Autori
AUTORI
Laura Marconato
DVM, Dipl ECVIM-CA (Oncology)
Laureata a Milano in Medicina Veterinaria. Diplomata nel 2008 al
college europeo di medicina interna-oncologia. Autrice del testo
Oncologia medica dei piccoli animali (Poletto editore, 2005), di alcuni capitoli del testo Malattie respiratorie del cane e del gatto
(Poletto editore, 2009), del testo Princìpi di chemioterapia in oncologia (Poletto editore, 2009) e di numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali; ha, inoltre, curato lʼedizione italiana dellʼopera Algoritmi in medicina per piccoli animali (Poletto editore,
2011). Ha presentato numerosi poster e lavori scientifici a congressi nazionali e internazionali. Dal 2011 è presidente della Società Italiana di Oncologia Veterinaria (SIONCOV).
Dopo un periodo negli Stati Uniti e in Svizzera, dal 2011 collabora con il Centro Oncologico Veterinario (Sasso Marconi - Bologna), dove è responsabile dellʼoncologia medica.
Dino Amadori
MD
Laureato in Medicina e Chirurgia con lode presso lʼUniversità degli Studi di Bologna il 17 novembre 1961.
Direttore Scientifico dellʼIRCCS dellʼIstituto Scientifico Romagnolo
per lo Studio e la Cura dei Tumori (IRST), Meldola (Forlì). Membro
del CTS dellʼIstituto Oncologico Romagnolo. Già Presidente dellʼAssociazione Italiana di Oncologia Medica dal 1997 al 1999. Presidente del Comitato Etico dellʼIstituto Superiore di Sanità. Membro
delle principali società scientifiche nazionali e internazionali in ambito oncologico. Lʼattività scientifica, documentata da circa 400 pubblicazioni, la maggior parte su riviste a diffusione internazionale, verte su: biologia dei tumori solidi, terapia medica (ormonoterapia, chemioterapia e terapia biologica) dei tumori solidi, epidemiologia clinica oncologica ed epidemiologia molecolare oncologica. Dal 1998 al
2001, ha fatto parte della Commissione Unica del Farmaco presso
il Ministero della Sanità. È Presidente del Comitato Tecnico/Scientifico Regionale per lʼArea dellʼAssistenza in Oncologia dellʼEmilia Romagna. È stato coordinatore del sottoprogetto 9 Clinical Trial in solid tumor del Progetto ACRO del CNR e coordinatore del sottoprogetto Caratterizzazione biologica e strategie terapeutiche innovative
nei tumori solidi del Progetto Strategico Oncologia CNR-MURST. Curatore dei volumi Oncologia genetica (Poletto editore, 2001), Manuale di semeiotica e diagnostica oncologica (Poletto editore, 2003),
Sperimentazione clinica in oncologia (Poletto editore, 2004), Terapia
molecolare in oncologia (Poletto editore, 2005), Sviluppo dei farmaci oncologici con bersaglio molecolare dalla tradizione allʼinnovazione (Poletto editore, 2006), Libro italiano di cure palliative - seconda
edizione (Poletto editore, 2007), Informatizzazione in oncologia (Poletto editore, 2008), Cardioncologia (Poletto editore, 2009) e Osteooncolology textbook (Poletto editore, 2010).
V
Autori
Giuliano Bettini
DVM
Laureato con lode presso lʼUniversità di Bologna nel 1988; è professore associato nel Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie
della stessa Università. È titolare degli insegnamenti di Anatomia
Patologica Veterinaria I e Oncologia Veterinaria, delegato per le relazioni internazionali e si occupa di diagnostica necroscopica, citopatologica e istopatologica. Lʼattività di ricerca riguarda principalmente lʼoncologia comparata e, in particolare, la caratterizzazione
immunoistochimica di fattori prognostici delle neoplasie animali, la
cancerogenesi ambientale e la diagnostica istologica e citologica.
È autore di circa 200 contributi fra pubblicazioni scientifiche e comunicazioni a congressi nazionali e internazionali.
Ugo Bonfanti
DVM, Dipl ECVCP
Laureato con lode presso lʼUniversità di Milano nel 1992.
Dopo aver esercitato la libera professione occupandosi di medicina interna, oncologia medica e patologia clinica, attualmente si
occupa di sviluppo preclinico di farmaci. Ha effettuato stage presso università europee e americane. Nel 2005 ha conseguito il diploma del college europeo di patologia clinica veterinaria (ECVCP).
Ha presentato relazioni di citologia, oncologia e medicina interna
in occasione di seminari, corsi, master universitari e congressi nazionali e internazionali.
Autore e coautore di oltre 40 pubblicazioni su riviste italiane e
straniere.
Julia Buchholz
DVM, Dipl ACVR (Radiation Oncology)
Ha studiato Medicina Veterinaria a Giessen (Germania) e Nantes
(Francia); si è laureata a Giessen nel 2002. È diplomata al college americano di radiologia veterinaria, specializzazione in radioncologia.
Nel 2005 ha completato una tesi sulla terapia fotodinamica allʼUniversità di Zurigo (Svizzera). Nel 2007 ha completato il residency in radioncologia (programma combinato, Università di Zurigo e Colorado State University). Dopo il residency, ha lavorato
come assistant professor in oncologia allʼUniversità di Louisiana
State (Stati Uniti dʼAmerica). Ha lavorato al Centro Oncologico
Veterinario di Sasso Marconi (Bologna).
Ha pubblicato e presentato numerosi lavori a livello nazionale e
internazionale.
Al momento dirige il Dipartimento di Radioncologia allʼAnimal Oncology and Imaging Center di Hünenberg (Svizzera).
VI
Autori
Andrea Casadei Gardini
MD, Oncology
Laureato a Bologna in Medicina e Chirurgia nel 2008; dal 2009 specializzando in oncologia medica allʼUniversità di Ferrara.Attualmente
collabora con il professor Dino Amadori allʼIRST di Meldola (Forlì).
Autore di numerosi poster e lavori scientifici presentati a congressi
internazionali e nazionali di oncologia medica e biologia molecolare (ASCO, AIOM, AACR). Principali settori dʼinteresse sono lʼoncologia dei tumori gastroenterici e lo screening del carcinoma del
colon retto, di cui è autore di diversi lavori scientifici.
Stefano Comazzi
DVM, phD, Dipl ECVCP
Per tre anni direttore sanitario di un laboratorio privato di analisi veterinarie di Milano, a prevalente attività in ematologia, chimica clinica e citologia. Dal 2002 è diplomato allʼEuropean College of Veterinary Clinical Pathology (ECVCP). Attualmente ricercatore presso
il Dipartimento di Patologia Animale, Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria dellʼUniversità degli Studi di Milano, dove è docente dei moduli di Neoplasie ematologiche e Disordini emopoietici nellʼambito
dei corsi di laurea in Medicina Veterinaria. È stato inoltre docente
del corso di tecniche diagnostiche laboratoristiche presso lʼUniversità di Udine. La sua attività scientifica verte prevalentemente su
aspetti di patologia clinica, con particolare riferimento alle malattie
linfomieloproliferative dei piccoli animali e agli aspetti citofluorimetrici in corso di differenti patologie degli animali domestici. È stato
membro dellʼeditorial board della rivista internazionale Veterinary
Clinical Pathology e autore di più di 40 pubblicazioni su riviste internazionali con impact factor e di più di 100 pubblicazioni tra riviste nazionali e atti di congressi, nonché di capitoli di libri, tra cui la
VI edizione dello Schalmʼs Veterinary Hematology.
Riccardo Finotello
DVM, PhD, MRCVS
Laureato in Medicina Veterinaria allʼUniversità di Pisa nel 2007, ha
conseguito il titolo di philosophical doctor in Medicina Veterinaria presso la stessa Università nel 2011. Autore e coautore di articoli scientifici su riviste nazionali e internazionali, ha presentato poster e lavori
scientifici a congressi nazionali e internazionali. Nel 2008 è stato fellow visitor presso il Dipartimento di Patologia Umana e Oncologia dellʼUniversità di Firenze. Dal 2009 al 2010 è stato coresponsabile del
servizio di oncologia medica dellʼOspedale Didattico Veterinario Mario Modenato dellʼUniversità di Pisa e nel 2010 è stato direttore del
servizio di oncologia medica del Centro Oncologico Veterinario di Sasso Marconi (Bologna). Dal 2010 è istruttore al master di II livello in oncologia veterinaria dellʼUniversità di Pisa. Da novembre 2010 è resident ECVIM-CA (Oncology) presso lo Small Animal Teaching Hospital dellʼUniversità di Liverpool (Gran Bretagna). È membro SCIVAC,
SIONCOV ed ESVONC.
VII
Autori
Marianna Ricci
MD, Oncology
Laureata a Bologna in Medicina e Chirurgia. Si è specializzata in
marzo 2012 alla scuola di specializzazione di oncologia presso
lʼUniversità degli Studi di Ferrara. Attualmente collabora con il professor Dino Amadori presso IRST di Meldola (Forlì). Autrice di poster e lavori scientifici presentati a congressi nazionali e internazionali di oncologia medica (ASCO, AIOM, ISO). Ha pubblicato
lavori scientifici su riviste nazionali e internazionali.
Ha partecipato a stage formativi presso hospice in Paraguay e presso Oncologia Medica di Mwanza in Tanzania. Collabora con il Centro di Osteoncologia di Meldola. Principali settori dʼinteresse sono
lʼosteoncologia e tumori rari e la prevenzione oncologica.
Federica Rossi
DVM, Spec Rad Vet, Dipl ECVDI
Laureata nel novembre 1993 presso lʼUniversità degli Studi di Bologna, si è specializzata in radiologia veterinaria nel 1993 e si è diplomata nel 2003 al college europeo di diagnostica per immagini.
È autrice di oltre 40 pubblicazione scientifiche nazionali e internazionali, revisore di edizioni italiane di testi di diagnostica per immagini, inoltre coautore del testo di Radiologia del cane e del gatto (Poletto editore, 2005), del Manuale di ecografia del cane e del gatto
(BSAVA, 2011) e del testo Veterinary Computed Tomography (Wiley-Blackwell, 2011).
Dal 2007 al 2010 è stata presidente della Società Veterinaria Italiana di Diagnostica per Immagini (SVIDI) e dal 2006 al 2009 presidente dellʼEAVDI (European Association of Veterinary Diagnostic
Imaging). Dal 2010 è presidente SCIVAC.
Dal 1993 lavora come libero professionista, svolgendo attività di
referenza in diagnostica per immagini a Sasso Marconi (Bologna),
dove si occupa di radiologia, ecografia e tomografia computerizzata. Svolge attività di ricerca nel campo dellʼecografia con mezzi di contrasto.
Presta, inoltre, la sua attività presso il Centro Oncologico Veterinario (Sasso Marconi, Bologna), primo centro di radioterapia veterinaria italiano, di cui è una dei soci fondatori.
Damiano Stefanello
DVM, PhD (Oncologia Veterinaria Comparata) - Ricercatore
Laurea con lode conseguita a Milano nel 1999. Nel 2004 consegue il titolo di Dottore di Ricerca in Oncologia Veterinaria e Comparata. Attualmente è ricercatore universitario presso la Facoltà
di Medicina Veterinaria di Milano, dove si occupa esclusivamente di oncologia clinica, in particolare canina e felina. È responsabile dellʼUnità di Chemioterapia Oncologica Veterinaria presso
lʼOspedale Veterinario di Lodi del Polo Universitario di Lodi. Dal
2011 è vicepresidente della Società Italiana di Oncologia Veterinaria (SIONCOV-SCIVAC). Autore e coautore di diverse pubblicazioni internazionali, ha presentato lavori scientifici a congressi
nazionali e internazionali e ha partecipato in qualità di relatore a
congressi italiani aventi come tema lʼoncologia veterinaria.
VIII
Prefazione
PREFAZIONE
(Laura Marconato)
Sono passati sette anni dallʼavventura del primo testo italiano di oncologia veterinaria e questo periodo, tutto sommato breve, ha visto unʼenorme evoluzione in campo scientifico, la nascita del primo centro di radioterapia in Italia, la formazione professionale di nuovi resident,
che nel prossimo futuro diventeranno specialisti in oncologia medica veterinaria.
Questo nuovo testo di oncologia, seppur elaborato da una moltitudine di mani, condensa
lo stato dellʼarte in oncologia, preservando unitarietà concettuale e fornendo un impianto
didattico semplice e immediato. Questo manuale ha lʼambizione di completezza e praticità: con ciò mi auguro che sia di aiuto a chi di oncologia già si occupa e che possa avvicinare alla materia chi invece è ancora soltanto curioso. Spero di riuscire almeno in parte
a trasmettere a chi legge lʼamore e lʼentusiasmo che nutro per questa materia.
Ho fortemente desiderato il confronto con lʼoncologia umana (ricordiamoci che in campo
oncologico ci aiutiamo a vicenda): il professor Amadori e i suoi collaboratori Marianna e
Andrea hanno partecipato con entusiasmo alla stesura di questo testo. Li ringrazio di cuore e sono sicura che tutti i lettori apprezzeranno la parte di oncologia comparata che completa ogni capitolo.
Questo libro non esisterebbe senza il contributo dato dai coautori di grande grido, non solo tutti eccellenti professionisti, ma anche e soprattutto amici, che hanno accettato con entusiasmo di partecipare alla stesura di questʼopera, creando un lavoro straordinario. Nonostante la coralità di messaggi, emerge lʼallenamento al dialogo e al confronto reciproco, portando spesso al ripensamento critico delle proprie verità.
Ragazzi, grazie, siete mitici!!!
Ringrazio Damiano (demien), per tutto quello che abbiamo vissuto insieme, per la lunga
strada percorsa (quasi) mano nella mano, per il reciproco sostegno, incoraggiamento, sfogo. Ma anche per tutte le chiacchiere extraoncologiche su skype.
Ringrazio Federica (fede), per lʼentusiasmo che trasmette quando lavora, per la professionalità, ma anche per lʼamicizia che ci lega, dal primo incontro a Roma allʼattuale condivisione delle nostre giornate.
Ringrazio Giuliano (obama), da anni il “mio” patologo: ti fai inseguire, non ti fai trovare, mi
fai fare duemila telefonate, ma alla fine riesci sempre a fare le magie.
Ringrazio Julia (giulibuc), guerriera, dose-intensa, dolcissima: lavorare e confrontarmi con
te, imparare da te, giorno dopo giorno, caso dopo caso, è stato straordinario.
Ringrazio Riccardo (ric), per tutte le cose che abbiamo fatto insieme. Hai visto come sei
andato lontano? Only the braves … sai che occupi un posto speciale.
Ringrazio Stefano (il biondo), perché lʼoncoematologia può diventare divertente.
IX
Prefazione
Ringrazio Ugo (hugh), amico da sempre, semplicemente meraviglioso. Ci lega tanta vita
vissuta insieme (siamo vecchi), non potrei fare a meno di te (e neanche dei soprannomi
che mi dai, -Bree-).
Ringrazio Vincenzo, che ha creduto di nuovo in me, dandomi la possibilità di scrivere questo trattato.
Ringrazio Eliana, non solo editrice di questo testo, ma anche unʼamica che mi ha sempre
sostenuto molto, non solo professionalmente. Ringrazio anche il fantastico, paziente team che la circonda e che ha fatto ancora una volta un lavoro eccellente.
Ringrazio i miei genitori: il mondo può crollare, ma voi ci siete (ed è bello saperlo). Ringrazio la mia sorellina scapestrata: Kopf hoch!
Dedico questo lavoro a due persone speciali.
A Tommaso: “Sogna ciò che ti va. Sii ciò che vuoi essere. Perché hai solo una vita e una
sola possibilità di fare le cose che vuoi fare dentro di te” (Paolo Coelho). Ho cercato di rubarti il minor tempo possibile, scrivendo mentre tu dormivi o non cʼeri; grazie piccolo mio:
mi fai venire voglia di essere una persona migliore.
Allʼuomo che mi ha insegnato che i sogni devono passare attraverso i muri di pietra.
Sasso Marconi (Bologna), marzo 2012
X
Prefazione
PREFAZIONE
(Dino Amadori)
Da quando, più di centocinquanta anni fa, Charles Darwin pubblicò la prima edizione
dellʼ Origine della specie, il dibattito filosofico, scientifico e teologico sullʼorigine della specie umana è tuttora aperto e le diverse posizioni culturali si stanno affrontando, senza che
si sia ancora raggiunto un livello di sintesi condiviso.
Per molto tempo il dibattito si è sviluppato più a livello filosofico e teorico che non a livello biologico e scientifico, determinando così un conflitto, talora fazioso e intollerante, fra
due correnti contrapposte, lʼevoluzionistica e la creativistica.
Nel tempo, molte evidenze scientifiche si sono accumulate a dimostrazione della “vicinanza biologica” fra le due specie, umana e animale, e il contributo apportato dalla genetica a questa dimostrazione è stato fondamentale.
Oggi si sa che i genomi delle diverse specie possono essere paragonati e dal confronto
emerge che le maggiori somiglianze si registrano fra specie che si sono separate in tempi più recenti.
Allorché si consideri quella componente del genoma che è costituita per 3-5 per cento dai
geni in senso stretto, quelli cioè che codificano per specifiche proteine cellulari e ne condizionano il comportamento biologico, e che per 30-35 per cento è costituita dalle regioni
di controllo degli stessi geni, le somiglianze fra specie umana e i primati animali superano 98 per cento, facendo ipotizzare che la separazione fra le due specie sia il più recente degli eventi evolutivi.
Resta tuttavia un buon 60-65 per cento del genoma del quale ancora oggi non si conoscono le funzioni e che, per questo motivo, viene definito genoma “oscuro” o “in eccesso”
o addirittura genoma “spazzatura”, per significare che esso non svolge in realtà alcuna
funzione biologica.
Un fenomeno di grande interesse è lʼosservazione che le sequenze dei geni in senso stretto sono molto più conservate, quindi simili nei genomi di specie diverse, rispetto a quelle
di tutte le altre regioni, e che quella componente del genoma cosiddetta “oscura” o “in eccesso” è caratterizzata da un passaggio più fluido e libero da una specie allʼaltra.
Comʼè facile comprendere, soprattutto se si rimane fermi allʼaspetto biomolecolare delle relazioni fra specie umana e altre specie animali, ancora molto lavoro deve essere fatto per conoscere appieno, sempre che questo sia mai possibile, come sia avvenuta e se sia realmente
avvenuta la derivazione evoluzionistica dellʼuomo dalle specie animali a lui più vicine.
Più recentemente, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, lʼattenzione delle ricerche sulle possibili relazioni evolutive fra uomo e altre specie animali si è spostata al livello più alto dellʼintegrazione fra le proprietà biologiche e le proprietà funzionali, quello dei
comportamenti.
XI
Prefazione
In base a studi di psicologia comparata e di eziologia cognitiva, volti a verificare se può
essere dimostrata una “continuità mentale” fra uomo e animali, sembra che la mente animale possa possedere un “kit cognitivo” di base che potrebbe attribuire agli animali capacità di apprendimento, di memorizzazione, dʼinterazione sociale, di rappresentazione
degli oggetti e anche rudimenti della nozione di spazio, di tempo e persino generica capacità di soluzione di problemi. Se si ammette che i diversi componenti del “kit cognitivo”
possono essere più o meno sviluppati in funzione della specifica pressione selettiva dellʼambiente di una determinata specie, ne deriva che il grado dʼintelligenza di soggetti appartenenti a specie diverse è legato a specifiche pressioni ambientali subìte nel corso della loro filogenesi.
Guardando poi al comportamento sociale, recenti studi hanno messo in evidenza che i comportamenti dellʼuomo e degli animali sono mediati da processi neurochimici omologhi, più
specificamente dai neuropeptidi. I neuropeptidi, lʼossitocina in particolare, sembrano essere,
secondo questi studi, la radice “neurochimica” dalla quale prendono origine molteplici aspetti del comportamento sociale degli animali, fra questi il rapporto protezionistico della madre
verso il figlio e il reciproco attaccamento, le vocalizzazioni sessuali nei pesci, negli anfibi, negli uccelli e nei mammiferi. Nei primati, lʼossitocina sembrerebbe mediare anche processi psicocomportamentali molto complessi, come lʼempatia e lʼaltruismo. Un dato ancora più sorprendente, emerso dagli studi di zooantropologia e pet-therapy, è che il rilascio di ossitocina
può essere provocato anche dallʼinterazione fra uomo e cane!
È un dato obiettivo lʼevidenza che lʼinteresse fra le somiglianze e le differenze che distinguono lʼuomo dalle altre specie animali si sta estendendo a più di una disciplina del grande universo della conoscenza dellʼuomo e della sua origine. Tuttavia, fino a oggi tutte le
ricerche si sono rivolte esclusivamente alle dinamiche “fisiologiche” del rapporto evolutivo fra specie umana e altre specie animali.
Ma come stanno le cose dal punto di vista delle differenze/somiglianze fra uomo e animale nel campo della patologia? È ormai di accezione comune il concetto che se cʼè una
malattia “genetica” per definizione, questa è il cancro. Lo è per la sua genesi, per i meccanismi che ne regolano la progressione, per il condizionamento genetico della risposta
o della resistenza ai trattamenti specifici, per la stessa natura ereditaria o sporadica e per
il definitivo esito della malattia.
Molti dei successi e dei fallimenti terapeutici, soprattutto di quelli farmacologici, che si registrano nei tumori maligni hanno una base farmacogenetica, che condiziona anche gran
parte degli effetti tossici delle terapie antiblastiche.
Come stanno le cose a questo proposito nel mondo animale?
Quali sono le caratteristiche epidemiologiche, cliniche ed evolutive della patologia oncologica nelle due specie, umana e animale?
Sono questi gli interrogativi che hanno stimolato la nostra curiosità e che ci hanno spinto
a produrre questa opera di oncologia comparata, anche se il nostro lavoro si è limitato
semplicemente a presentare lo stato dellʼarte della diagnosi, della caratterizzazione istologica e molecolare e della terapia dei tumori osservati nellʼuomo e nellʼanimale.
Ben altri approfondimenti sono necessari per rispondere a quasi tutte le domande che ho
sopra formulato, ma non è escluso che a questa prima fatica editoriale non possa far seguito un successivo, ancora più affascinante lavoro di ricerca in un settore della conoscenza umana che attiene al mistero più profondo del nostro essere, quello della nostra
origine e del nostro destino ultimo.
Meldola (Forlì), aprile 2012
XII
cap 1
1-9:gabbia
28-05-2012
16:29
Pagina 1
PARTE GENERALE
cap 1
1-9:gabbia
28-05-2012
16:29
Pagina 2
PARTE GENERALE
capitolo 1
APPROCCIO AL PROPRIETARIO
DEL PAZIENTE ONCOLOGICO
Damiano Stefanello
Il medico veterinario che svolge la propria attività
relazionandosi con proprietari di cani e gatti utilizza costantemente la comunicazione come strumento dʼinterazione. La comunicazione rappresenta
lo strumento primario del rapporto interpersonale,
che viene utilizzato in qualsiasi ambito lavorativo e
non, per ottenere e dare informazioni: infatti, è ampiamente riconosciuto che ogni rapporto interpersonale inizia, prosegue, si modifica e finisce attraverso un rapporto di comunicazione.
Nellʼattività clinica il medico veterinario utilizza la
comunicazione e, in particolare, quella di tipo verbale come principale strumento per interagire con
il proprietario mediante intenti differenti, che vanno
dalla gestione quotidiana del “pet” (alimentazione,
igiene, comportamento e profilassi vaccinali), alla
necessità di approfondire riscontri clinici con esami più approfonditi, proposte terapeutiche, comunicazione di eventuale insuccesso terapeutico, fino alla comunicazione della scelta eutanasica. È
infatti ampiamente riconosciuto che lʼattività clinica
del medico veterinario è caratterizzata da elevata
esposizione verbale e non, nei confronti del proprietario che avanza spesso richieste di successo
terapeutico garantito, di prognosi favorevole o che
non infrequentemente misura la necessità di un intervento sanitario con i costi di prestazioni e non
con lʼobbiettivo principale di migliorare qualità di vita e/o quantità di vita del pet.
Lʼoncologia clinica del cane e del gatto è presente in ambito pratico da molti anni in Italia, anche
se le possibilità diagnostiche e terapeutiche sono
mutate e sono state fortemente migliorate, grazie
a tecnologia e maggior professionalità di medici
veterinari, che con caparbietà e studio hanno consentito di raggiungere standard di gestione decisamente elevati nella pratica clinica. È però doveroso sottolineare che tecnologia e professionalità del medico veterinario sono stati fortemente
2
aiutati da proprietari sempre più disposti a sottoporre i propri animali a trattamenti, che hanno come obbiettivo principale non la cura, ma il miglioramento di qualità di vita: è il caso, per esempio,
di alcune malattie linfoproliferative, tra cui linfoma
e leucemie acute. La diversa predisposizione del
proprietario a investire tempo e denaro nella gestione di malattie oncologiche canine e feline è in
gran parte dovuta al mutato ruolo da semplici animali da compagnia a reali componenti della famiglia. Il medico veterinario si confronta con pazienti
canini e felini che sempre più spesso sono considerati componenti attivi del nucleo familiare, tanto che da essi o su di essi dipendono e ricadono i
rapporti affettivi dei componenti stessi della famiglia. Non è più insolito che scelte diagnostiche e
terapeutiche e prognosi dichiarata dal medico veterinario siano non infrequentemente messe in discussione dal proprietario per diverse ragioni, che
spesso sorprendentemente esulano dai rapporti
di fiducia con il professionista, ma che esprimono
da parte del proprietario un rapporto di dipendenza dal e del pet.
È naturale pertanto considerare che il ruolo di comunicazione in oncologia veterinaria sia strategico non solo da un punto di vista di rapporto commerciale veterinario-cliente, ma di gestione sanitaria del problema oncologico in funzione di rapporto tra pet e proprietario. In medicina umana,
nelle varie specialità cliniche, il ruolo di comunicazione è considerato strategico, rilevato dallʼesigenza di suggerire specifici corsi postlaurea dedicati. La carenza in ambito di comunicazione è soprattutto avvertita in oncologia clinica, dove più
spesso vengono messe a dura prova le abilità comunicative dellʼoncologo. In medicina veterinaria,
il clinico che si dedica allʼoncologia e ovviamente
lo specialista in oncologia deve tenere in considerazione la comunicazione come strumento per
interagire con il proprietario nellʼintento di aiutarlo
cap 1
1-9:gabbia
28-05-2012
16:29
Pagina 3
capitolo 1
Approccio al proprietario del paziente oncologico
a compiere scelte oggettive che diano possibilità
di trattamento e, dove possibile, di cura a cani e
gatti con neoplasia.
Il ruolo di comunicazione in oncologia veterinaria
e in medicina veterinaria, in generale, assume elevata importanza se si considera che il proprietario decide per il suo pet e che il veterinario si interfaccia non direttamente con il paziente ma con
il suo tutore, che in molti casi assume sempre più
i connotati del proprietario-genitore, avvicinando
medico veterinario e specialista in oncologia veterinaria, almeno per la gestione dei consulti, allo
specialista in oncologia pediatrica.
Per tutti questi motivi verranno descritti, seppur
parzialmente, meccanismi ed elementi di comunicazione, per meglio introdurre e comprendere lʼimportanza di una buona gestione del proprietario
del paziente oncologico e indagare suoi potenziali
meccanismi decisionali nelle diverse fasi della malattia oncologica (comunicazione di diagnosi, terapia, eventuale fallimento terapeutico ed eutanasia), con il primario obbiettivo di fornire una comunicazione onesta ed efficace.
È innanzitutto importante riconoscere la comunicazione come processo dinamico, che prevede codificazione e interpretazione di qualsiasi cosa detta e fatta di fronte a un interlocutore. Scambio di
messaggi e successiva decodifica avvengono tra
due attori della comunicazione, che nel caso specifico della medicina veterinaria sono emittente, che
sʼidentifica con il medico veterinario, e ricevente,
che sʼidentifica con il proprietario-genitore.
La prima regola che si deve tenere in considerazione è che il medico veterinario, in qualità di emittente, deve essere conscio di regole di comunicazione nellʼintento di codificare un messaggio
chiaro e facilmente comprensibile per il ricevente.
La seconda regola è di prevedere, almeno in parte, possibili reazioni e domande dellʼemittente, per
decodificare i suoi messaggi in modo corretto e
adeguato, nellʼintento di disporre di comunicazione persuasiva per ottenere permesso e consenso
di gestione clinico-oncologica del pet.
Il medico veterinario, pertanto, come attore principale di comunicazione in un contesto clinico che
fornisce parere sanitario, deve soprattutto sapere
che le variabili che possono condizionare il processo comunicativo sono molteplici ed è altresì indispensabile riconoscere che lo stile comunicativo si modifica nel corso degli anni, rischiando spesso dʼimpoverirsi di dettagli, se quotidianamente il
modo di comunicare non subisce analisi critica costruttiva e adeguato aggiornamento, rifacendosi a
regole generali di comunicazione. A questo proposito è doveroso ricordare che medici e medici veterinari che si occupano esclusivamente di una specialità tendono a comunicare le medesime informazioni e a rispondere alle medesime domande
quasi tutti i giorni. Questa ripetitività rischia di compromettere la qualità di comunicazione, in quanto
lo specialista tende a dare per scontato informazioni, dettagli e priorità che nella maggior parte dei
casi non sono conosciuti dallʼinterlocutore. Per questo motivo, è indispensabile rifarsi a uno schema
generale, che consenta di esprimere un modello
comunicativo bidirezionale e che, al tempo stesso,
non risenta in modo compromettente di variabili occasionali, come stato dʼanimo, debolezze o, molto
più comunemente, stanchezza e stress.
È fondamentale che il medico veterinario interagisca con il proprietario, utilizzando una comunicazione cosiddetta bidirezionale, dove a codificare e decodificare i messaggi sono emittente e ricevente simultaneamente. Tuttavia, è anche importante ricordare che il modo in cui i messaggi
sono codificati e decodificati sia da emittente sia
da ricevente dipende da atteggiamenti, conoscenze,
valori e aspettative dei rispettivi attori. Atteggiamenti, conoscenze, valori e aspettative riassumono personalità ed esperienze vissute di una persona e, pertanto, ne condizionano il modo di codificare e decodificare un messaggio. Sicuramente le strategie comunicative risultano più efficaci
se lʼinterlocutore è conosciuto da tempo, in quanto le informazioni disponibili da parte del medico
veterinario sul ricevente riescono a essere calibrate e mirate. La conoscenza approfondita dellʼinterlocutore è possibile se il proprietario è già
cliente della clinica veterinaria e questo può agevolare lʼemittente nel comunicare le cosiddette cattive notizie, poiché il messaggio da codificare risulta essere meglio contestualizzato.
In realtà, quando il consulto è gestito da uno specialista, è molto probabile che lʼemittente disponga di poche informazioni sul ricevente (proprietario-genitore) e abbia poco tempo per instaurare
una comunicazione bidirezionale giusta e onesta.
Per questo motivo, la conoscenza di idee e convinzioni del proprietario-genitore, per quanto generiche, consente al medico veterinario di affrontare in modo corretto almeno il primo consulto, che
da sempre è considerato cruciale, anche in onco3
PARTE GENERALE
fomi mediastinico, multicentrico, extranodale e
leucemico rappresentano le forme più comunemente associate a infezione con FeLV.
• FIV è un lentivirus morfologicamente simile al virus dʼimmunodeficienza umana (HIV), ma antigenicamente diverso. FIV si trasmette per inoculazione diretta di saliva o sangue attraverso
ferite da morso; sʼipotizzano inoltre trasmissioni
veneree, durante gravidanza, parto o allattamento. FIV replica in linfociti T CD4+ e CD8+,
linfociti B, macrofagi e astrociti. Lʼinfezione con
FIV predispone alcuni gatti allo sviluppo di linfoma; possibili motivi sono cronica deficienza del
sistema immunitario oppure attivazione di meccanismi dʼazione oncogeni che facilitano la trasformazione maligna delle cellule. Di solito, si
tratta di linfoma extranodale, che interessa gatti adulti e anziani.
• FeSV è un raro ibrido che deriva da ricombinazione tra FeLV esogeno e protoncogeni contenuti nel genoma felino; pertanto, gatti infettati da
FeSV sono sempre FeLV-positivi. FeSV provoca lʼinsorgenza di fibrosarcomi che, contrariamente a quelli non FeSV-indotti, sono multicentrici e si sviluppano in gatti giovani. La crescita è
molto rapida, con tempo di raddoppiamento spesso < 12-72 ore. Le lesioni sono in genere localizzate in corrispondenza di ferite o morsi.
Cancerogenesi chimica
I composti chimici riconosciuti come cancerogeni
negli animali sono molteplici e la loro pericolosità
è legata alla produzione di radicali che interagiscono con DNA cellulare, danneggiandone la corretta struttura chimica. Le sostanze cancerogene
devono quasi sempre essere metabolizzate in composti attivi a livello epatico per mezzo del sistema
microsomiale. Agenti cancerogeni sono:
• composti organici (benzene, idrocarburi policiclici,
amine aromatiche, agenti alchilanti, derivati anilinici, azocomposti);
• composti inorganici (arsenico, asbesto, ferro, cromo, nichel, berillio, cobalto).
• Ciclofosfamide è un agente alchilante citotossico
utilizzato in molti protocolli chemioterapici in pazienti sia umani sia animali. Ciclofosfamide viene
decomposta in mostarda fosforamidica (composto attivo) e acroleina (composto tossico). Acroleina è escreta intatta nelle urine, dove viene a
14
contatto con la mucosa vescicale, comportando
alterazioni irreversibili, tra cui edema, necrosi, emorragia, fibrosi e mineralizzazione distrofica. Clinicamente, si osserva cistite emorragica inizialmente
sterile, che tende a diventare settica in seguito a
necrosi mucosale. Lʼuso a lungo termine di ciclofosfamide ad alte dosi può provocare carcinoma
uroteliale a carico di vescica.
• Lʼuso prolungato di agenti alchilanti, in generale
(per esempio, per il trattamento di linfoma multicentrico nel cane), può comportare la comparsa
di secondo tumore (prevalentemente sarcomi) mesi/anni dopo il termine della chemioterapia.
• Alcuni ingredienti presenti in prodotti antiparassitari, tra cui petrolio, poliesteri e xilene, sono stati associati a sviluppo di carcinoma uroteliale di
vescica nel cane. Si è visto, infatti, che cani esposti a insetticidi topici hanno rischio maggiore di
sviluppare tumore vescicale.
• Uno studio ha dimostrato correlazione significativa tra esposizione a erbicida acido 2,4-diclorofenossiacetico (2,4-D) e linfoma nel cane. Lo studio
concludeva che i proprietari di cani con linfoma applicavano lʼerbicida più frequentemente rispetto a
proprietari di cani sani. La stessa osservazione è
stata fatta in seguito a studi epidemiologici umani, che hanno riportato modesta associazione tra
esposizione a 2,4-D e maggiore rischio di sviluppare linfoma non Hodgkin nellʼuomo, paragonabile istologicamente a quello canino.
• Asbesto, materiale utilizzato in edilizia, comprende
una famiglia di silicati fibrosi. Lʼesposizione a fibre di asbesto è stata correlata allo sviluppo, nellʼuomo e negli animali domestici, di mesotelioma,
raro tumore maligno delle cellule epiteliali che rivestono le cavità celomiche del corpo, ovvero cavità pleurica, pericardica e peritoneale. Le fibre
più sottili, una volta inalate, tendono a depositarsi in vie aeree terminali e negli alveoli e sono responsabili di un processo infiammatorio iniziale,
che porta lentamente a trasformazione maligna
di cellule mesoteliali. Uno studio ha dimostrato
che anche i cani esposti ad asbesto sono più a rischio per lo sviluppo di mesotelioma, in particolare quelli che vivono in ambiente urbano.
• Dalla combustione di tabacco si liberano sostanze irritative e cancerogene, tra cui idrocarburi policiclici aromatici e N-nitrosamine. Gli effetti tossici e cancerogeni di fumo di sigaretta si
traducono a livello polmonare in alterazioni strutturali irreversibili di bronchi e alveoli, incapacità
funzionale di difesa umorale e cellulare e, in ul-
capitolo 2
Epidemiologia ed eziologia neoplastiche
tima analisi, crescita tumorale. Gli effetti nocivi
del fumo di sigaretta negli uomini sono noti da
molto tempo, ma recentemente è stata rilevata
lʼimportanza epidemiologica del fumo passivo
anche in animali domestici. Uno studio recente
ha dimostrato che gatti che convivono con fumatori sono due volte più a rischio di sviluppare linfoma e la percentuale aumenta con numero di sigarette fumate, numero di fumatori per
ambiente domestico e durata dellʼesposizione.
Il gatto esposto al fumo passivo non solo lo inala, ma ne ingerisce le particelle che si depositano sul suo mantello durante il leccamento.
• Gatti esposti a fumo passivo hanno inoltre rischio
aumentato di sviluppare carcinoma squamocellulare (SCC) orale. Gatti i cui proprietari fumavano 1-19 sigarette al dì avevano rischio aumentato di 4 volte di sviluppare SCC rispetto a
gatti che vivevano in ambiente privo di fumatori;
tale differenza era statisticamente significativa.
• Anche cani esposti a fumo passivo o aria inquinata sono maggiormente a rischio di sviluppare
tumori polmonari.
• Gatti che indossavano collari antipulci avevano
rischio aumentato di 5 volte di sviluppare SCC
orale rispetto a gatti-controllo, attribuibile a vicinanza tra pesticidi e cavo orale. Lʼuso regolare
di shampoo antiparassitari riduceva invece il rischio di sviluppare SCC orale di 90 per cento,
dal momento che i bagni frequenti rimuovono
contaminanti chimici dal mantello, con secondaria ridotta assunzione orale durante la pulizia.
• Gatti alimentati con cibo umido (in particolare, a
base di tonno) avevano rischio di 3-5 volte superiore rispetto a gatti-controllo di sviluppare SCC
orale. Gatti alimentati con cibo secco hanno, infatti, ridotto accumulo di tartaro e, conseguentemente, migliore igiene orale. Anche nellʼuomo la
scarsa igiene orale è stata associata a maggiore rischio di sviluppare SCC.
• La residenza in aree urbane inquinate aumenta
il rischio di sviluppare SCC tonsillare nel cane.
Lʼemissione di sostanze tossiche (tra cui diossina) da rifiuti urbani incendiati favorisce cancerogenesi nellʼuomo e nel cane. In questʼultima specie, il rischio di sviluppare linfoma è aumentato
di 2,39 volte.
• Le radiazioni ultraviolette (UV) appartengono a
spettro elettromagnetico a corta lunghezza dʼonda adiacente alla zona di violetto di luce visibile. È
stato dimostrato che le radiazioni di lunghezza
dʼonda compresa tra 290 e 320 nm (UV-B) hanno
ruolo patogenetico importante, poiché alterano il
sistema immunitario e danneggiano direttamente
il DNA. Un esempio molto indicativo è lo sviluppo
negli animali a mantello bianco di SCC cutaneo in
seguito a esposizione a raggi del sole, oppure in
corrispondenza di aree glabre del corpo, come,
per esempio, planum nasale, addome o estremità di padiglioni auricolari (figure 2 e 3). La lesione
iniziale è caratterizzata da dermatosi che evolve
successivamente a carcinoma. Lʼazione cancerogena è dose-dipendente ed è legata a esposizione cronica e cumulativa, anziché a unica dose.
• Lʼenergia di radiazioni ionizzanti determina un
danno a carico di DNA, con conseguenti alterazioni mutagene e oncogene. Nellʼuomo, ma anFigura 2 - Carcinoma squamocellulare UVA-indotto su planum nasale in gatto.
Figura 3 - Carcinoma squamocellulare UVA-indotto, che interessa padiglione auricolare di gatto a mantello chiaro.
Cancerogenesi fisica
Gli agenti fisici cancerogeni sono radiazioni ultraviolette, radiazioni ionizzanti e corpi estranei.
15
cap 4
26-34:gabbia
28-05-2012
16:30
Pagina 26
PARTE GENERALE
capitolo 4
CANCRO E PATOLOGIA
Giuliano Bettini
Ruolo del patologo
Il compito del patologo nella gestione del paziente oncologico, o sospetto tale, è innanzitutto
la diagnosi. Il cancro è una malattia della proliferazione cellulare e la conferma certa di natura e
tipo di malattia tumorale che si sta verificando in
un animale (ovvero, la diagnosi) può derivare a
tuttʼoggi solo dallʼesame microscopico delle cellule, con tecniche di citologia o dʼistologia.
In un concetto attuale di oncologia, inoltre, la semplice affermazione se si tratta di tumore o meno, e
se benigno o maligno, non è più considerata sufficiente. Lʼidea che non tutte le neoplasie maligne
sono ugualmente maligne è ormai assodata e al
patologo è spesso chiesto di fornire informazioni
correlate al comportamento biologico, per esempio, tramite formulazione del grading istologico o
applicazione di metodiche immunoistochimiche o
biomolecolari. Nelle neoformazioni asportate chirurgicamente, inoltre, il patologo deve anche pronunciarsi su completezza di escissione chirurgica.
Il patologo svolge quindi ruolo cardine nellʼoncologia, che spesso va oltre la diagnosi. Collaborazione tra clinico e patologo significa che entrambi
devono cooperare per ottenere il migliore risultato possibile e cioè diagnosi attendibile e maggiore quantità possibile di altre informazioni, utili per
definizione di prognosi e pianificazione di migliore strategia terapeutica. Affinché questa cooperazione sia efficace, entrambi gli attori, clinico e patologo, devono conoscere le peculiarità del lavoro dellʼaltro: il clinico, per mettere il patologo in condizione di applicare al meglio le sue cognizioni; il
patologo, per avere chiaro quali sono le informazioni di cui il clinico ha maggiore necessità.
In questo capitolo saranno passati in rapida rassegna gli aspetti del lavoro del patologo che devono essere meglio noti al clinico, per quanto attiene a campionamento, refertazione, grading isto26
logico e valutazione dei margini. Nel capitolo successivo, saranno esemplificate alcune ulteriori determinazioni cui il patologo può ricorrere per perfezionare la diagnosi o per fornire informazioni aggiuntive (istochimica, immunoistochimica, microscopia elettronica, biologia molecolare).
Corretta gestione del campione
Il lavoro del patologo inizia dal campione, ovvero dal frammento di tessuto prelevato con idonee metodiche (biopsia) che, dopo opportuni trattamenti, in laboratorio sarà trasformato in preparato istologico da esaminare al microscopio. La
biopsia è il ponte attraverso cui inizia il dialogo tra
clinico e patologo. Affinché questo dialogo sia efficace, è però necessario che il patologo sia conscio di difficoltà e limitazioni cui può essere sottoposto il clinico nel prelevare un campione e il clinico deve conoscere le fasi che portano a realizzazione di preparato istologico e le modalità con
cui si svolge lʼesame istologico e si raggiunge la
diagnosi, per comprenderne le limitazioni.
I campioni destinati allʼesame istologico possono
derivare da biopsie incisionali o escissionali. La
biopsia incisionale è eseguita con bisturi o altri
strumenti taglienti come punch, tru-cut, pinze endoscopiche, secondo caratteristiche e localizzazione del tessuto che deve essere campionato, e
si limita al prelievo di un piccolo frammento. La
biopsia escissionale consiste nellʼasportazione chirurgica dellʼintera lesione, su cui è successivamente condotto lʼesame istologico (limitata a casi
in cui è stato precedentemente condotto esame
citologico o a rari casi in cui la procedura chirurgica è scarsamente condizionata da diagnosi: per
esempio, splenectomia). Indipendentemente dalle modalità con cui è eseguito il prelievo, si elencano di seguito alcuni suggerimenti al riguardo,
che mirano a evitare che il prelievo bioptico risul-
cap 4
26-34:gabbia
28-05-2012
16:30
Pagina 27
capitolo 4
Cancro e patologia
ti in esito non diagnostico per motivi tecnici o inadeguata pianificazione.
• Dimensioni: le biopsie incisionali sono spesso di
piccole o piccolissime dimensioni e ciò può rendere la diagnosi meno attendibile o impossibile.
In linea di massima, in campioni il cui diametro
maggiore è inferiore al millimetro possono essere apprezzate solo caratteristiche citologiche e
non caratteristiche istologiche; tanto più è piccolo il campione, maggiore è la possibilità che esso
comprenda solo aree connettivali o di concomitante flogosi; i campioni ottenuti da tessuti friabili
tendono a frammentarsi o addirittura a dissolversi in formalina: in questi casi, può essere utile procurarsi gabbiette da istologia in cui inserire i campioni o avvolgerli in carta prima di fissarli.
• Numero: tanto più piccoli sono i campioni, tanto
maggiore deve essere il loro numero, per aumentare le possibilità che il campione sia rappresentativo; in ogni caso, mai un solo campione; maggiori sono le dimensioni della massa,
maggiore il numero di campioni da prelevare.
• Aree da campionare: evitare aree che allʼesame
macroscopico o alla diagnostica per immagini
appaiono necrotiche, emorragiche o cistiche; se
sono evidenti aree di aspetto diverso, ognuna di
queste deve essere campionata; privilegiare aree
dove il tessuto appare compatto; di regola è più
probabile che la porzione centrale di neoplasie
voluminose sia necrotica; tuttavia, in alcuni casi
(per esempio, osteosarcoma), deve essere privilegiato il prelievo di aree centrali; in biopsie
escissionali selezionare anche il punto di transizione tra tessuto normale e patologico, dal cui
esame è possibile avere utili informazioni su tipo di accrescimento e potenziale infiltrante.
• Manipolazione: i piccoli campioni bioptici sono
soggetti ad artefatti da schiacciamento, soprattutto prima della fissazione. I campioni devono
essere estratti da pinza bioptica, punch o tru-cut
con la massima cura, aiutandosi con un ago ed
evitando lʼuso di pinze; i piccoli campioni non devono essere posti su garze o altro materiale assorbente, che ne determinerebbero la rapida disidratazione, ma eventualmente su apposita carta o spugnette imbevute di soluzione fisiologica
o formalina; la fissazione deve avvenire subito
dopo il prelievo: pertanto, il contenitore deve essere preparato con adeguato anticipo e prontamente disponibile.
• Fissazione: la fissazione ha lo scopo di blocca-
re i processi di autolisi e preparare il campione
a successivi passaggi di laboratorio. Il liquido fissativo comunemente utilizzato è formalina per
istologia, che si ottiene diluendo a 10 per cento
formalina di commercio (ovvero, soluzione di formaldeide a 40 per cento): i campioni sono pertanto immersi in soluzione di formaldeide a 4 per
cento. La formalina, che normalmente è tamponata a pH 7-7,2 allo scopo di garantire migliore
preservazione delle caratteristiche del tessuto,
determina fissazione del tessuto grazie a formazione di legami a ponte tra le proteine, più
precisamente tra residui di lisina; tali legami non
modificano in maniera determinante la struttura
proteica, per cui lʼantigenicità non viene perduta e ciò consente anche la successiva applicazione di metodi di rivelazione immunoistochimica. La formalina ha buon potere di penetrazione
nei tessuti ma, affinché la fissazione avvenga in
tempi rapidi in tutto il campione, è necessario che
i pezzi non abbiano spessore > 6-7 mm e che
siano immersi in quantità sufficiente di fissativo
(almeno 10 volte il volume del materiale da fissare). Il tempo necessario per avere fissazione
completa varia in funzione di dimensioni e caratteristiche del campione; generalmente, la fissazione è considerata completa dopo 24 ore, trascorse le quali il pezzo può essere avviato a successive procedure istologiche. La conservazione di un campione in formalina non altera le caratteristiche morfologiche per un tempo indefinito (mesi, anni), ma può precludere la possibilità
di ricorrere ad approfondimenti immunoistochimici. Il contenitore destinato a contenere campione e formalina deve essere idoneo, e cioè infrangibile, a chiusura ermetica, di dimensioni adeguate, con apertura sufficientemente ampia da
permettere il comodo passaggio del pezzo fissato (la fissazione indurisce il tessuto).
• Identificazione e informazioni di accompagnamento: molti laboratori di patologia forniscono
moduli di accompagnamento; in ogni caso, i dati essenziali da comunicare al patologo sono segnalamento, anamnesi, sintomatologia, aspetto
e localizzazione della neoformazione, eventuali
terapie attuate prima del prelievo, eventuali quesiti specifici; le informazioni clinico-anamnestiche permettono al patologo di articolare meglio
le diagnosi differenziali e di fornire, quindi, responsi più accurati; quando si inviano biopsie
multiple, se non espressamente specificato, il patologo considererà tutti i campioni come prove27
cap 6
43-54:gabbia
28-05-2012
16:31
Pagina 46
PARTE GENERALE
Alcuni autori consigliano, inoltre, lʼasciugatura rapida del materiale, specie se estremamente fluido, al fine di ottenere migliore conservazione delle cellule stesse.
In particolare, per ottenere materiale derivante da
versamenti cavitari (toracici o addominali), si può
ricorrere allʼausilio della diagnostica per immagini
(ecografia, in particolare); il prelievo viene effettuato con aghi di diametro variabile e lʼanestesia locale è raramente necessaria. Come già si è detto in
precedenza, poiché il numero di cellule allʼinterno
del fluido può essere estremamente variabile, il principale limite in questo tipo dʼindagine è rappresentato da scarsa o assente cellularità. I rischi collegati alla procedura sono limitatissimi e correlati a
possibile perforazione di organi interni (come milza,
intestino, polmoni) o accumulo di liquido nel sottocute. Il liquido prelevato viene, come già si è detto,
in parte strisciato direttamente e in parte conservato in provette contenenti anticoagulante (EDTA), in
attesa della processazione sopradescritta.
Colorazioni
Le colorazioni più frequentemente impiegate in citologia neoplastica sono rappresentate da quelle tipo Romanowsky. Queste colorazioni (Wright,
Giemsa, Diff-Quik® o Hemacolor®) sono facili da utilizzare, da conservare e da interpretare. Ogni colorazione possiede le sue caratteristiche procedure di
impiego e preparazione, che dovrebbero essere seguite in generale, pur con alcune differenti possibilità di adattamento. Per esempio, strisci spessi, quali
quelli provenienti da linfonodi, fegato o midollo osseo, possono necessitare di tempi più lunghi di colorazione per permettere adeguata penetrazione di coloranti allʼinterno di cellule, mentre strisci sottili, o a
basso contenuto proteico, quali prelievi derivanti da
liquido cefalorachidiano, urine, o trasudati puri, possono richiedere tempi più brevi.
È assolutamente necessario che i vetrini da sottoporre a esame citologico non siano conservati
in prossimità di contenitori di formalina e non siano spediti insieme a contenitori che contengono
frammenti di tessuto da inviare allʼesame istologico: i vapori di formalina, infatti, tendono a penetrare nelle cellule presenti sui vetrini e ad alterarne le caratteristiche tintoriali; in queste occasioni
le cellule assumono colorazione blu-verdastra e
perdono i dettagli nucleocitoplasmatici; pertanto,
il campione diventa spesso illeggibile e viene richiesto un nuovo campionamento.
46
Per lʼinvio al laboratorio del campione prelevato, è
sempre consigliabile utilizzare contenitori rigidi, al fine di evitare la frantumazione dei vetrini inviati. È
inoltre necessario allegare al campione inviato tutte
le informazioni relative al caso, compresi, evidentemente, segnalamento e anamnesi accurate. È consigliabile, infine, utilizzare vetrini con banda sabbiata sulla quale scrivere, a matita, identificazione del
paziente e sito di provenienza del prelievo, quando
vengono campionati siti di prelievo differenti.
Lettura citologica
e interpretazione del campione
Premessa importante è rappresentata dalla
necessità di adeguata esperienza da parte del citopatologo, poiché ci si può spesso trovare di fronte a
quadri citologici di difficile interpretazione: in tal caso,
solo esperienza di base e continuo aggiornamento
possono aiutare chi interpreta il campione a raggiungere una diagnosi precisa e accurata.
Il campione sospetto per neoplasia viene esaminato
dapprima a piccolo ingrandimento (10x o 20x), al fine di valutare adeguatezza di preparazione e colorazione, nonché qualità del preparato. Particolare attenzione deve essere prestata ai margini del preparato stesso dove, in particolare per quanto riguarda
la citologia di lesioni a contenuto liquido e la citologia
esfoliativa, può spesso concentrarsi la maggior parte di cellule diagnostiche. È opportuno, inoltre, puntualizzare che è consigliabile esaminare con accuratezza i margini di campioni spessi, dove le cellule si
dispongono in monostrato e si colorano, quindi, con
maggiore intensità e in maniera adeguata.
Dopo la valutazione del campione a piccolo ingrandimento, questo viene accuratamente esaminato a elevato ingrandimento (40x o 100x), al
fine dʼinterpretare le caratteristiche nucleocitoplasmatiche delle cellule. Vengono in successione riportati nel referto:
• qualità e adeguatezza del campione;
• popolazione cellulare prevalente (se una prevale
rispetto alle altre);
• descrizione citomorfologica di popolazioni cellulari presenti;
• commento e conclusione.
In particolare, occorre definire se le cellule presenti
sono normali, se rappresentano processo infiammatorio, processo iperplastico/displastico o neoplasia.
Campioni inconclusivi sono rappresentati da cam-
cap 6
43-54:gabbia
28-05-2012
16:31
Pagina 47
capitolo 6
Citologia oncologica e metodiche correlate
pioni acellulari o ematici: in tal caso, può essere
necessario un secondo tentativo di campionamento
citologico, o lʼesecuzione di procedure diagnostiche più invasive (come biopsia tissutale). Campioni “negativi per neoplasia” possono essere campioni inconclusivi o campioni che, pur derivando da
tessuto neoplastico, non contengono cellule diagnostiche della patologia in atto. Lʼesame citopatologico deve essere sempre seguito da valutazione istopatologica della neoplasia, anche in casi in
cui lʼesaminatore ritiene di aver raggiunto diagnosi
conclusiva tramite lʼindagine citopatologica.
Infine, la biopsia citologica linfonodale permette
spesso lʼidentificazione di metastasi. Infatti, le notevoli differenze citomorfologiche delle cellule neoplastiche metastatiche, rispetto al monomorfismo
delle cellule linfoidi, sono spesso di notevole aiuto nellʼidentificare il coinvolgimento linfonodale da
parte di neoplasie maligne. La citologia linfonodale, che può essere approntata sia su linfonodi
esplorabili, sia su linfonodi allʼinterno di cavità corporee, permette quindi la corretta stadiazione (diffusione) del processo neoplastico.
Classificazione citologica
delle neoplasie
Una delle finalità più importanti dellʼesame citologico è rappresentata dalla differenziazione tra
processo neoplastico e processo infiammatorio.
Altri fini dellʼesame citologico, nellʼambito del pro-
cesso neoplastico, sono rappresentati dalla definizione dellʼorigine della neoplasia stessa e dal
tentativo di differenziare la neoplasia benigna da
quella maligna.
Nellʼambito della lettura di un esame citologico, rivestono particolare importanza i criteri o caratteri di malignità delle cellule che si esaminano, in particolare
per neoplasie di origine epiteliale e mesenchimale.
Si riconoscono:
• criteri di malignità generali, quali ipercellularità,
pleomorfismo (variazione di forma delle cellule
di uno stesso tipo), anisocitosi (variazione di dimensioni delle cellule) e macrocitosi (aumento
di dimensioni delle cellule);
• criteri di malignità nucleare, quali anisocariosi,
macrocariosi, nuclear molding, aumentato rapporto nucleo/citoplasma, multinucleazione, irregolarità della membrana nucleare, mitosi atipiche, cromatina grossolana e irregolarmente distribuita e anomalie nucleolari (macronucleoli,
nucleoli angolari);
• criteri di malignità citoplasmatica, quali basofilia,
vacuolizzazioni, margini citoplasmatici irregolari o indistinti.
Nella valutazione del potenziale maligno di una
neoplasia si considerano, in particolare, criteri di
malignità generali e nucleari, più accurati nel definire il potenziale maligno di un tumore. I criteri di
malignità citoplasmatica rivestono invece impor-
Tabella I - Caratteristiche citologiche generali dei tumori. (Da: COWELL RL, TYLER RD, MEINKOTH JH ET AL, 2008;
modificata).
categoria
dimensione
delle cellule
forma
cellularità
delle cellule dei campioni
presenza
di aggregati
epiteliale
grandi
rotonde
angolate
di solito elevata
sì
mesenchimale
(cellule fusate)
piccole
medie
fusate
stellate
di solito bassa
no
piccole
medie
rotonde
di solito elevata
no
mastocitoma linfoma
rotondocellulare
tumore
venereo
istiocitoma
47
cap 7
55-68:gabbia
28-05-2012
16:32
Pagina 58
PARTE GENERALE
raggiungere conte elevate, anche se aumenti del
numero di piastrine non sono eccezionali in corso
di neoplasie (più spesso in seguito a carenza di
ferro e flogosi). Va, inoltre, ricordato che alcuni farmaci, quali vincristina e, più raramente, cortisonici, estrogeni e adrenalina inducono frequentemente
trombocitosi, anche considerevole (figura 2).
Le trombocitopenie risultano invece più frequentemente associate a coagulazione intravasale disseminata, ipoplasia midollare (da mielottisi o cachessia neoplastica), occasionalmente a radiazioni o a farmaci (anche chemioterapici).
Valutazione della coagulazione
Se il quadro coagulativo generalmente può fornire scarse indicazioni specifiche per la diagnosi di
neoplasia, è da ricordare che i tempi di coagulazione rientrano frequentemente nei parametri valutati come profilo preoperatorio. La valutazione di
parametri indicativi di fibrinolisi, quali D-dimeri e
prodotti di degradazione della fibrina (PDF), possono invece essere utili per la valutazione sia di
coagulazione intravasale disseminata sia di trombosi, complicanze non infrequenti, sia in corso di
neoplasie sia nel periodo postoperatorio.
Biochimica clinica
Da un punto di vista oncologico, la valutazione del quadro biochimico può fornire indicazioni
utili, che possono grossolanamente essere riassunte in due aspetti: cosiddetti profili dʼorgano e
marker tumorali specifici, utilizzabili da un punto
di vista diagnostico e/o prognostico.
Profili dʼorgano
Lʼutilizzo di profili dʼorgano o profili biochimici, che
comprendono un numero anche piuttosto elevato
di parametri, è entrato ormai nella consuetudine
anche per i pazienti oncologici. Questi esami, seppur spesso ridondanti, possono essere utili per definire funzionalità e danno a carico di organi, quali fegato, rene e pancreas, ma purtroppo forniscono scarse indicazioni specifiche di patologie tumorali. Il loro utilizzo va, pertanto, inteso principalmente come test di screening, utile per valutare soggetti nei quali non è stata ancora emessa
diagnosi specifica o per valutare la funzionalità di
organi importanti ai fini di metabolizzazione ed
escrezione di farmaci chemioterapici.
58
Più raramente, alcuni parametri possono dare indicazioni riguardo localizzazione di neoplasie primitive o secondarismi a carico di organi specifici.
In corso di carcinoma epatocellulare, per esempio, ma anche di linfoma e neoplasie metastatiche, si assiste frequentemente a incremento di
transaminasi alanintransferasi (ALT) e aspartatotransferasi (AST) e, secondariamente, di indici di
colestasi (gammaglutamiltransferasi - GGT - e fosfatasi alcalina - ALP). Al contrario, in corso di carcinoma biliare, ma anche di carcinoma pancreatico, incrementi di enzimi di colestasi sono generalmente più precoci e ingenti e spesso compaiono ittero e bilirubinuria, ma secondariamente possono comparire anche alterazioni di transaminasi. In tutte queste condizioni i parametri di funzionalità epatica appaiono generalmente normali, poiché la massa epatica residua tende a compensare lʼattività di aree colpite. Il profilo epatico risulta,
tuttavia, di scarso utilizzo non solo per la diagnosi del tipo di neoplasia, ma persino per distinguere patologie neoplastiche da forme infiammatorie.
Unʼanaloga situazione si può riscontrare in corso di carcinoma pancreatico, che può indurre aumenti, anche considerevoli, di amilasi e lipasi, ma
anche colestasi con ittero, aumento di ALP, GGT
e acidi biliari. Questo quadro non è, tuttavia, differente da quello di patologie infiammatorie, quali pancreatiti acute.
Neoplasie del pancreas endocrino (insulinoma), al
contrario, sono invece generalmente associate a
ipoglicemia, quadro piuttosto caratteristico che,
una volta esclusi eventuali errori preanalitici, deve essere confermato con la determinazione dellʼinsulinemia. In questo caso, sono frequentemente
riscontrabili anche incrementi di transaminasi e
ALP e, più raramente, ipoalbuminemia.
Neoplasie renali (soprattutto carcinomi e linfomi)
o delle vie urinarie possono indurre iperazotemia
renale o postrenale; va, tuttavia, ricordato che lʼaumento di creatinina e urea si riscontra quando si
raggiunge la perdita di almeno 75 per cento di nefroni e, pertanto, questo quadro risulta tardivo e
peraltro non specifico di neoplasia.
Tra i parametri biochimici più spesso associati ad
alcune neoplasie, va ricordata ALP. Incrementi
dellʼattività di ALP, generalmente < 8 volte il limite superiore del range di riferimento, sono stati riscontrati in 55 per cento dei cani con neoplasie
mammarie maligne e in 47 per cento dei cani con
neoplasie benigne, indipendentemente da istotipo e presenza di metaplasia ossea. Aumenti di
cap 7
55-68:gabbia
28-05-2012
16:32
Pagina 59
capitolo 7
Diagnostica di laboratorio
ALP totale o dʼisoenzima osseo sono stati segnalati in cani con osteosarcoma e generalmente associati a prognosi sfavorevole. Infine, aumenti di
ALP totale e, in particolare, dellʼisoforma steroidoindotta sono caratteristicamente associati nel cane
a iperadrenocorticismo (83-100 per cento dei casi).
Marker tumorali
La ricerca si è spesso concentrata, in medicina sia
umana sia veterinaria, sul tentativo di trovare un test
di laboratorio singolo e poco costoso che fosse dʼaiuto nella diagnosi precoce di tumori specifici o nella
valutazione di recidiva. In medicina umana sono stati identificati numerosi potenziali marker tumorali, ma
gran parte di essi non raggiunge completamente lo
scopo, poiché generalmente mostra incrementi biologicamente evidenziabili solo quando la malattia è
progredita a uno stadio avanzato (bassa sensibilità
e scarsa precocità); inoltre, i livelli ematici possono
alzarsi in seguito a differenti patologie neoplastiche
e a numerose condizioni non neoplastiche (bassa
specificità). I marker attualmente utilizzati in oncologia umana possono essere grossolanamente suddivisi in 5 categorie differenti:
• proteine oncofetali (antigene carcinoembrionario - CEA -, α-fetoproteina - AFP);
• ormoni (gonadotropina corionica beta - HCG -,
ormoni ectopici);
• enzimi sierici (fosfatasi acida - ACP -, fosfatasi
alcalina - ALP -, latticodeidrogenasi - LDH);
• immunoglobuline;
• antigeni specifici tumorali (CA-125; CA-15.3; antigene specifico prostatico - PSA).
In medicina veterinaria, i tentativi di validare parametri potenzialmente utili per diagnosi precoce
e identificazione di recidiva non hanno al momento
evidenziato test utilizzabili su larga scala nella pratica clinica, nonostante alcuni di essi possano essere comunque utilizzati con successo in alcune
patologie specifiche.
Nonostante la concentrazione totale o ionizzata di
calcio non possa essere considerata marker tumorale in senso stretto, lʼidentificazione dʼipercalcemia, spesso > 14-15 mg/dl di calcio totale, è nella gran parte dei casi legata a ipercalcemia paraneoplastica (maligna), che accompagna una buona percentuale di neoplasie differenti, quali linfomi, soprattutto mediastinici a immunofenotipo T
(non raro nel cane, infrequente nel gatto), carci-
nomi apocrini di sacchi anali e altri adenocarcinomi (incluso mammario) e timomi. Nella maggior
parte dei casi, questo incremento è dovuto alla
produzione da parte del tumore di proteine che
competono per i recettori di paratormone (PTHrelated protein, PTH-rp) (vedere capitolo 10). Altre volte lʼipercalcemia è legata a localizzazione
primaria a livello osseo (mieloma, linfoma, metastasi ossee) o direttamente a neoplasie paratiroidee con aumento di produzione di PTH (iperparatiroidismo primario). Lʼidentificazione di elevata
ipercalcemia in test di screening può, pertanto, essere utile per sospettare neoplasie occulte; tuttavia, mancano studi specifici che identifichino grado di precocità, sensibilità e specificità di tale riscontro per le diagnosi di neoplasia.
La presenza dʼipergammaglobulinemia con picco
monoclonale, seppur non strettamente patognomonico, va considerato fortemente indicativo di
neoplasie della linea plasmocitaria (mieloma multiplo; figura 3). Tra le diagnosi differenziali possibili, va ricordato che, soprattutto utilizzando test in
elettroforesi capillare, alcune patologie infettive oligoclonali (soprattutto ehrlichiosi e leishmaniosi)
possono presentare picchi similmonoclonali e, pertanto, la diagnosi definitiva richiede la valutazione
di aspirato midollare.
Recentemente, numerosi studi si sono concentrati
sul possibile uso di alcune proteine di fase acuta
(APP) come possibili biomarker di neoplasia: in
corso di neoplasie di differente natura, infatti, gran
parte di APP tende a subire incrementi anche sostanziali. Tuttavia, tali incrementi non consentono
di essere distinti da quelli secondari a patologie
Figura 3 - Elettroforesi di proteine sieriche: ipergammaglobulinemia con picco monoclonale in cane con mieloma multiplo.
albumine
globuline
γ
α2
α1
β
59
PARTE GENERALE
A
C
B
Figura 1 - Studio radiografico completo del torace di cane con
lesione nodulare (diagnosi finale: adenocarcinoma primario)
del lobo craniale destro: proiezioni laterale destra (A), laterale
sinistra (B) e ventrodorsale (C). Il nodulo, localizzato a destra,
è scarsamente visibile nella proiezione laterale destra, a causa
di atelectasia del polmone circostante, mentre è ben contrastato da polmone areato nella proiezione laterale sinistra. La proiezione ventrodorsale consente di confermare la sua localizzazione polmonare.
prelievi dalla lesione. La sensibilità della radiologia
nella ricerca di metastasi riportata da diversi studi
in letteratura varia da 65 a 97 per cento. Un recente studio ha messo a confronto radiologia e TC: nel
gruppo di pazienti studiati, solo 9 per cento di tutti i
noduli polmonari visualizzati in TC era visibile mediante radiologia convenzionale e ben 39 per cento dei cani esaminati con studio radiografico standard presentava noduli in TC. Ciò significa che si
avevano falsi negativi in quasi 40 per cento dei soggetti. Piccoli noduli polmonari vanno distinti da vasi o piccole aree di mineralizzazione ectopica, frequenti in soggetti anziani. I criteri radiografici per la
loro differenziazione possono essere così riassunti (figura 2):
- foci di mineralizzazione ectopica - distribuzione tendenzialmente ventrale, margini più sfumati e irregolari (figura 2 A);
70
- noduli polmonari - rotondeggianti, distribuzione
e dimensioni variabili, radiopacità inferiore rispetto alle altre strutture (a meno che non siano mineralizzati) (figura 2 B, C);
- vasi polmonari - seguono lʼarborizzazione dei
bronchi; se colpiti “dʼinfilata”, producono immagine rotondeggiante, che ha elevata radiopacità (maggiore di quella di un nodulo rotondeggiante) (figura 2 C).
Va, inoltre, tenuto conto che la malattia metastatica polmonare può presentarsi anche in forme non
francamente nodulari, più difficili da identificare radiologicamente, come, per esempio, in caso di carcinomatosi polmonare, in cui lʼaspetto è di tipo misto, con componente interstiziale, che spesso rende difficile lʼinterpretazione (figura 3). Per questo
motivo, casi complessi, in cui il rischio di malattia
metastatica è alto e in cui si devono prendere im-
capitolo 8
Diagnostica per immagini
A
B
C
Figura 2 - Particolari di proiezioni laterali del torace di due cani diversi. A) Sono visibili numerosi piccoli noduli mineralizzati con
margini irregolari (foci di mineralizzazione ectopica). B) Noduli
polmonari rotondeggianti con radiopacità nel range dei tessuti molli (metastasi). C) Stesso cane di figura B: sono evidenziati, nei
cerchi bianchi, altre metastasi e, nei cerchi neri, vasi polmonari,
più radiopachi dei noduli.
portanti decisioni dal punto di vista terapeutico, devono essere approfonditi mediante TC. Ciò non significa che lo step della radiologia debba essere
saltato. Non sarebbe corretto utilizzare direttamente TC, che richiede anestesia generale e comporta maggiori costi per il proprietario, solo per visualizzare noduli polmonari visibili con il semplice
esame radiografico del torace.
• Scheletro appendicolare e rachide vanno sempre indagati in prima battuta mediante studio radiografico diretto, che nella maggior parte dei casi consente dʼidentificare la sede di lesione e di
orientarsi tra condizioni di tipo neoplastico e non
neoplastico. Sede di lesione, grado di coinvolgimento di strutture scheletriche e tessuti molli e
criteri radiografici che contraddistinguono lesioni “osteoaggressive” e “non osteoaggressive” (vedere capitolo 28), insieme a informazioni ottenute da clinica e indagini laboratoristiche, sono
gli elementi che consentono in molti casi di distinguere tra una zoppia causata da evento non
neoplastico e un tumore. Anche prima di ottenere lʼesito di biopsia, se sʼidentifica una lesione marcatamente osteoaggressiva in un cane di grossa
taglia anziano in sede predisposta, il sospetto di
neoplasia ossea primaria è quasi una certezza (figura 4). Anche in questo caso vanno ricordati i limiti della radiologia, principalmente determinati
da difficoltà dʼinterpretazione di regioni anatomiche complesse, come quelle del rachide, e scarsa sensibilità nel dimostrare riassorbimento osseo. Almeno 50-75 per cento della spongiosa ossea di un segmento vertebrale deve essere riassorbita prima che una lesione di un corpo vertebrale possa essere visualizzata in un radiogramma in proiezione laterale del rachide. Per questo motivo, in caso di sospetto clinico e studio radiografico negativo, si deve procedere con altre
metodiche dʼimaging (scintigrafia o TC).
• Il ruolo della radiologia addominale si è ridimensionato mano a mano che lʼutilizzo dellʼecografia è diventato routinario nella pratica clinica anche in medicina veterinaria. Resta sempre da ricordare, tuttavia, che, anche se in generale un
esame ecografico approfondito è maggiormente informativo, ci sono situazioni in cui è importante eseguire un radiogramma anche dopo ecografia, perché talvolta può aggiungere elementi
fondamentali o chiarire quadri dubbi. Esempi sono rappresentati da masse retroperitoneali, che
71
PARTE GENERALE
effettuare prelievi. Lʼaspirazione ecoguidata di
versamento e lesioni solide è rapida e sicura e
può essere eseguita quasi sempre con paziente sveglio. Maggiori precauzioni vanno prese se
si decide di eseguire una biopsia a tutto spessore, che comporta maggiori rischi, anche perché richiede sempre almeno una sedazione.
• Tessuti molli superficiali. Qualsiasi lesione superficiale è accessibile alla valutazione ecografica; unica necessità è la tricotomia dellʼarea interessata. Lʼindagine ecografica è estremamente
utile per stabilire un possibile organo di origine
della lesione, valutarne sede, estensione, composizione (contenuto liquido e solido) e vascolarizzazione. Di grande interesse sono regioni di
splancnocranio e porzione prossimale di collo, in
cui è possibile identificare lesioni che originano da
organi, come ghiandole salivari e tiroide, linfonodi mandibolari e retrofaringei, grossi vasi, bulbo
oculare o tessuti molli di regione retrobulbare. Lʼapparato muscoloscheletrico rappresenta unʼaltra
applicazione dellʼecografia e, nonostante nella
maggior parte dei casi sia rivolta alla valutazione
di malattie ortopediche non neoplastiche, questa
può essere molto utile per riconoscere lesioni tumorali di tessuti molli e periarticolari e per valutarne anche il coinvolgimento osseo. Se, per esempio, cʼè osteolisi, viene a mancare la barriera per
gli ultrasuoni rappresentata dallʼosso: la lesione
diventa quindi visibile e un eventuale prelievo può
essere effettuato anche da una lesione scheletrica, grazie alla guida ecografica.
Ecocontrastografia
Lʼecografia con mdc è una recente applicazione dellʼecografia, che ha stimolato un grande
interesse nel settore oncologico, anche nel mondo della medicina veterinaria. Una spiegazione approfondita di questa tecnica esula dagli scopi di
questo testo; tuttavia, è doveroso ricordare almeno i principali concetti alla base della metodica. I
mezzi di contrasto per ecografia sono composti da
microbolle, le cui caratteristiche fisiche e chimiche
sono alla base della loro capacità di generare unʼimmagine ecografica e si riassumono fondamentalmente in due capisaldi.
• Dimensioni nellʼordine di pochi micron, quindi simili o inferiori a quelle degli eritrociti. Ciò consente il passaggio invariato di microbolle attra78
verso il filtro polmonare. Lʼiniezione di mdc in una
vena periferica permette il transito del bolo fino
alla circolazione sistemica arteriosa: quindi, valutazione di microcircolo di tessuti e organi.
• Le proprietà acustiche delle microbolle derivano
dalla loro composizione: la presenza al centro della bolla di un gas ne fornisce lʼecoriflettenza, cioè
la capacità di produrre intenso segnale ultrasonoro di ritorno, e le proprietà del guscio ne determinano sia stabilità sia caratteristiche di elasticità. I mezzi di contrasto di seconda generazione
non sono, infatti, costituiti da guscio rigido, ma da
capsula elastica, formata da microparticelle (fosfolipidi), che consentono alla microbolla di modificare il proprio diametro, quando viene investita dallʼultrasuono che attraversa il tessuto. Il vantaggio di questa “oscillazione” è quello di produrre uno spettro ultrasonoro di ritorno che contiene
frequenze multiple della frequenza di origine (cosiddette frequenze “armoniche”), le quali possono essere isolate e utilizzate per produrre la mappa vascolare di un organo o di un tessuto.
Le diverse tecnologie che sono state sviluppate
per differenziare il segnale prodotto dalle microbolle da quello di tessuti circostanti variano in base a casa produttrice.
Lʼutilizzo di mdc presuppone quindi anche lʼacquisizione della tecnologia dedicata, con la quale si è in grado di valutare, isolare e visualizzare il solo segnale proveniente da mdc, sopprimendo quello originato dal tessuto che lo contiene. Lʼesame viene condotto in modo da valutare in tempo reale la perfusione di una lesione,
includendo fasi dʼingresso (wash-in) e di uscita
(wash-out) di mdc.
Le applicazioni attuali dellʼecocontrastografia in
medicina veterinaria includono caratterizzazione
di lesioni neoplastiche maligne di organi addominali e studio di vascolarizzazione e perfusione di
linfonodi neoplastici. Analogamente a ciò che è
stato mostrato in campo umano, anche nei piccoli animali lʼorgano che è stato maggiormente indagato è il fegato. Il parenchima epatico si presta
bene allo studio con mdc, in quanto una lesione
focale può essere confrontata con il parenchima
adiacente per valutare differenze o similitudini nella perfusione. Il fegato è lʼorgano per il quale i pattern di perfusione sono stati meglio caratterizzati
e in cui la differenziazione di lesioni maligne e benigne sulla base di tipo di perfusione ha ormai sufficiente evidenza scientifica. Possono essere stu-
capitolo 8
Diagnostica per immagini
A
tare corretta strategia terapeutica. Meno concordi sono finora i dati pubblicati che riguardano lesioni spleniche. Anche gli studi effettuati per gli altri organi della cavità addominale (reni, surrenali,
prostata e testicoli) e per linfonodi richiedono ulteriore validazione scientifica, anche se i primi risultati sono incoraggianti.
Va, infine, ricordato che parte delle informazioni
ottenute con ecocontrastografia si sovrappongono a quelle ottenute mediante TC con contrasto.
Il vantaggio dellʼecografia rimane quello di poter
eseguire lʼesame senza sedazione o anestesia,
previa collaborazione del paziente. Lo svantaggio,
rispetto a TC, è di non poter comunque completare la stadiazione del paziente, esaminando anche il torace.
Tomografia computerizzata
B
Figura 11 - Ecografia con mdc (A) e TC postcontrasto (B) di fegato di cane con metastasi epatiche tomografiche. Le immagini
mostrano lo stesso nodulo, che si presenta, rispetto al parenchima epatico circostante, ipoecogeno nella fase di wash-out di mdc
ecografico (A) e ipoattenuante nello studio TC postcontrasto (B).
diate lesioni primarie già visualizzate mediante
ecografia basale o ricercare presenza di metastasi. Il rilievo di noduli disseminati ipoperfusi con
rapido wash-out in paziente con emangiosarcoma splenico indica presenza di metastasi epatiche (figura 11). Nonostante si possa quindi considerare attualmente una metodica affidabile per la
valutazione di lesioni epatiche, questa non dà sempre risultati facili da interpretare: pertanto, non deve essere sempre considerata alternativa allʼesecuzione di prelievo dalla lesione, che risulta spesso necessario per tipizzare tipo di neoplasia e adot-
La grande innovazione dellʼesame TC è stata quella di utilizzare un fascio di raggi X per rappresentare un determinato distretto corporeo mediante produzione di immagini tomografiche sequenziali, che corrispondono a una serie di sottili
strati del volume esaminato. In ciascuna di queste immagini, le diverse componenti tissutali vengono riprodotte e distinte grazie a elevata risoluzione di contrasto (capacità di TC di distinguere
piccole differenze di densità). Vengono superati,
in questo modo, due grandi limiti della radiologia
convenzionale:
• essere una tecnica di diagnostica per immagini
che rappresenta su un unico piano strutture tridimensionali;
• avere scarsa capacità nella differenziazione di
densità dei tessuti.
Lʼevoluzione tecnologica ha comportato, anche in
questo settore, miglioramenti sostanziali in qualità dʼimmagine ottenuta e velocità di esecuzione
dellʼesame.
Il concetto alla base della formazione dʼimmagine
TC, tuttavia, è rimasto invariato: lʼimmagine viene prodotta grazie alla rotazione del tubo radiogeno attorno al paziente durante lʼavanzamento
del lettino allʼinterno del gantry. Il fascio di fotoni
che attraversa le strutture corporee viene attenuato
e colpisce una serie di rilevatori (detettori), che
ruotano in sincronia con il tubo radiogeno. I detettori registrano il valore di attenuazione, che viene trasformato in segnale elettrico, inviato al com79
PARTE GENERALE
A
B
C
Figura 15 - Meningioma di lobi olfattorio e frontale in cane. Immagini RM, ottenute sui piani trasversale (A), dorsale (B) e sagittale (C), pesate in T2 (A) e T1 postcontrasto (B, C). La lesione
è extrassiale, ben delimitata, iperintensa in T2 e mostra intenso
e omogeneo enhancement nella sequenza T1 postcontrasto. (Per
gentile concessione di Massimo Baroni).
84
del quale viene posizionato il paziente. A seconda del tipo di magnete utilizzato, cambia lʼintensità del campo magnetico prodotto, la cui unità di misura è il Tesla (T). Lʼintensità del campo magnetico a disposizione influenza le modalità operative,
ma soprattutto la qualità dʼimmagine prodotta. Passando da unità a basso campo (0,2-0,4 T) a unità
ad alto campo (intensità fino a 4 T), si hanno vantaggi in termini di qualità dʼimmagine e tempi di
scansione; tuttavia, salgono i costi.
• Una volta attivato il campo magnetico allʼinterno
del corpo esaminato, si determina una prima fase di equilibrio magnetico. Successivamente, viene applicata una serie di onde di radiofrequenza, emesse da una speciale bobina, una specie
di antenna che può avere varie forme (rigida o
flessibile) e che viene posizionata attorno alla
parte dʼinteresse. La bobina ha duplice funzione: è in grado di produrre impulsi a radiofrequenza, che modificano lo stato di equilibrio precedentemente raggiunto, e di ricevere il segnale di ritorno degli atomi dʼidrogeno nel momento
in cui essi tornano alla situazione di riposo.
• Le modalità con cui si succedono questi eventi
sono estremamente complesse e costituiscono
la base per la produzione di varie sequenze RM.
Lʼacquisizione di diverse sequenze è fondamentale
in RM poiché, a seconda dellʼintensità del segnale prodotto da ciascun tessuto, è possibile
differenziare le varie strutture e identificare le lesioni. Alcune sequenze sono più adatte alla valutazione di dettagli anatomici (T1), altre più sensibili nel riconoscimento di lesioni (T2). Alcune
sequenze vengono utilizzate per sopprimere segnali provenienti da specifiche componenti: per
esempio, da liquido cefalorachidiano (FLuid Attenuated Inversion Recovery, FLAIR) o tessuto
adiposo (Short Thau Inversion Recovery, STIR).
• Anche lʼimmagine RM sfrutta lʼutilizzo di scala di
grigi, il cui significato è sempre quello di fornire
allʼimmagine il contrasto necessario ai fini diagnostici. A differenza di TC, il livello di grigio non
è però espressione di densità dei tessuti. Per la
corretta interpretazione delle immagini, è necessario conoscere che tipo dʼintensità di segnale
produce ciascun tessuto nella specifica sequenza utilizzata.
• Anche in RM viene utilizzato il mezzo di contra-
capitolo 8
Diagnostica per immagini
sto: si tratta di una sostanza paramagnetica (gadolinio), che viene iniettata in una vena periferica al dosaggio standard di 0,2 mg/kg. Lʼacquisizione di sequenze postcontrasto consente di valutare la vascolarizzazione di organi e tessuti e
mettere in evidenza aree anormali di captazione, che a livello cerebrale indicano alterata permeabilità di barriera ematoencefalica.
• Come per TC, lʼesecuzione di un esame RM richiede lʼanestesia generale: per la necessità di
acquisire numerose sequenze, i tempi di acquisizione di uno studio RM completo sono normalmente più lunghi rispetto a un esame TC.
• Va tenuto conto che il campo magnetico non deve essere disturbato da interferenze esterne, che
potrebbero creare artefatti nelle immagini. Per questo motivo, il magnete va isolato mediante apposite gabbie (gabbia di Faraday) ed è necessario
evitare interferenze da parte di oggetti metallici e
apparecchiature elettroniche, come monitor e carrelli per anestesia, che devono essere costruiti appositamente, oppure alloggiati al di fuori della gabbia. Artefatti possono essere causati anche da impianti metallici nel paziente (per esempio, protesi
o microchip), che possono impedire la corretta valutazione dello studio acquisito.
• Attualmente, le indicazioni più frequenti in oncologia veterinaria includono valutazione di neoplasie di cranio (sia neuro- sia splancnocranio),
rachide e scheletro appendicolare, anche perché le unità a basso campo sono quelle maggiormente disponibili in medicina veterinaria.
Tuttavia, analogamente a quello che succede
nellʼuomo, probabilmente le applicazioni oncologiche di RM si estenderanno anche ad altri importanti settori (per esempio, addome e torace)
nel prossimo futuro.
si lega alla matrice ossea; una valutazione a distanza di circa 4 ore dalla somministrazione consente di ottenere informazioni sul metabolismo dellʼosso. Il passaggio di radiofarmaco nei tessuti permette una valutazione anatomica, anche se non
dettagliata, come quella ottenuta con le altre tecniche dʼimaging, ma soprattutto fornisce informazioni funzionali delle modalità con cui esso viene
captato, metabolizzato ed escreto. Per questo motivo, la scintigrafia è in grado di dimostrare lesioni anche prima che queste producano alterazioni
morfologiche di un organo e che possano, quindi,
essere identificate mediante altri studi.
• Lʼelevata sensibilità nellʼidentificazione del processo patologico non è purtroppo associata a
buona specificità. Lesioni captanti radiofarmaco,
o aree ipocaptanti, possono essere causate da
lesioni tumorali o non tumorali; quindi, è sempre
necessario effettuare altre indagini per differenziare neoplasia da malattia non neoplastica.
• Lʼacquisizione delle immagini richiede lʼutilizzo
di gammacamera, che è in grado di rilevare le radiazioni gamma che fuoriescono dal paziente, e
computer, che trasforma i dati acquisiti in immagine. Il paziente e i liquidi organici prodotti devono
Figura 16 - Esempio di scansione scintigrafica (piano dorsale) di
cane con adenocarcinoma tiroideo. La massa presenta elevata
captazione di radiofarmaco; il lobo tiroideo controlaterale è soppresso. Cranialmente alla lesione, sono visibili due strutture captanti (ghiandole salivari).
Medicina nucleare
La scintigrafia è una tecnica il cui principio è
basato sulla valutazione della distribuzione di una
sostanza radioattiva (radiofarmaco), che viene
iniettata per via endovenosa. Il radiofarmaco maggiormente utilizzato è tecnezio (nella sua forma
metastabile di 99mTc), per breve emivita (6 ore) e
facilità con cui può essere legato ad altre sostanze. Per lo studio dello scheletro, 99mTc viene abbinato a una molecola (difosfonato, 99mTc-MDP) che
85
capitolo 9
Stadiazione clinica: sistemi TNM e WHO
capitolo 9
STADIAZIONE CLINICA:
SISTEMI TNM E WHO
Laura Marconato
Introduzione
I tumori si differenziano in base a sede anatomica, tipo istologico e grado di malignità. Ogni tumore
è caratterizzato da propria storia clinica, tipo di diffusione metastatica, risposta a terapia e modalità di recidiva dopo trattamento ed è stadiato in base a sua
dimensione e diffusione anatomica. La stadiazione
clinica di una neoplasia rappresenta la fase obbligatoria nellʼapproccio al paziente oncologico, sia perché dà importanti informazioni prognostiche, sia perché rappresenta il modello con cui i pazienti vengono selezionati per la terapia. Pertanto, dopo aver ottenuto diagnosi di certezza, diventa fondamentale valutare lʼestensione neoplastica, poiché i risultati di stadiazione delineano prognosi e tipo di terapia.
Sistema
di classificazione TNM
La classificazione TNM considera da un punto di vista clinico lʼestensione anatomica del tumore. Oltre allʼindubbia utilità di avere una sorta
di “linguaggio standardizzato” e di facilitare, quindi, lo scambio di informazioni tra medici, la stadiazione TNM aiuta lʼoncologo clinico a pianificare la terapia più adatta, dà indicazione prognostica e valuta e confronta risultati terapeutici.
La classificazione TNM sottolinea rilevanza prognostica di dimensione e invasività locale di tumore primitivo (T), stato di linfonodi regionali (N) e presenza di metastasi distanti (M). Contrariamente ad
altri sistemi classificativi, TNM valuta separatamente
T, N e M, per poi raggrupparli in stadi.
La classificazione TNM è applicata per la valutazione di tumori solidi (per esempio, tumori mammari, polmonari, genitourinari). La principale limitazione riguarda lʼimpossibilità di stadiare neoplasie sistemiche e diffuse, come linfomi e leucemie,
per i quali si utilizza lo schema WHO.
Dopo aver valutato TNM per un dato paziente, è
possibile inquadrarlo in uno stadio clinico, utile da
un punto di vista prognostico. Una volta stabilito
lo stadio clinico, questo deve restare invariato nella cartella medica del paziente durante lʼintero decorso della malattia. La terapia può modificare la
storia clinica del paziente e il tumore può recidivare. In questo caso, è possibile ristadiare neoplasie recidivanti e indicare il nuovo stadio clinico
utilizzando il prefisso “r” (rTNM).
Classificazione TNM clinica
o pretrattamento
La classificazione TNM clinica (cTNM) si basa su
evidenza acquisita prima di iniziare la terapia antitumorale e si basa su dati clinici (esame semeiotico), diagnostica per immagini (radiologia, ecografia, endoscopia, TC, RM, scintigrafia), citologia
(figure 1-4). La classificazione TNM clinica è fondamentale per scegliere la terapia più adeguata.
Classificazione TNM chirurgica
La classificazione TNM chirurgica (surgical, sTNM)
consente lʼacquisizione di elementi aggiuntivi sullʼestensione del processo neoplastico in pazienti
sottoposti a resezione chirurgica.
La chirurgia assume ruolo diagnostico quando le
tecniche non invasive si rivelano inapplicabili per
sede, dimensione di lesione oppure prevalenza di
materiale necrotico.
Classificazione TNM patologica
o postchirurgica
La classificazione TNM patologica (pTNM) si basa su evidenza ottenuta prima di iniziare il trattamento, modificata da informazioni aggiuntive acquisite da chirurgia e conseguente valutazione isto87
capitolo 9
Stadiazione clinica: sistemi TNM e WHO
2) N = stato di linfonodi regionali (fissi o mobili, dimensioni, consistenza, coinvolgimento singolo
o multiplo, ipsilaterale o controlaterale, distribuzione bilaterale)
N0 = nessuna evidenza di metastasi
a linfonodi (LN) regionali
N1,2,3,4 = gradi crescenti
dʼinteressamento di linfonodi regionali
Nx = non è possibile valutare linfonodi
regionali (dati insufficienti)
Le metastasi a linfonodi non regionali sono considerate metastasi a distanza. Il loro significato
clinico è tuttavia difficile da interpretare.
Lo stato N ha importantissime implicazioni prognostiche per tumori solidi (per esempio, per
neoplasie di testa e collo, vescicali e intestinali), dal momento che riflette lʼimpossibilità dʼintervenire efficacemente sul tumore primitivo. Linfonodi fissi (N3) sono tipicamente chirurgicamente non rimovibili e, pertanto, si accompagnano a prognosi per lo più sfavorevole. Infine,
il coinvolgimento linfonodale spesso riflette lʼelevata probabilità di diffusione ematogena (neoplasie mammarie).
3) M = presenza o assenza di metastasi a distanza
M0 = nessuna evidenza di metastasi a distanza
M1 = metastasi (diverse da linfonodi
regionali) presenti (specificare sede)
Mx = impossibile verificare la presenza
di metastasi
La presenza di metastasi a distanza definisce
in modo chiaro pazienti inoperabili e si accompagna, nella maggior parte dei casi, a prognosi infausta. M può essere definito clinicamente, ma il più delle volte richiede indagini
strumentali.
Simboli
• Suffisso “m”: “m” posto tra parentesi indica presenza di tumori multipli.
• Prefisso “y”: in casi in cui la stadiazione è eseguita durante o dopo terapia multimodale, la categoria cTNM o pTNM è identificata dal prefisso
“y”. In altre parole, ycTNM o ypTNM indica lʼesten-
sione neoplastica al momento della valutazione
e non prima di iniziare la terapia.
• Prefisso “r”: recidiva diagnosticata dopo intervallo libero da malattia.
• Prefisso “a”: stadiazione eseguita in sede autoptica.
Linfonodi regionali
Linfonodi regionali riscontrabili nel cane e nel gatto, suddivisi secondo regione anatomica, sono riportati in tabella I.
Linfonodo sentinella
Per definizione, il linfonodo sentinella rappresenta
il primo linfonodo che accoglie vasi linfatici provenienti dalla regione anatomica in cui si è sviluppato il tumore (e che quindi lo drenano). La valutazione istopatologica del linfonodo sentinella riflette
lʼestensione neoplastica regionale, con ovvie implicazioni prognostiche e terapeutiche. La biopsia
di linfonodo sentinella è eseguita sempre più spesso in oncologia umana, per corretta stadiazione e
identificazione di eventuali micrometastasi, non altrimenti riconoscibili. Le micrometastasi sono infatti impossibili da identificare mediante normali test
di screening e sono ritenute responsabili di disseminazione neoplastica sistemica tardiva. Pertanto,
se il linfonodo sentinella contiene cellule neoplastiche, è possibile rimuoverlo, ma solo se il miglioramento di prognosi supera la morbidità secondaria
a linfadenectomia. Se il linfonodo sentinella non
contiene cellule neoplastiche, non deve essere rimosso, evitando al paziente intervento chirurgico
inutile e morbidità a esso associata.
La valutazione del linfonodo sentinella ha accertate implicazioni prognostiche nei seguenti tumori del cane: polmonari primitivi, mammari, melanoma di cavo orale, osteosarcoma, sinoviosarcoma, mastocitoma, sarcoma istiocitico.
Metodi utilizzati in medicina veterinaria per valutare il linfonodo sentinella sono escissione chirurgica (linfadenectomia), valutazione citologica (che
tuttavia può dare falsi negativi), scintigrafia, iniezione peritumorale di colorante blu associato a
tracciante radioattivo ed ecografia con mezzi di
contrasto.
89
capitolo 9
Stadiazione clinica: sistemi TNM e WHO
Schema TNM per diversi tumori di cane e gatto
TNM tumori di origine epidermica-dermica (esclusi mastocitoma e linfoma)
T = tumore primitivo
Tis = carcinoma in situ
T0 = nessun tumore evidente
T1 = diametro massimo del tumore < 2 cm, superficiale
T2 = diametro massimo 2-5 cm, o invasione minima, indipendentemente dalle dimensioni
T3 = diametro > 5 cm, o invasione di sottocute, indipendentemente dalle dimensioni
T4 = tumore che invade altre strutture (fascia muscolare, osso e cartilagine)
Nel caso di tumori multipli, la classificazione è definita da T del tumore più grande. La molteplicità
di tumori è indicata tra parentesi: per esempio, T2(5).
N = linfonodi regionali
N0 = linfonodi regionali non interessati
N1 = linfonodo ipsilaterale mobile
N1a = non aumentato di volume
N1b = aumentato di volume
N2 = linfonodo controlaterale o bilaterali mobili
N2a = non aumentato di volume
N2b = aumentato di volume
N3 = linfonodi fissi
M = metastasi distanti
M0 = nessuna evidenza di metastasi a distanza
M1 = metastasi presenti (specificare sede)
TNM carcinomi di ghiandole apocrine di sacchi anali
stadio clinico
T
N
M
I
II
IIIa
IIIb
IV
diametro massimo < 2,5 cm
diametro massimo > 2,5 cm
qualsiasi T
qualsiasi T
qualsiasi T
negativo
negativo
positivo, diametro massimo < 4,5 cm
positivo, diametro massimo > 4,5 cm
qualsiasi N
negativo
negativo
negativo
negativo
positivo
TNM tumori digitali (cane)
T = tumore primitivo
T1 = diametro massimo < 2 cm; tumore superficiale o esofitico
T2 = diametro massimo 2-5 cm; minima invasione
T3 = diametro > 5 cm o tumore infiltrante il sottocute
T4 = tumore che invade fascia od osso
N = linfonodi regionali
N0 = linfonodi regionali istologicamente non interessati
Nr = linfonodi regionali precedentemente rimossi
91
PARTE GENERALE
capitolo 11
TERAPIA DEL DOLORE
Laura Marconato
Introduzione
Eziopatogenesi
Analisi condotte in oncologia umana descrivono prevalenza di dolore in 28 per cento dei pazienti oncologici con diagnosi recente di cancro,
in 50 per cento dei pazienti con diagnosi preesistente di cancro e in > 80 per cento dei pazienti in
fase avanzata/terminale.
Si può ipotizzare la stessa prevalenza anche in
oncologia veterinaria; pertanto, il trattamento del
dolore diventa eticamente imperativo.
Purtroppo, ancora troppo spesso il dolore da cancro è sottovalutato e trattato in maniera inadeguata. Possibili motivazioni sono mancato riconoscimento di sofferenza, inadeguata raccolta di informazioni anamnestiche (soprattutto in merito a qualità di vita), scarsa valutazione del paziente alla diagnosi e durante follow-up, timori e pregiudizi su rischi connessi allʼimpiego di alcuni analgesici e difficoltà burocratiche connesse al loro utilizzo.
È dovere del medico veterinario alleviare il dolore del
paziente oncologico, rispondere alle domande del
proprietario e fortificare il rapporto uomo/animale.
Il dolore associato a malattia oncologica può
derivare da invasione del tumore in tessuti adiacenti, trattamenti antitumorali, debilitazione cronica del paziente, sindromi paraneoplastiche, malattie concomitanti e/o pregresse (tabella I).
Il dolore può caratterizzare le fasi precoci o terminali della malattia e può essere dʼintensità variabile, aumentando mano a mano che la malattia
evolve. Il dolore può essere il primo sintomo di
neoplasia, ma più spesso tende a manifestarsi
quando essa è già avanzata e ha invaso e distrutto
le strutture adiacenti. Nel paziente oncologico bisogna per lo più affrontare un dolore cronico.
Schematicamente, si può così riassumere la base neurofisiologica del dolore: i recettori nocicettivi, ampiamente distribuiti a livello cutaneo, muscolare, connettivale e viscerale, trasmettono al
midollo spinale un impulso; qui, esso viene filtrato e integrato, prima di poter procedere ai centri
sopraspinali (talamo, corteccia, sistema limbico e
formazione reticolare), dove viene decodificato. Il
Tabella I - Eziologia del dolore nel paziente oncologico.
dolore correlato
direttamente a neoplasia
invasione ossea, da parte del tumore primitivo o di sue metastasi
occlusione viscerale
compressione o invasione di tessuti molli
compressione o invasione nervosa
invasione e occlusione vascolare
infiammazione o necrosi
dolore associato
alle terapie antitumorali
dolore postchirurgia
dolore postchemioterapia:
• neuropatia periferica (alcaloidi della vinca)
• cistite emorragica (ciclofosfamide)
dolore postradioterapia: fibrosi, mielopatia da irradiazione, dermatiti/mucositi
dolore non correlato
cause concomitanti o pregresse
al tumore o alla sua terapia
128
capitolo 11
Terapia del dolore
risultato finale di questa intricata rete di informazioni ascendenti e discendenti, che vede coinvolti numerosi trasmettitori, si traduce in percezione
di dolore e in conseguente risposta a esso.
Classificazione
temporale e fisiopatologica
Il dolore acuto tipicamente viene percepito durante procedure diagnostiche o interventi terapeutici (chirurgia, radioterapia e chemioterapia),
mentre è raro che si verifichi durante le fasi iniziali
della malattia oncologica.
Il dolore cronico è comune nel paziente oncologico e tipicamente si verifica per meccanismi neuropatici. Provocano dolore cronico metastasi ossee, necrosi di midollo osseo, artrite, decubito o
impossibilità di movimento e neuropatie.
La classificazione fisiopatologica è utile sia per localizzare il dolore sia per indirizzare la terapia corretta.
Il dolore può essere classificato in nocicettivo (somatico e viscerale) e neuropatico. Il primo risponde bene, almeno inizialmente, a terapia farmacologica con oppiacei; il secondo richiede, generalmente, la somministrazione di farmaci antiepilettici, antidepressivi e antiaritmici.
Il dolore somatico può essere superficiale (cute e
sottocute) o profondo (tessuto connettivo, ossa, articolazioni, muscoli) e tende a essere ben localizzato e continuo, talvolta associato a prurito. Il dolore
osseo, provocato da un tumore primitivo oppure metastatico, rappresenta senza dubbio la causa più frequente di sofferenza nel paziente oncologico ed è tipicamente costante e dʼintensità crescente. Il meccanismo patogenetico vede coinvolti riassorbimento osseo indotto da sostanze rilasciate dal tumore,
stiramento periostale e spasmo muscolare reattivo.
Frequentemente, lʼinvasione ossea esita in frattura
patologica che va ad acuire il quadro.
Il dolore viscerale continuo interessa visceri e organi parenchimatosi ed è poco localizzato e profondo; quello viscerale incidente riguarda organi
cavi e dotti, è di tipo colico ed esacerbato da spasmi o dilatazioni. Un tumore che interessa un viscere parenchimatoso, come milza o fegato, può
provocare dolore attraverso la distensione della
capsula, ricca di nocicettori.
Il dolore neuropatico riguarda sistema nervoso centrale e periferico ed è solitamente provocato da
compressione da parte del tumore o di sue metastasi di midollo spinale o plessi nervosi, oppure rappresenta un effetto collaterale di chemioterapia, ra-
dioterapia o chirurgia. I tumori primitivi che più frequentemente interessano le vertebre sono osteosarcoma, condrosarcoma, emangiosarcoma, fibrosarcoma e mieloma multiplo; tra quelli metastatici, si
ricordano adenocarcinoma mammario, carcinomi
prostatico, epatico, renale e vescicale. In base alla
sede interessata, la compressione del midollo provoca deficit sensori, nonché vari gradi di paralisi (paraplegia fino a tetraplegia) e disturbi sfinterici.
Lʼinteressamento di plessi nervosi, quale brachiale e lombosacrale, determina la comparsa di sintomatologia dolorosa, che si estrinseca nelle fasi
più avanzate con debolezza, alterazione di riflessi e atrofia muscolare.
È doveroso ricordare che, in sede chirurgica, è
possibile lesionare accidentalmente un nervo, limitando quindi funzionalità della parte innervata e
determinando disturbi di sensibilità o insorgenza
di dolore. Chemioterapia e radioterapia possono
anchʼesse provocare dolore, per un fenomeno acuto reattivo, oppure per reazione tardiva. I citotossici potenzialmente neuropatici comprendono alcaloidi della vinca, 5-fluorouracile e cisplatino.
Valutazione del dolore
in medicina veterinaria
Alcuni segni o sintomi possono aiutare nello stabilire lʼentità del dolore e sono così schematizzati:
• pazienti con dolore moderato
- alterazioni comportamentali, di appetito, di attività e/o postura;
• pazienti con dolore intenso
- vocalizzazione, pianto;
- retrazione della parte dolente alla palpazione;
• segni aspecifici di dolore
- perdita di appetito fino ad anoressia;
- insonnia;
- tachicardia;
- respirazione affannosa;
- elevata temperatura corporea;
- midriasi;
- scialorrea.
Strategie terapeutiche
Il dolore nel paziente oncologico può essere
così gestito:
• controllando la patologia sottostante (tumore) mediante chirurgia, radioterapia e/o chemioterapia;
129
PARTE GENERALE
• alterando trasduzione, trasmissione e percezione del dolore nellʼindividuo mediante modalità farmacologiche, non farmacologiche e/o interventiste;
• intervenendo per ridurre sofferenza e migliorare la
gestione complessiva del paziente, risolvendo costipazione, diarrea, perdita di appetito, insonnia
e vari problemi geriatrici, tra cui osteoartrite, cistite, perdita di vista/udito e obesità.
Il controllo del dolore nel paziente oncologico non
deve essere indicato come problema secondario,
bensì deve far parte del quadro terapeutico globale e deve, quindi, essere preliminare a ogni altro approccio. Nel paziente in fase avanzata o terminale,
il tumore spesso non risponde più a trattamenti antineoplastici e la terapia primaria può diventare addirittura controproducente, esacerbando eventuali
effetti collaterali. Ecco che la terapia del dolore diventa obbiettivo da perseguire, priorità assoluta.
Per adottare la strategia terapeutica migliore, è necessario valutare origine e intensità del dolore.
I princìpi guida da seguire sono:
• prevenire il dolore - non attendere cioè che lʼanimale manifesti sofferenza prima di somministrare un analgesico;
• somministrare inizialmente farmaci antinfiammatori non steroidei, per sostituirli o affiancarli a
oppiacei, nel caso i primi siano inefficaci;
• personalizzare la terapia in base a caratteristiche
individuali (soglia del dolore); molto utile è la stesura di accurata anamnesi analgesica che descriva farmaci somministrati, loro dosaggio, intervallo
di somministrazione e risultato ottenuto, in modo da
identificare abbastanza velocemente gli antidolorifici più efficaci in un dato paziente.
Oltre agli ovvî benefici di terapia antidolorifica, è utile ricordare che la prevenzione del dolore prima di
chirurgia contribuisce a diminuire la dose di anestetico richiesta per mantenere lʼanestesia. Nel periodo postoperatorio, il dolore aumenta stato di debilitazione del paziente, accentua stato catabolico,
prolunga ospedalizzazione e ricovero; sʼintuisce,
dunque, il vantaggio di una copertura analgesica
anche dopo lʼintervento chirurgico.
Il controllo del dolore prevede sua modulazione
farmacologica e utilizzo singolo o combinato di chirurgia e/o radioterapia e/o chemioterapia palliative. Detti interventi terapeutici hanno ruolo nella terapia palliativa soltanto se i benefici del trattamento
superano gli effetti collaterali.
130
WHO ha elaborato un sistema gerarchico “a gradini”, per gestire nel modo più corretto il dolore. Il
primo approccio antidolorifico (gradino 1) prevede la somministrazione di farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), da associare, in caso di
necessità, a oppiacei (gradino 2). Se ancora il dolore non è controllato, ma anzi si acuisce, si può
aumentare la dose di oppiacei (gradino 3).
In caso di dolore persistente, prima di cambiare categoria di analgesico, è meglio sostituire il farmaco
con uno alternativo appartenente allo stesso gruppo.
In linea generale, vale quanto segue: il dolore di
lieve o moderata entità va trattato con FANS, assicurandosi che non ci siano controindicazioni sistemiche. Quando il dolore si acuisce, è possibile aggiungere oppioidi al regime terapeutico. Se il
dolore aumenta ancora, è possibile innalzare la
dose di oppioidi.
È bene ricordare che lʼanalgesia continua facilita
il mantenimento di benessere animale; pertanto, i
farmaci antidolorifici non dovrebbero essere somministrati solo quando il dolore diventa moderatointenso.
Antistaminici,
antidepressivi triciclici
e antiserotoninergici
Lʼistamina favorisce trasduzione e trasmissione
del dolore attraverso la stimolazione di vari recettori. Alcuni antistaminici (clorfeniramina, loratidina, idrossizina, amitriptilina) sono indicati per il trattamento di dolore legato a flogosi e chirurgia e di
dermatiti indotte da radioterapia. Gli antistaminici
sono inoltre stimolatori di appetito e antiemetici. In
combinazione con oppiacei, rappresentano la prima scelta nel paziente oncologico.
Gli antidepressivi triciclici (trazadone, mirtazapina) possono alleviare il dolore prima che lʼeffetto
sedativo sia evidente; pertanto, possono essere
utilizzati in combinazione con oppiacei. Essi sono
inibitori selettivi di ricaptazione di serotonina e noradrenalina e mostrano attività anticolinergica e
antistaminica. Sono particolarmente indicati nel
trattamento di dolore cronico, anche se lʼesatto
meccanismo dʼazione è ancora poco chiaro.
Antinfiammatori non steroidei
Gli antinfiammatori non steroidei sono farmaci analgesici efficaci nel controllare dolore acuto e cronico e hanno il vantaggio di avere lunga durata dʼazio-
capitolo 11
Terapia del dolore
ne (tabella II). Per questi motivi, FANS rappresentano la prima scelta per controllare il dolore nel
paziente oncologico e dovrebbero essere utilizzati
in prima battuta, a meno che non esistano controindicazioni. È importante sottolineare che molti FANS (in particolare, coxib) svolgono anche attività antitumorale. Infatti, numerosi tumori sovraesprimono COX-2; pertanto, lʼinibizione recettoriale da parte di farmaci inibenti (FANS appunto) esita in risposta antitumorale.
FANS hanno azione nocicettiva periferica, bloccando la sintesi di prostaglandine a livello di recettore. In
altre parole, FANS inibiscono sensibilizzazione del
recettore a stimolo dolorifico e trasmissione a livello
spinale. Il meccanismo dʼazione prevede inibizione
di ciclossigenasi (COX) e mancata sintesi di prostaglandine a partire da acido arachidonico contenuto
nelle membrane cellulari. Le prostaglandine, veri e
propri mediatori del processo infiammatorio, oltre a
rilasciare sostanze algogene, sensibilizzano i nocicettori allo stimolo doloroso; inoltre, facilitano la trasmissione dellʼimpulso doloroso attraverso midollo
spinale. Alcune prostaglandine facilitano il riassorbimento osseo esacerbando il dolore in caso di tumore osseo primitivo e metastatico.
Sullʼazione nocicettiva centrale di FANS si sta ancora indagando.
La differenza principale tra vari FANS risiede in tipo e incidenza di tossicità.
Si conoscono due classi di COX: COX-1 e COX-2.
Tabella II - Antinfiammatori utilizzati in medicina veterinaria.
farmaco
dose e via di somministrazione
specie
livello di dolore
acido
acetilsalicilico
10-25 mg/kg ogni 8-12 ore po
10 mg/kg ogni 48 ore po
10-20 mg/kg sid po
cane
gatto
furetto
lieve
lieve
lieve
carprofene
2,2 mg/kg ogni 12 ore po
0,5-2 mg/kg ogni 12 ore po
cane
gatto
moderato
moderato
piroxicam
0,3 mg/kg sid po
0,3 mg/kg ogni 24-48 ore po
cane
gatto
moderato
moderato
meloxicam
0,2 mg/kg po (o sc, ev), poi 0,1 mg/kg sid po
0,2 mg/kg po o sc, poi 0,1 mg/kg per 2-3 giorni,
poi ulteriore riduzione
cane
gatto
moderato
moderato
naprossene
5 mg/kg po, poi 1,2-2,8 mg/kg sid po
cane
moderato
ketoprofene
2 mg/kg sid sc, im, ev, poi 1 mg/kg/die po, ev, im, sc
2 mg/kg sid sc, poi 1 mg/kg/die
cane
gatto
moderato
moderato
flunissina
meglumina
come antipiretico: 0,25 mg/kg ev, sc, im,
eventualmente da ripetere
come analgesico: 1 mg/kg ev, sc, im
come analgesico: 0,25 mg/kg ev, sc, im
come analgesico: 0,5-2 mg/kg sid po, im
cane e gatto moderato
cane
gatto
furetto
moderato
moderato
moderato
acido tolfenamico dolore acuto: 4 mg/kg sid sc, im, po per 3-5 giorni
cane e gatto moderato
dolore cronico: 4 mg/kg sid sc, im, po per 3-5 giorni; cane
moderato
la dose parenterale è indicata
per il primo giorno soltanto
etodolac
10-15 mg/kg sid po
cane
moderato
deracoxib
1-2 mg/kg sid allʼoccorrenza
cane
moderato
tepoxalin
10 mg/kg sid po
cane
moderato
131
PARTE GENERALE
• COX-1 è coinvolta in regolazione di alcune funzioni omeostatiche dellʼorganismo, come mantenimento dʼintegrità di mucosa gastrica (facilitando
secrezione di muco), di flusso renale e di funzionalità piastrinica, mediante la produzione di
prostaglandine “buone” o costitutive, molto utili
allʼorganismo.
• COX-2 interviene nella mediazione di dolore e
flogosi mediante la produzione delle cosiddette
prostaglandine inducibili non fisiologiche, che iniziano e perpetuano il processo infiammatorio (vasodilatazione, alterazione di permeabilità capillare, potenziamento di altri mediatori della flogosi, chemiotassi e iperalgesia).
Lʼinibizione di COX-1 è, quindi, responsabile della tossicità indotta da FANS, mentre lʼinibizione di
COX-2 è associata a effetti analgesici e antinfiammatori di FANS. FANS di nuova generazione,
che inibiscono selettivamente COX-2, migliorano
la tollerabilità gastrica e renale. È importante monitorare con attenzione i pazienti in chemioterapia
trombocitopenizzante, che contemporaneamente
assumono FANS, per la possibile insorgenza di
sanguinamenti gastroenterici. FANS, infatti, inibiscono lʼaggregazione piastrinica, esacerbando gli
eventuali difetti di coagulazione. Inoltre, è consigliabile evitare la contemporanea somministrazione di altri FANS, glicocorticoidi e antibiotici potenzialmente nefrotossici (aminoglicosidici). FANS
devono essere prescritti insieme a uno o più gastroprotettori (antistaminici anti-H2, inibitori della
pompa protonica, analoghi di prostaglandine).
FANS possono essere somministrati per tutte le vie.
Dopo un intervento chirurgico, si preferisce la somministrazione parenterale (ev, im, sc), fino a quando il paziente riprende ad alimentarsi autonomamente. Altrimenti, per motivi pratici e perché molto
spesso la terapia è somministrata a livello domiciliare, si predilige la somministrazione orale.
Negli ultimi anni, sono state introdotte in questʼampia classe di analgesici interessanti nuove
molecole caratterizzate da ridotta tossicità a parità di efficacia.
• Acido acetilsalicilico. Inibitore non selettivo di
COX ad attività analgesica, antinfiammatoria e
antiaggregante piastrinico, utilizzato in cani e gatti. In questʼultima specie, tuttavia, il dosaggio richiede particolare monitoraggio, poiché esiste
inabilità fisiologica a metabolizzare ed eliminare
i salicilati. Il gatto, infatti, presenta innata defi132
cienza dellʼenzima epatico glucoroniltransferasi:
lʼemivita di acido acetilsalicilico è, pertanto, prolungata e, se somministrato ripetutamente, può
portare a serie intossicazioni. Nei cani può provocare importanti sanguinamenti gastroenterici
ed è controindicato in pazienti con insufficienza
renale, pregresse ulcere e disordini emorragici.
Lʼacido acetilsalicilico, infatti, inibisce in modo
permanente e irreversibile la formazione di trombossani, risultando in attività anticoagulante.
• Carprofene. Inibitore preferenziale (non selettivo) di COX-2. Indicato per la sua azione analgesica e antinfiammatoria nel cane. Si consiglia di
monitorare funzionalità epatica. Nel gatto, non è
ancora stata valutata in pieno la sicurezza.
• Piroxicam. FANS ad attività analgesica e antitumorale indiretta (mediante interazione con sistema immunitario). A questo riguardo, maggiori dettagli si possono trovare nel capitolo 18.
• Meloxicam. Inibitore preferenziale (non selettivo) di COX-2, disponibile in formulazione sia orale sia iniettabile. Attualmente, non ha mostrato
tossicità renale o epatica. Lʼattività analgesica è
stata ampiamente descritta nel cane, mentre nel
gatto sono disponibili soltanto pochi dati.
• Naprossene. FANS analgesico, antinfiammatorio e antipiretico. È spesso difficile dosare accuratamente questo FANS e, avendo a disposizione alternative efficaci e più sicure, è raramente
utilizzato in medicina veterinaria.
• Ketoprofene. Inibitore equivalente di COX-1 e
COX-2. Da alcuni autori, ketoprofene è considerato lʼanalgesico non steroideo dʼelezione del
gatto. Può essere somministrato per via orale o
parenterale.
• Flunissina meglumina. Potente inibitore di COX ad
attività analgesica, antinfiammatoria e antipiretica.
Deve essere utilizzata con cautela in animali con
ulcere gastroenteriche, lesioni renali o malattie
ematologiche. Se utilizzato come analgesico, si
consiglia la somministrazione di unʼunica dose; se
lʼanimale non risponde, unʼulteriore dose è raramente efficace, mentre è potenziata la tossicità. È
un prodotto esclusivamente per uso veterinario.
• Acido tolfenamico. Potente inibitore di COX, che
esibisce attività farmacologica analoga a quella
di acido acetilsalicilico. Inibendo lʼattività anche
di trombossani, lʼacido tolfenamico altera la funzionalità piastrinica. Lʼacido tolfenamico è efficace nel dolore acuto, sia nel cane sia nel gatto, e
nel dolore cronico, ma solo nel cane.
• Etodolac. Inibitore non selettivo di COX ad atti-
PARTE GENERALE
deve essere curativo, a causa di radiosensibilità
di strutture normali adiacenti.
In caso di protocolli curativi (realizzabili, appunto,
in caso di lunga aspettativa di vita), gli effetti collaterali acuti sono considerati accettabili fino a un
certo grado, mentre gli effetti collaterali tardivi (che
possono comparire dopo mesi o anni dal trattamento) devono essere evitati, perché irreversibili.
La radioterapia palliativa ha lo scopo di migliorare la qualità di vita del paziente, riducendo dolore
o trattando sintomi, quali dispnea, emorragia, paralisi e problemi di defecazione/minzione. In questo caso, gli effetti collaterali acuti devono essere
evitati o ridotti al minimo. Talvolta, con tali protocolli palliativi, è possibile influenzare positivamente
(e indirettamente) non solo qualità di vita, ma anche quantità di vita.
Come funziona
la radioterapia?
La radioterapia danneggia il DNA e diventa
efficace durante il processo di divisione cellulare:
quando le cellule tentano di dividersi, muoiono. Tale evento non necessariamente si verifica al primo tentativo mitotico. Generalmente, il tempo di
risposta a radioterapia dipende da tasso proliferativo della neoplasia. Tumori a elevata attività proliferativa rispondono altrettanto velocemente (entro giorni), mentre tumori ad attività proliferativa
lenta necessitano di più tempo per rispondere (settimane-mesi).
Unʼeccezione è rappresentata da tessuto linfatico, ghiandole lacrimali e salivari e testicoli, poiché
le cellule che originano da tali distretti muoiono nel
giro di poche ore per apoptosi.
Frazionamento
della radioterapia
Nel 1975, Rodney Withers ha introdotto il concetto di “quattro R di radiobiologia: riparazione,
riossigenazione, ridistribuzione, ripopolamento”.
spalla più larga rispetto a quelle di cellule neoplastiche, in cui (sulla base del modello lineare quadratico) si ha ridotto rapporto α/β; tale rapporto quantifica la sensibilità dei tessuti al frazionamento.
Per tale motivo, la radioterapia deve essere elargita in piccole frazioni: nellʼintervallo tra le sedute,
i tessuti normali possono recuperare, riducendo
gli effetti collaterali del trattamento.
La riparazione di danni subletali a carico di tessuti sani si completa nellʼarco di circa 6 ore, con lʼeccezione di tessuti del sistema nervoso centrale,
per i quali ci vuole più tempo. Questo dato è importante nel caso di trattamenti accelerati (descritti
in un paragrafo successivo).
Riossigenazione
Circa due terzi di danno biologico prodotto da radiazioni è ossigeno-dipendente e mediato da radicali liberi (danno indiretto). Circa un terzo di danno biologico prodotto da radiazioni è invece diretto, poiché indipendente da ossigeno.
Il danno indiretto al DNA provocato da radicali liberi può essere riparato in condizioni ipossiche,
ma può diventare permanente o irreparabile se
lʼossigeno è disponibile (ipotesi di fissazione dellʼossigeno). Da ciò si evince quanto sia importante lʼossigeno in radioterapia. Le regioni ipossiche
del tumore (generalmente, centrali o necrotiche)
sono tendenzialmente radioresistenti.
Lʼipossia può essere cronica o acuta: la prima deriva da limitata diffusione di ossigeno attraverso i
tessuti; la seconda è provocata da ostruzione temporanea di vasi neoplastici (perfusione).
Durante radioterapia, le cellule sono riossigenate,
indipendentemente da tipo dʼipossia. La riossigenazione è un importantissimo fattore che contribuisce alla radiosensibilità dei tumori. Lʼipossia aumenta di 2,5-3 volte la resistenza delle cellule neoplastiche allʼeffetto di radiazioni rispetto a distretti meglio ossigenati (rapporto di potenziamento di
ossigeno, OER).
Ridistribuzione
Riparazione
Tanto più le cellule sono capaci di riparare il danno
al DNA, tanto più sono radioresistenti. In generale,
le cellule normali hanno migliore capacità riparativa rispetto a cellule neoplastiche, traducendosi in
vantaggio terapeutico.
Le curve di sopravvivenza di cellule normali hanno
138
Sono particolarmente sensibili alle radiazioni le
cellule che si dividono con maggiore frequenza e,
quindi, tra queste, anche le cellule tumorali. Le cellule molto differenziate che non replicano, come
eritrociti, cellule muscolari e nervose, sono tipicamente radioresistenti. Fibroblasti e cellule endoteliali hanno sensibilità alle radiazioni che è con-
capitolo 12
Principi di radioterapia
siderata intermedia e il loro danneggiamento è responsabile di effetti collaterali tardivi.
La radiosensibilità varia in base a distribuzione delle cellule nel ciclo cellulare. Le cellule che si trovano in fase M (mitosi) o G2 al momento dellʼirradiazione sono radiosensibili. Le cellule, invece, in
fase S tardiva (sintesi di DNA) o G1 (G0) sono radioresistenti. Possibili cause includono maggiore
capacità riparativa durante fase S, presenza di
DNA condensato in fase M, con indisponibilità di
enzimi riparatori, variazioni in gruppi sulfidrilici, che
fungono da radioprotettori.
La ridistribuzione di cellule durante le frazioni di
protocollo radioterapico consiste nellʼavanzamento di cellule radioresistenti a livelli più radiosensibili del ciclo cellulare.
Dose radiante
La dose assorbita (misurata in Gray, Gy) rappresenta lʼenergia depositata dalla radiazione a livello di massa di materiale nel sito dʼinteresse:
1 Gray (Gy) = 1 Joule/kg
Tale energia può essere depositata nel tumore a
opera di particelle cariche (radiazioni ionizzanti) o
non cariche (radiazioni indirettamente ionizzate).
Come anticipato, le cellule che non riescono a riparare il danno del DNA provocato da radiazioni
sono considerate radiosensibili e richiedono, quindi, una dose radiante totale inferiore.
Tipi di radioterapia
Ripopolamento
Il trattamento radioterapico, così come la chemioterapia, può stimolare le cellule neoplastiche sopravvissute a dividersi più rapidamente (ripopolazione accelerata o clonogenica). Withers e collaboratori hanno dimostrato, in caso di tumori di testa e
collo, che la ripopolazione clonogenica accelera circa 28 giorni dopo lʼinizio di radioterapia frazionata.
In altre parole, se il trattamento radioterapico dura
più di 28 giorni, è necessario aumentare la dose per
frazione di circa 0,6 Gy/giorno, per contrastare il ripopolamento. Per questo motivo, la radioterapia dovrebbe essere completata il prima possibile, cioè
quando gli effetti collaterali sono ancora accettabili, dal momento che il prolungamento del tempo di
trattamento non protegge da effetti tardivi, ma ha
grande impatto su effetti collaterali precoci.
Il ripopolamento è il motivo per cui è meglio, nel
caso sia necessario, posticipare lʼinizio di radioterapia, anziché creare pause una volta che il protocollo è stato iniziato.
Tipo di frazionamento e durata totale del trattamento dipendono essenzialmente da tipo di tumore e finalità della terapia (curativa o palliativa).
Un esempio di trattamento accelerato (la stessa
dose totale è somministrata molto più velocemente)
è rappresentato da protocollo radiante per carcinomi squamocellulari nel gatto, caratterizzati da
proliferazione molto elevata; tale protocollo è utilizzato per contrastare il ripopolamento.
Per ragioni di radiobiologia, carcinoma prostatico
e melanoma richiedono, invece, trattamenti ipofrazionati, caratterizzati da somministrazione di poche dosi, ma più elevate.
Le tecniche di radioterapia includono teleterapia, brachiterapia e radioterapia metabolica.
Teleterapia
La teleterapia è il metodo di radioterapia maggiormente utilizzato in medicina sia umana sia veterinaria. Questa tecnica applica pacchetti di energia
dallʼesterno, senza contatto diretto con il tumore.
La teleterapia si avvale di vari apparecchi.
• Ortovoltaggio (150-350 kV): può essere utilizzato per lesioni superficiali, dello spessore che varia da qualche millimetro a pochi centimetri (dipende da filtrazione del fascio, attuabile, per
esempio, con rame). La dose massimale è sempre somministrata a livello di superficie cutanea;
a 2 cm di profondità, la dose diminuisce di circa
90 per cento. Per effetto fotoelettrico, lʼassorbimento osseo è sempre elevato. La pianificazione terapeutica è manuale e, nella maggior parte dei casi, è utilizzato soltanto un fascio.
• Cobalto-60 (due raggi γ di 1,17 e 1,33 MeV; emivita di 5,26 anni): la sorgente radioattiva si trova
nella testa della macchina e i raggi γ sono diretti tra collimatori alla regione da irradiare. Lʼenergia è nel range di megavoltaggio e rende possibile irradiare tumori localizzati in profondità. Gli
svantaggi includono continua emissione di radiazioni e poca precisione. In merito a questʼultimo punto, la dimensione della fonte di radiazioni (circa 2 cm) crea unʼampia penombra, che
ha impatto negativo sui margini del campo di radioterapia, risultando, appunto, in imprecisione.
139
PARTE GENERALE
Da questo esempio si evince che il protocollo combinato ha intensità di dose sommata superiore rispetto a doxorubicina in monoterapia (1,8 verso 1),
offrendo vantaggio terapeutico.
Per densità di dose sʼintende la quantità di chemioterapico somministrata in un lasso di tempo
variabile e si basa sulla somministrazione di farmaci a intervalli ravvicinati (figura 3 B).
Un regime che somministra dose x in giorni y è meno dose-denso di un regime che somministra x in
giorni y/2. In questo caso, lʼintensità di dose è stata ottenuta mediante accorciamento dʼintervallo, in
altre parole aumentando la densità di dose. Scopo
dei regimi dose-densi è somministrare farmaci il più
frequentemente possibile, per distruggere malattia
minima residua ed evitare lʼemergenza di cloni chemioresistenti. Un esempio caratteristico di regime
dose-denso è la chemioterapia metronomica, che
tuttavia non si prefigge di somministrare elevate dosi di chemioterapico (dose cumulativa), ma piccolissime dosi a brevi intervalli.
Terapia multimodale
Lʼapproccio terapeutico moderno al cancro
(essenzialmente tumori solidi caratterizzati da comportamento biologico aggressivo) prevede spesso
trattamenti multimodali: in altre parole, chirurgia e radioterapia, per il controllo locale, e chemioterapia,
per il trattamento di malattia metastatica (foci sia micrometastatici sia macrometastatici). I cosiddetti protocolli di associazione combinano diverse strategie
terapeutiche nel tentativo di ottenere sinergie ed effetti di potenziamento, per migliorare, in ultimo, la
prognosi dei pazienti oncologici.
Gli scopi della terapia multimodale sono:
• riduzione di stadio clinico di malattia (down-staging);
• eliminazione di micrometastasi sistemiche;
• trattamento di malattia minima residua dopo asportazione chirurgica;
• prolungamento di sopravvivenza.
Nel tempo sono state proposte molteplici associazioni, per quanto riguarda sia strategia terapeutica (combinazioni tra chirurgia, radioterapia e
chemioterapia), sia cronologia di applicazione (trattamento neoadiuvante o adiuvante).
La scelta di terapia antitumorale e sue associazioni si basa sui seguenti fattori:
162
• valutazione completa di estensione neoplastica
(stadiazione clinica);
• conoscenza approfondita di caratteristiche intrinseche del tumore, incluse vie di metastatizzazione, radiosensibilità e chemiosensibilità;
• valutazione di sede anatomica, tipo istologico e
strutture normali nella regione da trattare;
• definizione di scopi terapeutici (curativi o palliativi);
• selezione di modalità di trattamento appropriate,
inclusi “dose” (chirurgica, radiante o chemioterapica) e volume neoplastico da trattare (modalità adiuvante o neoadiuvante);
• valutazione delle condizioni generali del paziente.
Chemioterapia neoadiuvante
Il razionale di chemioterapia neoadiuvante si basa
sullʼipotesi di Goldie-Coldman. Se è vero che il volume di cellule neoplastiche chemioresistenti aumenta con lʼincrementare di dimensioni del tumore,
allora la chemioterapia ha massima efficacia e potenziale di cura nelle fasi iniziali di malattia. Inoltre,
somministrando chemioterapia prima di intervenire
chirurgicamente, non si avrebbero fenomeni cicatriziali, che alterano il letto vascolare, compromettendo lʼefficace distribuzione di chemioterapico.
Gli scopi principali di chemioterapia neoadiuvante sono ridurre le dimensioni del tumore primitivo,
per renderlo aggredibile con chirurgia, e bersagliare foci micrometastatici sistemici clinicamente
occulti, tipicamente molto sensibili allʼazione farmacologica. È anche possibile individuare pazienti
che rispondono al trattamento e che possono essere sottoposti a chemioterapia adiuvante in seguito ad asportazione chirurgica del tumore, utilizzando il tumore come marker biologico di risposta a farmaco somministrato. Una scarsa risposta a chemioterapia identifica, invece, quei pazienti per i quali è necessario valutare seriamente approcci terapeutici alternativi.
La chemioterapia neoadiuvante trova poche applicazioni dirette nella pratica clinica: ciò è da ricondurre agli accertati svantaggi, tra cui ritardato trattamento
definitivo locoregionale (in caso di mancata risposta
a chemioterapia), peggioramento delle condizioni del
paziente (in caso di tossicità), possibilità di metastatizzazione a distanza (in caso di perdita dʼimmunosorveglianza indotta da chemioterapia).
Chemioterapia adiuvante
Dopo asportazione chirurgica di un tumore, il volu-
capitolo 13
Principi di chemioterapia
me che resta (malattia minima residua, sia locale
sia sistemica) può essere bersagliato con chemioterapia, se naturalmente esiste indicazione (per
esempio, tumori biologicamente aggressivi, a elevato potenziale metastatico di alto grado, con linfonodo regionale positivo e/o con elevato rischio
di recidiva locale). Le cellule residue presentano,
infatti, elevata frazione di accrescimento e sono
pertanto sensibili al trattamento chemioterapico,
che sarebbe così in grado di eliminare micrometastasi clinicamente occulte. Non devono inoltre
essere affrontati i problemi tipici di tumor burden
elevato, tra cui ridotto apporto vascolare, ipossia,
eterogeneità neoplastica ed emergenza di cloni
chemioresistenti.
Per tumori a elevato rischio di recidiva locale, lʼimpiego di chemioterapia adiuvante è quanto mai
controverso. La necessità di chemioterapia adiuvante è enfatizzata dalla consapevolezza che, una
volta recidivato, il tumore molto difficilmente risponderà a chemioterapia. Al tempo stesso, alcuni pazienti che ricevono chemioterapia adiuvante
non recidiverebbero in ogni caso, poiché lʼintervento chirurgico è già stato da solo risolutivo.
I princìpi che regolano la chemioterapia adiuvante sono i seguenti:
• somministrare soltanto chemioterapici efficaci
per quel tipo di tumore;
• il tumore deve essere stato asportato chirurgicamente;
• la chemioterapia deve essere iniziata il prima
possibile dopo chirurgia;
• somministrare chemioterapici alla massima dose tollerata;
• somministrare chemioterapia per un periodo di
tempo limitato.
Lʼindicatore principale di efficacia (tasso di remissione completa) si perde in setting adiuvante, dal
momento che il tumore primitivo è stato rimosso.
Gli end-point principali sono dunque durata dʼintervallo libero da malattia e sopravvivenza complessiva. Nel singolo paziente, non è possibile stabilire se chemioterapia adiuvante ed eventuale tossicità sono state di beneficio o necessarie.
Radioterapia e chemioterapia
Lʼassociazione terapeutica radioterapia localechemioterapia sistemica è volta a ottenere maggiore attività antitumorale (ampliare lʼindice tera-
peutico), sia su tumore primitivo sia su micrometastasi sistemiche. Infatti, sebbene il controllo locoregionale del tumore sia della massima importanza per prolungare lʼintervallo libero, la presenza di micrometastasi compromette la riuscita di
trattamento chirurgico/radioterapico. Combinando
le due modalità, si bersagliano volumi neoplastici
differenti e si diminuisce la dose sia di chemioterapia sia di radioterapia, riducendo notevolmente
la tossicità secondaria a ciascun trattamento.
In merito a modalità di associazione, radioterapia
e chemioterapia possono alternarsi, succedersi nel
tempo oppure essere somministrate contemporaneamente. In questʼultimo caso, se si vuole dirigere lʼazione antineoplastica contro lo stesso obbiettivo (tumore principale), si utilizzano chemioterapici radiosensibilizzanti che incrementano lʼeffetto citolesivo dei raggi ionizzanti, somministrati, in genere, unʼora prima del trattamento radiante.
I meccanismi dʼazione alla base dellʼeffetto sinergico sono, dopo radioterapia, riossigenazione di cellule neoplastiche ipossiche, che sono quindi più facilmente raggiunte dai farmaci, mancata riparazione di danni subletali a carico di DNA di cellule neoplastiche e sincronizzazione del ciclo cellulare.
Laddove, invece, lʼassociazione contemporanea
abbia obbiettivi diversi (tumore primitivo o “santuari” inaccessibili a chemioterapici - radioterapia - e
micrometastasi al di fuori del campo dʼirradiazione - chemioterapia), si scelgono chemioterapici
non necessariamente radiosensibilizzanti efficaci
contro metastasi. Si parla, in questo caso, di associazione spaziale.
Valutazione
di risposta a chemioterapia:
end-point clinici
Per valutare se il trattamento chemioterapico è stato efficace, è necessario innanzitutto aver
stabilito in quale setting è stata somministrata la
chemioterapia, se con strategia dʼinduzione, adiuvante o neoadiuvante.
Chemioterapia dʼinduzione
Si applica su pazienti con tumori in genere avanzati e misurabili. La risposta a chemioterapia viene classificata come remissione completa, remissione parziale, malattia stabile e progressione. Per
remissione sʼintende scomparsa parziale o totale
di segni e sintomi collegati allo stato patologico.
163
PARTE GENERALE
capitolo 14
CHEMIOTERAPICI
IN MEDICINA VETERINARIA
Laura Marconato
Introduzione
Negli ultimi decenni, lʼoncologia medica ha visto sviluppare numerosi farmaci antineoplastici,
utilizzati con successo non solo in medicina umana, ma anche in medicina veterinaria.
A differenza di chirurgia e radioterapia, che non possono superare il limite del controllo locoregionale del
tumore, la chemioterapia svolge azione sistemica e
deve, quindi, essere presa in considerazione per tumori del sistema emolinfatico, quali linfoma, leucemie, mieloma multiplo e altre neoplasie emopoietiche, oppure tumori che hanno elevato potenziale
metastatico. Il più delle volte, tuttavia, la chemioterapia è utilizzata in panorama multidisciplinare, insieme cioè a chirurgia e/o radioterapia.
Al contrario della chirurgia, in genere più facilmente
accettata dai proprietari perché rimuove il tumore,
la chemioterapia non ha questo carattere dʼimmediatezza ed è, pertanto, più difficilmente apprezzata. Inoltre, lʼeventuale tossicità secondaria
al trattamento può provocare conflitto decisionale
tra qualità di vita e più lunga sopravvivenza.
Il veterinario oncologo diventa figura di riferimento che deve essere in grado di trovare lʼequilibrio
tra validità di sforzo terapeutico e accanimento,
stabilendo rapporto di fiducia e di continua comunicazione con il proprietario.
Come calcolare
la dose di chemioterapico
La somministrazione di chemioterapia a un
paziente comporta, da un lato, effetto terapeutico
(desiderato), dallʼaltro, effetto tossico (indesiderato). Scopo della chemioterapia è massimizzare la
risposta terapeutica e minimizzare la tossicità inaccettabile.
Le variabili correlate al dosaggio, che consentono
166
di raggiungere tale scopo, sono quantità di farmaco somministrato e intervallo di somministrazione.
In condizioni ideali, sarebbe necessario conoscere per ogni chemioterapico il rapporto tra dose,
conseguenze terapeutiche e tossiche e durata di
effetto. Sfortunatamente, in medicina veterinaria
spesso mancano tali informazioni. Inoltre, differenze genotipiche e fenotipiche fanno sì che lo
stesso dosaggio di chemioterapico provochi, in individui diversi, profili farmacocinetici variabili, con
differenti risposte terapeutica e tossica.
I chemioterapici hanno indice terapeutico ristretto,
ovvero sono farmaci poco maneggevoli, e le conseguenze di modesta overdose o di piccolo sottodosaggio possono essere fatali per il paziente (tossicità inaccettabile o mancata risposta terapeutica).
È perciò imperativo dosare i chemioterapici accuratamente e conoscerne la farmacologia clinica.
In studi tossicologici, lʼutilizzo di peso corporeo per
dosare i farmaci (mg/kg) non consente correlazione
tra animali roditori ed esseri umani. Comparando uomo e topo, 1 mg/kg rappresenta una dose drammaticamente differente e questo a causa di dimensioni, gittata cardiaca e distribuzioni epatica e renale, mentre 1 mg/m2 è in sostanza la stessa dose.
Il dosaggio di farmaci in base a superficie corporea (mg/m2) permette di somministrare al paziente una dose più sicura, soprattutto in casi in cui
esiste differenza estrema di taglia, come, per esempio, soggetto adulto e giovane oppure diverse razze di cani (tabelle I e II). Utilizzando la superficie
corporea, vengono a essere eliminate le differenze di metabolismo basale, distribuzione, metabolismo ed eliminazione di farmaco, che normalmente
esistono tra cani piccoli e cani grandi.
La formula utilizzata per estrapolare la superficie
corporea dal peso dellʼanimale è la seguente:
BSA (superficie corporea) =
10 x W (peso corporeo in grammi)2/3
capitolo 14
Chemioterapici in medicina veterinaria
Tabella I - Conversione peso/superficie corporea per
cani.
Tabella II - Conversione peso/superficie corporea per
gatti.
kg
m2
kg
m2
kg
m2
kg
m2
0,5
1,0
2,0
3,0
4,0
5,0
6,0
7,0
8,0
9,0
10,0
11,0
12,0
13,0
14,0
15,0
16,0
17,0
18,0
19,0
20,0
21,0
22,0
23,0
24,0
25,0
0,06
0,10
0,15
0,20
0,25
0,29
0,33
0,36
0,40
0,43
0,46
0,49
0,52
0,55
0,58
0,60
0,63
0,66
0,69
0,71
0,74
0,76
0,78
0,81
0,83
0,85
26,0
27,0
28,0
29,0
30,0
31,0
32,0
33,0
34,0
35,0
36,0
37,0
38,0
39,0
40,0
41,0
42,0
43,0
44,0
45,0
46,0
47,0
48,0
49,0
50,0*
0,88
0,90
0,92
0,94
0,96
0,99
1,01
1,03
1,05
1,07
1,09
1,11
1,13
1,15
1,17
1,19
1,21
1,23
1,25
1,26
1,28
1,30
1,32
1,34
1,36
0,1
0,2
0,3
0,4
0,5
0,6
0,7
0,8
0,9
1,0
1,2
1,4
1,6
1,8
2,0
2,2
2,4
2,5
2,6
2,8
3,0
3,2
3,4
3,5
3,6
3,8
4,0
4,2
4,4
4,5
4,6
4,8
0,022
0,034
0,045
0,054
0,063
0,071
0,079
0,086
0,093
0,100
0,113
0,125
0,137
0,148
0,159
0,169
0,179
0,184
0,189
0,199
0,208
0,217
0,226
0,231
0,235
0,244
0,252
0,260
0,269
0,273
0,277
0,285
5,0
5,2
5,4
5,5
5,6
5,8
6,0
6,2
6,4
6,5
6,6
6,8
7,0
7,2
7,4
7,5
7,6
7,8
8,0
8,2
8,4
8,5
8,6
8,8
9,0
9,2
9,4
9,5
9,6
9,8
10,0
0,292
0,300
0,307
0,311
0,315
0,323
0,330
0,337
0,345
0,348
0,352
0,360
0,366
0,373
0,380
0,383
0,387
0,393
0,400
0,407
0,413
0,416
0,420
0,426
0,432
0,439
0,445
0,449
0,452
0,458
0,464
*per peso > 50 kg, aggiungere 0,02 m2 per chilogrammo.
Ciò nonostante, lʼutilizzo della superficie corporea
per dosare i farmaci citotossici non è sempre giustificato; infatti, la disposizione di un farmaco non
è sempre proporzionale alla superficie corporea:
differenze in distribuzione, metabolismo ed escrezione di farmaco possono precludere lʼestrapolazione di dose tra specie diverse oppure tra individui diversi nellʼambito della stessa specie.
Per esempio, utilizzando la superficie corporea,
cani di piccola taglia (< 10 kg) e gatti ricevono, in
proporzione, dosi maggiori, e, quindi, hanno picco plasmatico, emivita, volume distribuito ed effetti collaterali maggiori rispetto a cani di grossa
taglia. Ne sono esempi doxorubicina, melphalan
e sali del platino.
Attualmente, in cani di piccola taglia e gatti, e solo per alcuni chemioterapici, si raccomanda di do-
sare il farmaco in base a peso corporeo e non in
base alla superficie.
Modalità di somministrazione
I chemioterapici possono essere somministrati
per via orale, endovenosa, intrarteriosa, sottocutanea, intralesionale, intraincisionale, intracavitaria, intravescicale e inalatoria. Efficacia e tossicità spesso variano in base alla via di somministrazione scelta ed errori tecnici, anche banali, possono compromettere lʼefficacia della terapia o accentuarne la tossicità.
I chemioterapici che possono essere somministrati
per via orale sono largamente impiegati in medicina veterinaria, sia in strategia dose-intensa, sia
167
capitolo 14
Chemioterapici in medicina veterinaria
biettivo è stabilizzare il paziente e non indurre remissione, minimizzando la tossicità. La chemioterapia metronomica, poiché somministrata in regime continuativo al paziente, impedirebbe il recupero di cellule neoplastiche, che si verifica, invece, negli intervalli di protocolli tradizionali. Bersagli di chemioterapia metronomica sono soprattutto cellule endoteliali e loro precursori midollari, il
cui ruolo è portare sostentamento al tumore.
Farmaci antineoplastici
I chemioterapici citotossici danneggiano le cellule neoplastiche, interferendo con sintesi di precursori di DNA oppure interagendo con DNA stesso, impedendone la duplicazione. Altri bersagli sono enzimi, membrana cellulare, microtubuli, ormoni e fattori di crescita. Purtroppo, non esistono
chemioterapici in grado di distinguere tra cellula
normale e tumorale: ciò spiega la tossicità associata a somministrazione di terapie citotossiche.
Tuttavia, essendo le cellule tumorali caratterizzate da crescita incontrollata, è probabile che esse
siano in fase di divisione cellulare quando viene
somministrato il chemioterapico e siano, pertanto, più sensibili a effetti nocivi.
I chemioterapici sono classificati didatticamente in
tre gruppi, secondo meccanismo dʼazione e fase
del ciclo cellulare durante la quale agiscono. Questa classificazione non deve essere considerata
assoluta, poiché, per molti chemioterapici, è ancora sconosciuto o poco chiaro il meccanismo
dʼazione.
• Agenti fase-specifici: distruggono le cellule che
si dividono in fasi particolari del ciclo cellulare.
Esempio: antimetaboliti (attivi durante fase S) e
agenti antimitotici o alcaloidi vegetali (attivi durante fase M).
• Agenti fase-aspecifici: distruggono le cellule che
si dividono indipendentemente da fase del ciclo
cellulare. Esempio: agenti alchilanti, doxorubicina e mitoxantrone.
• Agenti ciclo-aspecifici: tossici sia per cellule che
si dividono, sia per cellule in fase G0. Esempio:
mostarde azotate (mecloretamina) e nitrosouree.
I chemioterapici che agiscono durante una fase
specifica del ciclo cellulare sono efficaci soltanto
quando la cellula si trova nella fase di sintesi o divisione mitotica. I chemioterapici che invece agiscono indipendentemente dalla fase cellulare esercitano la loro azione durante lʼintero ciclo.
Agenti alchilanti
Gli agenti alchilanti sono fase-aspecifici, dal momento che esercitano la loro attività citotossica su
tutte le fasi del ciclo cellulare, anche se le cellule
in fase S sono comunque più sensibili, poiché il
loro DNA è parzialmente svolto e, quindi, più accessibile.
Gli agenti alchilanti promuovono il trasferimento di
gruppi alchilici nel DNA, determinando rottura di
catena e distruzione del templato di DNA, che, a
sua volta, interrompe le informazioni necessarie
per divisione cellulare. Pertanto, i chemioterapici
sono definiti agenti alchilanti se contengono gruppi reattivi alchilici capaci di formare legami covalenti con DNA.
La resistenza è secondaria allʼaumentata riparazione del DNA ed è tipicamente cross-reagente, vale a dire che la resistenza verso un agente alchilante indica resistenza anche verso tutti gli altri.
169
PARTE GENERALE
farmaco
dose (cane)
dose (gatto)
tossicità
eliminazione indicazioni
carmustina
50-100 mg/m2 ev
(nellʼarco di 2 ore),
diluita in fisiologica
(150-250 ml),
ogni 6 settimane
non riportata
mielosoppressione
dose-limitante
e cumulativa
(trombocitopenia
e neutropenia)
urine: 48 ore
non eccedere
100 mg totali
feci: 48 ore
melanoma,
tumori cerebrali
inoperabili,
infoma
vescicante
ciclofosfamide 50-75 mg/m2/die po per 2 o 4 giorni;
200-300 mg/m2 ev ogni 3 settimane
in regime metronomico,
7-10 mg/m2 sid-eod po
mielosoppressione
dose-limitante
e reversibile
(neutropenia
e linfopenia)
urine: 24 ore
ampio spettro
antineoplastico
feci: 5 giorni
(linfomi, carcinomi),
spesso
siero: 6 giorni in combinazione
tossicità
gastroenterica,
più grave in seguito
a somministrazione
orale
immunosoppressore
cistite emorragica
da acroleina
(soprattutto dopo
somministrazione ev)
clorambucile
0,2 mg/kg/die po (trattamento continuo);
2-6 mg/m2/die po;
8 mg/m2/die po per 5 giorni
(trattamento pulsatile);
15 mg/m2/die po per 4 giorni
(trattamento pulsatile)
mielosoppressione
dose-limitante
e cumulativa
urine: 48 ore
feci: 48 ore
lieve tossicità
gastroenterica
tossicità neurologica
rara e reversibile
leucemia linfocitica
cronica,
linfoma
(in sostituzione
a ciclofosfamide),
mieloma multiplo,
policitemia vera,
mastocitoma
immunosoppressore
dacarbazina
non consigliata
200 mg/m2 ev
per 5 giorni consecutivi
non eccedere
250 mg totali
oppure
800-1.000 mg/m2 ev
in infusione lenta
(2-8 ore),
da ripetersi
dopo 3 settimane
tossicità midollare
dose-limitante
e prolungata
(leucopenia
e trombocitopenia)
urine: 48 ore
feci: 48 ore
linfoma (rescue),
melanoma,
sarcomi
tossicità gastroenterica
vescicante
oppure
(in regime combinato)
600 mg/m2 ev, diluita
in 250-1.000 ml NaCl,
in 5 ore
ifosfamide
350-375 mg/m2 ev
con protocollo
di diuresi
e somministrazione
di Mesna
900 mg/m2 ev
con protocollo
di diuresi
e somministrazione
di Mesna
tossicità renale
urine: 4 giorni
dose-limitante:
somministrare sempre feci: 48 ore
con Mesna
mielosoppressione
dose-limitante
(neutropenia)
170
vari sarcomi
(osteosarcoma,
emangiosarcoma);
sarcoma iniettivo
felino
PARTE GENERALE
capitolo 16
MANIPOLAZIONE SICURA
E NORMATIVE
Riccardo Finotello
Introduzione
Nel campo della medicina umana, il consistente aumento delle malattie neoplastiche e il successivo sviluppo della ricerca in tal senso hanno
condotto a trattare sempre più pazienti oncologici
con farmaci chemioterapici antiblastici. Tali farmaci, nellʼultimo decennio, hanno trovato largo impiego anche in medicina veterinaria, dove lʼoncologia medica è una disciplina specialistica in larga espansione. Questa crescita è dimostrata dal
recente avvento di nuovi farmaci, cosiddetti intelligenti (farmaci a bersaglio molecolare), specificamente creati per la medicina veterinaria, quali
Palladia® e Masivet®.
Molte sostanze ad attività citotossica e citostatica,
che lʼoncologia veterinaria condivide con quella
umana, inibiscono la proliferazione delle cellule
neoplastiche, non risparmiando però (mancata selettività) i tessuti sani, quali prevalentemente midollo osseo e tratto gastroenterico, dando origine
così alla tossicità acuta e cronica.
Lʼoperatore sanitario è, dopo il paziente, il soggetto più esposto al farmaco antiblastico, in dosi generalmente minime (subterapeutiche), ma ripetute
e prolungate nel tempo. Tossicità cronica e irreversibile è stata osservata nel personale ospedaliero
attraverso effetti cancerogeni, mutageni e teratogeni, ben documentati fin dai primi anni Ottanta,
nonché acuti, quali irritazioni di cute e mucose, dovute a contatti accidentali durante le procedure di
preparazione o somministrazione dei farmaci.
Come la maggior parte dei farmaci, i chemioterapici antiblastici, dopo una fase di metabolizzazione epatica e/o renale e una di distribuzione, subiscono una fase di escrezione attraverso feci, urine e secrezioni corporee. Seppure solo le prime
due vie siano state confermate in medicina veterinaria, si comprende bene come anche per medici veterinari la farmacosicurezza sia argomento
202
importante non solo per il personale che direttamente manipola tali sostanze, ma per tutti coloro
che vi entrano in contatto attraverso i locali di preparazione, somministrazione e degenza (per esempio, colleghi, personale addetto alle pulizie) o per
vicinanza al paziente (per esempio, proprietario).
Rischi professionali
I farmaci chemioterapici antiblastici sono considerati hazardous drugs: questo termine fu usato
per la prima volta dallʼAmerican Society of Hospital Pharmacists (ASHP) ed è attualmente utilizzato dallʼOccupational Safety and Health Administration (OSHA). Una sostanza è classificata come pericolosa, se studi condotti su animali o uomo ne dimostrano cancerogenicità, tossicità verso gli organi riproduttori o danni ad altri distretti
corporei. Gli effetti causati dallʼesposizione a farmaci pericolosi sono condizionati non tanto dalla
dose di farmaco a cui si è esposti, ma soprattutto
dalla suscettibilità individuale, che pertanto non è
prevedibile. Le potenziali proprietà dei chemioterapici nellʼindurre condizioni maligne sono riassunte in tabella I.
Sono stati stabiliti criteri per la manipolazione di
questi farmaci, ma la messa in pratica è risultata
essere talvolta inadeguata o inefficace. ConcenTabella I - Potenziali tossicità dei chemioterapici.
• genotossicità: capacità di una sostanza di indurre
modificazioni allʼinterno della sequenza nucleotidica o della struttura a doppia elica del DNA
• mutagenicità: capacità di indurre o aumentare mutazioni genetiche permanenti attraverso modificazioni del DNA
• cancerogenicità: capacità di provocare incontrollata replicazione cellulare
• teratogenicità: capacità di provocare difetti nello sviluppo del feto
capitolo 16
Manipolazione sicura e normative
trazioni rilevabili di antiblastici sono state documentate sia in urine e feci del personale addetto
alla loro manipolazione sia nei locali adibiti alla loro preparazione e/o somministrazione, pur nel rispetto di norme di sicurezza.
Cancerogenicità
Lʼeffetto cancerogeno dei farmaci antiblastici è
dimostrato da studi condotti su animali da laboratorio fin dagli anni Settanta e tale evidenza ha
trovato ulteriore conferma nella documentata insorgenza, dopo chemioterapia, di tumori sia solidi (epiteliali e mesenchimali) sia rotondocellulari (per esempio, leucemie acute imputate a terapia), non correlati con la neoplasia primaria. Alcuni studi hanno inoltre mostrato una relazione
tra manipolazione di farmaci antiblastici e insorgenza di neoplasie nel personale tecnico impiegato nei reparti oncologici, anche se è da considerare che non tutti i chemioterapici sembrano
capaci dʼindurre la stessa tossicità: lʼInternational Agency for Research on Cancer (IARC) ha
perciò catalogato le sostanze pericolose in base
al loro potenziale cancerogeno, classificandole
in 5 gruppi (tabella II).
Malgrado tale premessa, questa non è sufficientemente sostenuta dalla letteratura, per poter affermare che lʼesposizione a piccole e continue dosi di farmaco possa necessariamente indurre lʼinsorgenza di neoplasie. È comunque interessante
notare come facciano parte del gruppo 1 (tabella
II) molti farmaci utilizzati nel paziente veterinario,
non solo per il trattamento di patologie neoplastiche, ma anche immunomediate, e che, data la loro forma farmaceutica (compresse, confetti o capsule), vengono frequentemente dispensati al proprietario, con il compito di somministrarli per tempi anche molto lunghi. Sarebbe, quindi, eticamente
corretto avvertire lʼinteressato circa il potenziale rischio, invitandolo allʼosservazione di rigide norme
di farmacosicurezza.
Effetti mutageni
Diversi studi hanno dimostrato come farmaci antiblastici possano causare effetti tossici sul DNA del
personale esposto, attraverso aberrazioni cromosomiali, scambi tra cromatidi fratelli, delezioni geniche
e presenza di frammenti di DNA a livello citoplasmatico (micronuclei). Altri studi, in cui tale relazione non è stata dimostrata, hanno però attribuito ta-
Tabella II - Classificazione dei chemioterapici in base a potenziale carcinogenico.
gruppo 1: agenti carcinogenici (sufficiente evidenza
di carcinogenesi in esseri umani)
• azatioprina
• busulfan
• protocolli chemioterapici per linfoma
(per esempio, MOPP, protocolli combinati
che includono agenti alchilanti)
• clorambucile
• ciclofosfamide
• melphalan
• thiotepa
• tamoxifene
gruppo 2A: agenti probabilmente carcinogenici
(limitata evidenza in esseri umani, ma sufficiente
evidenza in animali)
•
•
•
•
•
•
•
carmustina
lomustina
cisplatino
doxorubicina
mecloretamina
procarbazina
etoposide
gruppo 2B: agenti probabilmente carcinogenici
per gli esseri umani (evidenza limitata in esseri
umani, ma assenza di evidenza in animali)
•
•
•
•
•
•
bleomicina
dacarbazina
mitomicina
streptozotocina
daunorubicina
mitoxantrone
gruppo 3: agenti non classificabili
per carcinogenicità nellʼuomo
•
•
•
•
•
•
•
•
D-actinomicina
5-fluorouracile
ifosfamide
6-mercaptopurina
metotrexate
vinblastina
vincristina
idrossiurea
gruppo 4: agenti probabilmente non cancerogeni
nellʼuomo
• nessun chemioterapico antitumorale rientra
nella categoria
MOPP = mecloretamina, vincristina, procarbazina, prednisone.
203
cap 17
213-223:gabbia
29-05-2012
10:42
Pagina 213
capitolo 17
Nuove strategie antitumorali
capitolo 17
NUOVE STRATEGIE
ANTITUMORALI
Laura Marconato
Introduzione
Le principali modalità terapeutiche antiblastiche sono chirurgia, radioterapia e chemioterapia.
Resistenza farmacologica acquisita, instabilità genetica ed eterogeneità di cellule neoplastiche sono tutti fattori che concorrono in alcuni casi al fallimento terapeutico. La migliore conoscenza di
eventi molecolari coinvolti in progressione tumorale e le caratteristiche biologiche del tumore, come, per esempio, potenziale metastatico, hanno
consentito di sviluppare nuove strategie terapeutiche antitumorali, tra cui inibizione di angiogenesi e terapia a bersaglio molecolare.
Lʼanimale da compagnia rappresenta, per diversi
motivi, un ottimo modello per lo studio delle basi
molecolari del cancro e per le ricerche precliniche
volte a individuare nuove strategie terapeutiche.
Innanzitutto, uomo e animale da compagnia condividono lo stesso ambiente e sono esposti ai medesimi fattori cancerogeni eventualmente presenti: lʼanimale può, quindi, fungere da vera e propria
sentinella ambientale di cancerogenesi.
Inoltre, al contrario di animali da laboratorio in cui
i tumori sono indotti sperimentalmente, in animali domestici e uomo essi si sviluppano spontaneamente, ma nei primi il decorso tende a essere più rapido, consentendo una raccolta dati più
veloce. Non bisogna, infine, dimenticare il complesso aspetto etico della ricerca: mentre la sperimentazione su animali da laboratorio suscita ancora sentimenti contrastanti, i trial clinici condotti
su animali da compagnia, per i quali il gold standard terapeutico non è ancora stato identificato, è
più facilmente accettato e compreso.
Angiogenesi
e strategie antiangiogenetiche
Introduzione allʼangiogenesi
Alcune decine di anni fa, Judah Folkman teorizzò
che i tumori non potessero crescere oltre 2-3 mm
in assenza di adeguato apporto vascolare. Attualmente, è universalmente accettato che sia la crescita di tumore primitivo sia il fenomeno di metastatizzazione richiedano necessariamente apporto
vascolare, definito con il termine di angiogenesi. Affinché aumenti il diametro di un tumore, anche lʼangiogenesi deve incrementare. Bersagliando i vasi
del tumore, si può quindi bersagliare il tumore stesso e su questo concetto si basano le strategie antiangiogenetiche sfruttate in oncologia.
Si definisce angiogenesi o neovascolarizzazione
la formazione di nuovi vasi a partire da vasi preesistenti. In generale, i vasi sanguigni hanno ruolo
critico nellʼapportare ossigeno e nutrienti ai tessuti
e nellʼeliminare prodotti tossici che derivano dal
metabolismo cellulare. Lʼangiogenesi è cruciale in
molti processi fisiologici o fisiopatologici - quali embriogenesi, ovulazione, gravidanza o guarigione
di ferite - e in processi patologici - quali arteriosclerosi, retinopatia diabetica, ulcera gastrica, crescita tumorale e sviluppo di metastasi.
È ormai universalmente accettato che la crescita
tumorale è angiogenesi-dipendente e in letteratura esistono più di 3.000 pubblicazioni che dimostrano chiaramente il nesso tra neovascolarizzazione e progressione di malattia neoplastica: il
comportamento biologico del tumore è, infatti, influenzato dalla capacità della neoplasia di indurre
crescita e organizzazione endoteliale. Senza adeguato supporto sanguigno, il tumore non può crescere oltre 1 mm3 e il tasso metastatico è basso o
213
cap 17
213-223:gabbia
29-05-2012
10:42
Pagina 218
PARTE GENERALE
Anticorpi monoclonali
Gli anticorpi monoclonali (MAb) sono prodotti a
partire da una plasmacellula resa immortale ed
espansa in modo clonale, che produce un anticorpo specifico contro una proteina. Di conseguenza, MAb mostra elevate affinità e specificità
per una particolare proteina.
MAb sono molecole grosse con elevato peso molecolare: pertanto, non possono essere somministrati per via orale (perché verrebbero digeriti nellʼintestino), ma soltanto per via parenterale. Inoltre,
sempre a seguito delle loro grosse dimensioni, non
penetrano allʼinterno delle cellule. Da ciò si deduce che il bersaglio di MAb deve essere il dominio
extracellulare del recettore coinvolto nella regolazione neoplastica. Una volta occupato da MAb, il
dominio non è più disponibile per il ligando naturale: il recettore non viene attivato e il segnale di crescita cellulare silenziato. Ciò è vero, se la cellula
neoplastica sovraesprime il recettore. Se, invece,
cʼè attivazione costitutiva (secondaria a mutazione
del gene che codifica per il recettore), MAb non interferisce con lʼattività proliferativa della cellula.
Trastuzumab si lega al dominio extracellulare del
recettore HER-2, il quale è codificato dal protoncogene c-erbB-2 o neu. Tale gene è amplificato in
20-30 per cento dei tumori mammari della donna
e, di conseguenza, si ha sovraespressione di HER2 sulla superficie di cellule neoplastiche. Non esistendo un ligando per HER-2, il meccanismo dʼazione di trastuzumab non si esplica mediante competizione inibitiva, bensì mediante internalizzazione e successiva degradazione endocitica di
HER-2. Nel cane e nel gatto, HER-2 è sovraespresso in alcuni tumori mammari e nellʼosteosarcoma del cane, dove assume significato prognostico sfavorevole.
Cetuximab si lega al dominio extracellulare di
EGFR, inibendo il legame tra recettore ed EGF
(inibizione competitiva) e silenziando il segnale
proliferativo.
Bevacizumab è diretto contro il recettore di VEGF,
importante promotore di angiogenesi in diversi tumori; agisce sul recettore per inibizione competitiva del ligando, inibendo neoangiogenesi.
Rituximab, MAb chimerico anti-CD20, ha rivoluzionato il modo di affrontare le malattie linfoproliferative dellʼuomo, in modo particolare linfomi nonHodgkin: infatti, dalla concezione di malattia non
eradicabile, si è passati alla consapevolezza di
guarigione in una parte di pazienti. Il ruolo tera218
peutico di rituximab è stato valutato in vitro per il
trattamento di linfomi canini: pur immunoesprimendo CD20, le cellule neoplastiche non sono in
grado di legarsi a MAb; pertanto, rituximab non
trova applicazione clinica in veterinaria.
In medicina veterinaria, MAb 231 ha dato invece
importanti risultati nel trattamento del linfoma del
cane, se utilizzato insieme a chemioterapia, migliorando sia intervallo libero da malattia sia sopravvivenza. MAb 231 non è più in commercio.
Inibitori di proteine heat shock 90
Le proteine heat shock 90 formano un complesso,
insieme ad altre proteine, avente la funzione di correggere conformazione, ripiegamento, attività, localizzazione intracellulare e turnover di tutta una
serie di proteine coinvolte in crescita cellulare e sopravvivenza. Tra le proteine che dipendono da un
corretto funzionamento di HSP90 si ricordano KIT,
Met, Akt, Raf e BCR-ABL. Per svolgere la propria
attività, HSP90 richiedono ATP: pertanto, il mancato legame con questa molecola inibisce lʼattività
dellʼintero complesso proteico, attivando secondariamente la degradazione proteasoma-dipendente.
Dal momento che molti tumori sovraesprimono
HSP90, piccoli inibitori di queste proteine possono
essere sfruttati in clinica.
Inibitori di proteasoma
Il normale turnover di proteine prevede la degradazione di queste ultime per mantenere la normale
omeostasi. Il proteasoma è un complesso enzimatico costituito da diverse subunità, localizzato a livello citoplasmatico e nucleare, che riconosce proteine legate a ubiquitine e, quindi, pronte a essere
degradate. Nelle cellule tumorali, le ubiquitine si legano a molecole importanti come p53 e Bax, catalizzandone degradazione e favorendo, quindi, sopravvivenza cellulare e proliferazione. Il proteasoma
svolge, pertanto, unʼimportante funzione nel mantenere lʼintegrità tumorale. Il più importante inibitore di
proteasoma è bortezomib, utilizzato in medicina umana nel trattamento di mieloma multiplo, accanto a
strategie chemioterapiche convenzionali.
Inibitori di deacetilasi istonica
Allʼinterno delle cellule, DNA è strutturalmente organizzato per mezzo di proteine che ne favoriscono la compattazione. Tali proteine prendono il
cap 17
213-223:gabbia
29-05-2012
10:42
Pagina 219
capitolo 17
Nuove strategie antitumorali
nome di istoni. In seguito ad acetilazione, gli istoni interagiscono meno con il DNA, inducendo cambio conformazionale e promuovendo, quindi, trascrizione di materiale genetico. Al contrario, le deacetilasi prevengono la trascrizione genica. Lo squilibrio tra acetilazione e deacetilazione favorirebbe
la cancerogenesi. In particolare, le deacetilasi isto-
niche sono frequentemente sovraespresse in tumori, prevenendo, per esempio, la trascrizione di
geni regolatori, come p21 e p53, e rappresentano
quindi bersaglio ideale per lo sviluppo di farmaci
inibenti questi enzimi. Lʼacido valproico, per esempio, inibendo deacetilasi istoniche, favorisce lʼapoptosi di cellule neoplastiche.
CENNI
DI ONCOLOGIA COMPARATA
Dino Amadori, Marianna Ricci
Introduzione
Non è passato molto tempo da quando lʼoncologia medica si era posta il problema di individuare bersagli cellulari specifici, nonostante non
fossero ancora noti i meccanismi biomolecolari alla base di trasformazione e progressione della cellula tumorale.
Da allora i risultati sono stati importanti, grazie ai
progressi avvenuti in farmacologia oncologica e
alle più moderne tecniche radioterapiche e radiometaboliche.
Lʼarricchimento chemioterapico è giunto grazie a
farmaci, quali antimicrotubulinici (tassani e vinorelbina), inibitori di topoisomerasi I (campotecine),
complessi del platino (oxaliplatino), antifolati (gemcitabina, capecitabina, fludarabina, pemetrexed)
e nuovi agenti alchilanti (temozolamide).
I progressi della ricerca degli ultimi anni hanno altresì permesso di sviluppare nuove strategie ormonali, che sono entrate di diritto nella pratica clinica:
modulatori selettivi di recettori estrogenici, inibitori
steroidei e non di aromatasi e antiandrogeni.
Le moderne tecnologie hanno portato nuovi successi anche per quanto riguarda radioterapia e terapia radiometabolica.
La radioterapia, scoperta più di cento anni fa e
fondata su raggi X e radioattività naturale, ha dato origine alla radioterapia a fasci esterni e alla
brachiterapia. Sono stati impiegati altri 50-60 anni per sfruttare la radioattività di Cobalto 60 e radiazioni ionizzanti, alla base di apparecchiature
come acceleratori lineari. Attualmente, la moderna radioterapia si esegue anche con particelle,
quali protoni, neutroni e pioni.
Negli ultimi 10-15 anni si è assistito, inoltre, allo svi-
luppo della medicina nucleare, grazie allʼutilizzo di
radioisotopi in oncologia. Lo sviluppo di questa branca della medicina allʼinterno di terapie oncologiche
si è avuto grazie sia al potenziamento delle tecniche di utilizzo di nuovi radiofarmaci sia al nuovo impiego di alcuni di questi farmaci già noti in precedenza. Alcuni radiotraccianti hanno decisamente
contribuito alle terapie oncologiche, quali traccianti
di calcio e fosforo marcati con tecnezio, fluoroDOPA e microcolloidi marcati con tecnezio.
Accanto alle terapie più tradizionali con radionuclidi, quali 131I, 32P e 89SR, sono stati utilizzati recentemente radiocomposti costituiti da molecole biologicamente attive (anticorpi monoclonali, peptidi,
avidina-biotina), legate a radionuclidi specifici.
Lʼevoluzione degli studi sperimentali ha permesso, quindi, la nascita di nuovi radionuclidi e nuovi
vettori, con il conseguente sviluppo di radioimmunoterapia e radioterapia recettoriale.
Lo studio del genoma umano ha portato a più approfondita conoscenza dei meccanismi biomolecolari di trasformazione neoplastica, individuando alcuni siti molecolari utili come bersaglio terapeutico.
I bersagli molecolari più conosciuti sono a livello
della cascata proliferativa e a livello dei meccanismi di riproduzione cellulare, quali recettori per fattori di crescita, proteine cellulari, fattori correlati ad
angiogenesi e trasduzione del segnale, fattori legati allʼapoptosi.
La scoperta di queste cosiddette “molecole intelligenti” ha dato origine a una terapia molecolare mirata, che agisce su processi di crescita, sopravvivenza, invasione e metastasi delle cellule tumorali
e, non per ultimo, sul processo di neoangiogenesi.
Tuttavia, il considerevole progresso ottenuto in
ogni ambito delle terapie oncologiche ha incon219
PARTE SPECIALE
PARTE SPECIALE
si), mentre nel gatto tumori benigni e maligni occorrono più o meno con la stessa frequenza.
In merito alla classificazione, esistono ancora molteplici difficoltà dʼinquadramento, essenzialmente
secondarie ai continui aggiornamenti sia istopatologici sia terapeutici cui sono soggetti i tumori
cutanei, che esitano in notevole confusione e divergenza di opinione tra clinici e patologi.
La classificazione istopatologica WHO suddivide
schematicamente i tumori cutanei in epiteliali, melanocitici, mesenchimali e inclassificabili (tabella I).
Sono inoltre inclusi tumori metastatici alla cute, cisti, amartomi e lesioni pseudotumorali.
La stadiazione secondo il metodo TNM per tumori epidermici e dermici è riportata nel capitolo 9,
cui si rimanda.
Figura 2 - Papilloma cutaneo in giovane cane.
TUMORI
DELLʼEPIDERMIDE
Papilloma
Introduzione
Papillomavirus è un virus a DNA contagioso,
che viene trasmesso per lo più tramite contatto diretto e che penetra nellʼorganismo attraverso lesioni presenti su cute o mucose, con periodo dʼincubazione di circa uno o due mesi.
Papillomavirus sembrano implicati nellʼeziologia di
certe forme di carcinoma squamocellulare in cane e gatto. Forme molto gravi e clinicamente inusuali sono state riportate in cani con immunodeficienza IgA oppure trattati con corticosteroidi o chemioterapici. È ipotizzabile che lʼimmunodepressione possa esacerbare unʼinfezione latente e far
aumentare il tropismo virale ai vari tessuti.
Quadro clinico
Il papilloma cutaneo è raro nel gatto, mentre è
molto comune nel cane, specie in cui esistono almeno cinque forme cliniche ascrivibili a vari papillomavirus, ognuno con caratteristiche specifiche anche da un punto di vista istologico: papillomatosi
orale, papilloma cutaneo, papilloma cutaneo invertito, papilloma cutaneo papillare iperpigmentato multiplo e placche pigmentate multiple.
Il papilloma cutaneo di origine virale è tipico di cani
giovani e si presenta come nodulo singolo o noduli
multipli biancastri, sessili o peduncolati (a cavolfio244
Figura 3 - Papilloma cutaneo in gatto.
re), spesso sanguinanti e di dimensione variabile,
per lo più localizzati su testa, palpebre e zampe (figura 2). Nei cani anziani non sembra invece che lʼorigine sia virale. I papillomi che si localizzano a livello
delle zampe sono tendenzialmente duri e ipercheratosici e provocano dolore e zoppia, richiedendo il
più delle volte escissione chirurgica.
Il papilloma cutaneo invertito è poco comune e interessa animali giovani (8 mesi-3 anni di età), manifestandosi come lesione a coppa, con centro cheratinico che si apre in superficie tramite un poro centrale. Sono tipiche le localizzazioni addominali ventrali e inguinali. Diversi studi su ibridizzazione di DNA
virale hanno evidenziato che il virus presente in tale variante è differente da quello classico.
Lʼultima variante associata a papillomavirus è stata soprattutto riportata in cani giovani schnauzer
nani e carlini (in cui è accertata trasmissione ereditaria di tipo autosomico recessivo) sotto forma
di macule e macchie su ventre e piatto delle cosce. Tali lesioni sono inizialmente identiche a lentigo e nevi pigmentati, ma con lʼevolvere si for-
capitolo 19
Tumori della cute
Figura 7 - Carcinoma squamocellulare su planum nasale in gatto.
Figura 8 - Carcinoma squamocellulare su padiglione auricolare in
gatto.
Figura 9 - Carcinoma squamocellulare su palpebre e padiglioni
auricolari in gatto.
Figura 10 - Carcinoma squamocellulare su labbra e guancia in
gatto.
Figura 11 - Cheratosi attinica su padiglione auricolare di gatto a
mantello bianco.
Figura 12 - Carcinoma squamocellulare auricolare in gatto a mantello bianco. La lesione è particolarmente estesa e deturpa lʼanimale.
247
capitolo 26
Tumori dellʼapparato respiratorio
capitolo 26
TUMORI
DELLʼAPPARATO RESPIRATORIO
Laura Marconato,
Federica Rossi, Giuliano Bettini, Ugo Bonfanti, Julia Buchholz
POLIPI
NASOFARINGEI
I polipi nasofaringei sono classificati come masse non
neoplastiche di natura infiammatoria. Essi si sviluppano prevalentemente in soggetti giovani (< 2 anni),
sono piuttosto frequenti nel gatto, ma rari nel cane.
I polipi originano dal canale uditivo medio (in questo caso possono perforare il timpano e protrudere
attraverso il canale uditivo esterno) o dalla tuba di
Eustachio (in questo caso possono occupare il nasofaringe). Lʼeziologia non è stata accertata, tuttavia si sospetta che siano ereditari o congeniti (per
anomalie di archi branchiali) oppure che si sviluppino secondariamente a infezioni batteriche o virali.
Sintomi classici sono raffreddore, respirazione rumorosa, alterazione fonetica, scolo nasale e otorrea (spesso purulenta); più raramente, si osservano disfagia, tosse, segni vestibolari (scuotimento
di testa, nistagmo, perdita di equilibrio e atassia),
alitosi ed epifora.
Alla visita clinica, è possibile osservare una massa nella faringe caudale, a livello di palato duro,
oppure nel canale uditivo esterno.
Lʼiter diagnostico si snoda in esame otoscopico, radiografia o TC di cranio, radiografia del torace, per la
frequente presenza di polmonite ab ingestis secondaria, ed eventualmente esami citologico e bioptico.
Se il polipo è localizzato in rinofaringe, lʼesame radiografico del cranio, eseguito in proiezione laterale, mette in evidenza una lesione a radiopacità
di tessuti molli che oblitera il passaggio nasofaringeo, normalmente occupato da aria. Se la sede è la bolla timpanica, proiezione sagittale o proiezioni speciali effettuate per studiare le bolle (proiezione rostrocaudale leggermente estesa o a bocca aperta) presenta quadro sovrapponibile a otite
media, caratterizzato da aumento di radiopacità di
bolla timpanica con variabile ispessimento di parete (figura 1 A). In questi casi, non è presente lisi ossea e ciò è criterio radiografico importante per
distinguere queste situazioni dalla neoplasia della regione di orecchio medio. Lʼapprofondimento
con TC è di aiuto prima della chirurgia per visualizzare meglio sede, dimensioni del polipo e dimostrare piccole lesioni non visibili radiologicamente (figura 1 B, C).
Citologicamente, sʼidentifica popolazione infiammatoria mista, rappresentata da linfociti e plasmacellule e raramente da polimorfonucleati neutrofili e macrofagi, non raramente associata a elementi epiteliali mucosali iperplastici, displastici o
con caratteri di metaplasia squamosa e a eventuale reattività fibroplasica (fibroblasti).
Istologicamente, i polipi nasofaringei sono costituiti da asse fibrovascolare edematoso, ricoperto
da epitelio respiratorio moderatamente iperplastico. Nellʼasse stromale è possibile rilevare infiltrato flogistico, stravasi emorragici con macrofagi carichi di emosiderina, cellule giganti multinucleate
e fenomeni di metaplasia ossea.
La terapia dʼelezione è chirurgica e prevede polipectomia, mediante trazione delicata attraverso
cavo orale o canale uditivo esterno, anche per via
endoscopica. La trazione si accompagna a recidiva in 50 per cento dei casi. Lʼosteotomia della
bolla timpanica è indicata nei casi di polipi infiammatori ricorrenti, coinvolgimento della bolla stessa od otite. La percentuale di recidiva in questo
caso è < 10 per cento. Il materiale accumulatosi
allʼinterno della bolla deve essere inviato al laboratorio per coltura batteriologica e antibiogramma.
La complicanza più comune è la sindrome di Horner transitoria, caratterizzata da miosi, ptosi e prolasso di terza palpebra, secondaria a danneggiamento del neurone postgangliare simpatico, localizzato vicino allʼorecchio medio. Il più delle volte
415
PARTE SPECIALE
la sindrome di Horner si risolve entro un mese dalla chirurgia.
TUMORI
DEL PLANUM NASALE
A
B
C
Figura 1 - A) Proiezione radiografica dorsoventrale di gatto con
polipo rinofaringeo nella bolla timpanica destra. La bolla è ingrandita e più radiopaca rispetto alla controlaterale. B, C) Esame
TC dello stesso gatto. La scansione TC mette in evidenza presenza di fluido e tessuto allʼinterno della bolla (B) e piccola porzione del polipo, che si estende dalla tuba nella faringe (C) e che
si presenta come lesione rotondeggiante ben delimitata con enhancement periferico (freccia).
416
I tumori del planum nasale sono piuttosto comuni
nel gatto, ma rari nel cane. Il più frequente tumore che interessa questa zona è il carcinoma squamocellulare (SCC), la cui eziopatogenesi è da ricondurre a esposizione a raggi ultravioletti (soprattutto UV-B) e ad assenza di pigmento protettivo (figura 2 A). Altri tumori occasionalmente segnalati in questa sede sono linfoma, fibroma, fibrosarcoma, papilloma, emangioma, melanoma e
mastocitoma.
Lʼazione cancerogena dei raggi ultravioletti è dose-dipendente: pertanto, esposizioni croniche a
radiazioni UV causano maggiore danno di una singola esposizione, tra cui mutazioni a carico di p53
(gene oncosoppressore). In presenza di danno a
carico di DNA, p53 spinge le cellule in fase di arresto proliferativo (per consentire la riparazione
del danno prima della successiva replicazione) o
apoptosi (se il danno è irreparabile). Mutazioni dirette o alterazioni epigenetiche comportano perdita funzionale di p53, evento molto frequente nei
tumori, sia di uomo sia di animali domestici. Nelle cellule con p53 mutato viene a mancare lʼinduzione apoptotica: pertanto, queste sono in grado
di proliferare e di andare incontro a ulteriori mutazioni (progressione), responsabili in ultimo di eterogeneità neoplastica.
Tipicamente, SCC evolve attraverso varie fasi nellʼarco di diversi mesi, riconoscibili sia clinicamente sia istologicamente come carcinoma in situ (erosioni superficiali), SCC superficiale e SCC infiltrante (ulcere profonde). La cheratosi attinica (o
dermatite attinica) rappresenta la lesione precancerosa iniziale. Il comportamento biologico di SCC
è aggressivo localmente, ma le metastasi regionali e a distanza sono evento raro, soprattutto alla diagnosi.
Nel gatto, SCC interessa la superficie cornificata
esterna del planum nasale (figura 2 B) e si accompagna spesso a lesioni concomitanti su padiglioni auricolari e palpebre (figura 3). I gatti a mantello bianco sono evidentemente predisposti. Nel
cane, SCC può interessare il planum oppure la
mucosa delle narici.
capitolo 26
Tumori dellʼapparato respiratorio
A
B
Figura 2 - A, B) Carcinoma squamocellulare del planum nasale in gatto.
Figura 3 - Carcinoma squamocellulare felino. Concomitante interessamento di padiglioni auricolari e palpebre.
Figura 4 - Esame citologico di carcinoma squamocellulare del planum nasale: cellule epiteliali poligonali, angolate, con nucleo centrale, talora nucleolato, ad ampio citoplasma, cheratinizzato; neutrofili non degenerati sparsi tra le cellule neoplastiche.
Citologicamente, SCC si caratterizzano per la presenza di cellule angolate, ad ampio citoplasma
omogeneo, cheratinizzato e con nucleo centrale
(figura 4). Le cellule neoplastiche, a differenti gradi di maturazione, possono essere di piccole dimensioni, immature, cuboidali, nucleate e con scarso citoplasma intensamente basofilo, oppure cellule mature e di grosse dimensioni, con piccolo nucleo e citoplasma intensamente cheratinizzato a
margini netti. Sono caratteristicamente evidenti fenomeni di maturazione asincrona tra nucleo e citoplasma, in cui il primo è centrale, voluminoso e
immaturo, e il secondo ampio, vitreo, con la presenza talora di vacuoli. Si associa frequentemente intensa flogosi neutrofilica.
Lʼesame istologico permette di differenziare tra cheratosi attinica e SCC e di valutare, in questʼultimo
caso, grado di differenziazione e profondità dʼinfiltrazione. Nella cheratosi attinica si rileva iperplasia irregolare dellʼepidermide, con iper- paracheratosi, perdita di polarità dei cheratinociti in strati
basale e spinoso e iperplasia papillare dello strato basale. Nelle zone interessate, i cheratinociti
possono presentare moderato pleomorfismo, nucleoli prominenti e attività mitotica non limitata allo strato basale. La proliferazione è però contenuta dalla membrana basale, che appare intatta: il
principale elemento che differenzia cheratosi attinica da SCC è, infatti, rappresentato, più che da
atipie cellulari, da invasione del derma. Gli aspetti istologici di SCC del planum nasale sono simili a
quelli riscontrabili in altri distretti cutanei. Lʼistotipo
più comune è SCC ben differenziato, caratterizzato da isole e cordoni di cellule epiteliali squamose
atipiche, che tendono a cheratinizzazione nella par417
PARTE SPECIALE
La terapia dʼelezione è chirurgica e prevede exeresi della massa. È importante ricordare che è possibile asportare fino a 50 per cento della trachea.
Radioterapia e chemioterapia sono efficaci in caso di linfoma o plasmacitoma. In ogni caso è indicata la terapia medica di supporto con corticosteroidi e aminofillina.
La prognosi è riservata, soprattutto se il tumore si
estende allʼavventizia.
TUMORI PRIMITIVI
DEL POLMONE
Introduzione
Contrariamente allʼuomo, in cui i tumori polmonari primitivi (soprattutto maligni) sono molto frequenti nei Paesi occidentali e le cui incidenza e mortalità sono in costante aumento, questi sono rari negli animali domestici, con prevalenza di 0,1-0,9 per
cento. Sono invece frequenti i tumori polmonari metastatici (ripetizione a distanza di neoplasie insorte in
altri organi); tuttavia, la distinzione tra lesione primitiva e metastatica è talvolta critica non solo da un punto di vista macroscopico, ma anche microscopico e
la diagnosi di neoplasia polmonare primitiva può a
volte solo seguire lʼesclusione di un tumore in altra
sede che abbia metastatizzato al polmone.
Fattore causale principale nellʼuomo è lʼesposizione prolungata (anche passiva) al fumo di sigaretta, seguita da esposizione ad alcune sostanze
chimiche e minerali (asbesto, smog e inquinamento
atmosferico, radon, uranio, cromo e nichel), nonché a radiazioni. Ancora, non sono da sottovalutare alcune malattie irritative croniche, che possono favorire lʼinsorgenza secondaria di tumore
polmonare, come, per esempio, bronchiti croniche, bronchiectasie e tubercolosi.
Negli animali domestici lʼevento causa-effetto non
è così chiaro. Sebbene i cani possano fungere da
sentinelle ambientali per alcune sostanze pericolose, come esposizione a fumo passivo, asbesto,
insetticidi e vernici, non è stato dimostrato in questa specie aumento di prevalenza di tumori polmonari. Sono state ipotizzate cause chimiche (esposizione a nitrosamine e idrocarburi policiclici aromatici) e genetiche (mutazioni a carico di oncogeni e alterazioni cromosomiche). Recentemente, è stata descritta nel cane lʼassociazione tra antracosi dovuta a inalazione di smog e tumori polmonari maligni.
436
Analogamente allʼuomo, anche gli animali domestici che sviluppano neoplasie polmonari tendono
a essere adulti o anziani, probabilmente per riduzione senile della capacità di riparazione di DNA.
Non è invece stata confermata alcuna predisposizione né di razza né di sesso.
Patologia molecolare
di neoplasie polmonari
primitive
Il fenomeno cancerogeno a livello polmonare non deriva da un improvviso evento di trasformazione maligna (ex abrupto), bensì trae origine da un
processo a stadi multipli, caratterizzato dallʼaccumulo di successive alterazioni genetiche ed epigenetiche (alterazioni di metilazione di DNA), che comportano il passaggio da forme inizialmente iperplastiche
a forme displastiche e, infine, a forme neoplastiche
con capacità invasiva e metastatica. In breve, a seguito di mutazioni geniche, si crea instabilità genomica caratterizzata da continue e ripetute mutazioni
a carico di geni regolatori, tra cui delezioni (perdita di
eterozigosi), riarrangiamenti, mutazioni puntiformi, errori in splicing e amplificazioni geniche. Recentemente, è emersa lʼimportanza dellʼalterazione di espressione e funzione di telomerasi, enzima che sintetizza tratti ripetuti alle estremità cromosomiche (telomeri), rendendo la cellula immortale.
Lo spettro di queste lesioni si sussegue nel tempo,
secondo la teoria sequenziale delle alterazioni progressive morfologiche e molecolari. Non è chiaro se
le forme iperplastiche e displastiche lievi abbiano necessariamente potenzialità evolutiva maligna; al contrario, forme displastiche gravi e carcinomi in situ devono a tutti gli effetti essere considerati come lesioni preneoplastiche, dal momento che sono in grado
di innescare lʼautonomia di crescita, che è caratteristica propria di cellule neoplastiche.
Le moderne tecnologie atte ad analizzare geni e loro prodotti hanno aperto nuove frontiere dʼindagine,
che forniranno utili elementi per emettere diagnosi
più precoce, dare giudizi prognostici più accurati e
orientare meglio il trattamento farmacologico, questʼultimo finalizzato a garantire massima efficacia e
minimizzare rischio di tossicità.
Sebbene siano stati fatti importanti progressi nello
studio di alterazioni genetico-molecolari a carico di
oncogeni e oncosoppressori, in medicina umana, e
ancora di più in medicina veterinaria, le applicazioni di biologia molecolare a diagnostica e terapia di
tumori polmonari sono ancora limitate.
capitolo 26
Tumori dellʼapparato respiratorio
Patologia
di neoplasie polmonari
primitive
Classificazione e istotipi
La più recente (1999) classificazione dei tumori
polmonari stabilita da WHO pone non poche difficoltà obiettive ed è ancora lontana da svelare e
descrivere la complessità biologica di tumori polmonari. Si tratta di una classificazione per lo più
morfologica, il cui principale vantaggio consiste
nella possibilità di applicazione su larga scala.
I tumori polmonari possono originare da qualsiasi
componente del polmone; tuttavia, la maggior parte di essi è di origine epiteliale e prende origine da
bronchioli o alveoli. Più rari, invece, i tumori di derivazione mesenchimale, sia benigni sia maligni,
e i tumori che originano dal tessuto linfatico normalmente presente nel polmone.
I tumori polmonari sono classificati in base a sede
dʼinsorgenza (broncogenica, ghiandole bronchiali o
bronchioloalveolare) o ad aspetti istologici (adenoide, squamoso, a grandi cellule, a piccole cellule). I
tumori a insorgenza bronchioloalveolare sono periferici (figura 36) e prendono origine da cellule di Clara (bronchiolari) e pneumociti di tipo II (alveolari); i
tumori a insorgenza centrale (ilare) derivano invece da epitelio bronchiale o ghiandole bronchiali (figura 37). I tumori bronchioloalveolari possono essere solitari o multicentrici, quelli ilari sono più spesso solitari. Nellʼuomo e nel gatto sono più comuni i
tumori centrali, mentre nel cane sono più comuni
quelli a insorgenza periferica.
La distinzione in tumori a piccole cellule (di natura neuroendocrina) e non a piccole cellule, adottata in medicina umana, non è di fatto attuabile nel
cane e nel gatto, a fronte di scarsa rappresentazione di tale suddivisione. È inoltre ampiamente
dibattuta lʼorigine cellulare dei diversi istotipi. Esiste, tuttavia, evidenza che i tumori polmonari originino da una cellula precursore comune, capace
di differenziarsi in vari istotipi. Pertanto, la classificazione attuale dei tumori polmonari si basa più
che altro su criteri istologici morfologici anziché
istogenetici (tabella VI) e rappresenta lʼestrema
semplificazione di una realtà, che è invece ben più
articolata e complessa.
I tumori polmonari benigni sono molto rari nel cane e nel gatto; la maggior parte è maligna e di origine epiteliale.
Figura 36 - Rappresentazione schematica di tumore a origine
periferica.
Figura 37 - Rappresentazione schematica di tumore a origine
centrale.
Il carcinoma bronchioloalveolare è caratterizzato da
crescita neoplastica lungo le pareti alveolari (classificazione in base a sede dʼinsorgenza). È molto
frequente nel cane (85 per cento di tutti i tumori polmonari primitivi) e tende a svilupparsi perifericamente, nel parenchima polmonare, e in particolare
nei lobi caudali del polmone destro. Si tratta di un
tumore aggressivo, con moderato potenziale metastatico per via sia aerogena sia linfatica, che può
presentarsi in forma multifocale (stesso lobo) o multicentrica (diversi lobi omolaterali o polmone controlaterale; 39 per cento dei casi), realizzando la cosiddetta cancerizzazione di campo. Non è chiaro
se la multicentricità sia espressione di precoce metastatizzazione intrapolmonare o di reale crescita
di foci neoplastici indipendenti; tuttavia, ciò non è
di fatto importante ai fini della stadiazione TNM, dal
437
capitolo 26
Tumori dellʼapparato respiratorio
CENNI
DI ONCOLOGIA COMPARATA
Dino Amadori, Andrea Casadei Gardini
Tumori di seni nasali
e paranasali
I tumori maligni di cavità nasali e seni paranasali nellʼuomo sono piuttosto rari (0,5-1 per cento di tutti i tumori maligni), con incidenza in Italia
di 11 casi ogni 100.000 abitanti. Sono più frequenti
in Africa meridionale ed Estremo oriente, rispetto
ai Paesi occidentali.
Il seno mascellare rappresenta la sede con incidenza maggiore, seguita da cavità nasali e seno
etmoidale. Questi tumori sono più frequenti nellʼuomo rispetto alla donna (rapporto 2:1).
Eziologia
È stata dimostrata correlazione tra queste neoplasie e lavorazione di nichel, acido isopropilico,
cromo, legno e cuoio.
Queste neoplasie tendono ad avere crescita locale, di tipo erosivo, con sintomi per lo più legati
a questo tipo di comportamento. Solo tardivamente
danno metastasi, inizialmente linfonodali e poi per
via ematica ad altri organi (in particolare, carcinoma adenoidocistico e sarcomi).
Dolore e dolorabilità sono i sintomi iniziali, in particolare in neoplasie dei seni. Le neoplasie di questa parte anatomica possono dare precocemente
disfonia (fisiologicamente, i seni, in particolare quello mascellare, hanno funzione di risonanza dei fenomeni di fonazione).
Lʼepistassi può essere il primo sintomo di neoplasia delle cavità nasali. I sintomi tardivi sono sempre dovuti allo sconfinamento del tumore in zone
anatomiche contigue, con conseguenti esoftalmo,
diplopia, strabismo, trisma (infiltrazione di muscolatura pterigoidea), parestesie o ipoanestesia, dovuta allʼinteressamento dei nervi sensitivi, e perdita dei denti.
Istopatologia
Diagnosi
Il carcinoma squamocellulare è la variante più frequente a insorgenza nel seno mascellare; a seguire, neoplasie a origine ghiandolare (adenocarcinomi, carcinomi adenoidocistici e carcinomi mucoepidermoidi) e sarcomi; più rari linfomi e melanomi. A
livello etmoidale, è prevalente lʼadenocarcinoma, in
particolare in Europa, mentre nelle casistiche americane prevalgono i carcinomi di tipo spinocellulare.
Una possibile spiegazione di tale differenza riguarda lʼutilizzo maggiore di mezzi di protezione individuali nei lavoratori americani rispetto a quelli europei (lʼadenocarcinoma etmoidale presenta come fattore di rischio la lavorazione di legno e cuoio).
Quadro clinico
La sintomatologia varia secondo la sede anatomica in cui si sviluppa la neoplasia; inoltre, i sintomi
sono spesso modesti e aspecifici, molto simili a
quelli dei più comuni processi flogistici cronici, di cui
questi pazienti spesso sono affetti. I sintomi generalmente sono più precoci nelle neoplasie delle cavità nasali rispetto a quelle dei seni paranasali.
La rinoscopia è il gold standard per poter rilevare
le neoplasie vegetanti nasoetmoidali. TC o RM è
esame dʼelezione per la diagnosi di neoplasie dei
seni mascellari. Le indagini devono essere eseguite con mdc e in proiezioni sia assiali sia coronali, in
modo da rilevare lʼerosione dellʼosso limitrofo. La
biopsia è fondamentale per giungere a diagnosi certa e per impostare il trattamento più idoneo.
Terapia
Escludendo linfomi, melanomi e carcinomi scarsamente differenziati, per tutte le altre forme istologiche le metastasi linfonodali sono piuttosto rare, per cui lʼapproccio terapeutico deve mirare alla radicabilità locale per impedire le recidive. Con
le attuali tecniche chirurgiche, ormai consolidate
da tempo, si ottengono ottimi risultati sia in termini di radicabilità sia per quanto riguarda lʼaspetto
estetico.
La radioterapia non è di facile realizzazione in un
distretto così ricco di strutture nobili (cavità orbi451
PARTE SPECIALE
taria ed encefalo, in particolare) e richiede spesso lʼutilizzo di tecniche conformazionali.
La chemioterapia può essere utilizzata sia a livello locale (nellʼesperienza olandese dopo chirurgia è utilizzato fluorouracile a livello topico),
sia per via sistemica. Il suo utilizzo principale è
in forme non trattabili con altre tecniche o recidive non asportabili e in presenza di metastasi a
distanza.
Nella maggior parte dei casi, lʼapproccio terapeutico è multidisciplinare (oncologo, radioterapista,
chirurgo).
cali nelle forme sovraglottiche. Le metastasi linfonodali sono frequenti anche nelle forme sottoglottiche e per lo più interessano i linfonodi delle vie linfatiche della catena ricorrenziale.
Diagnosi
La diagnosi si basa su laringoscopia diretta con fibre ottiche flessibili, che permette di eseguire una
biopsia, e su laringoscopia diretta in sospensione,
che consente anche di eseguire piccoli interventi
chirurgici. Lʼinteressamento linfonodale è valutato principalmente tramite RM.
Prognosi
Terapia
Complessivamente la sopravvivenza a 5 anni è di
30-40 per cento; i migliori risultati si hanno nelle forme più precoci (T1-T2), in cui si raggiunge sopravvivenza a 5 anni di 60 per cento.
Tumori della laringe
Rappresentano 4,5 per cento di tutti i tumori
maligni. Sono prevalenti nel sesso maschile rispetto a quello femminile; in alcune aree il rapporto è anche di 20:1.
Eziologia
È un tumore estremamente fumo-correlato, ma anche le forme infiammatorie (per esempio, leucoplachia) possono essere considerate fattori predisponenti.
Istopatologia
Le forme spinocellulari sono le più rappresentate;
molto rare sono altre forme istologiche.
Quadro clinico
Il sintomo principale di questa forma tumorale è la
disfonia, in particolare nelle localizzazioni cordali
e sottoglottiche. Nelle forme sovraglottiche non raramente si possono avere odinofagia e disfagia,
come primi sintomi.
La storia naturale, e in particolare lʼeventuale coinvolgimento linfonodale, varia a seconda della localizzazione. Le metastasi linfonodali sono rare, in caso di localizzazione cordale, a causa della scarsa
presenza di drenaggio linfatico, mentre sono frequenti le metastasi linfonodali bilaterali laterocervi452
Finalità principali del trattamento sono sopravvivenza del paziente e mantenimento della voce e
del riflesso di deglutizione. Per raggiungere tale
scopo, spesso prima di chirurgia si esegue chemio- radioterapia a scopo neoadiuvante.
Prognosi
Complessivamente la sopravvivenza a 5 anni è di
50-75 per cento.
Tumori del polmone
Il carcinoma del polmone costituisce 12,8 per
cento di tutti i tumori e rappresenta la prima causa di morte per cancro.
Nonostante lʼesteso programma di ricerca, i risultati terapeutici ottenuti sono scarsi. La percentuale di sopravvivenza a 5 anni è complessivamente
di 15 per cento. Lʼinnegabile progresso dei mezzi
diagnostici non ha sostanzialmente modificato la
storia naturale di questa malattia: infatti, in due terzi dei casi si ha già interessamento locoregionale
o a distanza al momento della diagnosi.
Eziologia
Il fumo di sigaretta è la principale causa di carcinoma polmonare. Nei fumatori il rischio è aumentato di 30 volte rispetto ai non fumatori. Studi epidemiologici hanno evidenziato che il rischio
è in rapporto con la dose cumulativa di sigarette
fumate.
Altre sostanze coadiuvanti per lo sviluppo di carcinoma del polmone sono asbesto (in soggetti contemporaneamente esposti ad asbesto e fumo di