Autori AUTORI Laura Marconato DVM, Dipl ECVIM-CA (Oncology) Laureata a Milano in Medicina Veterinaria. Diplomata nel 2008 al college europeo di medicina interna-oncologia. Autrice del testo Oncologia medica dei piccoli animali (Poletto editore, 2005), di alcuni capitoli del testo Malattie respiratorie del cane e del gatto (Poletto editore, 2009), del testo Princìpi di chemioterapia in oncologia (Poletto editore, 2009) e di numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali; ha, inoltre, curato lʼedizione italiana dellʼopera Algoritmi in medicina per piccoli animali (Poletto editore, 2011). Ha presentato numerosi poster e lavori scientifici a congressi nazionali e internazionali. Dal 2011 è presidente della Società Italiana di Oncologia Veterinaria (SIONCOV). Dopo un periodo negli Stati Uniti e in Svizzera, dal 2011 collabora con il Centro Oncologico Veterinario (Sasso Marconi - Bologna), dove è responsabile dellʼoncologia medica. Dino Amadori MD Laureato in Medicina e Chirurgia con lode presso lʼUniversità degli Studi di Bologna il 17 novembre 1961. Direttore Scientifico dellʼIRCCS dellʼIstituto Scientifico Romagnolo per lo Studio e la Cura dei Tumori (IRST), Meldola (Forlì). Membro del CTS dellʼIstituto Oncologico Romagnolo. Già Presidente dellʼAssociazione Italiana di Oncologia Medica dal 1997 al 1999. Presidente del Comitato Etico dellʼIstituto Superiore di Sanità. Membro delle principali società scientifiche nazionali e internazionali in ambito oncologico. Lʼattività scientifica, documentata da circa 400 pubblicazioni, la maggior parte su riviste a diffusione internazionale, verte su: biologia dei tumori solidi, terapia medica (ormonoterapia, chemioterapia e terapia biologica) dei tumori solidi, epidemiologia clinica oncologica ed epidemiologia molecolare oncologica. Dal 1998 al 2001, ha fatto parte della Commissione Unica del Farmaco presso il Ministero della Sanità. È Presidente del Comitato Tecnico/Scientifico Regionale per lʼArea dellʼAssistenza in Oncologia dellʼEmilia Romagna. È stato coordinatore del sottoprogetto 9 Clinical Trial in solid tumor del Progetto ACRO del CNR e coordinatore del sottoprogetto Caratterizzazione biologica e strategie terapeutiche innovative nei tumori solidi del Progetto Strategico Oncologia CNR-MURST. Curatore dei volumi Oncologia genetica (Poletto editore, 2001), Manuale di semeiotica e diagnostica oncologica (Poletto editore, 2003), Sperimentazione clinica in oncologia (Poletto editore, 2004), Terapia molecolare in oncologia (Poletto editore, 2005), Sviluppo dei farmaci oncologici con bersaglio molecolare dalla tradizione allʼinnovazione (Poletto editore, 2006), Libro italiano di cure palliative - seconda edizione (Poletto editore, 2007), Informatizzazione in oncologia (Poletto editore, 2008), Cardioncologia (Poletto editore, 2009) e Osteooncolology textbook (Poletto editore, 2010). V Autori Giuliano Bettini DVM Laureato con lode presso lʼUniversità di Bologna nel 1988; è professore associato nel Dipartimento di Scienze Mediche Veterinarie della stessa Università. È titolare degli insegnamenti di Anatomia Patologica Veterinaria I e Oncologia Veterinaria, delegato per le relazioni internazionali e si occupa di diagnostica necroscopica, citopatologica e istopatologica. Lʼattività di ricerca riguarda principalmente lʼoncologia comparata e, in particolare, la caratterizzazione immunoistochimica di fattori prognostici delle neoplasie animali, la cancerogenesi ambientale e la diagnostica istologica e citologica. È autore di circa 200 contributi fra pubblicazioni scientifiche e comunicazioni a congressi nazionali e internazionali. Ugo Bonfanti DVM, Dipl ECVCP Laureato con lode presso lʼUniversità di Milano nel 1992. Dopo aver esercitato la libera professione occupandosi di medicina interna, oncologia medica e patologia clinica, attualmente si occupa di sviluppo preclinico di farmaci. Ha effettuato stage presso università europee e americane. Nel 2005 ha conseguito il diploma del college europeo di patologia clinica veterinaria (ECVCP). Ha presentato relazioni di citologia, oncologia e medicina interna in occasione di seminari, corsi, master universitari e congressi nazionali e internazionali. Autore e coautore di oltre 40 pubblicazioni su riviste italiane e straniere. Julia Buchholz DVM, Dipl ACVR (Radiation Oncology) Ha studiato Medicina Veterinaria a Giessen (Germania) e Nantes (Francia); si è laureata a Giessen nel 2002. È diplomata al college americano di radiologia veterinaria, specializzazione in radioncologia. Nel 2005 ha completato una tesi sulla terapia fotodinamica allʼUniversità di Zurigo (Svizzera). Nel 2007 ha completato il residency in radioncologia (programma combinato, Università di Zurigo e Colorado State University). Dopo il residency, ha lavorato come assistant professor in oncologia allʼUniversità di Louisiana State (Stati Uniti dʼAmerica). Ha lavorato al Centro Oncologico Veterinario di Sasso Marconi (Bologna). Ha pubblicato e presentato numerosi lavori a livello nazionale e internazionale. Al momento dirige il Dipartimento di Radioncologia allʼAnimal Oncology and Imaging Center di Hünenberg (Svizzera). VI Autori Andrea Casadei Gardini MD, Oncology Laureato a Bologna in Medicina e Chirurgia nel 2008; dal 2009 specializzando in oncologia medica allʼUniversità di Ferrara.Attualmente collabora con il professor Dino Amadori allʼIRST di Meldola (Forlì). Autore di numerosi poster e lavori scientifici presentati a congressi internazionali e nazionali di oncologia medica e biologia molecolare (ASCO, AIOM, AACR). Principali settori dʼinteresse sono lʼoncologia dei tumori gastroenterici e lo screening del carcinoma del colon retto, di cui è autore di diversi lavori scientifici. Stefano Comazzi DVM, phD, Dipl ECVCP Per tre anni direttore sanitario di un laboratorio privato di analisi veterinarie di Milano, a prevalente attività in ematologia, chimica clinica e citologia. Dal 2002 è diplomato allʼEuropean College of Veterinary Clinical Pathology (ECVCP). Attualmente ricercatore presso il Dipartimento di Patologia Animale, Igiene e Sanità Pubblica Veterinaria dellʼUniversità degli Studi di Milano, dove è docente dei moduli di Neoplasie ematologiche e Disordini emopoietici nellʼambito dei corsi di laurea in Medicina Veterinaria. È stato inoltre docente del corso di tecniche diagnostiche laboratoristiche presso lʼUniversità di Udine. La sua attività scientifica verte prevalentemente su aspetti di patologia clinica, con particolare riferimento alle malattie linfomieloproliferative dei piccoli animali e agli aspetti citofluorimetrici in corso di differenti patologie degli animali domestici. È stato membro dellʼeditorial board della rivista internazionale Veterinary Clinical Pathology e autore di più di 40 pubblicazioni su riviste internazionali con impact factor e di più di 100 pubblicazioni tra riviste nazionali e atti di congressi, nonché di capitoli di libri, tra cui la VI edizione dello Schalmʼs Veterinary Hematology. Riccardo Finotello DVM, PhD, MRCVS Laureato in Medicina Veterinaria allʼUniversità di Pisa nel 2007, ha conseguito il titolo di philosophical doctor in Medicina Veterinaria presso la stessa Università nel 2011. Autore e coautore di articoli scientifici su riviste nazionali e internazionali, ha presentato poster e lavori scientifici a congressi nazionali e internazionali. Nel 2008 è stato fellow visitor presso il Dipartimento di Patologia Umana e Oncologia dellʼUniversità di Firenze. Dal 2009 al 2010 è stato coresponsabile del servizio di oncologia medica dellʼOspedale Didattico Veterinario Mario Modenato dellʼUniversità di Pisa e nel 2010 è stato direttore del servizio di oncologia medica del Centro Oncologico Veterinario di Sasso Marconi (Bologna). Dal 2010 è istruttore al master di II livello in oncologia veterinaria dellʼUniversità di Pisa. Da novembre 2010 è resident ECVIM-CA (Oncology) presso lo Small Animal Teaching Hospital dellʼUniversità di Liverpool (Gran Bretagna). È membro SCIVAC, SIONCOV ed ESVONC. VII Autori Marianna Ricci MD, Oncology Laureata a Bologna in Medicina e Chirurgia. Si è specializzata in marzo 2012 alla scuola di specializzazione di oncologia presso lʼUniversità degli Studi di Ferrara. Attualmente collabora con il professor Dino Amadori presso IRST di Meldola (Forlì). Autrice di poster e lavori scientifici presentati a congressi nazionali e internazionali di oncologia medica (ASCO, AIOM, ISO). Ha pubblicato lavori scientifici su riviste nazionali e internazionali. Ha partecipato a stage formativi presso hospice in Paraguay e presso Oncologia Medica di Mwanza in Tanzania. Collabora con il Centro di Osteoncologia di Meldola. Principali settori dʼinteresse sono lʼosteoncologia e tumori rari e la prevenzione oncologica. Federica Rossi DVM, Spec Rad Vet, Dipl ECVDI Laureata nel novembre 1993 presso lʼUniversità degli Studi di Bologna, si è specializzata in radiologia veterinaria nel 1993 e si è diplomata nel 2003 al college europeo di diagnostica per immagini. È autrice di oltre 40 pubblicazione scientifiche nazionali e internazionali, revisore di edizioni italiane di testi di diagnostica per immagini, inoltre coautore del testo di Radiologia del cane e del gatto (Poletto editore, 2005), del Manuale di ecografia del cane e del gatto (BSAVA, 2011) e del testo Veterinary Computed Tomography (Wiley-Blackwell, 2011). Dal 2007 al 2010 è stata presidente della Società Veterinaria Italiana di Diagnostica per Immagini (SVIDI) e dal 2006 al 2009 presidente dellʼEAVDI (European Association of Veterinary Diagnostic Imaging). Dal 2010 è presidente SCIVAC. Dal 1993 lavora come libero professionista, svolgendo attività di referenza in diagnostica per immagini a Sasso Marconi (Bologna), dove si occupa di radiologia, ecografia e tomografia computerizzata. Svolge attività di ricerca nel campo dellʼecografia con mezzi di contrasto. Presta, inoltre, la sua attività presso il Centro Oncologico Veterinario (Sasso Marconi, Bologna), primo centro di radioterapia veterinaria italiano, di cui è una dei soci fondatori. Damiano Stefanello DVM, PhD (Oncologia Veterinaria Comparata) - Ricercatore Laurea con lode conseguita a Milano nel 1999. Nel 2004 consegue il titolo di Dottore di Ricerca in Oncologia Veterinaria e Comparata. Attualmente è ricercatore universitario presso la Facoltà di Medicina Veterinaria di Milano, dove si occupa esclusivamente di oncologia clinica, in particolare canina e felina. È responsabile dellʼUnità di Chemioterapia Oncologica Veterinaria presso lʼOspedale Veterinario di Lodi del Polo Universitario di Lodi. Dal 2011 è vicepresidente della Società Italiana di Oncologia Veterinaria (SIONCOV-SCIVAC). Autore e coautore di diverse pubblicazioni internazionali, ha presentato lavori scientifici a congressi nazionali e internazionali e ha partecipato in qualità di relatore a congressi italiani aventi come tema lʼoncologia veterinaria. VIII Prefazione PREFAZIONE (Laura Marconato) Sono passati sette anni dallʼavventura del primo testo italiano di oncologia veterinaria e questo periodo, tutto sommato breve, ha visto unʼenorme evoluzione in campo scientifico, la nascita del primo centro di radioterapia in Italia, la formazione professionale di nuovi resident, che nel prossimo futuro diventeranno specialisti in oncologia medica veterinaria. Questo nuovo testo di oncologia, seppur elaborato da una moltitudine di mani, condensa lo stato dellʼarte in oncologia, preservando unitarietà concettuale e fornendo un impianto didattico semplice e immediato. Questo manuale ha lʼambizione di completezza e praticità: con ciò mi auguro che sia di aiuto a chi di oncologia già si occupa e che possa avvicinare alla materia chi invece è ancora soltanto curioso. Spero di riuscire almeno in parte a trasmettere a chi legge lʼamore e lʼentusiasmo che nutro per questa materia. Ho fortemente desiderato il confronto con lʼoncologia umana (ricordiamoci che in campo oncologico ci aiutiamo a vicenda): il professor Amadori e i suoi collaboratori Marianna e Andrea hanno partecipato con entusiasmo alla stesura di questo testo. Li ringrazio di cuore e sono sicura che tutti i lettori apprezzeranno la parte di oncologia comparata che completa ogni capitolo. Questo libro non esisterebbe senza il contributo dato dai coautori di grande grido, non solo tutti eccellenti professionisti, ma anche e soprattutto amici, che hanno accettato con entusiasmo di partecipare alla stesura di questʼopera, creando un lavoro straordinario. Nonostante la coralità di messaggi, emerge lʼallenamento al dialogo e al confronto reciproco, portando spesso al ripensamento critico delle proprie verità. Ragazzi, grazie, siete mitici!!! Ringrazio Damiano (demien), per tutto quello che abbiamo vissuto insieme, per la lunga strada percorsa (quasi) mano nella mano, per il reciproco sostegno, incoraggiamento, sfogo. Ma anche per tutte le chiacchiere extraoncologiche su skype. Ringrazio Federica (fede), per lʼentusiasmo che trasmette quando lavora, per la professionalità, ma anche per lʼamicizia che ci lega, dal primo incontro a Roma allʼattuale condivisione delle nostre giornate. Ringrazio Giuliano (obama), da anni il “mio” patologo: ti fai inseguire, non ti fai trovare, mi fai fare duemila telefonate, ma alla fine riesci sempre a fare le magie. Ringrazio Julia (giulibuc), guerriera, dose-intensa, dolcissima: lavorare e confrontarmi con te, imparare da te, giorno dopo giorno, caso dopo caso, è stato straordinario. Ringrazio Riccardo (ric), per tutte le cose che abbiamo fatto insieme. Hai visto come sei andato lontano? Only the braves … sai che occupi un posto speciale. Ringrazio Stefano (il biondo), perché lʼoncoematologia può diventare divertente. IX Prefazione Ringrazio Ugo (hugh), amico da sempre, semplicemente meraviglioso. Ci lega tanta vita vissuta insieme (siamo vecchi), non potrei fare a meno di te (e neanche dei soprannomi che mi dai, -Bree-). Ringrazio Vincenzo, che ha creduto di nuovo in me, dandomi la possibilità di scrivere questo trattato. Ringrazio Eliana, non solo editrice di questo testo, ma anche unʼamica che mi ha sempre sostenuto molto, non solo professionalmente. Ringrazio anche il fantastico, paziente team che la circonda e che ha fatto ancora una volta un lavoro eccellente. Ringrazio i miei genitori: il mondo può crollare, ma voi ci siete (ed è bello saperlo). Ringrazio la mia sorellina scapestrata: Kopf hoch! Dedico questo lavoro a due persone speciali. A Tommaso: “Sogna ciò che ti va. Sii ciò che vuoi essere. Perché hai solo una vita e una sola possibilità di fare le cose che vuoi fare dentro di te” (Paolo Coelho). Ho cercato di rubarti il minor tempo possibile, scrivendo mentre tu dormivi o non cʼeri; grazie piccolo mio: mi fai venire voglia di essere una persona migliore. Allʼuomo che mi ha insegnato che i sogni devono passare attraverso i muri di pietra. Sasso Marconi (Bologna), marzo 2012 X Prefazione PREFAZIONE (Dino Amadori) Da quando, più di centocinquanta anni fa, Charles Darwin pubblicò la prima edizione dellʼ Origine della specie, il dibattito filosofico, scientifico e teologico sullʼorigine della specie umana è tuttora aperto e le diverse posizioni culturali si stanno affrontando, senza che si sia ancora raggiunto un livello di sintesi condiviso. Per molto tempo il dibattito si è sviluppato più a livello filosofico e teorico che non a livello biologico e scientifico, determinando così un conflitto, talora fazioso e intollerante, fra due correnti contrapposte, lʼevoluzionistica e la creativistica. Nel tempo, molte evidenze scientifiche si sono accumulate a dimostrazione della “vicinanza biologica” fra le due specie, umana e animale, e il contributo apportato dalla genetica a questa dimostrazione è stato fondamentale. Oggi si sa che i genomi delle diverse specie possono essere paragonati e dal confronto emerge che le maggiori somiglianze si registrano fra specie che si sono separate in tempi più recenti. Allorché si consideri quella componente del genoma che è costituita per 3-5 per cento dai geni in senso stretto, quelli cioè che codificano per specifiche proteine cellulari e ne condizionano il comportamento biologico, e che per 30-35 per cento è costituita dalle regioni di controllo degli stessi geni, le somiglianze fra specie umana e i primati animali superano 98 per cento, facendo ipotizzare che la separazione fra le due specie sia il più recente degli eventi evolutivi. Resta tuttavia un buon 60-65 per cento del genoma del quale ancora oggi non si conoscono le funzioni e che, per questo motivo, viene definito genoma “oscuro” o “in eccesso” o addirittura genoma “spazzatura”, per significare che esso non svolge in realtà alcuna funzione biologica. Un fenomeno di grande interesse è lʼosservazione che le sequenze dei geni in senso stretto sono molto più conservate, quindi simili nei genomi di specie diverse, rispetto a quelle di tutte le altre regioni, e che quella componente del genoma cosiddetta “oscura” o “in eccesso” è caratterizzata da un passaggio più fluido e libero da una specie allʼaltra. Comʼè facile comprendere, soprattutto se si rimane fermi allʼaspetto biomolecolare delle relazioni fra specie umana e altre specie animali, ancora molto lavoro deve essere fatto per conoscere appieno, sempre che questo sia mai possibile, come sia avvenuta e se sia realmente avvenuta la derivazione evoluzionistica dellʼuomo dalle specie animali a lui più vicine. Più recentemente, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, lʼattenzione delle ricerche sulle possibili relazioni evolutive fra uomo e altre specie animali si è spostata al livello più alto dellʼintegrazione fra le proprietà biologiche e le proprietà funzionali, quello dei comportamenti. XI Prefazione In base a studi di psicologia comparata e di eziologia cognitiva, volti a verificare se può essere dimostrata una “continuità mentale” fra uomo e animali, sembra che la mente animale possa possedere un “kit cognitivo” di base che potrebbe attribuire agli animali capacità di apprendimento, di memorizzazione, dʼinterazione sociale, di rappresentazione degli oggetti e anche rudimenti della nozione di spazio, di tempo e persino generica capacità di soluzione di problemi. Se si ammette che i diversi componenti del “kit cognitivo” possono essere più o meno sviluppati in funzione della specifica pressione selettiva dellʼambiente di una determinata specie, ne deriva che il grado dʼintelligenza di soggetti appartenenti a specie diverse è legato a specifiche pressioni ambientali subìte nel corso della loro filogenesi. Guardando poi al comportamento sociale, recenti studi hanno messo in evidenza che i comportamenti dellʼuomo e degli animali sono mediati da processi neurochimici omologhi, più specificamente dai neuropeptidi. I neuropeptidi, lʼossitocina in particolare, sembrano essere, secondo questi studi, la radice “neurochimica” dalla quale prendono origine molteplici aspetti del comportamento sociale degli animali, fra questi il rapporto protezionistico della madre verso il figlio e il reciproco attaccamento, le vocalizzazioni sessuali nei pesci, negli anfibi, negli uccelli e nei mammiferi. Nei primati, lʼossitocina sembrerebbe mediare anche processi psicocomportamentali molto complessi, come lʼempatia e lʼaltruismo. Un dato ancora più sorprendente, emerso dagli studi di zooantropologia e pet-therapy, è che il rilascio di ossitocina può essere provocato anche dallʼinterazione fra uomo e cane! È un dato obiettivo lʼevidenza che lʼinteresse fra le somiglianze e le differenze che distinguono lʼuomo dalle altre specie animali si sta estendendo a più di una disciplina del grande universo della conoscenza dellʼuomo e della sua origine. Tuttavia, fino a oggi tutte le ricerche si sono rivolte esclusivamente alle dinamiche “fisiologiche” del rapporto evolutivo fra specie umana e altre specie animali. Ma come stanno le cose dal punto di vista delle differenze/somiglianze fra uomo e animale nel campo della patologia? È ormai di accezione comune il concetto che se cʼè una malattia “genetica” per definizione, questa è il cancro. Lo è per la sua genesi, per i meccanismi che ne regolano la progressione, per il condizionamento genetico della risposta o della resistenza ai trattamenti specifici, per la stessa natura ereditaria o sporadica e per il definitivo esito della malattia. Molti dei successi e dei fallimenti terapeutici, soprattutto di quelli farmacologici, che si registrano nei tumori maligni hanno una base farmacogenetica, che condiziona anche gran parte degli effetti tossici delle terapie antiblastiche. Come stanno le cose a questo proposito nel mondo animale? Quali sono le caratteristiche epidemiologiche, cliniche ed evolutive della patologia oncologica nelle due specie, umana e animale? Sono questi gli interrogativi che hanno stimolato la nostra curiosità e che ci hanno spinto a produrre questa opera di oncologia comparata, anche se il nostro lavoro si è limitato semplicemente a presentare lo stato dellʼarte della diagnosi, della caratterizzazione istologica e molecolare e della terapia dei tumori osservati nellʼuomo e nellʼanimale. Ben altri approfondimenti sono necessari per rispondere a quasi tutte le domande che ho sopra formulato, ma non è escluso che a questa prima fatica editoriale non possa far seguito un successivo, ancora più affascinante lavoro di ricerca in un settore della conoscenza umana che attiene al mistero più profondo del nostro essere, quello della nostra origine e del nostro destino ultimo. Meldola (Forlì), aprile 2012 XII cap 1 1-9:gabbia 28-05-2012 16:29 Pagina 1 PARTE GENERALE cap 1 1-9:gabbia 28-05-2012 16:29 Pagina 2 PARTE GENERALE capitolo 1 APPROCCIO AL PROPRIETARIO DEL PAZIENTE ONCOLOGICO Damiano Stefanello Il medico veterinario che svolge la propria attività relazionandosi con proprietari di cani e gatti utilizza costantemente la comunicazione come strumento dʼinterazione. La comunicazione rappresenta lo strumento primario del rapporto interpersonale, che viene utilizzato in qualsiasi ambito lavorativo e non, per ottenere e dare informazioni: infatti, è ampiamente riconosciuto che ogni rapporto interpersonale inizia, prosegue, si modifica e finisce attraverso un rapporto di comunicazione. Nellʼattività clinica il medico veterinario utilizza la comunicazione e, in particolare, quella di tipo verbale come principale strumento per interagire con il proprietario mediante intenti differenti, che vanno dalla gestione quotidiana del “pet” (alimentazione, igiene, comportamento e profilassi vaccinali), alla necessità di approfondire riscontri clinici con esami più approfonditi, proposte terapeutiche, comunicazione di eventuale insuccesso terapeutico, fino alla comunicazione della scelta eutanasica. È infatti ampiamente riconosciuto che lʼattività clinica del medico veterinario è caratterizzata da elevata esposizione verbale e non, nei confronti del proprietario che avanza spesso richieste di successo terapeutico garantito, di prognosi favorevole o che non infrequentemente misura la necessità di un intervento sanitario con i costi di prestazioni e non con lʼobbiettivo principale di migliorare qualità di vita e/o quantità di vita del pet. Lʼoncologia clinica del cane e del gatto è presente in ambito pratico da molti anni in Italia, anche se le possibilità diagnostiche e terapeutiche sono mutate e sono state fortemente migliorate, grazie a tecnologia e maggior professionalità di medici veterinari, che con caparbietà e studio hanno consentito di raggiungere standard di gestione decisamente elevati nella pratica clinica. È però doveroso sottolineare che tecnologia e professionalità del medico veterinario sono stati fortemente 2 aiutati da proprietari sempre più disposti a sottoporre i propri animali a trattamenti, che hanno come obbiettivo principale non la cura, ma il miglioramento di qualità di vita: è il caso, per esempio, di alcune malattie linfoproliferative, tra cui linfoma e leucemie acute. La diversa predisposizione del proprietario a investire tempo e denaro nella gestione di malattie oncologiche canine e feline è in gran parte dovuta al mutato ruolo da semplici animali da compagnia a reali componenti della famiglia. Il medico veterinario si confronta con pazienti canini e felini che sempre più spesso sono considerati componenti attivi del nucleo familiare, tanto che da essi o su di essi dipendono e ricadono i rapporti affettivi dei componenti stessi della famiglia. Non è più insolito che scelte diagnostiche e terapeutiche e prognosi dichiarata dal medico veterinario siano non infrequentemente messe in discussione dal proprietario per diverse ragioni, che spesso sorprendentemente esulano dai rapporti di fiducia con il professionista, ma che esprimono da parte del proprietario un rapporto di dipendenza dal e del pet. È naturale pertanto considerare che il ruolo di comunicazione in oncologia veterinaria sia strategico non solo da un punto di vista di rapporto commerciale veterinario-cliente, ma di gestione sanitaria del problema oncologico in funzione di rapporto tra pet e proprietario. In medicina umana, nelle varie specialità cliniche, il ruolo di comunicazione è considerato strategico, rilevato dallʼesigenza di suggerire specifici corsi postlaurea dedicati. La carenza in ambito di comunicazione è soprattutto avvertita in oncologia clinica, dove più spesso vengono messe a dura prova le abilità comunicative dellʼoncologo. In medicina veterinaria, il clinico che si dedica allʼoncologia e ovviamente lo specialista in oncologia deve tenere in considerazione la comunicazione come strumento per interagire con il proprietario nellʼintento di aiutarlo cap 1 1-9:gabbia 28-05-2012 16:29 Pagina 3 capitolo 1 Approccio al proprietario del paziente oncologico a compiere scelte oggettive che diano possibilità di trattamento e, dove possibile, di cura a cani e gatti con neoplasia. Il ruolo di comunicazione in oncologia veterinaria e in medicina veterinaria, in generale, assume elevata importanza se si considera che il proprietario decide per il suo pet e che il veterinario si interfaccia non direttamente con il paziente ma con il suo tutore, che in molti casi assume sempre più i connotati del proprietario-genitore, avvicinando medico veterinario e specialista in oncologia veterinaria, almeno per la gestione dei consulti, allo specialista in oncologia pediatrica. Per tutti questi motivi verranno descritti, seppur parzialmente, meccanismi ed elementi di comunicazione, per meglio introdurre e comprendere lʼimportanza di una buona gestione del proprietario del paziente oncologico e indagare suoi potenziali meccanismi decisionali nelle diverse fasi della malattia oncologica (comunicazione di diagnosi, terapia, eventuale fallimento terapeutico ed eutanasia), con il primario obbiettivo di fornire una comunicazione onesta ed efficace. È innanzitutto importante riconoscere la comunicazione come processo dinamico, che prevede codificazione e interpretazione di qualsiasi cosa detta e fatta di fronte a un interlocutore. Scambio di messaggi e successiva decodifica avvengono tra due attori della comunicazione, che nel caso specifico della medicina veterinaria sono emittente, che sʼidentifica con il medico veterinario, e ricevente, che sʼidentifica con il proprietario-genitore. La prima regola che si deve tenere in considerazione è che il medico veterinario, in qualità di emittente, deve essere conscio di regole di comunicazione nellʼintento di codificare un messaggio chiaro e facilmente comprensibile per il ricevente. La seconda regola è di prevedere, almeno in parte, possibili reazioni e domande dellʼemittente, per decodificare i suoi messaggi in modo corretto e adeguato, nellʼintento di disporre di comunicazione persuasiva per ottenere permesso e consenso di gestione clinico-oncologica del pet. Il medico veterinario, pertanto, come attore principale di comunicazione in un contesto clinico che fornisce parere sanitario, deve soprattutto sapere che le variabili che possono condizionare il processo comunicativo sono molteplici ed è altresì indispensabile riconoscere che lo stile comunicativo si modifica nel corso degli anni, rischiando spesso dʼimpoverirsi di dettagli, se quotidianamente il modo di comunicare non subisce analisi critica costruttiva e adeguato aggiornamento, rifacendosi a regole generali di comunicazione. A questo proposito è doveroso ricordare che medici e medici veterinari che si occupano esclusivamente di una specialità tendono a comunicare le medesime informazioni e a rispondere alle medesime domande quasi tutti i giorni. Questa ripetitività rischia di compromettere la qualità di comunicazione, in quanto lo specialista tende a dare per scontato informazioni, dettagli e priorità che nella maggior parte dei casi non sono conosciuti dallʼinterlocutore. Per questo motivo, è indispensabile rifarsi a uno schema generale, che consenta di esprimere un modello comunicativo bidirezionale e che, al tempo stesso, non risenta in modo compromettente di variabili occasionali, come stato dʼanimo, debolezze o, molto più comunemente, stanchezza e stress. È fondamentale che il medico veterinario interagisca con il proprietario, utilizzando una comunicazione cosiddetta bidirezionale, dove a codificare e decodificare i messaggi sono emittente e ricevente simultaneamente. Tuttavia, è anche importante ricordare che il modo in cui i messaggi sono codificati e decodificati sia da emittente sia da ricevente dipende da atteggiamenti, conoscenze, valori e aspettative dei rispettivi attori. Atteggiamenti, conoscenze, valori e aspettative riassumono personalità ed esperienze vissute di una persona e, pertanto, ne condizionano il modo di codificare e decodificare un messaggio. Sicuramente le strategie comunicative risultano più efficaci se lʼinterlocutore è conosciuto da tempo, in quanto le informazioni disponibili da parte del medico veterinario sul ricevente riescono a essere calibrate e mirate. La conoscenza approfondita dellʼinterlocutore è possibile se il proprietario è già cliente della clinica veterinaria e questo può agevolare lʼemittente nel comunicare le cosiddette cattive notizie, poiché il messaggio da codificare risulta essere meglio contestualizzato. In realtà, quando il consulto è gestito da uno specialista, è molto probabile che lʼemittente disponga di poche informazioni sul ricevente (proprietario-genitore) e abbia poco tempo per instaurare una comunicazione bidirezionale giusta e onesta. Per questo motivo, la conoscenza di idee e convinzioni del proprietario-genitore, per quanto generiche, consente al medico veterinario di affrontare in modo corretto almeno il primo consulto, che da sempre è considerato cruciale, anche in onco3 PARTE GENERALE fomi mediastinico, multicentrico, extranodale e leucemico rappresentano le forme più comunemente associate a infezione con FeLV. • FIV è un lentivirus morfologicamente simile al virus dʼimmunodeficienza umana (HIV), ma antigenicamente diverso. FIV si trasmette per inoculazione diretta di saliva o sangue attraverso ferite da morso; sʼipotizzano inoltre trasmissioni veneree, durante gravidanza, parto o allattamento. FIV replica in linfociti T CD4+ e CD8+, linfociti B, macrofagi e astrociti. Lʼinfezione con FIV predispone alcuni gatti allo sviluppo di linfoma; possibili motivi sono cronica deficienza del sistema immunitario oppure attivazione di meccanismi dʼazione oncogeni che facilitano la trasformazione maligna delle cellule. Di solito, si tratta di linfoma extranodale, che interessa gatti adulti e anziani. • FeSV è un raro ibrido che deriva da ricombinazione tra FeLV esogeno e protoncogeni contenuti nel genoma felino; pertanto, gatti infettati da FeSV sono sempre FeLV-positivi. FeSV provoca lʼinsorgenza di fibrosarcomi che, contrariamente a quelli non FeSV-indotti, sono multicentrici e si sviluppano in gatti giovani. La crescita è molto rapida, con tempo di raddoppiamento spesso < 12-72 ore. Le lesioni sono in genere localizzate in corrispondenza di ferite o morsi. Cancerogenesi chimica I composti chimici riconosciuti come cancerogeni negli animali sono molteplici e la loro pericolosità è legata alla produzione di radicali che interagiscono con DNA cellulare, danneggiandone la corretta struttura chimica. Le sostanze cancerogene devono quasi sempre essere metabolizzate in composti attivi a livello epatico per mezzo del sistema microsomiale. Agenti cancerogeni sono: • composti organici (benzene, idrocarburi policiclici, amine aromatiche, agenti alchilanti, derivati anilinici, azocomposti); • composti inorganici (arsenico, asbesto, ferro, cromo, nichel, berillio, cobalto). • Ciclofosfamide è un agente alchilante citotossico utilizzato in molti protocolli chemioterapici in pazienti sia umani sia animali. Ciclofosfamide viene decomposta in mostarda fosforamidica (composto attivo) e acroleina (composto tossico). Acroleina è escreta intatta nelle urine, dove viene a 14 contatto con la mucosa vescicale, comportando alterazioni irreversibili, tra cui edema, necrosi, emorragia, fibrosi e mineralizzazione distrofica. Clinicamente, si osserva cistite emorragica inizialmente sterile, che tende a diventare settica in seguito a necrosi mucosale. Lʼuso a lungo termine di ciclofosfamide ad alte dosi può provocare carcinoma uroteliale a carico di vescica. • Lʼuso prolungato di agenti alchilanti, in generale (per esempio, per il trattamento di linfoma multicentrico nel cane), può comportare la comparsa di secondo tumore (prevalentemente sarcomi) mesi/anni dopo il termine della chemioterapia. • Alcuni ingredienti presenti in prodotti antiparassitari, tra cui petrolio, poliesteri e xilene, sono stati associati a sviluppo di carcinoma uroteliale di vescica nel cane. Si è visto, infatti, che cani esposti a insetticidi topici hanno rischio maggiore di sviluppare tumore vescicale. • Uno studio ha dimostrato correlazione significativa tra esposizione a erbicida acido 2,4-diclorofenossiacetico (2,4-D) e linfoma nel cane. Lo studio concludeva che i proprietari di cani con linfoma applicavano lʼerbicida più frequentemente rispetto a proprietari di cani sani. La stessa osservazione è stata fatta in seguito a studi epidemiologici umani, che hanno riportato modesta associazione tra esposizione a 2,4-D e maggiore rischio di sviluppare linfoma non Hodgkin nellʼuomo, paragonabile istologicamente a quello canino. • Asbesto, materiale utilizzato in edilizia, comprende una famiglia di silicati fibrosi. Lʼesposizione a fibre di asbesto è stata correlata allo sviluppo, nellʼuomo e negli animali domestici, di mesotelioma, raro tumore maligno delle cellule epiteliali che rivestono le cavità celomiche del corpo, ovvero cavità pleurica, pericardica e peritoneale. Le fibre più sottili, una volta inalate, tendono a depositarsi in vie aeree terminali e negli alveoli e sono responsabili di un processo infiammatorio iniziale, che porta lentamente a trasformazione maligna di cellule mesoteliali. Uno studio ha dimostrato che anche i cani esposti ad asbesto sono più a rischio per lo sviluppo di mesotelioma, in particolare quelli che vivono in ambiente urbano. • Dalla combustione di tabacco si liberano sostanze irritative e cancerogene, tra cui idrocarburi policiclici aromatici e N-nitrosamine. Gli effetti tossici e cancerogeni di fumo di sigaretta si traducono a livello polmonare in alterazioni strutturali irreversibili di bronchi e alveoli, incapacità funzionale di difesa umorale e cellulare e, in ul- capitolo 2 Epidemiologia ed eziologia neoplastiche tima analisi, crescita tumorale. Gli effetti nocivi del fumo di sigaretta negli uomini sono noti da molto tempo, ma recentemente è stata rilevata lʼimportanza epidemiologica del fumo passivo anche in animali domestici. Uno studio recente ha dimostrato che gatti che convivono con fumatori sono due volte più a rischio di sviluppare linfoma e la percentuale aumenta con numero di sigarette fumate, numero di fumatori per ambiente domestico e durata dellʼesposizione. Il gatto esposto al fumo passivo non solo lo inala, ma ne ingerisce le particelle che si depositano sul suo mantello durante il leccamento. • Gatti esposti a fumo passivo hanno inoltre rischio aumentato di sviluppare carcinoma squamocellulare (SCC) orale. Gatti i cui proprietari fumavano 1-19 sigarette al dì avevano rischio aumentato di 4 volte di sviluppare SCC rispetto a gatti che vivevano in ambiente privo di fumatori; tale differenza era statisticamente significativa. • Anche cani esposti a fumo passivo o aria inquinata sono maggiormente a rischio di sviluppare tumori polmonari. • Gatti che indossavano collari antipulci avevano rischio aumentato di 5 volte di sviluppare SCC orale rispetto a gatti-controllo, attribuibile a vicinanza tra pesticidi e cavo orale. Lʼuso regolare di shampoo antiparassitari riduceva invece il rischio di sviluppare SCC orale di 90 per cento, dal momento che i bagni frequenti rimuovono contaminanti chimici dal mantello, con secondaria ridotta assunzione orale durante la pulizia. • Gatti alimentati con cibo umido (in particolare, a base di tonno) avevano rischio di 3-5 volte superiore rispetto a gatti-controllo di sviluppare SCC orale. Gatti alimentati con cibo secco hanno, infatti, ridotto accumulo di tartaro e, conseguentemente, migliore igiene orale. Anche nellʼuomo la scarsa igiene orale è stata associata a maggiore rischio di sviluppare SCC. • La residenza in aree urbane inquinate aumenta il rischio di sviluppare SCC tonsillare nel cane. Lʼemissione di sostanze tossiche (tra cui diossina) da rifiuti urbani incendiati favorisce cancerogenesi nellʼuomo e nel cane. In questʼultima specie, il rischio di sviluppare linfoma è aumentato di 2,39 volte. • Le radiazioni ultraviolette (UV) appartengono a spettro elettromagnetico a corta lunghezza dʼonda adiacente alla zona di violetto di luce visibile. È stato dimostrato che le radiazioni di lunghezza dʼonda compresa tra 290 e 320 nm (UV-B) hanno ruolo patogenetico importante, poiché alterano il sistema immunitario e danneggiano direttamente il DNA. Un esempio molto indicativo è lo sviluppo negli animali a mantello bianco di SCC cutaneo in seguito a esposizione a raggi del sole, oppure in corrispondenza di aree glabre del corpo, come, per esempio, planum nasale, addome o estremità di padiglioni auricolari (figure 2 e 3). La lesione iniziale è caratterizzata da dermatosi che evolve successivamente a carcinoma. Lʼazione cancerogena è dose-dipendente ed è legata a esposizione cronica e cumulativa, anziché a unica dose. • Lʼenergia di radiazioni ionizzanti determina un danno a carico di DNA, con conseguenti alterazioni mutagene e oncogene. Nellʼuomo, ma anFigura 2 - Carcinoma squamocellulare UVA-indotto su planum nasale in gatto. Figura 3 - Carcinoma squamocellulare UVA-indotto, che interessa padiglione auricolare di gatto a mantello chiaro. Cancerogenesi fisica Gli agenti fisici cancerogeni sono radiazioni ultraviolette, radiazioni ionizzanti e corpi estranei. 15 cap 4 26-34:gabbia 28-05-2012 16:30 Pagina 26 PARTE GENERALE capitolo 4 CANCRO E PATOLOGIA Giuliano Bettini Ruolo del patologo Il compito del patologo nella gestione del paziente oncologico, o sospetto tale, è innanzitutto la diagnosi. Il cancro è una malattia della proliferazione cellulare e la conferma certa di natura e tipo di malattia tumorale che si sta verificando in un animale (ovvero, la diagnosi) può derivare a tuttʼoggi solo dallʼesame microscopico delle cellule, con tecniche di citologia o dʼistologia. In un concetto attuale di oncologia, inoltre, la semplice affermazione se si tratta di tumore o meno, e se benigno o maligno, non è più considerata sufficiente. Lʼidea che non tutte le neoplasie maligne sono ugualmente maligne è ormai assodata e al patologo è spesso chiesto di fornire informazioni correlate al comportamento biologico, per esempio, tramite formulazione del grading istologico o applicazione di metodiche immunoistochimiche o biomolecolari. Nelle neoformazioni asportate chirurgicamente, inoltre, il patologo deve anche pronunciarsi su completezza di escissione chirurgica. Il patologo svolge quindi ruolo cardine nellʼoncologia, che spesso va oltre la diagnosi. Collaborazione tra clinico e patologo significa che entrambi devono cooperare per ottenere il migliore risultato possibile e cioè diagnosi attendibile e maggiore quantità possibile di altre informazioni, utili per definizione di prognosi e pianificazione di migliore strategia terapeutica. Affinché questa cooperazione sia efficace, entrambi gli attori, clinico e patologo, devono conoscere le peculiarità del lavoro dellʼaltro: il clinico, per mettere il patologo in condizione di applicare al meglio le sue cognizioni; il patologo, per avere chiaro quali sono le informazioni di cui il clinico ha maggiore necessità. In questo capitolo saranno passati in rapida rassegna gli aspetti del lavoro del patologo che devono essere meglio noti al clinico, per quanto attiene a campionamento, refertazione, grading isto26 logico e valutazione dei margini. Nel capitolo successivo, saranno esemplificate alcune ulteriori determinazioni cui il patologo può ricorrere per perfezionare la diagnosi o per fornire informazioni aggiuntive (istochimica, immunoistochimica, microscopia elettronica, biologia molecolare). Corretta gestione del campione Il lavoro del patologo inizia dal campione, ovvero dal frammento di tessuto prelevato con idonee metodiche (biopsia) che, dopo opportuni trattamenti, in laboratorio sarà trasformato in preparato istologico da esaminare al microscopio. La biopsia è il ponte attraverso cui inizia il dialogo tra clinico e patologo. Affinché questo dialogo sia efficace, è però necessario che il patologo sia conscio di difficoltà e limitazioni cui può essere sottoposto il clinico nel prelevare un campione e il clinico deve conoscere le fasi che portano a realizzazione di preparato istologico e le modalità con cui si svolge lʼesame istologico e si raggiunge la diagnosi, per comprenderne le limitazioni. I campioni destinati allʼesame istologico possono derivare da biopsie incisionali o escissionali. La biopsia incisionale è eseguita con bisturi o altri strumenti taglienti come punch, tru-cut, pinze endoscopiche, secondo caratteristiche e localizzazione del tessuto che deve essere campionato, e si limita al prelievo di un piccolo frammento. La biopsia escissionale consiste nellʼasportazione chirurgica dellʼintera lesione, su cui è successivamente condotto lʼesame istologico (limitata a casi in cui è stato precedentemente condotto esame citologico o a rari casi in cui la procedura chirurgica è scarsamente condizionata da diagnosi: per esempio, splenectomia). Indipendentemente dalle modalità con cui è eseguito il prelievo, si elencano di seguito alcuni suggerimenti al riguardo, che mirano a evitare che il prelievo bioptico risul- cap 4 26-34:gabbia 28-05-2012 16:30 Pagina 27 capitolo 4 Cancro e patologia ti in esito non diagnostico per motivi tecnici o inadeguata pianificazione. • Dimensioni: le biopsie incisionali sono spesso di piccole o piccolissime dimensioni e ciò può rendere la diagnosi meno attendibile o impossibile. In linea di massima, in campioni il cui diametro maggiore è inferiore al millimetro possono essere apprezzate solo caratteristiche citologiche e non caratteristiche istologiche; tanto più è piccolo il campione, maggiore è la possibilità che esso comprenda solo aree connettivali o di concomitante flogosi; i campioni ottenuti da tessuti friabili tendono a frammentarsi o addirittura a dissolversi in formalina: in questi casi, può essere utile procurarsi gabbiette da istologia in cui inserire i campioni o avvolgerli in carta prima di fissarli. • Numero: tanto più piccoli sono i campioni, tanto maggiore deve essere il loro numero, per aumentare le possibilità che il campione sia rappresentativo; in ogni caso, mai un solo campione; maggiori sono le dimensioni della massa, maggiore il numero di campioni da prelevare. • Aree da campionare: evitare aree che allʼesame macroscopico o alla diagnostica per immagini appaiono necrotiche, emorragiche o cistiche; se sono evidenti aree di aspetto diverso, ognuna di queste deve essere campionata; privilegiare aree dove il tessuto appare compatto; di regola è più probabile che la porzione centrale di neoplasie voluminose sia necrotica; tuttavia, in alcuni casi (per esempio, osteosarcoma), deve essere privilegiato il prelievo di aree centrali; in biopsie escissionali selezionare anche il punto di transizione tra tessuto normale e patologico, dal cui esame è possibile avere utili informazioni su tipo di accrescimento e potenziale infiltrante. • Manipolazione: i piccoli campioni bioptici sono soggetti ad artefatti da schiacciamento, soprattutto prima della fissazione. I campioni devono essere estratti da pinza bioptica, punch o tru-cut con la massima cura, aiutandosi con un ago ed evitando lʼuso di pinze; i piccoli campioni non devono essere posti su garze o altro materiale assorbente, che ne determinerebbero la rapida disidratazione, ma eventualmente su apposita carta o spugnette imbevute di soluzione fisiologica o formalina; la fissazione deve avvenire subito dopo il prelievo: pertanto, il contenitore deve essere preparato con adeguato anticipo e prontamente disponibile. • Fissazione: la fissazione ha lo scopo di blocca- re i processi di autolisi e preparare il campione a successivi passaggi di laboratorio. Il liquido fissativo comunemente utilizzato è formalina per istologia, che si ottiene diluendo a 10 per cento formalina di commercio (ovvero, soluzione di formaldeide a 40 per cento): i campioni sono pertanto immersi in soluzione di formaldeide a 4 per cento. La formalina, che normalmente è tamponata a pH 7-7,2 allo scopo di garantire migliore preservazione delle caratteristiche del tessuto, determina fissazione del tessuto grazie a formazione di legami a ponte tra le proteine, più precisamente tra residui di lisina; tali legami non modificano in maniera determinante la struttura proteica, per cui lʼantigenicità non viene perduta e ciò consente anche la successiva applicazione di metodi di rivelazione immunoistochimica. La formalina ha buon potere di penetrazione nei tessuti ma, affinché la fissazione avvenga in tempi rapidi in tutto il campione, è necessario che i pezzi non abbiano spessore > 6-7 mm e che siano immersi in quantità sufficiente di fissativo (almeno 10 volte il volume del materiale da fissare). Il tempo necessario per avere fissazione completa varia in funzione di dimensioni e caratteristiche del campione; generalmente, la fissazione è considerata completa dopo 24 ore, trascorse le quali il pezzo può essere avviato a successive procedure istologiche. La conservazione di un campione in formalina non altera le caratteristiche morfologiche per un tempo indefinito (mesi, anni), ma può precludere la possibilità di ricorrere ad approfondimenti immunoistochimici. Il contenitore destinato a contenere campione e formalina deve essere idoneo, e cioè infrangibile, a chiusura ermetica, di dimensioni adeguate, con apertura sufficientemente ampia da permettere il comodo passaggio del pezzo fissato (la fissazione indurisce il tessuto). • Identificazione e informazioni di accompagnamento: molti laboratori di patologia forniscono moduli di accompagnamento; in ogni caso, i dati essenziali da comunicare al patologo sono segnalamento, anamnesi, sintomatologia, aspetto e localizzazione della neoformazione, eventuali terapie attuate prima del prelievo, eventuali quesiti specifici; le informazioni clinico-anamnestiche permettono al patologo di articolare meglio le diagnosi differenziali e di fornire, quindi, responsi più accurati; quando si inviano biopsie multiple, se non espressamente specificato, il patologo considererà tutti i campioni come prove27 cap 6 43-54:gabbia 28-05-2012 16:31 Pagina 46 PARTE GENERALE Alcuni autori consigliano, inoltre, lʼasciugatura rapida del materiale, specie se estremamente fluido, al fine di ottenere migliore conservazione delle cellule stesse. In particolare, per ottenere materiale derivante da versamenti cavitari (toracici o addominali), si può ricorrere allʼausilio della diagnostica per immagini (ecografia, in particolare); il prelievo viene effettuato con aghi di diametro variabile e lʼanestesia locale è raramente necessaria. Come già si è detto in precedenza, poiché il numero di cellule allʼinterno del fluido può essere estremamente variabile, il principale limite in questo tipo dʼindagine è rappresentato da scarsa o assente cellularità. I rischi collegati alla procedura sono limitatissimi e correlati a possibile perforazione di organi interni (come milza, intestino, polmoni) o accumulo di liquido nel sottocute. Il liquido prelevato viene, come già si è detto, in parte strisciato direttamente e in parte conservato in provette contenenti anticoagulante (EDTA), in attesa della processazione sopradescritta. Colorazioni Le colorazioni più frequentemente impiegate in citologia neoplastica sono rappresentate da quelle tipo Romanowsky. Queste colorazioni (Wright, Giemsa, Diff-Quik® o Hemacolor®) sono facili da utilizzare, da conservare e da interpretare. Ogni colorazione possiede le sue caratteristiche procedure di impiego e preparazione, che dovrebbero essere seguite in generale, pur con alcune differenti possibilità di adattamento. Per esempio, strisci spessi, quali quelli provenienti da linfonodi, fegato o midollo osseo, possono necessitare di tempi più lunghi di colorazione per permettere adeguata penetrazione di coloranti allʼinterno di cellule, mentre strisci sottili, o a basso contenuto proteico, quali prelievi derivanti da liquido cefalorachidiano, urine, o trasudati puri, possono richiedere tempi più brevi. È assolutamente necessario che i vetrini da sottoporre a esame citologico non siano conservati in prossimità di contenitori di formalina e non siano spediti insieme a contenitori che contengono frammenti di tessuto da inviare allʼesame istologico: i vapori di formalina, infatti, tendono a penetrare nelle cellule presenti sui vetrini e ad alterarne le caratteristiche tintoriali; in queste occasioni le cellule assumono colorazione blu-verdastra e perdono i dettagli nucleocitoplasmatici; pertanto, il campione diventa spesso illeggibile e viene richiesto un nuovo campionamento. 46 Per lʼinvio al laboratorio del campione prelevato, è sempre consigliabile utilizzare contenitori rigidi, al fine di evitare la frantumazione dei vetrini inviati. È inoltre necessario allegare al campione inviato tutte le informazioni relative al caso, compresi, evidentemente, segnalamento e anamnesi accurate. È consigliabile, infine, utilizzare vetrini con banda sabbiata sulla quale scrivere, a matita, identificazione del paziente e sito di provenienza del prelievo, quando vengono campionati siti di prelievo differenti. Lettura citologica e interpretazione del campione Premessa importante è rappresentata dalla necessità di adeguata esperienza da parte del citopatologo, poiché ci si può spesso trovare di fronte a quadri citologici di difficile interpretazione: in tal caso, solo esperienza di base e continuo aggiornamento possono aiutare chi interpreta il campione a raggiungere una diagnosi precisa e accurata. Il campione sospetto per neoplasia viene esaminato dapprima a piccolo ingrandimento (10x o 20x), al fine di valutare adeguatezza di preparazione e colorazione, nonché qualità del preparato. Particolare attenzione deve essere prestata ai margini del preparato stesso dove, in particolare per quanto riguarda la citologia di lesioni a contenuto liquido e la citologia esfoliativa, può spesso concentrarsi la maggior parte di cellule diagnostiche. È opportuno, inoltre, puntualizzare che è consigliabile esaminare con accuratezza i margini di campioni spessi, dove le cellule si dispongono in monostrato e si colorano, quindi, con maggiore intensità e in maniera adeguata. Dopo la valutazione del campione a piccolo ingrandimento, questo viene accuratamente esaminato a elevato ingrandimento (40x o 100x), al fine dʼinterpretare le caratteristiche nucleocitoplasmatiche delle cellule. Vengono in successione riportati nel referto: • qualità e adeguatezza del campione; • popolazione cellulare prevalente (se una prevale rispetto alle altre); • descrizione citomorfologica di popolazioni cellulari presenti; • commento e conclusione. In particolare, occorre definire se le cellule presenti sono normali, se rappresentano processo infiammatorio, processo iperplastico/displastico o neoplasia. Campioni inconclusivi sono rappresentati da cam- cap 6 43-54:gabbia 28-05-2012 16:31 Pagina 47 capitolo 6 Citologia oncologica e metodiche correlate pioni acellulari o ematici: in tal caso, può essere necessario un secondo tentativo di campionamento citologico, o lʼesecuzione di procedure diagnostiche più invasive (come biopsia tissutale). Campioni “negativi per neoplasia” possono essere campioni inconclusivi o campioni che, pur derivando da tessuto neoplastico, non contengono cellule diagnostiche della patologia in atto. Lʼesame citopatologico deve essere sempre seguito da valutazione istopatologica della neoplasia, anche in casi in cui lʼesaminatore ritiene di aver raggiunto diagnosi conclusiva tramite lʼindagine citopatologica. Infine, la biopsia citologica linfonodale permette spesso lʼidentificazione di metastasi. Infatti, le notevoli differenze citomorfologiche delle cellule neoplastiche metastatiche, rispetto al monomorfismo delle cellule linfoidi, sono spesso di notevole aiuto nellʼidentificare il coinvolgimento linfonodale da parte di neoplasie maligne. La citologia linfonodale, che può essere approntata sia su linfonodi esplorabili, sia su linfonodi allʼinterno di cavità corporee, permette quindi la corretta stadiazione (diffusione) del processo neoplastico. Classificazione citologica delle neoplasie Una delle finalità più importanti dellʼesame citologico è rappresentata dalla differenziazione tra processo neoplastico e processo infiammatorio. Altri fini dellʼesame citologico, nellʼambito del pro- cesso neoplastico, sono rappresentati dalla definizione dellʼorigine della neoplasia stessa e dal tentativo di differenziare la neoplasia benigna da quella maligna. Nellʼambito della lettura di un esame citologico, rivestono particolare importanza i criteri o caratteri di malignità delle cellule che si esaminano, in particolare per neoplasie di origine epiteliale e mesenchimale. Si riconoscono: • criteri di malignità generali, quali ipercellularità, pleomorfismo (variazione di forma delle cellule di uno stesso tipo), anisocitosi (variazione di dimensioni delle cellule) e macrocitosi (aumento di dimensioni delle cellule); • criteri di malignità nucleare, quali anisocariosi, macrocariosi, nuclear molding, aumentato rapporto nucleo/citoplasma, multinucleazione, irregolarità della membrana nucleare, mitosi atipiche, cromatina grossolana e irregolarmente distribuita e anomalie nucleolari (macronucleoli, nucleoli angolari); • criteri di malignità citoplasmatica, quali basofilia, vacuolizzazioni, margini citoplasmatici irregolari o indistinti. Nella valutazione del potenziale maligno di una neoplasia si considerano, in particolare, criteri di malignità generali e nucleari, più accurati nel definire il potenziale maligno di un tumore. I criteri di malignità citoplasmatica rivestono invece impor- Tabella I - Caratteristiche citologiche generali dei tumori. (Da: COWELL RL, TYLER RD, MEINKOTH JH ET AL, 2008; modificata). categoria dimensione delle cellule forma cellularità delle cellule dei campioni presenza di aggregati epiteliale grandi rotonde angolate di solito elevata sì mesenchimale (cellule fusate) piccole medie fusate stellate di solito bassa no piccole medie rotonde di solito elevata no mastocitoma linfoma rotondocellulare tumore venereo istiocitoma 47 cap 7 55-68:gabbia 28-05-2012 16:32 Pagina 58 PARTE GENERALE raggiungere conte elevate, anche se aumenti del numero di piastrine non sono eccezionali in corso di neoplasie (più spesso in seguito a carenza di ferro e flogosi). Va, inoltre, ricordato che alcuni farmaci, quali vincristina e, più raramente, cortisonici, estrogeni e adrenalina inducono frequentemente trombocitosi, anche considerevole (figura 2). Le trombocitopenie risultano invece più frequentemente associate a coagulazione intravasale disseminata, ipoplasia midollare (da mielottisi o cachessia neoplastica), occasionalmente a radiazioni o a farmaci (anche chemioterapici). Valutazione della coagulazione Se il quadro coagulativo generalmente può fornire scarse indicazioni specifiche per la diagnosi di neoplasia, è da ricordare che i tempi di coagulazione rientrano frequentemente nei parametri valutati come profilo preoperatorio. La valutazione di parametri indicativi di fibrinolisi, quali D-dimeri e prodotti di degradazione della fibrina (PDF), possono invece essere utili per la valutazione sia di coagulazione intravasale disseminata sia di trombosi, complicanze non infrequenti, sia in corso di neoplasie sia nel periodo postoperatorio. Biochimica clinica Da un punto di vista oncologico, la valutazione del quadro biochimico può fornire indicazioni utili, che possono grossolanamente essere riassunte in due aspetti: cosiddetti profili dʼorgano e marker tumorali specifici, utilizzabili da un punto di vista diagnostico e/o prognostico. Profili dʼorgano Lʼutilizzo di profili dʼorgano o profili biochimici, che comprendono un numero anche piuttosto elevato di parametri, è entrato ormai nella consuetudine anche per i pazienti oncologici. Questi esami, seppur spesso ridondanti, possono essere utili per definire funzionalità e danno a carico di organi, quali fegato, rene e pancreas, ma purtroppo forniscono scarse indicazioni specifiche di patologie tumorali. Il loro utilizzo va, pertanto, inteso principalmente come test di screening, utile per valutare soggetti nei quali non è stata ancora emessa diagnosi specifica o per valutare la funzionalità di organi importanti ai fini di metabolizzazione ed escrezione di farmaci chemioterapici. 58 Più raramente, alcuni parametri possono dare indicazioni riguardo localizzazione di neoplasie primitive o secondarismi a carico di organi specifici. In corso di carcinoma epatocellulare, per esempio, ma anche di linfoma e neoplasie metastatiche, si assiste frequentemente a incremento di transaminasi alanintransferasi (ALT) e aspartatotransferasi (AST) e, secondariamente, di indici di colestasi (gammaglutamiltransferasi - GGT - e fosfatasi alcalina - ALP). Al contrario, in corso di carcinoma biliare, ma anche di carcinoma pancreatico, incrementi di enzimi di colestasi sono generalmente più precoci e ingenti e spesso compaiono ittero e bilirubinuria, ma secondariamente possono comparire anche alterazioni di transaminasi. In tutte queste condizioni i parametri di funzionalità epatica appaiono generalmente normali, poiché la massa epatica residua tende a compensare lʼattività di aree colpite. Il profilo epatico risulta, tuttavia, di scarso utilizzo non solo per la diagnosi del tipo di neoplasia, ma persino per distinguere patologie neoplastiche da forme infiammatorie. Unʼanaloga situazione si può riscontrare in corso di carcinoma pancreatico, che può indurre aumenti, anche considerevoli, di amilasi e lipasi, ma anche colestasi con ittero, aumento di ALP, GGT e acidi biliari. Questo quadro non è, tuttavia, differente da quello di patologie infiammatorie, quali pancreatiti acute. Neoplasie del pancreas endocrino (insulinoma), al contrario, sono invece generalmente associate a ipoglicemia, quadro piuttosto caratteristico che, una volta esclusi eventuali errori preanalitici, deve essere confermato con la determinazione dellʼinsulinemia. In questo caso, sono frequentemente riscontrabili anche incrementi di transaminasi e ALP e, più raramente, ipoalbuminemia. Neoplasie renali (soprattutto carcinomi e linfomi) o delle vie urinarie possono indurre iperazotemia renale o postrenale; va, tuttavia, ricordato che lʼaumento di creatinina e urea si riscontra quando si raggiunge la perdita di almeno 75 per cento di nefroni e, pertanto, questo quadro risulta tardivo e peraltro non specifico di neoplasia. Tra i parametri biochimici più spesso associati ad alcune neoplasie, va ricordata ALP. Incrementi dellʼattività di ALP, generalmente < 8 volte il limite superiore del range di riferimento, sono stati riscontrati in 55 per cento dei cani con neoplasie mammarie maligne e in 47 per cento dei cani con neoplasie benigne, indipendentemente da istotipo e presenza di metaplasia ossea. Aumenti di cap 7 55-68:gabbia 28-05-2012 16:32 Pagina 59 capitolo 7 Diagnostica di laboratorio ALP totale o dʼisoenzima osseo sono stati segnalati in cani con osteosarcoma e generalmente associati a prognosi sfavorevole. Infine, aumenti di ALP totale e, in particolare, dellʼisoforma steroidoindotta sono caratteristicamente associati nel cane a iperadrenocorticismo (83-100 per cento dei casi). Marker tumorali La ricerca si è spesso concentrata, in medicina sia umana sia veterinaria, sul tentativo di trovare un test di laboratorio singolo e poco costoso che fosse dʼaiuto nella diagnosi precoce di tumori specifici o nella valutazione di recidiva. In medicina umana sono stati identificati numerosi potenziali marker tumorali, ma gran parte di essi non raggiunge completamente lo scopo, poiché generalmente mostra incrementi biologicamente evidenziabili solo quando la malattia è progredita a uno stadio avanzato (bassa sensibilità e scarsa precocità); inoltre, i livelli ematici possono alzarsi in seguito a differenti patologie neoplastiche e a numerose condizioni non neoplastiche (bassa specificità). I marker attualmente utilizzati in oncologia umana possono essere grossolanamente suddivisi in 5 categorie differenti: • proteine oncofetali (antigene carcinoembrionario - CEA -, α-fetoproteina - AFP); • ormoni (gonadotropina corionica beta - HCG -, ormoni ectopici); • enzimi sierici (fosfatasi acida - ACP -, fosfatasi alcalina - ALP -, latticodeidrogenasi - LDH); • immunoglobuline; • antigeni specifici tumorali (CA-125; CA-15.3; antigene specifico prostatico - PSA). In medicina veterinaria, i tentativi di validare parametri potenzialmente utili per diagnosi precoce e identificazione di recidiva non hanno al momento evidenziato test utilizzabili su larga scala nella pratica clinica, nonostante alcuni di essi possano essere comunque utilizzati con successo in alcune patologie specifiche. Nonostante la concentrazione totale o ionizzata di calcio non possa essere considerata marker tumorale in senso stretto, lʼidentificazione dʼipercalcemia, spesso > 14-15 mg/dl di calcio totale, è nella gran parte dei casi legata a ipercalcemia paraneoplastica (maligna), che accompagna una buona percentuale di neoplasie differenti, quali linfomi, soprattutto mediastinici a immunofenotipo T (non raro nel cane, infrequente nel gatto), carci- nomi apocrini di sacchi anali e altri adenocarcinomi (incluso mammario) e timomi. Nella maggior parte dei casi, questo incremento è dovuto alla produzione da parte del tumore di proteine che competono per i recettori di paratormone (PTHrelated protein, PTH-rp) (vedere capitolo 10). Altre volte lʼipercalcemia è legata a localizzazione primaria a livello osseo (mieloma, linfoma, metastasi ossee) o direttamente a neoplasie paratiroidee con aumento di produzione di PTH (iperparatiroidismo primario). Lʼidentificazione di elevata ipercalcemia in test di screening può, pertanto, essere utile per sospettare neoplasie occulte; tuttavia, mancano studi specifici che identifichino grado di precocità, sensibilità e specificità di tale riscontro per le diagnosi di neoplasia. La presenza dʼipergammaglobulinemia con picco monoclonale, seppur non strettamente patognomonico, va considerato fortemente indicativo di neoplasie della linea plasmocitaria (mieloma multiplo; figura 3). Tra le diagnosi differenziali possibili, va ricordato che, soprattutto utilizzando test in elettroforesi capillare, alcune patologie infettive oligoclonali (soprattutto ehrlichiosi e leishmaniosi) possono presentare picchi similmonoclonali e, pertanto, la diagnosi definitiva richiede la valutazione di aspirato midollare. Recentemente, numerosi studi si sono concentrati sul possibile uso di alcune proteine di fase acuta (APP) come possibili biomarker di neoplasia: in corso di neoplasie di differente natura, infatti, gran parte di APP tende a subire incrementi anche sostanziali. Tuttavia, tali incrementi non consentono di essere distinti da quelli secondari a patologie Figura 3 - Elettroforesi di proteine sieriche: ipergammaglobulinemia con picco monoclonale in cane con mieloma multiplo. albumine globuline γ α2 α1 β 59 PARTE GENERALE A C B Figura 1 - Studio radiografico completo del torace di cane con lesione nodulare (diagnosi finale: adenocarcinoma primario) del lobo craniale destro: proiezioni laterale destra (A), laterale sinistra (B) e ventrodorsale (C). Il nodulo, localizzato a destra, è scarsamente visibile nella proiezione laterale destra, a causa di atelectasia del polmone circostante, mentre è ben contrastato da polmone areato nella proiezione laterale sinistra. La proiezione ventrodorsale consente di confermare la sua localizzazione polmonare. prelievi dalla lesione. La sensibilità della radiologia nella ricerca di metastasi riportata da diversi studi in letteratura varia da 65 a 97 per cento. Un recente studio ha messo a confronto radiologia e TC: nel gruppo di pazienti studiati, solo 9 per cento di tutti i noduli polmonari visualizzati in TC era visibile mediante radiologia convenzionale e ben 39 per cento dei cani esaminati con studio radiografico standard presentava noduli in TC. Ciò significa che si avevano falsi negativi in quasi 40 per cento dei soggetti. Piccoli noduli polmonari vanno distinti da vasi o piccole aree di mineralizzazione ectopica, frequenti in soggetti anziani. I criteri radiografici per la loro differenziazione possono essere così riassunti (figura 2): - foci di mineralizzazione ectopica - distribuzione tendenzialmente ventrale, margini più sfumati e irregolari (figura 2 A); 70 - noduli polmonari - rotondeggianti, distribuzione e dimensioni variabili, radiopacità inferiore rispetto alle altre strutture (a meno che non siano mineralizzati) (figura 2 B, C); - vasi polmonari - seguono lʼarborizzazione dei bronchi; se colpiti “dʼinfilata”, producono immagine rotondeggiante, che ha elevata radiopacità (maggiore di quella di un nodulo rotondeggiante) (figura 2 C). Va, inoltre, tenuto conto che la malattia metastatica polmonare può presentarsi anche in forme non francamente nodulari, più difficili da identificare radiologicamente, come, per esempio, in caso di carcinomatosi polmonare, in cui lʼaspetto è di tipo misto, con componente interstiziale, che spesso rende difficile lʼinterpretazione (figura 3). Per questo motivo, casi complessi, in cui il rischio di malattia metastatica è alto e in cui si devono prendere im- capitolo 8 Diagnostica per immagini A B C Figura 2 - Particolari di proiezioni laterali del torace di due cani diversi. A) Sono visibili numerosi piccoli noduli mineralizzati con margini irregolari (foci di mineralizzazione ectopica). B) Noduli polmonari rotondeggianti con radiopacità nel range dei tessuti molli (metastasi). C) Stesso cane di figura B: sono evidenziati, nei cerchi bianchi, altre metastasi e, nei cerchi neri, vasi polmonari, più radiopachi dei noduli. portanti decisioni dal punto di vista terapeutico, devono essere approfonditi mediante TC. Ciò non significa che lo step della radiologia debba essere saltato. Non sarebbe corretto utilizzare direttamente TC, che richiede anestesia generale e comporta maggiori costi per il proprietario, solo per visualizzare noduli polmonari visibili con il semplice esame radiografico del torace. • Scheletro appendicolare e rachide vanno sempre indagati in prima battuta mediante studio radiografico diretto, che nella maggior parte dei casi consente dʼidentificare la sede di lesione e di orientarsi tra condizioni di tipo neoplastico e non neoplastico. Sede di lesione, grado di coinvolgimento di strutture scheletriche e tessuti molli e criteri radiografici che contraddistinguono lesioni “osteoaggressive” e “non osteoaggressive” (vedere capitolo 28), insieme a informazioni ottenute da clinica e indagini laboratoristiche, sono gli elementi che consentono in molti casi di distinguere tra una zoppia causata da evento non neoplastico e un tumore. Anche prima di ottenere lʼesito di biopsia, se sʼidentifica una lesione marcatamente osteoaggressiva in un cane di grossa taglia anziano in sede predisposta, il sospetto di neoplasia ossea primaria è quasi una certezza (figura 4). Anche in questo caso vanno ricordati i limiti della radiologia, principalmente determinati da difficoltà dʼinterpretazione di regioni anatomiche complesse, come quelle del rachide, e scarsa sensibilità nel dimostrare riassorbimento osseo. Almeno 50-75 per cento della spongiosa ossea di un segmento vertebrale deve essere riassorbita prima che una lesione di un corpo vertebrale possa essere visualizzata in un radiogramma in proiezione laterale del rachide. Per questo motivo, in caso di sospetto clinico e studio radiografico negativo, si deve procedere con altre metodiche dʼimaging (scintigrafia o TC). • Il ruolo della radiologia addominale si è ridimensionato mano a mano che lʼutilizzo dellʼecografia è diventato routinario nella pratica clinica anche in medicina veterinaria. Resta sempre da ricordare, tuttavia, che, anche se in generale un esame ecografico approfondito è maggiormente informativo, ci sono situazioni in cui è importante eseguire un radiogramma anche dopo ecografia, perché talvolta può aggiungere elementi fondamentali o chiarire quadri dubbi. Esempi sono rappresentati da masse retroperitoneali, che 71 PARTE GENERALE effettuare prelievi. Lʼaspirazione ecoguidata di versamento e lesioni solide è rapida e sicura e può essere eseguita quasi sempre con paziente sveglio. Maggiori precauzioni vanno prese se si decide di eseguire una biopsia a tutto spessore, che comporta maggiori rischi, anche perché richiede sempre almeno una sedazione. • Tessuti molli superficiali. Qualsiasi lesione superficiale è accessibile alla valutazione ecografica; unica necessità è la tricotomia dellʼarea interessata. Lʼindagine ecografica è estremamente utile per stabilire un possibile organo di origine della lesione, valutarne sede, estensione, composizione (contenuto liquido e solido) e vascolarizzazione. Di grande interesse sono regioni di splancnocranio e porzione prossimale di collo, in cui è possibile identificare lesioni che originano da organi, come ghiandole salivari e tiroide, linfonodi mandibolari e retrofaringei, grossi vasi, bulbo oculare o tessuti molli di regione retrobulbare. Lʼapparato muscoloscheletrico rappresenta unʼaltra applicazione dellʼecografia e, nonostante nella maggior parte dei casi sia rivolta alla valutazione di malattie ortopediche non neoplastiche, questa può essere molto utile per riconoscere lesioni tumorali di tessuti molli e periarticolari e per valutarne anche il coinvolgimento osseo. Se, per esempio, cʼè osteolisi, viene a mancare la barriera per gli ultrasuoni rappresentata dallʼosso: la lesione diventa quindi visibile e un eventuale prelievo può essere effettuato anche da una lesione scheletrica, grazie alla guida ecografica. Ecocontrastografia Lʼecografia con mdc è una recente applicazione dellʼecografia, che ha stimolato un grande interesse nel settore oncologico, anche nel mondo della medicina veterinaria. Una spiegazione approfondita di questa tecnica esula dagli scopi di questo testo; tuttavia, è doveroso ricordare almeno i principali concetti alla base della metodica. I mezzi di contrasto per ecografia sono composti da microbolle, le cui caratteristiche fisiche e chimiche sono alla base della loro capacità di generare unʼimmagine ecografica e si riassumono fondamentalmente in due capisaldi. • Dimensioni nellʼordine di pochi micron, quindi simili o inferiori a quelle degli eritrociti. Ciò consente il passaggio invariato di microbolle attra78 verso il filtro polmonare. Lʼiniezione di mdc in una vena periferica permette il transito del bolo fino alla circolazione sistemica arteriosa: quindi, valutazione di microcircolo di tessuti e organi. • Le proprietà acustiche delle microbolle derivano dalla loro composizione: la presenza al centro della bolla di un gas ne fornisce lʼecoriflettenza, cioè la capacità di produrre intenso segnale ultrasonoro di ritorno, e le proprietà del guscio ne determinano sia stabilità sia caratteristiche di elasticità. I mezzi di contrasto di seconda generazione non sono, infatti, costituiti da guscio rigido, ma da capsula elastica, formata da microparticelle (fosfolipidi), che consentono alla microbolla di modificare il proprio diametro, quando viene investita dallʼultrasuono che attraversa il tessuto. Il vantaggio di questa “oscillazione” è quello di produrre uno spettro ultrasonoro di ritorno che contiene frequenze multiple della frequenza di origine (cosiddette frequenze “armoniche”), le quali possono essere isolate e utilizzate per produrre la mappa vascolare di un organo o di un tessuto. Le diverse tecnologie che sono state sviluppate per differenziare il segnale prodotto dalle microbolle da quello di tessuti circostanti variano in base a casa produttrice. Lʼutilizzo di mdc presuppone quindi anche lʼacquisizione della tecnologia dedicata, con la quale si è in grado di valutare, isolare e visualizzare il solo segnale proveniente da mdc, sopprimendo quello originato dal tessuto che lo contiene. Lʼesame viene condotto in modo da valutare in tempo reale la perfusione di una lesione, includendo fasi dʼingresso (wash-in) e di uscita (wash-out) di mdc. Le applicazioni attuali dellʼecocontrastografia in medicina veterinaria includono caratterizzazione di lesioni neoplastiche maligne di organi addominali e studio di vascolarizzazione e perfusione di linfonodi neoplastici. Analogamente a ciò che è stato mostrato in campo umano, anche nei piccoli animali lʼorgano che è stato maggiormente indagato è il fegato. Il parenchima epatico si presta bene allo studio con mdc, in quanto una lesione focale può essere confrontata con il parenchima adiacente per valutare differenze o similitudini nella perfusione. Il fegato è lʼorgano per il quale i pattern di perfusione sono stati meglio caratterizzati e in cui la differenziazione di lesioni maligne e benigne sulla base di tipo di perfusione ha ormai sufficiente evidenza scientifica. Possono essere stu- capitolo 8 Diagnostica per immagini A tare corretta strategia terapeutica. Meno concordi sono finora i dati pubblicati che riguardano lesioni spleniche. Anche gli studi effettuati per gli altri organi della cavità addominale (reni, surrenali, prostata e testicoli) e per linfonodi richiedono ulteriore validazione scientifica, anche se i primi risultati sono incoraggianti. Va, infine, ricordato che parte delle informazioni ottenute con ecocontrastografia si sovrappongono a quelle ottenute mediante TC con contrasto. Il vantaggio dellʼecografia rimane quello di poter eseguire lʼesame senza sedazione o anestesia, previa collaborazione del paziente. Lo svantaggio, rispetto a TC, è di non poter comunque completare la stadiazione del paziente, esaminando anche il torace. Tomografia computerizzata B Figura 11 - Ecografia con mdc (A) e TC postcontrasto (B) di fegato di cane con metastasi epatiche tomografiche. Le immagini mostrano lo stesso nodulo, che si presenta, rispetto al parenchima epatico circostante, ipoecogeno nella fase di wash-out di mdc ecografico (A) e ipoattenuante nello studio TC postcontrasto (B). diate lesioni primarie già visualizzate mediante ecografia basale o ricercare presenza di metastasi. Il rilievo di noduli disseminati ipoperfusi con rapido wash-out in paziente con emangiosarcoma splenico indica presenza di metastasi epatiche (figura 11). Nonostante si possa quindi considerare attualmente una metodica affidabile per la valutazione di lesioni epatiche, questa non dà sempre risultati facili da interpretare: pertanto, non deve essere sempre considerata alternativa allʼesecuzione di prelievo dalla lesione, che risulta spesso necessario per tipizzare tipo di neoplasia e adot- La grande innovazione dellʼesame TC è stata quella di utilizzare un fascio di raggi X per rappresentare un determinato distretto corporeo mediante produzione di immagini tomografiche sequenziali, che corrispondono a una serie di sottili strati del volume esaminato. In ciascuna di queste immagini, le diverse componenti tissutali vengono riprodotte e distinte grazie a elevata risoluzione di contrasto (capacità di TC di distinguere piccole differenze di densità). Vengono superati, in questo modo, due grandi limiti della radiologia convenzionale: • essere una tecnica di diagnostica per immagini che rappresenta su un unico piano strutture tridimensionali; • avere scarsa capacità nella differenziazione di densità dei tessuti. Lʼevoluzione tecnologica ha comportato, anche in questo settore, miglioramenti sostanziali in qualità dʼimmagine ottenuta e velocità di esecuzione dellʼesame. Il concetto alla base della formazione dʼimmagine TC, tuttavia, è rimasto invariato: lʼimmagine viene prodotta grazie alla rotazione del tubo radiogeno attorno al paziente durante lʼavanzamento del lettino allʼinterno del gantry. Il fascio di fotoni che attraversa le strutture corporee viene attenuato e colpisce una serie di rilevatori (detettori), che ruotano in sincronia con il tubo radiogeno. I detettori registrano il valore di attenuazione, che viene trasformato in segnale elettrico, inviato al com79 PARTE GENERALE A B C Figura 15 - Meningioma di lobi olfattorio e frontale in cane. Immagini RM, ottenute sui piani trasversale (A), dorsale (B) e sagittale (C), pesate in T2 (A) e T1 postcontrasto (B, C). La lesione è extrassiale, ben delimitata, iperintensa in T2 e mostra intenso e omogeneo enhancement nella sequenza T1 postcontrasto. (Per gentile concessione di Massimo Baroni). 84 del quale viene posizionato il paziente. A seconda del tipo di magnete utilizzato, cambia lʼintensità del campo magnetico prodotto, la cui unità di misura è il Tesla (T). Lʼintensità del campo magnetico a disposizione influenza le modalità operative, ma soprattutto la qualità dʼimmagine prodotta. Passando da unità a basso campo (0,2-0,4 T) a unità ad alto campo (intensità fino a 4 T), si hanno vantaggi in termini di qualità dʼimmagine e tempi di scansione; tuttavia, salgono i costi. • Una volta attivato il campo magnetico allʼinterno del corpo esaminato, si determina una prima fase di equilibrio magnetico. Successivamente, viene applicata una serie di onde di radiofrequenza, emesse da una speciale bobina, una specie di antenna che può avere varie forme (rigida o flessibile) e che viene posizionata attorno alla parte dʼinteresse. La bobina ha duplice funzione: è in grado di produrre impulsi a radiofrequenza, che modificano lo stato di equilibrio precedentemente raggiunto, e di ricevere il segnale di ritorno degli atomi dʼidrogeno nel momento in cui essi tornano alla situazione di riposo. • Le modalità con cui si succedono questi eventi sono estremamente complesse e costituiscono la base per la produzione di varie sequenze RM. Lʼacquisizione di diverse sequenze è fondamentale in RM poiché, a seconda dellʼintensità del segnale prodotto da ciascun tessuto, è possibile differenziare le varie strutture e identificare le lesioni. Alcune sequenze sono più adatte alla valutazione di dettagli anatomici (T1), altre più sensibili nel riconoscimento di lesioni (T2). Alcune sequenze vengono utilizzate per sopprimere segnali provenienti da specifiche componenti: per esempio, da liquido cefalorachidiano (FLuid Attenuated Inversion Recovery, FLAIR) o tessuto adiposo (Short Thau Inversion Recovery, STIR). • Anche lʼimmagine RM sfrutta lʼutilizzo di scala di grigi, il cui significato è sempre quello di fornire allʼimmagine il contrasto necessario ai fini diagnostici. A differenza di TC, il livello di grigio non è però espressione di densità dei tessuti. Per la corretta interpretazione delle immagini, è necessario conoscere che tipo dʼintensità di segnale produce ciascun tessuto nella specifica sequenza utilizzata. • Anche in RM viene utilizzato il mezzo di contra- capitolo 8 Diagnostica per immagini sto: si tratta di una sostanza paramagnetica (gadolinio), che viene iniettata in una vena periferica al dosaggio standard di 0,2 mg/kg. Lʼacquisizione di sequenze postcontrasto consente di valutare la vascolarizzazione di organi e tessuti e mettere in evidenza aree anormali di captazione, che a livello cerebrale indicano alterata permeabilità di barriera ematoencefalica. • Come per TC, lʼesecuzione di un esame RM richiede lʼanestesia generale: per la necessità di acquisire numerose sequenze, i tempi di acquisizione di uno studio RM completo sono normalmente più lunghi rispetto a un esame TC. • Va tenuto conto che il campo magnetico non deve essere disturbato da interferenze esterne, che potrebbero creare artefatti nelle immagini. Per questo motivo, il magnete va isolato mediante apposite gabbie (gabbia di Faraday) ed è necessario evitare interferenze da parte di oggetti metallici e apparecchiature elettroniche, come monitor e carrelli per anestesia, che devono essere costruiti appositamente, oppure alloggiati al di fuori della gabbia. Artefatti possono essere causati anche da impianti metallici nel paziente (per esempio, protesi o microchip), che possono impedire la corretta valutazione dello studio acquisito. • Attualmente, le indicazioni più frequenti in oncologia veterinaria includono valutazione di neoplasie di cranio (sia neuro- sia splancnocranio), rachide e scheletro appendicolare, anche perché le unità a basso campo sono quelle maggiormente disponibili in medicina veterinaria. Tuttavia, analogamente a quello che succede nellʼuomo, probabilmente le applicazioni oncologiche di RM si estenderanno anche ad altri importanti settori (per esempio, addome e torace) nel prossimo futuro. si lega alla matrice ossea; una valutazione a distanza di circa 4 ore dalla somministrazione consente di ottenere informazioni sul metabolismo dellʼosso. Il passaggio di radiofarmaco nei tessuti permette una valutazione anatomica, anche se non dettagliata, come quella ottenuta con le altre tecniche dʼimaging, ma soprattutto fornisce informazioni funzionali delle modalità con cui esso viene captato, metabolizzato ed escreto. Per questo motivo, la scintigrafia è in grado di dimostrare lesioni anche prima che queste producano alterazioni morfologiche di un organo e che possano, quindi, essere identificate mediante altri studi. • Lʼelevata sensibilità nellʼidentificazione del processo patologico non è purtroppo associata a buona specificità. Lesioni captanti radiofarmaco, o aree ipocaptanti, possono essere causate da lesioni tumorali o non tumorali; quindi, è sempre necessario effettuare altre indagini per differenziare neoplasia da malattia non neoplastica. • Lʼacquisizione delle immagini richiede lʼutilizzo di gammacamera, che è in grado di rilevare le radiazioni gamma che fuoriescono dal paziente, e computer, che trasforma i dati acquisiti in immagine. Il paziente e i liquidi organici prodotti devono Figura 16 - Esempio di scansione scintigrafica (piano dorsale) di cane con adenocarcinoma tiroideo. La massa presenta elevata captazione di radiofarmaco; il lobo tiroideo controlaterale è soppresso. Cranialmente alla lesione, sono visibili due strutture captanti (ghiandole salivari). Medicina nucleare La scintigrafia è una tecnica il cui principio è basato sulla valutazione della distribuzione di una sostanza radioattiva (radiofarmaco), che viene iniettata per via endovenosa. Il radiofarmaco maggiormente utilizzato è tecnezio (nella sua forma metastabile di 99mTc), per breve emivita (6 ore) e facilità con cui può essere legato ad altre sostanze. Per lo studio dello scheletro, 99mTc viene abbinato a una molecola (difosfonato, 99mTc-MDP) che 85 capitolo 9 Stadiazione clinica: sistemi TNM e WHO capitolo 9 STADIAZIONE CLINICA: SISTEMI TNM E WHO Laura Marconato Introduzione I tumori si differenziano in base a sede anatomica, tipo istologico e grado di malignità. Ogni tumore è caratterizzato da propria storia clinica, tipo di diffusione metastatica, risposta a terapia e modalità di recidiva dopo trattamento ed è stadiato in base a sua dimensione e diffusione anatomica. La stadiazione clinica di una neoplasia rappresenta la fase obbligatoria nellʼapproccio al paziente oncologico, sia perché dà importanti informazioni prognostiche, sia perché rappresenta il modello con cui i pazienti vengono selezionati per la terapia. Pertanto, dopo aver ottenuto diagnosi di certezza, diventa fondamentale valutare lʼestensione neoplastica, poiché i risultati di stadiazione delineano prognosi e tipo di terapia. Sistema di classificazione TNM La classificazione TNM considera da un punto di vista clinico lʼestensione anatomica del tumore. Oltre allʼindubbia utilità di avere una sorta di “linguaggio standardizzato” e di facilitare, quindi, lo scambio di informazioni tra medici, la stadiazione TNM aiuta lʼoncologo clinico a pianificare la terapia più adatta, dà indicazione prognostica e valuta e confronta risultati terapeutici. La classificazione TNM sottolinea rilevanza prognostica di dimensione e invasività locale di tumore primitivo (T), stato di linfonodi regionali (N) e presenza di metastasi distanti (M). Contrariamente ad altri sistemi classificativi, TNM valuta separatamente T, N e M, per poi raggrupparli in stadi. La classificazione TNM è applicata per la valutazione di tumori solidi (per esempio, tumori mammari, polmonari, genitourinari). La principale limitazione riguarda lʼimpossibilità di stadiare neoplasie sistemiche e diffuse, come linfomi e leucemie, per i quali si utilizza lo schema WHO. Dopo aver valutato TNM per un dato paziente, è possibile inquadrarlo in uno stadio clinico, utile da un punto di vista prognostico. Una volta stabilito lo stadio clinico, questo deve restare invariato nella cartella medica del paziente durante lʼintero decorso della malattia. La terapia può modificare la storia clinica del paziente e il tumore può recidivare. In questo caso, è possibile ristadiare neoplasie recidivanti e indicare il nuovo stadio clinico utilizzando il prefisso “r” (rTNM). Classificazione TNM clinica o pretrattamento La classificazione TNM clinica (cTNM) si basa su evidenza acquisita prima di iniziare la terapia antitumorale e si basa su dati clinici (esame semeiotico), diagnostica per immagini (radiologia, ecografia, endoscopia, TC, RM, scintigrafia), citologia (figure 1-4). La classificazione TNM clinica è fondamentale per scegliere la terapia più adeguata. Classificazione TNM chirurgica La classificazione TNM chirurgica (surgical, sTNM) consente lʼacquisizione di elementi aggiuntivi sullʼestensione del processo neoplastico in pazienti sottoposti a resezione chirurgica. La chirurgia assume ruolo diagnostico quando le tecniche non invasive si rivelano inapplicabili per sede, dimensione di lesione oppure prevalenza di materiale necrotico. Classificazione TNM patologica o postchirurgica La classificazione TNM patologica (pTNM) si basa su evidenza ottenuta prima di iniziare il trattamento, modificata da informazioni aggiuntive acquisite da chirurgia e conseguente valutazione isto87 capitolo 9 Stadiazione clinica: sistemi TNM e WHO 2) N = stato di linfonodi regionali (fissi o mobili, dimensioni, consistenza, coinvolgimento singolo o multiplo, ipsilaterale o controlaterale, distribuzione bilaterale) N0 = nessuna evidenza di metastasi a linfonodi (LN) regionali N1,2,3,4 = gradi crescenti dʼinteressamento di linfonodi regionali Nx = non è possibile valutare linfonodi regionali (dati insufficienti) Le metastasi a linfonodi non regionali sono considerate metastasi a distanza. Il loro significato clinico è tuttavia difficile da interpretare. Lo stato N ha importantissime implicazioni prognostiche per tumori solidi (per esempio, per neoplasie di testa e collo, vescicali e intestinali), dal momento che riflette lʼimpossibilità dʼintervenire efficacemente sul tumore primitivo. Linfonodi fissi (N3) sono tipicamente chirurgicamente non rimovibili e, pertanto, si accompagnano a prognosi per lo più sfavorevole. Infine, il coinvolgimento linfonodale spesso riflette lʼelevata probabilità di diffusione ematogena (neoplasie mammarie). 3) M = presenza o assenza di metastasi a distanza M0 = nessuna evidenza di metastasi a distanza M1 = metastasi (diverse da linfonodi regionali) presenti (specificare sede) Mx = impossibile verificare la presenza di metastasi La presenza di metastasi a distanza definisce in modo chiaro pazienti inoperabili e si accompagna, nella maggior parte dei casi, a prognosi infausta. M può essere definito clinicamente, ma il più delle volte richiede indagini strumentali. Simboli • Suffisso “m”: “m” posto tra parentesi indica presenza di tumori multipli. • Prefisso “y”: in casi in cui la stadiazione è eseguita durante o dopo terapia multimodale, la categoria cTNM o pTNM è identificata dal prefisso “y”. In altre parole, ycTNM o ypTNM indica lʼesten- sione neoplastica al momento della valutazione e non prima di iniziare la terapia. • Prefisso “r”: recidiva diagnosticata dopo intervallo libero da malattia. • Prefisso “a”: stadiazione eseguita in sede autoptica. Linfonodi regionali Linfonodi regionali riscontrabili nel cane e nel gatto, suddivisi secondo regione anatomica, sono riportati in tabella I. Linfonodo sentinella Per definizione, il linfonodo sentinella rappresenta il primo linfonodo che accoglie vasi linfatici provenienti dalla regione anatomica in cui si è sviluppato il tumore (e che quindi lo drenano). La valutazione istopatologica del linfonodo sentinella riflette lʼestensione neoplastica regionale, con ovvie implicazioni prognostiche e terapeutiche. La biopsia di linfonodo sentinella è eseguita sempre più spesso in oncologia umana, per corretta stadiazione e identificazione di eventuali micrometastasi, non altrimenti riconoscibili. Le micrometastasi sono infatti impossibili da identificare mediante normali test di screening e sono ritenute responsabili di disseminazione neoplastica sistemica tardiva. Pertanto, se il linfonodo sentinella contiene cellule neoplastiche, è possibile rimuoverlo, ma solo se il miglioramento di prognosi supera la morbidità secondaria a linfadenectomia. Se il linfonodo sentinella non contiene cellule neoplastiche, non deve essere rimosso, evitando al paziente intervento chirurgico inutile e morbidità a esso associata. La valutazione del linfonodo sentinella ha accertate implicazioni prognostiche nei seguenti tumori del cane: polmonari primitivi, mammari, melanoma di cavo orale, osteosarcoma, sinoviosarcoma, mastocitoma, sarcoma istiocitico. Metodi utilizzati in medicina veterinaria per valutare il linfonodo sentinella sono escissione chirurgica (linfadenectomia), valutazione citologica (che tuttavia può dare falsi negativi), scintigrafia, iniezione peritumorale di colorante blu associato a tracciante radioattivo ed ecografia con mezzi di contrasto. 89 capitolo 9 Stadiazione clinica: sistemi TNM e WHO Schema TNM per diversi tumori di cane e gatto TNM tumori di origine epidermica-dermica (esclusi mastocitoma e linfoma) T = tumore primitivo Tis = carcinoma in situ T0 = nessun tumore evidente T1 = diametro massimo del tumore < 2 cm, superficiale T2 = diametro massimo 2-5 cm, o invasione minima, indipendentemente dalle dimensioni T3 = diametro > 5 cm, o invasione di sottocute, indipendentemente dalle dimensioni T4 = tumore che invade altre strutture (fascia muscolare, osso e cartilagine) Nel caso di tumori multipli, la classificazione è definita da T del tumore più grande. La molteplicità di tumori è indicata tra parentesi: per esempio, T2(5). N = linfonodi regionali N0 = linfonodi regionali non interessati N1 = linfonodo ipsilaterale mobile N1a = non aumentato di volume N1b = aumentato di volume N2 = linfonodo controlaterale o bilaterali mobili N2a = non aumentato di volume N2b = aumentato di volume N3 = linfonodi fissi M = metastasi distanti M0 = nessuna evidenza di metastasi a distanza M1 = metastasi presenti (specificare sede) TNM carcinomi di ghiandole apocrine di sacchi anali stadio clinico T N M I II IIIa IIIb IV diametro massimo < 2,5 cm diametro massimo > 2,5 cm qualsiasi T qualsiasi T qualsiasi T negativo negativo positivo, diametro massimo < 4,5 cm positivo, diametro massimo > 4,5 cm qualsiasi N negativo negativo negativo negativo positivo TNM tumori digitali (cane) T = tumore primitivo T1 = diametro massimo < 2 cm; tumore superficiale o esofitico T2 = diametro massimo 2-5 cm; minima invasione T3 = diametro > 5 cm o tumore infiltrante il sottocute T4 = tumore che invade fascia od osso N = linfonodi regionali N0 = linfonodi regionali istologicamente non interessati Nr = linfonodi regionali precedentemente rimossi 91 PARTE GENERALE capitolo 11 TERAPIA DEL DOLORE Laura Marconato Introduzione Eziopatogenesi Analisi condotte in oncologia umana descrivono prevalenza di dolore in 28 per cento dei pazienti oncologici con diagnosi recente di cancro, in 50 per cento dei pazienti con diagnosi preesistente di cancro e in > 80 per cento dei pazienti in fase avanzata/terminale. Si può ipotizzare la stessa prevalenza anche in oncologia veterinaria; pertanto, il trattamento del dolore diventa eticamente imperativo. Purtroppo, ancora troppo spesso il dolore da cancro è sottovalutato e trattato in maniera inadeguata. Possibili motivazioni sono mancato riconoscimento di sofferenza, inadeguata raccolta di informazioni anamnestiche (soprattutto in merito a qualità di vita), scarsa valutazione del paziente alla diagnosi e durante follow-up, timori e pregiudizi su rischi connessi allʼimpiego di alcuni analgesici e difficoltà burocratiche connesse al loro utilizzo. È dovere del medico veterinario alleviare il dolore del paziente oncologico, rispondere alle domande del proprietario e fortificare il rapporto uomo/animale. Il dolore associato a malattia oncologica può derivare da invasione del tumore in tessuti adiacenti, trattamenti antitumorali, debilitazione cronica del paziente, sindromi paraneoplastiche, malattie concomitanti e/o pregresse (tabella I). Il dolore può caratterizzare le fasi precoci o terminali della malattia e può essere dʼintensità variabile, aumentando mano a mano che la malattia evolve. Il dolore può essere il primo sintomo di neoplasia, ma più spesso tende a manifestarsi quando essa è già avanzata e ha invaso e distrutto le strutture adiacenti. Nel paziente oncologico bisogna per lo più affrontare un dolore cronico. Schematicamente, si può così riassumere la base neurofisiologica del dolore: i recettori nocicettivi, ampiamente distribuiti a livello cutaneo, muscolare, connettivale e viscerale, trasmettono al midollo spinale un impulso; qui, esso viene filtrato e integrato, prima di poter procedere ai centri sopraspinali (talamo, corteccia, sistema limbico e formazione reticolare), dove viene decodificato. Il Tabella I - Eziologia del dolore nel paziente oncologico. dolore correlato direttamente a neoplasia invasione ossea, da parte del tumore primitivo o di sue metastasi occlusione viscerale compressione o invasione di tessuti molli compressione o invasione nervosa invasione e occlusione vascolare infiammazione o necrosi dolore associato alle terapie antitumorali dolore postchirurgia dolore postchemioterapia: • neuropatia periferica (alcaloidi della vinca) • cistite emorragica (ciclofosfamide) dolore postradioterapia: fibrosi, mielopatia da irradiazione, dermatiti/mucositi dolore non correlato cause concomitanti o pregresse al tumore o alla sua terapia 128 capitolo 11 Terapia del dolore risultato finale di questa intricata rete di informazioni ascendenti e discendenti, che vede coinvolti numerosi trasmettitori, si traduce in percezione di dolore e in conseguente risposta a esso. Classificazione temporale e fisiopatologica Il dolore acuto tipicamente viene percepito durante procedure diagnostiche o interventi terapeutici (chirurgia, radioterapia e chemioterapia), mentre è raro che si verifichi durante le fasi iniziali della malattia oncologica. Il dolore cronico è comune nel paziente oncologico e tipicamente si verifica per meccanismi neuropatici. Provocano dolore cronico metastasi ossee, necrosi di midollo osseo, artrite, decubito o impossibilità di movimento e neuropatie. La classificazione fisiopatologica è utile sia per localizzare il dolore sia per indirizzare la terapia corretta. Il dolore può essere classificato in nocicettivo (somatico e viscerale) e neuropatico. Il primo risponde bene, almeno inizialmente, a terapia farmacologica con oppiacei; il secondo richiede, generalmente, la somministrazione di farmaci antiepilettici, antidepressivi e antiaritmici. Il dolore somatico può essere superficiale (cute e sottocute) o profondo (tessuto connettivo, ossa, articolazioni, muscoli) e tende a essere ben localizzato e continuo, talvolta associato a prurito. Il dolore osseo, provocato da un tumore primitivo oppure metastatico, rappresenta senza dubbio la causa più frequente di sofferenza nel paziente oncologico ed è tipicamente costante e dʼintensità crescente. Il meccanismo patogenetico vede coinvolti riassorbimento osseo indotto da sostanze rilasciate dal tumore, stiramento periostale e spasmo muscolare reattivo. Frequentemente, lʼinvasione ossea esita in frattura patologica che va ad acuire il quadro. Il dolore viscerale continuo interessa visceri e organi parenchimatosi ed è poco localizzato e profondo; quello viscerale incidente riguarda organi cavi e dotti, è di tipo colico ed esacerbato da spasmi o dilatazioni. Un tumore che interessa un viscere parenchimatoso, come milza o fegato, può provocare dolore attraverso la distensione della capsula, ricca di nocicettori. Il dolore neuropatico riguarda sistema nervoso centrale e periferico ed è solitamente provocato da compressione da parte del tumore o di sue metastasi di midollo spinale o plessi nervosi, oppure rappresenta un effetto collaterale di chemioterapia, ra- dioterapia o chirurgia. I tumori primitivi che più frequentemente interessano le vertebre sono osteosarcoma, condrosarcoma, emangiosarcoma, fibrosarcoma e mieloma multiplo; tra quelli metastatici, si ricordano adenocarcinoma mammario, carcinomi prostatico, epatico, renale e vescicale. In base alla sede interessata, la compressione del midollo provoca deficit sensori, nonché vari gradi di paralisi (paraplegia fino a tetraplegia) e disturbi sfinterici. Lʼinteressamento di plessi nervosi, quale brachiale e lombosacrale, determina la comparsa di sintomatologia dolorosa, che si estrinseca nelle fasi più avanzate con debolezza, alterazione di riflessi e atrofia muscolare. È doveroso ricordare che, in sede chirurgica, è possibile lesionare accidentalmente un nervo, limitando quindi funzionalità della parte innervata e determinando disturbi di sensibilità o insorgenza di dolore. Chemioterapia e radioterapia possono anchʼesse provocare dolore, per un fenomeno acuto reattivo, oppure per reazione tardiva. I citotossici potenzialmente neuropatici comprendono alcaloidi della vinca, 5-fluorouracile e cisplatino. Valutazione del dolore in medicina veterinaria Alcuni segni o sintomi possono aiutare nello stabilire lʼentità del dolore e sono così schematizzati: • pazienti con dolore moderato - alterazioni comportamentali, di appetito, di attività e/o postura; • pazienti con dolore intenso - vocalizzazione, pianto; - retrazione della parte dolente alla palpazione; • segni aspecifici di dolore - perdita di appetito fino ad anoressia; - insonnia; - tachicardia; - respirazione affannosa; - elevata temperatura corporea; - midriasi; - scialorrea. Strategie terapeutiche Il dolore nel paziente oncologico può essere così gestito: • controllando la patologia sottostante (tumore) mediante chirurgia, radioterapia e/o chemioterapia; 129 PARTE GENERALE • alterando trasduzione, trasmissione e percezione del dolore nellʼindividuo mediante modalità farmacologiche, non farmacologiche e/o interventiste; • intervenendo per ridurre sofferenza e migliorare la gestione complessiva del paziente, risolvendo costipazione, diarrea, perdita di appetito, insonnia e vari problemi geriatrici, tra cui osteoartrite, cistite, perdita di vista/udito e obesità. Il controllo del dolore nel paziente oncologico non deve essere indicato come problema secondario, bensì deve far parte del quadro terapeutico globale e deve, quindi, essere preliminare a ogni altro approccio. Nel paziente in fase avanzata o terminale, il tumore spesso non risponde più a trattamenti antineoplastici e la terapia primaria può diventare addirittura controproducente, esacerbando eventuali effetti collaterali. Ecco che la terapia del dolore diventa obbiettivo da perseguire, priorità assoluta. Per adottare la strategia terapeutica migliore, è necessario valutare origine e intensità del dolore. I princìpi guida da seguire sono: • prevenire il dolore - non attendere cioè che lʼanimale manifesti sofferenza prima di somministrare un analgesico; • somministrare inizialmente farmaci antinfiammatori non steroidei, per sostituirli o affiancarli a oppiacei, nel caso i primi siano inefficaci; • personalizzare la terapia in base a caratteristiche individuali (soglia del dolore); molto utile è la stesura di accurata anamnesi analgesica che descriva farmaci somministrati, loro dosaggio, intervallo di somministrazione e risultato ottenuto, in modo da identificare abbastanza velocemente gli antidolorifici più efficaci in un dato paziente. Oltre agli ovvî benefici di terapia antidolorifica, è utile ricordare che la prevenzione del dolore prima di chirurgia contribuisce a diminuire la dose di anestetico richiesta per mantenere lʼanestesia. Nel periodo postoperatorio, il dolore aumenta stato di debilitazione del paziente, accentua stato catabolico, prolunga ospedalizzazione e ricovero; sʼintuisce, dunque, il vantaggio di una copertura analgesica anche dopo lʼintervento chirurgico. Il controllo del dolore prevede sua modulazione farmacologica e utilizzo singolo o combinato di chirurgia e/o radioterapia e/o chemioterapia palliative. Detti interventi terapeutici hanno ruolo nella terapia palliativa soltanto se i benefici del trattamento superano gli effetti collaterali. 130 WHO ha elaborato un sistema gerarchico “a gradini”, per gestire nel modo più corretto il dolore. Il primo approccio antidolorifico (gradino 1) prevede la somministrazione di farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), da associare, in caso di necessità, a oppiacei (gradino 2). Se ancora il dolore non è controllato, ma anzi si acuisce, si può aumentare la dose di oppiacei (gradino 3). In caso di dolore persistente, prima di cambiare categoria di analgesico, è meglio sostituire il farmaco con uno alternativo appartenente allo stesso gruppo. In linea generale, vale quanto segue: il dolore di lieve o moderata entità va trattato con FANS, assicurandosi che non ci siano controindicazioni sistemiche. Quando il dolore si acuisce, è possibile aggiungere oppioidi al regime terapeutico. Se il dolore aumenta ancora, è possibile innalzare la dose di oppioidi. È bene ricordare che lʼanalgesia continua facilita il mantenimento di benessere animale; pertanto, i farmaci antidolorifici non dovrebbero essere somministrati solo quando il dolore diventa moderatointenso. Antistaminici, antidepressivi triciclici e antiserotoninergici Lʼistamina favorisce trasduzione e trasmissione del dolore attraverso la stimolazione di vari recettori. Alcuni antistaminici (clorfeniramina, loratidina, idrossizina, amitriptilina) sono indicati per il trattamento di dolore legato a flogosi e chirurgia e di dermatiti indotte da radioterapia. Gli antistaminici sono inoltre stimolatori di appetito e antiemetici. In combinazione con oppiacei, rappresentano la prima scelta nel paziente oncologico. Gli antidepressivi triciclici (trazadone, mirtazapina) possono alleviare il dolore prima che lʼeffetto sedativo sia evidente; pertanto, possono essere utilizzati in combinazione con oppiacei. Essi sono inibitori selettivi di ricaptazione di serotonina e noradrenalina e mostrano attività anticolinergica e antistaminica. Sono particolarmente indicati nel trattamento di dolore cronico, anche se lʼesatto meccanismo dʼazione è ancora poco chiaro. Antinfiammatori non steroidei Gli antinfiammatori non steroidei sono farmaci analgesici efficaci nel controllare dolore acuto e cronico e hanno il vantaggio di avere lunga durata dʼazio- capitolo 11 Terapia del dolore ne (tabella II). Per questi motivi, FANS rappresentano la prima scelta per controllare il dolore nel paziente oncologico e dovrebbero essere utilizzati in prima battuta, a meno che non esistano controindicazioni. È importante sottolineare che molti FANS (in particolare, coxib) svolgono anche attività antitumorale. Infatti, numerosi tumori sovraesprimono COX-2; pertanto, lʼinibizione recettoriale da parte di farmaci inibenti (FANS appunto) esita in risposta antitumorale. FANS hanno azione nocicettiva periferica, bloccando la sintesi di prostaglandine a livello di recettore. In altre parole, FANS inibiscono sensibilizzazione del recettore a stimolo dolorifico e trasmissione a livello spinale. Il meccanismo dʼazione prevede inibizione di ciclossigenasi (COX) e mancata sintesi di prostaglandine a partire da acido arachidonico contenuto nelle membrane cellulari. Le prostaglandine, veri e propri mediatori del processo infiammatorio, oltre a rilasciare sostanze algogene, sensibilizzano i nocicettori allo stimolo doloroso; inoltre, facilitano la trasmissione dellʼimpulso doloroso attraverso midollo spinale. Alcune prostaglandine facilitano il riassorbimento osseo esacerbando il dolore in caso di tumore osseo primitivo e metastatico. Sullʼazione nocicettiva centrale di FANS si sta ancora indagando. La differenza principale tra vari FANS risiede in tipo e incidenza di tossicità. Si conoscono due classi di COX: COX-1 e COX-2. Tabella II - Antinfiammatori utilizzati in medicina veterinaria. farmaco dose e via di somministrazione specie livello di dolore acido acetilsalicilico 10-25 mg/kg ogni 8-12 ore po 10 mg/kg ogni 48 ore po 10-20 mg/kg sid po cane gatto furetto lieve lieve lieve carprofene 2,2 mg/kg ogni 12 ore po 0,5-2 mg/kg ogni 12 ore po cane gatto moderato moderato piroxicam 0,3 mg/kg sid po 0,3 mg/kg ogni 24-48 ore po cane gatto moderato moderato meloxicam 0,2 mg/kg po (o sc, ev), poi 0,1 mg/kg sid po 0,2 mg/kg po o sc, poi 0,1 mg/kg per 2-3 giorni, poi ulteriore riduzione cane gatto moderato moderato naprossene 5 mg/kg po, poi 1,2-2,8 mg/kg sid po cane moderato ketoprofene 2 mg/kg sid sc, im, ev, poi 1 mg/kg/die po, ev, im, sc 2 mg/kg sid sc, poi 1 mg/kg/die cane gatto moderato moderato flunissina meglumina come antipiretico: 0,25 mg/kg ev, sc, im, eventualmente da ripetere come analgesico: 1 mg/kg ev, sc, im come analgesico: 0,25 mg/kg ev, sc, im come analgesico: 0,5-2 mg/kg sid po, im cane e gatto moderato cane gatto furetto moderato moderato moderato acido tolfenamico dolore acuto: 4 mg/kg sid sc, im, po per 3-5 giorni cane e gatto moderato dolore cronico: 4 mg/kg sid sc, im, po per 3-5 giorni; cane moderato la dose parenterale è indicata per il primo giorno soltanto etodolac 10-15 mg/kg sid po cane moderato deracoxib 1-2 mg/kg sid allʼoccorrenza cane moderato tepoxalin 10 mg/kg sid po cane moderato 131 PARTE GENERALE • COX-1 è coinvolta in regolazione di alcune funzioni omeostatiche dellʼorganismo, come mantenimento dʼintegrità di mucosa gastrica (facilitando secrezione di muco), di flusso renale e di funzionalità piastrinica, mediante la produzione di prostaglandine “buone” o costitutive, molto utili allʼorganismo. • COX-2 interviene nella mediazione di dolore e flogosi mediante la produzione delle cosiddette prostaglandine inducibili non fisiologiche, che iniziano e perpetuano il processo infiammatorio (vasodilatazione, alterazione di permeabilità capillare, potenziamento di altri mediatori della flogosi, chemiotassi e iperalgesia). Lʼinibizione di COX-1 è, quindi, responsabile della tossicità indotta da FANS, mentre lʼinibizione di COX-2 è associata a effetti analgesici e antinfiammatori di FANS. FANS di nuova generazione, che inibiscono selettivamente COX-2, migliorano la tollerabilità gastrica e renale. È importante monitorare con attenzione i pazienti in chemioterapia trombocitopenizzante, che contemporaneamente assumono FANS, per la possibile insorgenza di sanguinamenti gastroenterici. FANS, infatti, inibiscono lʼaggregazione piastrinica, esacerbando gli eventuali difetti di coagulazione. Inoltre, è consigliabile evitare la contemporanea somministrazione di altri FANS, glicocorticoidi e antibiotici potenzialmente nefrotossici (aminoglicosidici). FANS devono essere prescritti insieme a uno o più gastroprotettori (antistaminici anti-H2, inibitori della pompa protonica, analoghi di prostaglandine). FANS possono essere somministrati per tutte le vie. Dopo un intervento chirurgico, si preferisce la somministrazione parenterale (ev, im, sc), fino a quando il paziente riprende ad alimentarsi autonomamente. Altrimenti, per motivi pratici e perché molto spesso la terapia è somministrata a livello domiciliare, si predilige la somministrazione orale. Negli ultimi anni, sono state introdotte in questʼampia classe di analgesici interessanti nuove molecole caratterizzate da ridotta tossicità a parità di efficacia. • Acido acetilsalicilico. Inibitore non selettivo di COX ad attività analgesica, antinfiammatoria e antiaggregante piastrinico, utilizzato in cani e gatti. In questʼultima specie, tuttavia, il dosaggio richiede particolare monitoraggio, poiché esiste inabilità fisiologica a metabolizzare ed eliminare i salicilati. Il gatto, infatti, presenta innata defi132 cienza dellʼenzima epatico glucoroniltransferasi: lʼemivita di acido acetilsalicilico è, pertanto, prolungata e, se somministrato ripetutamente, può portare a serie intossicazioni. Nei cani può provocare importanti sanguinamenti gastroenterici ed è controindicato in pazienti con insufficienza renale, pregresse ulcere e disordini emorragici. Lʼacido acetilsalicilico, infatti, inibisce in modo permanente e irreversibile la formazione di trombossani, risultando in attività anticoagulante. • Carprofene. Inibitore preferenziale (non selettivo) di COX-2. Indicato per la sua azione analgesica e antinfiammatoria nel cane. Si consiglia di monitorare funzionalità epatica. Nel gatto, non è ancora stata valutata in pieno la sicurezza. • Piroxicam. FANS ad attività analgesica e antitumorale indiretta (mediante interazione con sistema immunitario). A questo riguardo, maggiori dettagli si possono trovare nel capitolo 18. • Meloxicam. Inibitore preferenziale (non selettivo) di COX-2, disponibile in formulazione sia orale sia iniettabile. Attualmente, non ha mostrato tossicità renale o epatica. Lʼattività analgesica è stata ampiamente descritta nel cane, mentre nel gatto sono disponibili soltanto pochi dati. • Naprossene. FANS analgesico, antinfiammatorio e antipiretico. È spesso difficile dosare accuratamente questo FANS e, avendo a disposizione alternative efficaci e più sicure, è raramente utilizzato in medicina veterinaria. • Ketoprofene. Inibitore equivalente di COX-1 e COX-2. Da alcuni autori, ketoprofene è considerato lʼanalgesico non steroideo dʼelezione del gatto. Può essere somministrato per via orale o parenterale. • Flunissina meglumina. Potente inibitore di COX ad attività analgesica, antinfiammatoria e antipiretica. Deve essere utilizzata con cautela in animali con ulcere gastroenteriche, lesioni renali o malattie ematologiche. Se utilizzato come analgesico, si consiglia la somministrazione di unʼunica dose; se lʼanimale non risponde, unʼulteriore dose è raramente efficace, mentre è potenziata la tossicità. È un prodotto esclusivamente per uso veterinario. • Acido tolfenamico. Potente inibitore di COX, che esibisce attività farmacologica analoga a quella di acido acetilsalicilico. Inibendo lʼattività anche di trombossani, lʼacido tolfenamico altera la funzionalità piastrinica. Lʼacido tolfenamico è efficace nel dolore acuto, sia nel cane sia nel gatto, e nel dolore cronico, ma solo nel cane. • Etodolac. Inibitore non selettivo di COX ad atti- PARTE GENERALE deve essere curativo, a causa di radiosensibilità di strutture normali adiacenti. In caso di protocolli curativi (realizzabili, appunto, in caso di lunga aspettativa di vita), gli effetti collaterali acuti sono considerati accettabili fino a un certo grado, mentre gli effetti collaterali tardivi (che possono comparire dopo mesi o anni dal trattamento) devono essere evitati, perché irreversibili. La radioterapia palliativa ha lo scopo di migliorare la qualità di vita del paziente, riducendo dolore o trattando sintomi, quali dispnea, emorragia, paralisi e problemi di defecazione/minzione. In questo caso, gli effetti collaterali acuti devono essere evitati o ridotti al minimo. Talvolta, con tali protocolli palliativi, è possibile influenzare positivamente (e indirettamente) non solo qualità di vita, ma anche quantità di vita. Come funziona la radioterapia? La radioterapia danneggia il DNA e diventa efficace durante il processo di divisione cellulare: quando le cellule tentano di dividersi, muoiono. Tale evento non necessariamente si verifica al primo tentativo mitotico. Generalmente, il tempo di risposta a radioterapia dipende da tasso proliferativo della neoplasia. Tumori a elevata attività proliferativa rispondono altrettanto velocemente (entro giorni), mentre tumori ad attività proliferativa lenta necessitano di più tempo per rispondere (settimane-mesi). Unʼeccezione è rappresentata da tessuto linfatico, ghiandole lacrimali e salivari e testicoli, poiché le cellule che originano da tali distretti muoiono nel giro di poche ore per apoptosi. Frazionamento della radioterapia Nel 1975, Rodney Withers ha introdotto il concetto di “quattro R di radiobiologia: riparazione, riossigenazione, ridistribuzione, ripopolamento”. spalla più larga rispetto a quelle di cellule neoplastiche, in cui (sulla base del modello lineare quadratico) si ha ridotto rapporto α/β; tale rapporto quantifica la sensibilità dei tessuti al frazionamento. Per tale motivo, la radioterapia deve essere elargita in piccole frazioni: nellʼintervallo tra le sedute, i tessuti normali possono recuperare, riducendo gli effetti collaterali del trattamento. La riparazione di danni subletali a carico di tessuti sani si completa nellʼarco di circa 6 ore, con lʼeccezione di tessuti del sistema nervoso centrale, per i quali ci vuole più tempo. Questo dato è importante nel caso di trattamenti accelerati (descritti in un paragrafo successivo). Riossigenazione Circa due terzi di danno biologico prodotto da radiazioni è ossigeno-dipendente e mediato da radicali liberi (danno indiretto). Circa un terzo di danno biologico prodotto da radiazioni è invece diretto, poiché indipendente da ossigeno. Il danno indiretto al DNA provocato da radicali liberi può essere riparato in condizioni ipossiche, ma può diventare permanente o irreparabile se lʼossigeno è disponibile (ipotesi di fissazione dellʼossigeno). Da ciò si evince quanto sia importante lʼossigeno in radioterapia. Le regioni ipossiche del tumore (generalmente, centrali o necrotiche) sono tendenzialmente radioresistenti. Lʼipossia può essere cronica o acuta: la prima deriva da limitata diffusione di ossigeno attraverso i tessuti; la seconda è provocata da ostruzione temporanea di vasi neoplastici (perfusione). Durante radioterapia, le cellule sono riossigenate, indipendentemente da tipo dʼipossia. La riossigenazione è un importantissimo fattore che contribuisce alla radiosensibilità dei tumori. Lʼipossia aumenta di 2,5-3 volte la resistenza delle cellule neoplastiche allʼeffetto di radiazioni rispetto a distretti meglio ossigenati (rapporto di potenziamento di ossigeno, OER). Ridistribuzione Riparazione Tanto più le cellule sono capaci di riparare il danno al DNA, tanto più sono radioresistenti. In generale, le cellule normali hanno migliore capacità riparativa rispetto a cellule neoplastiche, traducendosi in vantaggio terapeutico. Le curve di sopravvivenza di cellule normali hanno 138 Sono particolarmente sensibili alle radiazioni le cellule che si dividono con maggiore frequenza e, quindi, tra queste, anche le cellule tumorali. Le cellule molto differenziate che non replicano, come eritrociti, cellule muscolari e nervose, sono tipicamente radioresistenti. Fibroblasti e cellule endoteliali hanno sensibilità alle radiazioni che è con- capitolo 12 Principi di radioterapia siderata intermedia e il loro danneggiamento è responsabile di effetti collaterali tardivi. La radiosensibilità varia in base a distribuzione delle cellule nel ciclo cellulare. Le cellule che si trovano in fase M (mitosi) o G2 al momento dellʼirradiazione sono radiosensibili. Le cellule, invece, in fase S tardiva (sintesi di DNA) o G1 (G0) sono radioresistenti. Possibili cause includono maggiore capacità riparativa durante fase S, presenza di DNA condensato in fase M, con indisponibilità di enzimi riparatori, variazioni in gruppi sulfidrilici, che fungono da radioprotettori. La ridistribuzione di cellule durante le frazioni di protocollo radioterapico consiste nellʼavanzamento di cellule radioresistenti a livelli più radiosensibili del ciclo cellulare. Dose radiante La dose assorbita (misurata in Gray, Gy) rappresenta lʼenergia depositata dalla radiazione a livello di massa di materiale nel sito dʼinteresse: 1 Gray (Gy) = 1 Joule/kg Tale energia può essere depositata nel tumore a opera di particelle cariche (radiazioni ionizzanti) o non cariche (radiazioni indirettamente ionizzate). Come anticipato, le cellule che non riescono a riparare il danno del DNA provocato da radiazioni sono considerate radiosensibili e richiedono, quindi, una dose radiante totale inferiore. Tipi di radioterapia Ripopolamento Il trattamento radioterapico, così come la chemioterapia, può stimolare le cellule neoplastiche sopravvissute a dividersi più rapidamente (ripopolazione accelerata o clonogenica). Withers e collaboratori hanno dimostrato, in caso di tumori di testa e collo, che la ripopolazione clonogenica accelera circa 28 giorni dopo lʼinizio di radioterapia frazionata. In altre parole, se il trattamento radioterapico dura più di 28 giorni, è necessario aumentare la dose per frazione di circa 0,6 Gy/giorno, per contrastare il ripopolamento. Per questo motivo, la radioterapia dovrebbe essere completata il prima possibile, cioè quando gli effetti collaterali sono ancora accettabili, dal momento che il prolungamento del tempo di trattamento non protegge da effetti tardivi, ma ha grande impatto su effetti collaterali precoci. Il ripopolamento è il motivo per cui è meglio, nel caso sia necessario, posticipare lʼinizio di radioterapia, anziché creare pause una volta che il protocollo è stato iniziato. Tipo di frazionamento e durata totale del trattamento dipendono essenzialmente da tipo di tumore e finalità della terapia (curativa o palliativa). Un esempio di trattamento accelerato (la stessa dose totale è somministrata molto più velocemente) è rappresentato da protocollo radiante per carcinomi squamocellulari nel gatto, caratterizzati da proliferazione molto elevata; tale protocollo è utilizzato per contrastare il ripopolamento. Per ragioni di radiobiologia, carcinoma prostatico e melanoma richiedono, invece, trattamenti ipofrazionati, caratterizzati da somministrazione di poche dosi, ma più elevate. Le tecniche di radioterapia includono teleterapia, brachiterapia e radioterapia metabolica. Teleterapia La teleterapia è il metodo di radioterapia maggiormente utilizzato in medicina sia umana sia veterinaria. Questa tecnica applica pacchetti di energia dallʼesterno, senza contatto diretto con il tumore. La teleterapia si avvale di vari apparecchi. • Ortovoltaggio (150-350 kV): può essere utilizzato per lesioni superficiali, dello spessore che varia da qualche millimetro a pochi centimetri (dipende da filtrazione del fascio, attuabile, per esempio, con rame). La dose massimale è sempre somministrata a livello di superficie cutanea; a 2 cm di profondità, la dose diminuisce di circa 90 per cento. Per effetto fotoelettrico, lʼassorbimento osseo è sempre elevato. La pianificazione terapeutica è manuale e, nella maggior parte dei casi, è utilizzato soltanto un fascio. • Cobalto-60 (due raggi γ di 1,17 e 1,33 MeV; emivita di 5,26 anni): la sorgente radioattiva si trova nella testa della macchina e i raggi γ sono diretti tra collimatori alla regione da irradiare. Lʼenergia è nel range di megavoltaggio e rende possibile irradiare tumori localizzati in profondità. Gli svantaggi includono continua emissione di radiazioni e poca precisione. In merito a questʼultimo punto, la dimensione della fonte di radiazioni (circa 2 cm) crea unʼampia penombra, che ha impatto negativo sui margini del campo di radioterapia, risultando, appunto, in imprecisione. 139 PARTE GENERALE Da questo esempio si evince che il protocollo combinato ha intensità di dose sommata superiore rispetto a doxorubicina in monoterapia (1,8 verso 1), offrendo vantaggio terapeutico. Per densità di dose sʼintende la quantità di chemioterapico somministrata in un lasso di tempo variabile e si basa sulla somministrazione di farmaci a intervalli ravvicinati (figura 3 B). Un regime che somministra dose x in giorni y è meno dose-denso di un regime che somministra x in giorni y/2. In questo caso, lʼintensità di dose è stata ottenuta mediante accorciamento dʼintervallo, in altre parole aumentando la densità di dose. Scopo dei regimi dose-densi è somministrare farmaci il più frequentemente possibile, per distruggere malattia minima residua ed evitare lʼemergenza di cloni chemioresistenti. Un esempio caratteristico di regime dose-denso è la chemioterapia metronomica, che tuttavia non si prefigge di somministrare elevate dosi di chemioterapico (dose cumulativa), ma piccolissime dosi a brevi intervalli. Terapia multimodale Lʼapproccio terapeutico moderno al cancro (essenzialmente tumori solidi caratterizzati da comportamento biologico aggressivo) prevede spesso trattamenti multimodali: in altre parole, chirurgia e radioterapia, per il controllo locale, e chemioterapia, per il trattamento di malattia metastatica (foci sia micrometastatici sia macrometastatici). I cosiddetti protocolli di associazione combinano diverse strategie terapeutiche nel tentativo di ottenere sinergie ed effetti di potenziamento, per migliorare, in ultimo, la prognosi dei pazienti oncologici. Gli scopi della terapia multimodale sono: • riduzione di stadio clinico di malattia (down-staging); • eliminazione di micrometastasi sistemiche; • trattamento di malattia minima residua dopo asportazione chirurgica; • prolungamento di sopravvivenza. Nel tempo sono state proposte molteplici associazioni, per quanto riguarda sia strategia terapeutica (combinazioni tra chirurgia, radioterapia e chemioterapia), sia cronologia di applicazione (trattamento neoadiuvante o adiuvante). La scelta di terapia antitumorale e sue associazioni si basa sui seguenti fattori: 162 • valutazione completa di estensione neoplastica (stadiazione clinica); • conoscenza approfondita di caratteristiche intrinseche del tumore, incluse vie di metastatizzazione, radiosensibilità e chemiosensibilità; • valutazione di sede anatomica, tipo istologico e strutture normali nella regione da trattare; • definizione di scopi terapeutici (curativi o palliativi); • selezione di modalità di trattamento appropriate, inclusi “dose” (chirurgica, radiante o chemioterapica) e volume neoplastico da trattare (modalità adiuvante o neoadiuvante); • valutazione delle condizioni generali del paziente. Chemioterapia neoadiuvante Il razionale di chemioterapia neoadiuvante si basa sullʼipotesi di Goldie-Coldman. Se è vero che il volume di cellule neoplastiche chemioresistenti aumenta con lʼincrementare di dimensioni del tumore, allora la chemioterapia ha massima efficacia e potenziale di cura nelle fasi iniziali di malattia. Inoltre, somministrando chemioterapia prima di intervenire chirurgicamente, non si avrebbero fenomeni cicatriziali, che alterano il letto vascolare, compromettendo lʼefficace distribuzione di chemioterapico. Gli scopi principali di chemioterapia neoadiuvante sono ridurre le dimensioni del tumore primitivo, per renderlo aggredibile con chirurgia, e bersagliare foci micrometastatici sistemici clinicamente occulti, tipicamente molto sensibili allʼazione farmacologica. È anche possibile individuare pazienti che rispondono al trattamento e che possono essere sottoposti a chemioterapia adiuvante in seguito ad asportazione chirurgica del tumore, utilizzando il tumore come marker biologico di risposta a farmaco somministrato. Una scarsa risposta a chemioterapia identifica, invece, quei pazienti per i quali è necessario valutare seriamente approcci terapeutici alternativi. La chemioterapia neoadiuvante trova poche applicazioni dirette nella pratica clinica: ciò è da ricondurre agli accertati svantaggi, tra cui ritardato trattamento definitivo locoregionale (in caso di mancata risposta a chemioterapia), peggioramento delle condizioni del paziente (in caso di tossicità), possibilità di metastatizzazione a distanza (in caso di perdita dʼimmunosorveglianza indotta da chemioterapia). Chemioterapia adiuvante Dopo asportazione chirurgica di un tumore, il volu- capitolo 13 Principi di chemioterapia me che resta (malattia minima residua, sia locale sia sistemica) può essere bersagliato con chemioterapia, se naturalmente esiste indicazione (per esempio, tumori biologicamente aggressivi, a elevato potenziale metastatico di alto grado, con linfonodo regionale positivo e/o con elevato rischio di recidiva locale). Le cellule residue presentano, infatti, elevata frazione di accrescimento e sono pertanto sensibili al trattamento chemioterapico, che sarebbe così in grado di eliminare micrometastasi clinicamente occulte. Non devono inoltre essere affrontati i problemi tipici di tumor burden elevato, tra cui ridotto apporto vascolare, ipossia, eterogeneità neoplastica ed emergenza di cloni chemioresistenti. Per tumori a elevato rischio di recidiva locale, lʼimpiego di chemioterapia adiuvante è quanto mai controverso. La necessità di chemioterapia adiuvante è enfatizzata dalla consapevolezza che, una volta recidivato, il tumore molto difficilmente risponderà a chemioterapia. Al tempo stesso, alcuni pazienti che ricevono chemioterapia adiuvante non recidiverebbero in ogni caso, poiché lʼintervento chirurgico è già stato da solo risolutivo. I princìpi che regolano la chemioterapia adiuvante sono i seguenti: • somministrare soltanto chemioterapici efficaci per quel tipo di tumore; • il tumore deve essere stato asportato chirurgicamente; • la chemioterapia deve essere iniziata il prima possibile dopo chirurgia; • somministrare chemioterapici alla massima dose tollerata; • somministrare chemioterapia per un periodo di tempo limitato. Lʼindicatore principale di efficacia (tasso di remissione completa) si perde in setting adiuvante, dal momento che il tumore primitivo è stato rimosso. Gli end-point principali sono dunque durata dʼintervallo libero da malattia e sopravvivenza complessiva. Nel singolo paziente, non è possibile stabilire se chemioterapia adiuvante ed eventuale tossicità sono state di beneficio o necessarie. Radioterapia e chemioterapia Lʼassociazione terapeutica radioterapia localechemioterapia sistemica è volta a ottenere maggiore attività antitumorale (ampliare lʼindice tera- peutico), sia su tumore primitivo sia su micrometastasi sistemiche. Infatti, sebbene il controllo locoregionale del tumore sia della massima importanza per prolungare lʼintervallo libero, la presenza di micrometastasi compromette la riuscita di trattamento chirurgico/radioterapico. Combinando le due modalità, si bersagliano volumi neoplastici differenti e si diminuisce la dose sia di chemioterapia sia di radioterapia, riducendo notevolmente la tossicità secondaria a ciascun trattamento. In merito a modalità di associazione, radioterapia e chemioterapia possono alternarsi, succedersi nel tempo oppure essere somministrate contemporaneamente. In questʼultimo caso, se si vuole dirigere lʼazione antineoplastica contro lo stesso obbiettivo (tumore principale), si utilizzano chemioterapici radiosensibilizzanti che incrementano lʼeffetto citolesivo dei raggi ionizzanti, somministrati, in genere, unʼora prima del trattamento radiante. I meccanismi dʼazione alla base dellʼeffetto sinergico sono, dopo radioterapia, riossigenazione di cellule neoplastiche ipossiche, che sono quindi più facilmente raggiunte dai farmaci, mancata riparazione di danni subletali a carico di DNA di cellule neoplastiche e sincronizzazione del ciclo cellulare. Laddove, invece, lʼassociazione contemporanea abbia obbiettivi diversi (tumore primitivo o “santuari” inaccessibili a chemioterapici - radioterapia - e micrometastasi al di fuori del campo dʼirradiazione - chemioterapia), si scelgono chemioterapici non necessariamente radiosensibilizzanti efficaci contro metastasi. Si parla, in questo caso, di associazione spaziale. Valutazione di risposta a chemioterapia: end-point clinici Per valutare se il trattamento chemioterapico è stato efficace, è necessario innanzitutto aver stabilito in quale setting è stata somministrata la chemioterapia, se con strategia dʼinduzione, adiuvante o neoadiuvante. Chemioterapia dʼinduzione Si applica su pazienti con tumori in genere avanzati e misurabili. La risposta a chemioterapia viene classificata come remissione completa, remissione parziale, malattia stabile e progressione. Per remissione sʼintende scomparsa parziale o totale di segni e sintomi collegati allo stato patologico. 163 PARTE GENERALE capitolo 14 CHEMIOTERAPICI IN MEDICINA VETERINARIA Laura Marconato Introduzione Negli ultimi decenni, lʼoncologia medica ha visto sviluppare numerosi farmaci antineoplastici, utilizzati con successo non solo in medicina umana, ma anche in medicina veterinaria. A differenza di chirurgia e radioterapia, che non possono superare il limite del controllo locoregionale del tumore, la chemioterapia svolge azione sistemica e deve, quindi, essere presa in considerazione per tumori del sistema emolinfatico, quali linfoma, leucemie, mieloma multiplo e altre neoplasie emopoietiche, oppure tumori che hanno elevato potenziale metastatico. Il più delle volte, tuttavia, la chemioterapia è utilizzata in panorama multidisciplinare, insieme cioè a chirurgia e/o radioterapia. Al contrario della chirurgia, in genere più facilmente accettata dai proprietari perché rimuove il tumore, la chemioterapia non ha questo carattere dʼimmediatezza ed è, pertanto, più difficilmente apprezzata. Inoltre, lʼeventuale tossicità secondaria al trattamento può provocare conflitto decisionale tra qualità di vita e più lunga sopravvivenza. Il veterinario oncologo diventa figura di riferimento che deve essere in grado di trovare lʼequilibrio tra validità di sforzo terapeutico e accanimento, stabilendo rapporto di fiducia e di continua comunicazione con il proprietario. Come calcolare la dose di chemioterapico La somministrazione di chemioterapia a un paziente comporta, da un lato, effetto terapeutico (desiderato), dallʼaltro, effetto tossico (indesiderato). Scopo della chemioterapia è massimizzare la risposta terapeutica e minimizzare la tossicità inaccettabile. Le variabili correlate al dosaggio, che consentono 166 di raggiungere tale scopo, sono quantità di farmaco somministrato e intervallo di somministrazione. In condizioni ideali, sarebbe necessario conoscere per ogni chemioterapico il rapporto tra dose, conseguenze terapeutiche e tossiche e durata di effetto. Sfortunatamente, in medicina veterinaria spesso mancano tali informazioni. Inoltre, differenze genotipiche e fenotipiche fanno sì che lo stesso dosaggio di chemioterapico provochi, in individui diversi, profili farmacocinetici variabili, con differenti risposte terapeutica e tossica. I chemioterapici hanno indice terapeutico ristretto, ovvero sono farmaci poco maneggevoli, e le conseguenze di modesta overdose o di piccolo sottodosaggio possono essere fatali per il paziente (tossicità inaccettabile o mancata risposta terapeutica). È perciò imperativo dosare i chemioterapici accuratamente e conoscerne la farmacologia clinica. In studi tossicologici, lʼutilizzo di peso corporeo per dosare i farmaci (mg/kg) non consente correlazione tra animali roditori ed esseri umani. Comparando uomo e topo, 1 mg/kg rappresenta una dose drammaticamente differente e questo a causa di dimensioni, gittata cardiaca e distribuzioni epatica e renale, mentre 1 mg/m2 è in sostanza la stessa dose. Il dosaggio di farmaci in base a superficie corporea (mg/m2) permette di somministrare al paziente una dose più sicura, soprattutto in casi in cui esiste differenza estrema di taglia, come, per esempio, soggetto adulto e giovane oppure diverse razze di cani (tabelle I e II). Utilizzando la superficie corporea, vengono a essere eliminate le differenze di metabolismo basale, distribuzione, metabolismo ed eliminazione di farmaco, che normalmente esistono tra cani piccoli e cani grandi. La formula utilizzata per estrapolare la superficie corporea dal peso dellʼanimale è la seguente: BSA (superficie corporea) = 10 x W (peso corporeo in grammi)2/3 capitolo 14 Chemioterapici in medicina veterinaria Tabella I - Conversione peso/superficie corporea per cani. Tabella II - Conversione peso/superficie corporea per gatti. kg m2 kg m2 kg m2 kg m2 0,5 1,0 2,0 3,0 4,0 5,0 6,0 7,0 8,0 9,0 10,0 11,0 12,0 13,0 14,0 15,0 16,0 17,0 18,0 19,0 20,0 21,0 22,0 23,0 24,0 25,0 0,06 0,10 0,15 0,20 0,25 0,29 0,33 0,36 0,40 0,43 0,46 0,49 0,52 0,55 0,58 0,60 0,63 0,66 0,69 0,71 0,74 0,76 0,78 0,81 0,83 0,85 26,0 27,0 28,0 29,0 30,0 31,0 32,0 33,0 34,0 35,0 36,0 37,0 38,0 39,0 40,0 41,0 42,0 43,0 44,0 45,0 46,0 47,0 48,0 49,0 50,0* 0,88 0,90 0,92 0,94 0,96 0,99 1,01 1,03 1,05 1,07 1,09 1,11 1,13 1,15 1,17 1,19 1,21 1,23 1,25 1,26 1,28 1,30 1,32 1,34 1,36 0,1 0,2 0,3 0,4 0,5 0,6 0,7 0,8 0,9 1,0 1,2 1,4 1,6 1,8 2,0 2,2 2,4 2,5 2,6 2,8 3,0 3,2 3,4 3,5 3,6 3,8 4,0 4,2 4,4 4,5 4,6 4,8 0,022 0,034 0,045 0,054 0,063 0,071 0,079 0,086 0,093 0,100 0,113 0,125 0,137 0,148 0,159 0,169 0,179 0,184 0,189 0,199 0,208 0,217 0,226 0,231 0,235 0,244 0,252 0,260 0,269 0,273 0,277 0,285 5,0 5,2 5,4 5,5 5,6 5,8 6,0 6,2 6,4 6,5 6,6 6,8 7,0 7,2 7,4 7,5 7,6 7,8 8,0 8,2 8,4 8,5 8,6 8,8 9,0 9,2 9,4 9,5 9,6 9,8 10,0 0,292 0,300 0,307 0,311 0,315 0,323 0,330 0,337 0,345 0,348 0,352 0,360 0,366 0,373 0,380 0,383 0,387 0,393 0,400 0,407 0,413 0,416 0,420 0,426 0,432 0,439 0,445 0,449 0,452 0,458 0,464 *per peso > 50 kg, aggiungere 0,02 m2 per chilogrammo. Ciò nonostante, lʼutilizzo della superficie corporea per dosare i farmaci citotossici non è sempre giustificato; infatti, la disposizione di un farmaco non è sempre proporzionale alla superficie corporea: differenze in distribuzione, metabolismo ed escrezione di farmaco possono precludere lʼestrapolazione di dose tra specie diverse oppure tra individui diversi nellʼambito della stessa specie. Per esempio, utilizzando la superficie corporea, cani di piccola taglia (< 10 kg) e gatti ricevono, in proporzione, dosi maggiori, e, quindi, hanno picco plasmatico, emivita, volume distribuito ed effetti collaterali maggiori rispetto a cani di grossa taglia. Ne sono esempi doxorubicina, melphalan e sali del platino. Attualmente, in cani di piccola taglia e gatti, e solo per alcuni chemioterapici, si raccomanda di do- sare il farmaco in base a peso corporeo e non in base alla superficie. Modalità di somministrazione I chemioterapici possono essere somministrati per via orale, endovenosa, intrarteriosa, sottocutanea, intralesionale, intraincisionale, intracavitaria, intravescicale e inalatoria. Efficacia e tossicità spesso variano in base alla via di somministrazione scelta ed errori tecnici, anche banali, possono compromettere lʼefficacia della terapia o accentuarne la tossicità. I chemioterapici che possono essere somministrati per via orale sono largamente impiegati in medicina veterinaria, sia in strategia dose-intensa, sia 167 capitolo 14 Chemioterapici in medicina veterinaria biettivo è stabilizzare il paziente e non indurre remissione, minimizzando la tossicità. La chemioterapia metronomica, poiché somministrata in regime continuativo al paziente, impedirebbe il recupero di cellule neoplastiche, che si verifica, invece, negli intervalli di protocolli tradizionali. Bersagli di chemioterapia metronomica sono soprattutto cellule endoteliali e loro precursori midollari, il cui ruolo è portare sostentamento al tumore. Farmaci antineoplastici I chemioterapici citotossici danneggiano le cellule neoplastiche, interferendo con sintesi di precursori di DNA oppure interagendo con DNA stesso, impedendone la duplicazione. Altri bersagli sono enzimi, membrana cellulare, microtubuli, ormoni e fattori di crescita. Purtroppo, non esistono chemioterapici in grado di distinguere tra cellula normale e tumorale: ciò spiega la tossicità associata a somministrazione di terapie citotossiche. Tuttavia, essendo le cellule tumorali caratterizzate da crescita incontrollata, è probabile che esse siano in fase di divisione cellulare quando viene somministrato il chemioterapico e siano, pertanto, più sensibili a effetti nocivi. I chemioterapici sono classificati didatticamente in tre gruppi, secondo meccanismo dʼazione e fase del ciclo cellulare durante la quale agiscono. Questa classificazione non deve essere considerata assoluta, poiché, per molti chemioterapici, è ancora sconosciuto o poco chiaro il meccanismo dʼazione. • Agenti fase-specifici: distruggono le cellule che si dividono in fasi particolari del ciclo cellulare. Esempio: antimetaboliti (attivi durante fase S) e agenti antimitotici o alcaloidi vegetali (attivi durante fase M). • Agenti fase-aspecifici: distruggono le cellule che si dividono indipendentemente da fase del ciclo cellulare. Esempio: agenti alchilanti, doxorubicina e mitoxantrone. • Agenti ciclo-aspecifici: tossici sia per cellule che si dividono, sia per cellule in fase G0. Esempio: mostarde azotate (mecloretamina) e nitrosouree. I chemioterapici che agiscono durante una fase specifica del ciclo cellulare sono efficaci soltanto quando la cellula si trova nella fase di sintesi o divisione mitotica. I chemioterapici che invece agiscono indipendentemente dalla fase cellulare esercitano la loro azione durante lʼintero ciclo. Agenti alchilanti Gli agenti alchilanti sono fase-aspecifici, dal momento che esercitano la loro attività citotossica su tutte le fasi del ciclo cellulare, anche se le cellule in fase S sono comunque più sensibili, poiché il loro DNA è parzialmente svolto e, quindi, più accessibile. Gli agenti alchilanti promuovono il trasferimento di gruppi alchilici nel DNA, determinando rottura di catena e distruzione del templato di DNA, che, a sua volta, interrompe le informazioni necessarie per divisione cellulare. Pertanto, i chemioterapici sono definiti agenti alchilanti se contengono gruppi reattivi alchilici capaci di formare legami covalenti con DNA. La resistenza è secondaria allʼaumentata riparazione del DNA ed è tipicamente cross-reagente, vale a dire che la resistenza verso un agente alchilante indica resistenza anche verso tutti gli altri. 169 PARTE GENERALE farmaco dose (cane) dose (gatto) tossicità eliminazione indicazioni carmustina 50-100 mg/m2 ev (nellʼarco di 2 ore), diluita in fisiologica (150-250 ml), ogni 6 settimane non riportata mielosoppressione dose-limitante e cumulativa (trombocitopenia e neutropenia) urine: 48 ore non eccedere 100 mg totali feci: 48 ore melanoma, tumori cerebrali inoperabili, infoma vescicante ciclofosfamide 50-75 mg/m2/die po per 2 o 4 giorni; 200-300 mg/m2 ev ogni 3 settimane in regime metronomico, 7-10 mg/m2 sid-eod po mielosoppressione dose-limitante e reversibile (neutropenia e linfopenia) urine: 24 ore ampio spettro antineoplastico feci: 5 giorni (linfomi, carcinomi), spesso siero: 6 giorni in combinazione tossicità gastroenterica, più grave in seguito a somministrazione orale immunosoppressore cistite emorragica da acroleina (soprattutto dopo somministrazione ev) clorambucile 0,2 mg/kg/die po (trattamento continuo); 2-6 mg/m2/die po; 8 mg/m2/die po per 5 giorni (trattamento pulsatile); 15 mg/m2/die po per 4 giorni (trattamento pulsatile) mielosoppressione dose-limitante e cumulativa urine: 48 ore feci: 48 ore lieve tossicità gastroenterica tossicità neurologica rara e reversibile leucemia linfocitica cronica, linfoma (in sostituzione a ciclofosfamide), mieloma multiplo, policitemia vera, mastocitoma immunosoppressore dacarbazina non consigliata 200 mg/m2 ev per 5 giorni consecutivi non eccedere 250 mg totali oppure 800-1.000 mg/m2 ev in infusione lenta (2-8 ore), da ripetersi dopo 3 settimane tossicità midollare dose-limitante e prolungata (leucopenia e trombocitopenia) urine: 48 ore feci: 48 ore linfoma (rescue), melanoma, sarcomi tossicità gastroenterica vescicante oppure (in regime combinato) 600 mg/m2 ev, diluita in 250-1.000 ml NaCl, in 5 ore ifosfamide 350-375 mg/m2 ev con protocollo di diuresi e somministrazione di Mesna 900 mg/m2 ev con protocollo di diuresi e somministrazione di Mesna tossicità renale urine: 4 giorni dose-limitante: somministrare sempre feci: 48 ore con Mesna mielosoppressione dose-limitante (neutropenia) 170 vari sarcomi (osteosarcoma, emangiosarcoma); sarcoma iniettivo felino PARTE GENERALE capitolo 16 MANIPOLAZIONE SICURA E NORMATIVE Riccardo Finotello Introduzione Nel campo della medicina umana, il consistente aumento delle malattie neoplastiche e il successivo sviluppo della ricerca in tal senso hanno condotto a trattare sempre più pazienti oncologici con farmaci chemioterapici antiblastici. Tali farmaci, nellʼultimo decennio, hanno trovato largo impiego anche in medicina veterinaria, dove lʼoncologia medica è una disciplina specialistica in larga espansione. Questa crescita è dimostrata dal recente avvento di nuovi farmaci, cosiddetti intelligenti (farmaci a bersaglio molecolare), specificamente creati per la medicina veterinaria, quali Palladia® e Masivet®. Molte sostanze ad attività citotossica e citostatica, che lʼoncologia veterinaria condivide con quella umana, inibiscono la proliferazione delle cellule neoplastiche, non risparmiando però (mancata selettività) i tessuti sani, quali prevalentemente midollo osseo e tratto gastroenterico, dando origine così alla tossicità acuta e cronica. Lʼoperatore sanitario è, dopo il paziente, il soggetto più esposto al farmaco antiblastico, in dosi generalmente minime (subterapeutiche), ma ripetute e prolungate nel tempo. Tossicità cronica e irreversibile è stata osservata nel personale ospedaliero attraverso effetti cancerogeni, mutageni e teratogeni, ben documentati fin dai primi anni Ottanta, nonché acuti, quali irritazioni di cute e mucose, dovute a contatti accidentali durante le procedure di preparazione o somministrazione dei farmaci. Come la maggior parte dei farmaci, i chemioterapici antiblastici, dopo una fase di metabolizzazione epatica e/o renale e una di distribuzione, subiscono una fase di escrezione attraverso feci, urine e secrezioni corporee. Seppure solo le prime due vie siano state confermate in medicina veterinaria, si comprende bene come anche per medici veterinari la farmacosicurezza sia argomento 202 importante non solo per il personale che direttamente manipola tali sostanze, ma per tutti coloro che vi entrano in contatto attraverso i locali di preparazione, somministrazione e degenza (per esempio, colleghi, personale addetto alle pulizie) o per vicinanza al paziente (per esempio, proprietario). Rischi professionali I farmaci chemioterapici antiblastici sono considerati hazardous drugs: questo termine fu usato per la prima volta dallʼAmerican Society of Hospital Pharmacists (ASHP) ed è attualmente utilizzato dallʼOccupational Safety and Health Administration (OSHA). Una sostanza è classificata come pericolosa, se studi condotti su animali o uomo ne dimostrano cancerogenicità, tossicità verso gli organi riproduttori o danni ad altri distretti corporei. Gli effetti causati dallʼesposizione a farmaci pericolosi sono condizionati non tanto dalla dose di farmaco a cui si è esposti, ma soprattutto dalla suscettibilità individuale, che pertanto non è prevedibile. Le potenziali proprietà dei chemioterapici nellʼindurre condizioni maligne sono riassunte in tabella I. Sono stati stabiliti criteri per la manipolazione di questi farmaci, ma la messa in pratica è risultata essere talvolta inadeguata o inefficace. ConcenTabella I - Potenziali tossicità dei chemioterapici. • genotossicità: capacità di una sostanza di indurre modificazioni allʼinterno della sequenza nucleotidica o della struttura a doppia elica del DNA • mutagenicità: capacità di indurre o aumentare mutazioni genetiche permanenti attraverso modificazioni del DNA • cancerogenicità: capacità di provocare incontrollata replicazione cellulare • teratogenicità: capacità di provocare difetti nello sviluppo del feto capitolo 16 Manipolazione sicura e normative trazioni rilevabili di antiblastici sono state documentate sia in urine e feci del personale addetto alla loro manipolazione sia nei locali adibiti alla loro preparazione e/o somministrazione, pur nel rispetto di norme di sicurezza. Cancerogenicità Lʼeffetto cancerogeno dei farmaci antiblastici è dimostrato da studi condotti su animali da laboratorio fin dagli anni Settanta e tale evidenza ha trovato ulteriore conferma nella documentata insorgenza, dopo chemioterapia, di tumori sia solidi (epiteliali e mesenchimali) sia rotondocellulari (per esempio, leucemie acute imputate a terapia), non correlati con la neoplasia primaria. Alcuni studi hanno inoltre mostrato una relazione tra manipolazione di farmaci antiblastici e insorgenza di neoplasie nel personale tecnico impiegato nei reparti oncologici, anche se è da considerare che non tutti i chemioterapici sembrano capaci dʼindurre la stessa tossicità: lʼInternational Agency for Research on Cancer (IARC) ha perciò catalogato le sostanze pericolose in base al loro potenziale cancerogeno, classificandole in 5 gruppi (tabella II). Malgrado tale premessa, questa non è sufficientemente sostenuta dalla letteratura, per poter affermare che lʼesposizione a piccole e continue dosi di farmaco possa necessariamente indurre lʼinsorgenza di neoplasie. È comunque interessante notare come facciano parte del gruppo 1 (tabella II) molti farmaci utilizzati nel paziente veterinario, non solo per il trattamento di patologie neoplastiche, ma anche immunomediate, e che, data la loro forma farmaceutica (compresse, confetti o capsule), vengono frequentemente dispensati al proprietario, con il compito di somministrarli per tempi anche molto lunghi. Sarebbe, quindi, eticamente corretto avvertire lʼinteressato circa il potenziale rischio, invitandolo allʼosservazione di rigide norme di farmacosicurezza. Effetti mutageni Diversi studi hanno dimostrato come farmaci antiblastici possano causare effetti tossici sul DNA del personale esposto, attraverso aberrazioni cromosomiali, scambi tra cromatidi fratelli, delezioni geniche e presenza di frammenti di DNA a livello citoplasmatico (micronuclei). Altri studi, in cui tale relazione non è stata dimostrata, hanno però attribuito ta- Tabella II - Classificazione dei chemioterapici in base a potenziale carcinogenico. gruppo 1: agenti carcinogenici (sufficiente evidenza di carcinogenesi in esseri umani) • azatioprina • busulfan • protocolli chemioterapici per linfoma (per esempio, MOPP, protocolli combinati che includono agenti alchilanti) • clorambucile • ciclofosfamide • melphalan • thiotepa • tamoxifene gruppo 2A: agenti probabilmente carcinogenici (limitata evidenza in esseri umani, ma sufficiente evidenza in animali) • • • • • • • carmustina lomustina cisplatino doxorubicina mecloretamina procarbazina etoposide gruppo 2B: agenti probabilmente carcinogenici per gli esseri umani (evidenza limitata in esseri umani, ma assenza di evidenza in animali) • • • • • • bleomicina dacarbazina mitomicina streptozotocina daunorubicina mitoxantrone gruppo 3: agenti non classificabili per carcinogenicità nellʼuomo • • • • • • • • D-actinomicina 5-fluorouracile ifosfamide 6-mercaptopurina metotrexate vinblastina vincristina idrossiurea gruppo 4: agenti probabilmente non cancerogeni nellʼuomo • nessun chemioterapico antitumorale rientra nella categoria MOPP = mecloretamina, vincristina, procarbazina, prednisone. 203 cap 17 213-223:gabbia 29-05-2012 10:42 Pagina 213 capitolo 17 Nuove strategie antitumorali capitolo 17 NUOVE STRATEGIE ANTITUMORALI Laura Marconato Introduzione Le principali modalità terapeutiche antiblastiche sono chirurgia, radioterapia e chemioterapia. Resistenza farmacologica acquisita, instabilità genetica ed eterogeneità di cellule neoplastiche sono tutti fattori che concorrono in alcuni casi al fallimento terapeutico. La migliore conoscenza di eventi molecolari coinvolti in progressione tumorale e le caratteristiche biologiche del tumore, come, per esempio, potenziale metastatico, hanno consentito di sviluppare nuove strategie terapeutiche antitumorali, tra cui inibizione di angiogenesi e terapia a bersaglio molecolare. Lʼanimale da compagnia rappresenta, per diversi motivi, un ottimo modello per lo studio delle basi molecolari del cancro e per le ricerche precliniche volte a individuare nuove strategie terapeutiche. Innanzitutto, uomo e animale da compagnia condividono lo stesso ambiente e sono esposti ai medesimi fattori cancerogeni eventualmente presenti: lʼanimale può, quindi, fungere da vera e propria sentinella ambientale di cancerogenesi. Inoltre, al contrario di animali da laboratorio in cui i tumori sono indotti sperimentalmente, in animali domestici e uomo essi si sviluppano spontaneamente, ma nei primi il decorso tende a essere più rapido, consentendo una raccolta dati più veloce. Non bisogna, infine, dimenticare il complesso aspetto etico della ricerca: mentre la sperimentazione su animali da laboratorio suscita ancora sentimenti contrastanti, i trial clinici condotti su animali da compagnia, per i quali il gold standard terapeutico non è ancora stato identificato, è più facilmente accettato e compreso. Angiogenesi e strategie antiangiogenetiche Introduzione allʼangiogenesi Alcune decine di anni fa, Judah Folkman teorizzò che i tumori non potessero crescere oltre 2-3 mm in assenza di adeguato apporto vascolare. Attualmente, è universalmente accettato che sia la crescita di tumore primitivo sia il fenomeno di metastatizzazione richiedano necessariamente apporto vascolare, definito con il termine di angiogenesi. Affinché aumenti il diametro di un tumore, anche lʼangiogenesi deve incrementare. Bersagliando i vasi del tumore, si può quindi bersagliare il tumore stesso e su questo concetto si basano le strategie antiangiogenetiche sfruttate in oncologia. Si definisce angiogenesi o neovascolarizzazione la formazione di nuovi vasi a partire da vasi preesistenti. In generale, i vasi sanguigni hanno ruolo critico nellʼapportare ossigeno e nutrienti ai tessuti e nellʼeliminare prodotti tossici che derivano dal metabolismo cellulare. Lʼangiogenesi è cruciale in molti processi fisiologici o fisiopatologici - quali embriogenesi, ovulazione, gravidanza o guarigione di ferite - e in processi patologici - quali arteriosclerosi, retinopatia diabetica, ulcera gastrica, crescita tumorale e sviluppo di metastasi. È ormai universalmente accettato che la crescita tumorale è angiogenesi-dipendente e in letteratura esistono più di 3.000 pubblicazioni che dimostrano chiaramente il nesso tra neovascolarizzazione e progressione di malattia neoplastica: il comportamento biologico del tumore è, infatti, influenzato dalla capacità della neoplasia di indurre crescita e organizzazione endoteliale. Senza adeguato supporto sanguigno, il tumore non può crescere oltre 1 mm3 e il tasso metastatico è basso o 213 cap 17 213-223:gabbia 29-05-2012 10:42 Pagina 218 PARTE GENERALE Anticorpi monoclonali Gli anticorpi monoclonali (MAb) sono prodotti a partire da una plasmacellula resa immortale ed espansa in modo clonale, che produce un anticorpo specifico contro una proteina. Di conseguenza, MAb mostra elevate affinità e specificità per una particolare proteina. MAb sono molecole grosse con elevato peso molecolare: pertanto, non possono essere somministrati per via orale (perché verrebbero digeriti nellʼintestino), ma soltanto per via parenterale. Inoltre, sempre a seguito delle loro grosse dimensioni, non penetrano allʼinterno delle cellule. Da ciò si deduce che il bersaglio di MAb deve essere il dominio extracellulare del recettore coinvolto nella regolazione neoplastica. Una volta occupato da MAb, il dominio non è più disponibile per il ligando naturale: il recettore non viene attivato e il segnale di crescita cellulare silenziato. Ciò è vero, se la cellula neoplastica sovraesprime il recettore. Se, invece, cʼè attivazione costitutiva (secondaria a mutazione del gene che codifica per il recettore), MAb non interferisce con lʼattività proliferativa della cellula. Trastuzumab si lega al dominio extracellulare del recettore HER-2, il quale è codificato dal protoncogene c-erbB-2 o neu. Tale gene è amplificato in 20-30 per cento dei tumori mammari della donna e, di conseguenza, si ha sovraespressione di HER2 sulla superficie di cellule neoplastiche. Non esistendo un ligando per HER-2, il meccanismo dʼazione di trastuzumab non si esplica mediante competizione inibitiva, bensì mediante internalizzazione e successiva degradazione endocitica di HER-2. Nel cane e nel gatto, HER-2 è sovraespresso in alcuni tumori mammari e nellʼosteosarcoma del cane, dove assume significato prognostico sfavorevole. Cetuximab si lega al dominio extracellulare di EGFR, inibendo il legame tra recettore ed EGF (inibizione competitiva) e silenziando il segnale proliferativo. Bevacizumab è diretto contro il recettore di VEGF, importante promotore di angiogenesi in diversi tumori; agisce sul recettore per inibizione competitiva del ligando, inibendo neoangiogenesi. Rituximab, MAb chimerico anti-CD20, ha rivoluzionato il modo di affrontare le malattie linfoproliferative dellʼuomo, in modo particolare linfomi nonHodgkin: infatti, dalla concezione di malattia non eradicabile, si è passati alla consapevolezza di guarigione in una parte di pazienti. Il ruolo tera218 peutico di rituximab è stato valutato in vitro per il trattamento di linfomi canini: pur immunoesprimendo CD20, le cellule neoplastiche non sono in grado di legarsi a MAb; pertanto, rituximab non trova applicazione clinica in veterinaria. In medicina veterinaria, MAb 231 ha dato invece importanti risultati nel trattamento del linfoma del cane, se utilizzato insieme a chemioterapia, migliorando sia intervallo libero da malattia sia sopravvivenza. MAb 231 non è più in commercio. Inibitori di proteine heat shock 90 Le proteine heat shock 90 formano un complesso, insieme ad altre proteine, avente la funzione di correggere conformazione, ripiegamento, attività, localizzazione intracellulare e turnover di tutta una serie di proteine coinvolte in crescita cellulare e sopravvivenza. Tra le proteine che dipendono da un corretto funzionamento di HSP90 si ricordano KIT, Met, Akt, Raf e BCR-ABL. Per svolgere la propria attività, HSP90 richiedono ATP: pertanto, il mancato legame con questa molecola inibisce lʼattività dellʼintero complesso proteico, attivando secondariamente la degradazione proteasoma-dipendente. Dal momento che molti tumori sovraesprimono HSP90, piccoli inibitori di queste proteine possono essere sfruttati in clinica. Inibitori di proteasoma Il normale turnover di proteine prevede la degradazione di queste ultime per mantenere la normale omeostasi. Il proteasoma è un complesso enzimatico costituito da diverse subunità, localizzato a livello citoplasmatico e nucleare, che riconosce proteine legate a ubiquitine e, quindi, pronte a essere degradate. Nelle cellule tumorali, le ubiquitine si legano a molecole importanti come p53 e Bax, catalizzandone degradazione e favorendo, quindi, sopravvivenza cellulare e proliferazione. Il proteasoma svolge, pertanto, unʼimportante funzione nel mantenere lʼintegrità tumorale. Il più importante inibitore di proteasoma è bortezomib, utilizzato in medicina umana nel trattamento di mieloma multiplo, accanto a strategie chemioterapiche convenzionali. Inibitori di deacetilasi istonica Allʼinterno delle cellule, DNA è strutturalmente organizzato per mezzo di proteine che ne favoriscono la compattazione. Tali proteine prendono il cap 17 213-223:gabbia 29-05-2012 10:42 Pagina 219 capitolo 17 Nuove strategie antitumorali nome di istoni. In seguito ad acetilazione, gli istoni interagiscono meno con il DNA, inducendo cambio conformazionale e promuovendo, quindi, trascrizione di materiale genetico. Al contrario, le deacetilasi prevengono la trascrizione genica. Lo squilibrio tra acetilazione e deacetilazione favorirebbe la cancerogenesi. In particolare, le deacetilasi isto- niche sono frequentemente sovraespresse in tumori, prevenendo, per esempio, la trascrizione di geni regolatori, come p21 e p53, e rappresentano quindi bersaglio ideale per lo sviluppo di farmaci inibenti questi enzimi. Lʼacido valproico, per esempio, inibendo deacetilasi istoniche, favorisce lʼapoptosi di cellule neoplastiche. CENNI DI ONCOLOGIA COMPARATA Dino Amadori, Marianna Ricci Introduzione Non è passato molto tempo da quando lʼoncologia medica si era posta il problema di individuare bersagli cellulari specifici, nonostante non fossero ancora noti i meccanismi biomolecolari alla base di trasformazione e progressione della cellula tumorale. Da allora i risultati sono stati importanti, grazie ai progressi avvenuti in farmacologia oncologica e alle più moderne tecniche radioterapiche e radiometaboliche. Lʼarricchimento chemioterapico è giunto grazie a farmaci, quali antimicrotubulinici (tassani e vinorelbina), inibitori di topoisomerasi I (campotecine), complessi del platino (oxaliplatino), antifolati (gemcitabina, capecitabina, fludarabina, pemetrexed) e nuovi agenti alchilanti (temozolamide). I progressi della ricerca degli ultimi anni hanno altresì permesso di sviluppare nuove strategie ormonali, che sono entrate di diritto nella pratica clinica: modulatori selettivi di recettori estrogenici, inibitori steroidei e non di aromatasi e antiandrogeni. Le moderne tecnologie hanno portato nuovi successi anche per quanto riguarda radioterapia e terapia radiometabolica. La radioterapia, scoperta più di cento anni fa e fondata su raggi X e radioattività naturale, ha dato origine alla radioterapia a fasci esterni e alla brachiterapia. Sono stati impiegati altri 50-60 anni per sfruttare la radioattività di Cobalto 60 e radiazioni ionizzanti, alla base di apparecchiature come acceleratori lineari. Attualmente, la moderna radioterapia si esegue anche con particelle, quali protoni, neutroni e pioni. Negli ultimi 10-15 anni si è assistito, inoltre, allo svi- luppo della medicina nucleare, grazie allʼutilizzo di radioisotopi in oncologia. Lo sviluppo di questa branca della medicina allʼinterno di terapie oncologiche si è avuto grazie sia al potenziamento delle tecniche di utilizzo di nuovi radiofarmaci sia al nuovo impiego di alcuni di questi farmaci già noti in precedenza. Alcuni radiotraccianti hanno decisamente contribuito alle terapie oncologiche, quali traccianti di calcio e fosforo marcati con tecnezio, fluoroDOPA e microcolloidi marcati con tecnezio. Accanto alle terapie più tradizionali con radionuclidi, quali 131I, 32P e 89SR, sono stati utilizzati recentemente radiocomposti costituiti da molecole biologicamente attive (anticorpi monoclonali, peptidi, avidina-biotina), legate a radionuclidi specifici. Lʼevoluzione degli studi sperimentali ha permesso, quindi, la nascita di nuovi radionuclidi e nuovi vettori, con il conseguente sviluppo di radioimmunoterapia e radioterapia recettoriale. Lo studio del genoma umano ha portato a più approfondita conoscenza dei meccanismi biomolecolari di trasformazione neoplastica, individuando alcuni siti molecolari utili come bersaglio terapeutico. I bersagli molecolari più conosciuti sono a livello della cascata proliferativa e a livello dei meccanismi di riproduzione cellulare, quali recettori per fattori di crescita, proteine cellulari, fattori correlati ad angiogenesi e trasduzione del segnale, fattori legati allʼapoptosi. La scoperta di queste cosiddette “molecole intelligenti” ha dato origine a una terapia molecolare mirata, che agisce su processi di crescita, sopravvivenza, invasione e metastasi delle cellule tumorali e, non per ultimo, sul processo di neoangiogenesi. Tuttavia, il considerevole progresso ottenuto in ogni ambito delle terapie oncologiche ha incon219 PARTE SPECIALE PARTE SPECIALE si), mentre nel gatto tumori benigni e maligni occorrono più o meno con la stessa frequenza. In merito alla classificazione, esistono ancora molteplici difficoltà dʼinquadramento, essenzialmente secondarie ai continui aggiornamenti sia istopatologici sia terapeutici cui sono soggetti i tumori cutanei, che esitano in notevole confusione e divergenza di opinione tra clinici e patologi. La classificazione istopatologica WHO suddivide schematicamente i tumori cutanei in epiteliali, melanocitici, mesenchimali e inclassificabili (tabella I). Sono inoltre inclusi tumori metastatici alla cute, cisti, amartomi e lesioni pseudotumorali. La stadiazione secondo il metodo TNM per tumori epidermici e dermici è riportata nel capitolo 9, cui si rimanda. Figura 2 - Papilloma cutaneo in giovane cane. TUMORI DELLʼEPIDERMIDE Papilloma Introduzione Papillomavirus è un virus a DNA contagioso, che viene trasmesso per lo più tramite contatto diretto e che penetra nellʼorganismo attraverso lesioni presenti su cute o mucose, con periodo dʼincubazione di circa uno o due mesi. Papillomavirus sembrano implicati nellʼeziologia di certe forme di carcinoma squamocellulare in cane e gatto. Forme molto gravi e clinicamente inusuali sono state riportate in cani con immunodeficienza IgA oppure trattati con corticosteroidi o chemioterapici. È ipotizzabile che lʼimmunodepressione possa esacerbare unʼinfezione latente e far aumentare il tropismo virale ai vari tessuti. Quadro clinico Il papilloma cutaneo è raro nel gatto, mentre è molto comune nel cane, specie in cui esistono almeno cinque forme cliniche ascrivibili a vari papillomavirus, ognuno con caratteristiche specifiche anche da un punto di vista istologico: papillomatosi orale, papilloma cutaneo, papilloma cutaneo invertito, papilloma cutaneo papillare iperpigmentato multiplo e placche pigmentate multiple. Il papilloma cutaneo di origine virale è tipico di cani giovani e si presenta come nodulo singolo o noduli multipli biancastri, sessili o peduncolati (a cavolfio244 Figura 3 - Papilloma cutaneo in gatto. re), spesso sanguinanti e di dimensione variabile, per lo più localizzati su testa, palpebre e zampe (figura 2). Nei cani anziani non sembra invece che lʼorigine sia virale. I papillomi che si localizzano a livello delle zampe sono tendenzialmente duri e ipercheratosici e provocano dolore e zoppia, richiedendo il più delle volte escissione chirurgica. Il papilloma cutaneo invertito è poco comune e interessa animali giovani (8 mesi-3 anni di età), manifestandosi come lesione a coppa, con centro cheratinico che si apre in superficie tramite un poro centrale. Sono tipiche le localizzazioni addominali ventrali e inguinali. Diversi studi su ibridizzazione di DNA virale hanno evidenziato che il virus presente in tale variante è differente da quello classico. Lʼultima variante associata a papillomavirus è stata soprattutto riportata in cani giovani schnauzer nani e carlini (in cui è accertata trasmissione ereditaria di tipo autosomico recessivo) sotto forma di macule e macchie su ventre e piatto delle cosce. Tali lesioni sono inizialmente identiche a lentigo e nevi pigmentati, ma con lʼevolvere si for- capitolo 19 Tumori della cute Figura 7 - Carcinoma squamocellulare su planum nasale in gatto. Figura 8 - Carcinoma squamocellulare su padiglione auricolare in gatto. Figura 9 - Carcinoma squamocellulare su palpebre e padiglioni auricolari in gatto. Figura 10 - Carcinoma squamocellulare su labbra e guancia in gatto. Figura 11 - Cheratosi attinica su padiglione auricolare di gatto a mantello bianco. Figura 12 - Carcinoma squamocellulare auricolare in gatto a mantello bianco. La lesione è particolarmente estesa e deturpa lʼanimale. 247 capitolo 26 Tumori dellʼapparato respiratorio capitolo 26 TUMORI DELLʼAPPARATO RESPIRATORIO Laura Marconato, Federica Rossi, Giuliano Bettini, Ugo Bonfanti, Julia Buchholz POLIPI NASOFARINGEI I polipi nasofaringei sono classificati come masse non neoplastiche di natura infiammatoria. Essi si sviluppano prevalentemente in soggetti giovani (< 2 anni), sono piuttosto frequenti nel gatto, ma rari nel cane. I polipi originano dal canale uditivo medio (in questo caso possono perforare il timpano e protrudere attraverso il canale uditivo esterno) o dalla tuba di Eustachio (in questo caso possono occupare il nasofaringe). Lʼeziologia non è stata accertata, tuttavia si sospetta che siano ereditari o congeniti (per anomalie di archi branchiali) oppure che si sviluppino secondariamente a infezioni batteriche o virali. Sintomi classici sono raffreddore, respirazione rumorosa, alterazione fonetica, scolo nasale e otorrea (spesso purulenta); più raramente, si osservano disfagia, tosse, segni vestibolari (scuotimento di testa, nistagmo, perdita di equilibrio e atassia), alitosi ed epifora. Alla visita clinica, è possibile osservare una massa nella faringe caudale, a livello di palato duro, oppure nel canale uditivo esterno. Lʼiter diagnostico si snoda in esame otoscopico, radiografia o TC di cranio, radiografia del torace, per la frequente presenza di polmonite ab ingestis secondaria, ed eventualmente esami citologico e bioptico. Se il polipo è localizzato in rinofaringe, lʼesame radiografico del cranio, eseguito in proiezione laterale, mette in evidenza una lesione a radiopacità di tessuti molli che oblitera il passaggio nasofaringeo, normalmente occupato da aria. Se la sede è la bolla timpanica, proiezione sagittale o proiezioni speciali effettuate per studiare le bolle (proiezione rostrocaudale leggermente estesa o a bocca aperta) presenta quadro sovrapponibile a otite media, caratterizzato da aumento di radiopacità di bolla timpanica con variabile ispessimento di parete (figura 1 A). In questi casi, non è presente lisi ossea e ciò è criterio radiografico importante per distinguere queste situazioni dalla neoplasia della regione di orecchio medio. Lʼapprofondimento con TC è di aiuto prima della chirurgia per visualizzare meglio sede, dimensioni del polipo e dimostrare piccole lesioni non visibili radiologicamente (figura 1 B, C). Citologicamente, sʼidentifica popolazione infiammatoria mista, rappresentata da linfociti e plasmacellule e raramente da polimorfonucleati neutrofili e macrofagi, non raramente associata a elementi epiteliali mucosali iperplastici, displastici o con caratteri di metaplasia squamosa e a eventuale reattività fibroplasica (fibroblasti). Istologicamente, i polipi nasofaringei sono costituiti da asse fibrovascolare edematoso, ricoperto da epitelio respiratorio moderatamente iperplastico. Nellʼasse stromale è possibile rilevare infiltrato flogistico, stravasi emorragici con macrofagi carichi di emosiderina, cellule giganti multinucleate e fenomeni di metaplasia ossea. La terapia dʼelezione è chirurgica e prevede polipectomia, mediante trazione delicata attraverso cavo orale o canale uditivo esterno, anche per via endoscopica. La trazione si accompagna a recidiva in 50 per cento dei casi. Lʼosteotomia della bolla timpanica è indicata nei casi di polipi infiammatori ricorrenti, coinvolgimento della bolla stessa od otite. La percentuale di recidiva in questo caso è < 10 per cento. Il materiale accumulatosi allʼinterno della bolla deve essere inviato al laboratorio per coltura batteriologica e antibiogramma. La complicanza più comune è la sindrome di Horner transitoria, caratterizzata da miosi, ptosi e prolasso di terza palpebra, secondaria a danneggiamento del neurone postgangliare simpatico, localizzato vicino allʼorecchio medio. Il più delle volte 415 PARTE SPECIALE la sindrome di Horner si risolve entro un mese dalla chirurgia. TUMORI DEL PLANUM NASALE A B C Figura 1 - A) Proiezione radiografica dorsoventrale di gatto con polipo rinofaringeo nella bolla timpanica destra. La bolla è ingrandita e più radiopaca rispetto alla controlaterale. B, C) Esame TC dello stesso gatto. La scansione TC mette in evidenza presenza di fluido e tessuto allʼinterno della bolla (B) e piccola porzione del polipo, che si estende dalla tuba nella faringe (C) e che si presenta come lesione rotondeggiante ben delimitata con enhancement periferico (freccia). 416 I tumori del planum nasale sono piuttosto comuni nel gatto, ma rari nel cane. Il più frequente tumore che interessa questa zona è il carcinoma squamocellulare (SCC), la cui eziopatogenesi è da ricondurre a esposizione a raggi ultravioletti (soprattutto UV-B) e ad assenza di pigmento protettivo (figura 2 A). Altri tumori occasionalmente segnalati in questa sede sono linfoma, fibroma, fibrosarcoma, papilloma, emangioma, melanoma e mastocitoma. Lʼazione cancerogena dei raggi ultravioletti è dose-dipendente: pertanto, esposizioni croniche a radiazioni UV causano maggiore danno di una singola esposizione, tra cui mutazioni a carico di p53 (gene oncosoppressore). In presenza di danno a carico di DNA, p53 spinge le cellule in fase di arresto proliferativo (per consentire la riparazione del danno prima della successiva replicazione) o apoptosi (se il danno è irreparabile). Mutazioni dirette o alterazioni epigenetiche comportano perdita funzionale di p53, evento molto frequente nei tumori, sia di uomo sia di animali domestici. Nelle cellule con p53 mutato viene a mancare lʼinduzione apoptotica: pertanto, queste sono in grado di proliferare e di andare incontro a ulteriori mutazioni (progressione), responsabili in ultimo di eterogeneità neoplastica. Tipicamente, SCC evolve attraverso varie fasi nellʼarco di diversi mesi, riconoscibili sia clinicamente sia istologicamente come carcinoma in situ (erosioni superficiali), SCC superficiale e SCC infiltrante (ulcere profonde). La cheratosi attinica (o dermatite attinica) rappresenta la lesione precancerosa iniziale. Il comportamento biologico di SCC è aggressivo localmente, ma le metastasi regionali e a distanza sono evento raro, soprattutto alla diagnosi. Nel gatto, SCC interessa la superficie cornificata esterna del planum nasale (figura 2 B) e si accompagna spesso a lesioni concomitanti su padiglioni auricolari e palpebre (figura 3). I gatti a mantello bianco sono evidentemente predisposti. Nel cane, SCC può interessare il planum oppure la mucosa delle narici. capitolo 26 Tumori dellʼapparato respiratorio A B Figura 2 - A, B) Carcinoma squamocellulare del planum nasale in gatto. Figura 3 - Carcinoma squamocellulare felino. Concomitante interessamento di padiglioni auricolari e palpebre. Figura 4 - Esame citologico di carcinoma squamocellulare del planum nasale: cellule epiteliali poligonali, angolate, con nucleo centrale, talora nucleolato, ad ampio citoplasma, cheratinizzato; neutrofili non degenerati sparsi tra le cellule neoplastiche. Citologicamente, SCC si caratterizzano per la presenza di cellule angolate, ad ampio citoplasma omogeneo, cheratinizzato e con nucleo centrale (figura 4). Le cellule neoplastiche, a differenti gradi di maturazione, possono essere di piccole dimensioni, immature, cuboidali, nucleate e con scarso citoplasma intensamente basofilo, oppure cellule mature e di grosse dimensioni, con piccolo nucleo e citoplasma intensamente cheratinizzato a margini netti. Sono caratteristicamente evidenti fenomeni di maturazione asincrona tra nucleo e citoplasma, in cui il primo è centrale, voluminoso e immaturo, e il secondo ampio, vitreo, con la presenza talora di vacuoli. Si associa frequentemente intensa flogosi neutrofilica. Lʼesame istologico permette di differenziare tra cheratosi attinica e SCC e di valutare, in questʼultimo caso, grado di differenziazione e profondità dʼinfiltrazione. Nella cheratosi attinica si rileva iperplasia irregolare dellʼepidermide, con iper- paracheratosi, perdita di polarità dei cheratinociti in strati basale e spinoso e iperplasia papillare dello strato basale. Nelle zone interessate, i cheratinociti possono presentare moderato pleomorfismo, nucleoli prominenti e attività mitotica non limitata allo strato basale. La proliferazione è però contenuta dalla membrana basale, che appare intatta: il principale elemento che differenzia cheratosi attinica da SCC è, infatti, rappresentato, più che da atipie cellulari, da invasione del derma. Gli aspetti istologici di SCC del planum nasale sono simili a quelli riscontrabili in altri distretti cutanei. Lʼistotipo più comune è SCC ben differenziato, caratterizzato da isole e cordoni di cellule epiteliali squamose atipiche, che tendono a cheratinizzazione nella par417 PARTE SPECIALE La terapia dʼelezione è chirurgica e prevede exeresi della massa. È importante ricordare che è possibile asportare fino a 50 per cento della trachea. Radioterapia e chemioterapia sono efficaci in caso di linfoma o plasmacitoma. In ogni caso è indicata la terapia medica di supporto con corticosteroidi e aminofillina. La prognosi è riservata, soprattutto se il tumore si estende allʼavventizia. TUMORI PRIMITIVI DEL POLMONE Introduzione Contrariamente allʼuomo, in cui i tumori polmonari primitivi (soprattutto maligni) sono molto frequenti nei Paesi occidentali e le cui incidenza e mortalità sono in costante aumento, questi sono rari negli animali domestici, con prevalenza di 0,1-0,9 per cento. Sono invece frequenti i tumori polmonari metastatici (ripetizione a distanza di neoplasie insorte in altri organi); tuttavia, la distinzione tra lesione primitiva e metastatica è talvolta critica non solo da un punto di vista macroscopico, ma anche microscopico e la diagnosi di neoplasia polmonare primitiva può a volte solo seguire lʼesclusione di un tumore in altra sede che abbia metastatizzato al polmone. Fattore causale principale nellʼuomo è lʼesposizione prolungata (anche passiva) al fumo di sigaretta, seguita da esposizione ad alcune sostanze chimiche e minerali (asbesto, smog e inquinamento atmosferico, radon, uranio, cromo e nichel), nonché a radiazioni. Ancora, non sono da sottovalutare alcune malattie irritative croniche, che possono favorire lʼinsorgenza secondaria di tumore polmonare, come, per esempio, bronchiti croniche, bronchiectasie e tubercolosi. Negli animali domestici lʼevento causa-effetto non è così chiaro. Sebbene i cani possano fungere da sentinelle ambientali per alcune sostanze pericolose, come esposizione a fumo passivo, asbesto, insetticidi e vernici, non è stato dimostrato in questa specie aumento di prevalenza di tumori polmonari. Sono state ipotizzate cause chimiche (esposizione a nitrosamine e idrocarburi policiclici aromatici) e genetiche (mutazioni a carico di oncogeni e alterazioni cromosomiche). Recentemente, è stata descritta nel cane lʼassociazione tra antracosi dovuta a inalazione di smog e tumori polmonari maligni. 436 Analogamente allʼuomo, anche gli animali domestici che sviluppano neoplasie polmonari tendono a essere adulti o anziani, probabilmente per riduzione senile della capacità di riparazione di DNA. Non è invece stata confermata alcuna predisposizione né di razza né di sesso. Patologia molecolare di neoplasie polmonari primitive Il fenomeno cancerogeno a livello polmonare non deriva da un improvviso evento di trasformazione maligna (ex abrupto), bensì trae origine da un processo a stadi multipli, caratterizzato dallʼaccumulo di successive alterazioni genetiche ed epigenetiche (alterazioni di metilazione di DNA), che comportano il passaggio da forme inizialmente iperplastiche a forme displastiche e, infine, a forme neoplastiche con capacità invasiva e metastatica. In breve, a seguito di mutazioni geniche, si crea instabilità genomica caratterizzata da continue e ripetute mutazioni a carico di geni regolatori, tra cui delezioni (perdita di eterozigosi), riarrangiamenti, mutazioni puntiformi, errori in splicing e amplificazioni geniche. Recentemente, è emersa lʼimportanza dellʼalterazione di espressione e funzione di telomerasi, enzima che sintetizza tratti ripetuti alle estremità cromosomiche (telomeri), rendendo la cellula immortale. Lo spettro di queste lesioni si sussegue nel tempo, secondo la teoria sequenziale delle alterazioni progressive morfologiche e molecolari. Non è chiaro se le forme iperplastiche e displastiche lievi abbiano necessariamente potenzialità evolutiva maligna; al contrario, forme displastiche gravi e carcinomi in situ devono a tutti gli effetti essere considerati come lesioni preneoplastiche, dal momento che sono in grado di innescare lʼautonomia di crescita, che è caratteristica propria di cellule neoplastiche. Le moderne tecnologie atte ad analizzare geni e loro prodotti hanno aperto nuove frontiere dʼindagine, che forniranno utili elementi per emettere diagnosi più precoce, dare giudizi prognostici più accurati e orientare meglio il trattamento farmacologico, questʼultimo finalizzato a garantire massima efficacia e minimizzare rischio di tossicità. Sebbene siano stati fatti importanti progressi nello studio di alterazioni genetico-molecolari a carico di oncogeni e oncosoppressori, in medicina umana, e ancora di più in medicina veterinaria, le applicazioni di biologia molecolare a diagnostica e terapia di tumori polmonari sono ancora limitate. capitolo 26 Tumori dellʼapparato respiratorio Patologia di neoplasie polmonari primitive Classificazione e istotipi La più recente (1999) classificazione dei tumori polmonari stabilita da WHO pone non poche difficoltà obiettive ed è ancora lontana da svelare e descrivere la complessità biologica di tumori polmonari. Si tratta di una classificazione per lo più morfologica, il cui principale vantaggio consiste nella possibilità di applicazione su larga scala. I tumori polmonari possono originare da qualsiasi componente del polmone; tuttavia, la maggior parte di essi è di origine epiteliale e prende origine da bronchioli o alveoli. Più rari, invece, i tumori di derivazione mesenchimale, sia benigni sia maligni, e i tumori che originano dal tessuto linfatico normalmente presente nel polmone. I tumori polmonari sono classificati in base a sede dʼinsorgenza (broncogenica, ghiandole bronchiali o bronchioloalveolare) o ad aspetti istologici (adenoide, squamoso, a grandi cellule, a piccole cellule). I tumori a insorgenza bronchioloalveolare sono periferici (figura 36) e prendono origine da cellule di Clara (bronchiolari) e pneumociti di tipo II (alveolari); i tumori a insorgenza centrale (ilare) derivano invece da epitelio bronchiale o ghiandole bronchiali (figura 37). I tumori bronchioloalveolari possono essere solitari o multicentrici, quelli ilari sono più spesso solitari. Nellʼuomo e nel gatto sono più comuni i tumori centrali, mentre nel cane sono più comuni quelli a insorgenza periferica. La distinzione in tumori a piccole cellule (di natura neuroendocrina) e non a piccole cellule, adottata in medicina umana, non è di fatto attuabile nel cane e nel gatto, a fronte di scarsa rappresentazione di tale suddivisione. È inoltre ampiamente dibattuta lʼorigine cellulare dei diversi istotipi. Esiste, tuttavia, evidenza che i tumori polmonari originino da una cellula precursore comune, capace di differenziarsi in vari istotipi. Pertanto, la classificazione attuale dei tumori polmonari si basa più che altro su criteri istologici morfologici anziché istogenetici (tabella VI) e rappresenta lʼestrema semplificazione di una realtà, che è invece ben più articolata e complessa. I tumori polmonari benigni sono molto rari nel cane e nel gatto; la maggior parte è maligna e di origine epiteliale. Figura 36 - Rappresentazione schematica di tumore a origine periferica. Figura 37 - Rappresentazione schematica di tumore a origine centrale. Il carcinoma bronchioloalveolare è caratterizzato da crescita neoplastica lungo le pareti alveolari (classificazione in base a sede dʼinsorgenza). È molto frequente nel cane (85 per cento di tutti i tumori polmonari primitivi) e tende a svilupparsi perifericamente, nel parenchima polmonare, e in particolare nei lobi caudali del polmone destro. Si tratta di un tumore aggressivo, con moderato potenziale metastatico per via sia aerogena sia linfatica, che può presentarsi in forma multifocale (stesso lobo) o multicentrica (diversi lobi omolaterali o polmone controlaterale; 39 per cento dei casi), realizzando la cosiddetta cancerizzazione di campo. Non è chiaro se la multicentricità sia espressione di precoce metastatizzazione intrapolmonare o di reale crescita di foci neoplastici indipendenti; tuttavia, ciò non è di fatto importante ai fini della stadiazione TNM, dal 437 capitolo 26 Tumori dellʼapparato respiratorio CENNI DI ONCOLOGIA COMPARATA Dino Amadori, Andrea Casadei Gardini Tumori di seni nasali e paranasali I tumori maligni di cavità nasali e seni paranasali nellʼuomo sono piuttosto rari (0,5-1 per cento di tutti i tumori maligni), con incidenza in Italia di 11 casi ogni 100.000 abitanti. Sono più frequenti in Africa meridionale ed Estremo oriente, rispetto ai Paesi occidentali. Il seno mascellare rappresenta la sede con incidenza maggiore, seguita da cavità nasali e seno etmoidale. Questi tumori sono più frequenti nellʼuomo rispetto alla donna (rapporto 2:1). Eziologia È stata dimostrata correlazione tra queste neoplasie e lavorazione di nichel, acido isopropilico, cromo, legno e cuoio. Queste neoplasie tendono ad avere crescita locale, di tipo erosivo, con sintomi per lo più legati a questo tipo di comportamento. Solo tardivamente danno metastasi, inizialmente linfonodali e poi per via ematica ad altri organi (in particolare, carcinoma adenoidocistico e sarcomi). Dolore e dolorabilità sono i sintomi iniziali, in particolare in neoplasie dei seni. Le neoplasie di questa parte anatomica possono dare precocemente disfonia (fisiologicamente, i seni, in particolare quello mascellare, hanno funzione di risonanza dei fenomeni di fonazione). Lʼepistassi può essere il primo sintomo di neoplasia delle cavità nasali. I sintomi tardivi sono sempre dovuti allo sconfinamento del tumore in zone anatomiche contigue, con conseguenti esoftalmo, diplopia, strabismo, trisma (infiltrazione di muscolatura pterigoidea), parestesie o ipoanestesia, dovuta allʼinteressamento dei nervi sensitivi, e perdita dei denti. Istopatologia Diagnosi Il carcinoma squamocellulare è la variante più frequente a insorgenza nel seno mascellare; a seguire, neoplasie a origine ghiandolare (adenocarcinomi, carcinomi adenoidocistici e carcinomi mucoepidermoidi) e sarcomi; più rari linfomi e melanomi. A livello etmoidale, è prevalente lʼadenocarcinoma, in particolare in Europa, mentre nelle casistiche americane prevalgono i carcinomi di tipo spinocellulare. Una possibile spiegazione di tale differenza riguarda lʼutilizzo maggiore di mezzi di protezione individuali nei lavoratori americani rispetto a quelli europei (lʼadenocarcinoma etmoidale presenta come fattore di rischio la lavorazione di legno e cuoio). Quadro clinico La sintomatologia varia secondo la sede anatomica in cui si sviluppa la neoplasia; inoltre, i sintomi sono spesso modesti e aspecifici, molto simili a quelli dei più comuni processi flogistici cronici, di cui questi pazienti spesso sono affetti. I sintomi generalmente sono più precoci nelle neoplasie delle cavità nasali rispetto a quelle dei seni paranasali. La rinoscopia è il gold standard per poter rilevare le neoplasie vegetanti nasoetmoidali. TC o RM è esame dʼelezione per la diagnosi di neoplasie dei seni mascellari. Le indagini devono essere eseguite con mdc e in proiezioni sia assiali sia coronali, in modo da rilevare lʼerosione dellʼosso limitrofo. La biopsia è fondamentale per giungere a diagnosi certa e per impostare il trattamento più idoneo. Terapia Escludendo linfomi, melanomi e carcinomi scarsamente differenziati, per tutte le altre forme istologiche le metastasi linfonodali sono piuttosto rare, per cui lʼapproccio terapeutico deve mirare alla radicabilità locale per impedire le recidive. Con le attuali tecniche chirurgiche, ormai consolidate da tempo, si ottengono ottimi risultati sia in termini di radicabilità sia per quanto riguarda lʼaspetto estetico. La radioterapia non è di facile realizzazione in un distretto così ricco di strutture nobili (cavità orbi451 PARTE SPECIALE taria ed encefalo, in particolare) e richiede spesso lʼutilizzo di tecniche conformazionali. La chemioterapia può essere utilizzata sia a livello locale (nellʼesperienza olandese dopo chirurgia è utilizzato fluorouracile a livello topico), sia per via sistemica. Il suo utilizzo principale è in forme non trattabili con altre tecniche o recidive non asportabili e in presenza di metastasi a distanza. Nella maggior parte dei casi, lʼapproccio terapeutico è multidisciplinare (oncologo, radioterapista, chirurgo). cali nelle forme sovraglottiche. Le metastasi linfonodali sono frequenti anche nelle forme sottoglottiche e per lo più interessano i linfonodi delle vie linfatiche della catena ricorrenziale. Diagnosi La diagnosi si basa su laringoscopia diretta con fibre ottiche flessibili, che permette di eseguire una biopsia, e su laringoscopia diretta in sospensione, che consente anche di eseguire piccoli interventi chirurgici. Lʼinteressamento linfonodale è valutato principalmente tramite RM. Prognosi Terapia Complessivamente la sopravvivenza a 5 anni è di 30-40 per cento; i migliori risultati si hanno nelle forme più precoci (T1-T2), in cui si raggiunge sopravvivenza a 5 anni di 60 per cento. Tumori della laringe Rappresentano 4,5 per cento di tutti i tumori maligni. Sono prevalenti nel sesso maschile rispetto a quello femminile; in alcune aree il rapporto è anche di 20:1. Eziologia È un tumore estremamente fumo-correlato, ma anche le forme infiammatorie (per esempio, leucoplachia) possono essere considerate fattori predisponenti. Istopatologia Le forme spinocellulari sono le più rappresentate; molto rare sono altre forme istologiche. Quadro clinico Il sintomo principale di questa forma tumorale è la disfonia, in particolare nelle localizzazioni cordali e sottoglottiche. Nelle forme sovraglottiche non raramente si possono avere odinofagia e disfagia, come primi sintomi. La storia naturale, e in particolare lʼeventuale coinvolgimento linfonodale, varia a seconda della localizzazione. Le metastasi linfonodali sono rare, in caso di localizzazione cordale, a causa della scarsa presenza di drenaggio linfatico, mentre sono frequenti le metastasi linfonodali bilaterali laterocervi452 Finalità principali del trattamento sono sopravvivenza del paziente e mantenimento della voce e del riflesso di deglutizione. Per raggiungere tale scopo, spesso prima di chirurgia si esegue chemio- radioterapia a scopo neoadiuvante. Prognosi Complessivamente la sopravvivenza a 5 anni è di 50-75 per cento. Tumori del polmone Il carcinoma del polmone costituisce 12,8 per cento di tutti i tumori e rappresenta la prima causa di morte per cancro. Nonostante lʼesteso programma di ricerca, i risultati terapeutici ottenuti sono scarsi. La percentuale di sopravvivenza a 5 anni è complessivamente di 15 per cento. Lʼinnegabile progresso dei mezzi diagnostici non ha sostanzialmente modificato la storia naturale di questa malattia: infatti, in due terzi dei casi si ha già interessamento locoregionale o a distanza al momento della diagnosi. Eziologia Il fumo di sigaretta è la principale causa di carcinoma polmonare. Nei fumatori il rischio è aumentato di 30 volte rispetto ai non fumatori. Studi epidemiologici hanno evidenziato che il rischio è in rapporto con la dose cumulativa di sigarette fumate. Altre sostanze coadiuvanti per lo sviluppo di carcinoma del polmone sono asbesto (in soggetti contemporaneamente esposti ad asbesto e fumo di