si è dimostrato un decoroso verseggiatore.
3
Eugenio Checchi, ad esempio, scrive:
Il Maffei, cedendo ad un caloroso invito del Maestro, trarrà dai Masnadieri
lo scenario per un libretto, di cui in pochi giorni compose i versi. Decisosi a musicarlo, confessava il Verdi parergli d'essere un pesce fuor d'acqua. La forma soverchiamente letteraria e agghindata inceppava i voli della fantasia abituata alle strofe
un po' volgarucce ma sonanti e armoniose del Solerà e ai ritmi pedestri, non privi
di un certo colorito del Piave. Ond'è che sui versi coloriti del poeta Maffei che
fu caro a Vincenzo Monti il Verdi scrisse una musica raramente ispirata (cfr. Librettisti e libretti di G. Verdi da « La nuova antologia », ottobre 1913, p. 529 e ss.).
Ancor meno comprensibile è l'accusa di « confusione » mossa al
3
Cfr. Gian Luigi Bagatti, Sintesi di tutti i libretti delle opere di Verdi. Cenni
biografici. I librettisti, Parma 1951. Più recentemente, nel « Quaderno dell'Istituto
di Studi Verdiani » dedicato alla Jerusalem (Parma 1963) Giuseppe Pugliese afferma
che i Masnadieri sono « forse il più brutto, certo il più tetro, cupo, monotono,
osceno libretto di Verdi » (p. 10).
Per parte mia accetto solo l'aggettivo osceno e unicamente nel significato latino (obscenus = di malaugurio). Credo di poter spiegare l'avversione implacabile
quasi generale degli studiosi italiani nei confronti di questo testo (i critici di lingua
tedesca, si noti, lo giudicano in termini favorevoli, sia pure parlandone di sfuggita)
con questo argomento: quel che non piace — e non sto qui a discuterne i motivi —
è il dramma di Schiller; dato che il contesto in cui si trovano le critiche non si
presta facilmente ad una disamina letteraria contro il drammaturgo, si incolpa di
tutto il povero librettista.
libretto. Soffermandomi per il momento esclusivamente sul testo, risulta dallo studio del carteggio verdiano che il musicista abbia collaborato poco alla sua stesura, meno comunque di quanto non abbia
fatto per molte altre sue opere. Il libretto fu scritto in effetti in pochi
giorni; Verdi ne dà notizia alla contessa Maffei in una lettera del 3 agosto 1846:
« N o n è chfHcile che egli (Andrea Maffei, n. d. r.) faccia per me
un libretto: I Masnadieri ».
E il 28 settembre scriveva che il Macbeth l'avrebbe composto per
Firenze, e i Masnadieri (evidentemente già pronti come testo) per l'editore Lucca. Il 1846 fu l'anno della separazione tra il cavalier Maffei e
la moglie, l'ispiratrice del famoso salotto risorgimentale. Verdi, amico
di entrambi i coniugi, svolse una parte molto delicata in quella circostanza. Il suo compito fu quello di indurre il conte Andrea ad accettare la separazione, senza che il fatto lasciasse strascichi troppo dolorosi e risentimenti amari negli animi.
Verdi fu tra coloro che più si adoperarono perché quelle due persone, per diversi motivi degnissime di stima e di ammirazione, ma evidentemente non fatte l'uno per l'altra, non mantenessero in modo artificioso e ipocrita un legame per cui ormai l'unica ragion d'essere sarebbe
stata l'ossequio alle convenzioni sociali.
Il carattere franco e leale di Verdi rifuggiva dall'ambiguità e mancanza di chiarezza che si sarebbero instaurate in un rapporto matrimoniale ridotto ad una pura e semplice facciata.
L'idea della composizione del libretto dovette sorgere anche come
diversivo per il Maffei in un momento delicato a causa delle accuse, delle
malignità, dei pettegolezzi che accompagnavano il fallimento ufficiale del
suo matrimonio; l'opinione del mondo della borghesia e aristocrazia progressista milanese era contro di lui, contro il nobile trentino, moderatamente ligio all'Impero asburgico, contro lo studioso, il germanista, il
rappresentante di quella scuola classicista che nel 1846 era quasi sinonimo di disimpegno politico, e quindi di antipatriottismo, mal celato dal
culto per il mondo ideale delle belle forme.
Tornando al libretto, è immaginabile che la sua composizione non
sia costata gran fatica ad un abile verseggiatore della scuola montiana
come il Maffei. Dato che nel periodo della composizione il musicista vedeva con molta regolarità e frequenza il suo occasionale librettista, è probabile che suggerimenti e incitamenti, da parte del primo al secondo,
siano seguiti oralmente; non ne rimane testimonianza scritta, tranne che
per un invito a rimaneggiare il secondo atto, che riusciva per Verdi troppo freddo. In una lettera alla contessa Clara del marzo 1847, da Milano,
il musicista scrive: « Il cavaliere sta perfettamente, ma ognuno tende ai
fatti suoi, vale a dire che fuori delPora di pranzo ci troviamo poco insieme ». Ciò che starebbe a indicare una consuetudine di vita molto più
stretta nei mesi precedenti. Ma v'è anche da dubitare che i suggerimenti
vi siano stati e sian stati numerosi; il rapporto tra il Maestro e il Maffei si differenzia da quello con gli altri librettisti che « furono soltanto
una sorta di segretari, di scrivani, e scrissero, senza naturalmente saperlo,
sotto dettatura » ( G . Baldini, Abitare la battaglia, Milano 1970, p. 1 4 1 ) .
Il Maestro si senti onorato e intimidito per la collaborazione del germanista, e lo lasciò fare. Una cosa però è certa, e non è stata forse debitamente messa in luce dagli studiosi verdiani: il libretto piacque moltissimo al Maestro e ne fa fede una sua affermazione in una lettera al suocero Antonio Barezzi, del 9 novembre 1846: « Le dico che non è mai
stato scritto un più bel libro. Quelli di Romani sono un nulla al confronto. Basti dire che Maffei è il primo verseggiatore italiano e che con
le sue opere si è guadagnato la croce di cavaliere, e, quello che conta di
più, dei gran denari ».
Ne fa fede anche la cifra veramente inusitata (50 napoleoni d'oro)
ch'egli fece pervenire al librettista, con l'aggiunta di un orologio con
catena d'oro, sembrandogli il tutto ben scarso compenso « in confronto
a quello che tu hai fatto per me, ma valgano almeno la volontà e il desiderio di esserti grato ». Il Maffei rifiutò la generosa offerta con una patetica lettera in cui affermava che a un carattere poco facile ma non egoista come il suo la solitudine pesava, che il bisogno d'amicizia era molto
forte, e ch'egli si sarebbe voluto attaccare al Maestro come al più caro,
al più nobile, al più glorioso dei suoi amici. Dunque, al musicista il testo
dei Masnadieri piacque; la scarsa fortuna che arrise a questo melodramma dipese per non minima parte anche dal libretto, come si dimostrerà
più avanti, ma non certo dall'antipatia o dalla freddezza di Verdi nei
confronti di esso.
2. - LA TRUCULENZA NEI « RAUBER » E LE FORZATURE VERBALI NEL
LIBRETTO.
La truculenza e la tetraggine degli eventi che costituiscono la trama
dei Masnadieri compromise il successo dell'I 1" creazione verdiana più di
quanto il pubblico di oggi, abituato a ben altra gradazione di orrore e di
raccapriccio da certe produzioni teatrali e cinematografiche, non riesca
ad immaginare.
È vero che i morti, nel melodramma ottocentesco e in quello verdiano in particolare, si sprecano; per contro il classicista Maffei ha ridotto al minimo quelli della tragedia schilleriana, facendo intuire, ma
non dando didascalie in proposito, il suicidio di Francesco e la fine disperata di Massimiliano Moor; ma la cappa di « tetra criminalità » che grava
su quest'opera non la rendeva particolarmente adatta nell' '800 al pubblico del teatro in musica; un pubblico che, a torto o a ragione, chiedeva alla musica maggior distensione e minore problematicità di quanto
non ne pretendesse dalle rappresentazioni di drammi parlati. In altre parole al teatro d'opera si andava con l'intento maggiormente sottolineato
di divertirsi, di abbandonarsi al godimento dell'istante; elementi tipici
dell'opera, quali il fasto della scenografia, la ricchezza decorativa e coreografica, i cori, le danze, gli intermezzi, stanno a dimostrare questa
esigenza di fondo dello spettatore d'un melodramma, nei confronti dello
spettatore di un dramma recitato, e sono d'altronde un'eredità della concezione edonistica ed aristocratica della musica, quale si era formata nel
'600 e nel 7 0 0 . I Masnadieri del Maffei non sollevavano l'animo in più
spirabil aere; d'altronde lo stesso Schiller s'era ritenuto in dovere di
chiedere scusa ai suoi lettori per aver creato un personaggio come quello
di Franz M o o r ; e Herbert Dalberg, il direttore del Teatro di Mannheim,
dove i Rauber vennero presentati la prima volta nel 1782 davanti ad
un pubblico in delirio, aveva suggerito all'autore alcuni tagli e mutamenti che rendessero più presentabile il detestabile personaggio, anche
a scapito della coerenza psicologica. Iffland, il grande attore che per
primo portò sulle scene Franz Moor, sostenne che l'interprete doveva essere « der notwendige defensor dieser schrecklichen Erscheinung » e che
la sua recitazione doveva mostrare un « Edelmann von Stand, Erziehung
und Bildung ». Insomma l'analisi della propria recitazione in questo
ruolo fatta da Iffland (sulla rivista « Almanach », 1807, ristampata a
Berlino, nel 1 8 1 5 , come Ifflands Theorie der Schauspielkunst fiir ausiibende Schauspieler und Kunstfreunde)
mostra quanto egli si fosse
preoccupato di attenuare la spaventosa impressione che un personaggio
del genere esercita, e ancor più doveva esercitare su un palcoscenico
della fine del '700. Ma che tale interpretazione, che pure fece colpo
4
4
II « mostro che, per buona sorte, non è mai esistito al mondo » secondo
l'affermazione di Schiller stesso, è, senza ombra di equivoco, Franz Moor, e non
Karl, come è stato erroneamente interpretato da F. Abbiati, I, pp. 719-720.
anche sull'autore, il quale non si riprometteva gran che da quella parte,
non cogliesse lo spirito del personaggio, lo notò Goethe, che cosi si
espresse:
Gereicht's dem Teufel zum Vorteil, wenn man ihm Horner und Krallen abfeilt, ja zum Uberfluss ihn etwa englisiert? Dem Auge, das nach Charakter spaht,
erscheint er nunmehr als ein armer Teufel. So gewinnt man auch bei einer solchcr
Behandlung des Franz Moor nur das, dass endlich ein wurdiger Hundsfott fertig
wird, den ein ehrlicher Mann ohne Schande spielen kann. (J. W. Goethe, Werke,
Weimarer Ausgabe, voi. 50, p. 171).
Sappiamo che Schiller aveva recitato le scene del suo dramma, prima che giungesse alle stampe, ai compagni della Carlsschule di Stuttgart,
i quali ne furono trascinati, ma tuttavia consigliarono all'autore di togliere certe espressioni troppo brutali, anche per la sensibilità di quegli
uditori, contenute nelle scene in cui agiva la masnada. Una conoscenza
approfondita del testo di scena della prima rappresentazione dei Rauber
ci rivela inequivocabilmente quanto il segreto dello strepitoso successo
della sera del 13 gennaio 1782 al teatro di Mannheim fosse dovuto al
modo in cui l'autore stesso, il direttore del teatro e gli attori modificarono la potente terribilità e attualità della tragedia trasponendola in
un'epoca lontana, e presentandola in una versione imborghesita e sentimentaleggiante, adatta alla sensibilità di un pubblico settecentesco. La
carica rivoluzionaria si attenua in piatto moralismo, il giudizio di Franz
si compie sulla scena, davanti ai Masnadieri (ma non davanti a Karl, il
quale, con una mitezza che è perlomeno poco coerente con il resto del
suo comportamento, si rifiuta di condannare il « figlio di sua madre »),
Amalia si uccide e quindi evita quest'ultimo delitto all'amato, il quale
rimane glorioso e trionfante in palcoscenico e compie una serie di buone
azioni, come quella di restituire alla società i migliori fra i suoi compagni. Le ultime parole le rivolge al timorato e sentimentale spettatore,
il quale in questo momento può identificarsi rassicurato con il Ràuberhauptmann e dargli un cordiale plauso. Esse suonano cosi:
Auch ich bin ein guter Burger, erfull ich nicht das entsetzliche Gesetz, ehr
ich es nicht, rach ich es nicht? Es ist beschlossen! Ich erinnere mich einen armen
Schelm gesprochen zu haben, als ich herùberkam, der im Taglohn arbeitet, und
eilf lebendige Kinder hat — Man hat 1000 Goldgulden gebothen, wer den grossen
Rauber lebendig liefert, dem Mann kan geholfen werden. Er tuhre mich vor die
Richter — ein Glùklicher mehr — Sonne-Untergang. Ich sterbe gross durch eine
solche That! {Dall'Urtext des Mannheimer Soufflierbuches, edizione del Bibliographisches Institut, Mannheim, p. 135).
3
V . CISOTTI, Schiller
e il melodramma
di
Verdi.
Ineffabile è questo Karl-Moor-Show,
con il protagonista che ritorna
nei ranghi aureolato di gloria; non fosse per i cadaveri del vecchio Moor
e di Amalia, il finale si presenterebbe come la lieta conclusione della parabola del figliol prodigo!
Schiller d'altronde accettò senza eccessive recriminazioni di sottoporre la sua opera a modifiche che erano notevoli travisamenti, purché
giungesse ad essere rappresentata. Ciò a cui tentò di opporsi con più
energia fu il suicidio d'Amalia: dev'essere Karl a ucciderla, perché con
essa egli sopprime l'ultimo bene che potrebbe ancora legarlo alla vita;
cosi pensava, con sicuro intuito drammaturgico, l'autore, ma l'intendente
non credette opportuno ritirare neppure questa variante.
In conclusione, il dramma ottenne un successo memorabile, perché
sapientemente adattato, consenziente o quasi l'autore, ai gusti d'un pubblico che non l'avrebbe accettato nella veste originaria.
Divenendo la base di un melodramma, il rischio che la truculenza
dei fatti rappresentati o narrati disgustasse il pubblico del teatro d'opera
non era da sottovalutare. Il librettista dei Briganti di Mercadante rinarrò la vicenda da un'angolazione più accettabile per quel pubblico:
dato che la parte di Franz era ineliminabile nell'economia del dramma,
il Crescini escogitò una motivazione romantica che spiegasse fin ch'era
possibile l'azione infame contro il fratello e contro il padre: la passione
per Amalia, passione dipinta con i colori più calcati e convenzionali della tavolozza. Siamo davanti ad un Conte di Luna, naturalmente più fosco e più colpevole ma non mostruosamente criminale. Anche il racconto di Massimiliano, ai piedi della torre dove è stato rinchiuso, sorvola sui particolari più sgomentevoli che nel dramma schilleriano, rasentando l'assurdo, hanno proprio lo scopo di dimostrare lo stravolgimento delle leggi di natura e di indicare quindi una soluzione tremenda,
fuori dagli schemi razionali.
Il testo del Maffei riassume invece diligentemente quello di Schiller. In linea di massima va notata l'imperturbabilità del classicista trentino nel ridurre fedelmente a libretto una materia che per il pubblico
della metà dell' '800 doveva apparire orripilante, tanto che il Bagatti, nel
1930, scriveva, in un breve schizzo delle opere di Verdi e della storia
delle loro rappresentazioni:
« Nessuno penserà mai che i
Masnadieri
possano essere oggi rimessi in scena: troppo vuota è la forma del linguaggio musicale, troppo romantica è la leggenda poetica da questo rivestita ». Il giudizio è troppo superficiale per meritare una disamina e
5
anche la profezia sul futuro dell'opera s'è rivelata errata ; le parole qui
riferite hanno il valore di documento di un certo orientamento del gusto delle generazioni passate.
La parte più sacrificata è quella dalla masnada, che qui compare
come coro indifferenziato, come blocco compatto, senza i chiaroscuri, le
gradazioni, i contrasti che sussistono nel mirabile gruppo schilleriano,
formato da individualità ben rilevate, poste fra di loro in un rapporto
che non è meno importante, vario e interessante di quello che le unisce
al capobanda.
Maffei trova una ricca materia di contrasti e di passioni nella vicenda familiare dei Moor per desiderare di ampliare il disegno della tela;
se all'opera si richiede passione, qualunque passione, purché intensa, qui
ve ne è più che in qualsiasi dramma precedentemente musicato da Verdi.
Inoltre il blocco omofono del coro ha una efficacia tutta particolare; si
impone con la linearità e chiarezza della melodia, ripetuta uguale da una
pluralità di voci, per cui acquista una perentorietà e un dinamismo che
mancherebbero alla voce isolata. Le opere del primo Verdi hanno spesso
una matrice corale e la trama dei sentimenti ed affetti individuali si staglia su di un basamento onnipresente, che li determina e li riassorbe.
Il coro ha una funzione di spettatore, giudice, commentatore dell'azione,
soprattutto nelle tre opere concepite su testo del Solerà e musicate prima
dei Masnadieri: il Nabucco, i Lombardi e la Giovanna d'Arco. Anche
nel melodramma del Maffei il coro dei « giovani traviati, poi Masnadieri » è un punto di riferimento costante. Dalla prima all'ultima scena
la sua presenza condiziona la tragedia di Carlo; è una presenza attiva e
incisiva, non un elemento pittoresco di sfondo, come sono i banditi
dell'Emani, ad esempio.
Questo coro compatto non è mai all'unisono con il capobanda, tranne che nella parte finale del I I atto, corrispondente alla fine dell'atto II
dei Rauber:
5
I Masnadieri sono stati ripresi, in Italia: nel 1963 al Maggio Musicale Fiorentino; nel 1968 al Comunale di Firenze; nel 1970 per l'edizione Radio Italiana;
nel 1972 all'Opera di Roma. Gabriele Baldini (nel già citato libro dedicato a Verdi
Abitare la battaglia) dà notizia di una ripresa all'Opera di Vienna. Per l'ottobre
1974 era annunciata una ripresa dei Masnadieri all'Opera di Colonia, come Gastspiel dell'Opera di Roma, che non ebbe poi luogo. Più recentemente ancora, nel
dicembre del 1974, con i Masnadieri s'è inaugurata la stagione lirica del Teatro
Regio di Parma. L'opera riscuote oggi successo e verrebbe probabilmente riproposta più spesso se l'allestimento, per quel che riguarda la parte vocale, non si
presentasse tanto arduo.
Su, fratelli, corriamo alla pugna
come lupi di questa boscaglia!
Trionfar d'una schiava ciurmaglia
ne farà disperato valor.
Nella destra un esercito impugna
chi brandisce la libera spada,
basta un sol della nostra masnada
per la rotta di tutti costor.
Per il resto il rapporto è sostanzialmente antagonistico.
Ciò coincide con lo spirito della tragedia, dove pure tale rapporto
è assai più ricco di articolazioni e di sfumature; raramente la masnada
è un c o r o : in concreto, presenta una gamma stupefacente di caratteri individuali, dagli idealisti ai degenerati, dai pronti a sacrificarsi per
il capitano a quelli che tramano contro la sua vita.
Comunque anche i Rauber schilleriani intonano la loro canzonaccia
(atto I V , scena 5) aspettando il rientro del capitano; Maffei ha trasportato fedelmente nel libretto la sua traduzione di quel polimetro, sopprimendone semplicemente tre strofe. Per questo non comprendo bene perché il Maestro Gavazzeni scriva nelle Annotazioni
per i Masnadieri, pub-
blicate sul programma del Teatro dell'Opera di Roma / Stagione 19721973:
Certo, ove si giudichi secondo nozioni estetiche astratte, sarebbe stupefacente
che un europeista colto come Maffei accedesse a versi simili: " Le rube, gli stupri,
gli incendi, le morti / per noi son trastulli, son meri diporti ". Oppure: " Gli
estremi aneliti d'uccisi padri / le grida, gli ululi, di spose e madri / sono una
musica, sono uno spasso / pel nostro ruvido cuoio di sasso Bastava poco, pur non
essendo poeta primario, per calare altro vocabolario, altre immagini o metafore,
nella necessità metrica. Ma a Verdi occorreva in quel momento un linguaggio canaille, occorrevano ribalderie e sprezzature. Sempre quel nuovo c o r a l i s m o riv o l u z i o n a r i o che il Mittner indica bloccato in Schiller. Inoltre, una sonda
psicanalitica vedrebbe forse in tali forzature ribalde e nel rozzo delirio imagista,
riflesse in parte le turbe psicologiche, le pulsioni del Maffei.
In realtà, se è vero che Verdi aveva bisogno di un linguaggio canaille, è anche vero che quello di Schiller lo è ancora di più e che le
immagini contenute in balgen e huren sono assai meno sfumate e generiche dei termini corrispondenti gli stupri, le morti.
In tema di cori, nell'opera ve n'è uno non previsto nel dramma:
quello interno all'inizio dell'atto I I , cantato, si presume, dai convitati
di Francesco, il giorno in cui costui festeggia, con la morte del padre,
la sua presa di potere.
Godiam, che fugaci / del liso son l'ore
Dal calice ai baci / ne guidi il piacer.
Qui i versi non hanno nulla di c a t t i v o , rientrano nella tradizione, o meglio, nella convenzione dei brindisi da melodramma , ma i
forti accenti ritmici del senario forniscono un valido supporto per una
musica al limite sguaiata, che non ha e non deve aver nulla del brio elegante e signorile di « Libiam nei lieti calici » .
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Una musica che esprime bene l'atmosfera instauratasi al castello dei
Moor subito dopo la presunta morte del vecchio conte, e che condensa
parecchi spunti che nello Schauspiel si trovano disseminati in diverse
scene .
Ma, per rimanere in tema di linguaggio canaille, possiamo leggere
nel libretto espressioni che non ci erano consuete e che ritroveremo in
Boito; in apertura d'opera, alle prime battute del recitativo di C a r l o ci
imbattiamo in una parola, s c h i f o , che la musica contribuisce ad evidenziare; è ben vero che la violenza verbale della protesta anarchica di
Karl Moor è ridotta praticamente a quest'unico termine, ma la sua collocazione e la sua sottolineatura è tale da risultare alquanto traumatizzante per lo spettatore della prima metà dell' '800 . L'aria che segue
ricorda il Pindemonte, e i versi dell'esasperazione contro il padre « Fiere
umane, umane fiere / dure più d'alpestre sasso » si iscrivono molto bene
nella tradizione classicista, dal Tasso al Monti, di cui il Maffei è un fedele continuatore.
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Anche il recitativo di Francesco, atto I, scena 2, contiene alcuni vo
caboli che rompono la compostezza e il decoro dell'eloquio convenzio-
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Cito ad esempio il brindisi del IV atto della Lucrezia Borgia di G. Donizetti:
« Il segreto per esser felici ».
Traviata, atto I.
Rauber, Atto III, scena 1; Atto IV, scene 2 e 3; Atto V, scena 1 (Dialogo
con Moser).
« Quando leggo Plutarco, ho noia e schifo / di questa età d'imbelli ».
I Briganti di Mercadante cominciano quando l'azione dello Schauspiel schilleriano è giunta al III atto. La polemica contro il tintenklechsendes Sàkulum, lo
schlaffes Kastratenjabrhundert (il secolo parolaio) non è neppur lontanamente accennata.
«Oh mio caste! paterno» (Masnadieri, atto I, scena 1).
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naie: « Spiccai da te quell'aborrito / primogenito tuo »... « Spauracchi
egregi / per le fiacche animucce — ... Spacciati del vecchiardo!
È vivo a stento / questo logoro ossame. Un buffo... è spento ».
Qui si nota una ricerca di suoni aspri e secchi, oltre che di immagini atte a suscitare sdegno per il personaggio che le evoca. Asprezza di
suoni e di terminologia che naturalmente corrispondono a passi precisi
dei Rauber, solo che nel libretto sono un fatto episodico, un frammento,
un'eco di un impasto linguistico in cui volgarità e brutalità si mescolano
raggiungendo un alto grado di patetismo.
Fatto episodico, limitato al recitativo; la compagine lessicale riprende le forme convenzionali nelle quartine di ottonari dell'aria « La sua
lampada vitale » e nella cabaletta « Tremate, o miseri, voi mi vedrete ».
Insomma, la forzatura linguistica si avverte nel recitativo, non nell'aria
e nella cabaletta, che pure rielaborano spunti schilleriani . Musicalmente, il recitativo è un incisivo declamato drammatico, che continua
il discorso iniziato nelle brevi battute che fanno da preludio alla scena;
poi il canto si distende in una melodia, cui segue un breve intermezzo
drammatico e l'impennata della cabaletta. Si direbbe che, affidata l'azione
o la proposta dell'azione al recitativo e al breve colloquio FrancescoArminio, l'aria e la cabaletta poeticamente non abbiano altro scopo che
quello di mantenere e prolungare l'impressione suscitata dalle battute
precedenti, e che le parole, tutto sommato convenzionali, siano li a fornire il pretesto per la ricerca di un effetto emotivo che è lasciato come
compito alla musica.
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Per finire il discorso sulle forzature linguistiche, è opportuno confrontare il racconto di Massimiliano (atto I I I , scena 4) « Un ignoto, tre
lune or saranno » con la corrispondente pagina schilleriana (atto I V ,
scena 5 ) : i versi del Maffei narrano un evento atroce con un linguaggio
smorzato, nei Rauber la scelta dei vocaboli e dei costrutti sintattici ha il
compito di indicare lo stravolgimento delle leggi di natura e di provocare nello spettatore un'appassionata adesione al veemente giuramento
di vendetta che conclude il fiammeggiante finale dell'atto I V . Il testo
del Maffei evidenzia il dolore di un padre che è costretto a raccontar cose
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Per «La sua lampada vitale» cfr. Rauber (atto II, scena 1): «Ein Licht
ausgeblasen, das ohnehin nur mit dem letzten Oeltropfen noch wuchert — mehr
ists nicht » (« Qui non sarebbe se non ispegnere un lumicino, il quale va usureggiando con l'eterna gocciola dell'olio »).
Per «Tremate o miseri», cfr. atto II, scena 2: « Nun sollt ihr den nackten
Franz sehen, und euch entsetzen! » (« Vedrete ora chi sono e vi farò raccapriccio! »).
atroci di un figlio, più di quanto non sottolinei l'atrocità del caso inumano in se stesso .
La frase più volgare e perfida Hinab mit dem Balg, er hat genug
gelehtl viene resa con: Gettate laggiù quello spettro] Troppo ei visse!
che ferisce di meno. Del resto, anche nella traduzione diretta dal testo
di Schiller, il Maffei scrive: « Laggiù quello scheletro! H a vissuto abbastanza ». Ma Balg è più forte.
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Le forzature verbali hanno quindi un esatto corrispondente nel testo del dramma e anzi ne rappresentano per lo più un'attenuazione.
3. - I PERSONAGGI.
Il libretto rende assai bene la concentrazione e la stringatezza della
tragedia che, ad onta della sua lunghezza, a differenza dei componimenti
dello Sturm und Drang ha una forma chiusa. A parte la semplificazione
della banda, che compare come coro univoco, il Maffei ha dovuto procedere alla eliminazione di un solo personaggio, di medio interesse:
quello del vecchio servitore Daniel, confluito nella figurazione di Hermann (Arminio); è Arminio, nel libretto, ad ascoltare il racconto del giudizio universale fatto dallo stravolto Francesco. Il lettore del libretto
troverebbe forse strano che le poche battute di Arminio, nella I I scena
del I V atto venissero affidate ad un personaggio non precedentemente
introdotto e caratterizzato.
La piccola incongruenza del ritorno al castello del vassallo che s'era
creduto scoperto nella sua infedeltà dal feroce padrone, non attira l'attenzione più che tanto. D'altra parte, proprio la riduzione della trama
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Nei Briganti il racconto è preannunciato, ma praticamente eluso. Cfr. Parte
II, scena 2 :
' &j
MASSIMILIANO:
Lascia che meco nell'avello io porti
L'orror di tanta colpa a cui n o n reggo.
ERMANO:
N'apri il tuo core, a te supplice il c h i e g g o .
MASSIMILIANO:
D e h ! R i s p a r m i a ch'io racconti
Storia orrenda ed i n a u d i t a
Ch'io riapra una ferita
C h e di sangue stilla ancor.
Va, m i lascia, ad altri serba
La pietà che in sen ti p i o m b a . . .
Presso l'orlo della tomba
N o n h o s p e m e n é timor.
Nella prima versione teatrale dei Rauber di Schiller, le parti più raccapriccianti del racconto sono poste in bocca ad Hermann, che rimane in scena, invece
di fuggire quando si vede scoperto.
allo scheletro e la idealizzazione che comporta una forma di spettacolo,
quale il melodramma, antinaturalistica per eccellenza, permettono al
Maffei di evitare quelle che nel dramma schilleriano, in un ambito realistico, sono da considerarsi, per quanto marginali, veri e propri errori.
Vediamone alcuni.
L'intrigo con cui ha inizio il dramma (la falsificazione della lettera
di Karl da parte di Franz) è assai goffo, e mette in risalto, senza volerlo,
la dabbenaggine del vecchio Massimiliano. Karl riceve regolarmente la
posta, nonostante sia perseguito da un mandato di cattura. Franz, all'inizio del I I atto, dopo aver in un lungo monologo ragionato sul modo
migliore di far morire il padre, formula un piano per la cui esecuzione
necessita di un deus ex machina; chiama immediatamente Hermann, lo
mette a parte del piano che prevede un travestimento, e (nella versione
teatrale) gli consegna seduta stante un pacco contenente tutto il materiale, ivi compresi i documenti falsi, per la messinscena dell'annunzio
della morte di Karl.
Karl, che pur amando appassionatamente Amalia non le ha scritto
neppure un biglietto dopo aver ricevuto la presunta maledizione paterna,
ora eh'è capobanda e ha messo a fuoco e fiamme una città, decide di tornare nella terra natia perché il nome identico dell'amata di Kosinsky, il
giovine che viene a unirsi alla sua banda per sete di vendetta, gliela ha
rievocata: un mezzo suggestivo, ma alquanto meccanico ed estrinseco
per imprimere una svolta decisiva all'azione. Il ritorno al castello paterno sotto mentite spoglie e falso nome, per cui viene riconosciuto solo
dal fratello, anche se un confronto diretto fra i due viene accuratamente
evitato, ha qualcosa di inverosimile; anche i due incontri del sedicente
conte Brand con Amalia, specialmente il secondo, in cui non si fa che
parlare di Karl, e Amalia, confrontando mentalmente l'immagine dell'amato idealizzata nel suo ricordo con quella dello straniero, avverte un
sentimento che la mette in contraddizione con se stessa, sono in fondo
un rallentamento dell'azione, poco credibili sul piano del realismo, accettabili solo nella sfera d'un lirismo sentimentale e patetico ; tutte
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E quindi, nell'accezione comune, melodrammatico. Le esigenze di concentrazione hanno però indotto il Maffei a scorciare le prime quattro scene del IV atto,
evitando che Carlo, giunto e accampatosi con i suoi in un bosco vicino al castello,
si rechi alla dimora paterna e facendogli incontrare nel bosco Amalia, che ha voluto fuggire alle angherie di Francesco (e questo è un tratto felice); il riconoscimento fra i due è molto rapido, sbrigativo e convenzionale, ma ogni indugio, in
quella situazione, sarebbe apparso inverosimile (Parte III, scena 2). Quindi, a
questo librettista non può esser mossa l'accusa d'aver fatto agire uno accanto all'ai-
queste incongruenze sono evitate nella meccanica del libretto. G l i imbrogli di Francesco sono visti nelle conseguenze e non nei particolari
dell'esecuzione, e da ciò viene al personaggio una sorta di idealizzazione
negativa. Certo la malvagità del Franz schilleriano è molto più sfaccettata: noi vediamo nel ràsonnierender Schurke risvolti di grettezza, di
meschinità, di invidia, di volgarità e viltà, anche se la mostruosità dei
suoi crimini gli conferisce un'aura di tragica grandezza; nel libretto la
caratterizzazione negativa assume una forma stereotipa, il personaggio è
fissato nell'atteggiamento di genio del male, precorritore in questo dello
Jago di Arrigo Boito, sinché non subentra all'ultimo atto l'angoscia esistenziale che, come un giudizio divino, ne determina la tragica fine.
Le sue parole si articolano in quartine e cabalette ma l'interesse
per il testo non viene meno; se poniamo all'opera un'esigenza di realismo
resta a vedere se il canto nell'opera romantica non vi contravvenga molto
di più di quanto non faccia il linguaggio patetico degli Jugenddramen
di Schiller .
,5
L'idealizzazione positiva di Carlo porta ad un appiattimento di
questa figura che nel libretto è scialba rispetto a quella del fratello antagonista. Da banditore d'una palingenesi universale da attuarsi attraverso il crimine, diviene l'individuo sofferente e perseguitato dal destino,
l'appassionato amante, il nobile cuore pronto a reagire ad ogni sollecitazione che gli venga da una causa da lui creduta santa e giusta. È insomma il classico tenore ora femminilmente elegiaco, ora virilmente eroico, ora abbattuto, ora infiammato, che si realizza soprattutto nella pas-
tro personaggi che sono stretti parenti e che non si riconoscono se non allo scioglimento del dramma, cosa che vien rimproverata, ad esempio, agli autori dei Lombardi e del Trovatore*
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Ad esempio i criticati e criticabilissimi versi:
Salve, d i m o n ! L'assalgono
dolor, rimorso e d ira;
la disperanza or mescivi,
p o t e n t e , u l t i m a dira;
fenda quel cori N e dissipi
la poca aura vital.
(Atto I, scena 7)
vanno posti a confronto con il testo dei Rauber (atto II, scena 1): « Franz: O so
komme du mir zu Hiilfe, Jammer und du Reu, hollische Eumeniden, grabende
Schlange, die ihren Frass wiederkaut, und ihren eigenen Koth wiederfrisst; ewige
Zerstorerinnen und ewige Schbpferinnen eures Giftes, etc. » (« Francesco: Accorrete tosto a soccorrermi dolore e pentimento, Eumenidi infernali, mortifere serpi
che ruminate il vostro pasto e ringoiate i vostri escrementi! Struggitrici eterne,
eterne rinnovatrici del proprio veleno! etc. »).
sione delle passioni, nell'amore. Ha il suo posto nella galleria degli
Emani e dei Manrico, sempre teso, vibrante e incisivo. Dopo i due fratelli, la figura dello sventurato Massimiliano, loro padre. I Rauber non
sono la tragedia dei fratelli nemici, come a tutta prima, suggestionati
dalle figure di Karl e di Franz, si sarebbe portati a pensare, ma la tragedia di due sbagliati rapporti con la persona che, rappresentando la
famiglia, è anche l'immagine dell'ordine divino su questa terra: con il
padre. L e vicende dei due fratelli sono separate, ciascuno segue la sua
strada e va incontro al suo destino senza sapere dell'altro, cosicché abbiamo una doppia catastrofe; non è un caso che Schiller abbia fin evitato di fare incontrare in scena i due personaggi, pur intuendo come tale
confronto diretto sarebbe stato atteso dagli spettatori .
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Il naturale elemento unificatore delle due distinte tragedie è il personaggio del padre, cui per ciò stesso compete una parte essenziale nell'architettura dell'opera; ma il drammaturgo non ha avuto una mano
felice in questa sua creazione. Egli stesso ne scrisse, in tono ironico, cosi
commentando l'effetto di questo personaggio, nell'interpretazione di J.
G . Kirchhofer, a cui era affidato per la prima rappresentazione: « Der
alte Moor konnte unmòglich gelingen, da er schon von Haus aus durch
den Dichter verdorben ist » . Alcuni appunti, più avanti, parlano di
Massimiliano come di un padre che è « mehr Betschwester als Christ »
e, con riferimento alla sua atroce vicenda, che gli permette comunque di
arrivare vivo sino al V atto, gli attribuiscono « ein gar zahes Froschleben » . Jakob Minor osserva con piena ragione che il vecchio Moor
è diventato la vittima del malvagio Franz anche dal punto di vista artistico. Comunque, anche oltre il caso contingente, quella dell'amor paterno non è una tematica schilleriana mentre è la tematica verdiana per
eccellenza .
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Benno von Wiese, Schiller, Stoccarda 1959, p. 145.
Nat. Ausgabe, voi. 22, Selbstrezension.
Nat. Ausgabe, voi. 22, Selbstrezension, p. 123.
Nat. Ausgabe, voi. 22, Selbstrezension, p. 129.
J. Minor, Schiller, voi. I, Berlino 1890, p. 335.
Sui rapporti negativi di Schiller col proprio padre, che possono avere influenzato la concezione di tanti personaggi, riferisco quanto scrisse il drammaturgo stesso:
« Die Rauber kosteten mir Familie und Vaterland... Man untersagte mir in meinem
Geburtsort bei Strafe der Festung zu schreiben. Mein Entschluss ist bekannt —
ich verschweige das ùbrige, weil ich es in keinem Falle fiir anstandig halte, gegen
denjenigen mich zu wenden, der bis dahin mein Vater war... » (Nat. Ausgabe, voi.
22, pp. 93-94).
Interessanti sono le osservazioni di W. Scherer sull'evoluzione dei rapporti
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Figure di padri compaiono spesso nelle tragedie di Schiller, ma
servono a sottolineare il distacco delle generazioni e a contrapporre, di
solito, la freddezza degli uomini posati, prudenti, razionali e aridi all'entusiasmo, allo slancio, alla generosità, allo spirito di sacrificio, alla
sete di assoluto dei figli. Schiller è dalla parte dei giovani; sono essi a
soccombere, in Kabale und Liebe, in Don Carlos, nella Trilogia del Wallenstein, per gli intrighi e le codarde passioni altrui, e muoiono pieni di
sogni, con il cuore in tumulto, ma incompresi e derisi. F. D e Sanctis nel
Saggio sulle opere drammatiche di F. Schiller del 1850 scrive:
Collocato nel mondo moderno l'ingenuo giovane è visto come straniero, guardato con compassione e disprezzo da quelli che si chiamano uomini. La sua generosità è stravaganza, la sua dignità è superbia, la sua fede è utopia, la sua bontà
è inesperienza. Schiller serbò fino all'ultimo la gioventù del suo cuore, dono prezioso e quasi divino: i suoi giovani sono il riverbero della sua anima.
« Quelli che si chiamano uomini » sono spesso i padri, e rappresentano i limiti, le cattiverie, la grettezza del mondo, finendo, direttamente o indirettamente, per provocare la rovina e la morte dei figli.
Schiller è con i giovani e potrebbe far sua la preghiera posta in bocca al
Marchese di Posa e rivolta alla Regina nel Don Carlos (atto I V , scena 22):
" •':
Dite al mio Carlo
Che non irrida nell'età matura
I suoi giovani sogni, e mai non getti
Al verme sepolcral d'una ragione
Ostentata più saggia i santi fiori
Nati un di dal suo core e che non torca
1
familiari in Germania alla fine del sec. XVIII: « Il XVIII secolo con la sua accentuata disponibilità al sentimento rese più intimo e commosso di quanto mai non
fosse stato anche il rapporto tra i membri della ristretta cerchia familiare. Il rigore
della legge cedette all'inclinazione naturale. L'autorità paterna fu meno dispotica;
i figli persero il timore e ricambiarono l'amore. Tra i fratelli si formarono legami
di tenera amicizia. Ma il cambiamento non fu subitaneo; la durezza del vecchio
rapporto continuò a sussistere accanto al nuovo; il figlio che sperava di trovare
affetto incontrava a volte soltanto rigore, e si ritraeva offeso, e trasformava il suo
sentimento in avversione. Nel conflitto tra Federico il Grande e suo padre la vita
tedesca offriva l'esempio classico dell'asprezza a cui potevano giungere simili contrasti » (W. Scherer, Geschichte der deutschen Literatur, Berlino 1899, p. 605).
I rapporti di Verdi col proprio padre Carlo (morto nel 1867) non rivelano
nulla che faccia pensare ad un conflitto di generazioni. Il fatto che il Maestro accusasse più dolorosamente il colpo della perdita del suo benefattore ed ex suocero
Antonio Barezzi, morto nello stesso anno 1867, è semmai una conferma dell'importanza che l'idea della paternità ebbe nella sua vita.
Dall'impresso cammin se la prudenza
Leva il capo dal fango, e maledice
L'entusiasmo, che del cielo è figlio....
Verdi invece nel rapporto padre-figlio considera soprattutto la parte del padre; non per conservatorismo, ma perché il mito della paternità corrisponde a un bisogno fondamentale dell'animo suo, e le figure
che incarnano questo mito, siano pure carenti sotto altri aspetti, sono
riscattate da un simile sentimento che le pone su un piano diverso da
quello in cui agiscono gli altri personaggi. In Verdi il mito della paternità è tutt'uno col mondo etico: convoglia in sé il concetto di dovere legato ad una gerarchia che prefigura il rapporto ch'egli sente esistente
tra umanità e divinità. Il padre verdiano non è mai figura né scialba né
priva di nobiltà: e cosi avviene anche di questo sventurato Conte di
Moor che, librettisticamente, è il centro dell'intreccio, nel senso che le
azioni che mettono capo ai due figli hanno in lui l'unico reale anello
di congiunzione. La semplificazione e riduzione gli ha recato vantaggio.
Infatti la sua immensa sventura non gli evita, nei Rauber, l'accusa di
dabbenaggine e di cecità.
Ad esempio, quando gli viene portata la falsa notizia della morte
del primogenito, egli si getta su Franz gridando: « Mostro! Mostro! rendimi il mio figliolo! ». A l che il « mostro », respingendolo, gli replica:
« Impotente carcame! Dispera e muori! ».
Dopo qualche istante però, scambiate alcune parole con Amalia,
cosi si rivolge all'orditore dello sciagurato intrigo, che nel frattempo è
uscito e rientrato: « Avvicinati, mio Francesco, e perdonami se poco fa
ti ho duramente respinto; io pure ti perdono ed altro non bramo che di
morire pacificato » (Atto I I , Scena 2 ) .
2 2
La figura del libretto è più composta e più coerente: è « tragicamente patetica » e « come tale vivamente sentita dal musicista, il quale
su di essa ha riversato i più commossi accenti della sua ispirazione » ;
il fatto di voler bene ad entrambi i figli — ed è questo, data la situa2 3
22
DER ALTE MOOR: Scheusal! Scheusal! schaff mir meinen Sohn wieder!
FRANZ: Kraftlose Knochen! Ihr wagt es — sterbt! verzweifelt!
DER ALTE MOOR: Trit her, mein Sohn! Vergib mir, wenn ich vorhin zu hart
gegen dich war!
Ich vergebe dir alles. Ich mòchte so gern im Frieden den Geist aufgeben.
23
G. Roncaglia, Tragicità dei Masnadieri di Verdi, dal « XXV Maggio musicale fiorentino », 1963, p. 24.
zione, un autentico dramma — non gli impedisce di distinguere tra bene
e male. Il fatto d'essere stato ingannato ed essersi lasciato strappare la
maledizione non comporta che egli sia un rimbambito. Il personaggio
querulo e lamentoso dei Rauber ha qui una fisionomia coerente e rilevata
e se la sua parte si riduce ad un lungo martirio, egli dimostra almeno
di poter, con consapevolezza, pali
fortia .
24
Se Verdi antepose la composizione della musica per questo libretto
a quella del Corsaro (tratto da Byron) che musicò assai di malavoglia
subito dopo i Masnadieri, fu perché il soggetto lo ispirava assai di meno;
dal momento che, almeno giudicando dalle trame librettistiche, non si
può negare un'affinità abbastanza stretta tra i due argomenti, giovi rilevare che la differenza determinante consiste nella stretta consanguineità dei tre personaggi maschili dei Masnadieri, che non ha corrispondenza con un altrettanto stretto legame tra le figure del Corsaro. In altre
parole, nel Corsaro manca la figura del padre.
Un progetto che Verdi accarezzò per tutta la sua vita (ne abbiamo
notizia sin dal 1843) e che non realizzò fu quello di tradurre in musica
il Re Lear shakespeariano; anche se il libretto del Somma risale agli anni
1848-1850, non è assurdo pensare che la realizzazione musicale di tanti
personaggi, creati dal 1843 in avanti, contenga almeno i frammenti di
un disegno drammatico concepito per la più grandiosa delle tragedie di
Shakespeare; Massimiliano, stante anche l'analogia parziale della sua
situazione con quella del Duca di Gloucester, potrebbe essere benissimo
fra questi.
L'unica presenza femminile dei Rauber è Amalia, un personaggio
costruito tutto sui libri (Das Màdchen hat zuviel in Klopstock gelesen
scrisse di lei scherzosamente l'Autore stesso), con materiali entusiastici
e sentimentali, accozzati anche malamente fra di loro; è un « pretesto
oggettivo dell'azione », in fondo un peso morto nell'architettura del
dramma; non agisce, non prende iniziative, pensa e parla solo in funzione di Karl; è anche poco femminile, o perlomeno è la tipica figura
di donna quale poteva essere immaginata da un giovane poeta entusiasta che non aveva nessuna esperienza dell'animo femminile.
La sua apparizione è lirica, non drammatica: Amalia commenta
24
Si vedano i versi iniziali di questa parte (I, VI): « Carlo, io muoio, ed,
ahi, lontano / tu mi sei nell'ultim'ore. / Una fredda, ingrata mano / nell'avel mi
comporrà. / Caro è il pianto all'uom che muore / ma per me chi piangerà? ».
Il materiale dei primi quattro versi si trova nei Rauber in bocca ad Amalia,
come se il vecchio non riuscisse (o non osasse) fare quelle sia pur ovvie considerazioni, che contenevano un giudizio sul suo operato e sul carattere di suo figlio Franz.
l'azione con un'effusione anche esagerata di sentimento, ma non la promuove. A m a Carlo ma non può essergli di aiuto, odia Francesco ma non
sa essergli di impedimento nell'esecuzione degli infami intrighi; la sua
passione adorante per Carlo è data come scontata, non viene spiegata:
il personaggio ci si presenta già bell'e formato, senza sviluppo psicologico ; un tipico personaggio da melodramma, « per la logica del
quale — osserva il Castiglioni — è impossibile chiedersi il perché delle
cose: gli amori sono sempre dei coup de joudre inspiegabili, assolutamente mitologici ». Oltre a ciò, l'Amalia schilleriana la troviamo spesso in scena con il liuto o col clavicembalo .
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È significativo che l'ultima sua battuta, prima di venir pugnalata
dall'amante sia: « Didone, tu m'insegna a morire » (Amalia: Nun denn,
so lehre mich Dido sterben!). E Carlo la uccide, non per amore, ma per
orgoglio: « L'amante del Moor deve morire solo per mano del Moor »
(Rauber Moor: Moors Geliebte soli nur durch Moor sterben!).
Il librettista ha sfruttato con molta sobrietà la dimensione già melodrammatica di questo personaggio. I suoi interventi rallentano l'azione
molto meno che nel dramma originario. Maffei ha corrisposto in pieno
all'esigenza di stringatezza che Verdi poneva come conditio sine qua
non ai suoi librettisti .
Partendo dalla considerazione del testo originale, non vedo in che
cosa consistano le concessioni che, contrariamente al suo solito, egli
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L. Mazzucchetti (op. cit.): « Un tipico prodotto della Karlschule in cui le
donne entravano prima di divenire interessanti e quando avevano finito di esserlo ».
Amore e Raggiro tra Schiller e Verdi, in « Ricordiana », n. 9, Milano 1956.
Atto II, scena 2, Canto di Ettore e Andromaca, ripreso all'atto IV, scena 4.
Cfr. atto III, scena 1: « Schòn wie Engel, voli Walhalla's Wonne » (Fu bello al
par degli angeli). Quest'aria, opportunamente condensata, è divenuta nel libretto
la Cavatina (I, 6): « Lo sguardo avea degli angeli».
La brevità, la stringatezza, il « genere alla Tacito » preteso da Verdi sono
un'ossessione per i librettisti e un tema ricorrente nelle lettere del Maestro. Tra
gli infiniti passi, ne scelgo qualcuno dalle lettere scritte al Piave mentre quest'ultimo stava preparando la Forza del Bestino: «Troppo lungo tutto il recitativo della
II scena. Si potrebbe e si dovrebbe dire tutto con uno stile più poetico e con metà
di quei versi... Lo stile vuol più stringata la Poesia e deve dire tutto quel che dice
la prosa con metà di parole: finora tu non lo fai ». E poi: « Anche nel duetto
antecedente vi è un punto assai importante e drammatico che resta slavato per
troppa abbondanza di parole». « ...Tu poeta [par di sentire l'intonazione beffarda],
dovresti dire ancora di più con meno parole... Vi sono molte parole inutili, buttate là per far sillaba o per far rima ». Qualcosa di alfieriano è certamente presente
in questa concezione del dramma. È inevitabile ricordare la gioia quasi infantile
con cui l'Alfieri annunciava di aver accorciato di 1000 versi il suo Filippo*.
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avrebbe fatto all'interprete di Amalia, il famoso « usignolo svedese »
Jenny Lind, la stella più fulgida del formidabile quartetto di voci di
cui il musicista potè avvalersi per la prima londinese dell'opera. Le
quattro parti sono molto ben calibrate, quella di Amalia non pretende
per sé una lunghezza maggiore delle altre, di suo ha due arie, per il
resto è sempre impegnata con gli altri personaggi; l'aria « L o sguardo
avea degli angeli » e la cabaletta « Carlo vive! oh caro accento » sono
molto gorgheggiate, ma a parte che il gorgheggio anche nelle opere
cosiddette minori di Verdi non ha mai un valore puramente edonistico,
bensì anche una funzionalità drammatica, non è immaginabile per l'Amalia di estrazione schilleriana una linea di canto simile a quella della Lady
Macbeth dell'opera che precede immediatamente i Masnadieri nell'elenco delle creazioni verdiane. Trilli e fioriture peraltro si addicono alla
proiezione musicale di una Schwàrmerin, che nella tragedia originaria
è priva di una vera sostanza drammatica.
D'altronde si legge nella Gazzetta Musicale di Milano che il pubblico di Londra era dispiaciuto che fosse stata data cosi poca parte
alla Lind, che avrebbe potuto ben diversamente dare la misura delle
sue capacità con un'altra partitura.
4. - IL TAGLIO DELLE SCENE NEI « MASNADIERI ».
Maffei conserva i movimenti drammatici essenziali, operando una
sapiente riduzione e un adattamento agli schemi normali del dramma in
musica. I due antagonisti, Carlo e Francesco, si presentano in due scene
riempiendole di sé con recitativo, aria e cabaletta; e siamo nella più
perfetta convenzione. Oltre a tutto, il recitativo è di tipo metastasiano:
breve (Verdi scriveva nel 1843, al Brenna, della Fenice di Venezia, del
libretto d e l l ' E r a r i : « Chi sarà quel maestro che potrà mettere in musica senza seccare 100 versi di recitativo come in questo terz'atto?
... Tante volte un recitativo troppo lungo, una frase, una sentenza che
sarebbero bellissime in un libro e anche in un dramma recitato, fan
ridere in un dramma cantato »), ma composto di endecasillabi sciolti,
tranne gli ultimi due che con la rima suggellano il discorso espositivo e
creano già l'aspettativa del discorso melodico dell'aria, in cui la voce
cantante è sorretta da tutti gli strumenti dell'orchestra. Ma la presentazione di questi due capitali personaggi, i motori della duplice tragedia, non è puramente espositiva: lo sviluppo delle due azioni inizia e
raggiunge un primo culmine proprio nelle scene d'apertura.
Abbiamo due esempi notevoli di quelle che M . Mila chiama « dialogizzazione dell'aria » , perché ad uno schema statico A B A si sostituisce lo schema dinamico A B , in cui la svolta tra la sezione A e la
sezione B viene determinata da un intervento dall'esterno di cui è portatore un coro o un altro personaggio. Quest'ultimo intervento determina una situazione nuova, e quindi il progresso dell'azione; la sezione B
è un commento emotivo, un'effusione lirica, un'esplosione passionale a
seguito di ciò che è stato detto o fatto nell'intermezzo dialogato.
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Nella I scena dei Masnadieri il dialogo è tra Carlo e il coro che
gli reca la lettera (« Ecco un foglio a te diretto »...) da cui con aberrante decisione egli farà dipendere irrevocabilmente tutto il suo destino.
Dall'idillio dell'« O h mio Castel paterno » (andante cantabile) si passa
all'invettiva sdegnata « Fiere umane, umane fiere / dure più d'alpestre
sasso ».
A questo punto il coro si fa « motore di azione » e assurge al ruolo
di protagonista enunciando, in risposta all'esasperata e disperata enfasi
della frase « O v ' è la spada / che dà morte a tai serpenti? » la concreta
e fatale proposta: « Noi l'abbiam. Ti calma e senti: / Comporremo una
masnada ».
L'esitazione (ma è poi un'esitazione?) di Carlo (« Ladri noi? Chi
v'ha piovuto / Spirti iniqui un tal pensiero? » è vinta dall'altra e conclusiva proposta:
« E tu capo e condottiero ».
A questo punto la sezione B dell'aria, in forma di cabaletta « Nell'argilla maledetta / L'ira mia quei ferri immerga, ecc. » diviene una
necessità drammatica: sarebbe assurdo volervi vedere solo un'occasione
perché uno squillante tenore eroico sfoggi la potenza delle sue risorse
vocali. Che il coro si unisca alla voce solista è un modo direi tangibile,
fisico per suggellare il patto e la costituzione della banda.
L'oratoria infiammata, il pathos esasperato di Karl Moor nella I I
scena del I atto, si è tradotta naturalmente, con il medium di quei
versi, negli squilli delle voci e degli strumenti.
Nella scena successiva Francesco ci si presenta con recitativo, aria
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Massimo Mila, La dialogizzazione dell'aria nelle opere giovanili di Verdi, in
« Atti del I congresso internazionale di studi verdiani », Parma 1969. L'autore fa
notare che, benché gli interessi di Verdi non fossero di natura precisamente erudita, e poco o punto il musicista si preoccupasse di far risorgere l'antica tragedia
greca, « nella elaborazione di questa tecnica dell'aria doppia con estesa sutura centrale, egli richiama in vita la pratica dei kommoi, ossia di quei passi della tragedia
dove l'attore dialogava a lungo col coro ».
e cabaletta, che riassumono i motivi centrali di tre monologhi di Franz:
rispettivamente dell'atto I, scena 1, dell'atto I I , scena 1 e scena 2.
Schematizzando si può dire che nel recitativo si narrano gli antefatti, nell'aria si enunciano propositi per il presente, nella cabaletta
esplode la perfida gioia di chi vede la realizzazione dei propri piani a
breve scadenza. Insomma, il passato, il presente il futuro di un intrigo
delittuoso che deve portare il cadetto di Casa Moor a sbarazzarsi del
fratello e del padre e a diventare signore assoluto.
La cesura (o sutura) drammatica è data dalla convocazione di Arminio; questi non è il solito confidente la cui presenza serve unicamente
come pretesto al canto (o alla tirata) del personaggio più importante:
è lo strumento (non del tutto docile, peraltro), il complice dei disegni
del suo padrone; quand'egli esce, il piano è passato dalla fase dell'ideazione a quella dell'esecuzione e Francesco può « precorrere l'evento » e
cantar vittoria.
Anche in questo caso la cabaletta è sufficientemente motivata sia
dal punto di vista letterario, sia da quello musicale. Intanto sono stati
delineati, in maniera senza dubbio sommaria, ma anche molto chiara,
gli elementi traenti dell'azione: la banda e i due fratelli Moor.
Ora vengono presentate le due figure passive, le vittime: Massimiliano e Amalia. La scena (I, 3) ha una precisa corrispondenza nel
testo schilleriano (II, 2).
I personaggi sono particolarmente lirici: non fanno ragionamenti,
non prendono decisioni: vivono nel ricordo e nella nostalgia. Davanti
al vecchio addormentato, Amalia rievoca i tempi felici della presenza
di Carlo nell'aria
Lo sguardo avea degli angeli
che Dio creò d'un riso...
che è la versione scorciata dell'ode di intonazione klopstockiana:
Fu bello al par d'un angelo
del riso eterno di Valalla impresso!
(Atto III, 1).
Nel libretto il Maffei ha evitato almeno la contaminazione tra cristianesimo e paganesimo germanico. La situazione non comporta una
cabaletta, che infatti non esiste; l'aria non si inserisce in un tessuto
narrativo, è un vagheggiamento pieno di grazia e di malinconia di tempi
felici irrevocabilmente trascorsi. Massimiliano si scuote dal sonno e dal
sogno, e intreccia con la nipote un canto doloroso, fatto di rimorso, di
nostalgia per il figlio lontano, di amarezza per il figlio vicino, di presentimento di morte; la scena è molto breve, ma riesce a farci apprezzare il personaggio più di tutte le geremiadi del testo originale .
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È una scena in cui i personaggi si abbandonano al flusso delle loro
emozioni e, pur rivolgendosi l'uno all'altro, rimangono chiusi nel cerchio dei propri sentimenti: il dialogo è apparente, siamo davanti a una
tipica situazione da melodramma. Entra Francesco con il « messaggero
di triste novella » che è Arminio travestito. L'azione legata a Francesco
raggiunge il suo culmine con lo schianto del padre, che cade a terra
come morto, la costernazione di Amalia che si precipita fuori dalla stanza, e l'esultanza del figlio inumano che, rimasto anche fisicamente padrone del campo, esclama: « Morto? Signor son io! ». Espressione che
nella sua arida concisione e per la sua collocazione alla fine del quartetto
scolpisce il carattere di Francesco e lo fissa in un gesto di sgomentevole
crudeltà e di truce dominio, meglio di qualsiasi monologo o racconto di
terzi.
Qui le strutture dell'opera in musica e il suo carattere antinaturalistico hanno permesso una pregnanza, una efficacia teatrale che rimane
preclusa al testo schilleriano.
Nel dramma questa scena del falso annunzio si presta ad una trasposizione del tipo di quella pretesa dall'opera: l'unico personaggio che
espone e, sino a un certo punto, dialogizza, perché risponde alle domande che gli vengono fatte, è Hermann, che sta recitando una parte;
gli altri si abbandonano ai loro sentimenti e ognuno fa parte per sé: le
esclamazioni, i lamenti, le recriminazioni, le espressioni usate per far
aumentare la passione dolorosa oltre i limiti della sopportazione non si
ordinano in un contesto razionale come quello d'una discussione; sono
già, in potenza, un « quartetto ».
Ritornando ai Masnadieri v'è da sottolineare come l'importanza
del finale del I atto sia una tradizione dell'opera buffa; in esso, come
attesta Lorenzo da Ponte, devono apparire sulla scena tutti i cantanti,
« e fossero anche 300 »; e se l'intreccio non lo permette, il poeta deve
riuscirci in qualche modo « a discapito dell'intelligenza, della ragione e
di tutte le aristotelerie di questo mondo ».
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Anche nei Rauber (II, 2) il dialogo tra il vecchio Moor e Amalia è pervaso
di lirismo e tende a stemperarsi in musica: termina in effetti con l'invocazione alla
musica, dopo di che Amalia siede al clavicembalo e canta l'Addio di Ettore ed
Andromaca.
Qui è ricreata questa situazione: al quartetto manca Carlo, ma è
sostituito con verosimiglianza da una persona [un altro tenore] che porta la notizia della sua morte; l'azione è per cosi dire condizionata da
lui, che ne è il costante punto di riferimento. Questa scena è una tragedia nella tragedia, riproduce nella forma più concentrata l'intelaiatura
base di ogni dramma: esposizione - svolgimento - soluzione.
L o spettatore che ha davanti all'occhio l'immagine di Massimiliano
venuto meno per il dolore e nell'orecchio la frase di Francesco: « morto?
Signor son io! » che aveva suggellato l'atto precedente, trova perfettamente naturale d'essere lasciato ancora per un po' all'oscuro sulla sorte
di Carlo e di trovarsi, alla nuova apertura del velario, nel « recinto attiguo alla chiesa del Castello », dove Amalia sta genuflessa innanzi al sepolcro dello zio.
Abbiamo qui un altro esempio di aria dialogizzata, fatto sottolineato dalla presenza di un coro interno di banchettanti che sembra rivolgersi proprio ad A m a l i a per cui il recitativo è animato da una
sorta di contrasto a distanza, e costituisce un anticipo del successivo
duetto con Francesco. L'aria propriamente detta è un sospiro alla pace
della tomba, oltre la quale sarà possibile ricongiungersi alle persone
amate; è come se la donna entrasse in un trasognato colloquio con Carlo
e Massimiliano. Poi interviene l'elemento nuovo perturbatore, che determina una svolta nel corso dei pensieri e delle emozioni: Arminio
sconvolto avverte con brevissime, concitate parole che Carlo e il Conte
sono vivi; indi fugge senza aver dato ulteriori spiegazioni.
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Dopo un attimo di smarrimento, Amalia intona la spigliata cabaletta: « Carlo vive! O h caro accento! » un pezzo di bravura senza dubbio, anche se d'un virtuosismo tendente al drammatico e che ha perciò una giustificazione psicologica, benché nei Rauber manchi il passo
corrispondente .
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Cfr. la strofa: « Lasciamo i lamenti / Di stupido rito / Plorar sugli spenti /
È folle dolor » (atto II, scena 1 ).
« Tripudia, esulta, iniquo / Sull'ossa di tuo padre! Ah ma la pace / Che
nella vita gli rapisti, in morte / Funestar non gli puoi! No! Non penetra / L'esecrata tua voce in quella pietra! » (ibidem).
Cfr. G. Gavazzeni nelle già citate Annotazioni per i Masnadieri, p. 7.
Nei Rauber, III, 1, Amalia ripete, dopo esser rimasta impietrita, « Carlo
vive? ». Avviene una sostituzione di interesse. Lo spettatore (anche quello dell'opera) vorrebbe veder chiarito il mistero sulla sorte di Massimiliano, dato che
sulla sorte di Karl ne sa quanto basta; Amalia, dopo un istante di smarrimento,
deve ritenere completamente assurda la notizia che riguarda suo zio (e a maggior
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È questo un esempio di come il testo d'un melodramma non sia
una semplice abbreviazione dell'originale, anche nel caso in cui, come
in questo, gli sia molto fedele; in qualche punto la situazione può richiedere un ampliamento. La musica si assume il compito di fissare
un'emozione e di prolungarla (le ripetizioni acquistano significato solo
partendo da questa considerazione). Nel dramma parlato ogni elemento
dovrebbe tendere senza indugi allo scioglimento, ogni parte dovrebbe
risultare dalla connessione con ciò che precede e ciò che segue; nel melodramma l'azione tende a creare quelle situazioni che permettono l'espressione di un sentimento, l'esalazione di uno stato d'animo. I l perdurare della tradizione per cui l'opera è « eine Folge von Momentaufnahmen, also bestimmten und voneinander in Intention und Zusammenhang unabhangigen Nummern » è visibile qui, come anche nella
scena 4 dell'atto I V .
L'interesse si concentra qui non più sui momenti successivi dell'azione, che pure incalzano, ma sui punti di rallentamento, anzi, statici,
presi per sé e isolati. Il « numero » è qualcosa di concluso, che ha il
suo fine in se stesso.
Il duetto con Francesco è molto convenzionale, come testo; coincide quasi esattamente con Rauber I I I , 1, senza l'esasperazione realistica della gestualità e del linguaggio. Più che altro, nella prima parte,
Francesco si comporta come un pretendente, sfortunato si, ma innamorato, alla mano di Amalia, e sembra quasi che la musica conferisca un
accento di sincerità alla sua proposta.
Testo e canto seguono un cliché tradizionale e non considerano
l'improbabilità d'un sentimento d'amore, sia pur dettato dall'orgoglio,
in un personaggio che s'è già fatto conoscere abbastanza.
La seconda parte dell'atto I I ci rappresenta la masnada. In questo
finale il librettista ha condensato, scorciandoli enormemente, due momenti ben distinti dell'originale: gli avvenimenti della selva boema ( I I ,
2) e quelli nei dintorni del Danubio ( I I I , 2). Culmina qui la parabola
di Carlo in quanto Ràuberhauptmann,
e s'inizia la fase discendente.
Dopo lo scoppio della polveriera che semina distruzione e morte nella
città di Praga, impresa che viene descritta da un coro dialogato, ricompare Carlo in uno stato d'animo commosso e tutt'altro che trionfale;
la crisi morale comincia a manifestarsi, e gli ripresenta l'immagine della
ragione l'Amalia verdiana, che canta davanti a quella tomba) mentre si aggrappa
all'annuncio che le risulta meno incredibile (cfr. Benno von Wiese, Schiller, cit.,
p. 153).
perduta innocenza nella nostalgia, resa pili struggente dal rimorso, del
« castello natio » e della « cara vergine innocente ».
In verità è proprio della musica dare espressione a stati d'animo
cosi densi, perché la musica olire i mezzi per evocazioni, combinazioni
e associazioni di cui la parola non cantata non può disporre.
Il recitativo ed aria di Carlo « Come splendido e bello il sol tramonta » « D i ladroni attorniato » introducono un momento di stasi,
che è poi solo apparente, perché ci presenta la crisi psicologica che determina la decisione di tornare indietro, per un recupero ormai impossibile del passato. È significativo che questa scena non termini con una
cabaletta; quando la banda ritorna in scena annunciando d'essere accerchiata, il capitano, che ha già preso psicologicamente la distanza da essa,
si affretta a riassumere il comando e confonde la sua voce con quella
dei compagni ( I I , 7: « Su fratelli, corriamo alla pugna / Come lupi di
questa boscaglia »).
Il senso di questo coro (cfr. specialmente i versi: « Nella destra
un esercito impugna / Chi brandisce la libera spada ») riecheggia alla
lontana i concetti espressi nell'infiammato contrasto tra Carlo e il Padre
Cappuccino che, dopo l'incendio di Praga e prima dell'attacco, va a
presentare la proposta di una resa e poi cerca, senza riuscirvi, di indurre la masnada a tradire il capitano. Quel colloquio e quella lotta
rappresentano davvero l'acme, il fortissimo, del Raubertum di Carlo.
Ma a Verdi il tema del banditismo eroico interessava poco e d'altronde
questa tematica nel nostro Romanticismo è tutta d'importazione; il
fuorilegge in quanto tale non è sentito come un degno rappresentante
dell'umanità; la sua rappresentazione ha sempre dei limiti, che sono
quelli posti dal senso morale e anche dal buon senso popolare. Sempreché, naturalmente, il banditismo e la pirateria non siano accessori, siano
dati come presupposti di una figura che poi agisce secondo tutt'altri
schemi, come neW Emani dello stesso Verdi o nel Pirata di Bellini.
Nella mancanza di materiale documentario (cioè delle lettere di
Verdi al M a f f e i ) si può avanzare l'ipotesi che la freddezza riscontrata
dal compositore in questo I I atto del libretto dipenda dalla parte che
vi ha il Rauber tum in quanto Rauber tum; forse (ripeto che non posso
suffragare neppure con un documento questa mia osservazione) Maffei
aveva verseggiato lo scontro con il Cappuccino, ma Verdi preferi tagliar
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Che andarono distrutte a Villa Lutti durante la I guerra mondiale. Cfr. G.
Barblan, Storia di una cantata non scritta..., in «La Scala», III, Milano 1953.
corto con un argomento che sentiva estraneo al suo mondo morale e
alla sua fantasia. Non gli interessava tanto raffigurare Carlo nella terribile e fosca luce della sua funzione, quanto di scuotere l'immaginazione
dello spettatore con la raffigurazione degli anelli della fatale catena da
cui il masnadiero non riuscirà a liberarsi, se non a prezzo d'un sangue
innocente, nonché della sua stessa vita.
Il coro che conclude l'atto non è particolarmente ispirato, e non
divenne popolare, ad onta dei versi che potevano essere facilmente interpretati in chiave patriottica.
Il I I I atto corrisponde al I V dei Rauber. L'inizio dell'atto schilleriano che vede Karl nella terra dei suoi padri abbandonarsi al flusso
dei ricordi e allo strazio dei rimorsi ( I V , 1) avrebbe costituito una situazione ideale per il melodramma , ma nel libretto non ne rimane
nulla; la suggestione del ricordo e il dolore del rimorso erano stati
espressi nell'aria alla fine dell'atto I I , per cui il librettista e il musicista,
desiderosi di mantenere un certo ritmo all'azione, non si concedono
questo momento di stasi. Siamo già nel bosco nelle vicinanze del Castello, dove sorgono sinistri ruderi; là arriva Amalia « sfuggita agli artigli dell'empio » e quasi contemporaneamente la masnada. L'incontro tra
Amalia e Carlo ( I I I , 2) che si fa subito riconoscere, ha l'effetto di ragguagliare quest'ultimo sulla morte del padre e sulla ... poca raccomandabilità del fratello. Questi pochi v e r s i , gli unici veramente funzionali
alla struttura del dramma, si trovano nella posizione di sutura tra la
prima e la seconda parte del duetto (l'una corrispondente all'aria, la
melodia cantabile, e l'altra alla cabaletta, l'allegro) che peraltro si adatta
bene allo schema usuale dei duetti d'amore e suona quindi, letterariamente e musicalmente, alquanto convenzionale.
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Questa scena comunque riassume tutte quelle dell'atto I V dei Rauber, che si svolgono dentro il castello dove Karl si è fatto introdurre
con il nome di Conte Brand, e da cui esce senza che l'azione abbia fatto
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Cosi pensa a ragione Osborne, The Complete Operas of Verdi, London 1969.
Il Crescini non si era lasciato sfuggire l'occasione, e la parte di Carlo (che nei
Briganti è chiamato Ermano) inizia proprio col ritorno al castello paterno (II, 1).
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Masnadieri, III, 2:
AMALIA
M'odi, Carlo; t u o p a d r e s e p o l t o . . .
CARLO:
A qual p i a n t o , a q u a l o n t a fu tolto!
AMALIA
M'ha Francesco, il n o v e l l o Signore,
minacciato la vita e l'onore.
CARLO :
A h perverso!
veramente un passo avanti: Karl è infatti deciso a ripartire con la banda
il mattino dopo.
Nei Masnadieri al duetto segue il coro « Le rube, gli incendi, gli
stupri, le morti ». A l rientro in scena di Carlo, deciso a vegliare per
quella notte, la banda si dispone a dormire.
Il monologo « W e r mir Biirge wàre? » è ridotto a poche linee di
recitativo, che svolgono una funzione precisa nell'economia del melodramma: bisogna dare il tempo ai masnadieri di addormentarsi. In questo recitativo v ' è qualcosa che arieggia il monologo del Macbeth verdiano (anteriore di un anno solamente): « M i si affaccia un pugnai!
L'elsa a me volta! » (I, 6). Il fatto che non sia stato curato dal musicista come il passo dell'opera precedente potrebbe dipendere dalla situazione a cui i due pezzi mettono capo: dopo la visione onirica del
pugnale, Macbeth entra nella stanza di Duncano e commette il delitto;
dopo aver ragionato sul suicidio Carlo getta via la pistola esclamando:
« A h no! Soffrire io voglio! / Dee sul dolore trionfar l'orgoglio! » (quindi, per quel che riguarda l'azione teatrale, il monologo porta ad un nulla
di fatto).
Con la parte finale del I I I atto l'azione entra in una dimensione
religiosa, e la fantasia del musicista si riscalda. Ricompare la figura del
vecchio Massimiliano, cavato fuori dalla sua fossa: il racconto delle
pene da lui sofferte è scandito in quartine di decasillabi, versi estremamente orecchiabili, da ode popolare.
I l tono è quello di una fosca ballata; il ritmo marcato, data la
posizione fissa degli accenti, sembra sottolineare le tappe dell'incredibile martirio.
Il lamentoso commento dell'orchestra indica che la corda che il
musicista ha voluto far vibrare con più veemenza è quella della angosciata pietà, non quella dell'orrore e del raccapriccio: a Verdi interessa
di più Massimiliano, Schiller bada maggiormente all'effetto dirompente
che certe rivelazioni devono fare sull'animo di Karl Moor. Quest'effetto naturalmente opera anche sull'animo del personaggio del melodramma e la tempesta orchestrale che conclude questo atto (e che conserva un'eco del grandioso coro finale del I atto del Macbeth) si adegua
alla veemenza estrema di sentimenti che una situazione simile scatena
e che nei Rauber si traduce in un linguaggio incandescente, lavico, dove
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« Un ignoto, due lune or saranno » (III, 6).
le parole e le immagini si accumulano, si incalzano, si urtano l'una con
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l'altra, e impediscono quasi l'organizzazione logica del discorso .
Il Maffei riconduce quel magma di imprecazioni e di sdegno a tre
concetti principali, o meglio, a tre ordini che il Capitano rivolge alla
sua masnada e che questa ripete in coro:
Giuri ognun questo canuto
santo crin di vendicar!
Di qui trarmi il parricida
dal banchetto o dall'altari
Di serbarlo al ferro mio
vivo! intatto! CORO: LO giuriam!
Struggitrice ira di Dio
la tua spada oggi noi siam.
Questa sobrietà serve alla chiarezza, all'intelligenza inequivocabile
della situazione durante l'esecuzione musicale; e poi fornisce lo spunto
per una vigorosa espressione, dove non mancano gli accenti di un'infiammata religiosità, di sicuro effetto, capace di suscitare nello spettatore
del teatro d'opera la stessa emozione che il torrente di parole di Karl
Moor suscita nello spettatore del teatro di p r o s a .
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L'ultimo atto (il I V ) è tagliato esattamente come il V dei Rauber:
nella prima parte si consuma la tragedia di Francesco, nella I I quella
di Carlo che coinvolge anche Massimiliano e Amalia. Quando Francesco si precipita in scena stravolto, siamo davanti ad un uomo già giudicato, che non ispira odio, ma sgomento: giudicato da un tribunale
molto più alto di quello del fratello, dalla propria coscienza che gli ha
presentato il sogno del giudizio universale e che gli parlerà per bocca
del pastore Moser. Il racconto del sogno e il breve duetto con Moser
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Cfr. Rauber, atto IV, scena 5:
KARL: Nein, nicht erschlagen! Das Wort ist Beschbnigung!
— Der Sohn hat den Vater tausendmal geradert, gespiesst, gefoltert, geschunden! Die Worte sind mir zu menschlich — worùber die Siinde roth wird, woriiber
der Kannibale schaudert, worauf seit Aeonen kein Teufel gekommen ist. Der Sohn
hat seinen Vater — seht her, seht her! er ist in Unmacht gesunken — in diesem
Thurm hat der Sohn seinen Vater — Frost, — Blòse, — Hunger, — Durst — oh
seht doch, seht doch! — es ist mein eigner Vater, ich wills nur gestehn.
Questo coro, osserva il Roncaglia, sembra animato da spiriti patriottici, ben
più di quello finale del II atto... « In fondo, per Verdi padre e patria sono due
amori ugualmente alti, due beni che non possono essere difesi se non con ardore
eroico di cuore e di atti » (Tragicità dei Masnadieri di Verdi cit.).
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devono fissare questo sentimento dell'ai di là che è il terrore biblico
della condanna senza rimedio. La concentrazione e la semplicità del
testo hanno la loro parte nell'aver ispirato al futuro autore della Messa
da Requiem una musica dai toni apocalittici.
M i sembra degno di nota che il Maffei, pur essendo impegnato a
fornire al musicista il materiale per le trombe del giudizio, sia rimasto
fedele a Schiller, anche nel presentarci l'estrema coerenza di Francesco
con se stesso: questo malvagio si annienta, ma non annienta la sua
volontà di ribellione all'Eterno, che pure lo sta schiacciando e, dopo
un tentativo di preghiera, va con decisione incontro all'inferno:
(Inginocchiatosi)
È la prima! Odimi, Eterno!...
E sarà la volta estrema
Ch'io ti prego (Rialzandosi in furore) Ah no! L'inferno
Non si dee beffar di me!
Versi che corrispondono al passo schilleriano: « Ascolta le mie
preghiere, o Signore! È la prima... e sarà l'ultima volta... Ascoltami,
Signor Iddio! » (Franz: « Hore mich beten G o t t im Himmel! — Es ist
das erstemal — soli auch gewiss nimmehr geschehen — Erhòre mich
G o t t im Himmel! »).
« Non posso pregare... qui... qui dentro è tutto vuoto... inaridito
(S'alza in piedi) E non voglio neppure pregare! Non abbia il cielo questa vittoria, né mi getti l'inferno questa irrisione sul viso ». (« Ich kann
nicht beten — hier hier! Alles so od — so verdorret — Steht auf. Nein,
ich will auch nicht beten — diesen Sieg soli der Himmel nicht haben,
diesen Spott nicht anthun die Holle! »).
Dopo di che non è molto logico che Francesco esca di scena senza
ammazzarsi, mentre il castello è in fiamme per l'incendio che vi hanno
appiccato i masnadieri; ciò può ricondursi al principio della tragedia
greca per cui le uccisioni non venivano rappresentate sotto gli occhi
degli spettatori ; l'opera romantica può tenersi fedele a questo con41
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Perfettamente comprensibile come una regia, come già accaduto (nell'edizione di Roma, 1972), forzando appena un poco la lettera del libretto, faccia si che
Francesco si trafìgga con una spada. Che si strozzi con un cordone, come nei Rauber, contraddirebbe la linea classicistica del testo del Maffei. I personaggi del teatro d'opera, almeno di quella romantica, sono sempre di un gradino più lontani dal
realismo dei corrispondenti personaggi del teatro drammatico.
cetto, e pur rifacendosi a drammi molto sanguinosi, in questo almeno
cerca di evitare il raccapriccio del pubblico e moltiplica gli svenimenti,
piuttosto che le pugnalate.
Tra la prima e la seconda catastrofe, un momento di stasi, di
pausa: il breve duetto tra Carlo e il padre, mentre si aspetta il ritorno
dei masnadieri. Tale passo corrisponde alla prima parte della scena 2
del V atto dei Rauber; anche qui, benché i personaggi in scena siano due,
assistiamo ad uno scontro di emozioni, non ad un dialogo vero e proprio.
Entrambi pensano, con animo diverso, al significato degli ultimi avvenimenti nonché alle stesse persone. Ma Karl deve controllare le sue
parole, anche i suoi « a parte », perché non si è dato a riconoscere.
Ciascuno segue un proprio pensiero, è inchiodato ad una sua sofferenza: Massimiliano pensa al figlio disumano e a quello che crede
morto, Karl all'impossibilità di veder ristabilita l'armonia e quindi
la felicità nella sua vita. Se parlano, i due uomini rischiano di fraintendersi, come quando Massimiliano esclama: « Grazia, grazia! O r a il mio
figliuolo è giudicato » (pensando naturalmente a Franz) e il Rauberhauptmann risponde, atterrito: « Quale? » Per poi soggiungere: « Coscienza traditrice! Non fate caso delle mie parole! ».
E quando ancora Massimiliano piangendo osserva: « O h mio Carlo! mio Carlo! se mi stai vicino in veste di pace... oh perdona, perdona
al padre tuo! ». E Karl si affretta a rispondere: « E i vi perdona! ». Eppoi
emendandosi: « Purché sia degno del vostro nome... vi dee perdonare! » .
Il duetto verdiano riduce al minimo il dialogo ma ne amplia le
frasi conclusive (quelle di Massimiliano: « Abbilo per un bacio di tuo
padre, come io lo avrò per un bacio del figlio mio! » e di Carlo: « M i
parve d'esser baciato da un padre » ) in due quartine che riassumono
perfettamente la Stimmung della scena:
4 2
4 3
42
43
DER ALTE MOOR: Erbarmung! o Erbarmung! Jetzt — wird mein Kind gerichtet!
RAUBER MOOR: Welches? Verratherisches Gewissen! Merket nicht auf meine
Worte!
DER ALTE MOOR: Karl! mein Karl! wenn du um mich schwebst im Gewand
des Friedens vergib mir. Oh vergib mir!
RAUBER MOOR: Er vergibt euch. Wenn ers werth ist, euer Sohn zu heissen
Er muss euch vergeben.
DER ALTE MOOR: Denk es sei Vaterskuss, so will ich denken ich kiisse meinen Sohn.
RAUBER MOOR: Ich dacht, es sei Vaterskuss!
MASSIMILIANO:
CARLO:
Come il bacio d'un padre amoroso
l'abbi tu, beneamato stranier.
Come il bacio d'un figlio pietoso
a me pur lo figuri il pensier.
Tutto il dolce d'un labbro paterno
dal tuo labbro nel cor mi passò.
Del mio cielo perduto in eterno
un fuggente splendor mi beò.
L'ultima scena condensa con molta abilità la corrispondente scena
finale dei Rauber, apportandovi qualche significativo mutamento: la
protagonista qui è la banda, che non permette a Carlo di cancellare il
passato e di rifugiarsi in un egoistico e soggettivo universo fatto di
amore e di idealismo. La disperazione di Carlo, il dolore di Massimiliano, il patetico appello di Amalia si scontrano con il coro dei banditi
che richiama Carlo al senso della realtà.
I versi posti in bocca a Carlo (« È ver... mi squarciano / dagli
occhi un velo, / dal mio precipito / sognato cielo; di me son arbitre /
quest'empie vite, / m'ingoia un vortice / mi trae con sé ») rendono
efficacemente il senso del tragico viluppo da cui l'eroe non può più
uscire se non a prezzo della vita sua e di chi gli è più vicino.
II melodramma si conclude su questo grido di orrore e di disperazione; l'ultima battuta che conti, anche perché musicalmente rilevata,
è quella che accompagna l'uccisione di Amalia: « Io v'offro un angelo ».
Le ultime parole di Carlo, che immediatamente seguono, « ora al patibolo », passano quasi inascoltate, anche perché, secondo la didascalia,
i masnadieri si trovano tutti intorno alla morente, e non si curano più
che tanto del loro capitano.
E d'altronde suonano anch'esse come il grido d'un disperato, e non
hanno nulla di catartico (e infatti in alcune edizioni quest'ultima battuta, divenuta addirittura superflua dal punto di vista musicale, viene
tralasciata).
Quindi, in un libretto che ricalca fedelmente l'originale, manca
ciò che dell'originale costituiva una parte essenziale: la ricomposizione
di un ordine sconvolto, attraverso la volontaria espiazione di chi, senza
averne interamente colpa, s'era trovato intricato in una via di abbominio e di delitti.
Il discorso sull'armonia da ristabilirsi presuppone un'impostazione
dialettica lontana dalla concezione drammatica dell'opera, che pone l'accento esclusivamente sulle passioni, cioè sugli elementi che portano alla
dissoluzione di un qual che si sia ordine costituito; coerentemente con
questa concezione, i Masnadieri terminano con una pugnalata e con il
grido d'orrore che, nella sua irrazionalità, è il commento più immediato
ai tanti atroci eventi di cui il dramma è pieno, il suggello di una serie di
lacerazioni personali, familiari, sociali. Tale effetto dovette apparire decisamente troppo sconvolgente alle sospettose censure italiane dell'epoca,
che imponevano lo svenimento, non l'uccisione di Amalia, o quanto
meno il suo suicidio, dato che un simile gesto, perfettamente consono
alla tradizione classica, risultava meno impressionante della morte per
mano dell'amante; il quale poi invece di gridare: « I o v'offro un angelo »
esclamava « Io v'offro un genio! » o « Io v'offro un misero ». (Le notizie sono riportate da F. Abbiati, I, p. 7 2 7 ) .
Ma quello sull'intervento della censura nei riguardi delle opere di
Verdi è un discorso troppo lungo perché se ne possa affrontare la trattazione in questa sede.
LUISA MILLER
1. - CARATTERE SOCIAL-RIVOLUZIONARIO DEL DRAMMA DI SCHILLER.
Kabale und Liebe è una delle opere più rivoluzionarie dell' '800 tedesco. Il libretto del Cammarano (1801-1852) ne dà una lettura in chiave
sentimentale, che ne tradisce profondamente lo spirito; non si può però
negare che il dramma schilleriano presenti numerosi appigli per un travisamento di questo tipo, ed è quel che mi sforzerò di mettere in luce.
Kabale und Liebe è profondamente inserita nell'epoca dell'autore, assai
più dei Rauber, tanto che uno spostamento cronologico renderebbe poco
plausibili i continui riferimenti al contesto socio-politico che è molto
preciso . Il mondo che ci viene presentato è « disperatamente angusto,
tanto spazialmente quanto moralmente » : un piccolissimo ducato, una
corte dove dominano la corruzione e l'ipocrisia, una borghesia legata ad
una concezione della virtù gretta ed angusta, dei sudditi che considerano
l'acquiescenza ai potenti un dovere cristiano, perché l'ordinamento sociale cosi com'è è visto come « un ordine eterno ed universale ».
l
2
« Per comprendere il destino tragico di Luisa, lo spettatore del suo
tempo è costretto a rappresentarsi al vivo la struttura della società dei
suoi giorni » . L a catastrofe non è determinata dalla perversa azione di
un individuo; l'amore di Ferdinand e Luise è avversato da un ordine
sociale contrario alla natura: W u r m e il Presidente von Walter non gli
sono più contrari, in fondo, del padre Miller. La stessa Luise, rifiutan2
1
Cfr. N. Castiglioni, Amore e raggiro fra Schiller e Verdi, in « Ricordiana »,
n. 9, Milano 1956, p. 426.
Auerbach, Musihts Miller, in « Mimesis », p. 461.
2
3
dosi di fuggire con Ferdinand , e proponendo di allontanarsi insieme al
padre dal paese « dove il suo nome sarebbe per sempre vituperato » e
dove « tante vestigia le parlano del suo perduto bene » mostra di accettare in pieno quelle convenzioni sociali che portano lei e l'amato alla
rovina. Osserva Roy Pascal che nel teatro dello Sturni und Drang non
s'incontra quasi mai (e l'eccezione non è certo costituita da Kabale und
Liebe) « l'eroe borghese idealizzato, che getta una sfida alla corruzione
nobiliare; nella letteratura tedesca gli eroi borghesi, come il padre Miller,
si accontentano di difendere l'innocenza del loro costume e della loro
vita privata » . Ciò è il riflesso di tempi in cui l'aristocrazia aveva abdicato ai compiti che la borghesia non si sentiva ancora preparata ad
assumere. I Kerle, i personaggi che agiscono, nel bene o nel male, sono
tutti aristocratici. Si veda ad esempio l'ultima scena di Kabale und Liebe:
è Ferdinand che la domina, Ferdinand che la trasforma in un tribunale;
accanto a lui la figura più patetica non è quella del padre di Luise, la cui
presenza risulta poco incisiva, ma quella del Presidente, che, rivelando
un tratto d'umanità, a cui, tutto sommato, lo spettatore risulta impreparato, chiede perdono al figlio e, ottenutolo, si consegna alla giustizia.
L'emozione finale si basa su questa riconciliazione, che ristabilisce
in un certo modo l'ordine morale sconvolto dall'intrigo e dal delitto, e
poca attenzione si presta all'onesto e sventurato musico, cui si fa carico
d'aver sventatamente accettato la borsa di monete d'oro (V, 3) e d'essersi incredibilmente allontanato da casa lasciando sola la figlia a sostenere il tragico colloquio con Ferdinand ( V , 6).
D'altronde la carica d'indignazione contenuta nel terzo Jugenddrama
non è diretta soltanto in tyrannos ma anche contro la soggezione del
suddito, che, come osserva H . A . Korff, « lieber die Rolle des Martyrers
als die des Rebellen spielt ».
Ciò che divide Ferdinand e Luise non è tanto l'intrigo di W u r m
4
5
3
Kabale und Liebe, Atto I I I , scena 4: « LUISE: Nein, mein Geliebter! Wenn
nur ein Frevel dich mir erhalten kann, so hab ich noch Starke, dich zu verlieren ».
E più avanti: « Doch! Man verliert ja nur, was man besessen hat, und dein Herz
gehòrt deinem Stande — Mein Anspruch war Kirchenraub, und schaudernd geb
ich ihn auf » (LUISA: NO, no mio caro! Se un misfatto soltanto può tenerne congiunti, sento ancora in me stessa la forza di poterti lasciare. [...] Pure non è perdita dove non è possesso, e il tuo cuore appartiene al tuo grado. Un sacrilegio fu
la mia propensione, e vi rinuncio atterrita).
Kabale und Liebe, Atto V, scena 2.
Roy Pascal, La poetica dello Sturtn und Drang, traduz. E. Marzali, Milano
1957, p. 76.
4
5
quanto l'attaccamento di Luise al rigorismo morale del mondo borghese.
Prima ancora che venisse montato lo sciagurato intrigo, Luise s'era rifiutata di seguire Ferdinand, che aveva promesso di sacrificarle rango e
posizione, pur di uscire dai confini di quel piccolo ducato, naturalmente
senza i crismi di un'unione benedetta dai rispettivi genitori. Quella fuga
e quell'unione avrebbero intaccato alle radici l'ordine su cui si reggeva
il mondo di Luise, l'ordine che la fanciulla, non diversamente da suo
padre, fa coincidere con quello universale ed eterno della creazione, e
Luise rifiuta: « Il dovere m'impone di restar qui e di soffrire » (« Luise:
Meine Pflicht heisst mich bleiben und dulden » ) .
6
E il dovere è una morale dogmatica e severa, che oltre a tutto si
trova giusto far valere solo per la propria parte (cfr. I , 1, in cui Musikus Miller troverebbe perfettamente naturale che Ferdinand, pur corteggiando Luise, non avesse alcuna intenzione di sposarla; anzi un progetto di matrimonio tra due persone di rango differente scardinerebbe
i principi del suo mondo, e par quasi che egli lo interpreterebbe come
una colpa più grave dell'opera di seduzione nei confronti di sua figlia).
In questo rigorismo gretto è però da vedersi anche la radice della servitù politica.
L'intrigo comincia ad operare quando già tra i due innamorati s'è
manifestato un dissidio difficilmente colmabile e Luise s'è già staccata
da Ferdinand; le convenzioni sociali e l'educazione della donna, strettamente ancorata ad esse, hanno disciolto il legame, prima dell'intervento diretto della malvagità dei potenti. Questo ha ancora il potere
di siglare pesantemente con il sangue una vicenda a cui il lieto fine era
comunque precluso dalla diversa impostazione spirituale dei protagonisti.
L'intrigo parte anch'esso dal presupposto del rigorismo morale che
impera nel mondo dei Miller: è tutto basato sul silenzio imposto alle
vittime da un giuramento; la catastrofe, quale certo non era stata prevista da W u r m e dal Presidente, è ancora il risultato dell'osservanza di
quel giuramento. Le parole con cui W u r m , questo burocrate del male,
rassicura il Presidente von Walter sull'efficacia del giuramento per ottenere il silenzio della Miller sono paradigmatiche: « Nichts bei uns,
gnadiger Herr. Bei dieser Menschenart alles! » ( I I I , 1 ) .
(« Se noi lo facessimo... nulla! Ma tutto se lo fa questa gente! »)
Sì, una « razza di gente » che pur esclamando « Gott, Gott! und du
selbst musst das Siegel geben, die Werke der Hòlle zu verwahren? »
6
Kabale und Liebe, III, 4.
( I I I , 6) (« D i o ! D i o ! tu stesso devi servir di suggello per affermare
l'opera dell'inferno! ») non esita ad apporre quel suggello e a rispettarlo.
La tragicità della situazione pesa soprattutto, per non dire esclusivamente, su Luise, pertanto la scelta del suo nome e cognome a titolo
del dramma avrebbe avuto piena giustificazione . Profondamente radicata nel mondo di suo padre, essa partecipa per virtù d'amore anche
del mondo di Ferdinand; dal mondo del padre le viene il rispetto dell'ordine costituito, l'osservanza di un giuramento estorto con le minacce, il rifiuto del suicidio; dal mondo di Ferdinand lo slancio ideale,
la passione sentita come qualcosa di assoluto, la consapevolezza della
sua durata oltre la morte. La composizione di questo contrasto ella se
la può figurare solo nell'Aldilà: già nel I atto alla scena 3 ella dice
alla madre:
7
Ich entsag ihm fùr dieses Leben. Dann, Mutter — dann, wenn die Schranken
des Unterschieds einsturzen — wenn von uns abspringen ali die verhasste Hùlsen
des Standes — Menschen nur Menschen sind — Ich bringe nichts mit mir, als
meine Unschuld, aber der Vater hat ja so oft gesagt, dass der Schmuck und die
prachtigen Titel wohlfeil werden, wenn Gott kommt, und die Herzen in Preise
steigen. Ich werde dann reich sein. Dort rechnet man Tranen tur Triumphe, und
schone Gedanken fùr Ahnen an. Ich werde dann vornehm sein, Mutter — Was
hà'tte er dann noch fùr sein Madchen voraus? (A lui rinuncio in questa vita;
ma dopo, o madre, quando le sbarre della disuguaglianza cadranno, quando noi
scuoteremo di dosso l'odioso incarico dei gradi; quando gli uomini non saran altro
che uomini... ed io con la mia sola innocenza... Ho pure spesso udito dal padre,
che gli onori, i titoli cadranno di prezzo come venga il Signore, ed i cuori invece
incariranno. Allora io sarò ricca, allora le mie lacrime avranno il valor delle perle
e d'illustri antenati i miei soavi pensieri! Allora la sua Luisa diventerà una gran
dama; e qual'altra potrebbe egli anteporre alla Luisa sua?).
Luise è lasciata sola col suo dissidio: il padre e l'amato non la
capiscono. Il padre afferma: « Den Major — Gott ist mein Zeuge —
ich kann dir ihn nimmer geben » (I, 3). (Il Maggiore... Dio mi sia testimonio!... Non posso dartelo in eterno), e nel V atto esce di casa,
pur notando il terrore della figlia che non vuole sostenere da sola il
colloquio con Ferdinand; rimane anche dubbio ch'egli sappia a qual
7
Kabale und Liebe fu il titolo suggerito da Iffland, il quale, osserva Wolfgang
Binder {Schiller: Kabale und Liebe, in Das deutsche Drama, Dusseldorf 1958,
voi. I), non ebbe tanto la mente al problema centrale del dramma, quanto alle reazioni dello spettatore che, secondo le buone regole aristoteliche, deve provare dentro di sé il timore, quale può essere evocato dalla parola Kabale, e la compassione,
quale può essere suscitata dalla parola Liebe.
prezzo è stata ricomprata la sua libertà; se il dubbio dovesse risolversi
in una risposta affermativa, un'ombra grave cadrebbe sul suo comportamento nelle ultime scene. Ma di contro a lui abbiamo Ferdinand che,
accecato dal suo idealismo e da una concezione assoluta dell'amore,
assoluta e nello stesso tempo egoistica (« un Karl Moor dell'amore »),
non solo è lontanissimo dal comprendere le remore di Luise — nella
famosa scena 4 del I I I atto, pur dopo aver incominciato dicendo che
la pace di lei è il più sacro di tutti i suoi obblighi, davanti al rifiuto
della fuga, esplode in queste parole:
Kalte Pflicht gegen feurige Liebe! Und mich soli das Marchen blenden? Ein
Liebhaber fesseli dich, und Weh ùber dich und ihn, wenn mein Verdacht sich
bestatigt. (Il freddo dovere contro un amore ardentissimo? Speri abbagliarmi con
questa fola? Chi ti lega è un amante... e guai a te! guai a lui se il mio sospetto si
avvera!) —
ma non gli passa neppure per la mente di aver messo in una situazione
quantomeno diffìcile la famiglia Miller; è straordinario come, dopo quello che è avvenuto nella casa del musicante alla fine del secondo atto,
Ferdinand se ne vada e abbandoni la famigliola costernata senza una
parola di conforto, senza un consiglio. Quando ritorna, è solo per proporre la fuga a Luise, ma del fulmine che potrebbe cadere, e che in
effetti cade, sui genitori della ragazza, non si dà alcun pensiero.
Ferdinand vive effettivamente in una dimensione diversa da quella
realistica di Miller; il dramma contiene indirettamente anche una condanna di questo idealismo, che rende ciechi di fronte alla realtà, e dell'egoistica assolutizzazione della passione.
Anche Ferdinand, insieme a W u r m e a suo padre, non esce indenne dal giudizio divino che l'autore vuole attuare nell'ultima scena
del suo dramma.
La scena diviene un tribunale per Ferdinand, come per Karl Moor,
come è giusto, perché entrambi hanno molto in comune, a partire dalla
lingua, e dalla mania di parlare furibondi per se stessi, anche in presenza di altri, senza ascoltare quel che gli altri eventualmente dicono
o tentano di dire , e per finire con la pretesa di ^sostituirsi a Dio nell'ufficio di giudici inesorabili dei propri simili.
8
La fine di Karl e di Ferdinand, al di là d'ogni identificazione dell'autore con i suoi eroi giovanili, al di là della constatazione del V o n
8
Cfr. la già citata scena dei Rauber (I, 2) e Kabale und Liebe (IV, 3): Ferdinand e il Maresciallo von Kalb.
4
V . CISOTTI, Schiller
e il melodramma
di
Verdi.
Wiese secondo cui il Dio del giovane Schiller non è der liebende Gott
der Guade ma il Richter der Welt, suona come una condanna dell'idealismo individualista.
Dunque, i temi di fondo di Kabale und Liebe sono l'accusa contro un assetto sociale iniquo, accusa che ricade con ugual forza su chi
detiene le leve del potere e vive al di fuori di ogni legge che non sia
quella dell'etichetta (il mondo della nobiltà), e su chi accetta passivamente questo stato di cose (il mondo del Musikus Miller); e l'accusa
contro l'egoismo di una passione, come quella che travolge Ferdinand,
che fa dimenticare che al mondo esistono diritti sacrosanti almeno
quanto quelli del cuore.
Era facile però che questa tematica di fondo venisse poco avvertita,
e che l'interesse si concentrasse sugli aspetti più vistosi della vicenda:
l'esecrazione della tirannide con il suo corrotto e talvolta ridicolo apparato, e l'assolutezza d'una passione che divampa distruggendo sia coloro
che ne son portatori, sia coloro che in un modo o nell'altro vi si oppongono.
Il titolo contribuisce a spostare l'attenzione dal centro vero del
dramma agli elementi di superficie.
Fu ciò che garanti il successo all'opera, ancor oggi una delle più
popolari di Schiller, ma che fece dire ad Auerbach ch'essa è si « tempestosa, travolgente, di grande effetto », ma che, osservata meglio, « risulta assai brutta, e nulla più che un drammone d'arena scritto da un
autore geniale ».
*
s'c
/V
L'epoca romantica vi vide una bella storia di amore, gelosia, malvagità e morte e questi ingredienti colse il Cammarano per la « sua »
Luisa Miller.
2. - CARATTERI ROMANTICI DELLA TRASCRIZIONE LIBRETTISTICA DI
SALVATORE CAMMARANO.
Il libretto semplifica in molti punti l'azione, la chiarifica persino
e in molti passi introduce significativi mutamenti.
L'epoca è spostata alla prima metà del sec. X V I I e ambientata
nel Tirolo. Anche l'azione dei Masnadieri era stata arretrata di mezzo
secolo; tali arbitri possono sembrare oziosi, o rivelare l'ingenua pretesa degli autori di apparire abbastanza indipendenti nei confronti del-
l'opera originale; in efletti l'allontanamento dall'epoca presente rende
più agevole il processo di idealizzazione che l'opera romantica impone
ai suoi soggetti. La datazione precisa dei Rauber e di Kabale und
Liebe aveva un senso per i contemporanei e i conterranei di Schiller,
che avrebbero potuto vedere sulla scena personaggi vestiti come loro;
dal momento che già nel 1849 l'epoca indicata dal drammaturgo poteva
considerarsi storica, e dovendo esser proposta l'opera ad un pubblico i
cui problemi politico-socio-culturali non erano quelli dei sudditi dei
principati tedeschi sotto Vancien regime, la fedeltà assoluta nella collocazione spazio-temporale della vicenda sarebbe stata superflua.
Tutta la problematica sociale viene a cadere, e cosi la realistica
rappresentazione della famiglia di Luisa. Tutti i personaggi sono sullo
stesso piano stilistico, per quel che riguarda il linguaggio. Quel Miller
che in Kabale und Liebe potrebbe benissimo esser interpretato da un
attore che parli in dialetto svevo, si esprime nell'opera con lo stesso
vocabolario, con le stesse locuzioni del Conte di Walter e della Duchessa Federica . Il librettista rinuncia alla caratterizzazione attraverso
il linguaggio, a quel tipo di caratterizzazione che proprio in Kabale und
Liebe è molto importante, perché serve non solo a distinguere, realisticamente, il mondo della borghesia da quello della nobiltà, ed entrambi
dalla sfera poetica in cui i due amanti vivono la loro vicenda, ma
anche a indicare tutto un intreccio di rapporti sociali, morali, intellettuali. A monte del linguaggio del libretto romantico v'è la tradizione
idealistica settecentesca, del Metastasio e anche dell'Alfieri, per cui vale
la regola dell'omogeneità dello stile. Il verso rimato è un gradino più
in là sulla strada dell'idealizzazione di quanto non lo sia l'endecasillabo
sciolto.
I personaggi vivono in forza delle passioni che li fissano con pochi
inequivocabili tratti nella mente degli spettatori; e siccome ogni passione, per malvagia che sia, è comunque degna di attenzione, e di rispetto, una certa dignità aureola perfino la figura di Wurm, l'arido,
spregevole segretario, disprezzato dall'ambiente cui ha trovato modo
di accedere, la corte, e da quello da cui è uscito, la borghesia, ma indispensabile là come qua.
9
Per Schiller egli è il « degradato, che compensa con la mancanza
9
Si vedano ad esempio le arie dei due padri:
MILLER, I, 4: « Sacra la scelta è d'un consorte / Essere appieno libera deve... ».
WALTER, I, 5: « Il mio sangue, la vita darei / Per vederlo felice, possente! ».
10
di scrupoli il fatto di non avere un posto definito nella società » , per
il Cammarano è l'orditore dell'intrigo che, innamorato di Luisa, la vuole
togliere a Rodolfo (questo è il nome mutato di Ferdinand) sollecitando
la sua gelosia.
È il malvagio che sconta con una pronta morte, per mano di Rodolfo, che sta egli stesso per soccombere al veleno, la sua infamia; ben
poco rimane della tortuosità e ambiguità della figura originaria. Un
altro personaggio che nel libretto appare notevolmente mutato è quello
del Presidente, qui divenuto « Conte di Walter », e rappresentato come
padre amoroso, anche se impigliato nei pregiudizi di casta, e desideroso solo di fare quello che ritiene essere il bene del figlio, anche contro la volontà di quell'« esaltato capo » (I, 5).
Non è un personaggio ributtante, ha ancora diritto ad un p o ' della
nostra simpatia; il librettista ha isolato dal contesto schilleriano la corda
dell'amor paterno, forse intuendo quanto ciò sarebbe stato consono
all'ispirazione del musicista. Il librettista ha tenuto ovviamente presente il Presidente delle ultime battute di Kabale und Liebe-, ma quelle
battute, per verità, sono un'incoerenza nel comportamento del personaggio. Il Cammarano ne ha sviluppato una figura sufficientemente nobile e dignitosa, che non stona accanto all'altro sventurato padre del
dramma, il vecchio Miller. Questi è un soldato, e non più un musico;
quanto basta per spiegare il suo contegno franco e fiero quale si mostra
soprattutto davanti al Conte nel finale
dell'atto I, che corrisponde a
Kabale und Liebe, I I , 7.
11
Comunque, nulla v'è in lui che faccia pensare ad un contrasto bor-
10
Fritz Martini, «Der Deutschunterricht », 4 (1952), H. 5, pp. 18-39.
11
Cfr. le parole che Miller rivolge a Luisa che si è buttata ai piedi di Walter:
...Prostrata! no!
Fra i mortali ancor oppressa
n o n è tanto l'innocenza
che si vegga genuflessa
d'un superbo alla presenza.
A quel D i o ti prostra innanzi
dei malvagi p u n i t o r ,
non a tal, che ha d ' u o m s e m b i a n t e
e di belva in p e t t o il cor!
(Atto I, scena 12).
In Kabale und Liebe Miller esclama rivolto alla moglie, buttatasi ai piedi del
Presidente: « Knie vor Gott, alte Heulhure, und nicht vor — Schelmen, weil ich
doch schon ins Zuchthaus muss » (II, 7). (Inginocchiati a Dio, piangolosa squarquoia, non ai... bricconi, perché devo andarmene in galera!).
ghesia-nobiltà; è una figura dai sentimenti schietti, popolari, ma non
rozzi, e il suo orizzonte mentale, ancorché più sfumato e generico di
quello del suo modello, non ne ha l'angustia e la grettezza. La sua
vicenda interessa il librettista e il musicista non meno di quella dei
due infelici amanti, e questo spiega lo straordinario rilievo che gli viene
dato nell'ultimo atto e in particolare nel terzetto finale, mentre, come
già si è osservato, nella scena finale del dramma il Musikus ha ben
poco da dire, e l'emozione dello spettatore è dirottata su altri oggetti.
Quasi unanime è la lode dei critici nei confronti del personaggio
schilleriano, in cui si vede un precorrimento del teatro naturalista; il
personaggio del libretto è un ritratto nella galleria di dolenti figure
paterne, un precursore di Rigoletto, un frammento del Lear mai musicato, per cui l'individuazione sociologica è del tutto indifferente.
Le parole che riassumono ed esprimono meglio questa realtà psicologica, anche se prendono spunto da battute schilleriane (Miller, V , 1 :
« Con questa canzone andremo accattando di porta in porta, e cara ci
sarà l'elemosina venuta da mani compassionevoli ») hanno una sobrietà
commossa, un qualcosa di desolato e di arcano che sarebbe stato bene
anche sulle labbra di Lear e di Cordelia:
Andrem raminghi e poveri
Ove il destin ci porta...
Un pan chiedendo agli uomini
Andrem di porta in porta...
Forse talor le ciglia
Noi bagnerem di pianto,
Ma sempre al padre accanto
La figlia sua starà!
Quel padre e quella figlia
Iddio benedirà!
(IH, 2).
In un passo come questo, ad esempio, il teatro d'opera rivela la
superiorità dei suoi mezzi rispetto al teatro in prosa: permette l'unisono, nonché l'indugio sulla estrinsecazione di un sentimento particolarmente intenso e profondo.
In questa stessa scena si rileva una differenza fondamentale tra
Kabale und Liebe e il libretto: là Miller ritraeva la figlia dall'idea del
suicidio prospettandole l'inferno, richiamandola quindi a quei legami
con la morale del suo ambiente d'origine, a quei valori della tradizione
cristiana a cui essa aveva già sacrificato il suo amore per Ferdinand,
ma che pure aveva obliato, sotto la pressione di emozioni fortissime,
per comporsi un'estatica visione della morte come festa dell'amore. Nel
libretto Miller si appella esclusivamente all'amor filiale .
L'eroina del melodramma, Luisa, è « un'esile fanciulla, ignara del
mondo, secondo la più pura visione romantica della vita » (N. Castiglioni, Amore e Raggiro ira Schiller e Verdi, p. 426). Una delle tante
creature angelicate dalla tradizione operistica, che hanno però una illustre parente nella Ermengarda manzoniana. Attraversa il mondo pura
come un raggio di luce, soffre per la malvagità o l'irruenza altrui senza
esserne contaminata, la sua morte è una trasfigurazione. Il suo è il
dramma dell'innocenza davanti alla cattiveria di quaggiù, non, come
per il suo modello, quello della persona nel cui animo entrano in conflitto due mondi, ciascuno con i propri inderogabili diritti. In Kabale
und Liebe quel conflitto aveva come conseguenza un'estrema scarsità
delle parole, se non addirittura il silenzio; nel melodramma la concezione psicologica della purezza e dell'innocenza si risolve in un canto
estremamente soave e melodioso, privo dell'incisività e della vis drammatica di quello di altre eroine verdiane, ad esempio della Leonora
del Trovatore o dell'Amelia del Ballo in Maschera.
12
Questo risvolto trepido e virginale è certo presente anche nell'eroina di Kabale und Liebe, che spira rammentando allo stravolto
Ferdinand la legge del perdono: « Sterbend vergab mein Erlòser Heil uber dich und ihn ». (Il Redentore perdonava morendo... Grazia
per tutti e due). (Tutti e due sono Ferdinand e il Presidente). Ma la
ricchezza del personaggio non si esaurisce in questo tratto.
Rodolfo è stato ricalcato su Ferdinand con relativa facilità, dato
che esso è nell'originale un personaggio già melodrammatico. I l suo
linguaggio è esasperato, teso, ricco di un pathos individualistico ed
idealista; è la personificazione della passione che quasi non conosce la
riflessione tra la formulazione del desiderio e l'atto. La sua rivolta è
concepita in termini soggettivi, sentimentali e non va quindi esente
dalla condanna del poeta; ma proprio una rivolta in termini di cuore,
MILLER:
Di
r u g h e il v o l t o . . . m i r a . . .
il c r i n
m'imbianca
L'amor
che
un
nei
suoi
Ed
apprestarmi,
crudel,
e di
tomba
fia
a scendere
solcato
greve...
seminato
raccoglier
Ali, nella
primo
ho
più
padre ha
tard'anni
messe di p i a n t o
l'età
tu
deve.
puoi
dolor?
che schiuder
il
(Atto
vuoi
genitori
III,
scena
2)
nota il Castiglioni, doveva affascinare un librettista e un musicista
romantico. Ferdinand non ragiona, ma si esalta; nella felicità o nella
disperazione, il suo è un linguaggio ai limiti del razionale, pronto a
tendersi nel grido o nell'invettiva; il linguaggio di un personaggio che
in fondo non dialoga con gli altri, ma presenta solo se stesso, tendendo
l'orecchio al suo interno demone, è facilmente traducibile nei versi
di un libretto.
Se la melodia « è l'amplificazione ritmica del grido della passione »,
e in Verdi troviamo la integrale applicazione di questa definizione, la
figura di Ferdinand-Rodolfo si presta come poche altre ad essere inserita in uno schema melodrammaturgico. Il librettista, anzi, gli ha conferito una compostezza di accenti che ci lascia intuire le passioni senza
farci sentire quanto di disarticolato, di eccessivo, di « satanico » v'è
in esse nell'opera originaria. Rodolfo è un amante disperato che suscita
pietà per la sua profonda sofferenza; in nome di essa lo spettatore o
il lettore può perdonargli il delitto contro Luisa, mentre nel comportamento di Ferdinand v'è un'arroganza, una scompostezza che neppure
la sua morte riesce ad espiare.
Si perdona il cantore di « Quando le sere al placido » ( I I , 7 ) ,
mentre è difficile trovar piena giustificazione per chi s'è fatto del proprio amore un universo soggettivo, di cui si sente di volta in volta D i o
e demonio (Kabale und Liebe - I V , 4: « È mia quella donna! Un tempo
10 m'era il suo Dio... ora il suo demonio! »).
Degli altri personaggi, è scomparso il ridicolo Maresciallo von
Kalb, e con lui la satira pungente della vacuità e scioccaggine del
costume di corte; ogni nota comica è accuratamente evitata nel melodramma del primo Ottocento, che anche in questo fa vedere l'influenza
alfieriana e la derivazione dal teatro aulico del '600 e del '700 .
È scomparsa Lady Milford, e con lei l'accusa più diretta e feroce
alla corruzione del mondo nobiliare; al suo posto prende corpo e voce
quella Federica di Ostheim che in Kabale und Liebe il Presidente propone al figlio come « il partito più illibato della regione » per sondarne l'animo. Per la chiarezza e perspicuità dell'azione melodrammatica
13
11 cambio è senza dubbio felice: Federica non pone problemi né di
13
La nota comica è del tutto eccezionale anche in Schiller e d'altra parte nella
figurazione di Von Kalb l'ironia trasmoda facilmente in sarcasmo. Si legga quanto
Schiller scrisse a Korner (13 maggio 1801): « Meine Natur ist doch zu ernst gestimmt; und was keine Tiefe hat, kann mich nicht lange anziehen ». Il Verdi degli
« anni di galera » avrebbe potuto esprimersi nella stessa maniera.
morale né di politica; è la nobile fidanzata proposta al giovane Rodolfo,
innamorata di lui, come egli lo fu di lei nei primi anni dell'adolescenza;
davanti a lei viene condotta Luisa perché confessi di non aver mai
amato Rodolfo e d'aver sempre rivolto ogni sua attenzione a W u r m
(nel processo di semplificazione operato dal librettista W u r m , che costringe Luisa a vergare la lettera, ne è anche il destinatario).
Bisogna dire che questa scena della menzogna ( I I , 6) si inserisce
nel melodramma con più naturalezza e, oserei dire, credibilità, di quanto
non avvenga per il confronto Lady Milford - Luise (Kabale und
Liebe,
1 4
IV, 7 ) .
V ' è poi da notare che all'inizio del I atto Rodolfo è conosciuto
dai borghigiani e da Luisa stessa come un giovane cacciatore, di nome
Carlo; la sua vera identità è svelata da W u r m al padre Miller e poi
riconfermata
dall'interessato nel drammatico finale del I atto, poco
prima dell'intervento del Conte con i suoi armigeri nella piccola casa
di Luisa. È un piccolo trucco di teatro, che passa quasi inosservato
in una forma di spettacolo che riposa sull'apparenza e sul potere trasfiguratore dell'illusione più di qualunque altra; ma con esso il Cammarano evita persino di sfiorare la problematica connessa con la differenza
di condizione sociale. Quando Luisa e il padre sono avvertiti dell'identità di Rodolfo, è troppo tardi per pensare a qualcosa di diverso dalla
difesa materiale dai fulmini dell'irritato Conte.
Tutto si gioca sul filo della passione amorosa, dell'affetto filiale,
della gelosia; il condizionamento sociale manca; il legame tra Rodolfo
e Luisa avrebbe potuto essere osteggiato e infranto per motivi non
aventi nulla a che fare con l'umile origine della donna amata.
In un altro passo il libretto si scosta dall'originale per chiarirlo
in modo a mio giudizio molto convincente. Parlo del colloquio tra
W u r m e Walter, nel secondo atto, in cui il Conte spiega al suo segretario e complice come mai Rodolfo sia a conoscenza del delitto che
ha condotto lui, il padre, ad occupare il grado che occupa a corte ( I I , 4).
14
Questa scena schilleriana è stata variamente interpretata. Gerhard Storz
riferisce come Schiller si sia trovato nella necessità di allestire il suo spettacolo tenendo presenti le esigenze del teatro di Mannheim e degli attori. Senza questa
scena l'attrice che avesse interpretato Lady Milford avrebbe avuto una parte troppo
breve. Riporto questa osservazione perché si veda che non solo gli interpreti musicali condizionavano o avevano la pretesa di condizionare l'opera del drammaturgo.
1S
La spiegazione è breve e concitata , il duetto dei due bassi si sviluppa
su una linea melodica cupamente evocativa; siamo alla metà esatta del
oVarnma, e l'ombra fosca di un delitto precedente si proietta sulla vicenda, preannunciatrice e premonitrice delle successive sciagure.
Ora questo chiarimento del padre di Rodolfo risolve quella che
in Kabale und Liebe è una vera aporia, vale a dire la rivelazione del
delitto che il Presidente stesso deve aver fatto al figlio. È un'incongruenza psicologica, che getta comunque un'ombra sull'idealista Ferdinand, ritenuto dal padre degno di una tale confidenza. L'unica reazione
del giovane è, che si sappia, la minaccia di servirsi di quella confidenza
come di un teufliches Mittel per indurre il padre a desistere dal proposito di consegnare Luise e la sua famiglia agli sgherri. Una conoscenza casuale del misfatto, quale è raccontata nel libretto, può aver
lasciato nel giovane un residuo di dubbio, ed è in parte comprensibile
che il figlio non abbia voluto esigere dal padre una spiegazione su di
un simile argomento; ma una spiegazione che fosse partita dal colpevole stesso nonché beneficiario del crimine, cioè da Walter, come è
presupposta da Schiller, mette su di un piano diverso il rapporto padrefiglio e getta qualche perplessità su Ferdinand, che, pur spiritualmente
lontanissimo dal mondo della corte, accetta senza discussione il fatto
d'essercisi trovato a seguito di un tenebroso crimine.
A difesa di Schiller R. I b e l fa un'osservazione interessante, e
cioè che molte volte il drammaturgo crede opportuno sacrificare la coe1 6
15
WURM:
WALTER
WURM:
. . . C h e giova parlar d'evento
Cui n o t t e eterna nei suoi misteri
H a già sepolto?
Sepolto?
Spento
Il sire antico dai masnadieri
Qual noi spargemmo, tutti h a n c r e d u t o . . .
WALTER
N o n tuttil Al r o m b o m i o
figlio
accorse
Dell'armi n o s t r e . . . n o n era m u t o
Ancor quel labbrol
WURM:
WALTER
Che intendol Ahi Forse?
In quel supremo, terribil p u n t o
W a l t e r nomava!
WURM :
Chi?
Gli assassini!
WALTER
WURM:
O h m e perduto!
etc.
(II,
16
4).
R. Ibel, Kabale und Liebe, Berlino, p. 28.
renza psicologica di un personaggio o la verosimiglianza di una situazione
all'impalcatura tecnica dell'azione drammatica. Tutta la scena d'insieme
della fine del I I atto (corrispondente al finale dell'atto I, nel melodramma) si regge su di un crescendo di emozioni e di effetti che culmina proprio con la minaccia, da parte di Ferdinand, della rivelazione
su « come si diventi Presidente » . Ferdinand raggiunge lo scopo, l'immediato rilascio di Luise e l'allontanamento del Presidente coi suoi
armigeri da casa Miller, però anche Schiller raggiunge il suo, che è quello
di tendere allo spasimo l'arco dell'attenzione e della commozione dello
spettatore, il quale in quel momento non ha modo di riflettere sulla
verosimiglianza e sulla motivazione psicologica della minaccia. Sappiamo
quanto a Schiller interessasse l'effetto teatrale, e quanto sia inopportunamente sottile la distinzione tra « teatrale » e « drammatico »; questa
scena di Kabale und Liebe ne è la prova.
17
La Luisa Miller del Cammarano è una esemplificazione di quel
che E . T . A . Hoffmann nel dialogo Der Dichter und der
Komponist
pretendeva per un libretto d'opera. Là si legge che il librettista deve
attenersi alle regole del dramma d'origine per quel che riguarda l'economia generale, ma che il suo primo pensiero dev'essere di ordinare
le scene in modo tale che l'argomento si sviluppi chiaro ed evidente
davanti agli occhi dello spettatore; anche con la dizione più perfetta,
prosegue Hoffmann, non si può evitare che la musica stessa sia un elemento di distrazione e che l'attenzione debba essere costantemente imbrigliata e guidata a quei punti su cui si concentra l'effetto drammatico.
3. - LE SCENE E I PERSONAGGI DEL LIBRETTO NEL RAFFRONTO CON
« KABALE UND LIEBE ».
Il Cammarano ha diviso il libretto in tre atti, dando a ciascuno un
titolo, secondo l'abitudine del Solerà, che ne evidenziasse subito la
tematica principale: l'amore - l'intrigo - il veleno. L'amore condensa i
17
Si confronti il passo corrispondente nel libretto (atto I, scena 12):
RODOLFO:
T u t t o tentail N o n restami
Che u n internai c o n s i g l i o . . .
Se crudo, inesorabile
T u rimarrai col
figlio...
Tremai Svelato agli u o m i n i
Sarà dal labbro m i o
C o m e giungesti a d essere
Conte di Walter!
primi
al 5°.
strofe
e allo
due atti del dramma, l'intrigo il 3° e il 4°, il veleno corrisponde
Come si vede il librettista properat ad finem e dedica alla catauno spazio proporzionalmente più ampio che non all'esposizione
sviluppo dell'azione.
L'opera comincia in un clima idillico, anzi festoso. È il compleanno
di Luisa e gli abitanti del villaggio festeggiano con un coretto amabile
la bella compaesana, che compare infine, felice al fianco del padre, e
più felice ancora diventa quando tra i villici scopre il giovane cacciatore, che tutti, lei compresa, conoscono con il nome di Carlo. Squillano
le campane per la messa e tutti s'avviano al tempio.
Un inizio cosi lieto (ricorda quello della Sonnambula ed anche delYElisir d'Amore) non può esser stato studiato che per effetto di contrasto con il truce finale; davanti ai tre morti che in rapidissima successione cadranno sulle tavole del palcoscenico lo spettatore rievocherà
sgomento il « riso di luce » dell'« alba sorgente in aprile » (I, 1 ) e lo
vedrà tingersi di sanguigno. La tragedia, nella pura accezione classica,
descrive il precipitare da uno stato di felicità, o comunque di armonia,
ad uno stato di infelicità suprema. La Luisa Miller rispetta questa
regola, contrariamente a Kabale und Liebe, le cui prime battute , poste
in bocca a Miller, ci portano immediatamente al punto nodale della problematica del dramma.
18
Comunque anche nel libretto le ombre non tardano ad addensarsi.
Sulla soglia del tempio Miller è raggiunto da W u r m che, irritato per
il rifiuto della mano di Luisa, rivela il vero nome del corteggiatore della
fanciulla.
Nella scena
l'innamoramento
parte essenziale
poche, concitate
adunque smarrì!
successiva è ancora W u r m a rivelare al Conte di Walter
di Rodolfo per Luisa; anzi, all'inizio della scena la
del colloquio ha già avuto luogo, e lo si deduce da
battute (Walter: Che mai narrasti! ... Ei la ragione
W u r m : Signor, quell'esaltato capo / V o i conoscete).
Non è tanto la spiegazione dei fatti che interessa il librettista,
quanto l'emozione che una tale notizia provoca nel Conte, il quale ha
riposto in quell'unico figlio le più alte ambizioni. Senza preamboli per-
18
Kabale und Liebe, I, 1: «MILLER: Einmal tur allemal. Der Handel wird
ernsthaft. Meine Tochter kommt mit dem Baron ins Geschrei. Mein Haus wird
verrufen. Der Prasident bekommt Wind und — kurz und gut, ich biete dem Junker
aus » (Una volta per sempre! La cosa si fa seria. Cominciasi a buccinar della figliola
e del barone e la mia casa sarà vituperata. Lo soffieranno agli orecchi del Presidente... insomma, io chiudo al signorino la porta di casa mia).
ciò, non appena vede Rodolfo, gli annuncia la sua volontà di unirlo
in matrimonio con la cugina Federica.
Rodolfo ha appena il tempo di far vedere la sua confusione, che
la Duchessa Federica è là, col suo seguito di damigelle e paggi, accolta
da un coro di benvenuto. Rodolfo pensa che il miglior partito sia quello
di rivelare alla promessa sposa la sua situazione, fidando nella generosa
comprensione di lei; comprensione che però la donna innamorata non
può concedere.
Siamo già al finale dell'atto I, e l'azione raggiunge il suo primo
culmine; Miller, sconvolto, rivela alla figlia che essa è stata vittima di
un seduttore; l'amato Carlo è in realtà il figlio del Castellano, e al
Castello si fanno i preparativi delle nozze del giovane con una donna
del suo rango (scena 9); Miller ha appena profferito parole di vendetta davanti a Luisa sconvolta che Rodolfo si precipita in casa (scena 10)
e proclama solennemente di considerarsi sposo della fanciulla; né questa né suo padre hanno il tempo di gioire perché un sentimento per
avventura più forte li attanaglia: il terrore dell'ira del Conte; il quale
compare in persona, prima solo (scena 1 1 ) , poi fa entrare anche gli
armigeri, di modo che la scena del terribile contrasto si svolge sotto
gli occhi, si può dire, di tutto il villaggio, che commenta con pietosi
accenti il dramma dei Miller.
La scena che vede allineati quasi tutti i personaggi del dramma
(mancano W u r m e la Duchessa Federica), è assai rapida e ricalca fedelmente il testo schilleriano nel climax delle emozioni; la discordanza si
ha nella figura di Luisa, che in Schiller rimane praticamente muta, davanti al conflitto che pur la coinvolge direttamente; là il silenzio è
l'unico modo per restare coerente con se stessa, mentre nel melodramma
un personaggio silenzioso costituirebbe un'inutile zavorra. L'eroina verdiana partecipa dunque al concertato finale I, con i giri melodici delle
sue due quartine di ottonari . Il suo è il grido dell'innocenza offesa e
disarmante che invoca l'unica protezione possibile, quella divina; siamo
19
LUISA:
Ad immagin
tua
creata,
O Signore, a n c h ' i o n o n
E perché son
Or qual f a n g o
fui?
calpestata
da
costui?
D e h ! m i salva... d e h !
m'aiuta...
D e h ! mi salva... d e h !
m'aita...
11 tuo d o n o , l a m i a
Pria ripigliati,
vita
Signor!
(Luisa
Miller,
I, 1 2 ) .
al di fuori e al di sopra d'ogni problematicità. I l linguaggio del Conte
conserva parte dello scherno e del disprezzo di quello del Presidente,
ma non ne ha la volgarità e finanche l'oscenità, dato che l'espressione
più forte che esce dalle sue labbra è (riprendendo le parole del
figlio):
« Puro amor l'amore abbietto / di venduta seduttrice? » ( I , 1 2 ) .
Quanto a Miller, parla, o meglio canta, da pari a pari con il
Conte, senza intercalare alle espressioni del suo risentimento e della
sua indignazione il « parlando con rispetto » del suo modello.
Con il primo atto il Cammarano ci ha presentato tutti i personaggi
del dramma fissandone le caratteristiche sin dalla loro prima comparsa
in scena; le arie di sortita di Luisa, di Miller, del Conte hanno appunto
questo scopo, di stagliarci un ritratto che rimarrà poi press'a poco
invariato per il resto del melodramma.
I caratteri infatti non hanno sviluppo, nel senso che non si rivelano a poco a poco, non mostrano ora un lato ora un altro di se stessi;
vanno accettati in blocco, e l'azione ha qualcosa di ineluttabile, di fatale
proprio perché i personaggi, strutturati secondo una passione fondamentale, non possono fare a meno di assumere e di mantenere un
determinato comportamento.
Sin dal primo atto si capisce che Luisa è la vittima predestinata,
che dall'irruenza e impulsività di Rodolfo ci si può aspettare di tutto,
anche l'annientamento della persona amata e di se stesso, che W u r m
tramerà nell'ombra, che i due padri, Miller e il Conte, si troveranno
coinvolti in modo diverso, perché l'uno sarà innocente e l'altro colpevole, ma ugualmente doloroso, nella sciagura che travolgerà i loro figli.
2 0
L'atto I I — l'intrigo — è dominato dalla sinistra figura di W u r m ,
il quale estorce da Luisa la lettera con la falsa attestazione d'amore nei
suoi confronti, ricattandola con la minaccia di morte sospesa sul capo
del vecchio Miller (scena 2), poi si presenta a Walter per annunciargli
di avere apprestato tutte le fila della trama (scena 4) e infine conduce
la stessa Luisa davanti al Conte e alla Duchessa perché ripeta e confermi di persona quanto è stata costretta a scrivere nella lettera dettatale
(scena 6). Luisa, davanti all'ignara Duchessa, diventata anch'essa incon-
20
È abbastanza significativo che Wurm, unico tra i personaggi principali dell'opera, non abbia un'aria per sé. È un burocrate del male, e lo compie « come un
fatto di ordinaria amministrazione », secondo l'affermazione del Roncaglia (L'ascensione creatrice di G. Verdi, p. 142): gli manca quella passionalità che riscatta, per
Verdi, sul piano estetico, anche le figure più criminali.
sapevolmente uno strumento dell'infernale intrigo, è come l'agnello insieme ai lupi, che in questo caso sono W u r m e il Conte di Walter:
situazione un po' oleografica ma non priva di una sua ingenua efficacia
specialmente se si ponga mente a quello che è un vantaggio tecnico
indiscutibile del melodramma nei confronti del dramma parlato: la
possibilità di inserire con naturalezza nel dialogo vero e proprio degli
a parte che rivelino l'autentico stato d'animo, una confessione fatta a
se stessi e agli spettatori di ciò che gli interlocutori di scena non devono
assolutamente ascoltare.
L'ultima parte del II atto fa vedere l'effetto dell'intrigo su Rodolfo,
al quale un contadino, debitamente ammaestrato, fa aver fra le mani
il foglio vergato da Luisa (scena 7 ) ; dopo aver dato espressione alla
sua incredulità e alla sua disperazione, il giovane vorrebbe affrontare
in duello W u r m , che vi si sottrae sparando in aria un colpo di pistola
(scena 8, sette versi di recitativo in tutto) per cui accorrono armigeri e
famigliari, nonché il Conte di Walter (scena 9): Rodolfo si abbandona
tra le braccia del padre il quale, per aggiungere l'ultimo tocco all'opera
di W u r m , finge d'essersi convinto della bontà della scelta della sposa,
cioè di Luisa, fatta dal figlio. Ciò porta al massimo la disperazione
di Rodolfo che rivela il presunto tradimento dell'amata e li per li non
ha neppure più la voglia e la forza di contrastare il progetto di nozze
con la Duchessa che gli viene immediatamente suggerito come mezzo
per mostrare il proprio disprezzo per la Miller.
Alla fine del I I atto si assiste dunque ad un crescendo di disperazione; Luisa è assente, Rodolfo è in preda alla sua gelosa smania,
che gli astuti orditori dell'intrigo cercano di incanalare nella direzione
più confacente ai loro piani.
Il recitativo e l'aria della scena 7, corrispondono alla scena 2 del
I V atto di Kabale und Liebe: specialmente nel recitativo (« A h ! Fede /
Negar potessi agli occhi miei! » etc.) ritroviamo il linguaggio spezzato,
interiettivo, violento, incapace di organizzarsi in una salda architettura,
dell'originale. Nell'aria « Quando le sere al placido / chiaror d'un ciel
stellato » e t c , la melodia sviluppa il grido della passione dandogli una
compostezza e una chiarezza che trascendono gli schemi logici a cui
la parola è normalmente legata. Il senso cosmico di una passione che,
comunque venga giudicata, generosa o egoistica, riempie di sé tutta
l'anima ed è diventata unica ragione di vita per chi l'alberga dentro
di sé è espresso in maniera diretta e intelligibile più dalla musica di
Verdi che non dal testo schilleriano. L'emozione di Rodolfo, sorretta
da quella bella e semplice immagine iniziale del « cielo stellato » sotto
la cui volta sembra dipanarsi una delle più intense melodie dell'opera
ottocentesca, diviene emozione universale e per brevi momenti lo
strazio e la dolcezza del ricordo, la passione amorosa, il grido della
gelosia del giovane sono fatti propri, incondizionatamente, da chi ascolta
quel canto. È difficile identificarsi pienamente con il Ferdinand di Schiller; oltre al fatto che, come s'è già detto, il drammaturgo giudica severamente il suo personaggio e non aderisce senza riserve al suo idealismo
passionale assoluto, ma egoistico, lo spettatore di Kabale und Liebe è
sempre portato a controbattere internamente le parole del giovane,
che si crede tradito, e lo è, ma non dalla persona di cui ha in mano
la lettera; davanti alla disperazione di Ferdinand espressa in parole non
si abbandona, come davanti a quella espressa in note, perchè a tutte le
domande e a tutte le esclamazioni tumultuose del personaggio è come
sollecitato a dare fra sé e sé una risposta, una spiegazione; può compatirlo, ma non può immedesimarsi in quell'uomo disperato e furente,
perché non può, non deve dimenticare che quella disperazione e quella
furia sono il frutto di un ben architettato intrigo. Nell'opera invece il
momento evocativo, suggestivo, quello della nostalgia, prevale su quello
della rabbia, dell'esasperazione. Il testo dell'aria già di per sé ci richiama
ad un incantesimo spezzato, ma indugia più sull'incantesimo stesso che
sulla realtà del suo dileguarsi.
21
L e strofe sono di tipo assai tradizionale e assai semplice ma
hanno una loro suggestione arcana. Quel chiarore d'un cielo stellato
sembra risplendere su tutte le altre parole, continuato quasi dalla rilevante ripetizione della vocale « a », e prolungato dalle rime in « ea »
e in « ia », rime formate tutte con le desinenze poetiche di imperfetti
verbali che sottolineano l'irrevocabilità del passato felice. La cabaletta
è separata dall'aria dal concitato dialogo con W u r m prima, e poi da
quello con il Conte di Walter, ed esprime un solo sentimento: la
disperazione. Nulla v'è in Rodolfo della cupa determinazione, della
prevaricatrice arroganza, del satanismo che ispira le parole di Ferdinand
dopo il fallito tentativo di duello con il Maresciallo V o n Kalb, presunto
21 RODOLFO: Q u a n d o l e sere al placido
Chiaror d'un ciel stellato
M e c o figgea nell'etere
L o sguardo innamorato
E la m i a m a n o stringere
D a l l a sua m a n sentia
A h . . . m i tradial
Allor ch'io m u t o , estatico,
D a i labbri suoi p e n d e a
Ed ella in suono angelico
A m o te sol, diceal
T a l che sembrò l'empireo
Aprirsi all'alma miai
Ahi
Mi
tradial
amante di Luisa: « Giudice dell'Universo! non chiedermi ragione di lei.
Quella donna è mia. Ributtai per essa l'intiero tuo mondo, rinunciai alla
grandezza della tua creazione. Lasciami questa donna! ». E più avanti...
« È mia quella donna! U n tempo io m'era il suo dio... ora il suo
demonio! Per tutta l'eternità confitto con essa alla ruota dei dannati...
etc. D i o , D i o ! Formidabile è un tal connubio... ma pure... eterno! »
( I V , 4). È satanismo questa pretesa di ergersi a giudice di un'altra
22
creatura, addirittura oltre i limiti della vita terrena ; v'è c h i
2 3
ha
trovato in questo atteggiamento prevaricatore di Ferdinand un tratto
che lo fa apparire degno figlio di suo padre, il Presidente. Nulla di
tutto questo ritroviamo nel Rodolfo verdiano:
egli dice: « L'ara o
l'avello apprestami / A l fato io m'abbandono / Non temo... non desidero... / Un disperato io sono! ».
Con questo il giudizio morale rimane sospeso, viene sollecitato
soltanto il senso di pietà.
L'atto I I I — il veleno — si gioca tutto sul sentimento della pietà.
Abbiamo davanti a noi soltanto le tre vittime: Luisa, Miller, Rodolfo.
Un coro di gente del villaggio formato da amiche di Luisa apre
l'atto, e ci immerge immediatamente in un'atmosfera in cui alla compassione per le sciagure già abbattutesi sulla casa dei Miller si uniscono
2 2
Trascrivo per intero il passo di Schiller che corrisponde come collocazione
all'aria di Rodolfo:
« Verloren! Ja Ungliickselige! Ich bin es. Du bist es auch. Ja bei dem grossen
Gott! Wenn ich verloren bin, bist du es auch! Richter der Welt! Fordre sie mir
nicht ab. Das Madchen ist mein. Ich trat dir deine ganze herrliche Schbpfung.
Lass mir das Madchen. Richter der Welt! Dort -winseln Millionen Seelen nach
dir — Dorthin kehre das Aug — mich lass allein machen, Richter der Welt! Solite
der reiche vermbgende Schbpfer mit einer Seele geizen, die noch dazu die schlechteste seiner Schbpfung ist?
Das Madchen ist mein! Ich einst ihr Gott, jetzt ihr Teufel! Eine Ewigkeit
mit ihr auf ein Rad der Verdammis geflochten Augen in Augen wurzelnd — Haare
zu Berge stehend gegen Haare auch unser hohles Wimmern in eins geschmolzen —
Und jetzt zu wiederholen meine Zartlichkeiten, und jetzt ihr vorzusingen ihre
Schwure — Gott! Gott! Die Vermahlung ist furchterlich, aber ewig! ».
Le immagini d'Averno qui evocate sembrano la trasposizione sturm - und dtanghiana della dantesca « Bufera internai che mai non resta ». Le ultime parole
di Ferdinand fanno pensare al grido della Francesca di Dante: « Questi, che mai
da me non fia diviso » (Inferno, canto V).
Cfr. Benno von Wiese, op. cit., p. 201.
2 3
24
presagi di un destino ancor più ineluttabile . Questa gente di villaggio
che partecipa alle vicende che coinvolgono una o più persone dei loro,
che si trova ad esser testimone o narratrice delle fasi salienti del
dramma è, più che un richiamo erudito alle origini classiciste del melodramma, e quindi, al di là di esse, al coro della tragedia greca, uno strumento efficace per fissare la tinta sentimentale, per suggerire l'idea, la
concezione unitaria che sta alla base dell'ispirazione di una scena, di un
atto, di un'opera intiera. Il coro evoca un'atmosfera e stimola un'intensa
partecipazione emotiva da parte dello spettatore, anzi, nei casi migliori
determina una sorta di fusione mistica tra chi è sul palcoscenico e chi
ne è al di là. Quel che dice il coro non si discute, anche ammesso che se
ne percepiscano le parole, il che è spesso problematico; ci si sintonizza
con esso. N o n è il commento del librettista e del musicista all'azione:
diviene il commento di tutti gli ascoltatori.
La musica romantica instaura sempre un clima di comunione, ma
la voce solista lo stabilisce con meno immediatezza di quanto non faccia il coro. Un'immagine si ricava dalle poche parole di questo coro
all'inizio del I I I atto: quella del giglio mietuto dalla falce, anzi dal
« vomere crudel ». Immagine abusata, è vero, ma cosi radicata nel nostro
intelletto e nei nostri sensi, perché ci riconduce alle origini metaforiche
del linguaggio, da risultare sempre efficace in tutte le sue numerose
varianti.
In Kabale und Liebe questo senso di coralità manca: non si sarebbe
potuto né dovuto esprimere nelle forme del melodramma, ma avrebbe
potuto avere almeno l'aspetto già assunto nei Rauber. La tragedia che
si consuma nella modesta casa dei Miller ha un sottolineato carattere
individualista, a cui nulla muta la comparsa finale sulla scena di servitori, sergenti di giustizia e popolo; il loro « Hereinstùrzen », è stato
n o t a t o , è d'effetto, ma rimane del tutto ingiustificato.
25
Secondo la didascalia del libretto, dalla finestra aperta della stan-
24
Luisa Miller, atto III, scena 1:
CORO:
2
Come in un g i o r n o solo
C o m e ha p o t u t o il d u o l o
Stampar su quella fronte
Cosi funeste impronte?
Sembra m i e t u t o g i g l i o
D a vomere crudel
U n angel, che in esiglio
Q u a g g i ù mandava il cieli
5 Cfr. Rudolf Ibel, Kabale und Liebe, Wiesbaden 1972, p. 44.
zetta di casa Miller dove si trovano Luisa seduta ad un tavolo ed intenta
a scrivere, e le compaesane riunite in un angolo, si deve scorgere la
chiesa internamente illuminata; è un modo per ragguagliare lo spettatore sulla decisione del Conte di far celebrare al più presto le nozze
del figlio con la Duchessa; il contrasto tra la festevolezza del rito che
vien preparato e la disperazione che sta spingendo Luisa sull'orlo del
suicidio (la lettera ch'ella scrive contiene in forma inequivocabile questo
proposito) non viene né spiegato, né narrato, né commentato, ma presentato visivamente. L'azione scorre rapidissima verso la tragica fine.
Allontanatesi le compagne, entra il vecchio Miller liberato dal carcere,
che dissuade la figlia dal suicidio (scena 2). Allontanatosi anch'esso,
dopo aver preso con Luisa la decisione di abbandonare l'indomani quel
paese, compare Rodolfo, cioè un uomo avvolto in un lungo mantello;
la fanciulla che sta pregando, a tutta prima non lo scorge, e l'uomo
ha il modo di versare il veleno in un'anfora piena d'acqua posata sulla
tavola. La scena 3 di quest'atto è un capolavoro di concentrazione;
essa riassume le scene 2, 3, 4, 5, 6, 7 del V atto di Kabale und Liebe
senza che ne venga minimamente compromessa la chiarezza. L'esigenza
di rapidità impone di evitare i penosi e stentati dialoghi dell'amante
geloso con il padre Miller e con la presunta infedele; dialoghi che
hanno una giustificazione psicologica, ma che indubbiamente rallentano
ed estenuano una vicenda ormai giunta alla fase risolutiva. L e prime
parole che Rodolfo rivolge a Luisa, che si leva dopo aver tacitamente
pregato, sono: « Hai tu vergato questo foglio? ». La domanda è ripetuta
un'altra volta; al « si » di Luisa, pronunciato con voce morente, Rodolfo
chiede di bere (« M'arde le vene / Le fauci... orrido foco... Una bevanda »). Dice di aver trovato amara la bevanda, e cosi induce Luisa
a berne anche lei per sincerarsene. Sono stati pronunciati solo quattro
endecasillabi e « tutto è compiuto ». Questa concisione evita allo spettatore dell'opera di domandarsi il perché dell'ostinata osservanza, da
parte di Luisa, del giuramento ricattatorio.
L'osservanza di quel giuramento, si è visto, è il punto nodale di
Kabale und Liebe, è il segno tangibile e irrinunciabile del legame di
Luise con il mondo di suo padre, con quel mondo borghese che per
tutto il dramma viene contrapposto a quello aristocratico da un lato,
e a quello del soggettivismo idealista dall'altro. È essenziale, in Kabale
und Liebe, che Luise riveli la verità solo quando sa di essere stata avvelenata; tuttavia, il pensiero che una spiegazione più tempestiva avrebbe
evitato la catastrofe — e Luise nel corso del V atto viene più volte
26
sollecitata, supplicata, a tentare di dire almeno una b u g i a pur di
smentire il contenuto di quella maledetta lettera — finisce per lasciare
nello spettatore un senso di sconcerto e di insoddisfazione.
Ma nel melodramma, come si è visto, l'azione è troppo rapida per
permettere una qualsiasi riflessione su questo punto.
Gli scrupoli di Luisa (« E tacer deggio? / Deggio? ») non sembrano più inopportuni: sono, lo spettatore lo sa, tragicamente inutili:
anche s'ella se ne liberasse, il veleno sta già compiendo la sua opera.
Un passo che mostra chiaramente la differenza tra la concezione
schilleriana, sturm-und-dranghiana di Ferdinand, e quella romantica di
Rodolfo è quello in cui il giovane, subito dopo aver bevuto e aver
fatto bere il veleno, getta a terra la fascia e la spada. In Kabale und
Liebe accompagna il gesto esclamando:
« Gute Nacht, Herrendienst! » (Addio per sempre, insegne di servirtù!) (atto V , 7 ) . Nell'opera esclama:
Addio
Spada su cui difender l'innocente
E l'oppresso giurai!
(Atto I V , 3).
Tralasciando ogni tentativo di apparire sarcastico, beffardo e cinico,
come si sforza di fare invece il suo modello, il Rodolfo verdiano si
abbandona tutto al sentimento della sua mortale infelicità; non impreca,
piange, e non si può negare ai semplici versi del Cammarano la capacità
di provocare un'immediata vibrazione. Rodolfo non è un invasato, dimentichiamo che è un assassino: egli è in questo momento solo un
infelice .
27
26
Cfr. Kabale und Liebe, V , 2: « FERDINAND: Rede mir wahr, Luise — oder
nein, nein, tu es nicht (...). Eine Lùge, Luise — eine Lùge. O wenn du jetzt eine
wiisstest, mir hinwarfest mit der offenen Engelmiene, nur mein Ohr, nur mein Aug
iiberredetest, dieses Herz auch noch so abschaulich tauschtest » (Dimmi la verità,
mia Luisa — Ma no! no! non dirla! [...] Una bugia, Luisa, una bugia! Oh! Se tu
potessi trovarne una! E proferirla con quell'aria angelica, ingenua, e persuaderne il
mio orecchio, il mio sguardo, il mio cuore iniquamente tradito!).
27
Cfr. Rodolfo (a Luisa):
T'arretra... In questi
Angosciosi m o m e n t i
P i e t a d e almen d'un infelice, a h i
senti!
(IV, 3 ) .
Il sentimento si effonde poi in due quartine di ottonari, a cui la
frequenza della vocale « o » dà il suono cupo di rintocco funebre:
Allo strazio ch'io sopporto
Dio mi lascia in abbandono.
No, di calma, di conforto
Queste lacrime non sono...
Son le stille, il gel che piomba,
Dalla volta di una tomba!...
Gócce son di vivo sangue
Che morendo sparge il cor.
L e immagini sono tolte da Schiller; ma in quel testo hanno un
altro significato, ed è lo stesso Ferdinand che lo spiega « con spaventosa solennità ».
Tranen um deine Seele, Luise — Tranen um die Gottheit, die ihres unendlichen Wohlwollens hier verfehlte, die so mutwillig um das herrlichste ihrer Werke
kommt —. (Lacrime per l'anima tua, Luisa! Lacrime per la Divinità la quale
rompe a questo scoglio l'infinita sua benevolenza, e perde la più bella delle sue
fatture...). (Atto V, 7).
L'infelicità diviene disperazione senza limiti quando giunge la
rivelazione dell'innocenza di Luisa:
Maledetto il di ch'io nacqui,
Il mio sangue, il padre mio!
Fui creato, avverso Iddio,
Nel tremendo tuo furor!
Entra il vecchio Miller; le tre vittime sono davanti a noi: la proposta, sia letteraria sia musicale, viene adesso da Luisa; davanti al
suo celestiale candore anche la disperazione e lo strazio sembrano placarsi in un'estasi dolcissima ultraterrena. I l testo sottolinea questo vagheggiamento d'un mondo migliore: le sestine affidate ai tre personaggi
terminano con la parola « d e l »
LUISA:
Ah! vieni meco! ah! non lasciarmi!
Clemente accogliere ne voglia il ciel!
RODOLFO:
Si, teco io vengo, spirto divino...
Clemente accogliere ne voglia il ciel!
MILLER:
Non è più mio quest'angiol santo...
Me lo rapisce invido il ciel!
Nella morte dell'eroina verdiana sentiamo la romantica voluttà
del pianto; la morte dell'eroina schilleriana è il punto di partenza per
una requisitoria contro lo sconvolgimento delle leggi della natura operato dall'uomo.
I l cadavere dell'« angelo santo » suscita nella mente di Ferdinand
immagini diverse: « Lasciatemi morire su questo altare! » è la sua
penultima frase; ma poco prima ha detto al Presidente:
Una figura come questa solleverà le cortine del tuo letto quando vi dormirai,
e ti porgerà la sua mano di ghiaccio... Una figura come questa si pianterà sulla tua
fossa al dì della risurrezione... e presso a Dio quando farà giudizio delle colpe...
(Eine Gestalt, wie diese, ziehe den Vorhang von deinem Bette, wenn du schlafst,
und gebe dir ihre eiskalte Hand [...]. Eine Gestalt, wie diese, stehe auf deinem
Grabe, wenn du auferstehst — und neben Gott, wenn er dich richtet).
D o p o l'addio di Luisa, nel melodramma, v'è un finale che condensa
in soli quattro versi l'intera scena ultima di Schiller: compaiono Walter
col suo seguito, W u r m e i paesani; Rodolfo trafigge W u r m , poi cade
morto accanto a Luisa; Walter fa a tempo a dire soltanto « Figlio! »,
e l'ultima sillaba dell'opera è un Ah! di raccapriccio e di pietà, posto
sulla bocca di tutti gli astanti.
Come già per i Masnadieri,
la chiusa dell'opera non rispecchia le
intenzioni di Schiller: essa rimane folgorata su quel colpo di spada
seguito dalla breve interiezione, quasi a significare la lacerazione arrecata ai nostri sentimenti, lacerazione non componibile, non superabile
con i mezzi offerti dalla ragione. All'opera non interessa il giudizio,
ma il dolore, la rabbia, la vendetta. Nelle ultime battute di
und Liebe
Rauber:
Kabale
si delineava una catarsi, anche se meno esplicita che nei
lo smaniare di W u r m , satanico sino in fondo ma destinato
ormai al patibolo, la stretta di mano che Ferdinand, morendo, concede
in segno di pace al padre, le parole di quest'ultimo agli armigeri: .« Ora
son vostro prigioniero » facevano intravedere, nonostante tutto, la vittoria dell'idea etica; interesse questo che il dramma romantico, nella
forma tipica dell'opera in musica, non possiede.
Dal punto di vista musicale, questo I I I atto rientra nella tradizione degli splendidi ultimi atti verdiani. Si possono ben citare le
parole della Gazzetta
Musicale
di Milano, 1" giugno 1 8 5 6 : « O v e il
dramma s'infervora, ove il nodo drammatico si stringe e si sviluppa,
ove le passioni toccano la loro massima tensione e la catastrofe si va
avvicinando, ivi cresce, si accalora, bolle, per cosi dire, anche la mu-
sica ». Per questo il Cammarano dovette enucleare dal complesso dramma originario la sostanza passionale, portare allo spasimo la tensione
dei sentimenti e presentare al musicista, nel minor numero di versi
possibile, la conseguenza inevitabile di tali tensioni accumulatesi nel
breve spazio di un libretto. Il fine è provocare l'attonito stupore di chi
assiste, lasciare il problema aperto, lasciare un angoscioso interrogativo
nell'animo di chi ascolta: perché tutto questo è potuto accadere?
Schiller si sforza di spiegare i termini del problema e di indicarcene in qualche modo una soluzione; agli operatori del dramma in
musica interessano solo le emozioni che possono essere suscitate dalla
presentazione del problema e dalla dimostrazione della sua insolubilità
sul piano di una logica etica e razionale .
La brevità alfieriana dell'ultima scena del libretto, che si ripeterà
nell'ultima scena del Trovatore, dello stesso Cammarano, è un mezzo
indispensabile per questo fine: il pugnale deve essere aguzzo, e balenare
improvviso, perché la stoccata vada a segno con infallibile sicurezza.
28
Verdi, che aveva scelto l'argomento di questa sua opera quasi per
caso, dopo averlo messo in ballottaggio insieme con altri, scrisse la Luisa
Miller perché, anche per ragioni di censura, non poteva in quel momento
28
Un'analisi completa e molto acuta del testo della Luisa Miller raffrontata
con il dramma di Schiller è stata fatta dal Gerhartz in Auseinandersetzungen des
jwigen Giuseppe Verdi mit dem literariscben Drama, che ha costituito il punto
d'avvio per la presente analisi. Il Gerhartz dimostra inappuntabilmente, come aveva
appena fatto con il Macbeth, la differenza fra le strutture del dramma parlato e
quelle del dramma in musica del Verdi giovane, ma tende a sorvolare sugli elementi
melodrammatici che Kabale und Liebe possiede e che si legano soprattutto alle
figure di Ferdinand e di Lady Milford.
Il Gerhartz, partendo dall'esame dei libretti di Emani, Macbeth e Luisa Miller,
ricostruisce un'immagine delle opere originarie, rispettivamente di Victor Hugo, di
Shakespeare e di Schiller, secondo la quale Kabale und Liebe verrebbe a trovarsi,
a mio avviso, troppo accosto al Macbeth. Personalmente noto che, se agli effetti
della trascrizione librettistica il dramma di Victor Hugo si distingue nettamente
dagli altri due, una divisione molto profonda intercorre anche tra quello di Shakespeare e quello di Schiller, proprio perché il Macbeth occupa già una posizione
particolare nell'ambito della stessa produzione shakespeariana: non si può dire che
costituisca un'eccezione, ma rappresenta l'esemplificazione massima di un processo
di concentramento dell'azione che non ritroviamo né in Amleto, né in Re Lear, né
in Otello. La decisione con cui il dramma tende senza divagazioni e senza intermezzi comici alla soluzione fa pensare all'Alfieri, e fu probabilmente questo ad
attirare librettisticamente Verdi.
Schiller creò capolavori di concentrazione in singole scene, mai in un dramma
tutt'intero; in ogni caso, la più stringata delle sue tragedie, pur lontana dal modello macbethiano, è la Maria Stuart e non certo Kabale und Liebe.
(nel 1848) utilizzare un altro testo. Propose lui la suddivisione in scene,
lasciò al librettista la stesura dei versi. Tuttavia non si mostrò molto
soddisfatto del risultato letterario definitivo: intuì probabilmente d'aver
perso l'occasione « di impostare una teatralità risolutamente rivoluzionaria e violenta, sulla base di uno dei testi più sicuramente rivoluzionari
di tutta la cultura sette-ottocentesca » . I l lievito rivoluzionario in
effetti nel libretto del Cammarano manca: ma d'altronde era questa
una condizione perché il dramma passasse tra le maglie della sospettosa
censura. In pratica l'opera ci narra la versione tragica della favola di
Cenerentola, con la povera fanciulla bella e virtuosa a cui la cattiveria
umana impedisce di convolare a nozze con il suo principe e per cui
l'unica prospettiva di felicità è l'abbandono di questa valle di lacrime
e il risveglio nel più sereno di dell'eternità. Eppure, anche se sostanzialmente diversa nello spirito e nelle strutture dal dramma originario,
la composizione del Cammarano ha una sua compiutezza, coerenza e
autonomia, per cui merita d'essere valutata di per sé, e non solo attraverso il confronto con Kabale und Liebe.
2 9
Nicolò Castiglioni, op. cit., p. 427.
Ili ATTO DELLA « FORZA DEL DESTINO »
La seconda parte dell'atto I I I della Forza del Destino (1863 prima
edizione) è la trasposizione melodrammatica del Wallensteins
Lager.
Il testo di Schiller è stato tenuto presente non solo per la predica di
fra Melitone, ricalcata con evidenza su quella del Cappuccino, ma per
l'intera articolazione della parte finale dell'atto I I I .
Il merito di averlo rilevato è del Gerhartz dalla cui analisi non si
può prescindere per capire questo ennesimo prelievo del melodramma
verdiano dal teatro schilleriano. In un secondo momento occorre poi
porsi la domanda perché questo inserto sia stato fatto nella Forza del
Destino invece che in una qualsiasi altra opera di Verdi.
1
Il Wallenstein aveva affascinato il musicista proprio per le evidenti possibilità di essere configurato in una serie di quadri melodrammatici.
Una sua lettera al Cammarano del 1849, l'epoca in cui la collaborazione per la Luisa Miller sembrava potersi continuare in un'opera
L'Assedio di Firenze che poi non venne mai scritta, contiene queste
preziose indicazioni:
I
Uno studio filologico sulla predica di fra Melitone, posta a confronto con
l'originale schilleriano, è stato fatto da P. Matenko, Schiller's Kapuzinerpredigt and
La Forza del Destino, in « Symposium », XIII, New York 1959.
II confronto tra l'intero Wallensteins Lager e l'intera seconda parte del III atto
dell'opera di Verdi è stato condotto con estremo rigore e grande ricchezza di osservazioni nel saggio di L. K. Gerhartz, Verdi und Schiller. Gedanken zu Schillers
Wallensteins Lager und den Schlusszenen des dritten Aktes der Forza del Destino,
in « Bollettino dell'Istituto di Studi Verdiani », voi. II, n. 6, Parma 1966, p. 1589
e ss.
Ili
ATTO DELLA
" FORZA
DEL DESTINO "
109
V'è una scena stupenda in questo genere nel Walensthein di Schiller (sic):
soldati, vivandiere, zingari, astrologhi, persino un frate che predica alla maniera
più comica e deliziosa del mondo. Voi non potete mettere un frate, ma potrete
mettere tutto il resto e potete anche fare un ballabile di zingare. Insomma fatemi
una scena caratteristica che dia veramente l'idea di un campo d'armata (Abbiati II, p. 5).
Verdi aveva già integrato con la sua fantasia il quadro del Lager,
dove mancano, a dire il vero « zingari e astrologhi »: ma l'impressione
generale che si ricava dal Lager, rafforzata dalle didascalie, è quella
d'una confusione zingaresca, e non certo di una caserma; quanto all'astrologia, v'è un accenno alla credenza nelle stelle di colui che, pur
senza comparire, è il punto di riferimento obbligato di ogni discorso
scambiato tra Wachtmeister, Dragonen, Kurassieren, e t c : Wallenstein.
Dieci anni più tardi, proprio la possibilità di utilizzare la predica del
Cappuccino, dato che il frate come personaggio era già stato trovato
in Melitone, fece intravedere a Verdi l'opportunità di utilizzare il Lager
per il caleidoscopio di scene (dalla X alla X I V ) che concludono il terzo
atto della Forza del Destino.
Il libretto è di Francesco Maria Piave (1810-1876), che però trae
i versi della predica di Fra Melitone direttamente dalla traduzione del
Lager di Andrea Maffei, il quale aveva dato amichevolmente il benestare a questa operazione: « Se nel Wallenstein trovi qualche verso
che possa entrare nel melodramma, usane come cosa tua » scriveva il
Maffei al Maestro (Abbiati, I I , p. 656).
La figura di Melitone è l'unico legame drammatico tra questa
parte dell'opera e la vicenda di Don Alvaro, don Carlo e Leonora.
Il Lager schilleriano ha una funzione drammatica: quella di profilare la figura di Wallenstein e di preannunciare il suo agire e il suo
destino ( « Sein Lager nur erklàret sein Verbrechen » si dice nel Prologo); come il protagonista delle tragedie alfieriane, il Duca di Friedland
entra in scena dopo il primo atto, dopo che l'autore ce lo ha fatto conoscere indirettamente attraverso i discorsi, le allusioni, i comportamenti
della gente che è la base della sua grandezza; ma questa finalità drammatica è raggiunta con mezzi epici. Il Lager è una serie di quadri, variopinti, pittoreschi, dove il comico (la predica del cappuccino) e il tragico
(la situazione della campagna, attraverso le parole del contadino che
tenta di riprendersi, barando al gioco, qualcosa di quel che gli è stato
rubato dalla soldataglia) si mescolano all'allegra spensieratezza e al disinvolto cinismo dei soldati in un complesso vivacissimo, eppure statico,
ai fini dell'azione. V i sono personaggi che a g i s c o n o (il contadino,
la recluta, il cappuccino, i soldati che fanno i loro piccoli commerci)
ma tutto questo vario agitarsi è fine a se stesso, non prepara ulteriori
svolgimenti; alla fine risuona più alta la nota della spensieratezza della
vita militare, che è bella perché è libera, quindi l'esaltazione della libertà, che riassume e fissa tutti gli altri motivi che son venuti man mano
affiorando.
Tra la I rappresentazione del Don Carlos ( 1 7 8 7 ) e quella del
Lager (1798) passano undici anni, che Schiller dedica intensamente
agli studi di storia e di filosofia. La trilogia del Wallenstein segna il
suo ritorno alla drammaturgia; quest'opera poderosa obbedisce a un
piano diverso da quello degli Jugenddramen. Con tutto ciò, il Lager
ha una posizione particolare nel teatro schilleriano, nel senso che l'autore abbandonerà subito questo tipo di esposizione epica, che riprenderà poi solo parzialmente nel Wilhelm Teli. Ma dato che essa contrasta con le regole del dramma, poteva apparire fruibile, e in effetti lo
era, dal melodramma, la cui tendenza è di utilizzare affetti, azioni, emozioni, elementi di folklore per formarne dei quadri. Il quadro, cioè il
punto di arrivo, è ciò che interessa l'autore di un'opera, mentre ad un
drammaturgo deve interessare di più il processo attraverso il quale si è
giunti a quel quadro, la strada seguendo la quale si è arrivati ad un
dato effetto. Il Lager ci dà una situazione di fatto, che servirà come
punto di riferimento per capire l'azione successiva cui sono dedicate
le altre due parti della trilogia {Die Piccolomini e Wallensteins
Tod);
le scene della Forza del Destino non si connettono se non esteriormente a fatti e. personaggi precedentemente introdotti, e non avranno
alcuna influenza sul successivo dipanarsi dell'azione.
Naturalmente il ritratto del Lager non è fedele se non nella predica di Fra Melitone (collocata circa a metà del caleidoscopio, come
in Schiller quella del Cappuccino); per il resto possiamo rintracciare
la ripresa di parecchi spunti particolari, oltre che dell'idea generale, esaltata nel Rataplan finale, che è quella dell'allegro vivere alla giornata
dei soldati, al ritmo della fanfara militare.
Gli spunti sono le didascalie, che ci mostrano visivamente l'allegra
confusione del campo, il coro iniziale « Lorché pifferi e tamburi » che
riprende il canto della Recluta, e il coro dei contadini che chiedono pane.
La facilità piuttosto volgare delle rime e dei ritmi è voluta, e
si riconnette, anche se un p o ' alla lontana, con la metrica del Lager.
La lingua del Lager non è certo popolare, ma per il ritmo Schiller
2
ricorse a quello popolarissimo del Knittelvers ,
della tradizione dei
Meistersinger.
Abbiamo una sua lettera a Goethe in cui afferma come l'uso di
tale verso gli si fosse presentato spontaneo per l'esposizione degli umori
della soldatesca.
In Verdi la presenza della zingara Preziosilla, controparte femminile di Melitone, la cui figura non ha alcun punto di contatto con la
Gùstel del Lager, infonde levità e brio alle sei scene, in cui l'originario
spirito teutonico si stempera in un'atmosfera di scintillante folclore
spagnolo.
Ma perché questa intrusione schilleriana, adeguatamente modificata,
proprio nella Forza del Destino, che non è derivata da Schiller? Si può
rispondere che Verdi aveva « visto » quei quadri di vita variopinta ai
margini della guerra e ne aveva intuito l'efficacia del contrasto con una
vicenda estremamente lugubre; il dramma del Duque de Rivas, con la
mescolanza di stili e la varietà di personaggi, con l'assoluto dispregio
dell'unità di luogo (l'azione si sposta per anni da un punto all'altro
della Spagna) gli sembrò il più adatto per un'operazione di questo
genere .
3
Per conto mio le scene avrebbero potuto trovar organicamente
posto anche nel Trovatore, pur riconoscendo che i tempi molto più
serrati dell'azione di quest'altra o p e r a avrebbero concesso meno spazio
a una digressione così ampia.
4
2
II Knittelvers {versus ropalicus = verso del bastone, ossia scandito con forza) è molto vicino al nostro ottonario dall'andamento trocaico. Consta di quattro
arsi (Hebungen) e di quattro tesi (Senkungen). Al tempo di Goethe (che lo usò nel
primo monologo di Faust) e di Schiller, mentre la posizione delle tesi era fissa,
il riempimento delle arsi era libero, e in tale posizione si potevano riscontrare una
o due o tre sillabe.
L'autore di Don Alvaro o La fuerza del sino (1835) è lo scrittore e uomo
politico spagnolo Angel Saavedra, Duque de Rivas (1792-1865). Liberale, deputato
al Parlamento nel 1822, sotto il regno di Ferdinando VII emigrò in Inghilterra,
Italia e Francia, dove i dibattiti sul teatro romantico erano più accesi (Hernani di
Victor Hugo è del 1825). Tornato in patria a seguito d'una amnistia, segui la carriera politica e diplomatica. Nel 1863 assistette alla prima rappresentazione madrilena dell'opera di Verdi tratta dal suo dramma.
L'autore di El trovador (1836) è Antonio Garcia Gutiérrez (1813-1884), altro
notevole esponente del Romanticismo spagnolo, che fu anche console di Spagna a
Genova (1868-1869). Il Gutiérrez ispirò anche il Simon Boccanegra (testo di Francesco Maria Piave; I edizione 1857; II edizione, profondamente rimaneggiata da
Arrigo Boito, 1881); anche tale opera presenta il meccanismo dei colpi di scena
legati ad una agnizione e rientra quindi nella sfera degli Schicksalsdramen. Giovi
3
4
Ebbene, il dramma del Duque de Rivas come quello del Gutiérrez
presentano la variante spagnola dello Schiksalsdrama per la cui paternità v'è motivo di chiamare in causa Schiller. Jànos L i e b n e r è il
primo, che io sappia, ad avere accennato al problema dell'influenza di
Schiller su Verdi, non solo diretta come nelle opere derivate da suoi
testi, ma anche mediata attraverso la diffusione dei drammi del destino,
quali sono appunto la Forza e il Trovatore.
5
L o sono nella maniera più evidente, perché in realtà tutto il
dramma e il melodramma romantico, in tutta Europa, hanno questa
caratteristica.
Non si possono chiamare Schicksalsdramen le tragedie di Schiller,
autore legato per molti aspetti al razionalismo settecentesco; ma dato
che l'influenza esercitata da un autore è connessa inevitabilmente anche
al fraintendimento dell'autore stesso, occorre almeno accennare al fatto
che la sua Braut von Messina diede l'avvio a tutta una serie di drammi
imperniati su coincidenze fatali. In Schiller le coincidenze fatali sono
sempre in funzione dell'idea etica; nei suoi seguaci l'idea etica non fu
più rintracciabile, ma le coincidenze fatali fini a se stesse rimasero e si
moltiplicarono.
È significativo che Verdi avesse avuto in animo di comporre
un'opera tratta dalla Ahnjrau ( 1 8 1 7 ) del grande tragico viennese Franz
Grillparzer.
La Ahnjrau è una tipica tragedia del destino che colpisce ciecamente senza una parvenza di logica. N o n va dimenticato che il suo
autore era un fervido ammiratore di Schiller.
Schiller, è vero, non avrebbe mai scritto un'opera simile, e possiamo essere sicuri che l'avrebbe severamente giudicata: ma la sua ascendenza è fuor di dubbio. Se dal modo di lettura di un drammaturgo è
lecito, come è lecito, trarre indicazioni importanti non solo su chi opera
una trasfigurazione, ma anche sull'autore che viene trasfigurato, e anche
deformato, occorre che riconosciamo una volta di più nel gusto per
l'intrigo e per il colpo di scena del poeta di Marbach uno dei motivi
capitali che gli spianarono la strada presso autori e pubblico dell'epoca
notare però che nel Simone il ritrovamento e il riconoscimento di una fanciulla
creduta scomparsa nella più tenera infanzia porta alla pacificazione degli animi e
imprime quindi una svolta positiva all'azione, invece di farla precipitare in una
fosca tragedia.
Cfr.: Janos Liebner, L'influence de Schiller sur Verdi, in « Schweizerische
Musikzeitung » (1961), p. 105 e ss.
5
romantica in Europa. I drammi del romanticismo spagnolo che ispirarono a Verdi due tra le sue opere più infuocate, presentano la trascrizione in termini di Schicksalsdrama del dinamismo delle tragedie schilleriane, e soprattutto della Braut von Messina.
N e l Trovatore abbiamo il motivo dei fratelli nemici che, sconosciuti l'uno all'altro, amano la stessa donna; nella Braut abbiamo lo
stesso motivo dei fratelli nemici, che, non ignoti questa volta l'uno
all'altro, si innamorano di una bella fanciulla sconosciuta, tenuta nascosta in un convento, che si rivelerà essere la loro sorella.
Fosco e insieme fiabesco è l'antefatto — in entrambi i casi la tentata soppressione di un bambino — che viene esposto in apertura di
scena da Isabella nella Braut e da Ferrando nel Trovatore. L a sopravvivenza delle due creature, che non conoscono esse stesse la propria
vera identità, è la causa del romanzesco aggrovigliarsi degli eventi e del
loro tragico scioglimento.
Una maledizione sta sospesa sui personaggi sin dall'inizio, e si
compie inesorabilmente.
Lo stesso può dirsi della Forza del Destino; benché la religione
cattolica sia presente qui, nelle figurazioni più popolari e pittoresche,
care al manierismo romantico (processioni di pellegrini, conventi arroccati sulle montagne, salmodie di frati, eremi) la Provvidenza manzonianamente intesa è del tutto assente. D o n Alvaro è un trastullo nelle
mani di un destino cieco e crudele, dietro cui è impossibile intravedere
la mano del D i o cristiano.
Il melodramma romantico presenta lo schema di un Schicksalsdrama, anzi, si deve proprio alla preponderanza del teatro musicale su
quello parlato nell'Europa dell' '800 se a un certo punto tale schema
divenne abituale anche al di fuori dell'opera; ma in questa trasposizione
di schema i drammaturghi come Grillparzer, il Duque de Rivas e G u tiérrez trovarono un punto d'appoggio e di avvio in Schiller.
Ecco perché le scene del Wallensteins Lager, che avevano colpito
la fantasia di Verdi per l'occasione che offrivano di essere atteggiate a
quadro musicale, trovarono una collocazione pertinente in un contesto
che risente degli spiriti schilleriani, pur essendo stato ideato sotto
tutt'altro cielo.
DON
CARLOS *
1. - LA VICENDA STORICA E IL PERCHÉ DI UN MITO.
La sorte poetica dello sventurato principe spagnolo è veramente
singolare ed è stata narrata con molta chiarezza e perizia nell'opera di
Ezio Levi, II principe Don Carlos nella storia e nella leggenda, Pavia
* Le edizioni del Don Carlos di G. Verdi sono tre: la I è del 1867, in 5 atti
con i ballabili.
Il testo francese è di F. J. Méry (1797-1865) e C. Du Lode (1832-1903). La
collaborazione di due librettisti, all'uno dei quali spettava la stesura, all'altro la
verseggiatura d'un testo d'opera, era abituale in Francia (cfr. la coppia MeilhacHalévy cui si deve il testo della Carmen di Bizet, quella Etienne e Bie cui si deve
il Guglielmo Teli di Rossini).
Il poeta F. J. Méry mori poco tempo dopo essersi messo al lavoro, nel 1865,
il testo del Don Carlos francese è in massima parte opera del Du Lode, uomo
assai pratico di teatro d'opera, genero dell'Intendente dell'Opera, che successivamente tradusse in francese i libretti dell'Aida e dell'0/e//o.
La versione ritmica italiana del Don Carlos è di Achille de Lauzière, ed è
molto banale e piatta. Alla traduzione collaborò anche Angelo Zanardini, ma non
si sa in quale misura.
La II edizione in 4 atti, con il sacrificio del I atto, senza ballabili e con notevoli mutamenti soprattutto nella scena tra il Re e Posa, in quella della sommossa
dopo la morte di Rodrigo, e nel finale, è del 1884. Fu rappresentata alla Scala,
anche se la versione in 4 atti era stata richiesta nel 1882 dall'Opera di Vienna.
Per le numerose modifiche il musicista chiese la collaborazione di Antonio Ghislanzoni, il librettista dell'Aida (1872).
La III edizione, del 1886, ripristinò il I atto e conservò tutte le modifiche
della edizione del 1884.
La II e III edizione sono in italiano.
Nella mia analisi, per l'indicazione degli atti e delle scene ho tenuto presente
la III edizione, considerandola quella definitiva nella mente del musicista, anche se
•a partire dal 1884 la II edizione è stata ed è la più rappresentata per intuibili mo-
l
1 9 1 4 . In effetti possiamo dire di trovarci di fronte ad un mito, come
tale destinato a sopravvivere attraverso una serie di varianti, di modificazioni, di adattamenti allo spirito delle varie epoche, e a perdurare
oltre e nonostante l'opera di restaurazione della verità storica a cui si
sono dedicati con scrupolo e serietà tanti studiosi dall' '800 ad oggi.
Quello di Don Carlos è il caso veramente singolare di un mito che
sorge intorno a una figura a dir poco insignificante e meschina, atta
se mai a ispirare compassione, ma non certo a trasfigurarsi in un portatore e suscitatore di alte idealità. Eppure, in poco più di tre secoli,
novellieri, romanzieri, drammaturghi e musicisti hanno contribuito a
formare un'immagine di lui e di Filippo I I , il padre-antagonista, pressoché impossibile a cancellarsi. Il motivo principale di questa trasfigurazione che è una vera e propria falsificazione è l'eccezionale contesto
storico-politico-ideologico in cui si svolse la vicenda vera: Filippo I I
fu un padrone del mondo, ed è raro che una simile prerogativa acquisti
la simpatia di coloro che se l'appropriano in una fase immediatamente
successiva.
La Spagna sotto Filippo I I raggiunse l'apice della sua potenza; per
un breve periodo, per circa mezzo secolo (50 anni sono pochi nella
vita di un popolo) fu la guida, il modello dei popoli europei, e già
il fatto di essere un modello comporta spesso una dose di animosità,
se non di odio, anche da parte di chi se ne fa trascinare. Disse la sua
parola nella religione, nell'arte, nella politica, nel costume, parola che
suonò ostica e strana ad un continente che aveva radici culturali in parte
diverse dalle sue, per poi lasciare il campo alle potenze — Paesi Bassi,
tivi tecnico-pratici. Il testo viene citato in italiano, quando non vi sia un esplicito
riferimento alla I edizione, o non sussista la necessità di un confronto tra i versi
francesi e quelli italiani.
Pur nella consapevolezza che uno studio fonetico del testo originario francese
darebbe risultati interessantissimi sull'influenza che l'atmosfera del Decadentismo
francese esercitò sulla musica di Verdi, ho ritenuto che tale indagine mi avrebbe
portato troppo lontano dal discorso sui rapporti tra Schiller e il musicista italiano
e non me ne sono assunta l'onere e la responsabilità.
II testo del Levi è il costante punto di riferimento per il Don Carlos di Cesare Giardini, Milano 1933Milano 1956 , un'opera scrupolosa e di assai agevole
lettura. Sullo stesso argomento si veda anche la trattazione breve, ma densissima
di notizie, contenuta nell'articolo di Maria Rosa Alonso, El tema de don Carlos en
la literatura. Sus origine y desarrollo, in « Atti », II.
1
2
Francia, Inghilterra — che l'avevano combattuta e che scrissero la storia dal '600 in avanti.
La sciagura familiare legata al nome di D o n Carlos, debitamente
riveduta e corretta, pareva eccellente per mostrare « di che lagrime »
grondasse « e di che sangue » il trono di Filippo I I ; quale accusa,
meglio di quella dell'uccisione di un figlio, poteva indicare la disumanità, l'implacabilità, l'odiosità non solo di un singolo uomo, ma di
tutto il sistema politico-economico-reHgioso-miHtare di cui quest'uomo
era a capo?
La regina Elisabetta di Valois, terza moglie di Filippo I I , fu coinvolta più tardi, storiograficamente parlando, nel dramma che metteva
a confronto padre e figlio; la leggenda dell'infelice passione che l'avrebbe
unita all'Infante nasce con la novella dell'Abbé de Saint-Réal nel 1 6 7 2 ,
mentre la prima accusa di parricidio lanciata a Filippo si trova nel
Diogenes, di autore ignoto, apparso nel 1 5 8 1 e nell'Apologia di G u glielmo d'Orange, dello stesso anno. Il fatto che la regina fosse francese contribuì non poco al diffondersi della leggenda, perché gli scrittori del paese che aveva soppiantato la Spagna nella supremazia europea
non si lasciarono sfuggire l'occasione di accennare, anche solo indirettamente, alla differenza tra il carattere spagnolo, impersonato da Filippo I I , tetro e chiuso, e quello gaio e liberale della Corte di Francia,
da cui la giovane regina proveniva.
L'altra antagonista di Filippo, questa è la tesi, ha ricevuto un'educazione umana, conforme ai dettami della sensibilità e della bellezza,
un'« educazione estetica » direbbe Schiller, in un ambiente relativamente libero, sereno e cavalleresco.
Che sussistessero queste differenze tra la corte di Filippo I I nel
primo decennio del suo regno ( 1 5 5 7 - 1 5 6 8 ) e quella di Caterina de'
Medici, vedova di Enrico I I e madre di Elisabetta, è assai arduo dimostrare. Il motivo della superiorità del costume francese su quello spagnolo è comunque accolto anche da Schiller: « Era pur altro, nella
mia Francia », esclama Elisabetta dopo che il Re ha perentoriamente
congedato la sua dama di compagnia, rea di aver lasciato sola la sua
sovrana infrangendo l'etichetta (Atto I, scena 6 ) ; nell'opera di Verdi
assume un'importanza rilevante, dato che l'argomento è tornato in
2
2
Per non dire dell'aiuto politico-militare che la Regina promette a Carlo, all'insurrezione da lui capeggiata, da parte del suo paese d'origine, nel colloquio con
il Marchese di Posa (atto IV, scena 3).
mani francesi, in quelle dei librettisti Méry e D u L o d e e il melodramma
è composto per l'Opera di Parigi.
Il primo dei cinque atti, che si svolge a Fontainebleau ed è inventato di sana pianta rispetto all'originale, risponde anche a quest'esigenza
patriottico-politica .
3
Per concludere: la vicenda biografica di Don Carlos si svolse su
di un palcoscenico troppo elevato, nella corte più importante del
sec. X V I , in un punto nodale della storia del mondo, per beneficiare
dell'oblio e del silenzio; e se insignificante è la figura del principe,
troppi importanti personaggi di quel secolo che diede i natali a Shakespeare gli passarono accanto e proiettarono la loro ombra su di lui,
o intersecarono comunque il breve corso della sua esistenza, perché non
ci si dovesse accorgere di lui; egli si trovò al centro di una costellazione prodigiosa di personaggi e di interessi politici, nazionali, religiosi,
ideologici si da costituire un'occasione unica per l'affermazione di tesi
e di controtesi. Si formò intorno a questa figura un clima psicologicopolitico tutto particolare: la storia dell'amore tra figliastro e matrigna,
tema in sé abbastanza sfruttato, riceveva un nuovo risalto e una nuova
suggestione dalla collocazione politico-dinastica delle molte persone implicate nella vicenda. D'altra parte i problemi d'interesse generale, la
storia dei popoli, il confronto fra le ideologie difficilmente divengono
fattori di commozione in un'opera drammatica, se non hanno una ripercussione sul carattere e sull'agire dei singoli. Il conflitto esterno va
interiorizzato per divenire umanamente interessante. La vicenda fantastica che germogliò e crebbe sulla vicenda storica sino a offuscare e in
certi punti a celare completamente quest'ultima offriva il destro di
presentare dibattiti essenziali ed universali, quali quelli sulla libertà
e la tirannia, la morale e la politica, attraverso l'accentuazione sentimentale dei complessi legami aflettivi e di parentela che uniscono fra
loro le persone del dramma.
4
Si legge una storia d'amore , ma essa vive sin dall'inizio nell'otti3
Gli italiani lessero per la prima volta del Don Carlos di Schiller nel XVIII
capitolo deìl'Allemagne di Madame de Stael in questi termini: « Une jeune princesse, fille de Henri II, quitte la France et la cour brillante et chevaleresque du roi
son pére pour s'unir à un vieux tyran tellement sombre et sevère, que le caractère
mème des Espagnols fut altère par son règne, et que pendant longtemps la nation
porta l'empreinte de son maitre ».
In moltissime delle opere ispirate da Don Carlos, l'amore di questi per la
giovane matrigna non è l'unica trama sentimentale; si direbbe anzi ch'esso è la parte
centrale di una vasta ragnatela. Per fermarci soltanto a Schiller, il suo dramma ci
4
5
V . CISOTTI, Schiller
e il melodramma
dì
Verdi.
bra della Ragion di Stato; ci si occupa della Ragion di Stato, ma essa
ci interessa perché influenza il carattere dei personaggi e lo condiziona
in tutto o in parte.
La Ragion di Stato: il X V I secolo è l'epoca della sua teorizzazione,
ed è fervido di dibattiti sull'argomento. L e coscienze sono costrette a
prender posizione ; l'epoca del realismo politico
5
scopre la forma di dramma tragico corrispondente alla nostra concezione e trasferisce il conflitto dall'azione entro l'anima dell'eroe; infatti solo un'epoca in grado
di comprendere la problematica dell'agire realistico, direttamente ispirato dalla
realtà, può attribuire un valore morale alla condotta che ottempera alle esigenze
del mondo, anche se contraria all'ideale.
Queste parole di Arnold Hausen, tratte dalla Sozialgeschichte der
Kunst und Literatur (pubblicato da Einaudi, 1 9 5 5 , nella traduzione di
Anna Bovero, voi. I, p. 447) possono spiegare, a mio parere, la fortuna
letteraria e teatrale della triste vicenda familiare del monarca spagnolo
e la trasfigurazione eroica del suo disgraziato primogenito.
È il personaggio di Filippo I I a fungere da catalizzatore; i drammaturghi in specie sono attratti da lui e dalla sua tragedia, che è la
tragedia della Ragion di Stato, e che ebbe la ventura di svolgersi proprio nell'epoca in cui la Ragion di Stato cominciò ad imporsi all'intelletto e alla coscienza di tutti come un problema estremamente grave;
proprio nell'epoca in cui essa dava origine ad un nuovo tipo di mentalità che trovava espressione, letterariamente parlando, nell'opera di
Shakespeare. La storia di Filippo II si inserisce quindi alle radici della
mentalità e del dramma moderno.
La figura di Don Carlos è stata modellata e riplasmata dagli autori
di teatro complementariamente a quella del padre; un che di querulo,
di debole, di nevrotico si avverte sempre in questo personaggio, tranne
che nella tragedia dell'Alfieri, dove però il suo carattere, come general6
presenta anche la passione sfortunata di Eboli per Carlos, allude alla relazione adulterina tra la stessa Eboli e il re, fa intuire un esaltato sentimento, una passione
del tutto sublimata, del Marchese di Posa per la Regina Elisabetta.
Cfr. F. Meinecke, Die idee der Staatsràson in der neueren Geschichte, Berlino 1924. Illuminante è soprattutto il I capitolo: L'età dell'assolutismo in for5
mazione.
6
Anche se raramente i drammi sono stati intitolati al suo nome, e questo è
un fatto abbastanza interessante, Filippo II è il personaggio dominante comunque
lo si voglia rappresentare; ed è anche quello la cui realizzazione artistica è di un
gradino superiore a quella degli altri, il vero punto di forza dello spettacolo. Il che
vale per Alfieri, per Schiller e, coerentemente, per Verdi.
mente quello delle figure positive, è piuttosto sommario; anche Verdi
crea per D o n Carlos un ruolo di tenore diverso dai suoi soliti, né eroico,
né elegiaco, ma problematico, sfuggente, moventesi « in un'atmosfera
di continuo smarrimento, in un circospetto vacillare dello spirito » .
In conclusione l'arte recupera una favilla almeno della verità storica
intorno all'Infante.
7
Parte integrante della presentazione di Filippo I I è la proiezione
del suo carattere sulla sua corte. L'occasione di animare davanti allo
spettatore un mondo sfarzoso ma tetro, cristallizzato in un'etichetta
sontuosa ma disumana, era buona sia per un drammaturgo sia per un
compositore d'opera, anzi, di un « Grand Opera ». Ma la figura a cui
tutto si riannoda e si collega è sempre Filippo I I , questo principe del
Rinascimento ch'ebbe in mano i destini del mondo in un momento in
cui esso accennava a ristrutturarsi politicamente e spiritualmente su basi
tutte diverse da quelle che costituivano l'universo saldo, immutabile
del monarca.
Ciò che caratterizza il dramma di Schiller è il recupero umano del
personaggio di Filippo, operato attraverso le vie dell'intuizione poetica; risultato che lo spartito verdiano custodirà ed esalterà con ima
lettura ancora più penetrante e approfondita, stante l'indiscussa affinità
spirituale che legò il musicista alla sua creatura .
8
Un cenno merita la posizione di Schiller storiografo sull'epoca e
sulla figura di Filippo I I ; la ricaviamo dal saggio Geschichte des Abfalls
der Vereinigten Niederlande ( 1 7 8 7 ) . Kurt M a y la pone sotto l'insegna: Dall'idea alla realtà. (Laddove i drammi storici, e in particolare
il Don Carlos, potrebbero mettersi sotto l'insegna contraria: dalla realtà
— vera o presunta — all'idea).
Schiller parte da un'impostazione, se vogliamo da un preconcetto:
quello di dover dimostrare la necessaria vittoria dell'idea morale nella
storia, di suonar la fanfara per il trionfo della libertà sul servaggio,
della tolleranza sul fanatismo dogmatico. Filippo appare dapprima come
9
7
Cfr. Guglielmo Barblan, Il personaggio dell'Infante nel Don Carlos verdiano,
in « Atti », II. La componente nevrotica è qui messa bene in risalto nell'analisi
approfondita della tessitura vocale della parte.
Cfr., tra gli altri, Gino Roncaglia, Galleria Verdiana - Filippo II. Egli afferma che gli elementi che accomunano le due nature di Verdi e di Filippo, sono « la
diffidenza, il pessimismo nero, la profonda malinconia, la sfiducia negli uomini e
l'autoritarismo ».
Kurt May, Friedrich Schiller. Idee und Wirklichkeit im Drama, Gbttmgen
1947.
8
9
l'uomo solitario e orgoglioso, egoista, idolatra di un Dio cupo e terribile, che è l'immagine di sé. U n cattivo re e un cattivo cristiano.
Ma poi l'autore approfondisce l'analisi per venire in chiaro con
se stesso, davanti ai lettori, dei motivi per cui quel carattere si è
formato cosi.
Contemporaneamente s'immerge nello studio delle fonti, anche contrastanti fra loro, per spiegare le ragioni dei due partiti in lotta, sforzandosi di capirle mettendosi nei rispettivi punti di vista. Il lettore
sente come in questo processo l'interesse dello scrittore per il partito
degli Olandesi ribelli vada scemando, mentre le ragioni dell'altra parte
riscuotono una sempre maggiore adesione, e il comportamento di Filippo
gli ispiri una più calda partecipazione, si che questa figura acquista un
tratto di idealismo che la prima presentazione non lasciava presagire.
Il saggio termina con lo scioglimento del Geusenbund, non con la
vittoria finale dei Paesi Bassi sulla Spagna. È certo, afferma ancora il
May , che Schiller ha trascurato di eseguire il proprio lavoro secondo
il piano primitivo. L'idea e la realtà non si trovano più, alla fine, nello
stesso rapporto in cui si trovavano in principio.
10
2. - INTERESSE STORIOGRAFICO PER LE FIGURE DI FILIPPO I I E DI
DON CARLOS NELL'ETÀ DI VERDI.
La storiografia aveva fatto molti progressi nell'epoca di Verdi; a
titolo di cronaca, ricordo che nel 1855 erano state edite a Bruxelles le
Relations des ambassadeurs vénitiens di Louis Prospero Gachard (18001885), il quale pubblicò proprio nel 1867 Don Carlos et Philippe II.
A l Gachard si deve in gran parte la restaurazione della verità storica su Filippo I L Un'opera fondamentale per il secolo scorso fu la
History of the Reign of Philip the second, King of Spain di W . Prescott (3 v o i ) , Boston 1855-59. Nel 1862 apparve la I edizione di Don
Carlos et Philippe II di Charles de Nouy.
Che nella seconda metà dell' '800 vi fosse molto interesse per la
storia di Filippo I I e di Don Carlos, e che l'esame dei documenti
portasse a poco a poco gli storici sulla strada della verità, qualunque
fosse l'immagine preconcetta con cui essi avevano iniziato il loro lavoro,
è attestato dalle seguenti opere:
10
Op. cit., p. 63.
L. A . Warkonig, Don Carlos Leben, Verhaftigung
und Tod,
Stoccarda
1864;
Leopold von Ranke, Don Carlos, Prinz
von Asturien,
Lipsia 1887;
M . Budinger, Don Carlos Haft und Tod, Vienna 1 8 9 1 ;
M . Hume, Philip II of Spain, Londra 1897.
Verdi non conobbe nessuna di queste opere, a quel che mi consta;
le ho però citate per dare un'indicazione di massima sulla frequenza,
se non sul modo, con cui la storiografìa ottocentesca si interessava di
tale argomento.
3. - LA TORMENTATA « ENTSTEHUNGSGESCHICHTE » DEL DRAMMA DI
SCHILLER E DELL'OPERA DI VERDI.
Voler ridurre alle proporzioni di un lavoro di teatro una tematica
tanto grandiosa e vasta che abbracciava il campo politico-sociale e quello
psicologico-individuale fu impresa ardua sia per il drammaturgo, sia
per il musicista.
La Entstehungsgeschichte
delle due composizioni presenta alcune
analogie, esteriori ma abbastanza significative.
Sia il Don Carlos, Infant von Spanien — ein dramatisches Gedicht —
sia il Don Carlos di Verdi impegnarono gli autori più di qualunque
altra delle loro creazioni: Schiller v i lavorò per più di 4 anni (17831 7 8 7 ) e Verdi per più di due (1865-1867); entrambi seguitarono ad
occuparsi della propria composizione per adattarla meglio alle esigenze
della rappresentazione teatrale. Tre sono le rielaborazioni del Dramatisches Gedicht per il palcoscenico, una delle quali in prosa, e tre sono
le edizioni « ufficiali » dell'opera verdiana che nella veste parigina in cui
fu vista la prima volta l'I 1 marzo 1867 non risulta mai più riproposta.
(L'edizione del Teatro La Fenice del dicembre 1 9 7 3 , diretta da George
Prètre, pur ripresentando pagine praticamente inedite, come il coro
dei boscaioli del I atto, non riproponeva i ballabili e soprattutto era
in lingua italiana). Entrambi ebbero modo di lamentarsi della quantità
di tempo richiesta dalla composizione e della mancanza di organicità
che poteva esserne il risultato . Schiller scrisse che la stesura d'un
u
11
Verdi ha modo di esprimersi in questi termini, quando ha davanti il piano
dell'opera alla cui stesura ha anch'egli collaborato: « La lunghezza del libretto obbliga il compositore ad una fatica enorme. Per poter scrivere bene, occorre scrivere
dramma non avrebbe dovuto protrarsi oltre una sola estate: « Der
Hauptfehler war, ich hatte mich zu lange mit dem Stiicke getragen:
ein dramatisches W e r k aber kann und soli nur die Biute eines einzigen
Sommers sein » (I. Brief uber Don Carlos). Il suo lavoro coincide con
un'evoluzione importantissima del suo genio, segna il passaggio dallo
Sturm und Drang alla Klassik, passaggio che l'uso del Blankvers sottolinea su un piano che non è meramente formale. Sono riconoscibili nei
cinque lunghi atti del Dramatisches Gedicht due anime e due ispirazioni diverse.
L'abbozzo stilato a Bauerbach nella primavera del 1783 indica,
nella concisione di due paginette in prosa, un dramma a sfondo storico
dove avrebbero dovuto risaltare ancora le passioni individuali. Stando
al Bauerbacher Entwurf, Schiller non sarebbe andato oltre la trama
offertagli dalla famigerata novella del Saint-Réal. Ma contemporaneamente al primo abbozzo del dramma, l'autore cominciò a sentire che
l'amore, inteso come qualcosa di puramente individualistico, non era
sufficiente a riempire il suo cuore. La stesura di Kabale und Liebe aveva
chiarito all'autore stesso il tragico egoismo di una passione che conduce
all'accecamento davanti ai veri mali del viver civile. L a conclusione è
che nella redazione definitiva, quella del 1805, che era sotto gli occhi
di Verdi nella traduzione del Maffei, i primi due atti lasciano presumere uno svolgimento diverso da quello che poi prendono i successivi tre .
11
Può essere interessante notare come, a differenza di quel che
fece per il resto della sua opera drammatica. Schiller conservò il primo
Entwurf del Don Carlos e pubblicò sulla « Rheinische Thalie », dal
1785 al 1 7 8 7 , il I, il I I e parte del I I I atto (sospeso al punto in cui
oggi leggiamo la grande scena del colloquio tra Filippo II e Posa ) ;
fu come se volesse tastare il polso del pubblico per l'opera che tanto
faticosamente prendeva forma dentro di sé.
13
« È rotta la terribile risolutezza che dominava l'opera precedente,
dai Rauber a Kabale und Liebe, acquista spazio la riflessione che, non
rapidamente, quasi di fiato, riservandosi poi di accomodare, vestire, ripulire l'abbozzo generale: senza di che si corre il rischio di produrre un'opera a lunghi intervalli, con una musica a mosaico, priva di stile e di carattere » (Abbiati, IV, p. 60).
L'affermazione è di Schiller stesso, che la esprime nelle Briefe uber Don
Carlos (Nat. Ausgabe, XXII, p. 138).
Cfr. Gerhard Storz, Der Bauerbacher Pian zum Don Carlos, in « Jahrbuch
der deutschen Schillergesellschaft », 1964.
12
13
abbagliata da una qualsiasi meta, si addentra negli abissi dell'anima.
Predomina l'interesse psicologico non intaccato dai pregiudizi giovanili
e non ancora accompagnato dallo schema antropologico a cui si atterrà
più avanti tutta la psicologia che si impernierà su Kant ». Queste
parole di Emil Staiger si attagliano singolarmente anche a Verdi; e
la sua opera mostra una maturità maggiore di quella di Schiller, maturità che si traduce in un'organicità e semplicità che è ignota al
modello letterario.
14
Comunque questa è la differenza tra la quarta fatica schilleriana
di Verdi e le tre precedenti: l'introspezione negli abissi dell'anima
unita alla creazione di un'atmosfera unitaria, solenne e splendida nella
sua cupezza, ma anche percorsa e talvolta lacerata da fremiti d'inquietudine, di incertezza, di dubbio. La sfera della vita privata e quella
della vita pubblica si compenetrano lumeggiandosi a vicenda, la parte
più propriamente spettacolare non è mai semplicemente uno sfondo
su cui si stagliano le psicologie individuali, ma l'una e le altre sono
inscindibili per il conseguimento dell'effetto drammatico. Il Don Carlos
del 1867 non è quindi basato sul « grido della passione » come le precedenti Giovanna d'Arco, Masnadieri e Luisa Miller.
Ci si può chiedere se sarebbe stato cosi se Verdi avesse scritto
l'opera nel 1850, quando per la prima volta gliene fu sottoposto il
progetto.
Il Don Carlos avrebbe potuto essere l'opera immediatamente successiva alla Luisa Miller; il suggerimento venne a Verdi dal Royer e
dal Vaèz, già suoi collaboratori per il rifacimento dei Lombardi che,
con il nome di Jerusalem, erano stati presentati all'Opera di Parigi
nel 1847.
Ancora dei Francesi, dunque, avevano proposto quell'argomento
come degno dell'Opera.
Visualizzando il dramma di Schiller, capivano che se ne potevano
trarre quadri grandiosi, degni della tradizione del Grand Opera.
Verdi rispose al Royer e al Vaèz che non avrebbe intavolato
trattative con l'Opera se il direttore Monsieur Roqueplan non gliene
avesse scritto direttamente. La lettera aspettata non giunse e invece
del Don Carlos venne il Rigoletto; l'opera di Schiller fu ripresa 17
anni dopo.
15
14
15
E. Staiger, Friedrich Schiller, Zurigo 1967, p. 273.
II 13 agosto 1850.
È ragionevole pensare che se il progetto del 1850 fosse andato
in porto, avrebbe avuto, musicalmente e anche librettisticamente, carattere assai affine a quello del Rigoletto e del Trovatore: sarebbe stata
una fosca ballata romantica, con individualità accentuate e passioni esasperate; la parte politica sarebbe stata relegata nello sfondo come relitto
decorativo; un libretto vicino al Bauerbacher Entwurf, come d'altronde
lo erano stati i testi per musica scritti sul medesimo argomento sino a
quel momento '. O forse, più vicino al Filippo dell'Alfieri che al Don
Carlos di Schiller.
16
La tragedia alfieriana in effetti meglio si presta ad una trasposizione melodrammatica nello spirito del romanticismo della prima metà
del secolo, e nello spirito, in particolare, del Verdi degli « anni di
galera » (come egli stesso definì il periodo che intercorse tra il Nabucco
e il Ballo in Maschera ).
17
Il Verdi del 1865 aveva esortato i suoi librettisti a tenersi fedeli
a Schiller e in effetti Méry e Camillo D u L o d e riuscirono a mantenere
l'aura schilleriana più di quanto una lettura del loro testo non faccia
a tutta prima capire.
Certo, l'esortazione di Verdi fa vedere com'egli si fosse staccato
dalla tragedia « di un solo filo ordita, rapida per quanto si può servendo alle passioni, che tutte più o meno vogliono pur dilungarsi, tetra
e feroce per quanto la natura lo soffre » . Un senso di indecisione e di
lentezza, un effetto come di rallentamento si trasmette dal testo schilleriano (specialmente dai suoi primi due atti) al libretto verdiano.
18
16
Nel 1844 venne rappresentato a Londra un Don Carlos di Michele Costa,
testo di Leopoldo Tarentini. Nel 1862 a Napoli venne rappresentato un Don Carlos
di Vincenzo Muscuzza. Nella Biblioteca del Conservatorio « G. Verdi » di Milano
v'è il libretto di un « Don Carlo - Dramma lirico-tragico in 4 parti di Giorgio Giachetto Posto in musica dal maestro sig. Pasquale Bona, da rappresentarsi all' I. R.
Teatro alla Scala il 1874 », di cui non si trova notizia in alcun repertorio. La Biblioteca possiede anche la riduzione per pianoforte della sinfonia della suddetta
opera. Il libretto è tratto da Schiller; conserva anche la riduzione della scena 21
dell'atto IV, l'ultimo colloquio tra il Marchese di Posa e la Regina, e, coerentemente con la fonte, presenta il Principe mascherato da fantasma di Carlo V per
l'ultimo incontro con la matrigna; la scena finale però è fatta più nello spirito
dell'Alfieri che non di Schiller e probabilmente il librettista ebbe presente il già
citato (cfr. Introduzione, p. 11) dramma Don Carlo di Paolo Costa.
In una lettera alla Contessa Maffei - 12 maggio 1858: « Dal Nabucco in poi
non ho avuto, si può dire, un'ora di quiete. Sedici anni di galera! » [Copialettere,
p. 572).
Alfieri, Risposta dell'autore alla lettera di Ranieri de' Cahabigi (1783), Milano 1957, p. 964.
17
18
Il Don Carlos di Schiller, è stato rilevato, è diviso come in due
parti; il grande colloquio tra il re e il Marchese di Posa, che occupa
tutta la seconda parte del I I I atto, ne costituisce lo spartiacque.
Nella prima parte Schiller crea quella che Verdi avrebbe chiamato
una t i n t a u n i c a . L'elemento coordinatore è l'Infante, che qui e
soltanto qui è davvero il protagonista. L'opprimente atmosfera della
corte che non si solleva neppure nei lieti giardini di Aranjuez, sua residenza estiva, dove si svolge il I atto, la profonda malinconia che
come un'ombra accompagna il Principe, lo rende irresoluto, indeciso,
incapace d'agire, come bloccato; il suo linguaggio è contenuto, controllato; persino nel colloquio con il Marchese (I, 2) lo sfogo dell'anima
non è del tutto senza residui; malgrado l'entusiastico, commovente
slancio con cui l'Infante si butta tra le braccia dell'amico invocandone
la comprensione — slancio che anche il lettore o lo spettatore sente
come una liberazione, dopo la scena tra lo stesso Carlo e il confessore
del re, immersa in un'atmosfera di sospetto, piena di parole che suonano
false, ambigue e di silenzi pesanti —, malgrado quello slancio, aleggia
nelle sue parole qualcosa di inespresso e di inesprimibile . « Schwer
liegt der Himmel von Madrid auf mir wie das Bewusstsein eines Mordes » : queste parole che il giovane rivolge al re, mentre nel libretto
sono pronunciate davanti ad Elisabetta (« quest'aura m'è fatale, mi opprime, mi tortura, come il pensier di ima sventura » ) dicono lo stato
d'animo del personaggio e il senso di indefinibile fatalità, di attesa
passiva di eventi ineluttabili e insondabili, che l'autore riesce a insinuare negli spettatori con i primi atti e che nell'opera grava dal I I al
V atto .
19
2 0
2 1
22
Ma con un protagonista simile l'azione rimarrebbe perpetuamente
bloccata; la remora interna si ripercuote sull'esposizione, che è ampia,
viva, psicologicamente accurata ma sostanzialmente statica.
19
E. Staiger (op. cit., pp. 272-273) fa rilevare «das beredte Schweigen » in
Don Carlos, citando le didascalie della prima scena, quella con Domingo: «Don
Carlos sieht zur Erde und schweigt » (è la prima nota che riguarda il protagonista); « Carlos wendet sich ab »; « besinnt sich »; « fahrt mit der Hand iiber die
Stirn »; « ernsthaft und finster ».
l i , 2.
II, 4 nella I edizione.
Non è quindi necessario pensare ad una reminiscenza alfieriana nella creazione dell'Infante dell'opera verdiana, come sostiene L. Arruga (Incontri fra poeti
e musicisti nell'opera romantica italiana, in « Contributi dell'Istituto di Filologia
moderna », voi. I, Milano 1968): la passività, unita ai tratti sentimentali dell'epoca,
è una caratteristica anche del personaggio schilleriano.
20
21
22
Per mandare avanti l'azione occorreva un'altra tempra; e Schiller
la trovò nel Marchese di Posa. Il dramma politico prende il sopravvento sul dramma d'amore in conseguenza, è certo, di un mutato interesse dell'autore alla sua materia, di una più approfondita conoscenza
di opere storiche sull'età di Filippo I I , di un cambiamento intervenuto nella coscienza che l'autore ha di sé, per cui se nel 1783
s'identificava prevalentemente con Carlos, due anni più tardi tende ad
identificarsi con Posa ; ma non si deve sottovalutare anche la motivazione inerente alla struttura interna dell'opera.
2 3
24
Schiller non era uomo da concedere uno spazio troppo ampio ai
malinconici giochi dell'immaginazione, da sostare a lungo in atmosfere
sognanti e fantastiche.
L o spostarsi dell'interesse dall'Infante al Marchese, che invece di
esercitare la sua influenza educatrice sull'amico è indotto dagli eventi
a intervenire direttamente nell'azione, porta ad un aggrovigliarsi incredibile delle fila del racconto: negli ultimi due atti l'azione si fa addirittura precipitosa, ma va avanti per forza di intrighi che producono
ininterrottamente colpi di scena. L'attenzione rimane indubbiamente
desta, ma il pubblico finisce col non raccapezzarcisi più. A d ogni scena
si è costretti a domandarsi come si comporteranno i personaggi nella
scena successiva, quale fatto esterno e fortuito inciderà sul corso degli eventi. Il Dramatisches Gedicht diventa un Intriguenstiick
di tipo
francese la cui esecuzione non è però né chiara né serena. L'autore
stesso si accorse che le fila gli si ingarbugliavano fra le dita, tanto
che al maggior responsabile di questa confusione, cioè a Posa, mette
in bocca, al principio del V atto, una ricapitolazione generale dei fatti
che si sono susseguiti dalla fine dell'atto I I , vale a dire dall'ultimo
incontro avuto con il Principe nel Convento dei Certosini alle porte di
Madrid. Ma anche ciò, agli effetti di una completa motivazione e delucidazione dei fatti, serve poco.
25
Bisogna riconoscere che non esiste un libretto d'opera, anche tra
quelli abborracciati più frettolosamente secondo le convenzioni più superficiali di una teatralità puramente esteriore, che contenga più raggiri, trucchi ed espedienti per mandare avanti l'azione di quelli conte23
Schiller lesse la History of the Reign of Philipp II, King of Spam di Watson
nel 1785.
Cfr. quanto scrive Charlotte von Lengefeld, cognata di Schiller: « Was
Schiller in seinem Posa dichtete, das hatte er selbst sein konnen ».
Cfr. Jakob Minor, op. cit., voi. II, p. 587.
2 4
25
nuti in questo quarto dramma di Schiller. Mi limito a citare il gioco
della posta: se nei Rauber la tragedia prendeva l'avvio da una lettera
falsificata e una lettera estorta determinava la catastrofe in Kabale und
Liebe, nel Don Carlos sono ben quattro gli scritti epistolari al centro
dell'attenzione dei personaggi, senza contare le lettere di D o n Carlos
alla fidanzata Elisabetta racchiuse nello scrigno che viene trafugato
alla Regina: il biglietto di Eboli a Carlo, il biglietto del Re alla principessa d'Eboli, la lettera scritta dalla Regina al figliastro in occasione
di una grave malattia di quest'ultimo, e la lettera che Posa indirizza a
Guglielmo d'Orange, ben sapendo ch'essa non raggiungerà mai il destinatario ma verrà aperta dal Re.
È faticoso seguire la complicata matassa degli intrighi, di cui
l'autore stesso non riesce più a trovare il bandolo, per cui lo spettatore
a un certo punto quasi non se ne cura più e si lascia trasportare dal
contenuto ideologico e sentimentale delle singole scene.
II Don Carlos schilleriano è un dramma storico con il taglio dell'opera romantica (anche se non ne ha la finalità); lunghi o brevi monologhi si alternano a scene d'insieme, l'azione contiene elementi di staticità e di precipitazione, Ja coerenza dell'insieme viene sacrificata all'effetto delle tante importanti e belle scene, ognuna delle quali ha
compiutezza e organicità in se stessa, anche se il collegamento con il
resto del dramma in molti casi è artificioso.
Inoltre nella evocazione di una particolare atmosfera, legata al
rimpianto, al ricordo di un bene intravisto e subito dileguatosi, quell'atmosfera che accompagna ovunque l'infelice Infante, nella sfumatura
dei caratteri sono già presenti elementi che il medium musicale ha la
facoltà di esprimere come e meglio del medium linguistico.
Si può dire che il dramma di Schiller manifesta una tendenza a
suddividersi in « numeri », mentre l'opera di Verdi è una tappa importante sulla via della trasformazione dal melodramma tradizionale al
dramma in musica, mediante la dissoluzione delle forme chiuse in scene;
gli episodi musicali sono ancora ben circoscritti, ma la loro struttura
interna diviene più sciolta, più fluida, specialmente nelle parti più propriamente p o l i t i c h e del libretto, vale a dire nel duetto tra il Re
e il Marchese di Posa ( I I , 6) e in quello tra il Re e il Grande Inquisitore ( I V , 2 ) .
2 6
26
A questo proposito scrive Laszlo Ebsze: « La sfera della vita pubblica si
presta meglio ad ulteriori sviluppi. La rappresentazione delle passioni elementari è
Tornando a Schiller, la grande scena del I I I atto tra il Re e il
Marchese, una delle più famose del teatro tedesco, non si inserisce
organicamente nel contesto del dramma. È un brano di sublime oratoria, che può trascinare ed entusiasmare, riboccante come è delle idee
più nobili e generose del secolo dell'Aufklàrung; ma non serve a fini
drammaturgici. L'autore ha trasformato il teatro in un Parlamento, prescindendo dal fatto che in un Parlamento anche chi ammira l'oratoria
infiammata di Posa formulerebbe le proprie istanze ideali in un altro
modo .
27
Non disturba l'anacronismo del personaggio del Marchese, di questo filosofo illuminista che propugna, non senza contraddizioni, l'ideale
del dispotismo illuminato alla corte di Filippo I I ; da nessun dramma
si p u ò o si deve pretendere una ricostruzione scientifica della storia,
mentre è quantomeno lecito aspettarsi delle illuminazioni sull'epoca in
cui l'opera venne scritta ; è l'epoca, non si dimentichi, in cui Voltaire
affermava che non era più necessario fare le rivoluzioni come nel
sec. X V I ; bastava farne una nell'animo di chi regnava.
28
Considerare un grave errore questa scena per il fatto che le idee
del Marchese non sono quelle del sec. X V I , vuol dire non saper più
capire il clima di entusiasmo umanitario dell'Illuminismo.
È vero invece che i due personaggi mostrano qui gravi incoerenze
con il loro precedente e susseguente comportamento. Filippo gareggia
in generosità con il suo audace antagonista, abbandonando il ruolo di
tiranno che, sia pure con molte attenuazioni, gli compete e abbandonando anche quello di « conoscitore d'uomini » ; il Marchese, con tutto
29
più strettamente legata alle forme tradizionali. Invece le discussioni politico - filosofiche richiedono in partenza il dialogo, più suscettibile di dissolvere in scene le
forme chiuse » (Mondo ideale ed espressione musicale nel Don Carlos, in « Atti »,
II, p. 329). Il critico si riferisce qui alla partitura musicale, ma l'osservazione vale
anche per il testo, dove mancano i ritmi brevi, spezzati e le rime facili, di piglio
cabalettistico.
Jakob Minor, op. cit., voi. II, p. 570 e ss.
II XVIII secolo è abbastanza ricco di opere in cui si danno consigli di buon
governo a despoti che si spera siano illuminati abbastanza da accoglierli. Il più
famoso di questi Fiirstenspiegel è VAntimacchiavell di Federico il Grande. Ha una
tradizione anche la rappresentazione dell'uomo onesto che sostiene i diritti dell'umanità a corte. Può darsi che Schiller conoscesse l'opera di Loen, Der redliche
Mann am Hofe oder die Gegebenheiten des Grafen von Rivera (Lipsia 1740). Il
modello letterario e drammaturgico di questa scena è comunque il dialogo tra Nathan e il Saladino nel Nathan der Weise di Lessing (1779).
Non a torto l'Inquisitore potrà dirgli rimproverando (atto V, scena 10):
27
28
29
l'ostentato amore per la verità, trascinato dall'entusiasmo e forse senz'accorgersene racconta al R e cose non vere: esclama: « Die lacherliche
W u t der Neuerung kann mein Blut nicht erhitzen », ma noi sappiamo
che ha già preso contatti con i Protestanti delle Fiandre, anzi, il Duca
d'Alba ci informa nell'ultimo atto, quando il destino del Marchese s'è
già compiuto, della scoperta di un piano « non meno infernale che
divino » mirante a staccare per sempre i Paesi Bassi dalla Monarchia
spagnola anche con l'aiuto di Solimano, sultano dei Turchi.
L'idealista sognatore che riconosce di sentirsi cittadino delle generazioni future, perché l'età presente è immatura per il suo pensiero,
ha già tessuto le fila di un complotto internazionale contro la Spagna;
e quando il Re gli chiede se ha mai palesato ad altri, prima che a lui,
i suoi ideali, risponde con tranquilla sicurezza di no, dimenticando o
volendo dimenticare la comunione di ideali politici che è la base della
sua appassionata amicizia con l'Infante. Sono aporie davvero insormontabili, qualora non si consideri la scena ciò che in effetti è, una
commossa, infiammata arringa sui diritti dell'uomo e del cittadino tenuta
ai piedi di un trono, il trono del campione dell'assolutismo. La scena
corrisponde nel libretto a quella che nella I e I I I edizione è la V I
della seconda parte del secondo atto; fu ampiamente rimaneggiata nel
testo e nella musica tra il 1867 e il 1 8 8 4 e compromette in misura
minore la coerenza del carattere dei due personaggi, nonché le finalità
drammatiche. Intanto concede proporzionalmente più spazio al movente
drammatico che giustifica questo colloquio: il terribile sospetto del Re
sui rapporti tra il figlio e la Regina; poi la parte politica del discorso
ha connotati più generici e meno illuministicamente databili del testo
schilleriano; infine quel che il Marchese espone, o meglio canta, è dettato da spiriti umanitari (cfr. « L'orfanel che non ha un loco / Per le
vie piangendo va; / Tutto struggon ferro e foco / È bandita la pietà »),
e non è in contrasto con quel che egli sta effettivamente progettando
di fare.
3 0
La confidenza del R e gli dischiude un nuovo orizzonte, ed egli ne
è momentaneamente felice, forse più che per le prospettive dell'azione
politica, per il fatto di poter giovare meglio all'amico, difendendolo dal
« Smascherarvi l'eretico dovea / sol un mover di ciglio » (Ein Blick entlarvte
Ihnen / Den Ketzer).
Cfr. la storia completa di questo travaglio nell'articolo di David Rosen, Le
quattro stesure del duetto Filippo-Posa, in « Atti », II, p. 368 e ss.
30
3 1
sospetto che grava su di l u i ; comunque il personaggio verdiano « rinuncia a Filippo » senza esitazione e senza porsi neppure il problema
di puntare sul monarca, anziché su Carlo, tutte le sue speranze di palingenesi politica; è quindi molto più coerente nell'amicizia verso il giovane principe di quanto non lo sia il « deputato dell'umanità » di
Schiller , il quale fa il doppio gioco, giustificandosi davanti alla propria coscienza con sofismi gesuitici (J. Minor, op. cit., p. 5 7 4 ) : inganna
il R e e tiene ostinatamente all'oscuro dei suoi disegni Carlo, mentendo
all'uno e all'altro, giocando d'azzardo con la loro fiducia.
32
Il suo sacrificio non riesce a cancellare del tutto l'impressione
penosa, l'immagine dell'intrigante e dello spericolato giocatore, quale
emerge, ad esempio, dal secondo dialogo con il Re ( I V , 12).
D i più: Posa è intransigente e fanatico non meno di Filippo, anzi,
non meno dell'Inquisitore: solo che combatte sull'opposta barricata.
E l'effetto del fanatismo è sempre quello di far dimenticare i sentimenti umani; il Principe, che solo dopo la morte del Marchese mostra
di aver fatto completamente sua la lezione dell'amico e di essersi sollevato, in nome dell'idealismo, al di sopra della natura umana, parla,
nell'ultimo drammatico congedo dalla Regina, con parole che sarebbero state bene anche in bocca al Grande Inquisitore (o al Filippo dell'ultimo atto):
31
Nella III versione di questo tribolato duetto, composta per la rappresentazione del Don Carlos a Napoli nel dicembre del 1872, le ultime parole del Marchese sono le seguenti:
O h Carlo... Carlo miol
Se a te v i c i n sarò
Questo n o n p i a n g e r ò
Fra i m i e i perduti di!
(Rosen, o p . cit.).
Il Rosen avanza l'ipotesi che questi versi siano stati scritti da Verdi stesso, il
quale aveva pronto uno schema musicale variato rispetto all'edizione del 1867 e
attendeva che il librettista vi adattasse delle nuove parole.
32
Si vedano nelle due opere le scene dell'arresto dell'Infante: in Schiller (IV,
46) Carlo viene arrestato mentre sta parlando con Eboli, da cui vuole ottenere un
colloquio con la Regina per avvertirla del pericolo che la sovrasta; l'intervento del
Marchese è ampiamente ingiustificato, dato che Eboli — e Posa ne era ben informato — aveva già avuto modo di esplorare il segreto di Carlo nel colloquio del
II atto, e aveva già sprizzato il suo veleno trafugando le lettere contenute nello
scrigno della Regina; l'unica spiegazione del gesto del Marchese è ch'egli abbia perduto la testa.
Nell'opera Posa disarma Don Carlos (III, II parte) e quindi ne provoca l'arresto, quando il principe, snudata la spada contro il re, dà prova di comportarsi da
demente; quel gesto salva il Principe più di quanto non difenda il Re.
Meine Leidenschaft wohnt in den Gràbern
Der Toten. Keine sterbliche Begierde
Teilt diesen Busen mehr (...) Ausgestorben ist
In diesem Busen die Natur.
(Abita l'amor mio nelle tranquille
case dei morti, né dolcezza umana
più commuove il mio petto. (...)
La natura / più non parla al mio cuore).
Va poi osservato che, quasi spinta dall'esempio di Posa, la Regina
stessa si trasforma in una orditrice d'intrighi, e non si deve negare che
questa schòne Seele, se non può assolutamente essere accusata di infedeltà coniugale, meriterebbe con ben altre giustificazioni l'accusa di
alto tradimento.
È lei a proseguire l'opera di Posa dopo la morte di quest'ultimo;
lei a suscitare la sommossa del popolo di Madrid in favore dell'Infante
prigioniero, lei a mandare il proprio archiatra (della cui esistenza siamo
avvertiti solo alla scena 6 del V atto; e doveva essere una persona di
assoluta fiducia perché gli venisse assegnato un compito cosi delicato!)
perché avverta Carlo della necessità ch'ella ha di parlargli, e perché
gli suggerisca il mezzo nuovo, romanzesco ed audace per entrare indisturbato nell'appartamento regale (si tratta del travestimento da fantasma di Carlo V , trucco molto puerile che non lascia soprapensiero
neppure un istante Filippo, quando gli viene annunciata la misteriosa
apparizione); è lei ad essere al corrente dell'intero piano rivoluzionario
di Posa, prima ancora di C a r l o . Eppure, incontrando per la prima
volta, ad Aranjuez, il Marchese, Elisabetta aveva asserito di vivere
ormai separata dalle vicende del mondo, sì da averne perso persino la
memoria (I, 4). Anche la Regina, quindi, esce in parte dal suo ruolo.
33
La principessa d'Eboli invece v i si mantiene sempre: l'intrigo è
il suo elemento e cosi finisce con l'essere l'unico personaggio veramente
coerente, e umanamente sincero del dramma: l'unica che abbia coscienza
della tela che si tesse intorno a lei e per lei, e che alla fine, cedendo
all'impulso di una natura fondamentalmente buona, la tronchi di sua
mano .
34
33
Parallelamente con questa ricchezza di intrighi della seconda parte dell'opera
schilleriana, abbiamo l'attenuazione, nonché la sparizione della severa etichetta di
Corte, cosi rigorosamente osservata nel I atto, quello di Aranjuez. Una volta creata
l'atmosfera, Schiller non se ne occupa più, e nella reggia di Madrid tutti vanno e
vengono dalle più svariate stanze osservando si e no un minimo di formalità.
La relazione adulterina di Eboli con il Sovrano, se serve a lumeggiare la
34
La conclusione del Dramatisches Gedicht merita un cenno, per il
confronto che se ne può fare con il finale dell'opera verdiana.
La chiusa di un dramma cosi prolisso è di una stringatezza formidabile; si riduce a nemmeno tre versi.
CARLO {parlando ancora alla Regina, senz'accorgersi della presenza del padre e dell'Inquisitore):
È questo l'ultimo inganno mio.
IL R E :
L'ultimo.
CARLO (accogliendo tra le braccia la Regina svenuta):
È morta? Oh Dio del cielo!
IL RE (freddo e tranquillo, al Grande Inquisitore):
Cardinale, al mio / debito satisfeci. Or fate il vostro .
35
L'avventura politico-idealistica di Posa è finita come doveva finire.
Filippo esce e lascia la regina svenuta e Carlo insieme al Grande Inquisitore, il reale vincitore in questa lotta per l'umanità e la libertà finita
in un mare d'intrighi. Il fermento di quella lotta continuerà nella storia,
il sacrificio di Posa e di Carlo non sarà stato vano, in una prospettiva di generazioni: questo lo storico del X V I I I secolo lo sa bene, ma
non vi fa cenno neppure con una parola. Si esime dall'ufficio di giudice,
egli che nei Rauber ed in Kabale und Liebe aveva trasformato in un
tribunale l'ultima scena; la storia pronuncerà la condanna di Filippo e
il trionfo dei diritti dell'uomo, inutile anticiparne il giudizio con un
figura della Principessa e a sottolineare polemicamente l'abiezione di Domingo, confessore del Re, il quale per il trionfo del cattolicesimo controriformista è disposto
a servirsi anche della lussuria, risulta abbastanza immotivata per Filippo stesso, il
quale non vi accenna mai e se parla della Principessa la indica come un'intrigante
da mettersi insieme con Domingo e il Duca d'Alba. Ma nella tradizione drammatica del '700 in Germania un Principe non poteva non avere tra i suoi attributi
anche quello della dissolutezza; ciò lo distanziava dalla sana e onesta borghesia.
Nel libretto la rivelazione dell'adulterio regale ( I V , 6) coglie di sorpresa; nella
prima edizione non se ne faceva cenno, e la Regina allontanava Eboli da corte solo
perché essa le aveva trafugato lo scrigno.
35
CARLOS
{Er will
ìiach der
Maske
greifen.
Der
D i e s hier sci mein letzter
KÒNIG :
Es ist d e i n
CARLOS
(Die
KONIG :
(Kalt
O Himmel
stili zum
Kardinall
steht
letzterl
Konigin falli ohnmàchtig
Ist sie tot?
und
Kònig
Betrug.
und
nieder)
Erde!
Grossinquisitor)
Ich
habe
Das M e i n i g e getan. T u n
Sie das
Ihre!
zwischen
ihnen)
processo in teatro. Inoltre, a questo punto, i personaggi hanno raggiunto (o riconquistato) la perfetta padronanza di sé, la glacialità dell'Inquisitore; Filippo sembra al di là di ogni sentimento, di dolore,
ma anche di rancore e di vendetta. La condanna e la morte del ribelle
è ormai una formalità, triste si, ma da cui è disgiunta ogni pietà e ogni
acrimonia da parte di chi ha pronunciato la sentenza. Questo distacco di
Filippo, unito alla brevità epigrammatica dell'epilogo, è un'intuizione
solo schilleriana; negli altri drammi ispirati alla vicenda, matrigna e
figliastro muoiono in scena, o di spada o di veleno, o suicidi o assassinati
non prima però d'aver appassionatamente esposto le loro ragioni al
loro persecutore, e non prima che Filippo abbia esalato tutto il suo odio
contro i due infelici .
36
Ma il Filippo schilleriano non è un mostro; i termini Ungeheuer
e Scheusal che ricorrono con tanta frequenza negli ]ugenddramen non
vengono mai adoperati per questa figura.
Che la contrapposizione tra vittime e carnefici potesse offrire l'occasione per un bel concertato finale nel melodramma era intuitivo e i
librettisti non se la lasciarono sfuggire; infatti la prima edizione del
Don Carlos ( 1 8 6 7 ) termina con un processo di Inquisitori in cui a
Carlo vengono mosse le accuse specifiche di incesto, di eresia, di ribellione; è un processo per modo di dire perché l'accusatore è anche il
g i u d i c e e d'altronde il teatro d'opera non consente dibattiti prò e
contro una persona o una causa, ma solo la vendetta o la difesa appassionata.
37
Nell'edizione del 1884 questa scena appare profondamente sempli-
3 6
Ranieri de' Calzabigi giunge a rimproverare l'Alfieri perché nella scena
finale del Filippo il protagonista, allontanato Gomez, non se ne rimane solo « a
pascersi lo sguardo con atroce delizia, e di lui degna, dell'orrido spettacolo del
figlio e della sposa estinti » e non esprime in pochi versi la sua mostruosa vendetta
con esultanza e compiacenza. L'Alfieri gli rispose che l'insulto agli estinti sarebbe
risultato intollerabile sulla scena. (Alfieri, La Tragedia, Milano 1957, p. 967).
37 PHILIPPE:
J e v o u s livre ce criniinel
O ministres sacrés des vengeances d u ciel!
A vous ce fils ingrat q u e de moi D i e u fit naitre!
U n détestable amour le b r u l é . . . à v o u s ce traitrel
A vous ce contempteur de la fois catholique,
Cet ami de Posa, ce parjure h é r é t i q u e !
A v o u s ce corrupteur de m o n p e u p l e fidèle
Cet e n n e m i des rois et de D i e u . . . ce rebellc.
ficata nella forma che è poi rimasta definitiva, ed è molto vicina all'originale schilleriano nella brevità e nel numero delle b a t t u t e . L'opera
termina, in tutte e tre le edizioni, con l'apparizione di Carlo V su cui
vale la pena di fare un discorso a parte; ma anche con questa aggiunta,
il finale del Don Carlos in musica non dura più di due minuti e, conservando coerentemente l'intuizione schilleriana d'un sovrano che soffre
della condizione disumana in cui lo pone la sua concezione del potere,
e non è iniquo, si riallaccia alla tradizione delle chiuse brevi e intensissime (cfr. quella di Luisa Miller) del melodramma verdiano.
38
4. - LE PRINCIPALI VARIANTI PRESENTATE DAL LIBRETTO RISPETTO AL
« DRAMATISCHES GEDICHT ».
Ridurre a libretto d'opera un dramma ricchissimo di temi affascinanti e stimolanti ma anche caotico nell'esecuzione come quello di
Scfiiller non era impresa facile, ma i librettisti francesi, senza tenersi
troppo fedeli all'originale in senso letterale, cosa che sarebbe stata impossibile, riuscirono a conservare alcuni nuclei fondamentali dell'ispirazione originaria e a dare al loro lavoro una struttura abbastanza
armoniosa.
38
Cfr. Don Carlos, atto V, scena 3:
FILIPPO:
Per
sempre!...
10 v o g l i o u n d o p p i o
11 m i o dover farò!
(all'Inquisitore)
Ma
voi!
Il santo
INQUISITORE :
Il suo
ELISABETTA :
sacrifizio!
Uffizio
farà.
Cieli
INQUISITORE :
Guardie!
DON CARLOS:
Dio
mi
vendicherà
Il T r i b u n a l di s a n g u e sua m a n o
(Don
Carlo,
si apre, appare
IL FRATE (a Don
difendendosi,
il Frate.
indietreggia
È Carlo
Carlo):
verso la tomba
V col manto
Il d u o l o della
e con
la corona
terra
N e l chiostro ancor ci segue,
Solo del cor la guerra
I n ciel si
calmerà!
INQUISITORE:
È la voce di Carlo!
IL CORO:
È Carlo
FILIPPO (spaventato):
Mio
ELISABETTA:
(Carlo
Oh
V trascina
nel
Quinto!
padre!
ciel!
chiostro
Don
Carlo,
spezzerà!
di
smarrito).
Carlo
V. Il
reale).
cancello
Le file dei personaggi sono state notevolmente sfoltite, ma forse
nessun'altra opera verdiana è cosi ricca di cori che evidenziano il tessuto sociale e politico della vicenda e le implicazioni pubbliche dell'azione dei singoli nella vicenda: di boscaioli e di popolo nel I atto;
di frati e poi di dame e paggi nel I I ; di folla festante le cui grida di
giubilo si intrecciano alla salmodia funebre dei Domenicani che accompagnano i condannati al rogo; di deputati fiamminghi nel I I I atto; di
una folla in rivolta nel I V ; di frati e famigliari del Santo Uffizio nel V
(almeno nella edizione del 1867). L'azione è stata per alcuni versi
semplificata e per altri ampliata. La serie incredibile di intrighi del
dramma originario è stata enormemente ridotta; dando prova di buon
gusto gli autori hanno preferito lasciare qualche lacuna nella successione logica dei fatti, piuttosto che addurre motivazioni artificiose e
romanzesche che avrebbero inutilmente complicato l'intreccio.
In quattro punti il lavoro dei librettisti si è sovrapposto a quello
del drammaturgo tedesco, dandogli un nuovo sviluppo in senso melodrammatico, reinventandolo o modificandolo profondamente:
1 ) nel
I atto (ediz. del 1867 e 1886; abolito nella I I edizione del 1884) che
funge da prologo alla vicenda e che è una nuova creazione; 2) nella
introduzione del personaggio del misterioso frate (inizio atto I I - fine
atto V ) che poi si rivela essere Carlo V , se fantasma o in carne ed ossa
non è dato sapere; 3) nella costruzione della scena dell'autodafé ( I I
parte dell'atto I I I ) sulla base di un'indicazione data, nel dramma origi39
nario, dallo stesso Re F i l i p p o ; l'autodafé dell'opera è inoltre un'occasione per presentare altri due momenti essenziali del dramma
di
Schiller: la richiesta di Carlo al Re perché gli affidi il governo delle
Fiandre
40
e l'arresto dello stesso Infante per opera del Marchese di
41
P o s a ; 4) nella anticipazione del colloquio tra il Re e il Grande Inquisitore che nel libretto ha luogo prima della morte del Marchese (atto I V ,
scena II), per cui questo assassinio è voluto e richiesto espressamente
dal terribile vecchio domenicano.
Non si può considerare nessuno di questi mutamenti come un
adeguamento del testo di Schiller al gusto grandioso del Grand Opera;
l'opera originaria ha già in sé elementi sufficienti di grandiosità, solo
Schiller, Don Carlos, atto I, scena 6.
Schiller, Don Carlos, atto II, scena 2.
Schiller, Don Carlos, atto IV, scena 16.
42
che nel dramma parlato gli effetti sono raggiunti con mezzi differenti .
È assurdo pensare, ad esempio, che il I atto di Méry e Camillo D u
L o d e , l'atto di Fontainebleau, sia stato scritto perché la tradizione del
Grand Opera esigeva una partitura in cinque atti; dalle 68 scene del Don
Carlos di Schiller (quante se ne leggono nella traduzione del Maffei)
si poteva trarre materia sufficiente per una dozzina di atti, senza aver
bisogno di aggiungere un nuovo episodio.
Questo quadro è enormemente suggestivo: è l'incontro, narrato
con toni fiabeschi, tra la principessa francese e il principe spagnolo nella
foresta intorno al castello del Re di Francia nel giorno in cui dovrebbe
essere suggellato il patto nuziale tra le due corone di Francia e di
Spagna. I due fidanzati, ignoti sino a quel momento l'uno all'altra, fanno
appena a tempo ad accogliere nei loro cuori un sentimento di trepido
ed esaltante affetto, quando viene annunciato un cambiamento intervenuto nella sigla dell'accordo: la principessa non è più destinata all'erede della corona spagnola, ma allo stesso Re. La Ragion di Stato
viene a infrangere brutalmente il sogno di felicità appena intravista dai
due giovani. Questo primo atto è una visione, un sogno: come tale
vivrà nella rievocazione ora trepida, ora disperata di chi l'ha visto
dileguarsi prima ancora che prendesse definiti contorni; nel canto di
Carlo e di Elisabetta, in ogni circostanza, si sentirà sempre aleggiare
il senso di un qualche cosa che avrebbe potuto essere e che non è stato,
42
L'unica concessione al gusto del Grand Opera è la creazione del Ballo della
Peregrina, all'inizio del III atto, Ballo il cui taglio, nelle successive edizioni, non
costò alcuna preoccupazione al musicista, il quale l'aveva già composto con questo
sottinteso. Bisogna dare atto ai librettisti d'aver creato questo « numero » conferendogli una funzione drammaturgica, e non solo decorativa, tanto che la sua abolizione comportò la perdita di altre due scene nonché la perdita di credibilità dell'equivoco in cui cade Carlo quando scambia per la Regina la Principessa d'Eboli
che gli compare velata davanti (atto III, scena 2).
In sintesi: la Peregrina, la perla più preziosa da consegnarsi al Re di Spagna,
è Elisabetta di Valois; il ballo quindi è un sontuoso omaggio alla Regina, la quale
dovrebbe comparire in persona alla fine dello spettacolo, riccamente abbigliata e
mascherata. Elisabetta, che non è nella disposizione d'animo per partecipare ad una
festa, chiede ad Eboli di fare le sue veci; la brillante Principessa non se lo fa dire
due volte e alla fine dello spettacolo manda al Principe Carlo il fatale biglietto.
Per quanto tetra sia la Reggia di Madrid, feste, balli e ricevimenti dovevano pur
avervi luogo, se nel dramma di Schiller un personaggio come Eboli non vede l'ora
di ritornarvi abbandonando Aranjuez dove le pare di essere « nella Trappa » (I, 3).
(Per il Ballo della Peregrina cfr. Andrew Por ter, Verdi's Ballet Music and La
Peregrina, in « Atti », II).
un'arcana tristezza, come per un esilio dai cieli della felicità, riconquistabili ormai solo dopo la morte.
Oh Carlo addio,
su questa terra
vivendo accanto a te
mi crederei nel ciel!
43
dirà Elisabetta a colui che è ormai diventato suo figliastro; e alla fine,
poco prima dell'intervento di Filippo e del Grande Inquisitore, Regina
e Principe si diranno addio con parole in cui nella visione del più
sereno di che attende gli infelici oltre la tomba vibra ancora il ricordo
del « sogno d'oro » del I atto cosi presto dissoltosi .
44
Nella rievocazione di atmosfere e di stati d'animo la musica è
decisamente favorita rispetto alla parola parlata: il sogno di Fontainebleau si riverbera su tutto il dramma, diviene componente essenziale
della struttura psicologica e del canto di Carlo ed Elisabetta; man
mano che l'azione procede, complicandosi di tanti altri motivi, quel
quadro sfuma in una luce irreale di Eden perduto. Il primo atto è
però un necessario punto di riferimento, tagliando il quale (come avvenne nella seconda edizione, quella del 1884, a tutt'oggi la più rappresentata, per motivi di praticità) si sacrifica una parte essenziale per
la più profonda comprensione dei personaggi di Carlo e della Regina.
L'atto f r a n c e s e serve inoltre alla chiarezza dell'esposizione;
l'opera è assai più del dramma parlato legata alla visualizzazione; ciò
43
Atto II, parte II, scena 4.
44
Cfr. Atto V, scena 2:
Ma lassù ci v e d r e m o in un m o n d o m i g l i o r e ,
Dell'avvenire e t e m o suonan per n o i g i à l'ore;
E là n o i troveremo nel g r e m b o del Signor
Il sospirato ben che f u g g e in terra ognorl
In tal di, che per noi n o n avrà p i ù d o m a n i ,
T u t t i i n o m i scordiam degli affetti profanil
Manca in Schiller il testo e l'ispirazione corrispondente; su questi versi ha
influito la concezione religiosa del dramma manzoniano, in particolare dell'Adelchi.
Adelchi ed Ermengarda, come Carlo ed Elisabetta, sono creature esiliate quaggiù, in attesa di essere richiamate in cielo, la loro vera patria.
Lo stesso si può dire dell'altro personaggio « buono » del melodramma: il Marchese, che nell'atto IV canta: « Ci congiunga Iddio nel ciel / Ei che premia i suoi
fedel », che suona diverso,, più vicino ad una religiosità popolare legata a immagini
tradizionali, dalle parole che Schiller fa ridire da Posa a Carlo nella medesima situazione (atto V, scena 3): « Per un novero d'anni t'abbandono... Dicon gli stolti
eternamente ».
che non è rappresentato non esiste, l'opera è il regno delVhic et nunc,
non può rimandare ad una narrazione non fatta; in essa « non v'è una
rigida separazione fra parola e azione, anzi l'azione sembra già compiersi nell'espressione musicale affidata alla voce o all'orchestra » .
4 5
In Schiller il racconto dei precedenti che hanno portato la giovane
figlia di Enrico di Valois sul trono di Spagna è adombrato in una specie
di parabola con cui il Marchese intrattiene la Regina e le sue dame (I,
4); è contenuto nelle allusioni frammentarie di alcuni personaggi e
balena qua e là in certi trasalimenti, come quando, ad esempio, la principessa d'Eboli supplica la Regina di non permettere che la si sacrifichi
costringendola a sposare Ruy Gomez, il favorito del Re e la Regina
risponde:
Aufgeopfert?
Ich brauche nichts mehr. Stehn Sie auf. Es ist
Ein hartes Schicksal, aufgeopfert werden.
(Vittima? ... Ciò mi basta. È ben crudele
Quell'essere immolata!).
Un libretto d'opera non poteva contenere spiegazioni tanto complicate, né cosi sottilmente allusive; d'altra parte un quadro cosi fiabesco come quello dell'incontro dei due giovani figli di re nella foresta
piena di neve sarebbe impensabile nel dramma schilleriano .
46
45
Cfr. Ralph Miiller, Das Opernlibretto im 19. Jahrbundert. Zurcher Dissertation (1966), p. 8.
Ursula Giinther, nell'interessantissimo articolo Le Livret franqais de "Don
Carlos ". Le premier ade et sa revision par Verdi (« Atti » II, pp. 90-140) ha
ìaccolto il materiale di questo « atto francese » che sarebbe risultato lungo il doppio di quello che il pubblico conosce, non fosse stato decurtato durante le prove
per la prima rappresentazione. Il fatto che Verdi non abbia più pensato di restaurare le parti tagliate nei numerosi rimaneggiamenti cui sottopose l'opera sua, fa
pensare che non solo motivi di brevità materiale l'abbiano indotto a questo sacrificio, ma considerazioni d'ordine drammaturgico. Un coro di boscaioli lamentanti
l'infelicità del paese per il rigore della stagione e le conseguenze della lotta pluriennale con la Spagna, la generosità di Elisabetta, la comparsa di re Enrico II in scena
(almeno secondo la didascalia) sarebbero stati una cornice suggestiva ma un po'
dispersiva all'incontro dei due giovani Principi, che solo importa per lo sviluppo
successivo dell'azione in terra di Spagna. Nell'estensione e nell'articolazione di cui
ci dà notizia la Giinther, il I atto avrebbe costituito quasi un'opera a parte, un
poema nel poema. Un'edizione del Don Carlos data a Vienna nel 1933 sotto la
direzione di Bruno Walter presentava una tanto arbitraria quanto interessante interpretazione del I atto, intesa ad accentuarne la componente visionaria. Ne dà notizia Ingeborg Hausler nella sua già citata Dìssertation (Vienna 1957). Tutta la
scena di Fontainebleau è sentita come una rievocazione fatta da Carlo, seduto in
46
Se l'atto francese inizia con gli squilli di una allegra caccia, nel I I
atto siamo in terra di Spagna, davanti al convento di San Giusto, dove
ci attende un coro di frati. D o p o il fugace sogno di felicità, un'atmosfera solenne e severa comincia a gravare sull'opera e non l'abbandonerà
più; il motivo del sic transit gloria mundi rimane sotteso ai quattro
atti che seguono, e ricomparirà carico di una profonda suggestione
psicologica, oltreché spettacolare, nelle battute conclusive del dramma.
L o stacco dall'atto precedente non poteva essere più marcato, eppure
v'è un legame tra le due atmosfere: là s'erano cantate le illusioni della
felicità e dell'amore, qui risponde come un'eco il canto funebre sulle
vanità del mondo, e in particolare sulla gloria. Con il coro dialoga un
misterioso frate, che alla fine del V atto ricomparirà come Carlo V ornato delle insegne imperiali per trascinare lo smarrito nipote nella pace
del chiostro, sottraendolo all'Inquisizione, e alle passioni di quaggiù.
Questa comparsa di un fantasma, che dà all'azione una cornice
sovrannaturale, è stata spesso giudicata un'indebita sovrapposizione all'opera originaria, indebita perché mirante esclusivamente all'accumulazione degli effetti. In realtà questa soluzione è meno ingenua e miracolistica di quanto sembri e se Verdi l'ha accettata e poi mantenuta
senza batter ciglio deve averla trovata coerente con l'ispirazione che
gli veniva dal testo schilleriano.
Una sottolineatura della dimensione religiosa è da considerarsi
lecita in un'opera dove si parla tanto di chiesa sotto il profilo istituzionale. Poi, reinserendo Carlo V nella vicenda, facendogliene in un
certo modo reggere misteriosamente le fila, i librettisti hanno arricchito
una stanza della reggia di Madrid, a sera, davanti ad un arazzo raffigurante un
bosco. Le prime e le ultime parole che Carlo pronuncia in questo primo atto sono
arbitrariamente mutate (la partitura no). Ciò significa andar oltre le intenzioni di
Verdi, che sono state invece sostanzialmente rispettate da Luchino Visconti che,
nell'edizione allestita per il Covent Garden nel 1970, ha presentato il I atto con
scene e costumi del tutto diversi dal resto dell'opera, quasi a sottolineare l'irrealtà della foresta di Fontainebleau e dei fatti che vi hanno luogo. A proposito
di possibilità (ed arbitri) registici, interessante è l'osservazione di Giorgio Pestelli
(Il Don Carlos di Verdi, Corso monografico di Storia della Musica, Torino 1970,
p. 52): « Potremmo anche spingere le cose al massimo e andare oltre le intenzioni
di Verdi, ma non oltre la complessa psicologia del personaggio, immaginando tutto
l'atto come un parto della mente di Carlo, come qualcosa che lui vorrebbe aver
vissuto; anche con il crudele ratto della sua fidanzata, che dà al giovane una ragione di lotta e di straniamento dal mondo. A questa dimensione onirica può orientare anche la assoluta continuità del trattamento drammatico-musicale e l'insistito
uso di voci e suoni fuori scena che suggeriscono un ambiente spaziale dai confini
incerti e sfumati ».
la trama con la consapevolezza di un dramma dinastico. L ' '800 aveva
cominciato ad interessarsi della tragedia degli Asburgo di Spagna e gli
storici avevano rilevato il filo che univa il destino di Carlo V , di Filippo
I I e di Don Carlos, il figlio, il nipote e il pronipote di Giovanna la Pazza.
V'era alcunché di morbido nel gusto sepolcrale del Filippo I I
storico, nel fascino che le cerimonie funebri esercitavano su di lui, nel
suo voler vivere in stretta familiarità con tutto ciò che rammentava la
morte almeno a partire dai 40-45 anni di età, ma questo tratto gli
veniva direttamente dal padre, il quale, ritiratosi dopo l'abdicazione
nell'eremo di Yuste, mostrò, secondo quanto afferma lo storico H . G .
W e l l s , uno strano interesse per le cerimonie di sepoltura: assisteva
a tutte quelle che si svolgevano nel monastero, e faceva spesso dire
messe in suffragio, giungendo anche a far celebrare i propri funerali.
Questa è la descrizione di "Wells:
47
La cappella era addobbata di drappi neri e la luce di 100 ceri era appena
sufficiente a rischiararla. I frati e i dignitari dell'Imperatore vestiti a lutto si radunarono intorno ad un immenso catafalco nero eretto al centro della cappella; poi
venne letta la messa dei defunti... Carlo stesso, avvolto in un mantello nero e con
un cero ardente in mano si mescolò tra i suoi dignitari, spettatore del suo proprio
funerale, e alla fine della triste cerimonia porse al sacerdote il suo cero a significare
che commetteva l'anima sua all'Onnipotente. Carlo V morì due mesi più tardi.
Sulla scorta di questa descrizione, nella revisione WallersteinWerfel, di cui dà notizia la Hausler nella già citata Dissertation, la scena
iniziale del II atto venne interpretata come quella immediatamente susseguente all'abdicazione di Carlo V ; l'Imperatore, ufficialmente defunto,
in effetti vive ancora immerso nel pensiero dell'Aldilà e circondato dai
simboli dell'Eterno. Dalla sua tomba di vivente emergerà alle ultime
battute del dramma per offrire una protezione misticamente paterna al
figlio del figlio che porta il suo stesso nome. L'interpretazione Wallerstein-Werfel è molto suggestiva e sottolinea in senso storicistico l'intuizione dei librettisti e del musicista.
Si deve porre mente a un fatto importante: sull'opera, l'ombra
dell'Escoriai si proietta molto più insistentemente che non sul dramma
di Schiller. Q u i l'ambiente di corte è fastoso e gelido, ma il pensiero
della morte non è connaturato al Filippo schilleriano come al Filippo
verdiano. La melodia più celebre dell'opera, l ' i n e f f a b i l e
and a n t e sulle parole:
47
H. G. Wells, Geschichte
unserer Zeit, Vienna 1948.
Dormirò sol nel manto mio regal
Quando la mia giornata è giunta a sera;
Dormirò sol sotto la volta nera
Là nell'avello dell'Escoriai
si trova al centro della grande scena di Filippo, all'inizio del I V atto
e quindi quasi al centro di tutto il dramma e ad ugual distanza dalle
due apparizioni del frate-Carlo V . Ora, quella volta nera incombe idealmente su tutta la composizione; non solo fa da cornice alla tristezza
amara del Re, ma sembra bloccare anche il canto degli altri personaggi,
in particolare di Carlo e di Elisabetta, che non appare mai dispiegato,
vittorioso, fiammeggiante, ma in cui si insinua già una nota di decadentismo ; sotto quella volta sembra idealmente attutirsi anche il giubilo
del popolo nella grande scena della I I parte del I I I atto: v'è qualcosa
di frenato, di raggelato persino nelle note del grido di festa: « Gloria
a Filippo! E gloria al Ciel! » che seguono alla solenne promessa del
Re di « dar morte ai rei / col fuoco e con l'acciar ».
48
Ora, il motivo dell'Escoriai, intendendo per esso quel senso di
familiarità con la morte, che fu comune al Carlo V e al Filippo I I
storici, e che nasceva da una profonda disillusione della vita, è appena
accennato in Schiller.
4 8
Le seguenti parole di Aldo Nicastro (Don Carlos, Infante di Spagna - Ovvero
il mito dell'antieroe nella drammaturgia verdiana, in « Atti », II) illustrando la
vocalità del personaggio, e la sua posizione nell'evoluzione del teatro di Verdi, ne
colgono le caratteristiche, che collimano con quelle delia creatura schilleriana, per
cui si può dire che, se il libretto da solo non dà l'esatta immagine dell'Infante come
la concepì il drammaturgo tedesco, la realizzazione musicale gli è perfettamente
fedele: « Con Carlos ci troviamo, per la prima e forse per l'ultima volta, al cospetto
di un tenore verdiano di inusitate e sorprendenti qualità antiesibizionistiche, che
non sollecitano la struttura teatrale, ma vi sottostanno con sottile autofrustrazione.
Il canto di Carlos, nonché sfuggire alla tentazione di esplodere nella situazione plateale e alle insidie dell'aria rigidamente strofica (...) si svolge su una piattaforma
estremamente fluida e in divenire. (...) C'è qualcosa nel lamento di Carlos, svolgentesi spesso per gradi congiunti, che lo irretisce continuamente nei tentacoli del
" non espresso ". Come di una ricerca dell'empito dilatato, del cantabile eroico,
che sembra affatto irrelato alla febbricitante dimensione umana del personaggio:
il cui canto, perciò, denota uno stato di continua tensione, quasi che nelle sue spire
venga soffocato l'anelito alla melodia irruente, spiegata, franca, cosi tipica fin allora
dell'eroe liberale verdiano » (p. 444). L'autore nota ancora come il canto di Elisabetta subisca una « vera e propria contaminazione stilistica ed espressiva » al contatto con quello di Carlo; la Regina di Verdi ha nelle tre scene col figliastro, e
nella grande aria che precede l'ultimo incontro, un che di « languido e di morbido », che la distingue dal personaggio di Schiller, sempre presente a se stesso
nella coscienza del proprio doloroso dovere, e a cui il Principe non strappa mai
un'espressione più affettuosa di « Caro infelice » (I, 5).
Il nome dell'Escoriai cade nel dialogo tra il Re e il Conte di
Lerma ( I I I , 2 ) : il nobiluomo nota i segni dell'insonnia sul volto del
monarca, gli raccomanda « due brevi mattutine ore di sonno », al che
il Re risponde, con uno scatto, quasi con stizza: « Sonno? Nel muto
Escoriai lo trovo ». Anche in Schiller il dramma di Filippo è quello
della solitudine, ma tale solitudine non si riconnette necessariamente
ad idee di sepolcri e di funerali.
4 9
Verdi aveva visitato l'Escoriai nel 1863, durante un viaggio in
Spagna (mentre Schiller, come già detto, non si mosse mai dalla Germania) e ne aveva tratto un'impressione oltremodo deprimente ; è
logico pensare che l'immagine di quel funereo splendore non abbia mai
abbandonato la sua fantasia creatrice nei mesi in cui veniva componendo il Don Carlos e che si sia associata indelebilmente alla figurazione musicale di Filippo I I , il quale è qualcosa di diverso e di più
del « re » che « dal trono / cader non debbe che col trono istesso » ,
ma che paga la sua regalità con una solitudine disumana; il pensiero
della morte, e non un'idea politico-filosofica è il centro della concezione
del personaggio verdiano, ed in questo pensiero si coglie una matrice
autobiografica.
50
5 1
49
La scena, che segue al monologo « Che fantastica fosse... alcun lo nega? »
(III, 1) corrispondente in modo approssimato ad «Ella giammai m'amò» ci mostra un Filippo colpito nella sua « sterbliche Stelle » (ha davanti a sé lo scrigno
trafugato ad Elisabetta) il cui comportamento però è francamente grottesco. Il librettista ha avuto in questo punto la mano più felice di Schiller; un personaggio il
cui tratto fondamentale è il dominio dei sentimenti può rimuginare tra sé i sospetti
sulla fedeltà della consorte, ma è poco credibile che chiami di primo mattino un
Conte di Lerma qualunque e con aria stravolta e fare da forsennato gli faccia capire di temere d'esser stato tradito dalla Regina.
Cfr. lettera all'Arrivabene del 1863: «L'Escoriai, mi si perdoni la bestemmia, non mi piace. È un ammasso di marmi ma nell'insieme vi manca il buon
gusto. È severo, terribile come il feroce sovrano che l'ha costruito ».
Non è escluso comunque che la frase del Filippo schilleriano su riportata,
unita al ricordo visivo dell'Escoriai, abbia fatto scattare in Verdi un meccanismo
psicologico da cui è sorta la straordinaria intuizione musicale del Don Carlos contenente un'idea drammatica che il testo originario non contempla.
È probabile che proprio in questo caso si sia verificato quel fenomeno di illuminazione creativa che acutamente spiega Franca Cella nel suo già citato saggio:
« Il musicista si incanta su una frase, una parola, capace di suggerirgli un'invenzione lirica straordinaria o un'idea drammatica nuova: questa, da quel preciso contatto con quel testo, diventa patrimonio suo, e magari verrà in seguito imitata da
altri » (La librettistica italiana nell'età romantica, in « Contributi dell'Istituto di.
Filologia Moderna », Serie Storia del Teatro, voi. I, p. 226).
Cfr. Alfieri, Polinice, Atto I, scena 4.
50
51
Il ventottenne Schiller aveva reso umana la figura del monarca
spagnolo, ma aveva amato come parziali proiezioni di se stesso prima
l'Infante, poi il Marchese di Posa; il cinquantaquattrenne musicista
(settantaquattrenne, se poniamo mente all'ultima revisione, che è del
1886) esalta il sacrificio dei giovani e li piange, ma, per alcuni risvolti
della sua psicologia, è legato da più profonda affinità al personaggio
di Filippo.
Concludendo: se si pone mente alla componente mistico-funeraria
dell'opera di Verdi che manca in Schiller ma che si rifa a precise indicazioni storiche, la comparsa dell'Imperatore-padre e Imperatore-nonno
all'inizio del dramma vero e proprio e alla fine di esso appare naturale
e non un meccanico artifizio per accrescere grandiosità allo spettacolo .
52
Inoltre trovo valide le osservazioni del Nicastro sulla coerenza del
finale dell'opera con il carattere dell'Infante che ne è il protagonista.
Carlo non trionfa e neppure muore, dato che la morte nell'ideologia
umanistica del laicismo europeo ottocentesco altro non è che un atto
di positività eroica, cui è accordabile lo stesso senso del trionfo: Carlos
scompare, salvato dalle paterne braccia dell'Imperatore ma anche sottratto ad una fine eroica che lo avrebbe imposto alla nostra ammirazione come Posa, la vittima cruenta dell'Inquisizione.
La scena dell'autodafé (atto I I I parte I I ) è senza dubbio ispirata
dalle parole che il Re di Schiller pronuncia nel I a t t o ; che la preannunciata « pompa regale » del corteggio costituisse un'occasione da non
perdere per chi allestiva uno spettacolo da Grand Opera è intuitivo,
però i librettisti e il musicista ne hanno fatto qualcosa di assolutamente
insostituibile nell'economia del dramma. Essa rende accessibili alla no53
5 2
Schiller accenna anche ad un rapporto antagonistico tra Carlo V e Filippo
II, che è assolutamente contrario alla verità storica: dopo la morte del Marchese
il Conte di Lerma esorta Carlos a dichiarare apertamente la ribellione al padre con
queste parole (per verità un po' inattese): « Dal secondo Filippo il glorioso / Carlo
fu stretto a scendere dal trono / E di suo figlio quel Filippo or teme / Prence, a
questo pensate, e Dio vi scorga! » (V, 7). Che Filippo sia quasi un usurpatore è
completamente falso; la differenza tra l'eremita di Yuste e il costruttore dell'Escoriai è da ricercarsi, se mai, nella diversa distanza dalle passioni terrene: completamente al di fuori di esse Carlo V, non ancora distaccato da esse, al punto da doversi corazzare d'insensibilità per difendersene, Filippo.
5 3
I,
6:
FILIÌ'PO: Io torno
Mi
a
Madrid.
vi chiama
L'eresia,
un
grande
spaventevole
officio.
contagio,
I miei popoli infesta, e la
rivolta
Che
avvampa e
scoppiò nelle Fiandre
II t e m p o
è già maturo.
Un
fiero
cresce.
esempio
stra immaginazione, addirittura tangibili, una serie di concetti e di rapporti che era altrimenti difficile esprimere: il potere del Re, che deriva
il suo assolutismo dalla religione, la tragedia dei popoli sottomessi,
l'ansia di riscatto e di libertà, la sensazione della lotta imminente e senza
tregua che divamperà tra due opposti modi di concepire la vita e il
potere; le Fiandre sono le vere protagoniste di questa scena, al di là
del destino individuale dei singoli personaggi, del Re, della Regina, di
Carlo, di Posa.
Le acclamazioni popolari, la marcia funebre che accompagna i
condannati al rogo, la marcia trionfale che accompagna la sfilata di
tutti i Grandi della Corte non sono pura coreografia, ma rendono concreti i rapporti di potere nella Spagna del X V I secolo. Il Re esce dalla
Cattedrale nel religioso silenzio dei suoi Grandi e dei suoi sacerdoti,
e con poche parole, duramente scandite, inesorabili, rinnova il voto di
imporsi anche con la forza agli avversari del trono e dell'altare.
La presentazione del quadro dell'assolutismo potrebbe terminare
qui; ma ecco il drammatico contrasto: condotti da Carlo (che in questo
momento è però una semplice comparsa) entrano i deputati fiamminghi.
La loro implorazione, piena di fierezza e di dignità, è una delle più
belle pagine corali di Verdi: attraverso la preghiera si sente fremere
la rivolta, in nome di un inalienabile diritto alla libertà e alla vita.
V ' è nello stesso tempo un afflato eroico che ricorda l'Ouverture
àzWEgmont di Beethoven. Sulla Gazzetta Musicale di Milano del 24
novembre 1867 J. Claretie scriveva :
54
D e b b e a m m o n i r quei traviati. Il santo
V o t o di tutti i principi cristiani
Io prosciolgo d o m a n i , ed i n a u d i t i
Quei supplizi saran. Vi si raccolga
T u t t o in p o m p a regale il m i o corteggio.
(Jetzt eil' ich nach Madrid.
Mieli ruft m e i n kònigliches A m t — D i e Pest
Der Ketzerei steckt m e i n e Volker a n,
D e r Aufruhr wàchst in m e i n e n N i e d e r l a n d e n .
Es ist die h ò c h s t e Zeit — Ein schauerndes
Exempel soli die Irrenden bekehren.
D e n grosscn Eid, den alle K ò n i g e
D e r Christenheit g c l o b e n , los' ich morgen.
D i e s Blutgericht soli oline Beispiel sein;
Mein ganzer H o f ist feierlich geladen).
54
Riportato da G. Roncaglia, L'ascensione creatrice di G. Verdi, Firenze 1940,.
pp. 316-317.
In quel coro di Fiandresi — coro di bassi che cantano all'unisono, lento come
un canto di chiesa, sordo come il rombo di un tuono, minaccioso, spaventoso, sublime — Verdi ha posto il medesimo ardore represso, la stessa energia risoluta a
tutto, al sacrificio, alla morte, al martirio. È il pieno appello della libertà soffocata
che domanda di rivivere. Verdi vi ha espresso, come nessun altro avrebbe potuto
fare, i grandi dolori di coloro che soggiacciono sotto il peso di una oppressione.
L'infiammata ed entusiasta oratoria del Marchese di Posa schilleriano non infonde la stessa emozione di questo coro, al quale, oltre
a tutto, non si può muovere l'accusa di anacronismo.
Nel seguito della scena ai destini dei popoli si riallacciano i destini
dei personaggi: Carlo reclama in forma abbastanza isterica, convien
dirlo, il comando delle Fiandre; alla dura, ma già scontata risposta
negativa del Re (ma non occorreva essere Filippo I I per negare al
figlio una richiesta fatta in quei termini; è significativo che i deputati
fiamminghi non la appoggino, e si limitino a ripetere la loro implorazione) l'Infante snuda la spada; Posa lo disarma, per cui al ribelle non
rimane che l'arresto, mentre il Marchese sale ancor più nella stima del
Re. I l contrasto tra Re e Principe è piuttosto plateale e la ribellione
di Carlo è troppo velleitaria ; anche senza l'intervento di Posa era
impossibile che la situazione volgesse a suo favore; comunque è indubbio che tale sconsiderata uscita giustifichi l'imprigionamento del Principe meglio di quanto non venga motivato nel dramma originario, dove
potrebbe sorgere il dubbio che Posa proceda all'arresto di Carlos solo
o anche per il gusto e la gloria di sacrificarsi per lui.
55
In Schiller, le ragioni dell'arresto di Carlos sono un mistero anche
55
Schiller fa assistere allo scontro fra Re e Principe che si svolge molto più
credibilmente nella sala delle udienze (II, 2). Carlo è avventato a sufficienza, ma
non arriva a snudare la spada; comunque anche nella circostanza cosi come è presentata da Schiller sarebbe stato impossibile strappare al re un consenso con questi
argomenti:
KÒNIG :
Zu heftig braust das Blut in deinen Adern.
D u wùrdest n u r zerstòren.
CARLOS
Geben Sie
Mir zu zerstòren, Vater — H e f t i g braust's
In m e i n e n Adern — Dreiundzwanzig Jahre,
U n d nichts fùr d i e Unsterblichkeit gethanl
(RE:
CARLO:
Acceso
T r o p p o scorre il tuo sangue, e n o n faresti
Che distruggere, o Carlo.
E ch'io distrugga,
Padre, mi lasciai È caldo il sangue mio;
Il vigesimo terzo anno già varco
E nulla ancor che m'infuturi!).
per il Re; nel libretto sono palesi a tutti, senza che si debba far vedere
l'intricato complotto di Alba e di Domingo (personaggi completamente
soppressi) contro l'Infante, complotto di cui il Marchese finge di tenere
le fila (cfr. atto V , scena 3, Posa: « Alla congiura / che dovea rovinarti,
il filo io ressi »).
La rottura tra il sovrano e il suo erede è nel I I I atto del libretto
cosi aperta e definitiva da spiegare la comparsa dell'Inquisitore nello
studio del Re il mattino seguente. Il termine tradizionale di duetto
può essere mantenuto per comodità, ogni qual volta sulla scena agiscono due personaggi; ma in pochi casi come in questa scena esso suona
sfasato e falso, dato che, anche sotto il profilo tecnico, soltanto in un
passo
56
le due voci si sovrappongono; siamo davanti ad un confronto
tra colui che incarna la potestà temporale e colui che incarna la potestà
spirituale; ma il contrasto non è tra trono e altare, il dissidio insanabile che questa scena evidenzia è quello tra i diritti dell'umanità,
tra gli affetti più sacri, e l'interesse del potere costituito. È vero, l'Inquisitore minaccia il Re (in Schiller come in Verdi) di portarlo davanti
al Tribunale; ma perché l'essenza stessa di un dominio assoluto è la
disumanità, e Filippo ha peccato di umanità, cedendo al desiderio di
avere un amico accanto a sé.
La frase dell'Inquisitore verdiano, citata nella nota 56, condensa
efficacemente queste parole dell'Inquisitore schilleriano:
— Wozu Menschen? Menschen sind
Fùr Sie nur Zahlen, weiter nichts — Muss ich
Die Elemente der Monarchenkunst
Mit meinem grauen Schùler iiberhòren?
Der Erde Gott verlerne zu bedùrfen,
Was ihm verweigert werden kann. Wenn Sie
Um Mitgefùhle wimmern, haben Sie
Der Welt nicht Ihresgleichen zugestanden?
Und welche Rechte, mocht'ich wissen, haben
Sie aufzuweisen iiber Ihresgleichen? .
57
5 6
II « Tais-Toi, Prètre », di Filippo cade sulle ultime note della frase dell'Inquisitore: « Et de quel droit vous nommez-vous le Roi, Sire, si vous avez des
cgaux? ».
Nella versione italiana: FILIPPO: Non più, frate. GRANDE INQUISITORE: Perché
hai il nome tu di re, Sire, se alcun v'ha pari a te?
5 7
GRANDE INQUISITORE: — N o n s o n o
Gli u o m i n i per F i l i p p o altro che s o m m a .
F i n gli elementi del regnar m'è forza
Farmi ridir dal m i o c a n u t o a l u n n o !
Smetta il d i o della terra ogni vaghezza
Il Filippo del libretto, rimasto solo, esclama:
L'orgueil du Roi fiéchit devant l'orgueil du prètre!
che nella traduzione italiana suona:
Dunque il trono piegar dovrà sempre all'altare!
Sono parole che traggono in inganno sulla qualità del contrasto
58
a cui abbiamo appena assistito ; sono forse comprensibili da parte di
D'aver ciò che n o n debbe. È consentire
A l l ' u m a n a natura il p r i v i l e g i o
D'esservi pari, se desio vi p u n g e
D i scambievoli affetti. E q u a l diritto,
D i t e m i l , allora millantar potreste
Sopra i simili vostri?
58
Una conclusione di tal genere, ben diversa da quella schilleriana, riflette i
dibattiti politici degli Stati europei, e soprattutto dell'Italia, nella seconda metà
dell' '800. Il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa era particolarmente spinoso:
il '67 cade nel decennio che è l'ultimo del potere temporale, un potere temporale
che si regge sulle armi e sulle minacce di Napoleone III, il quale, senza troppo
entusiasmo per verità, doveva dare soddisfazione ai clericali francesi che costituivano una colonna del suo potere, e a capo dei quali v'era la stessa Imperatrice, la
bella (e spagnola) Eugenia Montijo.
Il Sillabo che tante polemiche e prese di posizione politiche aveva suscitato
negli Stati cattolici, era di tre anni anteriore; di li a tre anni, poche settimane
prima della breccia di Porta Pia, si avrà un altro avvenimento capitale nella storia
millenaria dell'istituzione ecclesiastica: la proclamazione del dogma dell'infallibilità
pontificia.
Questo contesto spiega lo scatto passionale del Filippo II di Verdi, che esce
in una frase che ha un sapore di denuncia, ma che il vero Filippo non avrebbe mai
pronunciato, dato che per lui la religione era un instrumentum regni (se per intima convinzione o per machiavellismo è una discussione che ora ci fuorvierebbe);
né Schiller, di formazione protestante e vissuto nel Settecento giurisdizionalista,
senti il bisogno di mettere in bocca al suo personaggio questo spunto polemico. Se
mai, la polemica è diretta contro quel tipo di educazione religiosa, di cui Schiller
vede vittima lo stesso Filippo, che deforma lo spirito sino a togliergli ogni spontaneità e capacità di affetto: contro lo strapotere monacale sulle anime, non sullo
Mato. La questione dell'anticlericalismo in Verdi non è stata ancora studiata a fondo,
a quanto mi consta. Il Don Carlos, secondo l'opinione comune, ne sarebbe un segno
vistoso. Non condivido questa affermazione. Senza dubbio uno spirito decisamente
bigotto o estremamente ligio alla gerarchia avrebbe a scanso di equivoci evitato di
scegliere un simile soggetto; ma che il Don Carlos debba intendersi composto con
uno scopo polemico contro la Chiesa cattolica istituzionale è da dimostrarsi. Mi
sembra che anche nel carteggio con Giuseppe Piroli (1815-1890), bussetano, Senatore del Regno dal 1860 (cfr. A. Luzio, Carteggi Verdiani, voi. Ili), compaia, da
parte di Verdi, un'animosità piuttosto generica e contingente contro i preti maneggioni, nonché tepidi sostenitori della causa italiana contro l'Austria, non sufficiente,
a mio avviso, a presentare il musicista come un esponente del pensiero laico, anzi
Filippo che esce sconfitto dallo scontro; ma non è il Re a uscir sconfitto, è la sua umanità; possiamo ben immaginare che, dopo aver consentito al sacrificio del figlio e aver messo nelle mani dell'Inquisizione
l'unica persona a cui aveva creduto di concedere la sua confidenza, nessun affetto umano troverà più l'accesso nel cuore di Filippo e la solitudine si richiuderà su di lui come una pietra tombale.
Il
testo di Schiller, data la collocazione della scena che è la
penultima del dramma, ci comunica con maggiore forza questa terrificante certezza: è il punto in cui il Re esclama: « N o i siam concordi.
Vieni ». « D o v e ? » domanda l'Inquisitore. « A pigliar dalle mie mani
la vittima. M i segui ».
(KÒNIG:
Wir sind einig — Kommt —
GROSSINQUISITOR: Wohin?
KÒNIG:
AUS meiner Hand das Opfer zu empfangen).
Tutto è sacrificato al Moloch della Ragion di Stato, il Re parla
lo stesso linguaggio dell'Inquisitore. Nell'Inquisitore schilleriano sembra
materializzarsi lo spettro dell'oppressione e della tirannide che aleggia
sul dramma sin dai primi versi; è questo vecchio cieco e nonagenario,
al di sopra e al di fuori dell'umanità, la potestà malefica che presiede
invisibile alla tessitura del destino di ogni altro personaggio. Anche
in Verdi questa apparizione è tremenda, e la si attende sin da quando
Filippo, alla fine dell'atto I I , dicendo a Posa di guardarsene, la preannuncia anche come tema musicale. Il duetto si suggella con la ripresa
minacciosa della frase: « Ma ti guarda dal Grande Inquisitori » mentre
in Schiller l'ammonimento, nella grande scena del I I I atto, scivolando
in mezzo al mare di parole dell'entusiasta Marchese, provoca appena un
breve istante di riflessione e passa quasi inosservato.
(KÒNIG:
MARQUIS:
KÒNIG:
... Aber / Flieht meine Inquisition. Es solite / Mir leid tun
Wirklich? / Sollt es das?
Ich habe / solch einen Menschen nie gesehen. Nein,
Nein, Marquis! Ihr tut mir zuviel!).
come un campione dello spirito laicista che tanti adepti aveva — et pour cause —
tra gli uomini del Risorgimento. La polemica contro l'istituto ecclesiastico è uno
dei tanti temi dell'opera e attesta la peculiarità dei melodrammi di Verdi, che è
quella di consuonare perfettamente con il clima spirituale degli anni in cui nascono.
Verdi non è né conservatore, né progressista; nella sua tematica e nel modo di
presentarla è l'eterno contemporaneo. Aggiungo di sfuggita che nessuno ha pensato di ricercare affinità tra il Grande Inquisitore e Verdi, mentre il parallelo con
Filippo II è un dato ormai acquisito.
Nella creazione verdiana, l'Inquisitore ha le stesse caratteristiche
di quello di Schiller; del resto è inevitabile, un personaggio cosi emblematico non ha fisionomia umana ed è di per se stesso immutabile; il
Re invece è ancora un passo più indietro sulla via della disumanizzazione; freme e soffre più di quello schilleriano. La situazione è in
effetti diversa: nel testo originale, l'assassinio del Marchese è già avvenuto per comando del Re, ed egli deve ora giustificarsi davanti all'Inquisitore per non aver consegnato al Sant'Uffizio quell'eretico, oltre
che per averlo ascoltato; questo argomento occupa i tre quarti del
dialogo; poi si passa a decidere della sorte dell'Infante. Il discorso è
teso, domanda e risposta si estendono per poco più di un verso l'una,
ma è abbastanza chiaro che qui Filippo cerca una conferma a ciò che
è già una sua risoluzione; il momento dell'umanità è per lui definitivamente passato; s'era fidato di un uomo, e quell'uomo lo ha tradito; era
riemerso dal terribile accasciamento che l'aveva colto ( V , 9) con propositi di vendetta:
... Er brachte
Der Menschheit, seinem Gbtzen, mich zum Opfer;
Die Menschheit busse mir fùr ihn! Und jetzt
Mit seiner Puppe fang ich an.
(Mori per l'uomo
Diletto idolo suo? La mia vendetta
Caggia dunque sull'uom! Or dall'automa
Di quello stolto cominciar m'è caro).
D o p o di che gli eran state consegnate le lettere politiche del
Marchese al Principe, sottratte ad un certosino che avrebbe dovuto in
gran segretezza portarle al vero destinatario; il Re dopo averle appena
scorse aveva chiesto di parlare con il Grande Inquisitore.
La chiusa del colloquio, citata a p. 148, conferma che il destino di
Carlo era già segnato, come d'altra parte quello del Marchese s'era già
irrevocabilmente compiuto.
In Verdi il confronto fa seguito al grande monologo del I V atto.
Carlo è stato arrestato per aver snudato la spada contro il Re nella
scena dell'autodafé, e il Marchese è nell'intiero favore del Re, che
non sospetta di lui.
Il discorso incomincia con l'argomento Carlo, il testo è assai vicino
59
a quello dell'ultima parte della corrispondente scena schilleriana , i due
personaggi si rimandano un verso per volta: l'accompagnamento musicale sottolinea come la parola sola non potrebbe fare la diversa tensione dei due animi.
« Un'efficace sigla è data dalle pause che separano le entrate dei
personaggi, conferendo al dialogo tutta un'atmosfera — una " suspense "
si direbbe oggi — di rispetto e di sospetto reciproci. Si evidenzia però
subito il tono più concitato, più nobile, più umano di Filippo, per
quanto sovrapposto al riprendere del motivo dell'Inquisitore » .
6 0
Ma il contrasto si apre sulla richiesta di una vittima per il Santo
Uffizio nella persona del Marchese di Posa. Quando Filippo, dopo che
il suo tentativo di rifiuto ha suscitato una vera tempesta, cerca di ricomporsi e formula una proposta di pace:
Roi:
Mon pére, que la paix redescende entre nous.
INQUISITEUR:
La paix?
Roi:
Que le passe soit oublié.
INQUISITEUR:
Peut-ètre!
il sacrificio di Posa è deciso, ma v'è ancora tanta amarezza nell'animo
del Re, quella appunto che gli fa esclamare « L'orgueil du Roi fléchit
devant l'orgueil du prètre! ».
Dallo scontro esce perdente, ma la lotta è stata dura, a testimonianza di un sentimento umano duro a morire.
V ' è chi ha messo opportunamente in relazione la scena iniziale del
I V atto (il monologo « Ella giammai l'amò! ») con la notte dell'Innominato , dato che i Promessi Sposi erano uno dei testi che Verdi
61
5 9
60
61
I.
R.
I.
Qual mezzo per p u n i r scegli
Mezzo estrem.
N o t o m i sia.
R.
I.
Che f u g g a o c h e la
Ebben?
R.
Se il
I.
R.
La p a c e dell'Impero i di vai d'un ribel.
Posso il figlio i m m o l a r al m o n d o , i o , cristiano?
1.
R.
Per riscattarci I d d i o il suo sacrificò.
Ma t u p u o i dar vigor a l e g g e si severa?
I.
R.
O v u n q u e avrà vigor se sul Calvario l'ebbe.
La natura, l'amor, tacer p o t r a n n o i n me?
I.
T u t t o tacer dovrà per esaltar l a fé.
(Don Carlos, atto I V , scena 2).
figlio
tu?
scure...
a m o r t e i n v i o , m'assolve la tua
mano?
G. Viozzi, Note sul Grande Inquisitore, in «Atti», II, pp. 457-458.
Cfr. L. Arruga, Poeti e musicisti nell'opera romantica italiana, in « Contri-
aveva più familiari e ne venerava l'autore; orbene, se il dramma del
personaggio manzoniano si risolve nell'incontro con il Cardinal Federigo, quello di Filippo ha anch'esso una soluzione, ma quanto sofferta!
nel confronto con il Grande Inquisitore. È pensabile che Verdi abbia
sentito la figura del terribile frate cieco e glaciale come la perfetta
antitesi dell'affabile personaggio manzoniano, uomo di mondo e pieno
di comunicativa, ancor prima che santo .
62
4. - RAFFRONTO TRA SCENE E PERSONAGGI DELLE DUE COMPOSIZIONI.
G l i spostamenti di scene, le aggiunte e le soppressioni configurano
il libretto del Don Carlos in maniera diversa dal dramma di Schiller,
ma non lo snaturano affatto, anzi ne conservano l'intuizione essenziale:
l'umanità di Filippo, che Schiller aveva giustamente visto come il punto
focale della sua ispirazione, la chiave di volta per intendere tutto il
dramma si da fargli scrivere nel proemio alla pubblicazione del I atto
in Thalia ( 1 7 8 5 )
Man erwartet — ich weiss nicht welches? Ungeheuer, sobald von Philipp
dem Zweiten die Rede ist — mein Stiick fallt zusammen, sobald man ein solches
darin findet.
Una rappresentazione totalmente negativa del Monarca spagnolo
avrebbe fatto crollare tutto il poema drammatico; è un caso che questo
personaggio sia divenuto una delle creazioni più alte della musica mondiale, e che il Don Carlos di Verdi sia inconcepibile senza quella figura,
o meglio, senza il ricupero umano di quella figura? Schiller rappresentò
l'uomo sotto il tiranno per necessità drammaturgiche; le letture ch'egli
aveva fatto sull'argomento non lo avrebbero certo incoraggiato in
63
buti dell'Istituto di Filologia Moderna», Milano 1968, pp. 275-276; F. Abbiati
(IV, pp. 382-383) riporta le parole con cui A. Boito parla della profonda impressione che la pagina manzoniana suindicata esercitava sul musicista il quale, sempre
secondo la testimonianza di Boito, la sapeva recitare a memoria.
6 2
Per contro, la cecità dell'Inquisitore è emblematica per la chiusura mentale e umana del personaggio; Schiller vi fa una diretta allusione, per bocca dello
stesso Re (V, 10):
Ich sali in seine A u g e n — H a l t e mir
D e n Riickfall in die Sterblichkeit zugut.
D i e W e l t hat einen Z u g a n g w e n i g e r
Zu d e i n e m Herzen. D e i n e A u g e n sind erloschen.
63
Sono sicuramente provate, oltre alla Novella del Saint-Réal, il Portrait de
quella direzione; la storiografia sull'argomento aveva fatto ben altri
passi nell'epoca di Verdi, sulla base di una documentazione precisa e di
un'accurata ricerca e revisione delle fonti; ma ha un'importanza relativa
sapere se Verdi si fosse documentato su queste fonti approfondendo
per conto suo l'indagine storica: dalle pagine di Schiller egli ricavava
un ritratto morale e psicologico del Re di Spagna, capace di stimolare
la sua potenza creativa e in cui poteva cogliere consonanze spirituali.
L o stesso ragionamento si può fare per Don Carlos; trovo alquanto
azzardato dire che l'Infante verdiano è più vicino alla storia dell'Infante
schilleriano; già il protagonista del Dramatisches Gedicht ha un carattere femmineo, irresoluto e atteggiamenti talvolta addirittura puerili,
come quando insiste con il padre per avere il comando delle Fiandre
con argomenti che nessun sovrano avrebbe preso per buoni ( I I , 2) o si
confonde davanti al Paggio che gli ha portato il biglietto di Eboli (da
lui creduto di mano della Regina) ( I I , 4), o snuda la spada contro il
Duca d'Alba ( I I , 5) per poi chiedergli precipitosamente scusa all'apparire
della Regina.
Appare spesso trasognato, instabile, pronto ad esaltarsi, ma anche
ad abbattersi; si fa soverchiare da tutti i suoi interlocutori, da Posa,
dalla Regina, dal Re, da Eboli, anche dal Duca d'Alba; si riscatta nell'ultima scena, quella del congedo dalla matrigna, ed è giusto che
Elisabetta qui — per la prima volta, si noti — gli dica di ammirarlo.
Ma quest'ultima scena è anche l'ultima della sua vita: v'è una tragica
ironia nel fatto che l'Inquisitore intervenga proprio quando il Principe
ha preso una decisione; ma è giusto che sia cosi, perché l'azione non
era sua, ma di Posa, e in parte anche della Regina; ed è giusto che
questo personaggio cosi poco autonomo finisca nell'ombra di un Tribunale segreto, che non gli concederà il trionfo di un giudizio e di una
esecuzione pubblica, come per un Egmont e per un Horn.
Nella riduzione per teatro in prosa Schiller fa si che Carlos si
pugnali davanti al Re e all'Inquisitore, e questo finale è stato talvolta
adottato persino nelle edizioni del Don Carlos di Verdi rappresentate
in Germania; ma il suicidio non è coerente con il comportamento di
Carlos; Schiller subì la modifica, com'era suo costume, dato che purché
le sue opere venissero rappresentate sapeva essere estremamente pra-
Philippe II, roi d'Espagne di Louis-Sébastien Mercier (1785) e YHistory of the
Reign of Philipp II, King of Spain di Robert Watson (comparso nella traduzione
francese letta da Schiller nel 1778).
tico e addirittura opportunista. Ma, tralasciando questa variante che trasportata nell'opera verdiana è un atto di puro arbitrio, senza alcun avallo
del musicista, si può sostenere che anche Schiller abbia escogitato una
fine problematica, comunque diversa da quella di altri suoi eroi, per
questa sua misteriosa creatura.
È stato detto e dimostrato che l'Infante dell'opera è un tenore che
si distacca dal tipo eroico risorgimentale; ma anche l'Infante schilleriano,
col suo languore e col suo amletismo, la sua incapacità ad essere un
protagonista, fa storia a sé, ed è soprattutto diverso dalle figure degli
Jugenddramen.
Un mutamento si avverte nell'interpretazione librettistica di Elisabetta; anche in Verdi, è vero, essa è soprattutto principessa e re64
g i n a , ma quel suo sogno di vergine infranto dalla ragion di stato la
accompagna con più insistenza e più pericolosa malia che non nel dramma tedesco; la Regina di Schiller ha già vinto la sua battaglia, appare
pacata, serena; forte del suo buon diritto, giudica Carlos, il Re, Posa;
quella di Verdi ha raggiunto un equilibrio di cui si avverte in più d'un
passo la precarietà: piena di dignità davanti alla Corte, al Re, alla
64
Anche nell'atto di Fontainebleau Elisabetta si mostra più virile di Carlo
davanti all'inopinata svolta del destino che la vuole moglie del Re di Spagna. Il
Pestelli nel suo già citato corso monografico sul Don Carlos fa notare le differenti
reazioni della giovane e di Don Carlos all'annuncio di Tebaldo: « Regina, io vi
saluto sposa a Filippo re! ». (Uso il testo francese perché la versione ritmica italiana,
particolarmente generica in questo caso, non fa risaltare la differenza dei caratteri):
ELISABETH:
L'heure fatale est sonnée!
Non!
Contre la destinée
Combattre est vaillant et b e a u .
O u i , p l u t ò t q u e d'ètre
Reine
Et d e porter cette c h a i n e
Je v e u x descendre au t o m b e a u !
CARLOS :
L'heure fatale est sonnée,
La cruelle destinée
Bri se ce rève si beau!
Et de regrets l'àrne p l e i n e ,
N o u s trainerons notre c h a i n e
J u s q u ' à la p a i x d u t o m b e a u !
Elisabetta è pronta a combattere; si piegherà infatti non per obbedire ad un
calcolo politico ma per le suppliche delle donne dei boscaioli che capiscono che
quel matrimonio può esser foriero di pace dopo decenni di guerre. (DONNE: « Accettate, Isabella, la man che v'offre il Re; / La pace avremo alfin, pietà di noi! »).
L'atteggiamento di Carlo invece è passivo, già rassegnato in partenza; la realtà presente gli si configura immediatamente come un rève, un sogno, e la pace della
tomba gli appare ormai l'unica meta auspicabile della propria esistenza.
principessa d'Eboli, il suo canto assume una linea indecisa, sfumata,
quando è in presenza del figliastro.
Filippo, Elisabetta, D o n Carlos sono tre tipi di solitari, benché
la loro solitudine abbia motivazioni e tinte diverse; caratteri s o c i e v o l i sono invece quelli di Eboli e di Posa.
In Schiller tale socievolezza ha minor risalto, dato che ha modo
di esplicarsi in mezzo a una folla di personaggi di corte, tutti piuttosto
loquaci; ma anche per lui sono essi i motori dell'azione. Per inciso,
non v'è un foglio di tutto il gioco postale di cui si è già parlato che
non sia scritto da loro o che non passi per le mani loro. La principessa
Eboli verdiana è in tutto e per tutto fedele al suo modello: bella,
giovane, ardente, intrigante, fiera, « nobile e soprattutto nubile » come
scrive impagabilmente John Clarke A d a m s , si presenta con l'esotica
canzone del velo, che è quasi la proiezione lirica di quella che sarà la
sua propria vicenda, e all'entrata del Marchese di Posa intreccia con
lui un dialogo musicalmente prezioso ed elegante sulla moda e sui tornei
di Francia, mentre la Regina legge il biglietto di Carlo, consegnatole
in segreto da Posa stesso. Indubbiamente per la carica di comunicativa
che posseggono, Eboli e Posa sono gli unici personaggi del dramma
(di Schiller come di Verdi) che possono permettersi di parlare di cose
frivole senza uscire dalla parte.
65
Rodrigo, Marchese di Posa, mantiene nel libretto l'ambiguità che
lo caratterizza nel dramma; per ambiguità non intendo quella specie di
doppio gioco tra l'amicizia di Carlo e il favore del Re, che il personaggio
non realizza, ma che medita di fare almeno per qualche momento; tale
oscillazione praticamente non esiste nel Rodrigo verdiano, il quale
agisce sempre per quello che crede sia l'interesse dell'amico; alludo
invece alla duplicità di impressioni che nascono da una lettura superficiale e da uno studio più approfondito della parte di Posa, nel dramma
come nell'opera. In altre parole: gli autori, il drammaturgo e il musicista, hanno concepito questa figura con certi intenti, il pubblico se ne
è formata un'immagine sostanzialmente diversa e rimane affezionato a
questa immagine.
Il pubblico vuole vedere in Posa l'amico fedele fino all'olocausto;
gli altri importantissimi aspetti della sua personalità e la complessità
della sua azione (per non dire dei suoi intrighi) gli sfuggono o lo distur-
65
Cfr.: Don Carlos: Problemi di rappresentazione e interpretazione, in « Atti »
II, p. 472.
bano, perché offuscano il quadro dell'amicizia appassionata ed eroica di
cui si vuole che Rodrigo sia il campione anche contro Schiller stesso,
che scende in campo per ristabilire la sua verità su questo suo personaggio, a cui dedica tutte le dodici Briefe uber Don Carlos (1788), eccettuata la I e la IX.
Con il suo proprio testo alla mano, l'autore dimostra i limiti
umani di Posa di cui riconosce il fanatismo politico e le gravi colpe
nei confronti di D o n Carlos che, nell'osservanza del patto d'amicizia, è
ben più eroico del suo partner, al punto da cercargli una giustificazione
anche quando una serie di malaugurate circostanze gli fa credere che
il prezzo dell'ascesa di Rodrigo nel favore del Re sia la consegna dei
documenti comprovanti la passione colpevole di lui, Carlo, per Elisabetta (cfr. la commovente scena tra il Principe e il Conte di Lerma,
atto I V , scena 1 3 ) . Il Principe perdona a Rodrigo, non solo la sua
rovina, ma anche quella, che crede inevitabile, di Elisabetta! Generosità
che lascia trasecolato lo stesso Rodrigo che esclama « Mein Gebàude
stùrzt zusammen. Ich vergass dein Herz » ( V , 3); ci vuol più coraggio
ad assumere l'atteggiamento di Carlo che a farsi ammazzare per lui,
e come amico Carlo vale più di Posa. Ma il destino di un personaggio
nella ricezione del pubblico è del tutto indipendente dal giudizio critico
del suo stesso creatore.
Il Rodrigo verdiano è una delle figure più popolari, più simpatiche
del repertorio operistico; può quindi stupire la notizia conservataci da
Italo Pizzi, che Verdi avesse in animo di sopprimere quel personaggio:
Io (mi diceva), che l'ho messo in musica, so bene quanto quel carattere stoni
col dramma, e già io avevo intenzione di ehminarlo, quando i miei amici (non disse
chi fossero), mi hanno smontato, e io l'ho lasciato stare .
66
Una critica molto severa del Marchese di Posa « che si presenta
in scena con compiti che contrastano singolarmente col suo preteso
ruolo di eroe » è stata fatta in Verdi, il Grand Opera e il Don
67
Carlos
da Marcello Conati il quale afferma che la creazione di questo personaggio è l'unica politesse
del compositore nei confronti dell'Opera; la
parte di Rodrigo fu scritta per la voce del baritono Faure, uno dei
66
67
I. Pizzi, Ricordi verdiani inediti, Torino 1901, pp. 57-58.
« Atti », II. Per il Marchese di Posa cfr. le pp. 275-279. Cfr. anche S. Mi-
cheloni, Il Marchese di Rosa - Un girondino mancato alla corte di Filippo II, in
« Atti », II, p. 434 e ss.
beniamini del pubblico di allora. Certo, all'anacronismo politico corrisponde l'anacronismo della stesura musicale; è un personaggio prequarantottesco, come carattere e come volute di canto, potrebbe star
bene in una delle opere degli « anni di galera ». Solo che tale spostamento fa perdere sincerità a questa figura concepita secondo vecchi
schemi in un'epoca di raffreddamento del clima patriottico, di delusione
per i risultati raggiunti. La parte politica del personaggio, la sua battaglia per la libertà e l'umanità è realizzata musicalmente in modo retorico e vacuo, anche se d'effetto; il rapporto d'amicizia con l'Infante è
stato sentito più profondamente e da questo lato Rodrigo è venuto ad
aggiungersi, nell'opinione popolare, alle più luminose figure verdiane.
Si può d'altronde pensare che proprio l'amicizia, tema trattato già
da Verdi nella Battaglia di Legnano, nel Ballo in Maschera e nella Forza
del Destino, sia stato l'elemento che ha « smontato » il musicista, inducendolo a mantenere in vita una figura altrimenti per lui poco convincente. Inoltre il testo di Schiller gli offriva il destro di sviluppare tutte
le possibilità di questo tema sino alle estreme conseguenze, cioè al
sacrificio di un amico per l'altro, mentre nelle tre opere dov'esso era
precedentemente comparso era stato bruscamente interrotto dal subentrare di elementi che avevano trasformato gli « amici in vita e in morte »
in mortali nemici.
Penso che il favore che il Marchese di Posa gode presso tutti i
pubblici, del teatro di prosa come del melodramma, sia da ricercare nel
momento della sua prima comparsa in scena; in Schiller vediamo Carlo
gettarsi tra le sue braccia dopo il famoso colloquio con il monaco
Domingo, confessore del re e sua spia; l'Infante se ne difende bene,
ma da quel confronto gli rimane un senso di amarezza, cui dà sfogo
nel brevissimo monologo che segue la partenza del frate; il Re è sulle
tracce del suo segreto, è anch'esso un infelice, perché mette spie intorno
al figlio, e se riuscirà a penetrar qualcosa non potrà che ritrarne rabbia
e dolore; la situazione si presenta senza via d'uscita per il Re e per il
Principe, l'atmosfera di sospetto permea tutta la corte e pesa come
una fatalità sugli animi. A questo punto entra il Marchese, e la cappa
di sospetto, di immobile fatalità sembra squarciarsi. Il respiro di sollievo con cui Carlo lo accoglie è anche quello degli spettatori o dei
lettori; il principe che aveva tanto misurato le parole nel dialogo precedente, adesso non le sa quasi più trattenere; la reazione del Marchese
è molto più sobria, e le sue risposte, pure molto affettuose, sono cai-
colate in vista di un disegno politico; ma non importa, l'impressione
è quella di una liberazione.
Nell'opera succede lo stesso: dopo il preludio, in terra di Francia,
siamo trasportati nell'atmosfera severa e funerea di un convento, dove
nel salmodiare dei frati echeggia insistente la nota del sic transit gloria
mundi; sotto le arcate di quel convento compare stravolto Carlo a
cantare l'evento fatale che ha spezzato le sue energie e la sua vita;
siamo davanti ad un quadro di dolore e di disperazione, che l'entrata
di Rodrigo riesce almeno momentaneamente a far dimenticare; cosa
di cui il pubblico gli è grato non meno di Carlo.
N e l dramma come nell'opera l'entrata di questo personaggio porta
allo scioglimento di un nodo d'angoscia, e in lui si seguita a voler
vedere anche successivamente l'uomo capace di dissolvere la cupa atmosfera entro cui si compiono tanti destini, di popoli e di singoli.
CONCLUSIONE
Il rapporto tra l'opera drammatica di Friedrich Schiller e il melodramma di Giuseppe Verdi è un fenomeno vistoso, anche se rare volte
è stato oggetto di attenzione, soprattutto sotto il profilo della germanistica.
Con il presente saggio l'autrice pensa di avere impostato i termini
del problema, pur non avendone colto tutte le possibili implicazioni,
e di aver contribuito ad avviare una discussione che può presentare
motivi di interesse sia per gli studiosi di Schiller, sia per quelli di
Verdi, anche se data la vastità in cui essa si prospetta era impossibile
esaurirla e concluderla.
La presenza di Schiller, più di quella di Shakespeare, è un filo sotteso a tutto l'arco creativo verdiano. I critici sino a poco tempo fa si
sono limitati a constatare il fatto ma non vi si sono soffermati per vari
motivi: Schiller ha fornito spunti per i libretti di tanti altri autori dell' '800; la Giovanna d'Arco e i Masnadieri erano praticamente spariti
dai repertori dei teatri d'opera sino agli anni Cinquanta; anche la Luisa
Miller sembrava interessasse più i musicologi che il pubblico, a giudicare dalla rarità delle esecuzioni. In pratica, non contando le scene finali
del I I I atto della Forza del Destino per cui il nome di Schiller veniva
appena ricordato a proposito della Predica di Fra Melitone, il solo Don
Carlos, d'altronde non eccessivamente gradito al pubblico nella prima
metà del '900, sembrava attestare l'apporto del drammaturgo tedesco al
dramma in musica verdiano. È la rinascita di interesse per tutto il teatro
di Verdi, nella sua globalità, e la riproposta al pubblico, sui palcoscenici
e attraverso le incisioni fonografiche sempre più numerose e filologicamente complete, del Verdi che sino a vent'anni fa era chiamato sbri-
gativamente « minore », definizione che ora sia i musicologi, sia i musicofili respingono, vedendo nella produzione verdiana la continuazione
di un unico discorso drammatico che si articola in 26 tappe, ad imporre
lo studio del rapporto Verdi-Schiller sotto una nuova luce e ad esigere
un approfondimento dell'indagine. Potrebbe anche sembrare che per le
prime tre composizioni, la Giovanna
d'Arco,
i Masnadieri
e la Luisa
Miller l'incontro tra i due autori sia stato casuale, dato che non abbiamo gli elementi per sostenere che queste tre opere debbano la loro
esistenza a precise indicazioni del musicista, ed è lecito pensare che ogni
volta il soggetto prescelto avrebbe potuto essere un altro, se circostanze
tutto sommato estrinseche, come la fiducia riposta nel Solerà, la stretta
amicizia con la famiglia Maffei, i limiti della censura non avessero portato l'attenzione del Maestro su quei testi. Ma quando il caso si ripete
con frequenza è doveroso cominciare a cercarvi ima logica, tanto più
se si riflette che tutte le opere di derivazione schilleriana, ad eccezione
della Giovanna d'Arco,
si collocano nei punti nodali di quella che Gino
Roncaglia chiama « l'ascensione creatrice » di Giuseppe Verdi. La composizione dei Masnadieri si intreccia con quella del Macbeth, si che ci si
può ragionevolmente domandare quali siano le interferenze fra i due
melodrammi, e cosa sarebbe divenuto il melodramma schilleriano se
l'Autore avesse calato solo in esso l'ispirazione che sorregge il Macbeth',
la Luisa Miller
si colloca alla conclusione degli « anni di galera »; il
Don Carlos è la vera chiave di volta di tutto l'edificio drammatico verdiano.
La mia analisi è iniziata per esigenze cronologiche dalla
d'Arco,
Giovanna
a rischio di sfasare tutto il discorso perché essa è la meno im-
portante, quanto a valori musicali, tra le composizioni verdiane tratte
da Schiller, mentre la Jungfrau appartiene agli anni della piena maturità artistica del poeta tedesco. Il primo incontro con Schiller è anche il
più frettoloso; la Jungfrau von Orleans è l'unica che non faccia parte
degli Jugenddramen
a cui vanno ostensibilmente le preferenze del mu-
sicista. Nonostante le consonanze di ritmi e di versi, fatte rilevare nel
capitolo sulla Giovanna
d'Arco, che attestano nel librettista Solerà, ad
onta delle sue negazioni, per lo meno un conoscitore della Jungfrau, il
dramma di Schiller è servito poco più che come materiale. Ma si tratta
pur sempre di un materiale assai significativo (cfr. pp. 33-40). Johanna è
il personaggio di Schiller che più si stacca dalla verità storica; paga la
sua autoaffermazione con la vita, e morendo realizza non solo la sua
vocazione, ma anche ciò che negli altri drammi di Schiller non avviene:
la conciliazione tra cielo e terra, la conciliazione tra il mondo della libertà e il mondo delle leggi, rappresentate dalla figura del padre.
Il Solerà ebbe quindi mano felice nella scelta del soggetto, perché
la Jungfrau è l'unico dramma in cui la soluzione del conflitto padri-figli
è presentata in una forma trasfigurata e conciliante che doveva piacere
a Verdi. G l i eroi schilleriani scelti per i melodrammi verdiani si ribellano contro l'autorità paterna, e il padre irato, immagine del Dio dell'Antico Testamento, sembra voler richiedere la vita che a loro ha dato.
I giovani devono morire, per non tradire se stessi, ma la conciliazione
manca; la coerenza con la propria idea non colma l'abisso che separa il
cielo dalla terra, tranne appunto che nella Jungfrau von Orleans. La
figura di Giacomo nel libretto è un quanto mai imperfetto tentativo di
mediazione tra il padre Thibaut di Schiller, ricco possidente terriero che,
dati i tempi calamitosi, vuol sistemare le figlie, tra cui Johanna, con
l
matrimoni convenienti, e a cui non vanno certo le simpatie di S c h i l l e r ,
e il Deus iratus di questa terra, figura centrale del mondo morale verdiano, a cui la simpatia del musicista non vien mai meno. Il personaggio
musicalmente più debole viene ad essere non quello di Giacomo, o dell'evanescente re Carlo V I I , ma quello di Giovanna. V i avrà senz'altro
contribuito il fatto che il musicista scrisse la parte della protagonista
sapendo di poter disporre solo di un soprano di coloritura, anziché di
un soprano drammatico, ma non è da escludere che la subordinazione
spirituale di Giovanna al padre abbia influenzato l'ispirazione di Verdi,
che nel 1845 non si trovava proprio in uno stato di grazia. Spostato
psicologicamente il centro dell'attenzione da Giovanna a Giacomo,
l'opera di Verdi, concepita da Schiller per incentrarsi sul destino eccezionale di Giovanna, ne risente.
Letteralmente fedele a Schiller è Andrea Maffei, il librettista dei
Masnadieri,
opera alla quale ho riservato una trattazione estesa per il
suo carattere quasi esemplare di trasposizione da un originale letterario
ad un libretto d'opera della prima metà dell' '800. L'idealizzazione del
linguaggio cui viene in gran parte (ma non del tutto) tolta la brutalità
1
L'aspetto piccolo-borghese e filisteo di questo personaggio è stato sottolineato nella già citata rappresentazione del Deutsches Schauspielhaus di Amburgo
(ivi, p. 47) mediante un costume di scena volutamente anacronistico, che m'ha
fatto pensare a Germont padre nella Traviata.
realistica dell'eloquio schilleriano e la sua sistemazione in strofe (preferibilmente quartine di ottonari), cosi come la stilizzazione delle figure,
non deve stupire più di qualsiasi altra convenzione su cui da sempre si
reggono le varie forme di teatro. La sintassi musicale dei
è molto più coerente di quella della Giovanna
d'Arco,
Masnadieri
e nell'opera si
avverte un Verdi in fermento, teso alla ricerca di nuove soluzioni
espressive; vi si scorge il seme di tante idee che si dispiegheranno
più tardi. Se il musicista accettò senza discutere, per quel che ne sappiamo, il libretto del germanista Maffei, non è improbabile che sia
stato lui ad indicargli il dramma schilleriano da ridurre. Sappiamo che
il Maffei non amava i Rauber, né li amava l'elite cui erano rivolte le sue
traduzioni (cfr. ivi p. 12). Ma quel cozzo di passioni allo stato puro
che è in Schiller dovette affascinare molto il compositore e non è un
azzardo dedurre che l'ammirazione da lui professata per il libretto (cfr.
ivi p. 5 1 ) contenesse il riflesso dell'entusiasmo con cui aveva letto
l'originale, sia pure in traduzione.
Nella realizzazione musicale c'è però uno spostamento
d'accento
dalla figura di Carlo a quella di Francesco, che canta secondo una linea
molto meno convenzionale e già precorritrice in maniera impressionante
di sviluppi futuri. Ma l'affinità con Schiller non è smentita, sia pure
su di un piano diverso di consapevolezza. Il personaggio in questione
sfugge dalle mani dei due realizzatori. L'intrigante Franz assume una
statura drammatica di cui Schiller stesso comincia a rendersi conto solo
a partire dalla prima rappresentazione, cosi come la stereotipa figurazione del « cattivo » Francesco, oltre a tutto amante respinto, è percorsa da intuizioni e presentimenti che si riveleranno appieno nella
Messa da Requiem
e nell'Ote/io. Il personaggio del vecchio Moor
riceve dalla musica di Verdi (e dal libretto del Maffei) molta più dignità
di quanto non gli sia concessa dalla presentazione di Schiller: nel
mondo brutalmente
sconvolto dei Masnadieri
egli è più che mai, e
assai più credibilmente di Giacomo nella Giovanna
d'Arco,
il custode
d'un intangibile patrimonio morale. Salvatore Cammarano ha ritrascritto
con coerenza in chiave romantica, consenziente Verdi, il dramma socialrivoluzionario di Kabale und Liebe; persa la carica di polemica politicosociale, la Luisa Miller ha le proporzioni e il carattere di un dramma
familiare, anzi, sono due le famiglie in cui i figli (Luisa e Rodolfo)
non hanno voluto ascoltare, la prima i consigli amorevoli, il secondo
gli ordini dei rispettivi genitori, il « vecchio soldato » Miller e il Conte
2
W a l t e r . Con la Miller si pongono le basi del dramma intimista; d'ora
in avanti nella drammaturgia verdiana i personaggi saranno
scrutati
sempre più a fondo nella loro psicologia, il coralismo delle prime opere
in cui passione privata e passione collettiva si contendevano l'interesse
dello spettatore variamente intrecciandosi s'attenuerà sempre più.
L'utilizzazione del Wallensteins
Lager per le scene finali del I I I atto
della Forza del Destino fatta da Francesco Maria Piave su precise indicazioni di Verdi ha valore episodico, ma attesta l'attenzione sempre
viva del musicista per Schiller.
Il D u L o d e è riuscito a restituire gran parte dell'atmosfera poetica
del Don Carlos, Infant
von Spanien,
pur attraverso Io spostamento,
l'aggiunta e la soppressione di molti episodi. Dramma complessissimo,
frutto di una sofferta gestazione sia per Schiller, sia per Verdi, è la
2
È già stato osservato (cfr. ivi p. 47) che ciò che costituisce lo spessore teatrale dell'opera di Schiller è il fatto d'essere aperta a tante interpretazioni; Verdi
gliene diede una, popolare-borghese, conforme al suo proprio carattere: egli trasportò nelle tragedie di Schiller, che interpretò sostanzialmente come drammi familiari, la sua visione della famiglia, che poi coincide con quella della società italiana
intorno alla metà dell' '800. Di questo problema si è occupato estesamente Luigi
Baldacci nella sezione Padri e figli, in Libretti d'opera e altri saggi, Firenze 1974.
Scrive il Baldacci che « in Verdi il fulcro drammatico è rappresentato dalla
figura del padre, depositario di ogni fondamento morale »; e osserva che « la situazione tipica del teatro di Verdi può essere riassunta in una formula: contro il
padre, che non dovrà essere intesa secondo una dinamica ribellistica, ma anzi come
il segno di una vigile supervisione della coscienza sociale sulle libere iniziative degli
istinti » (p. 177). Inoltre per Baldacci « è l'adesione alla realtà familiare dell' '800
a contribuire in misura notevole alla popolarità dell'opera di Verdi ». Condivido
queste parole anche se sono incline a scorgere nella identificazione del padre terreno con il Padre celeste più l'aspetto religioso che non l'aspetto autoritario.
I libretti verdiani schematizzano in forme realistiche il rapporto tra l'uomo e la
divinità. Perché l'apostrofe alla Divinità appaia nella forma diretta, scoperta, bisogna attendere la Messa da Requiem, ma tutta l'opera di Verdi è un dialogare
dell'uomo con il destino, che può apparire come un caso cieco, incomprensibile,
ma che è in effetti una superiore istanza ordinatrice, anteriore alla possibilità di
conoscenza umana: in altre parole, è Dio.
Non si dimentichi inoltre la probabile radice autobiografica di tale visione morale; Verdi è un padre mancato e ci si potrebbe domandare se la sua drammaturgia
sarebbe stata quella che è se il rimpianto delle sue due creature morte dopo pochi
mesi di vita non lo avesse sempre accompagnato. I presupposti per una visione
patriarcale esistevano in lui: VOberto, sua prima opera, è anteriore alla tragedia
familiare dell'autore e già ci presenta la storia di una disobbedienza al padre che
ha funeste conseguenze; ma chi può dire che nelle creazioni di tanti suoi personaggi Verdi non abbia proiettato inconsciamente il desiderio di essere, oltre che
padre, un dio per quei figli che il destino gli strappò e poi non gli volle più concedere?
musica a creargli un'impostazione unitaria. L'opera di Verdi non dà
l'impressione di disorganicità del modello; è un dramma di popoli e
un dramma di anime, la cornice politica fa da cassa di risonanza ai
travagli che si consumano nell'intimo di tre personaggi: Filippo, Elisabetta, D o n Carlos. Essi hanno una psicologia complessa, persino contorta, volendo intendere con questo termine non tanto anomalie di
carattere, quanto che la sonda introspettiva di Verdi è giunta là dove il
conscio e il subconscio si confondono. N o n prive di contrasti interni,
ma più lineari sono le motivazioni dell'agire appassionato della principessa d'Eboli, e soprattutto del Marchese di Posa. Con la sola eccezione,
peraltro parziale, di quest'ultimo, le figure del Don Carlos non sono più
categorie sceniche. L'individuazione musicale, per i primi tre, ha scavato in zone più profonde di quanto non sia riuscita a fare la parola
del poeta.
In quest'atmosfera, anche la tematica della paternità si configura
con un nuovo risalto.
Nel Convegno di Studi parmense del 1973 si è avuto modo di
porre l'accento su questa dimensione dell'opera: il protagonista è alla
ricerca della figura paterna. Filippo non soddisfa quest'esigenza, e Don
Carlos cerca inconsciamente il « padre » in Rodrigo, che pure a prima
vista sembra compendiare in sé tutti gli elementi per essere una figura
fraterna. Morto Rodrigo, quest'esigenza si materializza, quasi, nell'apparizione misteriosa ed emblematica di Carlo V che pone la parola fine
all'intricata vicenda.
* * *
Dall'esame delle cinque composizioni verdiane ispirate direttamente
da Schiller sono emersi quattro elementi importanti:
1. - La quantità e la qualità di elementi melodrammatici nei drammi
schilleriani.
2. - La qualità della drammaturgia verdiana.
3. - La possibilità di trascrizione romantica dell'opera di Schiller.
4. - L'ambiente culturale risorgimentale e post-risorgimentale in cui
Verdi operò.
Tali elementi si riverberano l'uno sull'altro e si illuminano a
vicenda.
I primi due punti e il loro reciproco interferire rendono spontanea
una domanda: in che misura l'uomo Schiller e l'uomo Verdi, i loro
caratteri e le loro biografie presentano delle somiglianze? Effettiva-
mente, sul piano umano esistono tra i due personaggi analogie e punti
di contatto, che peraltro non sono numerosi e a cui non è lecito annettere eccessiva importanza, per non cadere nel rischio di un paragone
elucubrato intellettualmente ma in sostanza gratuito. Su una però di
tali analogie è giusto soffermarsi: il senso pratico.
Tale qualità,
come Verdi, desta
quella di Schiller
quanto spontanea
listici del mondo
maturgiche.
se non stupisce in un uomo dalle origini contadine
a tutta prima una certa sorpresa in una figura come
cui, con un'operazione del pensiero tanto ingenua,
e irresistibile, si è portati ad attribuire i tratti ideadelle sue creazioni, sia teorico-filosofiche, sia dram-
Orbene, se dall'epistolario di Verdi si può ricavare piuttosto un
trattato sui diritti d'autore che non un ragionamento organico e profondo sull'opera sua propria e sull'arte in generale, è pur vero che anche
quello di Schiller è pieno di riferimenti a problemi finanziari. C o m e
bene osserva H . C y s a r z , forse nessun altro poeta tedesco parla cosi
spesso, nelle sue lettere, di monete, di compensi, di introiti, di spese.
Tale spirito pratico era ciò che rendeva Schiller perfettamente adattabile al sistema sociale in cui viveva e che gli avrebbe permesso di
integrarsi anche in altri sistemi, se il suo tempo e la sua società li
avessero assunti. Il che può costituire motivo di scandalo, e far parlare
di incoerenza, mentre denota a mio avviso là capacità di una coraggiosa
presa di coscienza della realtà e un profondo equilibrio.
3
Adattarsi ad una situazione di fatto non significa esserne entusiasti,
o anche solo esserne soddisfatti, ma avere il coraggio di considerarla
realisticamente.
Sul piano artistico, tale spirito pratico si traduce in un f o r t e
s e n s o d e l t e a t r o , ed è questo l'elemento che accomuna Schiller
con Verdi e da cui bisogna partire per venire in chiaro dei suesposti
punti 1 e 2.
Schiller e Verdi mirano all'effetto, alla presa sul pubblico: vogliono
impadronirsene, anche a forza, vogliono dominarlo, con mezzi che la
rigorosa coerenza logica ripudierebbe. V i sono dei drammi di Schiller, come il Don Carlos, in cui i personaggi vivono scena per scena,
senza che sia neppure pienamente rispettata la loro coerenza psicologica, ciò che contraddice una delle prime regole della drammaturgia.
3
Herbert Cysarz, Die dichterische
1959, pp. 22-23.
Vhantasie Friedrich Schillers, Tùbingen
Quello di far divampare affetti e passioni per il gusto dell'esplosione
in sé, è in Schiller un tratto melodrammatico, ma di estrema efficacia e
non fallisce mai il risultato che l'autore se ne ripromette. L e tirate
di tanti suoi personaggi (Karl Moor, Ferdinand, lo stesso D o n Carlos)
sono arie in cui il profluvio quasi incontrollato e ai limiti dell'irrazionale delle parole tiene il posto delle note musicali. Giova osservare poi
che la traduzione del Maffei non contribuisce certo a rendere più sobrio
tale effetto, al contrario lo dilata e lo accentua.
Dal canto suo Verdi è tra gli autori di melodramma colui che ha
in misura superlativa il senso dell'azione; anche la semplice lettura dei
suoi libretti sembra fatta per comunicarcela.
In conclusione Verdi avrebbe potuto sottolineare foto corde le
seguenti parole di Schiller che si leggono in un abbozzo di lettera al
Fichte del 1 7 9 5 : « Non voglio semplicemente render chiari i miei pensieri al prossimo, ma riversargli tutta intera la mia anima, e operare
contemporaneamente sulle forze sia dei suoi sensi, sia del suo spirito ».
La poetica di Verdi esige la preparazione di un libretto essenziale,
lucido, teso: indugi e rallentamenti dell'azione sono soppressi, le parti
dei personaggi principali sono per lo più brevi (con l'eccezione del Don
Carlos che però è un capolavoro di concisione rispetto all'originale), i
personaggi di minor rilievo sono inesorabilmente sfrondati o compaiono
in ruoli brevissimi ma fortemente incisivi, si da non far sorgere il pensiero della loro inutilità. Anche le arie, che potrebbero sembrare i momenti tipici dell'indugio, si tramutano in elementi di azione: la preparano, la vagheggiano o la rievocano; anche il vagheggiamento e la
rievocazione diventano il punto d'avvio per una nuova direzione del
corso drammatico. È il dinamismo esasperato dei Rauber, di Kabale
und Liebe e degli ultimi tre atti del Don Carlos ad attrarre Verdi; la
sua è una poetica alfieriana, più che schilleriana, che in Schiller però
trova l'appiglio di un calor bianco di passione, di uno slancio, di un
entusiasmo che manca alla tragedia di Alfieri, sempre più costruita,
controllata, intellettualistica di quella del poeta tedesco.
L'accostamento a Schiller non avviene sempre allo stesso modo,
anche perché ogni volta il librettista è diverso. Ma ogni volta l'azione
è ripresentata in iscorcio, mai in riassunto, e il libretto non è né piatto,
né semplicemente riduttivo; è stato anzi dimostrato (cfr. ivi, pp. 60,
93, 129) che spesso nell'inevitabile riduzione spariscono alcune incongruenze dell'originale.
Parlando sul tema: Giovanna
d'Arco,
Luisa Miller,
Filippo:
tre
personaggi e tre modelli tra Schiller e Verdi al « Convegno di Studi
su Verdi-Schiller » tenutosi a Parma nel novembre 1 9 7 3 , L . K . Gerhartz sintetizzò cosi il rapporto tra cbammi e libretti: « I contenuti
schilleriani divengono categorie sceniche: tutto è trasferito in gesti
teatrali: tutto è mutato, ma nulla è contraddetto, tanto meno sconfessato ».
Tra ciò che vien mutato deve essere posta la mancanza di un fine
educativo dichiarato in Verdi. Pur indulgendo nei drammi giovanili al
gusto del contrasto e della lacerazione, Schiller non dimentica mai di
dare alla vicenda un carattere di esemplarità, di tracciare in essa una laica
storia di salvazione dove alla colpa segue la pena e quindi un accenno
al ristabilimento d'un ordine sconvolto; il musicista invece mira solo
ad imprimere la passione, non a spiegarla. Anche quando, nel Don
Carlos, scandaglia l'animo umano come né prima né dopo gli avviene
più di fare, rivelando, a 54 anni, una maturità ed una esperienza sia
umana sia artistica che per Schiller furono una meta assai raramente
attinta, le linee della sua intuizione drammatica rimangono fondamentalmente quelle dei melodrammi scritti trent'anni prima: la presentazione di una passione, anzi, di un groviglio di passioni, e il loro movimento. Il tentativo di risposta al perché della sofferenza non rientra
nella prospettiva di Verdi.
** *
La possibilità di trascrizione romantica dell'opera di Schiller e
l'ambiente culturale risorgimentale e post-risorgimentale in cui Verdi
operò sono punti che rimandano l'uno all'altro.
Ancor oggi, nelle scuole italiane, quando si parla di Romanticismo,
si pone frettolosamente Schiller nella schiera degli esponenti del movimento, non diversamente da come avevan fatto gli uomini del Conciliatore i quali però potevano addurre a loro scusa di esser venuti a
conoscenza del poeta tedesco attraverso la mediazione dei Francesi.
Senz'altro la tradizione melodrammatica ottocentesca e in particolar
modo verdiana ha un peso considerevole in tale scolastico fraintendimento; rimane il fatto che, pur prescindendo dalla faciloneria e dalla
superficialità d'informazione riguardante il poeta tedesco da parte di
molti operatori culturali dell' '800, v'è nell'opera di Schiller una forte
potenzialità romantica. Essa proviene dall'eredità barocca: il palcoscenico è un pulpito, oltre che un tribunale; l'amore per l'effetto si sviluppa in una cornice di giudizio universale; il poeta tende all'opera
totale, dove tutti gli elementi, poetici e visivi, contribuiscano ad evidenziare, a rendere tangibile un laicizzato disegno di salvezza dell'umanità.
Cosi si spiega la predilezione di Schiller per le grandi personalità,
per il grande personaggio storico o per l'individuo grande nel male
o nel bene; è un tratto che collima con l'esaltazione romantica per
l'individuo; ma il suo tipo di eroe, scrive Walter Rehm
(Gotterslille
uni Góttertrauer, Aufsàtze zur deutsch-antiken Begegnung, Berna 1 9 5 1 )
è ancora quello barocco, martire della fede e della religione, come i
suoi lo sono di un'idea razionale alimentata con tutto il fuoco del
sentimento.
Il fasto, la ricchezza di elementi scenici, dato che per Schiller il
teatro è una vera Schau-biihne,
la tensione della lingua che vuol gettare un ponte tra finito e infinito, la predilezione per le grandi individualità, sono tratti dell'eredità barocca che il Romanticismo non
poteva che apprezzare, ed in particolare il Romanticismo italiano, tanto
preoccupato di non andare contro l'idea religiosa che in Schiller era
agevole ricostruire o intuire al di là della secolarizzazione. L a poesia
drammatica di Schiller soddisfaceva un bisogno di entusiasmo, un
desiderio di esser trascinati come fu avvertito soprattutto dalla classe
media e medio-alta italiana nel momento magico della sua migliore
realizzazione, nel Risorgimento.
Ma la storia di Schiller in Italia, nell"800, è in gran parte una
storia della mediazione francese di Schiller; l'idoleggiamento per questo
poeta ebbe un significato etico-politico per il mondo liberale moderato
francese. Un liberale moderato era il De Barante, che nel 1821 per
primo tradusse tutta l'opera drammatica di Schiller.
Mazzini, che per Schiller conservò una ininterrotta venerazione
per tutta la vita, lo lesse probabilmente per la prima volta in quella
versione, ricevendone l'immagine attraverso la cultura francese.
Perché Schiller piacque tanto ai liberali dell"800?
Per il senso di umanità, per il bisogno di affratellamento espresso
dal complesso della sua opera, e che coesiste con lo spirito rivoluzionario sino quasi a fargli perdere, nel periodo della Klassik, le punte
più pericolose.
D'altronde, fondando e dirigendo il mensile Die Horen, nel 1 7 9 5
Schiller si stacca dalla politica militante e propugna e diffonde l'apoliticità della cultura; ad essa egli assegna l'incarico di suscitare un generale e più vivo interesse per ciò che è più profondamente umano.
Non era compito del presente saggio esaminare la posizione politica di Schiller e il peso della sua apoliticità conclamata e programmata
almeno a partire dal 1 7 9 5 , per il semplice motivo che Verdi ignorò
al tutto la questione. Ma la risoluzione della politica in cultura, la cura
volta ad una educazione estetica dell'umanità, questa rivoluzione a
metà che rifuggiva dall'estremismo e dal radicalismo eversore in nome
di una concezione idealistica ed armoniosa di umanesimo, era fatta per
conciliare al poeta tedesco l'animo moderatamente progressista del liberalismo francese e italiano, che creò intorno a Schiller quel clima di entusiasmo attraverso cui la sua opera giunse a Verdi e fu da lui accolta.
L'accoglimento non fu però solo un fatto di moda, di adeguamento
al gusto dell'ambiente in cui il musicista operava; troppo persistente
è la presenza di Schiller nell'opera di Verdi per non ricercare un'affinità più profonda. E questa è il grande e vero amore per l'umanità
che animò entrambi i creatori: l'uno e l'altro furono autori amati, non
solo perché geniali, ma perché chi fruisce delle loro opere non può
sfuggire a questo sentimento: l'autore che gli sta davanti ama e rispetta l'uomo, lo pone al centro dell'universo, ne contempla la sofferenza con partecipazione, desidera costruirgli un destino migliore. Questa letificante certezza è più forte dei limiti storici e ideologici dei
due autori (il che vale soprattutto per Schiller) e delle loro opere.
I due autori hanno in comune quello che si può chiamare il senso
dell'altro, del popolo, delle radici che sono in noi; ci danno un senso
di coralità, perché noi avvertiamo che le parole di Schiller, cosi come
la musica di Verdi, contengono una carica emotiva che non tocca soltanto noi individualmente, ma tutti i nostri simili. È il senso della
coralità dell'arte che il mondo contemporaneo sembra non conoscer più.
Rimangan pure essi i portatori di mentalità e di concezioni superate
e che, a posteriori, sono state definite egoistiche: il fatto che essi abbiano
voluto il bene dell'umanità, vedendo il bene, s'intende, dalle prospettive del loro ambiente e della loro epoca, rimane incontestabile. A l
punto che l'inattualità di Schiller nel nostro tempo e l'esaurimento
della tradizione melodrammatica, al di là dei limiti oggettivi dell'arte
del poeta tedesco e della fatalità dell'evoluzione dei gusti nel campo
teatrale e musicale, sono fatti che presentano risvolti inquietanti.
INDICE DEI
ABBIATI, F., 33 n., 52 n., 80, 109,
n., 151 n.
ADAMS, J . C , 154.
AGOSTINO, 27 n.
ALFIERI, V., 17, 18, 27, 30, 66 n.,
106 n., 118, 118 n., 124, 124 n.,
n., 142 n., 165.
ALIGHIERI, D., 100 n.
ALONSO, M. R., 115 n.
AMBROSOLI, L . , 6 n.
ANDREOZZI, G., 39.
ARRIVABENE, O . , 142 n.
ARRUGA, L . , 28, 28 n., 125 n., 150
AUERBACH, E., 81 n., 86.
121
87,
133
NOMI
BOITO, A . , 2 1 , 2 2 n., 5 7 , 6 1 , 1 1 1 n.,
1 5 1 n.
BONA, P., 1 2 4 n.
BRANCA, V., 2 n.
BRECHT, B., 1 7 , 1 7 n.
BRENNA, G., 67.
BUDINGER, M . , 1 2 1 .
BiÌRGER, A . , 5 .
n.
CACCINI, G., 39.
CAJKOVSKIJ, P . L , 39 n.
CALZABIGI, R., 1 2 4 n., 1 3 3 n.
CAMMARANO, S., 3, 2 2 n., 8 1 , 86, 88,
BAGATTI, G. L . , 49 n., 54.
BALDACCI, L . , 15 n., 162 n.
BALDINI, G., 51, 55 n.
BALFE, M. W., 39 n.
BARBIERA, R., 7 n.
BARBLAN, G., 15 n., 26, 73 n., 119 n.
BAREZZI, A . , 51, 63 n.
BASTIANELLI, G., 42 n.
BEETHOVEN, L . van, 144.
BELLINI, V., 19, 73.
BENEDLX, R., 28 n.
BENVENUTI, E., 9.
BERCHET, G., 5, 41.
BIENENFELD, E., 31 n.
BINDER, W., 84 n.
BIS, H., 114 n.
CANTÙ, G, 8.
CAPECELATRO, V., 48 n.
CARAFA, M . , 3 9 n.
CARDUCCI, G., 8.
CASTIGLIONE N . , 66, 66 n., 8 1 n., 90,
9 1 , 107 n.
CATTANEO, C , 7.
CEFANINI, S., 1 4 .
CELLA, F., 20 n., 1 4 2 n.
CENCIARINI, F., 1 5 n., 47.
CESARI, G., 7 n.
CESAROTTI, M . , U n .
CETTI-MARINONI, B., 1 2 .
CHECCHI, E., 49.
CHIARINI, P., 1 5 n., 2 7 n.
CLARETIE, J., 1 4 4 .
CONATI, M . , 2 n., 1 5 5 .
COSTA, M . , 1 2 4 n.
92, 94, 97, 1 0 3 , 106, 107, 108, 1 6 1 .
GOETHE, J. W . , 1 1 n., 1 2 , 2 7 n., 3 1 n.,
COSTA, P., 1 1 , 1 1 n., 1 2 4 n.
CRESCINI, G . , 48 n., 5 4 , 7 4 n.
53, 1 1 1 , 1 1 1
CROCE, B . , 3 1 n.
n.
GOTTSCHALL, R., 5 n.
CUMINETTI, B . , 3 2 n.
GRENZMANN, E . W . , 3 9 n.
CUSATELLI, G . , 9, 9 n.
GRILLPARZER, F., 1 1 2 , 1 1 3 .
CYSARZ, H . , 1 6 4 , 1 6 4 n.
GRYPHIUS, A . , 2 4 .
D A PONTE, L . , 70.
GUGLIELMO D'ORANGE, 1 1 6 .
GUNTHER, U . , 1 3 8 n.
DALBERG, H . , 27 n., 5 2 .
D E BARANTE, P., 1 6 7 .
HALÉVY, L . , 1 1 4 n.
D E JOUY, É., 1 1 4 n.
HAUSEN, A . , 1 1 8 .
DELAVIGNES, J. F . C , 3 3 n.
D E LAUZIÈRE, A . , 1 1 4 n.
HAUSLER, L , 1 n., 3 1 , 3 9 n., 4 5 n.,
138 n., 1 4 0 .
D E NOUY, C , 1 2 0 .
HERDER, J. G . , 2 3 .
D E SANCTIS, F., 1 4 , 6 3 .
HERMET, A . , 27 n.
DESFORGES, P., 3 9 .
HOFFMANN, E . TH. A . , 94.
DONIZETTI, G . , 1 9 , 5 7 n.
HOLZBAUER, I., 40.
Du LOCLE, C , 3, 2 2 n., 1 1 4 n., 1 1 7 ,
HOVEN, J. VON, 3 9 n.
HUGO, V . , 1 0 6 n., I l i
124, 136, 162.
n.
HUME, M . , 1 2 1 .
DUMAS, A . (padre), 3 3 n.
DUPREZ, F., 3 9 n.
IBEL, R . , 34 n., 9 3 , 1 0 1 n.
IFFLAND, A . W., 3 5 , 5 2 , 84 n.
ISTEL, E., 1 5 n.
DUPREZ, G . L . , 3 9 n.
DUPREZ, M . , 3 9 n.
EINSTEIN, A . , 40 n.
KANT, I., 2 5 , 1 2 3 .
KEYS, A . C , 3 1 n.
KLEIN, A . , 4 0 .
KLINGEMANN, A . , 3 5 , 3 5 n.
KORNER, G . , 4 n., 4 2 n., 9 1 n.
KORFF, H . A . , 82.
KREUTZEN, R . , 3 9 .
KRETSCHMAR, H., 40 n.
EÒSZE, L . , 1 2 7 n.
ETIENNE, C G . , 1 1 4 n.
FAINELLI, V . , 8 n.
FEDERICO I I di Prussia, 1 2 8 n.
FERRARIO, P., 48.
FICHTE, J. G . , 1 6 5 .
FUBINI, E . , 1 3 .
GACHARD, L . P., 1 2 0 .
LANGERT, A . , 3 9 n.
GAGLIANO, M . , 3 9 .
LENGEFELD, CH. VON, 1 2 6 n.
GALLETTI, A . , 1 4 , 1 4 n., 1 5 n., 1 6 n.
GARCÌA GUTIÉRREZ, A . , 2 2 n., I l i
n.,
112, 113.
LESSINO, G . E., 2 9 , 1 2 8 n.
LEVI, E . , 1 1 4 , 1 1 5 n.
LIEBNER, J., 3 1 n., 1 1 2 , 1 1 2 n.
GAVAZZENI, G . , 5 6 , 7 1 n.
LIND, J., 6 7 .
GERHARTZ, L . K . , 1 5 n., 1 6 n., 2 1 n.,
LOEN, J. M . VON, 1 2 8 n.
LONDONIO, C , 6 n.
31
n., 4 5 , 4 5 n., 106 n., 108, 108 n.,
166.
LOSCHELDER, J., 46.
GHERARDINI, G . , 6 n.
GHISLANZONI, A . , 1 1 4 n.
LUZIO, A . , 7 n., 2 2 n., 1 4 7 n.
GIACHETTI, G . , 1 2 4 n.
GIARDINI, C , 1 1 5 n.
MAESTRINI, 1 4 .
GIAZOTTO, R . , 1 3 .
MAFFEI, A . , 3, 5 , 6, 6 n., 7 - 1 3 , 20, 2 2
n., 2 3 , 3 2 n., 48, 48 n., 49, 5 0 , 5 1 ,
52, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 60 n., PRECHTLER, O., 3 9 n.
66, 73, 76, 77, 109, 136, 160, 161, PRÉTRE, G., 1 2 1 .
PORTER, A., 1 3 6 n.
165.
PUGLIESE, G., 4 9 n.
MAFFEI, C , 7, 8, 50, 51, 124 n.
MANZONI, A., 2, 2 n., 18, 23, 41, 41 n.
MARTINI, F., 88
RANKE, L . VON, 1 2 1 .
n.
MATENKO, P., 108
REHM, W . , 1 6 7 .
n.
RICORDI, G., 3 3 .
MAZZINI, G., 6, 6 n., 7, 12.
MAZZUCCHETTI, L . , 1 n., 2 n., 5, 7, 9,
RIEMER, F. W . , 5, 5 n.
9 n., 11, 18, 66 n.
MAY, K., 119, 119 n., 120.
ROLANDI, U . , 1 4 n., 42 n.
MEILHAC, E., 114 n.
RONCAGLIA, G., 1 4 n., 1 5 n., 1 6 n., 64
ROMANI, F., 20 n., 5 1 .
n., 7 6 n., 97, 1 1 9 n., 1 4 4 n., 1 5 9 .
MEINECKE, F., 118 n.
MERMET, A., 39.
ROSEN, D., 1 2 9 n., 1 3 0 n.
MERCADANTE, S., 48, 48 n., 54, 57 n.
ROSSI, M., 39.
MERCIER, L . S., 152 n.
ROYER, A., 1 2 3 .
MERKEL, G., 35, 35 n.
RiJMELiN, G., 32 n.
MÉRY, F.-J., 3, 114 n., 117, 124, 136.
METASTASIO, P., 87.
SAAVEDRA, A., I l i ,
MICHELONI, S., 155 n.
SAINT-RÉAL, C . de, 1 1 6 , 1 2 2 , 1 5 1 n.
MILA, M . , 68, 68 n.
SCHÀFER, A., 1 n.
SCHELLING, F. W . , 2 3 .
MINKS, W . , 47 n.
MINOR, J.,
62, 62 n., 126 n.,
128
n.,
SCHERER, W . , 62 n., 63 n.
SCHLEIERMACHER, F., 2 3 .
130.
SCHLEGEL, A. W . , 28.
MIRAGOLI, L . , 15 n.
MlTTNER,
1 1 1 n., 1 1 2 , 1 1 3 .
L.,
SCHLEGEL, F., 2 3 .
56.
SCHWEITZER, A., 40.
MONTI, V., 57.
MULLER, R . , 15 n., 16 n., 138 n.
SELLNER, G. R., 2 6 n.
MUSCUZZA, V., 124 n.
SERAFIN T . , 1 3 .
SHAKESPEARE, W . , 5, 7, 1 9 , 2 2 , 2 2 n.,
NICASTRO, A., 141 n.,
28, 28 n., 29, 30, 3 2 n., 3 3 , 6 5 , 1 0 6
n., 1 1 7 , 1 1 8 , 1 5 8 .
143.
NOVALIS, F., 23, 24.
SIRO-BRIGIANO, C . , 1 5 n.
SOLERÀ, T . , 3, 20, 20 n., 33, 3 3 n., 34,
OELLER, N . , 4.
36, 38, 39
OSBORNE, C , 74 n.
n., 40, 4 1 , 4 2 , 4 5 , 4 6 , 4 9 ,
5 5 , 94, 1 5 9 , 160.
PACINI, G., 39 n.
SOMMA, A., 6 5 .
PASCAL, R., 82, 82 n.
SOUMET, A., 33 n.
PELLICO, S., 6.
STAÈL, Madame de, 5, 1 1 7 n.
PESTELLI, G., 139 n., 153 n.
STAIGER, F., 26, 26 n., 27, 2 7 n., 1 2 3 ,
PIAVE, F. M . , 3, 21, 22 n., 48 n.,
66 n., 109, 111 n., 162.
PIAZZA, A., 20
49,
1 2 3 n., 1 2 5 n.
STORZ, G., 9 2 n., 1 2 2 n.
n.
PINDEMONTE, I., 57.
TARENTINI, L . , 1 2 4 n.
PIRANDELLO, L . , 35.
TASSO, T . , 5 7 .
PIROLI, G.,
147.
PIZZI, I., 23 n., 155, 155 n.
TOMMASEO, N . , 7.
TONI, A., 1 3 .
VACCAJ, N., 38.
WAKKÒNIG, L . A., 121.
VAEZ, G., 123.
VIOZZI, G., 150 n.
VISCONTI, L . , 139 n.
VOLTAIRE, F.-M., 128.
WATSON, R., 126 n., 152 n.
WELLS, H. G „ 140, 140 n.
WIELAND, C . M., 40.
WIESE, B. von,
62
17 n., 2 5 n., 27, 3 5 n.,
n., 7 2 n., 86, 100 n.
WACKENRODER, H., 23.
WALTER, B., 138 n.
WALTER, F., 40 n.
ZANARDINI, A., 114 n.
S t a m p a t o presso la T i p o g r a f i a
Edit. Vittore Gualandi di Vicenza
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