Volume II - Scuola di musicoterapia Padova

A cura di
ESPERIENZE IN MUSICOTERAPIA
- Vol. II
Giovanna Ferrari
Luca Xodo
Volume II
Con i contributi di
M. Degli Stefani, R. Ziglio, S. Rosa Gastaldo, P. Rocchia,
M. Bonato, E. Paludet, S. Gonzo, D. Altavilla
Editrice IL TORCHIO
Padova
©
Copyright 2004
Associazione Scuola di Musicoterapia
“Giovanni Ferrari”
In copertina:
“Sistema della divisione del tono secondo i teorici”
Zaccaria Tevo “Il Musico Testore”
ed. A. Bortoli – Venezia, 1706
PREMESSA
Nella discussione tra musica e terapia è presente una continua riflessione sulle
metodologie e sulle diverse articolazioni teoriche. Questo secondo volume
Esperienze in musicoterapia della collana Musicaoltre offre alcuni scritti provenienti
dall’approfondimento di temi che caratterizzano l’attività dei musicoterapeuti.
I concetti di dialogo e ascolto diventano così, il punto di partenza per un
approfondimento sulla comunicazione con sé e gli altri attraverso l’espressione
sonora.
La pratica dell’ osservazione in musicoterapia, viene arricchita da una serie di
parametri per cogliere la realtà in tutte le sue sfaccettature e nel suo continuo
divenire. Si pone particolare attenzione al confronto e alla valutazione dei
cambiamenti osservabili nelle diverse sessioni di musicoterapia mettendo a fuoco i
principali indicatori rintracciabili nei modelli di musicoterapia maggiormente diffusi.
In un capitolo successivo vengono esplorati gli aspetti medico riabilitativi
inerenti alla sordità, indagando le tecniche e le metodologie utilizzabili in
musicoterapia in un ottica di supporto alla relazione con il soggetto ipoacustico
superando la logica di un semplice allenamento acustico. Alla luce di questi
presupposti viene descritta come avventura sonora l’esperienza in cui vengono messi
in primo piano i vissuti emozionali e vibrazionali in situazioni dove l’aspetto
dell’ascolto corporeo in musica diventa essenziale.
Un argomento che spesso viene messo al centro della discussione in ambito
formativo riguarda le caratteristiche del musicista e del musicoterapeuta. In questa
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direzione i requisiti indispensabili alla formazione musicale sono rintracciabili nei
prerequisiti dell’attività in musicoterapia. Così, ad esempio, il concetto di ascolto in
musica diventa empatia in musicoterapia.
Infine nel rapporto musicoterapia e etnomusicologia viene sottolineato come
quest’ultima disciplina si sia occupata per prima del problema dell’osservazione,
della raccolta e dell’ analisi dei dati e di aver studiato in modo sistematico la
multifunzionalità dell’attività sonora con particolare attenzione ai sistemi
d’interazione nelle diverse culture musicali.
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ASCOLTO DIALOGO E MUSICOTERAPIA
Alle origini della vita
di Silvia Rosa Gastaldo
INTRODUZIONE
Dialogo e Ascolto hanno un ruolo fondamentale nella crescita della persona, infatti,
permettono non solo l’apertura all’altro ma sono le chiavi di accesso al proprio essere
persona; la loro mancanza provoca l’incomunicabilità, la chiusura totale verso se
stessi e verso l’altro.
Dialogo e ascolto sono due facce di una stessa medaglia in continuo divenire tra loro,
legati al divenire della persona, alla comunicazione e alla relazione con se stessi e
con gli altri.
Negli scritti di Tomatis è centrale il tema dell’ascolto, fin dalla Notte uterina
[Tomatis 1996] l’uomo deve vivere una profonda esperienza di ascolto per sviluppare
una personalità equilibrata e armonica ed essere in grado di relazionasi e comunicare.
Tutto è vibrazione” [Tomatis 1998] l’uomo è vibrazione, risonanza e armonia e nel
suo cammino sulla terra ricerca questa vibrazione, questa risonanza e questa armonia.
La Psicofonia di A. M. Aucher approfondisce ulteriormente questo argomento
aiutando la persona a incarnare il proprio suono attraverso l’uso della voce, grazie a
questo approccio musicoterapico il corpo canta e sperimenta la capacità di risuonare e
con-suonare. Un ambito specifico della Psicofonia accompagna le gestanti e le loro
famiglie durante la gravidanza grazie al Canto prenatale e al Canto Familiare, per
dare avvio alla comunicazione, al desiderio di entrare in dialogo e al bisogno di
ascolto già durante la vita uterina; vita che diviene come Alba dei Sensi.
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In questo lavoro si è voluto evidenziare come la musicoterapia vada alle origini del
dialogo e dell’ascolto gia nella vita prenatale aiutando la persona a cogliere e vivere il
proprio essere suono e a rendere quest’ultimo un suono armonico.
IL DIALOGO
Nell’enciclopedia generale viene data la seguente definizione del termine “dialogo”:
“…nella filosofia antica, trattato tendente alla ricerca della verità mediante
l'esposizione di concetti spesso opposti. Nacque con Platone, i cui Dialoghi
riproducono l'insegnamento socratico...“ Nel vocabolario si trova: …discorso,
conversazione tra due o più persone; parte di opera letteraria, teatrale, ecc. in cui la
narrazione si svolge in forma dialogata…; serie di contatti tra Stati, partiti,
movimenti avversi, atti a favorire un processo di avvicinamento e di possibile
collaborazione; nel linguaggio musicale, componimento concertante per due o più
strumenti...”
Le definizioni sopra riportate sottolineano alcuni aspetti fondamentali del dialogo: il
dialogo è creazione, è libertà dell’essere, è un processo di armonizzazione della
persona, che dialoga con se stessa e con la sua natura più profonda per essere il grado
di avvicinarsi all’altro.
La ricerca della verità e la creazione di uno spazio di collaborazione e di accoglienza
permettono lo sviluppo armonico della persona con se stessa e all’interno della
società, si collocano quindi alla base di ogni processo educativo e terapeutico.
Il tema del dialogo è stato approfondito da filosofi teologi e pedagogisti; vorrei
riportare una frase di Paolo Freire che nel testo La pedagogia degli oppressi scrive: “
il dialogo è sempre un atto di coraggio e mai di paura, è un incontro di uomini, è un
atto di creazione e non un morboso strumento di conquista dell’altro”.
Per costruire la pace è necessario educare al dialogo, ma questo dipende, come
evidenzia F. Larocca in Dialogo Creativo, [FRANCO LAROCCA, 1992, pag 97 ] dal
modo con cui ciascuno vede se stesso, gli altri uomini e il mondo. Dialogo con se
stessi non vuol dire monologo, ma bisogno di conoscersi, capirsi e amarsi e questo ci
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apre alla conoscenza e all’amore dell’altro. E’ un riconoscersi Valore per riconoscere
nell’altro un Valore1.
E’ compito quindi di chi si occupa della persona e progetta modelli di intervento
educativo e terapeutico, riuscire a dare un posto primario alla cultura del dialogo e
dell’ascolto per far crescere e maturare individui in grado di dialogare e ascoltare se
stessi e l’altro.
Nella relazione con l’altro il dialogo presuppone il desiderio di confrontare
i
rispettivi pensieri, le rispettive verità. Il dialogo inizia quando il mio logos e il tuo
logos hanno un motivo per informarsi reciprocamente su ciò che si ha in comune e su
ciò che vi è di diverso [FRANCO LAROCCA, 1992, pag 104 ].Si è così in grado di
trasformare un semplice dialogo in dialogo creativo nel quale gli interlocutori sanno
che dalla relazione con l’altro ne usciranno arricchiti.
Secondo Calogero l’uomo ha in se la volontà di dialogo, ma questa volontà di
dialogare deve venire educata perché si trasformi in autentico incontro con l’altro e
con la propria natura umana. Questa’ultima grazie al dialogo si umanizza, dando
spazi di realizzazione impensati.
Infine le parole di Jean Lacroix sintetizzano splendidamente il mio pensiero e ogni
volta che le leggo mi danno nuovi spunti per riflettere…anche questo è dialogo:
”Ogni attività umana autentica è dialogo: dialogo con il mondo che è poesia, dialogo
con gli altri che è amore, dialogo con Dio che è preghiera. La tentazione propria del
pensiero è il monologo: basta murarsi nel proprio sistema e rifiutare l’altro per
annientare se stessi. Il vero pensiero al contrario è dialogo: è, come dice Platone, il
dialogo dell’anima con se stessa.
E l’anima non può dialogare con se stessa se essa non ha saputo accogliere l’altro, se
l’altro non è già in essa. Nulla di più raro oggi: il mondo moderno è pieno di
individui monologanti che, senza mai accogliere l’altro, si oppongono e si urtano.
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Mi riferisco alla pedagogia personalista dalla quale è stata elaborata la Teoria Semantica della
Persona (in seguito TSP) . Nella TSP viene evidenziata la centralità della dignità della persona:
ogni nostra scelta morale va orientata e definita da specifici obblighi che ogni uomo sente verso gli
altri.
Parliamo di semantica perché la TSP si riferisce ad una realtà, che è quella educativa e terapautica,
che richiede una logica di natura modale e deontica, ordinata cioè al dover essere della persona.
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L’ASCOLTO
E’ importante fare una chiara distinzione tra l’udito e l’ascolto, per comprendere
come quest’ultima funzione richieda un’attivazione totale della persona.
Nell’Enciclopedia Generale Mondadori l’udito viene definito come il “Senso con cui
vengono percepiti suoni e rumori…” nel vocabolario di Sapere.it si trova “…quello
dei cinque sensi che risiede nell'organo dell'orecchio e che permette di percepire i
suoni.”
Tomatis afferma che l’ascolto “rientra nel campo della percezione, intesa come
risultato di una rielaborazione intenzionale del dato sensoriale attraverso l’attenzione
selettiva” [A. Tomatis 2001].Perché l’uomo sia in grado di ascoltare e dialogare, è
necessario presupporre l’esistenza di un sistema di ricezione adattato alla meccanica
vibratoria; inoltre sarà necessario un sistema che raccoglie e diffonde le informazioni
ricevute: questi non è altro che il sistema nervoso con le sue diverse vie afferenti ed
efferenti. Quest’ultima affermazione è molto importante perché da ragione del fatto
che ogni musica agisce su una parte specifica del corpo e che il linguaggio viene
realmente ”incorporato”.
Ciò che l’uomo percepisce è il suono, l’aria stessa è un bagno sonico che si
differenzia acusticamente quando riceve dell’energia in grado di aumentare quel
movimento molecolare sempre presente nella materia. L’uomo vive immerso in una
quantità infinita di stimoli di ogni tipo, grazie a questi stimoli la sua corteccia
celebrale si “ricarica” e riceve energia. Il bagno sonico e le diverse frequenze che il
corpo umano riceve sono alla base della ricarica corticale e del desiderio di entrare in
comunicazione e relazione con il mondo sia esterno che interiore.
Ascoltare allora significa “prestare tutto il campo cosciente all’orecchio, è tendere
l’orecchio all’informazione”, [A. Tomatis 2001]. aggiungerei: tendere tutto il nostro
corpo verso la relazione e la comunicazione. In questo processo dobbiamo cogliere
l’uomo nella sua globalità; perché grazie all’attivazione unitaria della sensibilità, e
quindi di un utilizzo corretto della percezione, che l’uomo riesce a comunicare: il
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tatto, l’udito, il gusto, l’olfatto e la vista sono in stretto collegamento tra di loro,
rivelandosi degli eccezionali strumenti di comunicazione.
"In effetti, per chi sa aumentare il suo potere di analisi, viene annotata un'enorme
quantità di piccoli movimenti che indicano facilmente la vita stessa, che non è altro
che vibrazione. L'uomo dovrebbe avere come meta di sentir vivere il suo ultimo
atomo, di partecipare con lui l'istante presente, di apprezzare la risonanza, di
conoscerne il movimento, di percepirne la pulsazione" [A. Tomatis 2001]. Anche il
silenzio è vibrazione sottostante ed è vivo per chi sa udirlo.
Martin Buber ha detto che nell’ascolto autentico, “l’uomo è capace di spingersi sin
dove l’udire si unisce all’essere”. Quindi l’ascolto non sarà più confuso con l’udito
perché diviene la facoltà che permette di realizzare la persona stessa e soprattutto la
“persona dialogante”.
L’uomo nel suo sviluppo deve tendere a questa facoltà per non lasciarsi trascinare
dallo scorrere del tempo, senza prendere possesso della propria vita e del proprio
progetto storico: sentire in sé lo scorrere della vita, che si anima e si arricchisce
grazie alle esperienze e alle relazioni con il mondo esterno; se l’uomo si sviluppa
grazie all’interazione con l’altro da se, l’ascolto, la relazione e la comunicazione sono
investiti di un’energia costruttiva sia per il soggetto stesso che per il mondo esterno.
L’ascolto umano è il punto di confluenza e di congiunzione tra corpo e coscienza.
Paragonando l’uomo ad uno strumento musicale possiamo dire che la coscienza ci
aiuta a percepire ogni parte risuonante di se stessi; porta a creare una personale
composizione, in risonanza con l’ambiente. L’esercizio che dobbiamo costantemente
portare avanti è quello di saper rimanere in armonia con noi stessi: essere in grado di
“accordarci”.
L'uomo non è solo un ricevente, ma anche un’emittente; è un essere nato per
comunicare e relazionarsi con il mondo, per vibrare ed entrare in risonanza. Dal
momento in cui si apre all’ascolto e scopre questa sua natura, riesce a vivere
l’esistenza come una splendida avventura, sai arricchisce grazie alla relazione con
l’ambiente esterno.
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DIALOGO, ASCOLTO E SILENZIO
Non possiamo parlare di dialogo e ascolto senza affrontare l’argomento del silenzio.
Soprattutto perché in questo periodo storico il tempo dedicato al silenzio si è ridotto
notevolmente; la frenesia delle attività quotidiane, il bisogno di fare e produrre ci
immergono in un mondo di rumori e in un bagno di folla.
Raimund Panikkar mette in evidenza come anche l’architettura contemporanea
costringe l’uomo alla folla (pensiamo alle metropoli e alla distribuzione di case e
uffici nei grandi palazzi).
La valorizzazione del silenzio e una riflessione sui diversi tipi di silenzio possono
aiutarci ad approfondire il tema dell’educazione al dialogo e all’ascolto.
Possiamo considerare il silenzio il momento aurorale dell’ascolto e del dialogo?
La musica è in grado di educare al silenzio e a trasformandolo in un momento
privilegiato di ascolto e dialogo?
Vorrei riportare una riflessione di Max Picard “Nessuno presta più ascolto a colui
che parla- ascoltare è soltanto possibile se nell’uomo c’è silenzio, giacché ascoltare
e tacere sono correlativi- ciascuno aspetta soltanto di scaricarsi delle parole che ha
ammucchiate, di buttarle fuori dalla bocca: è una semplice funzione animale.”
Le parole senza silenzio escono disordiniate: infatti senza silenzio non c’è spazio per
organizzare il pensiero, manca la comprensione e la coscienza; anche la musica senza
pause è un ammucchiarsi disordinato di note.
Alfred De Musset dice che “la bocca custodisce il silenzio per ascoltare il cuore che
parla”. Se la parola e la musica nascono dal silenzio acquistano lo spessore autentico
e portano in se un significato profondo.
Il silenzio di chi ascolta incide sul dialogo poiché la comunicazione di chi si sente
ascoltato è più ricca e attenta, si permette all’altro di fare silenzio e di prendere
coscienza delle caratteristiche del proprio comunicare. Il silenzio quindi veicola il
significato analogico del dialogo tra gli interlocutori ed è in grado di favorire la
metacomunicazione.
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Ma dobbiamo operare una necessaria distinzione tra vari tipi di silenzio, infatti vi
sono silenzi che annullano l’ascolto e producono ansia. Vi sono silenzi di apertura e
accoglienza, ma anche silenzi di chiusura, silenzi nei quali si vuole negare l’altro.
Il silenzio riflette un gran numero di stati psichici e sentimenti, dalla comprensione, al
disprezzo, dall’ascolto alla sordità, come afferma Merleau-Ponty “l’iniziare un
dialogo equivale a trasformare una certa specie di silenzio in discorso”.
Tra i pedagogisti che hanno affrontato il tema del silenzio vi è in particolare la
Montessori, che come abbiamo già potuto osservare è colei che ha saputo dare uno
spazio di ascolto non solo al bambino ma anche alla donna in gravidanza; nel libro La
scoperta del bambino afferma “Il silenzio nelle scuole comuni, vuol dire cessazione
del chiasso, l’arresto di una reazione, la negazione di una scompostezza e del
disordine. Mentre il silenzio può intendersi
in modo positivo come uno stato
superiore al normale ordine delle cose. Come una inibizione istantanea che costa
uno sforzo, una tensione della volontà e che distacca dai rumori della vita comuni,
quasi isolando l’anima dalle voci esteriori”.
La Montessori evidenzia come educando al silenzio i bambini scoprano che ci sono
rumori che non si avvertono, aumenta la loro attenzione e coscienza per il mondo
circostante. L’attenzione viene portata al corpo e alla coscienza.
ASCOLTO E DIALOGO ALLE ORIGINI DELLA VITA
Quali sono le radici del dialogo e dell’ascolto?
Numerose ricerche mettono in luce come le radici del dialogo e dell’ascolto vadano
ricercate nella vita intrauterina.
Grazie allo sviluppo dei sistemi di registrazione delle condizioni fetali come
l’ecografia, della fetoscopia e della cardiotografia si è potuto studiare il sistema
sensoriale del nascituro, le sue competenze (involontarie e volontarie) e le risposte a
stimolazioni intra ed extrauterine, arrivando ad affermare che il feto possiede delle
capacità ben precise e riesce a vivere esperienze di ascolto e di dialogo. Negli ultimi
trent’anni lo studio della vita fetale ha evidenziato come questi nove mesi rivestano
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un ruolo fondamentale nello sviluppo della personalità del nascituro [PIER LUIGI
RIGHETTI LAURA SETTE,
2000, PAG 103].
La vita intrauterina è un periodo in cui il feto entra prima di tutto in relazione con la
madre e poi con il mondo esterno; non si tratta di un essere passivo, ma di un
soggetto in grado di elaborare tutto quello che percepisce e di dare delle risposte.
La Bertolino (1992) dice che “il feto è in grado di compiere un’esplorazione
dell’ambiente che lo circonda e integra le esperienze così fatte grazie a quelle che
Mancia definisce costanti ontogenetiche, ossia quelle funzioni motorie, sensoriali e
integrative che nel feto umano costituiscono i segni più sicuri e osservabili del
processo di maturazione…”
Il bambino si forma dunque in un mondo di ritmo, suono e movimento; la musica va
a toccare le nostre origini fin dalla peristalsi tubarica. Anche la coda dello
spermatozoo si muove e genera suono, quando si incontra con la cellula uovo, si
fonde e da inizio alla duplicazione cellulare secondo un ritmo ben preciso da 2 a 4,
poi 8, 16, 32, fino alla formazione completa della morula che successivamente si
impianterà nella cavità uterina; a livello sonoro questo è un momento
importantissimo, perché nel processo di annidamento si forma il liquido amniotico in
grado di propagare il suono con un intensità tre volte maggiore, inoltre nel liquido
amniotico vengono esaltati i suoni gravi a discapito di quelli acuti. Il liquido
amniotico fa da amplificatore delle onde sonore del corpo materno, e circonda
l'embrione che cresce all’interno del sacco amniotico.
Se pensiamo che la formazione del sistema nervoso inizia dopo l’annidamento, le
stimolazioni uterine vengono ad avere una radicale importanza per la vita.
La stimolazione sonora è totalizzante, colpisce ogni parte del corpo del bambino fin
dal concepimento, e influenza come fattore esterno lo sviluppo del programma
genetico, poiché è innata la capacità del sistema nervoso di strutturarsi, ma si è visto
che l’ambiente in cui il bambino vive è capace di strutturarlo diversamente. Elementi
importanti per il mondo sonoro del nascituro sono le caratteristiche uterine, lo
sviluppo della funzione uditiva e delle strutture che presiedono all'ascolto, la
percezione, le reazioni motorie e il comportamento stesso del bambino.
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I primi sistemi sensoriali a svilupparsi sono legati alla percezione fisica del suono,
quindi il sistema tattile, somestesico, propriocettivo e vestibolare che caratterizzano
la prima pulsione alla vita di questa nuova creatura.
Il vestibolo ha le seguenti funzioni:è un cervello primitivo; è un organo di relazione
spaziale per l’organizzazione del movimento, elabora la risposta antigravidica,
sollecita la partecipazione corporea totale è una centrale energetica; la sua funzione
uditiva è legata all’analisi quantitativa ed è centrata sui ritmi. Un'altra caratteristica di
quest’organo è la capacità di governare la ricezione delle vibrazioni. Nell'orecchio
interno strettamente connessa al vestibolo troviamo la coclea grazie alla quale il
bambino percepisce la melodia e i diversi suoni, gravi o acuti. La coclea è a forma di
chiocciola, al suo interno troviamo l'organo del Corti dotato di ciglia che si
sposteranno mosse dalle vibrazioni è completamente operante verso la ventesima
settimana e capaci di rivelare suoni diversi, nella parte più esterna si percepiscono i
suoni acuti, mentre in quella più interna i suoni più gravi. La coclea si abbozza verso
10 - 11 settimane ed è collegata attraverso il nervo uditivo all'area uditiva del
cervello, verso le 24 settimane anche la corteccia è pronta per decodificare i suoni e
quindi l'orecchio è pronto per sentire La coclea è sensibile alle onde di spostamento
presenti nel liquido amniotico secondo un'acuità crescente. Se il vestibolo rileva ed
organizza i movimenti di una certa ampiezza, la coclea si presta alla ricezione dei
movimenti meno ampi identificabili con le vibrazioni che appartengono al range
dell'udibile. Nell'orecchio interno si sviluppa un sistema percettivo che codifica
simultaneamente due modalità sensoriali il suono e le grandi vibrazioni legate al
movimento ( Gellerich 1993).
Grazie ai sistemi somestesico, propriocettivo e vestibolare l’embrione non solo riceve
le vibrazioni e le pressioni provenienti dal mondo uterino, ma riceve anche
informazioni sui propri movimenti, una sorta di feedback che gli dà la primaria
conferma circolare della sua stessa vitalità.
Il feto in utero inizia ad esercitare il gusto, l'olfatto e la vista. Percepisce i suoni e i
ritmi del corpo materno, reagisce alle posture e ai movimenti cullanti della
deambulazione, sente la voce, avverte le emozioni. In questo ambiente risuonante e
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danzante è un soggetto attivo che percepisce, memorizza, esplora, conosce. Gli studi
citati nel loro insieme avvertono che nella genesi di un bambino esiste una relazione
tra la necessità ed il caso, tra l'innato e l'appreso, tra la coercizione del programma
genetico e il gioco della vita[ELISA BENASSI, 1998a]
Per quanto riguarda il movimento Fava Vizziello (1981) evidenzia come nel feto
sono presenti tutti i patterns motori fin dalla ventesima settimana e che nella seconda
parte della gravidanza questa attività motoria troverà una sua organizzazione. Il
sistema motorio assume una notevole importanza poiché il movimento ha un
significato relazionale; nel rapporto con la madre e con il padre ha un alto contenuto
emotivo e psicologico; per questo non dobbiamo fare un’analisi del movimento del
feto solo quantitativa, ma soprattutto funzionale e psicologica perché fa parte delle
prime esperienze di dialogo e ascolto fetali.
E’ interessante una riflessione di Milani Comparetti (1985), secondo cui il feto
presenta una “competenza a nascere” per indicare la partecipazione attiva del feto al
parto attraverso i movimenti; inoltre parla di creatività fetale segno evidente di una
certa volontarietà e capacità di protagonismo, quindi di personalità prenatale.
Le esperienze sensoriali dell'epoca fetale sono decisive per lo sviluppo del sistema
nervoso del nascituro, influenzandone le connessioni sinaptiche, inoltre le
stimolazioni dell'ambiente uterino informano il bambino su ciò che avviene nel
mondo extrauterino aiutandolo ad entrare in dialogo con questo mondo esterno
ancora apparentemente sconosciuto.
Molte sono quindi le variabili per il “sentire” del bambino: variazioni ormonali,
nutrienti, variazioni dinamiche
Il suono non è un elemento neutro in quanto struttura queste “variazioni” nella
gestante, ed il bambino sfrutta queste “sensazioni” per caricarsi energeticamente.
Basti pensare alla posizione dei piedini del bambino sotto il cuore della mamma: il
suo battito cardiaco stimola in continuazione le piante dei piedi. La voce materna con
le sue caratteristiche melodiche, ritmiche, timbriche e prosodiche coinvolge il feto
totalmente creando un primo stato di empatia. Il suono è per il feto un’esperienza
emozionale diretta,perché imprime tutto il suo sistema neurosensoriale.
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Numerose ricerche mostrano come il bambino distingue, memorizza, ricorda e quindi
apprende dall'esperienza uterina, inoltre possiede una memoria transnatale che gli
permette di ricordare dopo la nascita particolari stimoli presentati durante la
gravidanza, prima fra tutti, la voce materna, di cui ne riconosce le caratteristiche, sia
che queste vengano veicolate dal liquido amniotico o dal mezzo aereo. Il suono è
elemento di continuità esperienziale tra la vita prenatale e la vita post-natale.
Righetti osserva come la madre venga influenzata dallo stato emotivo del feto e si
crei una reazione circolare tra i due evidenziando come il perno del processo sia
l’elaborazione psicologica fetale.
Il processo secondo il quale il feto passa allo stato di un essere in grado di registrare e
rielaborare sentimenti ed emozioni viene definito come formazione dell’io prenatale;
infatti ogni esperienza e ogni attimo di vita intrauterina diviene parte di un bagaglio
esperienziale del feto tanto da consideralo un particolare stato dell’io e quindi come il
primo tipo di stato dell’io. [PIER LUIGI RIGHETTI, LAURA SETTE, 2000, PAG 129].
LA PSICOFONIA DI M. L. AUCHER
La Psicofonia mette in evidenza come l’uomo sia “Per–sona”, ovvero un “ Uomo
sonoro” che si dispone a ricevere e ad emettere vibrazioni. Lo sviluppo armonico di
ogni persona richiede la presenza del suono; il corpo umano è uno strumento
musicale che risuona ed emette vibrazioni.
La Psicofonia nasce in Francia negli anni 50’ per opera di una musicista e cantante,
Marie Louise Aucher che mostrò le corrispondenze esistenti tra le vibrazioni sonore e
il corpo umano; inoltre dimostrò che il canto accresce le funzioni vitali e migliora
l’umore; nel 1960 venne depositata dal prof. Chauchad all’Accademia delle Scienze
di Parigi una sua cartografia con i punti di vibrazione e risonanza del nostro corpo e
successivamente vennero pubblicati altri schemi di attivazione psico-corporea nella
fonazione.
M. L. Aucher evidenziò le corrispondenze tra le note e i punti dell’agopuntura.
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Ad ogni suono emesso, in base
alle frequenze prodotte, nel
corpo risuonano una vertebra e
i gangli paravertebrali da cui si
dipartono i nervi diretti agli
organi interni; in questo modo
gli
stessi
mandano
organi
interni
informazioni
sistema
nervoso
al
centrale
attraverso il midollo spinale
Ai
toni
più
gravi
corrispondono la zona degli
arti inferiori, man mano che si
sale
di
tonalità
si
va
a
stimolare il bacino, il torace, la
testa fino alla corona, che
simboleggia
l’apertura
alla
spiritualità.
L’essere umano è investito di
un’energia lenta nella parte
inferiore del corpo e da vibrazioni veloci nella parte superiore. [ELISA BENASSI 2001]
La zona dei piedi risuona in corrispondenza del primo Do del pianoforte, alla seconda
ottava corrispondono gli arti inferiori (dal Do2 al Do3), con la terza ottava risuonano
le zone comprese tra il coccige e la prima vertebra lombare (da Do3 a Do4), alla
quinta ottava risuonano le zone comprese tra la prima vertebra dorsale e l’ultima
vertebra dorsale, le vertebre cervicali non hanno corrispondenze sonore particolari,
perché risuonano sempre, essendo le corde vocali una sorta di diapason che vi si
appoggia, dal Do 5 al Do6 viene stimolata la testa fino alla corona. Ogni metamero
del tronco corrisponde a una nota.
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Il suono è come se “passeggiasse “ nel nostro corpo per uscire e parlare di noi
attraverso la voce nei suoi aspetti ritmici, melodici e timbrici. La voce si esprime
attraverso il canto e la parola: gli armonici gravi danno profondità alla voce, i medi
calore e gli acuti brillantezza.
Grazie alla voce si può accedere direttamene ai bisogni più profondi e per mezzo del
colore della voce lavorare sugli affetti e i sentimenti.
I nostri cinque sensi sono uno strumento privilegiato per scoprire il mondo esteriore
ma anche per entrare in contatto con il nostro mondo interiore; la voce, infatti, ha una
correlazione diretta con le funzionalità sensoriali. Il corpo e la sensorialità si attivano
totalmente nella ricezione delle vibrazioni.
Dall’incontro di M. L. Aucher con Chantal Verdière ostetrica, che vide nel canto la
manifestazione più armonica della madre al bambino, e un ginecologo di fama
internazionale F. Leboyer fautore della nascita senza violenza, nasce il Canto
Prenatale. [ELISA BENASSI, 1998]
Iniziò così un periodo di sperimentazione all’ospedale di Pithiviers.
Nel 1995 nasce il collegio delle Psicofoniste, formate da M. L. Aucher, per
proseguire nelle ricerche e promuovere la Psicofonia.
L’ALBA DEI SENSI: L’APPROCCIO ALLA PRENATALITÀ DI M. L. AUCHER
M. L. Aucher continuava la sua professione d’insegnante di canto parallelamente al
lavoro di Psicofonista; fu proprio grazie ad una sua allieva che iniziò a incuriosirsi
sull’influsso dei suoni per l’embrione e il feto. Questa allieva aveva cantato durante
tutta la gravidanza fino al momento del parto, e il suo bambino aveva delle capacità
sensoriali superiori alla media.
Osservò che i figli di cantanti di professione (con estensione da bassi) avevano gli arti
inferiori molto tonici e iniziavano a camminare precocemente. Il figlio di una coppia
di cui lei soprano e lui basso aveva una perfetta armonia degli arti (superiori e
inferiori).
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Tutte queste osservazioni portarono l’Aucher a verificare come i suoni della voce
materna stimolino soprattutto la zona che va dalla testa al tronco, mentre la voce del
padre la zona che va dagli arti inferiori al tronco, (è interessante osservare che la zona
degli affetti e dei sentimenti è stimolata da entrambi i genitori); affermò in seguito
che il sistema nervoso del bambino durante il periodo fetale riceve i suoni in funzione
del suo sistema nervoso personale e prima di nascere porta inscritto in se la scala
sonora [M. L. AUCHER,1981]. (scoperta e depositata all’Accademia delle Scienze di
Parigi).
La voce dei genitori grazie alle sollecitazioni motorie e tonico-foniche è un richiamo
alla vita e marca l'esistenza del bambino formando il sé neurofisiologico, emozionale
e mentale, inoltre predispone alla futura acquisizione del linguaggio.
Ancora una volta vediamo che il suono è attivatore vitale a livello neurologico e
cellulare, ma anche emotivo, affettivo e mentale, e apre i primi canali
comunicazionali e relazionali.
Cantando anche la madre si tonifica, si dinamizza e si rilassa. Quando la donna vive
un rapporto sereno con il proprio corpo e il proprio bambino, controlla i riflessi, è più
calma e lucida, anche il travaglio e il parto vengono vissuti con minor dolore, sono
più veloci e diventano un’esperienza di ulteriore avvicinamento tra madre e bambino.
Parteciparono ai corsi di Psicofonia delle ostetriche e delle levatrici, e questo diede
l’inizio al Canto Prenatale allontanandole ogni dubbio sull’utilità del canto in
gravidanza. Alla maternità di Pithivers le gestanti iniziarono a controllare il proprio
perineo con i movimenti del bacino, a tonificare i muscoli e a scioglierli, utilizzare il
diaframma e regolare il respiro.
Melodia, poesia e ritmo, diventarono gli imperativi di tutti i lavori di M. L. Aucher, il
bambino dopo la nascita ritrovava le impressioni prenatali che lo aiutavano a calmare
il pianto e i piccoli o grandi dolori. L’Amore che nasce non è possessivo perché è
Amore per la vita, amore che veicola un profondo rispetto dell’altro, Amore che
insegna Amore.
Nasce a Pithiviers la Maternité chantante e venne inaugurato il primo corso di Canto
prenatale.
16
Oltre al canto prenatale venne portato avanti anche il canto familiare, infatti le coppie
che avevano vissuto l’esperienza di canto prenatale sentivano il bisogno, anche dopo
il parto, di continuare a cantare in un processo di armonizzazione familiare.
Accompagnando la vita della gestante che diventa madre accompagna anche la vita
della nuova famiglia che si riarmonizza, ma soprattutto da voce ad una nuova vita che
entra nel mondo.
Oggi il canto Prenatale è una proposta di canto e di espressione vocale per la donna in
gestazione.
Le sedute di canto prenatale comprendono il riscaldamento, le decontrazioni, le
attivazioni, l’ascolto e soprattutto il canto con vocalizzi e canzoni [Aspettar
cantando: la musicoterapia e la relazione circolare precoce, contributo di E.Benassi
in PIER LUIGI RIGHETTI, LAURA SETTE, 2000] .
Le basi su cui poggia tale progetto sono quelle della Psicofonia; si tratta di un lavoro
musicoterapeutico in tutti i sensi, poiché studia e opera nella relazione suono-essere
umano. Il soggetto e protagonista dell’ Aspettar Cantando è il complesso rapporto
suono-gestante-suono. La gestante scopre il proprio essere suono, soggetto recettore
ed emittente di vibrazioni.
La voce conduce la persona ad accogliere e integrare il cambiamento in atto. La
madre si scopre a cercare con affetto il contatto con il proprio bambino attraverso i
silenzi, i dialoghi interiori, la qualità armonica della voce, la parola.
Questo comporta dal punto di vista delle dinamiche collegate alla percezione del
tempo, la progressiva inscrizione della maternità nel tempo senza fine del qui ed ora
denso, di elementi affettivi del passato, ma contemporaneamente orientato al futuro
che sembra incarnarsi proprio nel bambino oggetto di amore: è parte di sé che si
proietta nella storia. [ELISA BENASSI, 1998b].
Di questo cambiamento nella percezione del tempo ne deve tener conto il
musicoterapeuta per realizzare una relazione sonora efficace tanto dal punto di vista
comunicativo, quanto da quello terapeutico. La regressione coinvolge tutti coloro che
17
partecipano al processo terapeutico, compreso lo stesso musicoterapeuta, che riscopre
il suo essere stato contenuto per poter egli stesso contenere.
Ciò che musicalmente caratterizza la gravidanza è una spiccata recettività che orienta
all'ascolto del sé e del bambino, per questo il musicoterapeuta deve saper scoprire e
tutelare questi delicati equilibri che stanno nascendo tra la madre, le sue esperienze
inconsce e il bambino.
La madre ha il corpo completamente proteso all'ascolto del bambino e l'interazione
con il nascituro ha forma, tempo, intensità e ritmo specifici, ed è interessante notare
come questi siano gli stessi elementi del linguaggio musicale [ELISA BENASSI,
1998b].
La musica può così operare quel contenimento fonico primario poiché:
•
è un linguaggio preverbale,
•
la produzione e la fruizione musicale poggia sulle onde celebrali alfa cosi
come la gravidanza e l'infanzia,
•
ha un carattere regressivo e contenitivo,
•
colpisce l'affettività influenzando gli elementi arcaici del cervello prima delle
reazioni cognitive,
•
suscita reazioni a livello funzionale psicovegetativo, psicologico e sociale,
•
evoca i ricordi anche persi nell' inconscio,
•
caratterizza lo stato creativo
•
è un elemento transizionale
•
è uno spazio di dialogo e di comunicazione dove si possono ricreare gli
elementi della diade madre- bambino della triade madre padre bambino e
quindi della struttura familiare.
La musicoterapia si rivela uno strumento di estrema utilità, infatti, permette la
creazione dell’identità sonora dell'essere umano attraverso il suono, il ritmo ed il
movimento e quindi il dialogo tonico-fonico tra la madre ed il bambino
Sin dall'inizio vivere significa 'suonare' e 'risuonare'.
La nascita del suono può essere equiparata alla nascita di un bambino.
18
Il training psicofonetico per il parto chiamato “Partorir Cantando” nasce nel 1994
nel reparto di Ostetricia e Ginecologia diretto dal Prof. Michele Angiolillo
dell’Ospedale Carlo Poma di Mantova grazie al lavoro della Psicofonista Elisa
Benassi. L'uso della voce avviene solitamente nel periodo più impegnativo del
travaglio: viene spesso utilizzata per esprimere il dolore ed ha un ruolo fondamentale
nella produzione di endorfine, le sostanze oppioidi per mezzo delle quali avviene
un'analgesia autogena. [ELISA BENASSI, 1998b].
Lo specifico della preparazione al parto attraverso il suono è il fatto di considerare la
gestante un soggetto attivo, e il canto è la pratica che maggiormente attiva il corpo. Si
ottiene quindi: la profondità del respiro, il sostegno del fiato, il controllo posturale, la
risonanza ossea, la percezione di un'onda vibratoria che investe il bambino.
Attraverso il sostegno del fiato si realizza il sostegno del sé; la postura necessaria alla
corretta fonazione fa scoprire l'esistenza di un centro di equilibrio così importante
nelle fasi più impegnative del travaglio; l'attività della muscolatura del torchio
addominale anticipa il lavoro che si compierà quando il bambino dovrà nascere; la
vibrazione sollecita pensieri sul piccolo sentito come essere che partecipa del suono
materno quasi nutrendosene. [ibidem ].
LA MUSICOTERAPIA A FAVORE DEL DIALOGO E DELL’ASCOLTO
Come abbiamo evidenziato, la musica utilizza principalmente il linguaggio non
verbale, questo perché parla al nostro cervello emotivo e permette di entrare in
relazione con l’altro senza utilizzare la mediazione linguistica e le categorie del
linguaggio verbale.
Mente e corpo vengono coinvolti in questa modalità comunicativa: l’ascolto di un
concerto o di una voce o di un suono possono provocare forti emozioni. Emozionare
significa commuovere, cioè mettere in movimento (EMO-AZIONE).
Il suono commuove perché trasporta energia e permette la vita. Il suono diviene così
veicolo e mediatore di una modalità comunicativa e terapica specifica. L’elemento
19
principale del suono è la VIBRAZIONE, mediante il fenomeno vibratorio come il
suono noi possiamo generare e trasmettere energia, entrare in vibrazione e far entrare
l’altro in vibrazione.
Il musicoterapeuta diventare recettivo alle vibrazioni altrui per promuovere
l’integrazione con coerenza e armonia.
Deve saper percepire le vibrazioni altrui entrando in risonanza e instaurando una
modalità comunicativa che lo renda autentico ESPERTO IN UMANITÀ’. Anche M.
Scardovelli [Scardovelli, 1999], nelle sue numerose ricerche in Musicoterapia ha
rilevato la necessità di un’educazione all’ascolto e al dialogo che parta dal terapeuta
stesso.
Ogni essere vivente ha come componente fisica dimostrabile la VIBRAZIONE.
Il suono può guarire i mali del corpo e dell'anima. Le origini della cura delle malattie
con i suoni e la musica possono essere rintracciate nella preistoria, nella cultura della
Grecia classica, nel medioevo fino ai giorni nostri. Risalgono al secolo scorso,
invece, le vere e proprie ricerche scientifiche sulle modificazioni fisiologiche indotte
dalla musica attraverso la misurazione dei suoi effetti sulla respirazione, il ritmo
cardiaco, la circolazione e la pressione sanguigna. La musica agisce sul sistema
neurovegetativo (che regola le funzioni del corpo quali la traspirazione, il ritmo
cardiaco, la pressione sanguigna) e facilita la liberazione delle emozioni e delle
risorse creative di ciascuno.
L’approccio alla persona è olistico in un’unità
inscindibile di mente e corpo.
Un approccio musicoterapico specifico riguarda la Musicoterapia integrativa: tutto
quanto riguarda la vocalità è integrazione. Perché integrazione con la voce?
Fin dall’antichità la voce ha suscitato l’interesse dell’uomo e gli sono state date
diverse definizioni.
Il Musicoterapeuta Giovanni Maria Rossi la definisce come l’io sonoro, la
manifestazione della persona intesa come identità dell’essere umano.
20
La voce coinvolge tutto il corpo e non solamente gli organi fonatori, la parola e il
canto hanno un carattere primordiale e simbolico, rappresentano una realtà
emozionale e permettono la coscienza profonda della realtà.
Nell’atto vocale sono contemporaneamente interessate dalla produzione e dalla
fruizione del suono le strutture sensoriali, nervose, motorie in un gioco armonico e
circolare.
Abbiamo visto che la voce richiama alla vita il nascituro, rasserena la madre e non
solo, con la voce la persona diventa strumento e strumentista: è uomo recettore e
trasmittente, raccoglie la vibrazione e risuona. Il gesto vocale con il suo attacco la sua
ampiezza la sua intensità, il suo spazio e il suo tempo e la sua melodia è l’espressione
più completa dell’essere umano e ne evidenzia capacità di ascolto e di dialogo.
In gruppo o da soli, il canto può diventare un'attività liberatoria. La voce, infatti,
rispecchia le condizioni mentali, fisiche ed emozionali di una persona: è lo specchio
dell'anima. Comprendere la propria voce, scoprire come vengono emessi i suoni, è un
ottimo modo per imparare a percepire i significati non espressi celati dietro le parole.
Nella MUSICOTERAPIA INTEGRATIVA l’elemento principale è la voce prodotta
sentita, suonata.
ESPERIENZA DI DIALOGO E ASCOLTO ALLE ORIGINI DELLA VITA GRAZIE
ALLA MUSICA E AL CANTO
Ritengo importante concludere questo articolo riportando la mia esperienza di
“ascolto e dialogo alle origini della vita”: infatti ho sperimentato in prima persona
ciò di cui ho voluto trattare, e perché prima di tutto credo che il musicoterapeuta deva
saper lavorare su se stesso, per poter instaurare un autentica relazione di aiuto con
l’altro.
La mia prima esperienza di ascolto l’ho vissuta nel centro di “educazione
all’ascolto” di via Rovereto 22 a Verona, diretto dal dottor Concetto Campo,
psicologo che, dopo aver frequentato numerosi corsi, attività di tirocinio e lavoro con
21
la diretta supervisione del dott. Tomatis, ha potuto aprire uno studio utilizzando la
metodica sperimentata dallo scienziato francese.
L’esperienza è iniziata con un Test d’ascolto, test elaborato da A. Tomatis in grado di
evidenziare le capacità di ascolto del paziente; non si tratta quindi di un test che va a
sondare le capacità uditive.
Successivamente ho fatto 30 ore di ascolto musicale con l’Orecchio Elettronico, un
apparecchio inventato dallo scienziato francese in grado di far entrare in suono nel
corpo e stimolare l’orecchio nelle sua funzione di organo dell’ascolto.
Durante le sedute con orecchio elettronico provavo tranquillità e serenità, sentendo il
bisogno di ascoltare i movimenti fetali, che iniziavano dopo circa 10 minuti
dall’inizio della seduta stessa. Desideravo entrare in relazione con mio figlio,
ascoltandolo e accogliendolo, immaginatomi come viveva il suono che entrava
progressivamente nel mio corpo. Immaginavo che mio figlio stesse vivendo il
medesimo senso di curiosità e tranquillità.
Una curiosità riguarda la mia pressione arteriosa, che essendo molto bassa mi
provoca un forte senso di affaticamento; durante le due ore in cui stavo seduta
ascoltando brani di Mozart o canto gregoriano, non provavo affaticamento e
alzandomi dalla poltrona non avevo alcun giramento di testa (cosa molto frequente
quando mi alzano dal divano o da una sedia).
Ho notato che il bambino in utero si muoveva maggiormente con i suoni filtrati o
durante il canto Gregoriano; soprattutto le ultime sedute con suono sopra gli 8000Hz
stimolavano moltissimo mio figlio che appena iniziava il brano lui si muoveva; in
alcuni casi sembrava infastidito.
Le sedute con Orecchio Elettronico mi hanno sempre dato una sensazione di ricarica
e di equilibrio personale. Mi sono sentita più consapevole di me stessa e ho preso
maggiormente coscienza del mio corpo.
Terminato il ciclo di terapia con il metodo Tomatis, ho iniziato il primo livello di
Psicofonia con la psicofonista Elisa Benassi.
Ogni livello di Psicofonia viene accompagnato da un test sulla persona chiamato
Cliché dei suoni, nel quale si osserva il modo con cui il nostro corpo risuona e vibra.
22
Man mano che si susseguivano gli incontri sentivo il suono faceva vibrare alcune
zone del mio corpo, in particolare questa vibrazione toccava il mio piccolo Francesco
accarezzandolo. Grazie alla vibrazione riuscivo a prendere coscienza dei mie confini
corporei che in questo periodo si erano notevolmente ampliati: mi sentivo
piacevolmente “tonda”. Il bacino era abitato da Francesco e dal suono e la mia voce
acquistava maggior calore e ricchezza di armonici; anche il torace permetteva il
passaggio del suono verso il bacino e molte tensioni che sentivo nella zona cervicale
pian piano si allentavano.
La postura acquisita con il metodo Tomatis grazie al training di Psicofonia diventava
sempre più naturale lasciandomi una sensazione di equilibrio. Uno dei maggiori
risultati l’ho ottenuto sulla respirazione diaframmatica che diventava sempre più
naturale e automatica: l’inspirazione e l’espirazione si armonizzavano nell’emissione
sonora. Grazie al respiro avevo la percezione di cullare il mio bambino.
Il suono che entrava nel mio corpo arrivando sino ai piedi mi ha aiutato a percepire la
pianta del piede facendola appoggiare completamente al suolo di modo da farmi
provare la sensazione piacevole di attaccamento alla terra. Quando una parte del mio
corpo era particolarmente tesa il suono la faceva emergere e distendere molto
velocemente.
Cantando, con la coscienza che il suono entrava nel mio corpo arrivando fino a
Francesco, ho provato per la prima volta la sensazione di cullarlo infondendogli
tranquillità e serenità. Stava nascendo chiaramente la relazione madre-bambino
attraverso un dialogo creativo e un ascolto empatico; tutto questo grazie al canto.
Ogni rappresentazione mentale aveva colori caldi e brillanti; il tempo e lo spazio
avevano cambiato forma: il primo rallentando si accordava con il mio bambino,
mentre il secondo ampliandosi più spazio attorno a me per poter “proteggere la
pancia”.
A questo proposito è interessante notare che ero arrivata ad “odiare” le percussioni
poiché avevo la sensazione che percuotendo la pelle del tamburo percuotessero la mia
pancia e Francesco al suo interno.
23
Il suono ha permesso alla mia creatività di trasformarsi in melodia e poesia: la
gravidanza è un momento privilegiato nel quale si coglie il miracolo della vita e
quindi attraverso il canto e il suono delle parole nascevano riflessioni profonde
sull’esistenza, la coscienza di essere e di esistere per qualcun altro e la gioia di vivere
le relazioni famigliari; entravo in quella che Fromm definì “logica dell’essere” e in
questo caso dell’essere per l’altro. Ma per amare l’altro è importante saper amare se
stesso, non si può essere di aiuto all’altro se prima non ci si è armonizzati. Questa
armonizzazione la si vive attraverso un’esperienza di Psicofonia.
Ho proposto alla mia famiglia di vivere un esperienza di Canto Famigliare,
desideravo aiutare Linda ad esternare le emozioni che nascevano dall’attesa di un
fratellino, e permettere a me e mio marito di condividere emozioni e preoccupazioni:
riarmonizzando l’intera famiglia.
Con la Psicofonia potevamo creare un ambiente pronto ad accogliere una nuova vita,
in grado di stimolare il desiderio di comunicazione che porta con sé ogni essere
vivente che nasce e cresce.
Coinvolgendo la famiglia, la mia gravidanza diventava un periodo di attesa e
preparazione per tutti.
Il risultato immediato fu una complicità tra di noi nel dedicare una canzone a
Francesco; i cambiamenti venivano vissuti serenamente e risultava più semplice
comunicare e verbalizzare emozioni.
Abbiamo sentito Francesco come membro della famiglia, generando un nuovo
legame, ma soprattutto, gli abbiamo regalato e ci siamo regalati una canzone. Dono e
reciprocità sono elementi essenziali per vivere un’esperienza d’amore.
Ricordo che sia alla nascita di Francesco che a quella di Linda vidi sulla porte della
nursery la seguente poesia di Dorothy Law Nolte : II bbaam
mbbiinnii iim
mppaarraannoo cciiòò cchhee
vviivvoonnoo
Se i bambini vivono con le critiche, imparano a condannare
Se i bambini vivono con l'ostilità, imparano a combattere
Se i bambini vivono con la paura,imparano a essere apprensivi
Se i bambini vivono con la pietà, imparano a commiserarsi
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Se i bambini vivono con il ridicolo,imparano a essere timidi
Se i bambini vivono con la gelosia,imparano a provare invidia
Se i bambini vivono con la vergogna,imparano a sentirsi colpevoli
Se i bambini vivono con l'incoraggiamento,imparano a essere sicuri di se
Se i bambini vivono con la tolleranza,imparano a essere pazienti
Se i bambini vivono con la lode, imparano ad apprezzare
Se i bambini vivono con l'accettazione, imparano ad amare
Se i bambini vivono con l'approvazione, imparano a piacersi
Se i bambini vivono con il riconoscimento,imparano che e' bene avere un obiettivo
Se i bambini vivono con la condivisione,imparano a essere generosi
Se i bambini vivono con l'onesta, imparano a essere sinceri
Se i bambini vivono con la correttezza, imparano cos'è la giustizia
Se i bambini vivono con la gentilezza e la considerazione,imparano il rispetto
Se i bambini vivono con la sicurezza,imparano ad avere fiducia in se stessi e nel
prossimo
Se i bambini vivono con la benevolenza,imparano che il mondo e' un bel posto in
cui vivere
I bambini imparano grazie all’esperienza, per amare devono sentirsi amati, per donare
devono vivere un’ esperienza di dono; la musicoterapia grazie a questo tipo di
esperienza di Canto Famigliare permette al bambino di cogliere al di là delle parole
ciò che vuol dire reciprocità e amore, nella semplicità del dono di una canzone a sé e
all’altro.
È stato molto bello dare significato agli abbracci e ai baci, come elementi efficaci per
ristrutturare l'armonia familiare; questi hanno anche un contenuto simbolico dando
risposta al bisogno di comunicazione e autostima. Abbiamo provato persino a cantare
con i baci, questo dava anche un piacevole massaggio al corpo.
L’esperienza positiva di canto durante l’ultimo periodo di gravidanza mi ha aiutato a
indirizzare le energie durante il travaglio e il parto e ci ha ricordato durante i primi
mesi di puerperio che possiamo comunicarci amore attraverso una canzone, che solo
25
attraverso l’armonia e l’unione famigliare si possono superare piccole o grandi ansie
e frustrazioni che nascono da una nuova esperienza di vita. Abbiamo sperimentato la
capacità di ascoltarci e dialogare attraverso la musica.
RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Perché parlare di ascolto e di dialogo?
Una persona una volta mi disse che sicuramente c’era un motivo se abbiamo una
bocca sola e due orecchie, forse dovremo essere più capaci di ascoltare piuttosto che
di parlare!
Per instaurare una relazione efficace e costruttiva è fondamentale saper ascoltare e
prima ancora sapersi ascoltare.
Il dialogo diventa un Dialogo Creativo [FRANCO LAROCCA, 1992], capace di portare
una novità in noi stessi e negli altri. Il linguaggio nasce dall’ascolto e cresce
nell’uomo come espressione della sua umanità.
Tomatis è uno degli studiosi del nostro secolo che ha saputo vedere al di là della
apparenza fenomenologica della realtà per cogliere quello che caratterizza l’essenza
della natura umana, è riuscito a cogliere l’uomo nel suo essere più profondo, in modo
olistico, vedendolo inserito all’interno del suo ambiente relazionale e fisico. L’uomo
diventa ciò che deve essere grazie al soddisfacimento del bisogno di relazione e di
comunicazione, già presente dalla notte uterina.
Non è solo una filosofia quella di Tomatis, è un antropologia, l’antropologia
dell’ascolto, che si apre ad una pedagogia in grado di aiutare l’uomo a percepire il
suo “dover essere” in tensione verso la realizzazione propria e altrui.
La Psicofonia di M. L. Aucher permette di far risuonare il corpo e vivere una
profonda esperienza di dialogo e di ascolto di se stessi e dell’altro; è una autentica
esperienza di musicoterapia rivolta all’armonizzazione, all’equilibrio e capace di
aprire la persona al dialogo e all’ascolto. Il canto il respiro il corpo nella sua interezza
si accordano con l’universo, facendo vivere alla persona il suo essere vibrazione
armonica. E’ un metodo che accompagna l’uomo dal suo crescere nell’utero materno
26
fino alla morte vista come momento e fase della vita stessa. L’uomo quindi pian
piano si libera prendendo coscienza di se stesso e del proprio progetto storico.
La musicoterapia può aprire la persona al dialogo e all’ascolto grazie alla sua capacità
di comunicare a livello analogico, grazie alla sua struttura formale fatta di ritmo,
movimento, silenzio.
La musica tocca la nostra struttura più profonda, il nostro corpo viene stimolato da un
rango molto vasto di vibrazioni e questo avviene dal concepimento. La voce della
madre richiama il figlio alla vita, per questo motivo è importante che le gestanti ne
prendano coscienza, evitando tutta una serie di handicap indotti. Un’esperienza di
musicoterapia è in grado di far rinascere il desiderio di comunicazione anche in
persone con gravi deficit psicofisici.
La frase più bella e significativa che mi risuona sempre nella mente e accompagna il
mio lavoro è: “Tutto è vibrazione”, questa frase mi fa sentire parte di un tutto in
grado di dare energia vitale, favorire la relazione la comunicazione e il rispetto
profondo della vita. Credo che un educazione al dialogo e all’ascolto permettano al
musicoterapeuta di portare avanti un cammino di formazione che si trasforma
progressivamente in educazione permanente; fungano da base per il suo lavoro
terapeutico, come elementi essenziali per creare sintonizzazione e armonizzazione
nell’altro
27
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30
LA PRASSI DELL’OSSERVAZIONE
Valutazione del Cambiamento in Musicoterapia
di Paola Rocchia
“L’interesse rende l’interpretante capace di interrogare le cose,
e il rispetto lo rende capace di ascoltarle”
Luigi Pareyson “Estetica della formatività”
31
32
L’OSSERVAZIONE
Osservare potrebbe sembrare una cosa facile e scontata, perché tutti i giorni siamo
spettatori attivi e passivi della realtà. Tuttavia osservare una persona con l’obiettivo
di coglierla in tutte le sue sfaccettature e nel suo divenire continuo, non fa parte
dell’osservazione “distratta” a cui siamo abituati. Quando sosteniamo di aver colto la
realtà pecchiamo di presunzione. Qualsiasi fotografia facciamo della realtà non potrà
mai essere la realtà stessa: la mappa non è sovrapponibile al territorio. Il dato
osservato nasce dalla combinazione della realtà di fronte a noi e della produzione
creativa della nostra mente. Anche se cercassimo di essere neutrali, non potremmo
osservare la persona che dal nostro punto di vista. Non è facile distinguere quanto
appartiene ai dati nella loro oggettività e quanto appartiene alla soggettività
dell’osservatore. Più ci nascondiamo dietro l’aspirazione di neutralità e non rendiamo
espliciti i nostri pensieri, desideri e vissuti emotivi, più sarà difficile rielaborare la
nostra esperienza di osservazione, distinguendo quello che è nostro, da quello che
realmente appartiene all’altro.
Partendo da questo presupposto è necessario resistere alla tentazione di collegare la
situazione al passato e a qualcosa di già vissuto, o di proiettarla nel futuro, dando così
spazio ai nostri desideri: è importante vivere il momento istante per istante. Il nostro
sforzo deve essere quello di ricercare costantemente un punto ideale da cui poter
osservare, un punto che sia a quella giusta distanza che ci permetta di mettere a fuoco
la persona. Questo innanzitutto perché anche se ogni persona sembra sempre identica,
in realtà è costantemente in movimento. Inoltre vanno messe da parte teorie ed
esperienze passate che costituiscono una difesa per non vivere a pieno il momento e
per non lasciarci provocare dalla situazione. Ogni nostra percezione, convinzione o
modello è frutto di molteplici operazioni di generalizzazione, cancellazione e
distorsione e ogni modello è un insieme coerente di convinzioni che però ci fa vedere
il mondo in un certo modo nascondendocene altre e definendo così “uno stato di
coscienza2”. L’osservazione non è un momento dove si applicano le proprie
conoscenze teoriche, ma è un apprendere dalla situazione: si apprende dall’oggetto,
2
SCARDOVELLI MAURO – Musica e trasformazione – Edizioni Borla, 1999, Roma
33
ma anche da se stessi. “Apprendere dall’esperienza è una forma di conoscenza
permeata di profonda emotività.3” Quindi in realtà l’osservazione si basa su uno
scambio reciproco. Abbandonando il capire e sospendendo il giudizio, attraverso il
sentire irrazionale possiamo comprendere la persona. L’obiettivo dell’osservazione
deve essere, infatti, anche quello di cogliere il non visto. Il presupposto è calarsi nella
situazione con attitudine accogliente, senza agire, mantenendo un’attenzione
fluttuante. Le nostre percezioni, infatti, sono l’unica cosa che ci può mettere in
contatto con il reale, ma dobbiamo essere disponibili al confronto.
L’osservatore molto spesso sente l’esigenza di agire, di orientare gli eventi osservati,
di dare una forma a quanto osserva interpretandolo e dando un ordine alla
complessità dei dati sensoriali. Tuttavia bisogna contrastare questo desiderio e
rimanere in attesa, senza fare congetture, finché non si verifica l’evento o non si
osserva un elemento che faccia luce su dati che sembrano tra loro incongruenti e
incomprensibili. L’osservatore deve avere la cosiddetta “capacità negativa”, cioè
quella che Bion definisce “la capacità di sopportare il non senso4” finché una forma e
un ordine non appaiano quasi da sé. L’osservazione è, infatti, comprendere, cioè
come dice l’etimologia della parola stessa “contenere in sé”.
L’osservatore attraverso questa esperienza affina la sua sensibilità, sviluppa un suo
spazio mentale ed impara a contenere le sue emozioni proprio perché le ha portate
alla luce, le ha riconosciute e ha dato loro un nome e non perché le ha nascoste,
trincerandosi dietro a teorie e a parole come “obiettività” e “neutralità”.
L’osservazione insegna ad essere recettivi, a tollerare e a contenere le emozioni in
gioco, a migliorare la capacità di porre attenzione e di interrogarsi su ciò che si
osserva.
3
A cura di CARLO e RITA BRUTTI - Quaderni di Psicoterapia Infantile, Uso e abuso
dell’osservazione – Edizioni Borla, 1996, Città di Castello (PG)
4
Ibid.
34
Il lavoro su se stessi è fondamentale per riuscire a liberarsi da costruzioni e
sovrastrutture che coprono e nascondono la nostra confusione interiore, per rimanere
nudi, “pervenendo a semplicità e naturalezza.5”.
L’osservazione in un incontro di musicoterapia può spaziare su moltissimi elementi,
tutti rilevanti e con complesse interconnessioni tra loro. Di conseguenza, per rendere
analizzabili gli incontri è stato necessario limitare il campo di indagine solo ad alcune
delle variabili in gioco. L’attenzione è centrata sul soggetto, mentre l’analisi del
mezzo e dell’influenza dell’universo umano del terapeuta sul soggetto stesso restano
sullo sfondo.
Tra i vari approcci possibili per cercare di analizzare i cambiamenti di un utente, ho
scelto di elaborare e sperimentare uno strumento di osservazione. Uno strumento di
osservazione, in questa visione, non diventa un modo per nascondersi dietro modelli
e teorie, per orientare e guidare gli eventi osservati, per non vivere il momento e
uscire
dalla
relazione,
ma
vuole
sottolineare
un
requisito
fondamentale
dell’osservazione stessa: l’osservazione presuppone un atteggiamento intenzionale. È
proprio l’intenzionalità a contraddistinguere l’osservazione in un incontro di
musicoterapia da quella occasionale che si utilizza nella quotidianità. Per riuscire a
cogliere la persona che abbiamo di fronte è importante che il protocollo
dell’osservazione contenga la cronaca rigorosa degli eventi, la descrizione della
atmosfera emotiva, le costruzioni e le distorsioni create dalla mente dell’osservatore.
Proprio per questo è bene fermarsi al piano del visibile tenendo in un contenitore
separato emozioni e vissuti, ed è opportuno non entrare nel piano simbolico per il
quale ci si dovrebbe rifare a un modello di riferimento preciso.
INDIVIDUAZIONE E ANALISI DEGLI INDICATORI
Nel cercare una griglia che fungesse da guida all’osservazione, sono stati scelti degli
indicatori che potessero dare un quadro ricco del soggetto, e che potessero toccare il
mondo del soggetto a vari livelli: cognitivo, emotivo, affettivo, relazionale,
5
A cura di CARLO e RITA BRUTTI - Quaderni di Psicoterapia Infantile, Uso e abuso
dell’osservazione – Edizioni Borla, 1996, Città di Castello (PG)
35
comunicativo. Nell’orientarsi tra le innumerevoli scelte possibili sono state seguite le
seguenti linee guida.
La musicoterapia è una disciplina che non si limita solo al suono e alla musica, ma
che considera anche il corpo e il movimento di conseguenza sono stati utilizzati degli
indicatori che permettessero di cogliere anche i cambiamenti a livello corporeo e
motorio. Per questo i primi indicatori scelti sono stati “Sguardo” e “Postura e
Movimento”.
Inoltre, poiché in questi incontri la musica è stata utilizzata come terapia, nella
convinzione che quello che avviene musicalmente esprima metaforicamente la vita
del soggetto stesso anche in ambito non musicale, sono stati scelti degli indicatori più
strettamente musicali. “Comportamento ritmico”, “Voce”, “Strumenti” sono tre
indicatori di lettura complessa del mondo del paziente.
Infine sono stati individuati come indicatori i parametri “Comunicazione” e
“Relazione”, strettamente legati tra loro e insiti nella natura stessa della musica e
della musicoterapia. Il suono sin dall’infanzia, nella relazione madre-bambino, è
comunicazione e dialogo ed è allo stesso tempo intermediario nella relazione
musicoterapeuta–paziente.
Durante un incontro di musicoterapia, quando attraverso un’azione, un suono o un
movimento generiamo un’evoluzione della situazione e una trasformazione, quello
che muta non sono solo parametri corporei o musicali, ma anche e soprattutto
parametri relazionali. È per questo che considero la relazione come il parametro
sintesi che include e riunisce tutti gli altri.
Gli indicatori scelti sono quindi: Sguardo, Postura e Movimento, Comportamento
ritmico, Voce, Strumenti, Comunicazione e Relazione. Per capire la loro rilevanza in
musicoterapia e cosa comunicano del soggetto è necessario approfondirli uno alla
volta.
36
SGUARDO
Lo sguardo è una componente importante della comunicazione non verbale e di
conseguenza è rilevante in un incontro di musicoterapia, dove tutta la comunicazione
non verbale assume un grande significato.
Lo sguardo ha una doppia valenza. Da un lato è un’attività sensoriale, in stretta
coordinazione con l’attività muscolare e ha la funzione di organizzare lo spazio.6 Da
questo punto di vista ci può dare alcune indicazioni sulla percezione sensoriale del
soggetto e sulla sua capacità di discriminare.
Dall’altro lato lo sguardo sottende a una serie di meccanismi psicologici.
Il bambino usa il contatto visivo come modalità per esplicare le prime relazioni. Il
contatto visivo della madre con il bambino è un intenso scambio affettivo e
arricchisce molto il processo di attaccamento. La musicoterapia trae spunto dal
rapporto primario madre–bambino7 8 e considera il contatto visivo come un elemento
importante nella relazione terapeutica. Infatti, lo sguardo è una ricca fonte di
comunicazione che esprime il contesto emozionale ed affettivo. Il contatto oculare tra
terapeuta e paziente non necessariamente è diretto, ma può avvenire indirettamente
attraverso lo sguardo condiviso alla stesso strumento.
Lo sguardo inoltre è anche il primo mezzo con cui il bambino manifesta attenzione ed
è un parametro interessante per valutare attenzione e interesse del soggetto. Bisogna
anche considerare che un ritardo dello sviluppo può causare problemi allo sviluppo
dell’attenzione visiva.
La vista è l’unico sistema sensoriale che può essere regolato in termini di chiusura e
apertura, e, a questa regolazione, sono collegati diversi fattori psicologici. Per questa
sua caratteristica esso mette in evidenza la disponibilità alla relazione con il
terapeuta, con il setting, con l’ambiente e diventa una ricca modalità comunicativa,
quando il soggetto lo investe verso l’esterno. I musicoterapeuti incoraggiano i
6
GILBERTO GOBBI - Il corpo in gioco, Collana di Psicomotricità 6 - Edizioni Res, 2002,
Verona, pag. 24.
7
MAURO SCARDOVELLI – Il dialogo sonoro – Cappelli Editore
8
TONY WIGRAM, BRUCE SAPERSTON, ROBERT WEST – Manuale di arte e scienza della
musicoterapia – casa editrice Ismez, 1997, Roma – Harwood Publishers GmbH, 1995, Amsterdam
– pag. 325 - 335
37
bambini ad osservare sia gli oggetti del gioco, sia l’adulto o gli altri bambini del
gruppo, proprio per favorire la relazione e la comunicazione.
Lo sguardo quindi rivela una molteplicità di elementi: percezione sensoriale,
attenzione, interesse, apertura–chiusura alla relazione, stato tonico–emozionale.
Diventa rilevante osservare a che cosa si rivolge lo sguardo, la sua intenzionalità e
presenza, il gesto–sguardo, elementi però a cui non si possono attribuire significati
univoci, ma che vanno interpretati alla luce della conoscenza del soggetto. Inoltre
osservare unicamente lo sguardo (se è diretto, indiretto, agli strumenti, al terapeuta,
se l’utente osserva, …) non ci può dare una visione globale del soggetto: è necessario
anche che questo parametro sia messo a confronto con altri indicatori, come Postura
e Movimento, Relazione, a cui è strettamente connesso.
In una relazione terapeutica infine non è rilevante solo lo sguardo del soggetto, ma
anche l’essere guardati. Lo sguardo del terapeuta comunica accoglienza o rifiuto ed è
uno strumento di cui è importante essere consapevoli. Spesso, infatti, un contatto
diretto può essere troppo stimolante e rischia di non mettere il soggetto a proprio agio
e quindi anche lo sguardo va modulato attentamente.
POSTURA E MOVIMENTO
Il corpo rappresenta il nostro modo di presentarci al mondo e di essere riconosciuti.
Esso ci dà la percezione di noi stessi, della nostra vita emotiva, ci aiuta a strutturare i
concetti di spazio e tempo, a costituire la nostra personalità, lo schema e l’immagine
corporea, a costruire il pensiero, a regolare la relazione con l’altro.
Il nostro corpo è scolpito da esperienze passate e presenti che si depositano spesso in
maniera inconscia lasciando traccia di sé. Il corpo racchiude la complessità di
presente e passato, di aspetti cognitivi, affettivi ed emotivi. Proprio per questo il
linguaggio del corpo, sebbene sia universale, è estremamente particolare ed
individuale. Osservando attentamente ogni gesto e qualità del movimento, ogni
sfumatura nella postura e nell’uso dello spazio si può avere uno scorcio del mondo
interno e dello stato mentale del soggetto che si muove.
38
Il primo elemento che va preso in considerazione è il tono, cioè lo stato di tensione
muscolare. Il tono da un lato è legato al livello di maturazione e organizzazione
neurofisiologica,9 dall’altro è legato strettamente con la reazione emotiva e
relazionale del soggetto verso l’ambiente. Come ognuno di noi ha potuto
sperimentare nella propria esperienza il nostro stato di tensione aumenta e diminuisce
in relazione all’andamento delle nostre emozioni. Questo stretto legame tra tensione
tonica e psichica fa sì che il tono sia l’espressione delle nostre emozioni.
Il tono è soggetto a diverse variazioni e regolazioni. Da un lato c’è un tono di base
legato alle esperienze toniche primitive, vissute nella primissima infanzia e in epoca
fetale, collegate prevalentemente alle emozioni e all’affettività.10 A questo tono di
base è collegata la postura, cioè le attitudini e gli atteggiamenti abituali.
Dall’altro lato il tono ha un andamento mutevole ed è legato al presente, al momento,
all’umore, alle sollecitazioni ambientali e si integra e assimila con il tono di base.
Il tono quindi è sintesi tra presente e passato, assume significato anche nelle relazioni
con l’altro e proprio per questo è considerato una delle categorie della comunicazione
analogica: la comunicazione tonica è la base della comunicazione primaria e
successivamente della comunicazione gestuale e verbale.
La comunicazione tonica rappresenta una relazione intuitiva ed immediata con l’altro
perché è connessa ad un sentire l’altro più che ad un capire e molto spesso non è
esprimibile attraverso il linguaggio verbale. Il tono è un pilastro fondamentale della
relazione empatica e permette la parziale identificazione con l’altro.
Il tono, proprio per questo motivo, funge da antenna orientando il corpo verso
l’esterno. L’orientamento e la distanza in una situazione relazionale sono indicatori
estremamente significativi che permettono al tempo stesso al soggetto il dominio
dello spazio e l’estensione della comunicazione.11
Si può evincere tutto ciò anche prendendo in considerazione l’evoluzione
psicogenetica del bambino. Il bambino comunica inizialmente attraverso il contatto
9
GILBERTO GOBBI - Il corpo in gioco, Collana di Psicomotricità 6 - Edizioni Res, 2002, Verona
Ibidem
11
A. LAPIERRE, B. AUCOUTURIER – La simbologia del movimento – casa editrice Padus,
Cremona
10
39
diretto con la madre e i messaggi tonici che egli riceve ed emette. Il dialogo corporeo
è quindi la fase iniziale e fondamentale della comunicazione con il mondo. Crescendo
il bambino inizia a creare una distanza progressiva nella comunicazione, “distanza
che passa attraverso l’oggetto transizionale, attraverso il contatto e l’allontanamento
dell’oggetto, il contatto e l’allontanamento dell’altro, fino alla nozione di
permanenza, ben studiata da Piaget, che permette una comunicazione astratta
attraverso il simbolo dell’oggetto assente e che conduce al linguaggio e a tutti i mezzi
di comunicazione astratta.12”. La conquista della distanza si traduce anche in
un’apertura alle relazioni con il mondo che diventano progressivamente più ampie.
Questa tendenza si rispecchia anche nello sviluppo motorio, che procede verso
l’esterno, in senso prossimo distale.13 Infatti, le parti centrali del corpo maturano più
precocemente e diventano funzionali prima di quelle situate alla periferia. L’altra
tendenza dello sviluppo motorio che si interseca con la prima è il passaggio
dall’attività generica a quella specifica: i movimenti diffusi vengono seguiti
gradualmente da azioni differenziate e controllate, allo stesso modo in cui procedono
le abilità relazionali del bambino.
Altro elemento fondamentale nell’analisi del corpo è il movimento.
Il movimento rivela le competenze motorie, cognitive ed affettive del soggetto
essendo anch’esso espressione dell’unione indissolubile di corpo e psiche. Infatti, nel
corpo l’azione ha una doppia valenza: è azione verso l’esterno, agita nello spazio
reale e allo stesso tempo è interna, vissuta a livello emotivo. La massiccia motricità,
presente nelle prime fasi dello sviluppo infantile, non è solo fine a se stessa ma
rappresenta anche le prime esperienze mentali ed emozionali del bambino. Infatti,
movimento e apprendimento sono connessi inestricabilmente: solo attraverso
l’assimilazione delle esperienze sensomotorie il bambino acquista la consapevolezza
del proprio corpo, inizia a costruire una sana immagine di sé e da qui può sviluppare
il pensiero simbolico e il linguaggio orale. Il movimento è quindi l’espressione
fondamentale dell’agire umano e del comportamento e rivela, nella sua natura
12
Ibidem, pag. 38
HILLMAN BOXILL EDITH - La musicoterapia per disabili mentali - Omega Edizioni, 1991,
Torino
13
40
relazionale, la capacità di adattamento alla realtà. C’è armonia nell’azione e nel
movimento quando cognitivo ed emotivo sono ben integrati. L’azione, che è
movimento vissuto profondamente e investito all’esterno, costituisce la sintesi di
questi vari aspetti del corpo.
Spesso un ritardo dello sviluppo motorio è il primo segno visibile di un problema di
sviluppo. Le disabilità motorie corrispondono a gradi diversi di deficit della motricità
grossolana, fine e percettivo-motoria fino alla completa mancanza di deambulazione
e sono collegati in grado variabile a deficit sensomotori. A causa del ritardo e della
deprivazione sensoriale spesso non sono stati stimolati e sviluppati movimenti
volontari ed imitativi, con tutte le limitazioni che questo comporta sia alla costruzione
dell’immagine di sé, sia alla possibilità di conoscere e relazionarsi con la realtà
esterna. Questi deficit, che riguardano tutti i domini prestazionali, infatti,
costituiscono un notevole ostacolo all’interazione della persona con l’ambiente.
La musicoterapia attraverso la stimolazione sensomotoria del binomio musica–
movimento può migliorare le abilità fisiche e portare ad un benessere emotivo e ad
una maggiore capacità di apprendimento. La musicoterapeuta Gertrud Orff considera
musica e movimento come entità indivisibili, come due modalità espressive che si
intrecciano inevitabilmente e questo per la natura stessa della musica: “la musica
stessa è una struttura tonale ordinata su un tempo che si muove nello spazio.14”. La
struttura circolare della musica, attraverso il fluire del ritmo, può essere efficace
soprattutto per lo sviluppo, l’amplificazione e l’armonizzazione dei movimenti di
base. L’attività motoria è fondamentale nell’approccio Orff alla musicoterapia, che
sostiene che sperimentare la musica attraverso il movimento del corpo e il
movimento del corpo attraverso la musica promuove l’attenzione, la concentrazione,
la memoria e la percezione dello spazio e del corpo, il contatto con gli altri,
l’interazione sociale, l’immaginazione, la sensibilità e la creatività.
Se analizziamo il corpo da un punto di vista strettamente musicale inoltre ci
accorgiamo come suono e corpo siano inscindibili.
14
EDITH HILLMAN BOXILL - La musicoterapia per disabili mentali - Omega Edizioni, 1991,
Torino, pag. 143
41
Il corpo funge da antenna nella percezione sonora. Il suono può essere captato e
vissuto non solo dall’orecchio, ma primariamente attraverso la partecipazione totale
del corpo. In effetti, il feto già a 12 settimane percepisce gli stimoli sonori attraverso
la vibrazione ossea, quella cutanea superficiale e quella profonda a livello viscerale.
Solo successivamente, a 22–23 settimane il nervo uditivo connette la coclea alla
regione cerebrale corrispondente e il feto può udire. Ecco perché il corpo è il luogo
dove il suono e la musica vengono sentite e vissute e non pensate. Il nostro corpo è
quindi primariamente una cassa di risonanza. Il suono nel corpo viene esperito sia
come percezione interna che esterna.
Inoltre il corpo è esso stesso strumento musicale. Nel corpo si intersecano diversi
ritmi che si incatenano uno all’altro formando una complessa struttura poliritmica: il
ritmo del respiro, del cuore, del passo, il ritmo sonno-veglia, della fame, fino ad
arrivare ai cicli ormonali. Si aggiungono ad esso le componenti melodiche di tutti i
suoni endogeni.
Il corpo è anche sonoramente espressivo essendo allo stesso tempo cordofono,
aerofono, idiofono e membranofono. Sembra addirittura che i primi strumenti
musicali si siano ispirati nelle loro forme alle varie parti del corpo e che siano nati
come prolungamento del corpo stesso per ampliarne le sue modalità espressive. Si
può quindi leggere il nostro corpo come corpo sonoro vibrante, in cui il suo stato
tonico rappresenta l’accordatura di tale strumento.
Inoltre non si può tralasciare il fatto che il corpo è il nostro mediatore nella relazione
musicale e a maggior ragione in un contesto di terapia, dove c’è l’attuazione di un
dialogo. La relazione con gli strumenti e con la musica è prima di tutto vissuta a
livello corporeo. In ogni relazione con l’altro le espressioni corporee divengono
comunicazione e linguaggio. Tutti i comportamenti non verbali, come i gesti delle
mani, esprimono informazioni importanti e sono una ricca sorgente di conoscenza.
Nella lettura dei comportamenti non verbali non bisogna dimenticare però che essi
hanno anche una forte connotazione culturale. I comportamenti non verbali vengono
usati per informare l’ascoltatore dello stato d’animo di chi li esprime. I gesti
comunicano le intenzioni, segnalano la disponibilità e la loro comprensione spesso
42
non è verbalizzabile perché permettono espressioni che non rientrano in uno schema
categorico, ma che riflettono ancora aspetti dello stato che sta vivendo il soggetto.
L’aspetto cognitivo passa in secondo piano in favore della conoscenza delle
emozioni. Tutto questo rende il corpo un elemento fondamentale in musicoterapia e
indicatore significativo che necessita di un’attenta osservazione delle sue
manifestazioni soprattutto nei suoi aspetti qualitativi.
COMPORTAMENTO RITMICO
Il ritmo racchiude in sé tre grandi aspetti: quello percettivo, motorio e affettivo.
Il ritmo nella sua espressione ed organizzazione segue l’evoluzione delle strutture
anatomiche del sistema nervoso centrale e delle diverse funzioni psicomotorie
presenti nel bambino.15 Così inizialmente e per un lungo periodo trova le sue origini
nel vissuto corporeo per poi passare successivamente al piano mentale dove può
essere utilizzato come linguaggio musicale. Nel bambino non si sviluppa solo la
capacità di produrre progressivamente ritmi autonomi, poi reattivi ed infine
espressivi, ma anche di elaborare, appropriarsi e modificare l’impronta dei ritmi
esterni. “L’accordo, le disarmonie, i rapporti sincronici e non, sono alla base
dell’evoluzione del ritmo e del suo dinamismo.16”
Il ritmo inizialmente, nella prima fase ontogenetica, è senza regole o sequenze
prestabilite, è senza spazio e tempo logico sia a livello motorio che del vissuto.
Infatti, è legato soltanto alle esigenze primarie e segue la legge del caso e delle
necessità biologiche.
Le funzioni ritmiche tuttavia sono molte plastiche ed è importante considerare
l’ambiente e i fattori di condizionamento, soprattutto quelli iniziali del rapporto
madre-bambino. Nella relazione con il bambino è l’adulto a doversi adattare in modo
prevalente ai ritmi del bambino. Il bambino sentendosi ascoltato e vivendo
regolarmente nel tempo queste esperienze di sintonizzazione sui suoi ritmi,
15
BERGES JEAN – Ontogenesi dei ritmi - tratto da “La clinica della Psicomotricità” – a cura di
Carli e Quadrio – Feltrinelli
16
BOSCAINI FRANCO – Il ritmo fra dipendenza e autonomia – Res, anno IV, aprile 1996
43
esperienze emotive e relazionali, ripetitive e significative, può inserirle nella propria
memoria tonica e prevederle nel loro succedersi. Questa continuità, ripetitività e
prevedibilità permette la regolarizzazione dei ritmi del bambino. La prima
sintonizzazione adulto-bambino è caratterizzata quindi da una certa fusionalità. Via
via che la relazione procede, sempre all’interno di una dipendenza, ma nella graduale
separazione dal bambino, e che diventa sempre più reciproca e complementare, anche
il ritmo si va strutturando in modo comunicativo. Lavorando con bambini ed adulti
con gravi difficoltà di apprendimento si ha spesso a che fare con un comportamento
pre-ritmico, cioè con l’incomprensione di un ritmo o della concatenazione ritmica
degli eventi, cioè col fatto che un evento sonoro possa generare quello dopo. Suonare
ritmicamente può aiutare a mettere ordine perché aiuta a predire e ad anticipare
eventi, ad associare due o più eventi e a creare connessioni mnemoniche.
Progressivamente la disorganizzazione caotica e aritmica sfocia in una produzione
armonica e controllata a livello corticale. Allo stesso tempo i ritmi vegetativi “si
sviluppano in stretta connessione con la vita emotiva ed istintiva del bambino e si
esprimono in una ritmicità aleatoria preferenziale, collegata con lo stato tonico.17”.
Fra i 3 e i 5 anni si entra nel periodo dell’organizzazione dell’attività ritmica
spontanea grazie alla mielinizzazione del Sistema Nervoso. Il sistema nervoso gioca
un ruolo determinante nell’organizzazione e nel controllo delle configurazioni
ritmiche, gli impulsi del ritmo vengono percepiti, passano per il talamo e arrivano al
settore del cervello che presiede ai sensi.18 Il moto insito nel ritmo permette la
trasmissione continua degli impulsi. Tuttavia non bisogna dimenticare che per
favorire una corretta organizzazione motoria ritmica è necessario anche
l’investimento affettivo.
Fraisse nel cercare di definire il ritmo si rifà a Platone il quale afferma che il ritmo “è
l’ordine nel movimento.19”. Questa definizione quindi lega il ritmo non alla natura,
ma all’organizzazione del movimento e quindi generalizzando all’uomo e alla
17
BERGES JEAN – Ontogenesi dei ritmi - tratto da “La clinica della Psicomotricità” – a cura di
Carli e Quadrio – Feltrinelli
18
Ibidem
19
PAUL FRAISSE – Psicologia del ritmo – Armando editore, 1996, Roma – Presses Universitaires
de Franc, 1974, Paris, pag. 8
44
psicologia. Il ritmo prima di essere una realtà sonoro–musicale, è quindi
l’organizzazione dell’esperienza corporea nello spazio e nel tempo.
Sul piano fisiologico il ritmo può essere scomposto in più fasi:
Una fase attiva, in cui il movimento viene agito;
una fase passiva, in cui il movimento viene lasciato scorrere;
un breve momento di riposo;
un richiamo tonico verso il successivo movimento.
L’alternarsi di queste fasi nel tempo crea un ritmo senza sosta. Il ritmo quindi al
livello più elementare è la ripetizione dello stesso stimolo ad una frequenza costante e
come afferma Platone è “la caratteristica ordinata della successione.20”.
La regolarità permette il funzionamento del sistema di anticipazione e la possibilità di
sviluppare la sincronizzazione sensomotoria, cioè la capacità di far coincidere lo
stimolo sonoro con la risposta sonora. Lo sviluppo delle aspettative e
dell’anticipazione sono strettamente legate all’attenzione e sono cruciali nella
comprensione del processo ritmico. Wundt afferma che “l’emozione prodotta dal
ritmo deriva dalla successione ripetuta di fasi di aspettativa e soddisfazione21”.
Quando si cerca il sincronismo nei movimenti di più persone o effetti sul piano
affettivo l’accento diventa un elemento importante. La musica è caratterizzata da
tempi forti e deboli a cui si può far corrispondere sul piano psicologico
rispettivamente il “confermare” e “l’inviare”. A questi si aggiungono gli accenti che
possono essere creati da cambiamenti nell’intensità o nella durata.
Inoltre il ritmo è legato strettamente alla durata e al tempo, e come afferma Fraisse
“il ritmo è nel tempo e dispone delle durate sul piano quantitativo e qualitativo.22”. La
durata, da un punto di vista fisico, è il tempo di permanenza del suono e, dal punto di
vista musicale, è collegato con il tempo. Il tempo, in musica, indica il movimento più
o meno rapido a cui attenersi nella esecuzione di un brano.
20
L. BUNT – Musicoterapia – Edizioni Kappa, Roma, pag. 91
PAUL FRAISSE – Psicologia del ritmo – Armando editore, 1996, Roma – Presses Universitaires
de Franc, 1974, Paris, pag 9
22
ibid. pag. 13
21
45
Vi sono tante percezioni soggettive del tempo. Da una parte siamo strettamente legati
ad un’ampia gamma di tempi biologici come il battito cardiaco, il respiro, il
camminare, il ritmo metabolico, l’attività neurale e i cicli più lunghi, come quelli
mestruali o renali. Dall’altra la percezione del tempo ha una connotazione culturale.
Sono stati fatti numerosi studi sulla percezione del tempo, ma in musicoterapia, al di
là delle correlazioni tra funzionamento fisiologico e durate, è rilevante l’armonia o la
disarmonia con il tempo. La disorganizzazione ritmica si manifesta quando uno
stimolo esterno non produce una risposta adattata e concatenata oppure dal punto di
vista relazionale quando il ritmo di una persona si discosta troppo da quello altrui.
Spesso molti soggetti hanno difficoltà nella sincronizzazione delle risposte. La
sincronia con se stessi e anche con il mondo circostante è un’importante misura della
salute. Il livello di organizzazione o disorganizzazione ritmica della persona, e quindi
l’armonia interna e nelle relazioni con l’ambiente, sono elementi fondamentali in
musicoterapia e possono essere valutati osservando la presenza, l’assenza, il livello di
organizzazione (in battute, in sequenze…), la flessibilità, la consapevolezza
(imitazione di modelli ritmici, …) della pulsazione.
Uno degli obiettivi della musicoterapia è quello di lavorare sui ritmi della persona.
Infatti, sostenendo il tempo di ognuno, si può creare un contatto iniziale che permette
poi di muoversi ad esplorare altre esperienze ritmiche e temporali. È importante
aiutare il soggetto a ritrovare i propri ritmi personali per imparare ad essere in
sintonia, in equilibrio tonico-emotivo, con quelli ambientali ponendo così le basi per
la comunicazione. Partendo dal ritmo del soggetto si può poi stimolare
l’apprendimento della sincronizzazione di un movimento con il suono per il quale è
cruciale l’anticipazione dell’evento susseguente. L’intervallo tra i suoni diventa un
segnale addizionale.
È importante modulare la durata del suono ed essere consapevole del modello
temporale di ognuno sia per mantenere viva l’attenzione, sia perché talvolta un
bambino può far fronte a una piccola quantità di informazione sonora per volta.
Inoltre lavorare sulla durata può essere d’aiuto a far focalizzare l’attenzione.
46
Da un punto di vista dinamico le fasi che costituiscono il ritmo (fase attiva, passiva,
di riposo, di preparazione al successivo movimento) possono essere lette come un
accumulo di energia seguito dalla liberazione. In questa lettura il ritmo diventa
pulsione orientata e si presta a dare energia, unità, stabilità ed organizzazione
all’individuo e al gruppo.
Nelle persone in cui la comunicazione con l’ambiente è fortemente ridotta a causa di
vari deficit, spesso si possono osservare comportamenti ripetitivi come camminare,
battere ritmicamente le dita, dondolare, sventolare le mani. In questi contesti il
comportamento ritmico serve ad allentare la tensione, ma tale comportamento ciclico,
monotono e sempre uguale a se stesso, non è ritmo, perché manca il quadro di
riferimento, cioè quel movimento d’insieme che dà senso e struttura e ordine al
susseguirsi di tempi forti e deboli. Il ritmo, quando è strutturato e quando si esplica
non in modo ciclico, ma lineare e temporale, è un fattore terapeutico vitale perché ha
il potere di focalizzare l’energia e di organizzare la percezione della successione
temporale.
Il ritmo è un movimento di insieme che riunisce in sé tutti questi elementi e diventa
anche ripetizione, divenire, differenziazione, sintonia, relazione con sé e con l’altro.
Esso porta ordine ed energia ed è proprio per questa sua caratteristica che il ritmo dà
vitalità anche al non movimento e al silenzio. Il silenzio e la pausa, come sanno bene
i musicisti, sono essenziali per dare spazio e significato al suono e vanno utilizzati
con consapevolezza anche in musicoterapia. Il silenzio può assumere diverse
sfumature energetiche, può causare ansia, suspense o può costruire piacevoli
sentimenti di attesa. Rompere un silenzio ha un impatto sia fisico che psicologico.
Inoltre il silenzio dà ordine agli eventi sonori e agisce sulla memoria. Così la qualità
del silenzio e l’uso delle pause, come anche la velocità della pulsazione diventano un
indice della stato emotivo della persona e del suo tono.
Un’ipotesi che è emersa nella mia esperienza in musicoterapia è quella che lega il
ritmo all’identità personale. Fraisse osserva come tremiti, dondolamenti o stereotipie,
e in genere attività ritmica spontanea sono molte diffuse e sia che “siano di origine
funzionale quando esiste una minor attività integrativa della personalità, o siano di
47
origine organica e comportino l’insorgenza di ritmi motori elementari, rappresentano
un segno di una disintegrazione….23”.
Spazio, tempo e ritmo sono legati alla nozione di separazione: infatti, solo attraverso
le distanze, è possibile rendere distinti e presenti oggetti e persone. Tuttavia la
separazione diventa possibile solo se c’è un’identità e se è acquisita la permanenza
dell’oggetto.
Il fare musica ha luogo in modo sincrono o antifonale. Questi modi comprendono
elementi di accento e differenziazione, di unione e separazione.
Lo scambio dialettico, insito nell’instaurarsi dell’attività ritmica, diventa l’avvio
preverbale alla comunicazione. L’ontogenesi del ritmo diventa preludio al
linguaggio; e la sua storia, dal passaggio dallo stadio sensomotorio a quello
rappresentativo dei ritmi, mostra l’intimo legame con l’intero corpo.
Il ritmo è quindi espressione del verbale e del non verbale, del cosciente e
dell’inconscio, dell’Io e dell’Altro, diventa l’indicatore della qualità comunicativa.
VOCE
La voce esprime l’integrità mente–psiche della persona e può essere considerata al
pari di un’impronta digitale. Nella voce aspetti fisici e fisiologici sono strettamente
legati a quelli psicologici. Essa svela l’accordatura del corpo della persona: tensioni
muscolari, tonicità, consapevolezza del corpo, l’immagine di sé e la nostra relazione
con il mondo esterno ci vengono rivelate dal timbro, dall’altezza, dalla modalità di
emissione, dalla dinamica. Capita spesso di constatare come la nostra voce cambi a
seconda dei contesti emotivi e questo proprio perché la voce è legata all’affettività, e,
le sue modulazioni profonde, sono in stretta correlazione allo stato tonico–
emozionale del corpo.
La voce inoltre è strettamente legata al respiro, la sede del ritmo personale soggettivo,
l’elemento ponte fra interno ed esterno del corpo.
23
PAUL FRAISSE – Psicologia del ritmo – Armando editore, 1996, Roma – Presses Universitaires
de Franc, 1974, Paris, pag. 179
48
L’intensità della voce, da un punto di vista fisico è legata direttamente all’energia
della sorgente sonora e alla sua potenza. Per descrivere le variazioni dinamiche e
l’intensità, in musica si utilizza una terminologia piuttosto vaga ed imprecisa, che
spazia dal Pianissimo al Fortissimo, e che non ha una scala di misurazione assoluta,
ma relativa alla musica eseguita, alla grandezza del gruppo, alla forma e alle
dimensioni della stanza e al suo arredamento, alle proprietà fisiche degli strumenti
utilizzati e all’impressione soggettiva che se ne ha. I cambiamenti a livello dinamico
si ripercuotono a livello psicologico e fisiologico e influenzano la situazione emotiva
e lo stato d’animo.
L’altezza del suono e quindi della voce è in stretta correlazione invece con tensione e
rilassamento.
Tutte queste caratteristiche rendono la voce uno strumento ricco di informazioni che
va considerato e ascoltato attentamente. Tuttavia proprio perché nella voce si
rispecchiano così tanti elementi e variazioni sottili è bene non fare deduzioni
affrettate sullo stato d’animo delle persone.
Un altro aspetto che rende la voce un indicatore importantissimo è la sua grande
valenza comunicativa e non solo nel verbale.
La voce può essere considerata il primo degli strumenti musicali.
Il canto è la prima forma di espressione musicale spontanea. Nei primi anni di vita il
bambino spontaneamente canta, esplora la sua voce e improvvisa parti di canzoni.
Già nel pianto e nel balbettio di un bambino si possono riconoscere brevi sequenze di
note e dei tratti melodici.
Durante la seconda metà del primo anno la vocalizzazione aumenta notevolmente e di
solito è in risposta a movimenti motori. In effetti, sembra che l’uso della voce sia
facilitato da un’attivazione a livello motorio. Inoltre i bambini rispondono all’ascolto
di musica con suoni di varie tonalità, sia su una vocale che su poche sillabe, con
ritmo amorfo.
All’età di 2 anni il balbettio confuso contiene all’interno parole saltuarie o parti di
parole e si incomincia ad udire un contenuto più tonale e intervallato. A questa età la
maggior parte dei bambini sa cantare. La sperimentazione vocale iniziale sembra
49
focalizzarsi sugli intervalli di seconda e di terza, su un ritmo molto semplice,
generalmente 2/4. A 2-3 anni un bambino, quando canta spontaneamente, tiene una
struttura temporale personale e non inerente alla musica e continua a mischiare brani
di melodie imparate con canzoni spontanee.
A 4 anni sanno cantare in modo più o meno appropriato. Sembra che più i bambini
ascoltano canzoni già composte, più man mano che crescono intonano con precisione
melodie e intervalli riproducendo fedelmente le canzoni originali. A 5 anni sembra
che i bambini inizino a mantenere una tonalità stabile in una canzone, o almeno in
gran parte di essa.24
Quindi tutta la sequenza di sviluppo procede dalla prima discriminazione di
caratteristiche grossolane come i contorni e l’altezza, passando per la crescente
consapevolezza della tonalità del bambino di 5 anni, fino alla capacità di un ragazzo
di rilevare piccoli cambiamenti nelle dimensioni dell’intervallo. Il bambino in tutte
queste fasi di sviluppo acquista lentamente la padronanza di questo suo complesso
strumento musicale che è la voce.
L’uso della voce all’interno di un incontro di musicoterapia viene fortemente
incoraggiato perché favorisce una molteplicità di obiettivi. Il canto può creare un
sentimento di integrità generato proprio dal fatto che nella produzione vocale una
persona diventa essa stessa strumento che origina il suono. Cantare a, per e con
un’altra persona è un mezzo per prendere contatto e comunicare e può stimolare la
consapevolezza di sé e degli altri. Cantare e vocalizzare può essere utile a mobilitare
l’energia e a focalizzarla. Il canto è un mezzo di auto–espressione: la linea e lo
schema ritmico della melodia possono rispecchiare ed esprimere stati d’animo,
sentimenti ed emozioni. Inoltre proprio per la stretta interconnessione fra melodia e
linguaggio, la voce cantata può diventare un punto di passaggio per la comunicazione
verbale: cantare melodie e frasi melodiche tocca in modo diretto la fonazione, la
prosodia e la cadenza, l’intonazione, l’inflessione e la qualità della voce. La voce può
essere utilizzata per esplorare e conquistare lo spazio, per allargare i propri confini
24
L. BUNT – Musicoterapia – Edizioni Kappa, Roma, pag. 121 - 125
50
corporei, per eliminare la distanza nella relazione,25 diventando così affermazione di
sé.
La voce per tutti questi motivi è forse il più rilevante degli strumenti musicali ed è un
importante elemento comunicativo non solo quando si esplica nel linguaggio verbale,
ma anche nel non verbale. Il tono di voce veicola una serie di informazioni che
spesso sono più rilevanti del contenuto stesso delle parole espresse. Infatti, se ci
rifacciamo alla relazione madre–bambino che è fonte di ispirazione per il modello
relazionale terapeutico in musicoterapia,26 la prima cosa che distingue un bambino è
il timbro della voce parlata ed è per questo che la voce provoca delle risonanze
profonde a livello psichico ed emotivo sia sull’emittente sia sull’ascoltatore. La voce
cantata è una sorgente di stimolo sensoriale ed emotiva.
È rilevante quindi considerare la voce in tutti i suoi aspetti: la voce parlata, cantata,
esplorata anche come rumore; la sua intensità ed energia; i contenuti verbali ed
emotivi che esprime; la padronanza e l’uso che se ne fa; sia che essa nasca spontanea,
imitativa o in risposta a quella del terapeuta. Tutto questo rende la voce un indicatore
che racchiude la complessità e la ricchezza del soggetto.
STRUMENTI
Accanto al corpo e alla voce, strumenti musicali primari, in musicoterapia si
utilizzano una gamma di strumenti piuttosto ampia. L’uso e il significato che si
attribuisce agli strumenti non è univoco: ci sono diverse chiavi di lettura.
Infatti, come afferma Benenzon, “Lo strumento in musicoterapia costituisce un tutto.
Ciascuna delle sue parti avrà un’importanza ai fini della comunicazione: la
conformazione, la temperatura, la forma, il colore, la sonorità, la qualità degli
elementi e dei materiali che lo compongono27”. Gli strumenti musicali in
25
A. LAPIERRE, B. AUCOUTURIER – La simbologia del movimento – casa editrice Padus,
Cremona
26
SCARDOVELLI MAURO – Il dialogo sonoro – Cappelli Editore
27
R. O. BENENZON, G. WAGNER, V. H. DE GAINZA – La nuova musicoterapia – Phoenix
Editrice Soc. Coop. Arl, 1997, Roma, pag. 19
51
musicoterapia acquistano una loro identità e vita che li rende unici e peculiari, e li
trasforma da oggetti a facilitatori del dialogo terapeuta–paziente.
Per avvicinarsi a comprendere la loro identità può essere significativa la conoscenza
dell’evoluzione degli strumenti musicali e del loro uso nelle diverse ere evolutive del
genere umano. Questa evoluzione può essere assimilabile a quella del bambino dalla
nascita in poi, attraverso le varie fasi di sviluppo. Alcuni autori sostengono che il
bambino scopre l’uso degli strumenti musicali più o meno nella stessa scansione
sperimentata dall’umanità, ed evolve psicofisicamente in modo da rispecchiare
l’evoluzione antropologica in generale28.
I primi strumenti musicali sembra fossero utilizzati dalle comunità di cacciatori per
dare suono e enfasi a quei movimenti della danza che non potevano essere accentati
dal battere delle mani o dei piedi. I primi strumenti sembra fossero sonagli, strumenti
a concussione che suonano per scuotimento, appartenenti alla famiglia delle maracas,
come quelli che usano i bambini per giocare. I danzatori li portavano appesi alle
caviglie, alle ginocchia, alla vita, al collo. Erano costruiti con materiali vari (gusci di
noce, semi, noccioli, denti, zoccoli di animali) e progressivamente si sono sempre più
diversificati per forme, dimensioni e suoni.
Le percussioni sembra siano apparse dopo i sonagli. All’interno di tale gruppo
troviamo una grandissima varietà di strumenti che si differenziano per l’utilizzo dei
più disparati materiali, per le forme, le dimensioni e i suoni che emettono. I primi
tamburi sembra fossero costituiti da buche scavate nel terreno e ricoperte di corteccia,
al lato delle quali i danzatori percuotevano il terreno producendo suoni sordi e
profondi. Da questi primi e rudimentali tamburi, le percussioni si sono evolute,
modificate e trasformate dando vita a moltissimi strumenti, tra cui le percussioni
armoniche come gli xilofoni, fino ad arrivare alla moderna batteria.
I sonagli e le percussioni sono i primi strumenti a cui si avvicinano i bambini e sono
molto utilizzati in musicoterapia perché non richiedono particolari abilità per suonarli
essendo sufficiente un movimento semplice e grossolano.
28
A cura di LAROCCA F. - Scienze ed Arti per l’Handicap, Atti del 9° Convegno Internazionale di
Musicoterapia 2002 - Libreria Editrice Universitaria, 2002, Verona
52
Altri filoni d’indagine hanno notato la somiglianza e le affinità degli strumenti con
l’organismo umano e hanno rintracciato le origini degli strumenti in un
prolungamento del corpo stesso. Gli strumenti a percussioni sarebbero quindi ispirati
alla testa, al sistema chiuso della calotta cranica e per questo Gregorat li collega
simbolicamente al pensare, alla “volontà conscia o inconscia.29”. Gli strumenti a
corda trarrebbero la loro origine dal torace e sono quindi associati al sentire e in
generale ai sentimenti. Gli strumenti a fiato invece traggono spunto dalle membra e
sono associati alla volontà cosciente, all’agire. Tuttavia questa chiave di lettura
suggestiva e interessante esula dall'osservazione del dato visibile a cui ho intenzione
di fermarmi.
In musicoterapia solitamente si cerca di far sì che gli strumenti presenti nel setting
abbraccino tutte le classi di strumenti: idiofoni, cordofoni, membranofoni, aerofoni e
a volte anche strumenti di tipo elettronico.
Rolando Benenzon dà numerosi consigli sull’utilizzo in terapia degli strumenti
musicali dando una chiave di lettura interessante sul loro utilizzo. Egli dà indicazioni
sulla loro collocazione all’interno del setting, suggerisce di scegliere strumenti di
semplice utilizzo perché devono poter essere utilizzati senza che sia necessario un
bagaglio tecnico specifico, non devono essere pericolosi, devono permettere eventuali
spostamenti e movimenti, essere costruiti possibilmente con materiali naturali (legno,
pelle, cuoio, pietra, semi, osso). Inoltre gli strumenti dovrebbero poter rievocare con
le loro differenti sonorità quelle umane, animali, naturali, e, le loro forme e
dimensioni, dovrebbero essere varie, per permettere ai pazienti di proiettare qualsiasi
fantasia personale.
In effetti, Benenzon, che prende spunto dalle teorie psicodinamiche, considera la
musicoterapia come uno strumento per favorire vissuti regressivi e di conseguenza gli
strumenti musicali non sono semplici oggetti, ma finiscono per assumere dei ruoli.
Benenzon classifica gli strumenti osservando il loro uso inconscio e li divide in:
Oggetto sperimentale, quando gli strumenti sono sperimentati ed esplorati a
livello multisensoriale dando origine ad una produzione casuale;
29
GREGORAT CLAUDIO – L’anima della Musica – New Press, 1997, Como
53
Oggetto catartico, quando lo strumento permette di scaricare la tensione
accumulata dando la prima sensazione di gratificazione. Questa scarica
d’energia fa sì che appaiano i primi ritmi musicali strutturati;
Oggetto difensivo, quando lo strumento permette al paziente di difendersi
dall’ansia nascondendo le sue pulsioni interne. In questa situazione il soggetto
difficilmente sceglierà un altro strumento, ma terrà sempre lo stesso, e lo
suonerà mantenendo una postura rigida;
Oggetto incorporato, quando corpo e strumento formano una realtà
indifferenziata. Lo strumento diventa parte del corpo e non è suonato, ma solo
maneggiato. Alvin anche osserva che gli strumenti si possono considerare dei
prolungamenti del corpo proprio perché attraverso il contatto, con le mani,
l’olfatto o anche con la bocca “si possono esplorare sia il sentimento di
protezione che di proiezione30”;
Oggetto integratore, quando rafforza il vincolo d’integrazione tra due persone
permettendo la comunicazione e lo scambio energetico;
Oggetto intermediario, quando è capace di creare canali di comunicazione
d’energia da un individuo a un altro, evitando stati di intenso allarme, di ansie
e di attesa. L’oggetto intermediario di Benenzon si può avvicinare all’oggetto
transizionale di Winnicot,31 essendo una fonte di conforto simile al guscio di
protezione dei bambini.
Tuttavia questa categorizzazione non può essere utilizzata nella fase di osservazione
del dato visibile perché attiene all’interpretazione del dato osservato.
È stata, infatti, privilegiata l’osservazione degli strumenti musicali rispetto al piano
del visibile: sono stati quindi presi in considerazione la scelta, l’uso, l’esplorazione e
la relazione che il soggetto crea con gli strumenti mentre l’interpretazione simbolica è
stata rinviata a una successiva analisi. I fattori che determinano la scelta di uno
strumento sono spesso insiti nella strumento stesso e possono dipendere dalla sua
estensione, dal timbro, dalla taglia, dalla forma e dal metodo richiesto per produrre il
30
31
L. BUNT – Musicoterapia – Edizioni Kappa, Roma, pag. 147
BUNT L. – Musicoterapia – Edizioni Kappa, Roma
54
suono. Alcuni bambini possono avere difficoltà spaziali, percettive e fisiche a
maneggiare gli strumenti o a capire come essi emettono suoni.
Gli strumenti possono essere considerati mezzi di comunicazione non verbale. Uno
strumento offre la possibilità di comunicare e apre la strada a molteplici forme di
interazione, correlazione e abilità interpersonali e può essere portatore di un suo
significato o del significato trasmesso dalla persona che li usa. Gratifica fisicamente e
emotivamente. Può essere una sorgente di gioia e di energia. Inoltre ogni strumento
ha una funzione pluridimensionale: tattile, ottica e acustica.
Gli strumenti musicali in musicoterapia sono utilizzati perché permettono di
raggiungere vari obiettivi. Suonare uno strumento può accrescere il rapporto
dell’individuo con gli stimoli musicali, la coesione del gruppo e la socializzazione,
può favorire l’aumento dei tempi di attenzione, può aprire le porte al comportamento
adattivo strutturando e dando forma tangibile al comportamento musicale. Suonare
uno strumento musicale offre l’opportunità di vivere un’esperienza tattile e
multisensoriale legata al movimento contribuendo a migliorare così le abilità
percettivo–motorie: la coordinazione motoria grossolana e fine, nonché la percezione
visiva–uditiva e tattile. Inoltre può dare una sensazione immediata del risultato e del
successo: anche un gesto semplice è amplificato dal suono, acquista valore
comunicativo e crea reazioni negli altri, facendo così sentire protagonisti e
stimolando una giocosa ripetizione.
Inoltre suonare uno strumento musicale offre l’opportunità di stimolare e liberare le
emozioni permettendo così di esplorare un’intera gamma di sentimenti. Uno
strumento musicale può essere incaricato di esprimere ogni sorta di sentimenti privati
e poiché è inoffensivo e non si può ritorcere contro, la musica può fare da supporto a
una vasta gamma di sentimenti, anche quelli distruttivi. Le potenzialità di utilizzare
uno strumento al fine di sublimare, esprimere o far conoscere la varietà dei sentimenti
ed emozioni risiedono nelle caratteristiche stesse dello strumento. Gli strumenti
resistono all’azione e così forniscono al suonatore un senso di padronanza e controllo
e essendo oggetti consistenti danno un senso di sicurezza. Attraverso gli strumenti
quindi si possono cominciare ad esplorare tutti i limiti di se stesso e dell’altro, a volte
55
attribuendo agli strumenti qualità speciali o facendoli diventare figure immaginarie.
Lo strumento è quindi ponte tra interno ed esterno del soggetto e allo stesso tempo tra
il terapeuta e il soggetto.
Non va inoltre dimenticata la rilevanza della produzione strumentale del paziente.
Infatti, al di là dello strumento in sé, è influente l’uso degli stessi ai fini musicali.
Ritmo, armonia, altezza, tempo, dinamica, timbro e eventualmente anche le parole in
una canzone sono i parametri fondamentali sia in musica, sia nella comunicazione
musicale attraverso gli strumenti. Come abbiamo visto anche precedentemente, l’uso
di questi parametri più o meno strutturato, isolato o combinato, consapevole o
imitativo, ci mostra la persona nella sua globalità e complessità emotiva, affettiva e
cognitiva.
COMUNICAZIONE
In musicoterapia la comunicazione ha un ruolo principe, perché non solo rappresenta
un possibile obiettivo dell’intervento terapeutico, ma allo stesso tempo è strumento e
contesto che favorisce il raggiungimento di altri obiettivi.
Proprio per questo motivo è molto importante innanzitutto conoscere a fondo gli
aspetti, le modalità e gli eventuali problemi con cui si esplica la comunicazione e
successivamente approfondire il binomio musica-comunicazione.
La comunicazione può essere analizzata secondo tre linee conduttrici: dal punto di
vista
della
sintassi,
che
analizza
i
problemi
relativi
alla
trasmissione
dell’informazione; dal punto di vista della semantica, che studia il significato della
comunicazione che viene attribuito sulla base di una convenzione precedente tra
trasmettitore e ricevitore; e infine dal punto di vista della pragmatica, cioè dell’analisi
dell’influenza della comunicazione sul comportamento. Nella pragmatica quindi
rientra tutta la comunicazione non verbale, e in quest’ottica “tutto il comportamento è
comunicazione e tutta la comunicazione influenza il comportamento.32”.
32
PAUL WATZLAVICH, JANET HELMICK BEAVIN, DON D. JACKSON - La pragmatica della comunicazione
umana – casa editrice Astrolabio, 1971, Roma – W.W. Norton & Co., Inc., 1967, New York, pag.16
56
Si definisce comunicazione numerica quella verbale e comunicazione analogica ogni
forma di comunicazione non verbale, dalle posizioni del corpo, alla gestualità, alla
mimica facciale, alle inflessioni della voce, alla sequenza, al ritmo, alla cadenza delle
stesse parole, come pure ai segni di comunicazione che sono presenti nel contesto in
cui ha luogo l’interazione.
Normalmente queste due forme di comunicazione coesistono, e anzi sono
reciprocamente complementari in ogni messaggio. In musicoterapia la comunicazione
numerica spesso ha un ruolo di secondo piano rispetto alla comunicazione analogica.
Watzlaviwick,
Beavin
e
Jackson
delineano
nel
libro
“Pragmatica
della
comunicazione umana” degli assiomi della comunicazione che enunciano semplici
proprietà della comunicazione che hanno fondamentali implicazioni interpersonali e
che risultano essere molto rilevanti in ambito terapeutico.
Il primo assioma afferma che, in compresenza, non si può non comunicare.33 La
comunicazione di conseguenza avviene anche quando non è intenzionale, conscia, o
efficace, e anche quando manca la comprensione reciproca. L’espressione e la non
espressione, l’azione o l’inattività, musica o silenzio hanno entrambe valore di
messaggio e impongono un comportamento in risposta.
Il terzo assioma della comunicazione afferma che “la natura della relazione dipende
dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti.34”. In effetti,
la comunicazione è un processo circolare in cui non c’è principio né fine. Spesso però
cerchiamo di determinare un rapporto causa-effetto nella comunicazione, un prima e
un dopo, interpretando e definendo così la natura della relazione stessa.
Il secondo assioma afferma che “ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un
aspetto di relazione di modo che il secondo classifica il primo ed è quindi
metacomunicazione.35”. Infatti, una parte del messaggio è quella che dà le
informazioni, rappresenta il contenuto, e un’altra parte si riferisce alla relazione tra i
due comunicanti. L’aspetto di contenuto nella norma viene trasmesso con un modulo
numerico, mentre il modo analogico solitamente trasmette l’aspetto di relazione.
33
Ibidem
Ibidem, pag.52
35
Ibidem, pag. 47
34
57
Infatti, mentre nel linguaggio numerico la trasmissione dell’informazione è molto
complessa, strutturata ed efficace, nel linguaggio analogico la sintassi è carente e la
trasmissione delle informazioni sulla natura della relazione non può essere che
ambigua. Tuttavia per quanto riguarda la semantica, nel settore delle relazioni è
efficace invece il linguaggio analogico. Tramite il linguaggio analogico in ogni
comunicazione implicitamente si propongono le regole future della relazione stessa.
Questo aspetto invece manca al linguaggio numerico.
Di fronte a un messaggio le modalità di risposta possono essere solo tre: rifiuto,
accettazione e disconferma. Ognuna di esse influenza il comportamento successivo e
non solo: va ad incidere anche sulla immagine dell’emittente del messaggio. In
effetti, l’uomo comunica non solo per definire la relazione, ma anche se stesso.
Sembra che il nostro cervello e i nostri organi di senso non possano percepire
l’oggetto in quanto tale, ma percepiscono la relazione e l’esperienza dinamica e in
movimento che facciamo di quello oggetto attraverso vari tipi di approcci. Quindi “la
consapevolezza che l’uomo ha di se stesso è sostanzialmente una consapevolezza
delle funzioni, delle relazioni in cui si trova implicato.36”.
Il dialogo, che si basa sul collegamento reciproco dei comportamenti, ha quindi un
aspetto sociale e allo stesso tempo personale e conferisce coerenza a noi stessi.
Attraverso il dialogo si ottiene un riconoscimento reciproco e avviene uno
spostamento nella direzione dell’altro. Il dialogo diventa quindi elemento
indispensabile di benessere e salute e, qualora questo si interrompa, la musicoterapia
può aiutare a ricostruirlo restituendo così alla persona il significato di sé stessa.
Rispetto alle modalità comunicative Gordon,37 coerentemente con la visione
rogersiana dell’uomo, asserisce che l’accettazione è un importante fattore per
instaurare un rapporto attraverso il quale l’altra persona può crescere, svilupparsi,
operare dei mutamenti costruttivi, imparare a risolvere i problemi, conquistare
benessere psicologico, diventare più produttiva e creativa, realizzare pienamente le
proprie potenzialità. Gordon individua, come una delle qualità fondamentali in
36
ibid. pag.21
THOMAS GORDON – Insegnanti efficaci – http://www.educare.it/Scuola/articoli/insegnante
efficace.htm
37
58
ambito educativo e nella relazione d’aiuto, la capacità di sentire e comunicare sincera
approvazione e stila un elenco di dodici errori nella comunicazione che vanno a
costituire delle vere e proprie barriere comunicative (1. Ordinare; 2. Avvertire,
minacciare; 3. Esortare, moraleggiare; 4. Consigliare, offrire soluzioni; 5. Persuadere
con argomentazioni logiche; 6. Giudicare, criticare, biasimare; 7. Ridicolizzare,
umiliare; 8. Interpretare, analizzare; 9. Fare apprezzamenti, approvare, 10.
Rassicurare, consolare; 11. Informarsi, indagare, interrogare; 12. Cambiare
argomento, minimizzare, beffarsi38).
Scardovelli39 approfondisce come si esprimono in musica le tre modalità
comunicative (rifiuto, accettazione e disconferma). In particolare egli afferma che in
un contesto di terapia l’accettazione si esprime attraverso la sintonizzazione sul piano
temporale, ritmico ed energetico, attraverso quindi l’imitazione empatica che
comunica all’altro “Ti sto ascoltando, sono con te, sono simile a te, ti accetto”. Egli
afferma che “la comunicazione autentica presuppone comprensione, presenza,
risonanza da parte di un altro essere umano.40”
In questa concezione “la musicoterapia può definirsi in senso lato come una pratica
clinica o riabilitativa focalizzata su taluni aspetti specifici della comunicazione non
verbale, cioè gli aspetti ritmici, temporali, energetici. (…) Il punto di vista
musicotarapeutico, in sostanza, si evidenzia e acquista una sua specificità proprio
nella rilevanza che attribuisce alla distribuzione e concatenazione temporale degli
eventi–comportamenti–comunicazioni (motori, sonori, visivi, gestuali, posturali ecc.)
e alla dinamica energetica degli stessi (aumento, diminuzione, variazione di forza,
energia, intensità).41”
La musica stessa può essere considerata, nella sua vera sostanza, un sistema di
comunicazione non verbale. L’interazione musicale abbraccia molti aspetti della
comunicazione non verbale e in particolare i parametri musicali esprimono la valenza
emotiva della comunicazione. Addirittura David Aldridge arriva ad affermare che la
38
Ibidem
MAURO SCARDOVELLI – Il dialogo sonoro – Cappelli Editore
40
Ibidem, paragrafo 42
41
Ibidem, paragrafo 43
39
59
base della comunicazione umana è musicale.42 Effettivamente la prosodia del
linguaggio, il tempo, il timbro, il volume e il tono sono elementi essenziali per la
comprensione anche del verbale, e in particolare ci consentono di cogliere il
contenuto emotivo.
Nella relazione con bambini con handicap il fattore comunicativo è molto importante
ed anzi è ancora più importante la conoscenza della loro grammatica e sintassi al fine
di facilitare l’istaurarsi di una comunicazione produttiva. In realtà la grammatica in
questi bambini non sembra differire molto da quella dei bambini piccoli, ma il lessico
invece appare molto più limitato, infatti, il repertorio di segnali disponibili alla
comunicazione è scarso. È necessario perciò dedicare un periodo all’osservazione e
all’ascolto del bambino per poter individuare, in quello che potrebbe sembrare un
insieme di comportamenti disordinati, casuali e privi di senso, qualsiasi tipo di
segnale. Questi comportamenti segnale, spesso privi di intenzionalità comunicativa,
utilizzati in modo circolare, ripetitivo e stereotipato, possono evolvere e acquisire
significato all’interno della relazione. Questi bambini, infatti, sono spesso chiusi nei
confronti del mondo esterno e sono incapaci di instaurare relazioni con gli adulti o
con altri bambini se non come, stereotipia, disordine o rifiuto. Essi trovano difficoltà
anche in alcune caratteristiche della comunicazione non verbale come la
sincronizzazione delle risposte, nel riconoscimento di un codice alla comunicazione
non verbale e nella scelta della struttura appropriata per la risposta. Le capacità
comunicative
comprendono
varie
abilità,
dalla
ricezione
(consapevolezza,
discriminazione, comprensione), all’espressione in tutta la sua complessità e varietà
(motoria, vocale, verbale; di emozioni; su imitazione, in risposta, su iniziativa del
soggetto stesso; ripetitiva o creativa). Nonostante queste difficoltà è possibile entrare
in sintonia anche con questi bambini e avviare con loro una relazione in cui la
comunicazione sia fluida, ordinata, organizzata e sorretta da emozioni positive.
Con la musicoterapia i comportamenti espressivi spontanei del bambino vengono
organizzati e possono acquistare prevedibilità e significato relazionale grazie alla
42
DAVID ALDRIDGE, Gestualità e dialogo musica come integrazione ermeneutica, tratto da A
cura di F. LAROCCA - Scienze ed Arti per l’Handicap, Atti del 9° Convegno Internazionale di
Musicoterapia 2002 - Libreria Editrice Universitaria, 2002, Verona
60
ripetitività e alla sistematicità delle sedute. La sfida della terapia consiste nel rendere
intenzionali, riflessivi e consapevoli forme di espressione che spesso sono
spontaneamente e inconsapevolmente significative. La musicoterapia è un esempio
fondamentale di come, qualora la parola venga a mancare, si possa dare vita a una
comunicazione significativa, tale da poter interpretare quali siano i bisogni degli altri.
In questo modo si avvia una comunicazione e si costituisce progressivamente una
base sicura comune. L’intervento terapeutico, all’inizio, si pone solitamente come
obiettivo la costituzione di una “base sicura”, che costituisce il punto di partenza per
qualsiasi cambiamento e consente al soggetto di esplorare sé stesso, la relazione, la
comunicazione arricchendo così la sua mappa del mondo.
RELAZIONE
Leggendo il libro di Bruscia “Definire la musicoterapia” si evince come la relazione
sia un punto cruciale e vitale di tale disciplina. Egli stesso definisce la musicoterapia
come un processo interpersonale finalizzato “in cui il terapeuta aiuta il cliente a
migliorare, mantenere o ristabilire uno stato di benessere, usando esperienze musicali
e le relazioni che si sviluppano loro tramite come forze dinamiche di
cambiamento43”.
La relazione può essere obiettivo, può servire da contesto o fungere da catalizzatore
per lo scambio terapeutico e per il cambiamento.
Sia la musica che la relazione sono parti integranti dell’incontro di musicoterapia. La
musica, infatti, contribuisce a far esplorare e a sviluppare varie modalità relazionali.
L’espressione sonora è di per se stessa legata alla relazione con l’altro, e a tutto ciò
che questo sottintende: rifiuto, accettazione, aggressione, dominio, accordo. Infatti,
mentre con il gesto si può conquistare uno spazio scegliendo se incontrare l’altro, in
musica l’espressione e quindi la conquista dello spazio comporta l’ingresso nello
spazio altrui e quindi obbliga alla relazione.44
43
KENNETH E. BRUSCIA – Definire la musicoterapia – Editografica srl, Roma, pag. 130
LAPIERRE A., AUCOUTURIER B. – La simbologia del movimento – casa editrice Padus,
Cremona
44
61
Inoltre la musica essendo una forma di comunicazione non verbale è in grado di
comunicare sulla relazione stessa. Infatti, come è già emerso, “ogni volta che la
relazione è il problema centrale della comunicazione, il linguaggio numerico è
pressoché privo di significato.45”.
In musicoterapia sono significative varie relazioni: tra elementi e parti della persona
stessa, tra persone, tra una persona e un oggetto, tra oggetti. Sicuramente i rapporti
più significativi ai fini del processo di cambiamento sono quelli soggetto–musica e
soggetto–terapeuta. Questi rapporti possono essere sperimentati durante un incontro
di musicoterapia con diverse modalità, musicale, spaziale, mentale, fisica.
Bisogna però sottolineare che a seconda dell’orientamento del terapeuta questi due
rapporti assumono pesi diversi. Se la musica è usata come terapia, il terapeuta lascia
alla musica il ruolo principale, quindi considera il rapporto paziente–terapeuta come
facilitatore del rapporto paziente–musica, e quest’ultimo diventa l’agente primario
del cambiamento terapeutico.
Se la musica è usata in terapia, la relazione paziente-terapeuta viene messa in primo
piano e diventa quasi una relazione più interpersonale che musicale. È la relazione
terapeuta–paziente a fungere da contesto principale per il cambiamento e trova un
supporto nel rapporto paziente–musica.
In ogni caso in musicoterapia l’agente catalizzatore del cambiamento è la relazione e
in particolare questo si esplica attraverso la modalità dell’accettazione.
La conferma è probabilmente il più grande fattore a garantire lo sviluppo e la stabilità
mentale. Il sentirsi accettati significa, infatti, sentirsi amati ed è enorme il potere che
scaturisce da questa sensazione: esso influisce nella crescita della persona in modo
totale, corpo e mente, ed è senz’altro la forza terapeutica più potente che si conosca,
capace di riparare a danni psicologici e fisici.
Infatti, l’uomo per acquisire consapevolezza di sé deve relazionarsi e comunicare.
L’autoimmagine che scaturisce dalle interazioni con l’ambiente è la base su cui il
soggetto costruisce la sua personalità. Ognuno di noi ha un’immagine del proprio sé
45
PAUL WATZLAVICH, JANET HELMICK BEAVIN, DON D. JACKSON - La pragmatica
della comunicazione umana – casa editrice Astrolabio, 1971, Roma – W.W. Norton & Co., Inc.,
1967, New York
62
reale e di un sé ideale. L’autoimmagine si forma attraverso la percezione di noi stessi,
dei nostri sentimenti in concordanza con i valori introiettati dai genitori o da altre
persone. Spesso può succedere che queste parti entrino in conflitto e che un soggetto
rifiuti una parte della sua esistenza, creando un’autoimmagine frammentata e
incoerente con la reale esperienza. Secondo Rogers,46 un periodo di considerazione
positiva da parte dei genitori e di altre persone nella vita di ognuno aiuta a realizzare
tutto questo.
La modalità del rifiuto seppure non sia positiva come quella dell’accettazione, a volte
può essere costruttiva. Infatti, è importante sperimentare anche il limite e la
resistenza. Vivere la distanza, il lontano e il vicino, in una situazione relazionale
permette al tempo stesso il dominio dello spazio e l’estensione della comunicazione.
Il rifiuto inoltre presuppone comunque il riconoscimento, sia pur limitato, di quanto
si rifiuta. Esso non nega necessariamente la realtà del giudizio.
Invece la disconferma è una modalità comunicativa che mina la relazione e
l’immagine di sé. Infatti, la disconferma è una risposta che non ha come oggetto la
verità o falsità del messaggio e quindi la verità o falsità della definizione che chi
emette il messaggio ha dato di se stesso. Essa nega il fatto stesso che la persona sia
emittente. La disconferma quindi nega l’esistenza dell’altro e porta, il soggetto
coinvolto in tale relazione, alla perdita del sé e all’alienazione.
La condizione che consente un’interazione efficace e non disturbata è che ciascuna
parte si accorga del punto di vista dell’altra. Utente e terapeuta mettono in gioco
entrambi qualcosa di sé e le loro personalità sono profondamente implicate nel
processo terapeutico. La relazione autentica è quella in cui l’utente si rapporta con la
musica o con il terapeuta per ciò che essi sono e per ciò che offrono nel presente.
A volte invece capita che i soggetti mettano in atto relazioni di trasfert. La relazione
di transfert è quella in cui l’utente si rapporta con la musica o con il terapeuta come
se fosse una persona proveniente dal passato. Questo tipo di relazione è motivato da
46
THOMAS GORDON – Insegnanti efficaci – http://www.educare.it/Scuola/articoli/insegnante
efficace.htm
63
esperienze relazionali non finite, e potrebbe avere effetti e risultati sia negativi che
positivi.
Per Scardovelli “la comunicazione autentica presuppone comprensione, presenza,
risonanza da parte di un altro essere umano.47”.
Nel modello di musicoterapia ispirato alla programmazione neuro linguistica (PNL) e
alla psicologia umanistica formulato da Scardovelli, l’obiettivo iniziale di un lavoro è
quello di trovare un punto di contatto, di creare una base sicura relazionale con il
soggetto, per poter avviare una comunicazione e per garantire al soggetto un contesto
di opportunità da cui può scaturire un cambiamento. Coerentemente con l’ottica
rogersiana, il terapeuta incoraggia e stimola il cliente ad esprimersi e a promuovere il
suo processo autonomo di maturazione psichica che avviene attraverso una graduale
consapevolezza dei propri processi e delle proprie tendenze. Il terapeuta è in realtà un
facilitatore: non è in grado di aiutare direttamente una persona, ma può solo
empatizzare con l’utente, assumendo temporaneamente il suo punto di vista e
cercando di guardare il mondo con i suoi occhi. Infatti, alla base di questa visione c’è
la fiducia nel paziente stesso. Ogni individuo si comporta nel modo più razionale
possibile date le circostanze (interne ed esterne) e ha già in sé la capacità di realizzare
le sue potenzialità e di attuare la realizzazione del proprio Sé.
Il mezzo per creare la base sicura è il ricalco. Il ricalco è un pattern trasversale ai
differenti modelli di musicoterapia in cui sono di importanza fondamentali gli aspetti
ritmici ed energetici, in quanto più primitivi come viene provato dalle ricerche
sull’interazione madre–bambino, e in cui invece sono meno importanti gli aspetti
melodici, timbrici ed armonici.
Il ricalco da un parte crea il fenomeno dell’empatia o della risonanza emotiva e
dall’altro consente al soggetto di aprirsi e fidarsi. L’imitazione empatica veicola un
forte messaggio di accettazione dell’identità dell’altro. Si instaura così il rapporto tra
cliente e terapeuta che fornirà al primo la “base sicura” di cui egli necessita per
esplorare il mondo.
47
MAURO SCARDOVELLI – Il dialogo sonoro – Cappelli Editore
64
Il ricalco è uno dei punti centrali della tecnica del dialogo sonoro. Nel dialogo sonoro
le persone comunicano tra loro attraverso i suoni prodotti con il proprio corpo, con la
voce, con oggetti qualsiasi, o con strumenti musicali: improvvisando, ascoltandosi
reciprocamente, reagendo ciascuno ai messaggi dell’altro. Un esempio tipico di
dialogo sonoro è quello che avviene tra madre e bambino, prima che il bambino
acquisisca l’uso del linguaggio: ciascuno reagisce ai segnali sonori o vocali dell’altro,
improvvisando, imitandosi reciprocamente, reciprocamente influenzandosi. Nei primi
tempi dell’infanzia una madre tende ad imitare il bambino più spesso, mentre questi
imita la madre man mano che cresce. Il comportamento imitativo ha una grande
importanza nello sviluppo e nella costruzione del linguaggio e nella costruzione della
comprensione del significato dell’azione congiunta.
Gli elementi costitutivi del dialogo sonoro sono il matching, che significa
combaciare, il pacing, che vuol dire andare al passo, e il leading, cioè il condurre.
Mathing e pacing costituiscono il ricalco.
Il leading è l’apporto di novità che introduce il terapeuta con la sua creatività, con la
sua presenza come ascoltatore empatico e come interlocutore partecipe. Mentre il
ricalco favorisce e consolida il rapporto, il leading introduce delle variazioni e delle
diversità, favorisce il processo di differenziazione o non confusione.
È importante trovare un equilibrio tra ricalco e guida.
Possiamo ritrovare questi due elementi, ricalco e leading, anche nel fare musica in
modo sincrono o antifonale. Entrambi questi modi comprendono elementi di accento
e differenziazione.
In particolare l’alternanza del turno fornisce una struttura ed un’immagine di dialogo
e fa parte dell’accomodamento simmetrico tra adulto e bambino. Infatti, il bambino
attraverso il dialogo, che primariamente è sonoro e musicale, sviluppa la capacità di
comunicare le proprie intenzioni e di reagire al proposito espresso dall’adulto.
L’adulto non solo dà spazio al bambino nella conversazione verbale e non, ma è
anche molto abile a evidenziare i comportamenti che sono rilevanti e socialmente
significativi. La mamma risponde ai messaggi dei bambini imitandolo: l’imitazione
dimostra ascolto e comprensione dei comportamenti del bambino. L’imitazione però
65
non è mai perfettamente speculare ma, pur assomigliando alla produzione del
bambino, contiene sempre qualcosa in più. L’adulto in questo modo attira
costantemente il bambino a gradi di iterazione sempre più elevati di quanto il
bambino sia effettivamente capace a quello stadio.
Nel modello del Dialogo Sonoro di Scardovelli la relazione madre-bambino ispira il
modello relazionale musicoterapeuta-paziente.48
A fianco all’approccio appena illustrato, che trova i suoi fondamenti teorici nella
PNL, M. H. Hughes, nel libro “Manuale di Arte e Scienza della Musicoterapia”49,
sottolinea l’importanza di raffrontare queste due interazioni terapeuta–paziente e
madre–bambino in un approccio psicoanalitico anche in considerazione del fatto che
il terapeuta assume quasi il ruolo della madre che sostiene il bambino e rende le
emozioni di quest’ultimo contenibili. In un’ottica psicoanalitica gli elementi rilevanti
durante un incontro di musicoterapia sono i significati inconsci che i pazienti
comunicano mediante i loro movimenti, medianti i suoni e i comportamenti regressivi
caratteristici delle prime età della vita che spesso compaiono durante una seduta.
Questi comportamenti esprimono le paure inconscie del paziente e il terapeuta, come
una madre, funge da contenitore aiutando il soggetto a trattenerle, esprimerle ed a
ragionare su di esse, fornendogli l’opportunità per un cambiamento interiore.
Al di là del modello psicoanalitico si può comunque trovare sostegno nel raffrontare
le due modalità di interazione osservando come gli scambi dialogici tonico–fonici–
emozionali tra madre e bambino si caratterizzino per il ritmo, lo spazio, l’intensità e
la contemporaneità più o meno armonica, così come la relazione musicoterapeuta–
paziente si fonda su un agire non verbale costituito dagli stessi aspetti.
La relazione in musicoterapia, proprio per questo suo legame con la relazione
primaria, può essere vista come l’indicatore che individua l’espressione
dell’affettività e dei diversi sentimenti. La relazione è quindi anche legame, rapporto,
nesso, con se stessi, con gli altri, con lo spazio, con gli oggetti.
48
Ibidem
TONY WIGRAM, BRUCE SAPERSTON, ROBERT WEST – Manuale di arte e scienza della
musicoterapia – casa editrice Ismez, 1997, Roma – Harwood Publishers GmbH, 1995, Amsterdam
– pag. 325 – 335
49
66
La relazione è il parametro che sintetizza e riunisce tutti gli altri parametri e nella sua
valutazione quindi, insieme ad indicatori specifici, ricompaiono elementi già
osservati. Nella relazione entrano in gioco lo sguardo, il corpo, le distanze. La
relazione inoltre si fonda sulla comunicazione e quindi comprende il verbale e tutti
gli indicatori della comunicazione analogica. Nella relazione musicoterapeuta–
soggetto alcuni parametri, come il condividere lo stesso strumento o il passaggio
degli strumenti, il suonare sincrono o antifonale, l’accettazione del leading e delle
consegne, diventano i mediatori della comunicazione e allo stesso tempo fungono
come criteri per poter arrivare alla lettura della relazione. Inoltre proprio perché la
relazione nasce da un’alchimia unica e irripetibile tra terapeuta, soggetto, musica e
contesto, non ho potuto non includere anche indicatori qualitativi della relazione che
non attenevano strettamente al piano del visibile, ma a quello del vissuto.
67
GRIGLIA DI OSSERVAZIONE
Approfondendo i singoli indicatori appare evidente la loro complessità: essi mettono
in evidenza molteplici aspetti del soggetto. Ho quindi ritenuto opportuno focalizzare
dei sottoindicatori che fungano da guida all’osservazione degli incontri.
La griglia osservativa emersa è la seguente:
• Osserva
• Diretto - Indiretto
Sguardo
• Agli strumenti
• Al terapeuta
• Altro
• Tonicità
• Energia
• Postura:
In chiusura - In apertura
Fissa - Mobile
• Movimento:
Tempi del movimento
Direzione del movimento
Grosso-motorio - Fine
Postura e Movimento
Usa entrambe le mani o
una sola
• Deambulazione:
Ritmicità del passo
Velocità
• Coordinazione
• Consapevolezza del corpo
• Stereotipie:
Dove
68
Ritmiche - Non ritmiche
• Distanza dal terapeuta e dagli strumenti
• Come si colloca nello spazio del setting
• Il gesto musicale
• Altro
• Pulsazione ritmica :
Assente - Presente
Velocità
Flessibile - Non flessibile
• Presenza di sequenze ritmiche
Comportamento Ritmico
• Durata
• Pause
• Consapevolezza del ritmo del terapeuta
• Imitazione dei modelli ritmici
• Altro
• Come avviene la scelta dello strumento:
Immediata
Dubbiosa
Decisa
Strumenti
Preceduta dall’osservazione
• Preferenze dimostrate
• Dimostra interesse per:
Il timbro
La forma
L’altezza del suono dello
69
strumento
Strumenti Melodici
Ritmici
• Reazioni di fastidio
• Li evita
• Li esplora:
Come
• Si relaziona ad essi
• Uso funzionale
• Uso non funzionale:
Simbolico
• Movimento degli strumenti
• Produzione musicale del paziente:
Intensità
Velocità
Ritmica
Melodica
Aleatoria
Consapevole o su imitazione
• Altro
• Ricezione:
Consapevolezza
Discriminazione
Comunicazione
Comprensione Verbale e/o
Non verbale
• Espressione:
Modalità (motoria, vocale,
70
verbale)
Di Emozioni
Imitazione
In risposta
Di sua iniziativa (chiede)
Ripetitività - Creatività
• Altro
• Lo sguardo incontra l’altro
• Distanza dal terapeuta
• Cerca la relazione
• Evita la relazione
• Modalità comunicative
• Oppositivo
• Imitativo
Relazione
• Provocatorio
• Accetta il leading
• Presenza - Assenza del prendere il turno
• Chiede - Risponde
• Passaggio di strumenti
• Condivisione dello stesso strumento
• Accetta di suonare insieme
• Reazione di fronte a una consegna
• Altro
Note
•
71
CONCLUSIONI
Osservando questa griglia si può notare che alcuni sottoindicatori sono in comune tra
più parametri. Questo dipende dal fatto che possono essere significativi in più aree,
come nel caso dello sguardo al terapeuta che è un indicatore essenziale sia all’interno
del parametro Sguardo che della Relazione.
I sottoindicatori scelti attengono al piano del visibile e dell’agito. Solo alcuni fanno
parte necessariamente di una dimensione più soggettiva entrando nella sfera del
vissuto e di conseguenza un altro osservatore potrebbe delinearli diversamente.
Appartiene a questa categoria, per esempio, il ritenere un soggetto oppositivo o
provocatorio all’interno del parametro Relazione, la cui valutazione è strettamente
connessa non tanto a fatti visibili e condivisibili quanto al vissuto del terapeuta.
Tuttavia, come è stato sottolineato a proposito dell’osservazione, i vissuti e le
emozioni del terapeuta nell’ambito della terapia e dell’osservazione fungono da
barometro.
L’impronta soggettiva data a questo lavoro era inoltre palese sin dai presupposti.
Infatti ho scelto questi indicatori di cambiamento (Sguardo, Postura e Movimento,
Comportamento Ritmico, Voce, Strumenti, Relazione, Comunicazione) proprio per la
loro forte componente comunicativa. Nella comunicazione non è influente solo
l’emittente del messaggio e il messaggio stesso, ma anche il ricevente che decodifica
il messaggio secondo codici diversi e personali (letterale, emotivo, relazionale…).
Nella comunicazione e quindi nella relazione entra in maniera preponderante il
mondo di entrambi i soggetti e sarebbe limitante non tener conto quest’aspetto.
Inoltre proprio perché per motivi di analisi ho dovuto limitare le variabili prese in
considerazione, centrando l’attenzione sul soggetto, ho ritenuto opportuno lasciare
uno spazio ulteriore, le Note, che consente di esplicitare di volta in volta eventuali
altri elementi rilevanti. Nelle note si possono esplicitare eventuali legami e
interconnessioni tra parametri, elementi e azioni osservate che non rientrano negli
indicatori scelti, lo sviluppo cronologico degli eventi, possibili interpretazioni della
72
punteggiatura della comunicazione, i vissuti del terapeuta, le ipotesi di lavoro e i
dubbi emersi nell’incontro. Infatti vorrei ulteriormente sottolineare che, sebbene ogni
indicatore preso singolarmente già contempli una molteplicità di aspetti del soggetto,
assume pregnanza in un quadro generale dell’incontro e del soggetto quando viene
confrontato con le osservazioni degli altri indicatori. Il contesto è rilevante e
significativo nella comprensione dei fatti.
Questa griglia mette in evidenza un ampio spettro di comportamenti espressivi e
comunicativi del soggetto sia intenzionali che inconsapevoli. Il tentativo è quello di
rispettare la complessità e l’unicità del soggetto cercando di mantenere una visione
olistica. Separando l’osservazione dall’interpretazione e dalla lettura simbolica ho
cercato di evitare qualsiasi tipo di categorizzazione che possa ingabbiare o essere una
forma di riduzionismo del soggetto stesso.
L’osservazione solitamente viene presa in considerazione come uno dei mezzi
utilizzati nella fase iniziale di accertamento. L’accertamento è il processo mediante il
quale il terapeuta raccoglie le informazioni delle quali ha bisogno per comprendere
ed aiutare il paziente mediante interviste cliniche che riguardano la storia personale,
musicale e clinica del paziente, attraverso la raccolta di dati anche da altre discipline
e attraverso l’osservazione del paziente durante gli incontri di musicoterapia.
L’osservazione quindi riveste una particolare importanza all’inizio della terapia
quando il bisogno di ricevere informazioni è maggiore, ma in realtà essa permea tutta
la terapia. Infatti, costituisce spesso un processo ininterrotto e, in questo caso,
valutazione e osservazione vanno a costituire un unico processo. L’osservazione
quindi non è solo una pratica limitata ad alcuni incontri ma è parte integrante
dell’approccio terapeutico. Infatti, osservare non significa uscire dalla relazione,
trincerarsi dietro modelli e teorie precostituite, creare barriere tra terapeuta e soggetto
sia a livello spaziale che temporale. L’osservazione come pratica permanente e così
come è concepita in questa tesi, è un’osservazione diretta e partecipe che acquista
valore proprio all’interno della relazione. L’osservazione non mira a cogliere la realtà
del soggetto, cosa impensabile proprio perché lo stesso osservare muta l’oggetto
73
stesso osservato, come afferma lo stesso principio di indeterminazione di
Heisenberg.50 È un accogliere gli eventi, contenerli in sé, comprendere.
Queste caratteristiche di accoglienza, di sospensione del giudizio, di non orientare gli
eventi hanno molto in comune con l’empatia e con la visione del terapeuta come
facilitatore di un processo di cambiamento. Aucouturier afferma che “la cosa per noi
più importante, è l’essere disponibile e il saper attendere, il non voler affrettare, in
una preoccupazione d’efficienza apparente che non è altro che la proiezione
dell’ansia
pedagogica,
un’evoluzione
che
richiede
tempi
di
integrazione
sufficientemente lunghi, per permettere l’investimento e il progressivo superamento
del piacere legato a ciascuna tappa.51”. Ritengo che questa frase, riferita al terapeuta,
contenga elementi importanti anche per l’osservazione stessa.
Questa visione dell’osservazione potrebbe sembrare in contrasto con il tentativo di
elaborare uno strumento di osservazione e delinearne una prassi. In realtà questo
contrasto non sussiste se non nel modo con cui questo ed altri strumenti di
osservazione vengono utilizzati: se si resta nella relazione, nella domanda, nel limite
e spesso nel non senso, una griglia di osservazione non altera l’osservazione, ma anzi
la rende un atto consapevole ed intenzionale.
L’obiettivo di questa griglia era di dare del soggetto un quadro ampio e flessibile e
questa sua caratteristica la rende adatta ad essere utilizzata in una molteplicità di casi.
La valutazione che emerge dall’utilizzo di questa griglia, come afferma Bruscia,
diventa “un mezzo per tracciare una mappa dei risultati ai vari stadi della terapia.52”.
La valutazione è un processo duplice che riguarda sia la determinazione dei progressi
del paziente sia la valutazione dell’efficacia dei vari interventi e delle strategie di
trattamento.
Da un lato quindi la valutazione si preoccupa di stabilire se una strategia è stata
efficace nell’indurre un cambiamento o nell’aiutare il paziente a far fronte ad un
50
A cura di BRUTTI CARLO e RITA - Quaderni di Psicoterapia Infantile, Uso e abuso
dell’osservazione – Edizioni Borla, 1996, Città di Castello (PG)
51
LAPIERRE A., AUCOUTURIER B. – La simbologia del movimento – casa editrice Padus,
Cremona, pag. 32
52
BRUSCIA KENNETH E. – Modelli di improvvisazione in Musicoterapia – Ismez editore, Roma
– Charles Thomas Publischer, 1987, Springfield, Illinois, U.S.A.
74
particolare obiettivo e diventa così una verifica della terapia, del metodo e per lo
stesso terapeuta. Da questo punto di vista, sebbene questa tesi si sia posta come
obiettivo la valutazione del cambiamento del paziente e lo strumento di osservazione
elaborato a tal fine sia mirato ad avvicinare e comprendere il mondo del soggetto,
essa consente anche al terapeuta di confrontarsi con se stesso e con i propri limiti.
L’osservazione e la valutazione sono a mio parere strumenti di crescita personale e
professionale: attribuisco ad essi un grande valore proprio perché permettono di avere
un rapporto dialettico innanzi tutto con se stessi.
Dall’altro lato la valutazione serve a determinare i progressi di un paziente verso il
raggiungimento degli obiettivi della terapia. A tal fine si osserva qualsiasi
cambiamento del paziente conseguente al trattamento e si mette a confronto la
condizione del momento con quella precedente. Proprio per questo i dati raccolti
nelle prime sedute sono estremamente rilevanti perché possono fornire delle linee
guida e dei criteri per valutare i progressi raggiunti.
Questo lavoro da un lato quindi può rappresentare un reale, anche se modesto,
contributo a rendere analizzabile il cambiamento in musicoterapia in maniera
trasversale ai vari modelli consentendo il confronto tra diverse interpretazioni.
Dall’altro lato contribuisce anche a sollevare e a mettere in evidenza elementi ed
aspetti che meriterebbero un’ulteriore e successivo approfondimento anche attraverso
un’accurata taratura di tale strumento attraverso la sua applicazione in una
molteplicità di casi clinici.
75
76
MUSICOTERAPIA PER AUDIOLESI
di Marta Bonato
L’udente che si approccia al lavoro con il non udente
Conoscere una verità […]non ci esime dallo
scoprirne altre, ma anzi ci facilita.
Descartes (regulae ad directionem ingenii, I Vrin)
Il deficit uditivo
Il deficit rappresenta quel parametro che vuole definire l’entità del difetto e della
perdita rispetto a una norma ideale; questo per differenziare lo stato di handicap di
cui fanno parte gli svantaggi a cui va incontro, in questo caso, un soggetto audioleso
ad esempio nella vita scolastica e sociale.
Definiamo in generale "audioleso" qualunque individuo affetto da sordità, cioè non in
grado di percepire una determinata gamma di suoni. Va subito precisato che le
caratteristiche del danno uditivo variano notevolmente da soggetto a soggetto in base
al profilo della percezione. È raro che vi siano casi di sordità profonda, che vi siano
cioè persone che non avvertono nessun suono.
Generalmente tutti i soggetti audiolesi odono i suoni gravi, quali quelli prodotti dalla
percussione del tamburo, per esempio, purché l’intensità (il volume) sia adeguato alla
percezione uditiva.
Un tempo, quando non esistevano le strumentazioni sofisticate oggi usate per la
diagnosi e vi era ancora una scarsa conoscenza di questa patologia, accompagnata da
una diffusa incompetenza della fisica del suono da parte dei pediatri, molti bambini
audiolesi non venivano riconosciuti tali. I genitori, ansiosi per il ritardo del
77
linguaggio del figlio, venivano generalmente rassicurati dal medico poiché il
bambino aveva reagito (girando la testa, sbattendo le palpebre, ecc.) al forte battito
delle mani o al colpo del pugno sul tavolo (su cui sedeva il bambino!).
Di solito l’orecchio umano distingue 400.000 suoni; in condizioni uditive normali
chiunque sa localizzare una sorgente sonora usando solo l’orecchio.
Riconosciamo le voci familiari anche se modificate dalle distorsioni di natura
elettrica dovute al telefono e, purché siano di intensità sufficiente, distinguiamo l’uno
dall’altro l’abbaiare di un cane, lo stridere di una ruota e persino il passo di una
persona nota.
L’orecchio umano è sensibile ad una vasta gamma di frequenze compresa tra 16 e
16.000 vibrazioni al secondo (Hz).
Come la frequenza, anche l’intensità è una caratteristica fisica del suono e come tale è
commensurabile. Unità di misura dell’intensità è il decibel (dB). Il suono si produce
ogni volta che un corpo vibra ad una velocità sufficiente a propagare un’onda nel
mezzo in cui esso si trova.
Perché sia percepito, il suono, come già detto nel capitolo precedente, deve
raggiungere l’orecchio, il quale lo trasmette al cervello, dove potrà essere registrato
come evento in corso nella realtà che circonda l’ascoltatore. A seconda delle
sensazioni, diverse da individuo a individuo, cui è stato in precedenza associato, un
suono è in grado di provocare una molteplicità di emozioni e di reazioni fisiche.
Il cervello, centro della memorizzazione dei suoni, accumula sensazioni sonore
probabilmente già in fase prenatale (presumibilmente a partire dal settimo mese di
gestazione, con il completamento dello sviluppo dell'orecchio interno). È dunque nel
cervello, dove il viaggio dei suoni termina un istante dopo aver avuto inizio.
L’udito diventa il fondamentale risolutore di qualsiasi comunicazione sonora. Gli
elementi fin qui enunciati ci consentono di delineare con maggior precisione la
situazione del soggetto audioleso. Il suo problema primario e immediato consiste nel
non percepire una normale conversazione, la voce, il messaggio verbale codificato
ottenuto facendo vibrare le corde vocali.
78
Le corde vocali vibrando emettono suoni (frequenze fondamentali) che nel loro
percorso di uscita dalla bocca attraversano diverse cavità oro-bucco-faringee e
subiscono varie modificazioni, arricchendosi di armoniche: da qui i suoni complessi
della voce. La voce umana di conversazione interessa una gamma di frequenze che
oscilla mediamente tra 125 e 8.000 Hz.
Tanto è maggiore l’intensità necessaria a far percepire le diverse frequenze, tanto più
grave è la sordità dell'individuo.
Si riporta qui di seguito la classificazione internazionale delle sordità:
Perdita da 20
a 40 dB
sordità lieve
Perdita da 40
a 70 dB
sordità media
Perdita da 70
a 90 dB
sordità grave
Perdita maggiore di
a 90 dB
sordità profonda
Il problema del linguaggio verbale è tanto più grave quanto più è ridotta la dinamica
dell’udito. Una perdita uditiva media altera e distorce i suoni delle parole udite, così
da renderne difficile la comprensione, mentre il linguaggio risulta confuso e
gravemente dislalico (spesso la difficoltà di sentire viene diagnosticata come ritardo
mentale). Una sordità grave o profonda può ledere l’udito nell’intera banda delle
frequenze percepibili, oppure soltanto in una parte importante della banda stessa,
provocando una conseguente impossibilità di percepire qualsiasi suono della voce
umana. Non potendo udire, non vi è da parte dell'individuo lo stimolo alla produzione
vocale e conseguentemente all'emissione della voce, di cui sarebbe peraltro capace,
essendo l'apparato fonatorio in sé integro.
La sordità grave non inibisce solo l’acquisizione del linguaggio verbale, ma produce
una concatenazione di effetti collaterali, che vanno dalla difficoltà immediata di
percezione dello spazio circostante fino alla maggiore tendenza all’insicurezza e alla
tensione emotiva, determinando così l'insogere di gravi e complesse problematiche
che investono la globalità della comunicazione.
Il soggetto con deficit uditivo viene a trovarsi in una situazione d’isolamento
esistenziale: percepisce se stesso come diverso, isolato non solo per difetto di
79
comunicazione verbale, ma anche per l’altrui incomprensione dei propri messaggi,
desideri ed esigenze.
Il bambino audioleso ha gli stessi bisogni del bambino udente ma, non avendo
instaurato con l’ambiente circostante gli stessi contatti che ha quest’ultimo, vive uno
stato di deprivazione affettiva, a causa della quale le proprie reazioni risultano
alterate e sovente percepite esagerate.
Va tenuto presente che il bambino con deficit uditivo è un soggetto potenzialmente
normale, che struttura un comportamento anomalo sia secondo il modo in cui vive la
disabilità, sia soprattutto in rapporto a come l’ambiente sociale che lo circonda
reagisce alla sua sordità.
Bisogno fondamentale del bambino audioleso è sentirsi “presente”, compartecipe di
una condizione o di una situazione comune; ma la presenza di un individuo si attua
quando questi riesce a instaurare con gli altri delle relazioni; stabilire dei rapporti è
altresì la condizione fondamentale per l’apprendimento della lingua.
Ne consegue che la possibilità di recupero non dipende solo dalla gravità del danno
organico ma soprattutto dall’esistenza di risposte affettive capaci di accogliere e
rendere partecipe il bambino.
E’ certamente vero che l’essere audiolesi costituisce una condizione pregiudizievole
alla comunicazione, ma non è altrettanto scontato che debba esservi una
corrispondenza e un allineamento inevitabile tra i livelli della menomazione
fisiologica e i livelli di deficienza della comunicazione. Quest’ultima è il risultato di
complesse modalità di trasmissione e di ricezione di informazioni, sensazioni,
percezioni d’ambiente e di situazioni. Il linguaggio non è l’unico mezzo per
instaurare la comunicazione, che si avvale di altri strumenti quali la gestualità, la
prossemica, la mimica facciale e posturale e, più in generale, tutte le connotazioni
relazionali del comportamento.
Il deficit uditivo inibisce, frena o altera il processo di acquisizione delle informazioni
accessibili attraverso il linguaggio verbale, ma lascia inalterate le capacità di
apprendimento e di impiego di altre forme di comunicazione, a meno che alla sordità
non si aggiungano altri fattori problematici.
80
Sarà importante quindi procedere su due fronti:
-allenamento acustico-sensoriale;
-incrementare il vocabolario, far apprendere forme di conoscenza astratte,
generalizzate, e lavorare sulla comprensibilità.
L’esperienza è un buon metodo per insegnare non a dire parole come “fonemi
collegati” ma utilizzarle come espressione corrispondenti a un vissuto da comunicare.
Da ciò si capisce quanto si debba lavorare con la persona nella sua globalità e quanto
sia importante fare leva sulla sua carica emotiva, che servirà da motivazione
intrinseca.
Il recupero educativo e riabilitativo deve coinvolgere la persona attraverso l’utilizzo
delle esperienze.
A differenza di altri deficit, la sordità non si manifesta con segnali esterni visibili;
non è pertanto facilmente riconoscibile come tale in sede di approccio comunicativo e
nell'interazione sociale quotidiana. Rivolgendo la parola ad una persona sorda, le sue
difficoltà di comprensione causate da parole pronunciate in fretta o senza guardarla
direttamente in volto (pensiamo a una frettolosa richiesta occasionale di indicazione
stradale, di orario ecc.) genera spesso nell’interlocutore un feedback negativo.
L’espressione interrogativa del volto (difficilmente un sordo capisce al volo una
richiesta verbale specie se proveniente da un estraneo), la voce gutturale e
un'accentuata gestualità delle mani allontanano l’interlocutore, che può essere portato
a ritenere di aver accostato una persona socialmente poco disponibile.
Il non udente ha imparato a leggere nel volto degli altri espressioni di incredulità, di
incomprensione; egli si è costruito la propria identità attraverso questi feedback e
finisce col rinforzare i danni derivanti dalla sordità.
La sordità implica la separazione. Chi ha difficoltà nella comprensione delle parole,
pur trovandosi fisicamente all’interno di un contesto sociale, in realtà ne risulta
escluso, separato dagli altri.
Concludendo, il deficit uditivo provoca delle problematiche sociali, l’intervento va
quindi esteso alla promozione della persona nell’ambiente in cui essa vive.
81
La rieducazione sonora dell’audioleso o della persona con impianto cocleare è
centrata sul deficit sensoriale, l’intervento è volto a incrementare le capacità di
discriminazione e di attenzione verso mondo dei suoni. È tanto più importante quindi
porre attenzione all’armonizzazione dell’individuo facendogli percepire la sua
integrità.
Accorgimenti da utilizzare con persone con deficit uditivo
Ritengo opportuno soffermarmi aD illustrare gli accorgimenti utili per predisporre il
setting in modo idoneo e per rendere più efficace la comunicazione.
La stanza deve essere insonorizzata in modo che rumori esterni non creino
interferenza con i suoni della terapia; anche i rumori interni alla stanza devono essere
ridotti al minimo, per cui sarà importante prestare attenzione anche a fonti di disturbo
quali i condizionatori d’aria o altre apparecchiature che possano produrre ronzii.
La comunicazione verbale con la persona con deficit uditivo dovrà adottare alcune
indispensabili strategie comunicative:
• posizionarsi di fronte all’ascoltatore ad una distanza compresa tra 1 e 1,5 metri;
• il viso deve essere ben illuminato (non in controluce);
• i movimenti della fonazione non devono essere mascherati (mano davanti alla
bocca, masticazione, ecc...) o troppo accentuati;
• richiamare l’attenzione della persona prima di cominciare il discorso;
• parlare con un'intensità di voce normale (60-65 dB);
• la velocità dell’eloquio deve essere lievemente ridotta rispetto alla norma;
• usare frasi brevi e costruzioni sintattiche semplici;
• mantenere un discorso lineare e contestualizzato;
• fare uso, se necessario, di espressioni facciali e gestuali per meglio convogliare
il significato del messaggio verbale;
82
• utilizzare un vocabolario adatto all’esperienza, alla cultura e all’età del
soggetto;
• enfatizzare la parola chiave della frase;
• non sostituirsi al soggetto nell’espressione;
• verificare che abbia capito;
• rispettare i tempi nel comprendere, rispondere, esprimere;
• elogiare e incoraggiare il soggetto per gli obiettivi conseguiti;
• mostrare il proprio interesse verso la persona nella sua globalità e non solo in
quanto soggetto da riabilitare;
• se si svolgono attività di gruppo posizionare le persone in cerchio.
Il livello di lettura labiale del paziente con impianto cocleare condiziona inizialmente
la comunicazione; in seguito l’apporto di informazione uditiva, sommata a quella
visiva, riduce le difficoltà di comprensione del messaggio.
Perché la musicoterapia con soggetti audiolesi
L’orecchio è l’organo dell’udito, il suo utilizzo è essenziale, sembra essere il
principale tra i nostri cinque sensi. È difficile immaginare come sarebbe il mondo se
non avessimo la facoltà di udire. L’udito è il senso su cui facciamo massimo
affidamento per quasi ogni aspetto della nostra vita quotidiana. La perdita dell’udito è
un deficit sensoriale ma l’handicap che ne deriva è la mancanza della comunicazione,
fondamento della nostra esistenza sociale e cognitiva.
Il fine dell’addestramento uditivo è l’ascolto, inteso come processo mentale più che
fisico.
La persona audiolesa, a causa del suo deficit uditivo, ha una percezione delle
informazioni sonore debole a livello delle frequenze di intensità e disturbato a livello
delle frequenze di timbro. I suoni musicali, rispetto a quelli del linguaggio, veicolano
al cervello una maggiore e più ricca varietà di informazioni.
83
La musicoterapia considera e concilia allo stesso tempo:
• la dimensione artistica della musica, che implica lo sviluppo della sensibilità,
della creatività, del gioco sonoro e musicale, così come il rispetto delle forme
differenti che la musicalità può assumere da un individuo a un altro;
• la dimensione linguistica della musica, che partecipa allo sviluppo del
linguaggio, dalla sua genesi alla qualità della parola.
Questo permette un vasto utilizzo del suono non solo in ambito puramente
addestrativo ma anche in quello del vissuto e dell'armonizzazione con gli altri.
La relazione con il suono stimola in modo naturale sia l’ascolto che la produzione
sonora nel soggetto impiantato; lo incoraggia a migliorare il proprio linguaggio e la
qualità dell’espressione, consentendogli di ripercorrere le tappe di acquisizione del
linguaggio tipiche della fase di apprendimento linguistico dell'età infantile. Tipico è
l’esempio del bambino che apprende il linguaggio su imitazione e risposta a stimoli
materni (cioè della persona su cui basa la fiducia e il legame affettivo).
La modalità con cui si presenta un setting musicoterapico incoraggia la persona a
sperimentare, senza ansie da prestazione, il suono, la propria voce, il corpo, gli
strumenti.
L’avventura sonora che ne scaturirà sarà un’alternarsi di emozionalità, sia di quelle
trasmesse dalle vibrazioni ascoltate sia di quelle prodotte in prima persona.
L’interiorizzazione e la memorizzazione del suono avverrà in armonia con tutto il
corpo.
L’impianto cocleare (I.C.) , in quanto orecchio artificiale, è lo strumento che permette
di udire, ma sono i meccanismi cerebrali nella loro complessità che costituiscono
l’apparato da “istruire” per dare un significato al suono, affinché dalla percezione
sensoriale si possa pervenire alla decodifica e all’interiorizzazione. È su questo
versante che la musicoterapia è chiamata a intervenire e ad incidere con maggior
efficacia.
Il linguaggio verbale consta di due componenti essenziali: la componente
fonematica (che veicola informazioni di tipo lessicale ("casa") ma anche
84
"grammaticale" (la "e" in "case") e la componente soprasegmentale (prosodia,
velocità, dell'eloquio, cadenza, intonazione ecc...)
Il sordo profondo percepisce di fatto solo questa seconda componente, che in un
soggetto udente svolge invece una funzione "accessoria" e di supporto alla
componente fonematica.
Il soggetto impiantato, a differenza del sordo profondo si trova, grazie
all'impianto, nella posizione di poter ripristinare (anche se solo in parte e in modo
incompleto) la facoltà di percepire ed elaborare le informazioni di tipo
fonematico.
La musicoterapia interviene:
a) per riequilibrare il soggetto;
b) quale supporto alla riabilitazione sonora.
Criteri di selezione dei candidati per l’impianto cocleare
Vi sono dei criteri in base ai quali selezionare le persone più idonee ad essere
impiantate. In ogni caso non dovranno esserci controindicazioni mediche e audio
ontologiche.
Bisogna anche ricordare che i risultati ottenibili nell’ambito della sfera della
comunicazione nella persona impiantata risulteranno direttamente proporzionali alla
durata della deprivazione uditiva.
Le analisi per l’individuazione dell’utenza vengono differenziate nei test
pscologici/logopedici in base all’età della persona, allo scopo di poter meglio
calibrare la metodologia e il tipo di indagine secondo la fase di sviluppo in cui si
trova il soggetto; nelle valutazioni mediche ontologiche la differenziazione è attuata
invece in base alla plasticità fisica e mentale che si differenzia molto tra adulto e
bambino.
Il candidato viene quindi sottoposto a una serie di test:
85
• valutazione da parte del medico-internista;
• test audiometrici e vestibolari;
• test neurofisici;
• test neuropsichiatrici;
• studio per immagini;
• funzionalità del labirinto;
• test logopedici.
Questi ultimi, come già detto, sono differenziati in base all’età del soggetti e
forniscono informazioni funzionali anche alla riabilitazione.
In termini generali, per quanto riguarda i bambini, si può dire che si vengono
impiantati sia quelli con sordità preverbale che post-verbale; in entrambi i casi si
prediligono bambini che non traggono beneficio dall’utilizzo della protesi acustica o
non la possono utilizzare in modo consono.
In particolare nel bambino questi sono i parametri presi in considerazione: essi
valgono sia per una situazione di sordità preverbale che postverbale:
• Età : l’età ideale per impiantare un soggetto con sordità profonda è intorno
ai tre anni (l’individuo ha una elevata plasticità cerebrale e predisposizione
alla comunicazione verbale).
• Capacità uditiva: il bambino più idoneo all’impianto è quello sordo totale o
profondo (ciò viene valutato tramite un accurato esame audiometrico).
• Produzione verbale: che valuta il livello e la produzione fino a 3-4 anni;
oltre questa età valuta la competenza fonetico-fonologica, morfosintattica e
semantico-lessicale.
• Livello cognitivo: riguarda le conoscenze acquisite, la capacità di cogliere e
trattenere stimoli polisensoriali, emotivi “investiti da parole”. Ciò avviene
attraverso la detezione e percezione, l’identificazione, la memoria a breve
termine, la rielaborazione, la categorizzazione, la generalizzazione e la
comprensione.
• Lettura del linguaggio: valutazione e qualità della lettura labiale attraverso
prove di ascolto, vista/ascolto, vista.
86
• Capacità comunicativa: tutti gli elementi sopraelencati devono essere
considerati in un’ottica globale dalla quale emerga la capacità di trasmettere
e captare emozioni e mettersi in ascolto.
Per gli adulti si predilige un utente con sordità totale/profonda bilaterale, con nessun
beneficio dalla protesi acustica, con buona risposta alla lettura labiale e un Q.I. nella
norma.
L’adulto deve avere una forte motivazione al ripristino della comunicazione verbale
perchè lo sforzo che dovrà sopportare per imparare ad ascoltare con l’impianto
cocleare cambia in modo radicale rispetto alla modalità a cui da anni era abituato e la
durata della riabilitazione è impegnativa.
Nella fase di selezione vengono valutate le problematiche del paziente adulto sul
piano della comunicazione.
Queste vengono rilevate mediante un protocollo che varia in base all’età di
insorgenza della sordità.
L’analisi è svolta nei seguenti ambiti:
• Capacità uditiva: valutazione di detezione: suono/silenzio; discriminazione:
uguale/diverso; identificazione: possibilità di scelta tra un numero
prestabilito di stimoli in una lista chiusa; riconoscimento in una lista aperta
tra stimoli di vario tipo suoni strumentali/rumori/ambientali/suoni verbali.
• Espressione verbale: indaga il livello fonologico fonetico, lessicale,
sintattico, semantico. Solitamente i parametri più alterati riguardano
l’intensità e la melodia, raramente l’articolazione.
• Le abilità cognitive riguardano lo stato della competenza linguistica e delle
capacità di integrazione; questi fattori rappresentano una base utile per la
buona riuscita della riabilitazione, valutazione della memoria uditiva.
• Lettura labiale o del linguaggio cioè un’indagine volta a sondare la capacità
di riconoscere fonemi/parole/frasi con modalità visiva, visivo/uditiva,
uditiva.
• Interazione: valutazione dell’incidenza del deficit sulla qualità dei rapporti
interpersonali e sullo stato emotivo. Studio sulla motivazione che induce a
87
sottoporsi all’impianto, sulle aspettative e sul comportamento, in quanto il
grado di disponibilità, attenzione, affaticabilità, coinvolgimento emotivo ed
equilibrio
psichico
rappresenteranno
fattori
determinanti
per
la
riabilitazione.
Figure professionali coinvolte
L’impianto cocleare ha una componente medica (di volta in volta competenza
dell'audiologo, del cofochirurgo, del radiologo, del bioingegnere), una psicologica e
neuropsichiatrica e infine una riabilitativa, di competenza del logopedista.
In Italia la riabilitazione sonora di una persona con impianto cocleare è in molti casi
condotta dal logopedista e dal musicoterapeuta. L’obiettivo di entrambi è di condurre
una stimolazione uditiva da prospettive diverse ma interconnesse, operazione che
richiede collaborazione, interazione e coordinamento tra i due ruoli.
Lo scopo primo di tale interazione consiste nel potenziamento dell’efficacia
dell’attività, tenendo presente che lo specifico della riabilitazione non è solamente il
problema uditivo ma la gestione complessiva della comunicazione. Il beneficio
apportato dall’impianto dovrà essere valutato sotto una triplice prospettiva:
• la percezione dei suoni e dei rumori ambientali, dei parametri
soprasegmentali (prosodici) e segmentali (fonetici) della parola;
• l'aspetto socio-relazionale intesa come abilità comunicazionale, qualità di
vita;
• la componente psicologica, che interesa il carattere, il comportamento, il
livello di autostima ecc.
In linea generale si può fare una prima distinzione affermando che il logopedista
opera preminentemente sulla rieducazione al linguaggio, mentre al musicotarapeuta
spetta il compito di intervenire sulla dimensione sonora nella sua globalità.
88
La collaborazione dovrà inoltre estendersi al tecnico del mappaggio, che provvede al
delicato compito di ottimizzare la performance del dispositivo cocleare tarandolo
progressivamente sulla base dei dati e delle informazioni (le impressioni uditive ed
extrauditive del soggetto) raccolte dal musicoterapeuta e dal logopedista nel corso
delle sedute.
Un altro ruolo importante è svolto dalla famiglia, che deve essere sensibilizzata e
preparata a lavorare su due delicati versanti: il supporto psicologico-motivazionale e
l'esercizio-osservazione quotidiana.
Tenendo presente che la persona dispone già di un proprio bagaglio di conoscenze e
di personali strategie di apprendimento, i riabilitatori dovranno porre particolare
attenzione a non cadere nell’errore di voler ristrutturare il soggetto secondo schemi
elaborati esternamente. Un progetto pensato per e con la persona ha come
presupposto il pieno rispetto della soggettività, del suo stile cognitivo e della sua
“forma mentis”; ciò risulterà premessa essenziale di una vera accoglienza.
La musicoterapeuta Giulia Cremaschi sostiene che “nello spirito più coerente della
relazione interpersonale, della reciprocità docente-discente, adulto-bambino sarà
proprio il bambino sordo a condurre il musicoterapeuta alla riscoperta del suono. È
necessario che il musicoterapeuta sappia procedere attento a cogliere gli spunti non
verbali che provengono dal bambino. Infatti il problema autentico del bambino sordo
non va cercato nella sordità, ma nella vita di relazione. Qualora egli non ascolti, ciò
accade non perché è sordo ma perché sta perdendo o ha perso la fiducia negli altri,
pertanto in se stesso.” (Giulia Cremaschi Trovesi, 1996) Il concetto fondamentale
esposto rafforza l’idea che la relazione assuma significato solo se basata sulla fiducia
e quindi sull’ascolto e sull'apertura all’altro. Per quanto riguarda la musicoterapia,
diversamente da quanto detto saremmo in presenza di semplice animazione musicale
o di puro addestramento.
Obiettivi specifici della riabilitazione sonora per una persona con impianto cocleare,
confronto tra logopedia e musicoterapia
89
Le finalità della riabilitazione rivolta al soggetto che beneficia di un impianto
cocleare è lo sviluppo delle capacità di utilizzare le stimolazioni uditive generate
dallo stimolo elettrico. Per raggiungere tale traguardo bisogna attraversare una fase di
accettazione dell'impianto e integrazione armonica del dispositivo di percezione
artificiale con l’organismo della persona. L’adattamento del soggetto al “nuovo
mondo sonoro” deve avvenire in modo graduale, al fine di evitare un’eccessiva fatica
uditiva che potrebbe anche ingenerare qualche disturbo fisico (stanchezza, mal di
testa, disequilibrio, stato confusionale) e conseguentemente psichico (ansia, tensione,
paura, ecc.).
La musicoterapia consente un’ampia possibilità di scelta tra le opzioni di intervento,
data la notevole versatilità degli strumenti sonori utilizzabili allo scopo. I
rumori/suoni che percepiamo nel quotidiano sono molteplici, e altrettanto varie
risulteranno di conseguenza le modalità per impostare questo tipo di riabilitazione.
Sarà possibile perciò avvalersi di tutte le indicazioni e spunti ottenuti attraverso
l'osservazione e l'interazione verbale e non verbale con il soggetto.
La musicoterapia rappresenta lo strumento per focalizzare l’attenzione al mondo
sonoro, ma soprattutto il legame tra sensazione uditiva e sensazione emotiva,
attivando così globalmente le energie comunicazionali verbali e non verbali della
persona, imprimendo il suono nella memoria in modo emotivo e non solo puramente
sensoriale. In questo modo la persona percepirà maggiormente l’utilità e la
trasferibilità ad altri contesti di quanto sperimentato in terapia.
Lo scopo ultimo della musicoterapia è promuovere la relazione e quindi favorire
l’integrazione fisica, psicologica ed emotiva dell’individuo attraverso l’uso del suono,
degli elementi musicali (ritmo, altezza, timbro, intensità) e attraverso gli strumenti.
Le esperienze proposte al soggetto sono finalizzate a privilegiare di volta in volta,
enfatizzandole, singole componenti e aspetti della dimensione sonora quali le
intensità acustiche, i timbri, le intonazioni, gli intervalli; l'esperienza sonora
rappresenta inoltre una modalità per immergersi nella dimensione spaziale (il luogo
dove si collocano le fonti sonore) e temporale (l’attesa di frequenze, pause,
ripresa…).
90
In base alla concezione di musicoterapia di R. Benenzon che la considera una
modalità regressiva, la musica è un modo per riconciliarsi con l’aria (veicolo acustico
fondamentale), con l’acqua e con tutti i materiali-strumenti morbidi, duri, caldi,
freddi, ecc. presenti nel setting; in questa ottica anche il corpo diviene un vero e
proprio strumento musicale.
Particolarmente importante in musicoterapia si rivela la distinzione delle attività in
base all'età del soggetto. Nel bambino sarà prioritaria l'attività di tipo ludicoesplorativa, mentre nell’adulto assume rilevante importanza anche il momento
dell'ascolto verbale: è necessario infatti procedere a un attento e costante
monitoraggio del feedback proveniente dal soggetto (i suoi dubbi, aspettative,
osservazioni ecc.) per aiutarlo nella fase di transizione dalla propria identità iniziale
di non udente, caratterizzata da tutta una serie di comportamenti tipici di tale
condizione (per es. la segnalazione visiva e/o tattile che nel quotidiano rimpiazza
interamente quella acustica) alla sua nuova identità di udente, che necessita
dell'acquisizione di alcuni schemi comportamentali nuovi e dell'abbandono o della
ridefinizione/rettifica dei precedenti.
Il musicoterapeuta svolge un percorso con obiettivi che possono variare in itinere
partendo dalla persona e portando a galla per primo le sue caratteristiche , in special
modo quelle sonoro-musicali, motorie ed emozionali.
Gli obiettivi del musicoterapeuta sono elastici, in termini temporali, e perseguono gli
scopi in modo personalizzato in base alle esigenze della persona in quel momento
preciso. Per schematizzarli è possibile separare quelli della rieducazione da quelli del
dialogo sonoro, anche se in realtà questi procedono pari passo.
I logopedisti hanno elaborato un percorso definito e abbastanza generalizzabile,
differenziando il protocollo di riabilitazione a seconda che l’utente sia nella fase
adulta o nella fase infantile. Il fine è poter utilizzare la modalità più consona all’età
ma anche considerando le esigenze da soddisfare e i risultati attesi da raggiungere,
condizioni queste che determinano una diversificazione delle fasi da seguire per la
rieducazione sonora.
91
È imprescindibile individuare obiettivi chiari, soprattutto laddove più figure
professionali operano contemporaneamente con lo stesso soggetto, il quale dovrà
comunque restare sempre al centro dell’intervento; in questo modo si creerà una
situazione in cui siano messi costantemente in gioco il protagonismo, l’avventura, la
sperimentazione e in ultima analisi gli aspetti emozionali della persona con cui si sta
facendo il percorso.
Bisogna inoltre tenere presente che l’intervento riabilitativo dei soggetti preverbali
impiantati tardivamente presentano numerose problematiche dipendenti dal lungo
periodo di deprivazione sonora; tale deprivazione porta prevalentemente ad una
ridottissima capacità di ascolto e ad una comprensione spesso difficoltosa per la
ridotta informazione acustica.
Avere dei risultati da raggiungere porta a stabilire degli obiettivi in partenza. Questo
non deve far dimenticare il soggetto,che anzi ci può offrire stimoli per obiettivi più
consoni.
Il protocollo terapeutico non deve essere visto come uno strumento rigidamente
adottato ma come uno spunto da adattare all’individuo, una sorta di condivisionealleanza con il soggetto sul difficile e lungo percorso.
92
IL MUSICOTERAPEUTA TRA ARTE E SCIENZA
GENIO E (S)REGOLATEZZA
di Emanuela Paludet
Chi è il musicista?
Giacomo Gaggero fornisce a questo proposito un’utile definizione: «Il musicista è
una persona che, in possesso di un “repertorio” tratto da una tradizione musicale, sia
essa colta o popolare, è in grado di proporre interpretazioni di quei testi, compatibili
con la tradizione interpretativa del genere»53.
È complicato parlare di musica in termini differenti da questi. Si trova talmente
“dentro” ciascuno di noi che tentare di definirla, di definire chi vuol fare musica di
professione, è difficilissimo, a meno di non allegare uno strumento musicale alle
pagine di questa tesi. Una definizione non rende giustizia alla musica.
È più logico tentare di cambiare punto di vista: definire il rapporto del musicista con
la musica, con la pratica, lo “studio” della musica. È più interessante ed è essenziale:
si scopre l’importanza di tre parole chiave: SILENZIO, SUONO, ASCOLTO.
“Das wohltemperierte Klavier”: L’IO dell’Interprete e del Compositore
“Das wohltemperierte Klavier” secondo Schumann era l’ausilio indispensabile a una
buona formazione pianistica. La tecnica di un pianista passava dall’esecuzione
giornaliera dei 48 preludi e fughe che compongono “Il clavicembalo ben temperato”
di J. S. Bach.
Molti studenti di pianoforte ai giorni nostri amano pensare a “Das wohltemperierte
Klavier” come una sorta di sofisticato strumento di tortura inflitto durante il corso
medio. Schumann ai suoi tempi sosteneva come non ci fosse tecnica migliore: questi
53
G. Gaggero, Esperienza musicale e musicoterapia, Mimesis, Milano, 2003
93
48 brani contengono tecnica pianistica in tutte le tonalità possibili, sono perfetti dal
punto di vista formale ma nello stesso tempo sono opere geniali (potrei dire artistici e
scientifici a un tempo). Tra tutta la letteratura pianistica possibile, i due volumi di
“Das wohltemperierte Klavier” probabilmente sono il miglior strumento didattico per
un pianista. Non per nulla, sebbene alcuni brani siano di semplice lettura, lo studio
serio e responsabile di quest’opera si propone all’allievo quando è già padrone di una
discreta tecnica pianistica e ha già i primi rudimenti interpretativi (pratici e storici);
prima questi brani rischierebbero d’essere sprecati. È un po’ come entrare in
tirocinio: ci vuole una buona quota di preparazione per poterlo affrontare.
Questi brani allenano il pianista a udire, comprendere, meditare e incarnare
l’armonia, il contrappunto, la melodia. La ricaduta immediata sulle capacità del
pianista è che questi brani stimolano la consapevolezza nell’ascolto della musica e
nell’espressione musicale, favoriscono l’ascolto e quindi il controllo del corpo
impegnato nell’esecuzione.
L’esecutore si allena a riconoscere se stesso e il suo stile, incontra l’Altro che lui
contiene attraverso la musica. Potremmo dire che il musicista, attraverso lo studio
intraprenda una sorta d’autoanalisi di carattere profondo, globale, creando la
situazione necessaria ad avviare un dialogo interno. Una volta avviato e reso sicuro il
dialogo interno è possibile avviare un ascolto e un dialogo con il Compositore,
attraverso la sua composizione. È possibile ascoltarlo, quindi fornire attraverso
l’esecuzione una corretta interpretazione. L’esecuzione di un brano stimola
l’espressione autonoma e cosciente del pianista. L’interpretazione che ne deriva è
unica: è al contempo specchio della poetica e dello stile del suo Compositore, e segno
inconfondibile del senso e dello stile dell’esecutore. Allo stesso tempo, l’aver
acquisito quel processo grazie all’incontro con l’Autore rende possibile l’incontro
con differenti stili, differenti poetiche, realizzando l’incontro con altri Autori. Stiamo
operando la prima negoziazione: tra genio e regolatezza, mediata da un principio
attivo: l’ascolto.
94
Capacità d’improvvisare: suono il mio ascolto
Il dato fondamentale nel discorso di Schumann citato al paragrafo precedente, è la
premessa fondamentale contenuta inespressamente: la ricerca di un ascolto
consapevole come tratto distintivo di un buon musicista.
Ma da dove viene questo particolare modo d’ascoltare, che permette al tempo stesso
di identificarsi e disidentificarsi da sé per poter meglio comprendere e “suonare” sé
stessi per bocca di altri Autori? C’è un modo per elicitare più velocemente questa
caratteristica in un musicista?
Suonare per un musicista significa anche provare il grandissimo desiderio di non
fermarsi all’interpretazione di brani precomposti, ma di esprimere qualcosa di
proprio, che esprima il suo “senso” e la sua poetica senza mediazioni. A molti
musicisti
viene
voglia
di
comporre.
L’antefatto
della
composizione
è
l’improvvisazione54.
La tecnica dell’improvvisazione s’impara. Esattamente come s’impara a interpretare
e si diventa interpreti “Classici”, “Blues”, “Jazz”… non a caso ciascun “filone”
musicale ha i suoi grandi improvvisatori. Questa capacità è distintiva dei musicisti
Jazz o Blues. Pochi musicisti considerano la pratica realmente utile (anche a fini
didattici) nell’ambito del repertorio “classico”, anche se nelle scuole organistiche (e
pianistiche, in qualche caso) francese, tedesca e italiana essa è importante.
Secondo l’organista Arthur Wills l’acquisizione di un’ottima pratica improvvisativa
deve seguire un “cursus” molto rigoroso, fatto di composizione sulla carta, di
conoscenze d’armonia e contrappunto, di analisi sulle composizioni dei grandi autori.
Questo studio, lungo e complicato, che sembra essere così strutturato e forse anche in
grado d’inibire lo studente rinchiudendolo in tutta una serie di clichès, in realtà porta
a sbloccare la creatività, a svilupparla. Lo stesso Wills però ammette: «Per molti
esecutori l’improvvisazione rimarrà sempre più o meno imitativa55». Quindi,
54
«L’improvvisazione è veramente la forma base di ogni vera creazione musicale» W. Fürtwangler,
Suono e parola, Fogola, Torino 1977
55
A. Wills, L’organo, la storia e la pratica esecutiva, Franco Muzzio Editore, Padova, 1987
95
possiamo ipotizzare che il tratto distintivo del bravo improvvisatore, rispetto a quello
scadente, sia avere a disposizione il “dono” di saper suonare il proprio ascolto.
L’improvvisazione, in quanto sforzo creativo che parte dal “nulla”, dal silenzio, mette
inevitabilmente a nudo il musicista: sia quando sta improvvisando secondo un cliché
(in ogni caso l’ascolto attento del risultato metterà a nudo il particolare), sia quando
sta parlando di se stesso tramite le note. «Il musicista, se improvvisa realmente e non
“rappresenta” un ascolto facendo ricorso ad un più o meno collaudato repertorio di
luoghi comuni (i clichès), suona nel qui e adesso il proprio ascolto di sé.56».
Chi improvvisa parla di sé tramite le note a condizione che abbia ingaggiato una
ricerca, a condizione che dal silenzio conseguente l’inizio di quella ricerca abbia
accettato d’incontrarsi con sé stesso. In questo caso il musicista suona il suo “senso”,
suona la sua nota, come scrive Alessandro Baricco nel suo romanzo “Castelli di
rabbia”57.
Stranamente per molti musicisti è più naturale parlare di sé “per bocca d’altri”,
attraverso l’interpretazione dei grandi autori. Chi impara a improvvisare spesso
impara solo un cliché, che in ogni caso sarà a un tempo originale (in quanto tipico di
una persona e di quella soltanto) e radicato profondamente nella tradizione culturale e
didattica da cui è stato generato. L’ascolto consapevole, lo spazio per suonare la
propria nota… da dove viene? A chi è dato d’insegnarlo, di scoprirlo?
Il musicista che ha imparato ad improvvisare secondo il “metodo Wills”, il musicista
che ha pronte le mani e ha delle idee, come diventa un originale improvvisatore? Si
può insegnare ad ascoltare la propria nota e riprodurla?
Secondo Alfred Tomatis58 alla base della capacità di cantare e suonare uno strumento
libera, piena e corretta sta una corretta capacità d’ascolto. Preso dal punto di vista
prettamente medico- fisiologico, l’orecchio è il primo organo di senso a fornire dei
56
Gaggero Esperienza musicale e musicoterapia, Mimesis, Milano, 2003
“Voi non venite qui a cantare una nota qualunque. Voi venite qui a cantare la vostra nota. Non è
una cosa da niente, è una cosa bellissima. Avere una nota, dico: una nota tutta per sé.
Riconoscerla, tra mille, e portarsela dietro, dentro e addosso. Potete anche non crederci, ma io vi
dico che lei respira quando voi respirate, vi aspetta quando dormite, vi segue dovunque andiate e
giuro non vi mollerà fino a che non vi deciderete a crepare, allora creperà con voi.” A. Baricco,
Castelli di rabbia, Rizzoli, Milano 1999.
58
A. Tomatis, L’orecchio e la voce, Baldini e Castoldi, Milano 1993
57
96
feedback riguardanti un’esecuzione musicale all’esecutore. La base per una buona
esecuzione musicale passa dall’aver appreso in modo corretto e consapevole a
lavorare sui feedback provenienti dal proprio apparato uditivo. Tomatis suggerisce
addirittura degli “esercizi preparatori” all’ascolto. Egli ha provato che esistono
determinate posture che condizionano il musicista, la sua capacità d’udire o meno
alcune frequenze59. Ha inoltre dimostrato quale sia la postura migliore, per la miglior
qualità d’ascolto possibile.
Figura 1- La postura d'ascolto scorretta
Figura
2-
La
postura
d'ascolto corretta
Penso che alcuni musicisti siano predisposti a scoprire questa dote in sé stessi, la
elicitino con il tempo, con lo studio, come sostiene Wills.
Ma se è vero l’assunto che qualsiasi comportamento è studiabile, mappabile quindi
riproducibile, anche la capacità d’ascolto profondo, realmente creativo, può essere
introiettata. Di più, si può insegnare ad introiettarla.
59
Gli studi più numerosi riguardano cantanti sottoposti a un vero e proprio training tramite
l’orecchio elettronico. Tomatis ha comunque “esportato” la sua tecnica introducendone l’uso anche
con violinisti, pianisti…
97
Accordatura: improvvisazione di gruppo
Nella mente di Bach “Das wohltemperierte Klavier” era un’opera didattica: il titolo
costituisce una dichiarazione di programma. Il nome “ben temperato” doveva
testimoniare una rivoluzione avvenuta. All’epoca di Bach si era molto vicini alla
definizione del temperamento “equabile”: quello che oggi chiameremmo “base
sicura” per quanto riguarda l’accordatura degli strumenti.
Aver trovato un accordo, una integrazione, un “limite”, ha fornito ai compositori le
strutture necessarie per creare armonie uniche. A tutt’oggi in occidente è una
premessa fondamentale tra i musicisti: anche quando per suonare serva “scordare lo
strumento”, lo si scorda sempre riferendosi al temperamento equabile.
Siamo consapevoli d’aver creato un sistema per certi versi limitante, col quale è però
sempre possibile ingaggiare confronti ecologici con altre culture: penso ad esempio
alla tradizione musicale indiana.
Ho citato il “Clavicembalo ben temperato” perché l’accenno del titolo al
temperamento, all’accordatura, fornisce il legame logico per parlare di musica
d’insieme, improvvisata.
«Se alcune persone si riuniscono da qualche parte e cominciano a parlare tra loro, si
dice che conversano, dialogano, discutono o magari che scherzano o litigano. A
nessuno verrebbe in mente di dire che esse improvvisano. Se le stesse persone si
riuniscono nello stesso luogo e si mettono a suonare assieme senza leggere musica e
senza riprodurre musica conosciuta, si dice che improvvisano. (…) siamo così
abituati a pensare alla musica come a qualcosa di codificato, riproducibile,
riconoscibile, che l'interazione immediata e spontanea tra musicisti ci appare qualcosa
di marginale, di insolito o di stravagante. Nella nostra cultura si può diventare
musicisti professionisti senza aver mai improvvisato una nota. Quindi si impara a
leggere e scrivere, ma non necessariamente a parlare con la musica.»60
Questa citazione mette a nudo moltissimi difetti della didattica musicale e del ruolo di
musicista. La musica è comunicazione, è dialogo, non è solo recitazione: Scardovelli
60
Mauro Scardovelli, Gruppi di improvvisazione, cultura della pace e crescita personale, in
www.pnlumanistica.it/pnl
98
presenta il quarto e il quinto tempo della nona sinfonia di Beethoven come un dialogo
tra parti, dapprincipio in competizione e poi sempre più integrate tra loro, fino allo
“sbocciare” dell’”inno alla gioia”61. Si può dire la stessa cosa di moltissimi altri brani
precomposti.
Se l’improvvisazione musicale individuale è un prodotto di «nicchia» quella di
gruppo lo è ancor di più, se non altro perché due o più musicisti devono accordarsi su
cosa suonare e spesso questo non è un dato semplice, a meno che non si voglia
ricadere nel “cliché” citato più sopra, che impedirebbe un’espressione congruente e
genuina.
Accordatura, quindi, è la parola chiave. Accordatura degli strumenti, in primo luogo.
Di tutti gli strumenti, anche dello “strumentone" che è il corpo umano. Ci si accorda
quindi per ciò che riguarda il livello energetico, sull’attivazione muscolare… come?
In genere, secondo Scardovelli, l’improvvisazione libera, individuale e di gruppo il
bisogno di strutturare, prevedere e dare un senso alla musica viene a cadere,
generando ansia, incertezza. Ed è da qui che parte l’improvvisazione di gruppo,
dall’incertezza. Ma se i musicisti sono ben disposti ad ascoltarsi… regolarmente il
caos musicale generato dall’ansia e dall’incertezza evolve in qualcosa di integrato,
che al riascolto sembra precomposto. Regolarmente, il feed back riportato dai
musicisti nelle verbalizzazioni che vengono dopo le loro esecuzioni è un vissuto di
gioia nel poter esprimere la propria musica, integrandola con quella degli altri.
L’ascolto, centro dell’incontro musicale, principio attivo dell’improvvisazione, ne
esce approfondito, in termini di capacità dei singoli di auto ascoltarsi, di ascoltare gli
altri, di integrarsi nella musica di cui sono portatori. Tutto questo fa di un musicista
un buon musicista.
61
M. Scardovelli, ivi.
99
Un modello
«C’è un aspetto di questo nostro mestiere che lo rende unico, non assimilabile a
nessun altro: è il fatto che, conciliando paradossalmente verità e finzione, ci
incontriamo col cliente e ci proponiamo a lui da una posizione “come se”»62.
Approdando alla musicoterapia “dal lato dei musicisti”, si può avevo sperimentare
come la musica possa realmente fare qualche cosa per gli altri. Uno dei passi più
importanti nel percorso è quello di mettersi alla ricerca di quali siano le caratteristiche
e le competenze di un terapeuta. Non è semplice, ma è la base del lavoro di
formazione. Il lavoro di terapeuta per molti aspetti è un lavoro come molti altri: è una
offerta d’aiuto, generata da una domanda d’aiuto. È fondamentale per la professione e
la professionalità di chiunque voglia entrare nel ruolo terapeutico imparare ad
incarnare nel tempo il “come se”, proposto da Sergio Erba come modello cui tendere:
chi si mette in posizione “d’aiutante” in una relazione d’aiuto è portatore di
un’umanità dalla quale non può prescindere, fa parte della sua funzione terapeutica
reale, del cosiddetto “livello funzionale reale”. Allo stesso tempo questa funzione
terapeutica posta sul piano di realtà deve essere inscritta in un sistema di premesse
epistemologiche definite, regolate e univocamente interpretabili, che costituiscono
quello che chiameremo “il livello del ruolo” e il “livello funzionale teorico”. Ritengo
che tutta la scientificità e la possibilità d’essere realmente portatori d’arte passi dalla
profonda comprensione del paradosso del “come se”, unica via che permetta di
concepire il ruolo di terapeuta come una sorta di “tensione a” un obbiettivo: l’essere
Davvero Terapeuta. Una funzione matematica può descrivere questa “tensione a”,
quella di limite: lim ( x → +∞) in cui l’incognita x rappresenta il terapeuta.
62
Sergio Erba, Domanda e Risposta, collana “Il ruolo terapeutico”, F. Angeli editore, Milano 1998.
100
Genetica o… vocazione?
La spinta a scegliere il lavoro di musicoterapeuta è qualcosa che si ha dentro fin da
piccoli e si esplicita crescendo, oppure è una sorta di vocazione personale dovuta a
qualche fatto particolare durante la propria vita? C’è una reale differenza ai fini della
professione tra lo scoprire negli anni di aver sempre avuto nel sangue una certa
concezione della vita e del proprio lavoro e scegliere un lavoro perché a prima vista
ci piace?
Indubbiamente esiste una differenza tra le due ipotesi: la prima sottende un percorso
meditato e filtrato attraverso le scelte e le storie della vita, la seconda prevede una
minore autoanalisi alla base della scelta.
Tra la professione di musicista e quella di terapeuta esiste una sorta di “gap”:
entrambe le scelte professionali prevedono in qualche misura un “contatto con il
pubblico”, ma un terapeuta mette in gioco se stesso, ha la responsabilità di contribuire
ad alleviare la sofferenza altrui sulla base di studi condotti… quindi la sua scelta
prevede che la “messa in gioco” a livello umano sia molto differente da quella di un
semplice musicista, e molto più imponente proprio a livello quantitativo. Richiede
coraggio, non è cosa di tutti i giorni.
Prendendo spunto dalle numerose conversazioni sul tema “Terapeuta: perché? Chi
è?” svoltesi durante questi tre anni tra compagni di corso si possono individuare,
come gli attributi tipici di un terapeuta i seguenti: la capacità di conoscere, di
conoscersi, l’essere in perfetto equilibrio, non avere conflitti interiori in corso, essere
portatori di assoluto e incrollabile ottimismo; entrare puliti in terapia, essere puliti
“dentro”; ci sono addirittura protocolli di seduta che richiedono al terapeuta di dire se
ricorda d’essersi guardato allo specchio, lavato le mani, se ricorda come stava prima
d’iniziare la seduta63. Uno strumento così serve per entrare in seduta in perfetto
equilibrio: la “conditio sine qua non” per poter ascoltare l’altro, ricalcarlo, fare
rapport e successivamente condurlo verso visioni più allargate della vita.
63
R. Benenzon, G. Wagner, V de Gainza: La Nuova Musicoterapia, ed Phoenix, Roma, 1997
101
Ma esiste davvero un essere umano del genere? Un essere umano perfetto,
praticamente, realmente perfetto? E, d’altro canto, quale essere umano in profonda
difficoltà accorderebbe fiducia a un uomo che non gli paia perfetto, o quanto meno
perfettamente in grado d’essergli d’aiuto, quindi senza problemi evidenti?
Insomma, come può essere che un terapeuta abbia bisogno di terapia, se è lui quello
che ha studiato tanti anni per poter essere d’aiuto agli altri, per aiutarli ad
emanciparsi? Soprattutto, come può essere che scelga di fare il terapeuta forse
proprio perché egli per primo ha bisogno di terapia?
Se conosce le tecniche, le teorie, se ha provato, come può essere che chi si pone nel
ruolo di terapeuta sia anche poco sotto lo standard dell’uomo equilibrato e perfetto in
grado di risolvere qualsiasi problema dei propri clienti?
Nei nostri discorsi partivamo dall’assunto che non pensavamo di poter in qualche
modo acquisire tutte le doti di perfezione insite nel nostro modello di terapeuta
ottimale.
Sergio Erba sostiene che una delle spinta più forti del terapeuta ad entrare nel ruolo
terapeutico sia la ricerca di sollievo da un proprio disagio. «Per molto tempo ho
pensato che chi ha avuto, nella propria storia, problemi che non riesce a superare da
solo, nella processualità della vita, ha tre prospettive di fronte a sé: o li subisce e se li
tiene per sempre, o chiede aiuto a un terapeuta, o fa il terapeuta64». Il minimo che si
può pensare di questa affermazione è che sia cinica e che metta a rischio la categoria
dei clienti. È lo stesso Erba poche righe dopo a riconoscerlo. Inoltre esiste il rischio
che una volta risolti i propri problemi attraverso il cammino di formazione e di
autoanalisi il terapeuta non riconosca più in sé le qualità necessarie ad essere
terapeuta: una volta guarito gli mancherebbe il trauma che fungeva da motore
motivazionale alla scelta d’entrare nel ruolo. Il fatto è che per alcuni di noi le ferite
della vita in realtà si tramutano in occasioni d’emancipazione personale. Attraverso
quei traumi diventa possibile riconoscere in sé il bisogno di guarire, di mettersi
accanto agli altri, ai disabili, ai sofferenti, con più naturalezza. Si estrinseca una reale
voglia d’essere utili.
64
Sergio Erba, Domanda e Risposta, collana “Il ruolo terapeutico”, F. Angeli editore, Milano 1998.
102
Katz e Geneway sostengono un concetto simile: chi lavora nell’ambito della relazione
d’aiuto al prossimo sta rispondendo anche a una sua personale richiesta d’aiuto.
Un musicista è stimolato a divenire musicoterapeuta anche sulla base della sua
fiducia nella musica, del fatto che lui per primo durante il suo percorso di formazione
come musicista si è trovato a sperimentare, magari solo a livello intuitivo, che la
musica poteva realmente agire dei cambiamenti.
Ruolo
Il concetto di ruolo terapeutico in sé contiene, inespressi, tre sotto concetti,
apparentemente contrastanti, nei quali si riflette la dicotomia che vede i terapeuti
intenti a conciliare il genio, la regolatezza e la sregolatezza.
Ciascuno di questi concetti ha un’importante ricaduta sulla pratica terapeutica, essi
sono: il livello del ruolo, propriamente detto, il livello della funzione teorica e il
livello della funzione reale. La comprensione di questa distinzione, come dicevo, è
fondamentale per la ricaduta diretta che ha sulla professione. Quando parliamo di
ruolo secondo questa definizione, infatti, stiamo tracciando quella che secondo la
psicologia umanistica è la vera e propria cornice all’interno della quale sviluppare il
lavoro, la base sicura: arrivare a una corretta definizione quindi implicitamente
significa creare una bussola con la quale si può negoziare e creare un contenimento
professionale, a un tempo.
Distinguiamo quindi fra Ruolo e Funzione. Il ruolo è inteso come il “luogo della
professionalità”: oggettivabile, definibile in termini oggettivi perché sono dati, scritti
per contratto. Fanno parte del ruolo gli attributi e tutta quella parte del lavoro del
terapeuta che ha a che fare con la non discrezionalità, come una sorta di cornice nella
cornice. Avere una base certa cui tornare, scegliere d’intrattenere con questa “base
certa” un buon rapporto, attraverso negoziazioni e confronti interiori o di supervisone
è fondamentale.
103
Tra gli attributi di ruolo stanno l’ottimismo, la responsabilità, l’autorità, il potere.
Responsabilità intesa non solo verso il cliente, quindi: preparazione, correttezza,
rigore professionale, ma responsabilità rispetto alla propria scelta, prendersi carico
della scelta operata, cioè mettersi in posizione di potere e superiorità rispetto al
cliente per una questione di servizio nei confronti del cliente.
Abbiamo poi l’ottimismo, inteso come fiducia che il cliente attraverso la terapia
possa veramente essere in grado di intraprendere un percorso migliorativo. Qui è
necessario fare una piccola anticipazione rispetto agli attributi più prettamente aventi
a che fare con la discrezionalità, cioè con gli attributi di “funzione”: un terapeuta può
essere ottimista per “funzione”, cioè per come funziona caratterialmente. Può non
esserlo, per carattere, genetica, esperienze di vita, non esiste una legge che imponga a
tutti gli esseri umani l’ottimismo come regola di vita, per quanto sia un approccio
salutare all’esistenza, se praticato ecologicamente. L’ottimismo di ruolo ha carattere
completamente differente: è motivato dal percorso di formazione del terapeuta,
dall’analisi che il terapeuta stesso ha intrapreso durante la sua formazione, dal
continuo lavorare e ripensare sui propri casi in supervisione, con i colleghi. È la
convinzione che grazie alla terapia le cose possono cambiare, perché c’è un
“principio attivo” insito nella processualità e nella struttura della terapia che rende
possibile il cambiamento.
Gli ultimi due attributi di ruolo fondamentali: il potere e l’autorità del terapeuta,
senza i quali rischierebbe di non sussistere quella “asimmetria” necessaria a fare di
una persona un terapeuta.
104
Funzione
Alla funzione si attribuiscono invece tutti quegli attributi che hanno a che fare con il
“modo di funzionare”65 del terapeuta, e più in generale possono essere associati alla
parte processuale (artistica) della terapia. Possiamo dire, per operare una distinzione
riduttiva ma chiarificatrice, che alla funzione appartengono i campi del ruolo
terapeutico che possono avere a che fare con una maggiore discrezionalità. Al livello
funzionale del ruolo appartengono campi che hanno a che fare con la creatività.
Per funzione teorica, infatti, intendiamo quel campo della professione del terapeuta in
cui egli stesso può intervenire: preparazione teorica, preparazione tecnica, fonti cui
far riferimento. Sta al terapeuta scegliere in base al suo modo di funzionare quali
sono i suoi punti cardine e come sia meglio agire in terapia in conseguenza a queste
sue scelte.
La funzione pratica sta al livello più artistico in assoluto. Concerne la vita di tutti i
giorni di un terapeuta: l’esperienza accumulata in un dato momento della carriera, il
grado di maturità, il modo in cui è arrivato a fare il terapeuta e il suo essere persona.
Qui trova composizione un dilemma che molti terapeuti sentono. Lo scarto tra la
propria posizione, il proprio ruolo (che sottintende presa di responsabilità nei termini
più sopra descritti), e il proprio essere terapeuta nella realtà di tutti i giorni, con un
certo grado d’esperienza e di maturazione, con un bagaglio teorico magari in
evoluzione. Il terapeuta, dicevamo al paragrafo 2.1, è per sua natura “fallibile”, mal
funziona in quanto essere umano. La distanza tra il livello del ruolo e quello della
funzione pratica sembrerebbe difficile da riempire. Come nelle funzioni matematiche
in cui l’incognita si avvicina asintoticamente all’asse cartesiano senza mai
incontrarlo. Ci sarà sempre un divario tra terapeuta nella realtà e il terapeuta così
come vorrebbe o dovrebbe essere, tra (s)regolatezza e scienza. Come ricomporre il
divario?
65
Sergio Erba, Domanda e Risposta, collana “Il ruolo terapeutico”, F. Angeli editore, Milano 1998.
105
«Confrontandosi incessantemente col ruolo (…), in una dialettica costante (…),
accettando, magari con dolore, l’irraggiungibilità di quella posizione, ma non
rinunciando mai a tendere verso di essa.»
Infant observation: crescere osservando chi cresce
Il metodo dell’infant observation è stato messo a punto da Esther Bick, nel 1964.
Consiste nell’osservazione diretta psicoanalitica della coppia madre bambino per un
periodo di due-tre anni, comprendente gli ultimi tempi della gravidanza, la nascita del
bambino e tutto il periodo successivo fino al compimento dei due o tre anni del
bambino. Nel tempo ha assunto un’importanza cardine nel percorso di formazione di
moltissime figure professionali, operanti nel campo dell’infanzia, ma anche del
disagio psichico adulto.
È una metodica molto particolare: si osserva lo sviluppo del bambino in un contesto
molto più naturale rispetto a quello che prevederebbe un’osservazione del bambino
da solo a scopo terapeutico o d’accertamento. Questa metodica offre un maggior
numero d’informazioni rispetto a quello fornito dalla sola osservazione del bambino o
della madre. L’osservatore durante gli incontri non può in alcun modo interferire
nella relazione madre bambino, anche quando questa si presenti come problematica e
magari la madre richieda esplicitamente un intervento da parte dell’osservatore, o in
casi in cui l’osservatore stesso senta di dover “fare qualcosa” per alleviare la
sofferenza di uno dei due componenti la coppia in osservazione, o per facilitarne la
relazione. In questi casi l’osservatore deve saper resistere alla frustrazione e al
proprio disagio, perché in quella frustrazione e in quel disagio gli viene incontro una
figura solo apparentemente non protagonista del sistema osservativo: il proprio
bambino interiore.
Il nodo della questione è: se ci si limita ad osservare la coppia madre bambino senza
agire in alcun modo né dietro richiesta né su iniziativa personale, s’impara nel tempo
a riconoscere nella voglia di agire delle identificazioni proiettive che di volta in volta
106
potranno essere con la madre o con il bambino, o con terze parti (ad esempio altri
membri della famiglia coinvolta nell’esperienza). S’impara a riconoscere parti della
propria personalità che entrano in “risonanza” con la coppia madre bambino e da
queste parti risonanti attraverso la supervisione s’impara a riconoscere il proprio
controtransfert, e a gestirlo. Quindi, oltre l’esperienza di osservazione in sé che da i
primi elementi su come gestire un setting (cadenza regolare degli incontri, gestione
dei rapporti con la famiglia…) la parte importante del lavoro sta proprio nel “limite”
che l’osservatore ha nei confronti del suo istinto ad agire, poiché questo è lo specchio
attraverso il quale l’osservatore apprende a fare conoscenza con le ferite del suo
bambino interiore, impara a misurarle, ad esserne consapevole e via via a rimetterle
in gioco, trasformate in consapevolezza e nuove abilità come futuro terapeuta. Saper
rinunciare all’agito infatti durante questo training aiuta a disidentificarsi da sé, per
poter riconoscere il transfert di chi abbiamo di fronte nel nostro personale
controtransfert. Questo educa il futuro terapeuta a trovare con maggior abilità ed
efficacia l’empatia tra sé e il proprio cliente, ad approfondire l’empatia per trovarsi in
uno stato di holding66, stato per molti aspetti più profondo rispetto all’empatia, una
condizione in cui proprio perché ci si è riconosciuti nel proprio controtransfert si
può realmente riconoscere l’altro, ascoltarlo, aiutarlo a ritrovarsi. È importantissimo
rilevare come molte delle relazioni finali di terapeuti che abbiano condotto una
esperienza di Infant Observation riportino a chiare lettere che NON abbandonare il
proprio ruolo di osservatore senza cedere alla tentazione d’agire in qualità di
terapeuta è stato spessissimo più produttivo rispetto alle esperienze in cui
l’osservatore abbia in qualche modo agito come terapeuta all’interno della situazione.
Nel primo caso infatti, l’osservatore ha svolto le funzioni di contenitore e specchio
per le ansie, dando modo alla famiglia o alla madre di riconoscere la propria
situazione di disagio e di affrontarla responsabilmente e in prima persona.
66
Il termine è usato da Winnicott
107
Definire il MUSICOTERAPEUTA
[«(…), la musicoterapia è ad un grado di sviluppo in cui questi problemi di identità
debbono essere esaminati67»]
Il musicoterapeuta: “musico”
La musica è nello stesso tempo il contenente e il contenuto della relazione
terapeutica. Questo da una valenza cardinale alla pratica musicale in musicoterapia.
Abbiamo un mezzo per dire senza dire, per lavorare sulla sofferenza delle persone e
sulla nostra sofferenza personale. Attraverso la musica possiamo rendere meno
aggressiva e angosciante la sofferenza, accedervi e trasformarla in modo dolce ed
ecologico per gli esseri umani68. Abbiamo uno strumento per rendere la riabilitazione
meno noiosa e più “produttiva”, tanto a livello fisico che a livello psicologico e
spirituale, ad esempio nei casi di paralisi cerebrale.69
Il musicista è in grado di gestire il linguaggio musicale perché lo ha provato su di sé e
ha sperimentato quel particolare tipo di ascolto empatico e di auto ascolto, imparando
a suonare nel qui e ora il suo ascolto attraverso la lettura, l’interpretazione e
l’improvvisazione.
La musica è una forma di linguaggio primitiva rispetto alla parola, è il linguaggio
base della sintonizzazione madre bambino, quando la musica è talmente dentro il
tono delle parole della madre e delle risposte del bambino che non solo è
estremamente semplice rilevare a livello acustico i rapporti intervallari nelle
vocalizzazioni dei due comunicanti, ma è anche impossibile non notare quale sia il
processo di comunicazione, che di per se stesso è portatore di senso, ma lascia il
campo molto aperto al significato, consentendo al bambino e alla madre di sentirsi
67
K. Bruscia, Definire la musicoterapia, ISMEZ, Roma 1999
L. Bunt, Musicoterapia, un’arte oltre le parole, ed. Kappa, Roma
69
J. Bean: “La musicoterapia ed il bambino con paralisi cerebrale: interventi direttivi e non
direttivi”, in Wigram, Saperston, West, Manuale di arte e scienza della musicoterapia, 1995 OPA,
1997 ISMEZ, Roma
68
108
liberi e a un tempo contenuti e riconosciuti nella loro relazione70, strutturandone
gradualmente i significati.
Il musicista possiede un’ottima base per poter fare da specchio all’altro: l’ascolto
musicale consapevole. Attraverso la formazione musicale ha già appreso (più o meno
consciamente) a fare da contenitore e da contenuto alle opere che esegue o
improvvisa.
Potremmo dire: «Mi ascolto e ti ascolto (partitura), mi leggo e ti leggo (partitura), mi
esprimo e ti esprimo». L’esecutore attraverso il suo ascolto fa da filtro alla musica: è
una valida metafora del ruolo musicoterapeutico.
La valigia del musicoterapeuta: quale musica si porta in terapia?
Tutti i musicoterapeuti possiedono borsoni pieni di strumentini: contengono la parte
“solida” dello strumentario del musicoterapeuta. C’è poi un bagaglio invisibile.
Appartiene alla classe di “oggetti” che al cap. 2 abbiamo chiamato “livello funzionale
teorico” del terapeuta. Si tratta del bagaglio musicale che il terapeuta è in grado di
gestire in terapia, che per grandissima parte inciderà sulla musica in divenire durante
la terapia.
Bruscia si chiede quali siano i confini della musica: «(…) è esclusivamente umana, o
comprende fonti di suono ambientali o naturali? Secondo quali criteri giudichiamo
cosa è organizzato, e cosa no? Cosa è significativo nella musica, e cosa non lo è?»71.
Tutti gli elementi non verbali che costituiscono elemento di comunicazione in terapia
vibrazione, suono, rumore e ritmo sono portatori di senso. Il significato del termine
musica per un musicoterapeuta assume necessariamente una valenza molto più
allargata rispetto all’accezione comune del termine. Un musicoterapeuta può essere
portato a pensare, paradossalmente, che tutto quanto accade in seduta possa essere
chiamato musica. Nella sua classificazione degli strumenti musicali72 Benenzon
include anche quelli ricavati dai suoni della natura e dagli strumenti musicali nonconvenzionali. Potenzialmente ogni oggetto può considerarsi strumento musicale.
70
A. Oldfield, Comunicare tramite la musica: l’equilibrio tra seguire ed iniziare, in “Manuale di
Arte e scienza della musicoterapia”, 1995 OPA, 1997 ISMEZ, Roma
71
K. Bruscia, Definire la musicoterapia (1989), ISMEZ, Roma 1999
72
R. O. Benenzon, G. Wagner, V. H. de Gainza, La nuova musicoterapia, ed. Phoenix, Roma 1997
109
A produzione sonora può non essere organizzata a tal punto da dar vita a quella che
nell’accezione comune viene definita musica. Spesso la musica inizia percuotendo un
pavimento, il muro o… il terapeuta stesso! L’importante quindi è saper valorizzare
una musicalità apparentemente priva di significato in modo creativo.
Si potrebbe obiettare che non sono necessarie competenze musicali specifiche per
essere musicoterapeuti in un contesto in cui la musica può non essere vera musica. La
competenza musicale approfondita da parte del terapeuta è invece una conditio sine
qua non per la pratica musicoterapica consapevole ed efficace. L’esperienza musicale
rende aperto e recettivo il musicoterapeuta poiché lo allena all’ascolto consapevole in
terapia in maniera graduale ed ecologica, come più volte sottolineato in precedenza.
Si può affermare quindi che per un terapeuta è fondamentale essere consapevole di
quale musica sia in grado di portare in terapia, conscio del fatto che lui per primo è in
costante divenire come musicista e terapeuta, quindi può sempre migliorarsi.
Il repertorio sul quale il musicista si è formato, e quello “classico” per il proprio
strumento in particolare, è un bagaglio irrinunciabile: fornisce la tecnica vera e
propria, allena all’ascolto, garantisce quindi una buona autonomia allo strumento e
quindi sicurezza nell’espressione al terapeuta.
La musica di un terapeuta non si ferma al suo repertorio base: sapere improvvisare o
“citare” al proprio strumento è fondamentale, in quanto musicista, e in quanto
terapeuta. L’improvvisazione deve essere centrata sul cliente, calibrata su di lui, sui
suoi personali bisogni.
È importante rilevare che la capacità improvvisativa, dote tra le più spendibili di un
musicoterapeuta, può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Il musico presente in ogni
musicoterapeuta, seppure portatore di una capacità empatica eccellente, corre il
rischio di «estraniarsi» attraverso la sua musica: d’improvvisare cioè non badando ai
bisogni del cliente ma a ciò che in quel momento gli piace, o a ciò che è specchio
solo del suo auto ascolto in terapia, non dell’ascolto del “sistema” relazione. È un po’
come interpretare una partitura senza tener conto delle volontà e dell’autore. Dare una
interpretazione troppo personalistica ed “ego-centrata” è segno di chiusura
all’ascolto. La terapia quindi può non avere luogo, in questo caso.
110
Saper improvvisare in modo eccellente può essere una barriera. La musica del
terapeuta a quel punto non sarà più segno tangibile d’interesse e partecipazione, sarà
solamente musica che autogratifica il terapeuta.
D’altro canto è vero che una bella musica secondo l’accezione comune del termine
può essere di grande aiuto in terapia, in quanto agente facilitatore nel contesto della
seduta per la creazione di un clima di gioia e di piacere tali da spingere il cliente ad
aprirsi.
Non basta. Una bella musica non è curativa di per sé. In questo caso il mestiere di
musicoterapeuta non avrebbe ragione d’essere. I concerti o i Compact Disc di musica
che amiamo fornirebbero da soli il principio attivo che fa da motore al cambiamento.
Di fatto la presenza del musicoterapeuta sarebbe inutile. Giulia Cremaschi sostiene
che sapere improvvisare brani esteticamente belli, sullo stile dei grandi compositori
dell’età classica (Mozart, Beethoven…), renda il processo terapeutico più gradevole
ed efficace. «(…) nel mondo di sofferenza del bambino la musicoterapia introduce la
bellezza: l’estetica, l’attenzione al bello fanno il loro ingresso… (…) Il terapeuta
adulto, per convincere il bambino ad aprirsi alla vita, gli offre ciò che di meglio
conosce: la bellezza dell’arte»73. La presenza di un terapeuta che improvvisa
ricalcando gli stati d’animo del suo cliente, ascoltandoli e riproducendoli nella
musica invece è il vero
PRINCIPIO
ATTIVO
dell’improvvisazione musicale
esteticamente bella. Il cliente è una partitura da leggere, interpretare ed eseguire. È lui
a fornire il punto di partenza, il senso dell’improvvisazione, il terapeuta ascoltandolo
gli offre un contesto d’opportunità all’interno del quale aprirsi, nella gioia della
bellezza.
In una seduta di musicoterapia non sempre (quasi mai…) si può ricorrere
all’improvvisazione basata su brani classici noti o “in stile classico”. Spesso
improvvisare significa improvvisare a due: la parola è sostituita dagli strumenti che
cliente e terapeuta stanno suonando. S’instaura un vero e proprio dialogo attraverso
l’ascolto empatico che il terapeuta assicura al suo cliente. Gaggero a questo proposito
dice: «Spesso il fornire ai clienti la possibilità d’esprimersi creativamente ha ricadute
73
M. Scardovelli, Musica e trasformazione, 1999, Borla, Roma
111
terapeutiche o riabilitative positive anche su quegli aspetti comportamentali o
sintomatologici più direttamente legati alla loro patologia (…) ogni espressione
musicale, a prescindere dalla sua qualità “tecnica” ed “estetico-formale”, costituisce
una testimonianza piena ed integrale di dignità umana (…)»74. Uno spettatore che
assista a una seduta di musicoterapia spesso può trovarsi spiazzato, pensando di udire
un rumore disorganizzato e afinalistico.
La cosa importante della musica in terapia è che sia “clinica”, come dicono Nordoff
e Robbins75. Ciò che rende clinica la musica è dato proprio dalla presenza autentica
del musicoterapeuta e dalla sua capacità di testimoniare la sua presenza attraverso il
suo ascolto. La musica diviene clinica, quando quello che il terapeuta ha da offrire è
un suono che ritrae il cliente, lo mette al centro del discorso e tramite il suo ascolto e
la musica che ne scaturisce, sia essa organizzata o meno, sa dire: «Sono qui per te, mi
sforzo di comprenderti, sono interessato a quel che hai da dire e alla tua ricerca di
cambiamenti positivi nella tua vita.»
È fondamentale poter offrire una musica esteticamente bella, frutto di un bagaglio
musicale classico che prepara e allena il terapeuta. È importante essere consci della
musica che si è in grado di portare in terapia, dell’immagine musicale che si offre di
sé. Ma è fondamentale che questa musica sia soprattutto il risultato di un vero
incontro umano tra cliente e terapeuta. Senza questo la terapia non può aver luogo
nemmeno se il terapeuta stesse improvvisando la più grande musica di tutti i tempi.
La musica veramente terapeutica è quella prodotta dal terapeuta che accetta
d’incontrarsi nell’autenticità con il suo cliente.
Il musicoterapeuta: Terapeuta
Come abbiamo visto al capitolo 2.1, la scelta di fare il terapeuta è spesso dettata da
una serie di concause: vocazione personale, propensione a mettersi a disposizione
degli altri, traumi vissuti che spingono la persona a un cammino di analisi che lo
porta a scegliere di svolgere il ruolo di facilitatore in una relazione d’aiuto.
74
75
G. Gaggero, Esperienza musicale e musicoterapia, 2003, Mimesis, Milano
K. Bruscia, Modelli d’improvvisazione in musicoterapia (1987), ISMEZ, Roma 2001
112
Si potrebbe quasi affermare che un musicoterapeuta nasca con la predisposizione a
fare questo mestiere, ma che scelga veramente di mettersi in gioco in una relazione
d’aiuto anche in base alla riflessione sulla sua storia personale. Quindi “si nasce”
musicoterapeuti, ma “si diventa” musicoterapeuti.
Un terapeuta, prima di tutto, è un attento e consapevole ascoltatore/osservatore,
qualcuno che fa da specchio al proprio cliente consentendo a quest’ultimo di trovarsi
ed esplorare risposte nuove alle sue vecchie domande di crescita personale.
Abbiamo stabilito al cap. 2 quali siano i ruoli e le funzioni del terapeuta, questo però
senza leggerli in funzione dell’entrata nel ruolo di musicoterapeuta.
Il principio attivo della terapia sta nella relazione umana che scaturisce dal rapporto
terapeuta/cliente. È proprio in funzione di questa che la struttura della terapia, fondata
sulla capacità d’osservazione/ascolto e auto-osservazione/auto-ascolto del terapeuta
può avere luogo, dando inizio al processo terapeutico. In questo processo ha
fondamentale importanza la capacità del terapeuta di fornire un contenitore alla
relazione, fatto questo che avviene in primo luogo addestrandosi all’ascolto partecipe.
La capacità d’ascolto empatico nei confronti del cliente è fondamentale ai fini della
buona riuscita della terapia e del ruolo.
Nel musicoterapeuta l’accesso a una caratteristica di ruolo importante come la
capacità d’ascolto empatico ha già avuto un suo allenamento parallelo nella
formazione musicale, dalla quale il musicoterapeuta può attingere a piene mani.
In seduta, l’enorme differenza tra terapia e musicoterapia è il linguaggio utilizzato per
la comunicazione: la musica. In seduta la parte solista va alla musica, e tutto si
risolve lì, senza parole. Senza attribuzione apparente di significato agli avvenimenti
clou della seduta. È vero che non è vietato parlare. È altrettanto vero che la parola
durante una seduta è un suono. Il terapeuta stesso spessissimo descrive cantando le
azioni compiute dal cliente, dando così un messaggio: la parola non è necessaria, il
punto nodale dell’incontro sta nella capacità d’esprimersi creativamente tramite la
musica. Questo per poter dire: sono qui, ti ascolto, ti accolgo, sono partecipe.
113
IL MUSICOTERAPEUTA
Musicoterapia è una parola composta dalle parole “musica” e “terapia”, che
potremmo definire “papà” e “mamma” di questa disciplina. In qualità figlia, essa
porterà in sé i caratteri genetici del padre e della madre; questi ultimi, “miscelati”
debitamente daranno origine ad un organismo nuovo. Pur somigliando a mamma e
papà quest’organismo sarà un essere unico, dotato di peculiarità assolute rispetto ai
genitori. Il musicoterapeuta ha in sé tanto le professionalità del musicista, quanto
quelle del terapeuta. La formazione personale di un musicoterapeuta prevede che ci
sia una massa di dati da assimilare e far propri. Bisognerebbe col tempo incarnare
quei dati: farsi voce consapevole e spontanea di valori e di tecniche, confrontarli con
le proprie premesse epistemologiche di partenza, integrare le due cose e negoziare col
terapeuta in divenire che è in noi.
Ciascuno ha i suoi tempi. Al momento la strada più ecologica consiste nello stabilire
una cornice di lavoro comune a tutti i musicoterapeuti.
Tra le competenze comuni io metterei la capacità di definire il ruolo e le funzioni di
musicoterapeuta, e la capacità di negoziare con il livello funzionale teorico e pratico
man mano che la professione porta ad affrontare diverse “utenze” e differenti contesti
di lavoro.
«La sfida di una vera formazione è quella di liberare le forze evolutive presenti in
ogni contesto, a partire dal contesto del proprio mondo interno». (Scardovelli)76
La principale forza evolutiva da liberare in un percorso di formazione è spessissimo
la più dura e difficile da liberare. Si tratta della consapevolezza. Implica che per
primo l’allievo si renda disponibile affinché ciò avvenga, e questa disponibilità non è
sempre da dare per scontata.
Riconoscere la propria soggettività, con tutto ciò che di positivo e negativo essa porta
con sé, è la parte preponderante del lavoro di formazione. È fondamentale prendere
coscienza di sé stessi come persone, delle proprie motivazioni a scegliere il lavoro di
76
Mauro Scardovelli, Formazione e PNL umanistica, www.pnlumanistica.it/pnl
114
musicoterapeuta, andare “a caccia” dei propri limiti e metterli in gioco per accedere a
una migliore conoscenza di se stessi.
Quali sono gli attributi a livello funzionale teorico e pratico del musicoterapeuta?
Ricorro qui ad un passo di Bunt e Hoskyns 77 che mi sembra illuminante:
Competenze artistico-musicali
♫ Una sviluppata capacità di attenzione al più piccolo dettaglio;
♫ Un approccio al lavoro altamente disciplinato;
♫ Essere in grado di ascoltare gli altri; per esempio nella musica da camera e con
piccoli organici senza nessuno che svolga la funzione di direttore, in cui ci si
sintonizza in base a modalità partecipative intuitive, comunicando all’interno
di un delicato equilibrio nel quale si integrano il condurre e l’essere condotti;
♫ La precisa consapevolezza di importanti parametri musicali quali tempo e
fraseggio;
♫ La capacità d’integrazione artistica e di assumersi rischi in modo immaginativo
e creativo.
Competenze personali
♫ La capacità di empatizzare con persone di ogni età e con una ampia gamma di
bisogni;
♫ Tolleranza, specialmente in relazione a punti delicati quali razza e sessualità;
♫ Pazienza;
♫ Essere “aperti” e possedere una attitudine ad un pensare interlocutorio;
♫ Gentilezza ed energia
♫ Flessibilità ed adattabilità
♫ Senso dell’umorismo
♫ Equilibrio emotivo.
77
L. Bunt et S. Hoskyns, the Handbook of Music Therapy, Brunner. Routledge, Hove, 2002
115
Questo “decalogo” degli attributi di ruolo di un musicoterapeuta può essere
considerato super partes. Può fungere da base nella ricerca sul ruolo terapeutico in
musicoterapia. Ottimismo, responsabilità dell’ingresso del ruolo, disciplina, adultità,
capacità di mantenere la giusta distanza, capacità d’auto ascoltarsi, sono attributi che
in questo schema vengono nominati e sintetizzati, presi a prestito dalla psicoterapia
ma modulati, resi musicali e fruibili da molti, se non da tutti, i musicoterapeuti. Qui
sono definiti il livello del ruolo e quello della funzione teorica e pratica per un
musicoterapeuta.
L’attenzione al dettaglio: il vestito, i gesti, lo sguardo del cliente che fa il suo
ingresso in seduta, l’attenzione al tono delle sue risposte, siano esse musicali o
verbali hanno enorme importanza per valutare quale tipo di risposta dare al cliente,
momento per momento.
L’essere musicista ha già abituato il musicoterapeuta ad essere disciplinato, almeno
per ciò che concerne i musicisti che hanno una preparazione accademica o comunque
“specializzata”: per loro l’attenzione al piccolo dettaglio agogico o di fraseggio hanno
grande rilevanza. Saper suonare in quartetto implica non solo grande capacità
d’ascolto dei propri compagni, ma anche grande capacità d’auto disciplina.
Ascolto e autoascolto sono doti che permettono al musicoterapeuta di riuscire a “stare
nella percezione” e lasciare che sia la “percezione” ad agire in terapia. Il
musicoterapeuta diventa una sorta d’antenna che riceve e trasmette rimanendo in
equilibrio tra fare e non fare: quante volte capita che al termine di una seduta il
terapeuta si chieda: «Ho suonato troppo? Ho suonato troppo poco? Ero presente?
Oppure… ero invadente?». Riuscire ad essere buoni ascoltatori di sé stessi e del
proprio cliente consente di mediare in tempo reale tra se e il cliente, tra il polo del
fare, inteso come suonare, spronare, rischiando di opprimere il cliente, e il polo del
non fare, inteso come lasciare troppa libertà al cliente, che rischierebbe di sentirsi non
contenuto a sufficienza.
Essere “aperti” e possedere una attitudine ad un pensare interlocutorio include in se
anche la capacità d’essere costantemente in bilico ed in grado di mediare. Spesso si
116
sente parlare d’attitudine “direttiva” o “non direttiva” del terapeuta e di conseguenza
di “direttività” o “non direttività” in terapia. La questione in sé è spinosissima: in
effetti c’è un’enorme differenza tra le due “funzioni pratiche” di un terapeuta, non è il
caso di provare a dirimere la controversia in questa sede. Al di là della
predisposizione naturale di ogni singolo musicoterapeuta verso l’uno o l’altro polo, è
interessante sottolineare che tramite l’ascolto, il “pensare interlocutorio”, si può
entrare in uno stato di consapevolezza tale, in seduta, da essere in grado di modulare
la propria capacità direttiva (o non direttiva) su ciascun cliente, e a seconda della
situazione che si viene a presentare in terapia. Si può essere in grado di mediare in
maniera costante.
Matching, pacing, leading
Matching, pacing e leading sono tre termini che indicano le varie fasi di un percorso
di terapia. Questi momenti possono segnare lo sviluppo di un intero percorso di
terapia, oppure li possiamo ritrovare contemporaneamente presenti nell’arco di
ciascuna seduta. Questi tre stadi del percorso di terapia dipendono dalla capacità del
terapeuta di essere davvero presente in terapia, e ovviamente dalla sua esperienza.
♪ Matching: il musicoterapeuta ascolta e “studia” il cliente per accordarsi con lui
e creare empatia, facendolo sentire accettato e ascoltato nel profondo; una volta
stabilito il primo contatto, il terapeuta attua il
♪ Pacing, cioè sta al passo col cliente, ricalcandone le modalità espressive. In
questa fase il terapeuta crea la “base sicura” che permette al cliente di sentirsi
sicuro di sé e del rapporto con il terapeuta tanto da poter recuperare energie
necessarie per ricominciare a “esplorare” se stesso e il mondo circostante.
♪ Nella fase di Leading (condurre), il terapeuta propone alternative al di fuori
dell'esperienza del cliente; da qui inizia il percorso che fa scoprire al cliente le
sue risorse.
Il musicoterapeuta testimonia la sua presenza in terapia grazie alla qualità del suo
ascolto, che nelle fasi di Matching Pacing e Leading svolge un ruolo differente.
117
Attraverso la restituzione in musica della sua capacità d’ascolto è in grado di dire al
cliente «Ci sono, comprendo, m’interessa78».
La fase di Matching e quella di Pacing contribuiscono in maniera determinante alla
creazione del rapport, «un’intensa relazione di fiducia, ovvero una relazione empatica
costruita mediante il ricalco del mondo interno del bambino»79. Quello su cui vorrei
soffermarmi è il ruolo dell’ascolto nella fase di rapport (matching e pacing) e in
seguito in quella di leading. La relazione empatica deriva direttamente dal ricalco del
mondo interno del bambino (del cliente). Il terapeuta dovrà prestare grande
attenzione a mille parametri che possono essere considerati spia di quanto accade nel
mondo interno del cliente, ad esempio: respiro, frequenza cardiaca, tono muscolare,
colore della pelle, postura, posizione della testa, direzione dello sguardo,
abbigliamento, posizione nello spazio, strumenti scelti (o non), modo di suonarli (o
non).
Questi parametri possono effettivamente fornire una bussola in tempo reale rispetto
allo stato del cliente in terapia, e il terapeuta, una volta rilevato tutto l’insieme di dati
che ha visivamente e acusticamente a sua disposizione deve ricalcarli.
Ricalcare non significa ricopiare. Se il terapeuta assume in toto come fossero suoi la
frequenza respiratoria, la postura etc… del cliente si sta limitando a farne una copia
più o meno esatta, che nel migliore dei casi metterà a disagio il cliente, poiché sarà
una copia superficiale. Rappresenterà solo l’interpretazione e la lettura del terapeuta
rispetto alla produzione del cliente. Il vero ricalco da parte del terapeuta sa di essere
la risultante dell’incontro tra musicisti che improvvisano e si stanno sintonizzando. Si
tratta di andare alla ricerca di una “accordatura ben temperata” che dia al cliente lo
spazio per esprimersi e la percezione di sentirsi accolto per ciò che veramente è e
permetta al terapeuta, nella giusta distanza di fare da specchio al cliente,
restituendogli particolari della sua produzione musicale i quali saranno però
inevitabilmente frutto dell’ascolto del terapeuta, unico e irripetibile. Insomma, il vero
ricalco non può esistere se il terapeuta non accetta d’esserne parte e di essere uno
78
79
G. Gaggero, Esperienza musicale e musicoterapia, Mimesis, Milano 2003
M. Scardovelli, Musica e trasformazione, Borla, Roma, 1999
118
specchio che inevitabilmente potrà riflettere solo alcuni particolari dell’immagine
propostagli. In effetti, come detto al cap. 1, solo Schubert potrebbe eseguire la sua
“Wandererfantasie”: è l’unico che ne conosce il senso ed è in grado di leggerne il
significato profondo. L’esecutore fornirà una interpretazione, una restituzione del
brano. Allo stesso modo, il cliente è l’unico portatore del vero senso e del vero
significato del suo discorso in musica, il terapeuta ne può fornire una restituzione
accuratissima, ma sa che attraverso il suo ascolto passerà anche qualche cosa di sé.
Per quanto riguarda la fase di leading, quella durante la quale il musicoterapeuta
inizia ad arricchire il quadro costruito fino a quel momento, è utile riportare una
considerazione di S. Rosen a proposito dei racconti che usava con i clienti dei quali si
occupava, in qualità di psicoterapeuta: «…la mia scelta dei racconti non era
determinata da alcun preconcetto, (…) è importante anche sottolineare che questo
processo avveniva nel contesto di una buona relazione terapeutica. I clienti
enucleavano le parti del racconto che si riferivano al loro caso. Non erano
necessariamente quelle parti che io pensavo avrebbero scelto. Ma erano d’aiuto.»80.
Durante la fase di leading il terapeuta propone alternative al di fuori dell'esperienza
del cliente, nel tentativo di far scoprire al cliente le sue potenzialità di cambiamento.
Il cliente nel rispondere al terapeuta si avvarrà della sua capacità d’ascolto, delle sue
esperienze, e non è detto che risponda al terapeuta come questi si aspetta che
avvenga. Ancora una volta sta alla capacità d’ascolto del terapeuta creare la
necessaria mediazione che consenta di calibrarsi sulle risposte musicali del cliente e
continuare insieme a lui a scoprire territori nuovi.
Già, anche il corpo… SUONA!
Questo paragrafo non è dedicato ad illustrare le tecniche di percussione del corpo,
che pure sono un validissimo modo di fare musica attraverso la propria corporeità e
possono essere un valido strumento.
Ci sono elementi presenti in un incontro di musicoterapia che a prima vista possono
apparire marginali perché dati per scontati, non essere considerati elemento musicale.
80
M. Erickson, La mia voce ti accompagnerà (1982), i racconti didattici di Milton Erickson a cura
di Sidney Rosen, Astrolabio, Roma, 1983
119
In realtà questi elementi sono musicali “in prima persona” o facilitano la
comunicazione musicale tra musicoterapeuta e cliente: respiro, voce e alla gestualità
intesa in senso globale.
La presenza del terapeuta in seduta è innanzitutto una presenza musicale, come
abbiamo visto: il terapeuta offre la musica come strumento di relazione,
comunicazione e quindi di terapia. La presenza fisica e corporea del terapeuta è
naturalmente musicale, ed è bene esserne coscienti. Il corpo umano è il primo
“strumentone”che si porta in terapia, attraverso il suo stare in terapia, ma soprattutto
attraverso la musicalità del respiro e della voce.
Molti clienti si rivelano in grado di cogliere tutti i segnali che provengono dal
musicoterapeuta, anche se piccoli e apparentemente insignificanti. Uno dei parametri
cui il cliente è spesso intuitivamente più sensibile è la respirazione.
La base musicale della presenza del corpo del musicoterapeuta in terapia è il suo
respiro. La sua regolarità, rilassatezza, distensione, sono dati che forniscono un
indicatore della congruenza del terapeuta durante la seduta. Bastano pochi attimi per
modificare questi parametri in modo da facilitare o complicare la comunicazione.
A ben guardare gli stessi brani musicali respirano: il respiro della musica segna lo
svolgersi della narrazione. L’esecutore partecipa di questo “respiro” anche
fisicamente, accompagnandolo ricalcandolo con la sua respirazione. Questo processo
dà freschezza e autenticità alla musica; rafforza nell’ascoltatore l’impressione di
congruenza del musicista, dà all’esecutore la sensazione di una presenza “profonda”
nella musica che suona.
Allo stesso modo il musicoterapeuta nel percepire il suo respiro avrà indicazioni utili
per sapere come sta, e potrà rintracciare anche eventuali blocchi energetici che gli
impediscono un ascolto consapevole del suo cliente.
La respirazione “monitorata” in modo costante favorisce la musicalità del terapeuta e
l’autenticità della sua presenza verso il cliente, poiché è una forma di comunicazione
molto primitiva, filogeneticamente e ontogeneticamente parlando.
Inoltre, sapere come si sta respirando permette di essere autentici nel parlare e nel
cantare. Il tono di voce sarà specchio fedele del senso dei messaggi, musicali o
120
verbali che essi siano. La naturalezza e congruenza della voce in terapia sono
importantissime, sono una garanzia d’ascolto per il cliente.
Monitorare il respiro non significa controllarlo o “dirigerlo”, correndo l’ovvio rischio
di alterare la presenza in terapia tramite un ritmo artefatto. Monitorare il respiro
significa prenderne atto, lasciare che la percezione guidi il modo di stare in terapia,
accettandolo, prendendo atto anche di blocchi, difficoltà. Questo allo scopo di essere
strumento musicoterapico autentico per il cliente.
La voce è lo strumento di comunicazione più potente e diretto tra terapeuta e cliente,
poiché è in grado di scatenare ricordi anche molto primitivi della persona, poiché è il
segno più autentico della presenza del musicoterapeuta in seduta, proprio perché
“figlia” del respiro.
121
CONCLUSIONI
La ricerca dei cardini fondanti il ruolo del musicoterapeuta permette di fissare un
sistema di assi cartesiani entro i quali muoversi nel proprio lavoro. Attraverso questi
assi cartesiani un musicoterapeuta può sviluppare la sua ricerca e la sua professione a
trecentosessanta gradi.
L’ascolto consapevole si è rivelato filo d’Arianna attraverso il quale si è dipanata la
ricerca dei possibili fondamenti del ruolo terapeutico. Esso rende possibile
l’individuazione del livello filosofico, del livello strutturale e del livello processuale
del ruolo del musicoterapeuta, indipendentemente dalle scuole di pensiero. Permette
l’approccio a queste ultime nel rispetto profondo di ciascuna, mette le varie scuole in
dialogo, con l’obiettivo di aprire un confronto fruttuoso che tenga conto di
somiglianze e differenze tra vari “mondi” da parte del musicoterapeuta, il quale avrà
modo
di
indagare
costantemente
sulle
tecniche,
in
base
alle
premesse
epistemologiche di ciascun filone senza correre il rischio di compiere sofisticazioni o
eccessive semplificazioni.
Marianella Sclavi propone “Le sette regole dell’arte di ascoltare”. Queste regole
pongono l’accento sull’importanza di non interpretare l’interlocutore, evitando
d’arrivare a conclusioni, a tutti gli effetti non determinanti. È importante saper
relativizzare il proprio punto di vista, vederlo, percepirlo, poiché esso è un filtro nei
confronti della realtà: la disidentificazione ha quindi un’enorme importanza per poter
percepire quali siano i filtri personali, le premesse epistemologiche. Disidentificarsi
significa anche assumere temporaneamente altri filtri, altri sistemi di premesse
nell’approccio alla realtà: parliamo di empatia, di capire il punto di vista degli altri.
Un ruolo importantissimo nell’ascolto è affidato alle emozioni, che «Non ti
informano su cosa vedi, ma su come guardi», quindi forniscono informazioni sul
modo d’ascoltare, sui filtri che ciascuno applica alla relazione. I segnali “marginali e
irritanti, perché incongruenti con le proprie certezze” che provengono dall’ascolto
fanno da bussola ad un buon ascoltatore. Questi sono elementi che aiutano
moltissimo nell’incontro con l’Altro, perché ci mettono in discussione. Attraverso
122
l’esercizio dell’ascolto così come viene proposto da Sclavi si può apprendere a
gestire in maniera ecologica il conflitto e i dissensi, essere più ricettivi ed equilibrati,
più centrati nella relazione e in grado di vedere il lato umoristico e positivo di ogni
incontro.
Queste sette regole sono riassuntive: l’ascolto aiuta la mediazione, l’analisi dei
problemi. Aiuta a disidentificarsi da sé per poter riconoscere l’Altro da sé di cui
ciascuno è naturalmente portatore, consente di mettere in dialogo le parti, un dialogo
senza pregiudizi. Potremmo assimilare questo dialogo alla forma musicale della fuga:
un tema che viene raccolto ed elaborato dalle varie parti (o voci), in un’architettura
complessa, in cui nessuna voce viene tralasciata e tutti gli elementi della costruzione
musicali sono di volta in volta messi in luce dalle varie parti.
Si crea un dialogo, un confronto, che non vuole cercare risposte definitive, che non si
propone di elaborare dogmi, ma media continuamente fra le varie parti, fra le voci.
Gli “ossimori”: “arte/scienza”, “genio/regolatezza”, “oggettività/soggettività” sono
continuamente analizzati, composti e scomposti armonicamente, alla ricerca di volta
in volta di una soluzione ecologica per la diade “cliente/musicoterapeuta”.
123
124
VARIAZIONE
di Sergio Gonzo
Il titolo di questo articolo può sembrare un’etichetta presa a prestito dalla forma
musicale anonima. In effetti, le analogie non mancano tra la forma variazione e lo
svilupparsi del processo musicoterapeutico. Con l’aiuto di immagini raccolte a
dimostrazione dell’esperienza, ho osservato che in alcuni casi i cambiamenti e i
risultati terapeutici più significativi sono avvenuti in concomitanza di un evento che si
discosta dal ripetitivo, regolare svolgersi delle sedute. Se dovessimo elencare alcuni
dei sinonimi del termine variazione (eccone di seguito alcuni: diversità, differenza,
cambiamento, trasformazione, modificazione, mutamento, ecc.), ci accorgeremmo che
ognuno di loro deve soddisfare, per trovare giustificazione d’impiego, alcune
domande. Formuliamone alcune:
• Tra chi?
• Tra che cosa?
• Da che cosa?
• Da chi?...
…e ancora
• Quando è successo?
• Cosa è successo?
• E prima com’era?
Anche se può sembrare un esercizio scontato e inutile pensare a ciò che ci si può
chiedere leggendo queste parole, lo propongo per riflettere su alcuni aspetti
fondamentali contenuti nella parola variazione, conseguenti uno all’altro.
Innanzitutto si intende interessato dalla trasformazione qualcosa di conosciuto, e la
conoscenza necessità di un processo di apprendimento; il secondo aspetto riguarda il
125
chi o il che cosa varia. In entrambi i casi ci si aspetta di vedere il soggetto/oggetto in
questione modificato rispetto alla condizione di partenza; pensiamo poi al tempo e più
precisamente al trascorrere del tempo. Parlando di variazione, si pensa ad un prima
un durante ed un poi dove il soggetto/oggetto si collocherà.
Tenendo in considerazione questi tre punti vorrei, attraverso la descrizione di
alcune variazioni/modifiche introdotte appositamente come scelta operativa o
avvenute spontaneamente all’interno del setting, segnalare i cambiamenti e
l’evoluzione di una relazione terapeutica. Il caso si riferisce a N.F. un bambino….
Dopo una sintetica esposizione passeremo ad analizzarne le valenze terapeutiche.
a) Variazioni Volute
Modifiche allo strumentario: dopo un inizio di percorso in presenza di strumentini
la maggior parte degli stimoli sonori e il materiale sonoro utilizzato furono il tamburo
e il flauto . Fu introdotto alla quarta seduta il lettore Cd. Le canzoni ascoltate sono
tratte dalla raccolta di musiche dello “Zecchino d’Oro”. Il loro utilizzo era una risorsa
sicuramente da utilizzare ma si decise di introdurla dopo le prime sedute di
osservazione per verificare innanzitutto le risposte ad altri stimoli sonori di N.F. Ciò
contribuì a rafforzare il rapporto tra musicoterapeuta e N.F. visto il particolare
attaccamento di N.F. a queste canzoni. Si poté sfruttare la loro funzione di base
conosciuta per progredire nella terapia. Nell’ottavo incontro si introdusse una piccola
tastiera elettronica, uno strumento facile da far suonare che non abbisogna di una
particolare specializzazione e di capacità di esecuzione. Si introdusse verso la fine del
percorso per provocare un distinto cambiamento di rotta alla terapia e aprire nuove
finestre di dialogo. In vista, inoltre, della conclusione delle dieci sedute, si pensò di
non “adagiarsi su attività sicure e “appuntamenti fissi”, lasciare insomma delle vie
nuove da percorrere nel futuro.
Spostamento degli oggetti all’interno del setting: l’accoglienza di N.F. nella stanza
seguiva un rito ormai consolidato: il canto della hello song, lo spostamento di N.F.
verso la libreria e la conseguente sonorizzazione della storia. Dal settimo incontro la
libreria ospiterà solo gli strumentini e i libretti saranno in disparte pronti per essere
126
usati in caso di necessità. Come vedremo, questa modifica sostanziale delle abitudini
instauratesi finora causerà una diminuzione brusca dei tempi di attenzione e un
mutamento del rapporto, valutato però positivamente perché supportato da una
continuità di presenza e di proposte educativo-terapeutiche coerenti con la scelta di
variazione.
b) Variazioni Spontanee
Modalità di condurre le sedute: nei dieci incontri il musicoterapeuta passa da un
atteggiamento di tipo stimolo / attesa di risposta, ad una conduzione prima attenta e
in qualche modo rigida e legata al protocollo, per maturare poi in un dialogo sonoro:
anche il musicoterapeuta cresce con il paziente.
Uso del linguaggio verbale: da una scelta iniziale di non usare il linguaggio
verbale, si passò ad una libera introduzione dello stesso. Fu sicuramente, oltre al
dialogo attraverso il canto, una risorsa ulteriore per il consolidamento della relazione
terapeutica.
Comparsa di momenti di silenzio: nel tempo la relazione si consolidò anche
modificando i tempi di risposta del musicoterapeuta che lasciò più spazio ai silenzi: la
sospensione crea aspettativa e curiosità e allo stesso tempo permette l’elaborazione di
risposte.
c) Esiti
Approfondendo il significato che possono assumere le variazioni, le modifiche
apportate alla condotta, al setting, all’interno di una seduta musicoterapeutica, ci si
trova davanti ad una generale condivisione di senso, anche se, come visto nei capitoli
precedenti, la terminologia varia a seconda dell’orientamento metodologico.
Si riconosce infatti nella variazione la spinta necessaria alla crescita, all’apertura
verso il nuovo e lo sconosciuto. Ma essa, a scopo terapeutico, esiste e si manifesta su
una base sicura, una piattaforma di significato condiviso che deve essere
metabolizzata.
127
Solo così si potranno accettare i capricci, le arrabbiature, le risposte aggressive al
cambiamento, poiché il paziente che affronta una crisi, troverà alla fine del salto la
morbida accoglienza di un luogo conosciuto e sicuro. Benenzon descrive così il
bisogno di sicurezza nei casi di disabilità mentale: “ …per sentirsi meglio inseriti in
un mondo troppo vasto per loro, si circondano di oggetti magici o adottano
movimenti automatici o ripetuti che sono meccanismi di difesa (…) la musica vissuta
può creare una cornice rassicurante, che invece di mantenere in vita gli stereotipi, sia
in grado di far diminuire i meccanismi di difesa (…) E’ meglio provare a utilizzare il
suo bisogno di ripetere, di riconoscere. (…) la ripetizione non è affatto la monotonia,
ma rappresenta la scoperta e la comprensione di un messaggio.”81 E se acquisita la
fiducia da parte del paziente attraverso il dialogo sonoro, e in particolare nella fase di
leading, il musicoterapeuta introdurrà naturalmente delle novità, delle piccole
deviazioni dalla regolare e ripetuta abitudinarietà. Allargherà o restringerà i confini
della relazione passando per la strada dell’imitazione. Anche Stern insiste sulla
qualità inesatta del processo imitativo. “Inesatta non vuol dire distorta; il leggero
scarto rispetto all’originale costituisce un impulso sia per i processi mentali di
comparazione che, soprattutto, per quelli creativi.”82
Non è tuttavia così semplice progredire in una terapia, non basta cioè imitare
introducendo delle variazioni per ottenere dei risultati. Essi si otterranno quando il
musicoterapeuta attuerà la relazione empatica, come già esplicitato in questa tesi.
Solo attraverso l’ascolto, il rispecchiamento empatico “…il musicoterapeuta verrebbe
così a svolgere una funzione di framing (mettere una cornice) o di organizzazione dei
comportamenti espressivi spontanei del bambino che, in tal modo, grazie alla
ripetizione del contesto (sistematicità nella conduzione delle sedute), acquisterebbe
prevedibilità e significato relazionale (…) la funzione di framing comporta pertanto
l’avvio di una comunicazione felice tra i due partner e la progressiva costituzione di
una base sicura (…) l’evidenza della base sicura è costituita dalla ricomparsa del
81
82
R. Benenzon, op. cit., p. 159
in Postacchini, op. cit., p. 108
128
comportamento esplorativo.”83 Compare quindi il termine di base sicura, sulla quale
sarà possibile far intervenire le modifiche, le variazioni. In termini piagetiani, si tratta
per il terapeuta di accomodare i propri schemi fino ad assimilare quelli dell’altro. In
termini della teoria dell’attaccamento, si tratta di fornire molti elementi di familiarità,
prima di introdurre elementi di novità. La familiarità è idonea a produrre sensazioni di
sicurezza, la novità fornisce il naturale alimento della curiosità e quindi del
mantenimento dell’attenzione che si esplicita in un comportamento esplorativo. Se
l’imitazione e la ripetizione danno sicurezza, possiamo spiegare ulteriormente perché
si è deciso di intervenire con N.F. sul ritmo corporeo e il ricalco dei suoi movimenti.
Se infatti il ritmo costituisce un mezzo per stabilire una comunicazione, “non si vede
perché non si debba tentare di utilizzare questa possibilità per far comunicare il
bambino con l’ambiente esterno e ricercare una educazione attraverso il ritmo (…) la
cosa migliore è di cominciare con un ritmo il cui tempo coincida con quello del
movimento spontaneo (…) questa sincronizzazione permette anche di variare poco
alla volta il tempo e di ottenere una sua accelerazione o un suo rallentamento (…) si
utilizza quindi l’eccitamento prodotto dal ritmo cercando di sviluppare il controllo e
l’inibizione…”84. Nel caso però dell’introduzione del lettore Cd e delle canzoni
conosciute dello Zecchino d’Oro, fu la forte emozione suscitata dalla variazione del
setting a permettere un azione ritmica e di dialogo sonoro. D’altra parte “…ogni
apprendimento effettuato in una situazione fortemente emotiva non può essere
dimenticato! Questo principio vale per ogni tipo di emozione intensa, sia essa
positiva, sia essa negativa”85. Ogni seduta, passato il momento di osservazione e
instauratasi la relazione terapeutica, potrebbe paragonarsi ad alcune forme musicali
dove la variazione, pur non essendo la stessa idea motivo iniziale, gode di tutto lo
sviluppo precedente e si presenta così più matura, carica dell’esperienza passata (C.
Gregorat). La conquista dell’autonomia non si può certo invocare magicamente, ma
parte da piccoli progressi, a volte impercettibili ed è compito del musicoterapeuta
accompagnare il paziente attraverso un percorso di ricalco, sintonizzazione, ecc. dove
83
M. Scardovelli, op. cit. pp. 45-50
P. Fraisse, op. cit.,
85
G. Cremaschi Trovesi, op. cit., p. 83
84
129
anch’egli è coinvolto per poter compiere lo stesso salto e accompagnare poi il nuovo
ritmo, i movimenti e il respiro, creando una continuità rassicurante. “Il terapista cerca
di muoversi al ritmo del paziente allo scopo di attirarlo eventualmente in un ritmo più
equilibrato”86.
Secondo Stern e Imberty altri due elementi permettono, in tali situazioni, lo
sviluppo della socializzazione, dell’affettività e delle facoltà cognitive: da una parte il
bambino impara ad adattarsi a un numero sempre maggiore di variazioni, ma
dall’altra egli può farlo solo perché la ripetizione è basata su un ritmo regolare che
rende prevedibile e organizza il tempo. Esiste quindi un legame profondo tra la
cognizione musicale, l’esperienza affettiva e la ripetizione: strutturando il tempo, la
ripetizione struttura anche le esperienze emotive del soggetto, e sarà questa una delle
fonti più ricche dell’esperienza musicale futura. Ma la ripetizione acquista valore
positivo solo nella misura in cui essa generi delle variazioni accettabili, cioè
variazioni che permettano comunque il riconoscimento dei punti di riferimento e
l’identificazione del modello iniziale.
Quando invece la modifica è radicale, la si attuerà nel momento in cui il soggetto
che si ha in cura può contare sulle sue capacità e cioè quando la consapevolezza del
sé è manifesta. Nel nostro caso tutte le novità introdotte disponevano di una base
sicura a cui poter far ritorno. N.F. ha sì dimostrato la sua vitalità, la tenacia e la
curiosità per crescere e accrescere le sue doti, ma ha altresì espresso i suoi timori e la
sua incertezza di camminare solo. L’epilessia lo costringe a fasi regressive e al
conseguente bisogno di un costante sostegno.
86
D. Campbell, L’effetto Mozart, Baldini & Castaldi Editori, Milano 2002, p. 153
130
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132
CONTRIBUTI DELLA RICERCA ETNOMUSICOLOGICA
ALLA RIFLESSIONE IN AMBITO
MUSICOTERAPEUTICO
di Daniela Altavilla
Esistono numerose discipline che si occupano di musica da diversi punti di vista,
con diversi approcci e finalità, perché si tratta di un fenomeno complesso e articolato,
cui sono connessi una vasta gamma di aspetti. Già a partire dalla definizione stessa di
musica si apre un ventaglio di possibili definizioni che variano, appunto, a seconda
del tipo di approccio, del periodo storico, della cultura e degli individui; non esiste
una risposta unica valida in assoluto, ma una serie di risposte possibili che cambiano
col cambiare delle esigenze dell’uomo, seguendo le trasformazioni della cultura e
della società.
L’etnomusicologo americano A. P. Merriam (1983, p.48) suggerisce che «la
musica può e deve essere studiata da molte prospettive dal momento che i suoi aspetti
sono storici, strutturali, culturali, funzionali, fisici, psicologici, estetici, simbolici e
via dicendo. Per raggiungere una comprensione complessiva del fenomeno musicale
nessuno studio specifico, per quanto accurato, potrà mai sostituire un procedimento
analitico globale».
In ambito musicoterapeutico la musica occupa un posto di centrale importanza ed
il suo ruolo all’interno del contesto clinico ne modifica valenze, significati e criteri
estetici rispetto al suo uso convenzionale: la musica è l’oggetto intermediario, veicolo
di conoscenza e trasformazione nella relazione terapeuta/cliente. Si tratta inoltre di un
ambito di pratica e di ricerca transdisciplinare per natura e tra le varie discipline
133
collegate alla musicoterapia, l’etnomusicologia rappresenta oggi uno dei contributi
più ricchi per attualità e ampiezza di implicazioni.
Infatti, definire cos’è e come funziona la musica nell’esperienza umana, o più in
generale
il
legame
uomo-suono,
rappresenta
un
importante
presupposto
epistemologico in musicoterapia, ed è anche l’attuale obbiettivo degli studi
etnomusicali, il cui fine ultimo è la comprensione della musica in quanto attività
espressiva umana universale: «l’etnomusicologia non è soltanto uno studio areale
riguardante la musica esotica, né una musicologia della musica etnica: è una
disciplina in cui sono riposte le speranze di una più profonda comprensione di tutta la
musica» (Blacking, 1986, p.51).
Ancora Merriam (ivi, p.25) ritiene che «il contributo dell’etnomusicologia è
rappresentato dalla saldatura tra aspetti delle scienze sociali e delle scienze
umanistiche in modo che gli uni siano complementari agli altri; in questo modo si
arriva ad una migliore comprensione di questi due momenti che non possono
considerarsi isolatamente ma devono essere compresi nella loro unità. Quanto detto è
implicito nella definizione di etnomusicologia come studio della musica nel contesto
della cultura».
Anche l’ambito etnomusicale è un ambito articolato ed interdisciplinare, in cui
esistono diverse tendenze e aree di interesse, il cui centro è sempre e comunque sul
‘musicale’ e profondamente legato all’uomo. L’attività di ricerca è dedicata alla
documentazione e all’interpretazione delle forme e dei comportamenti musicali
presenti nel mondo. E’ lo studio della musica intesa come forma espressiva
universale del comportamento umano, quindi è lo studio di tutte le manifestazioni
musicali in rapporto alla cultura che le ha determinate. In altre parole si occupa del
legame uomo-musica dal punto di vista delle funzioni della musica nella vita
dell’uomo tendente all’individuazione di principi generalizzabili sul comportamento
musicale, ed in questo senso costituisce un terreno ricco di spunti per le applicazioni
cliniche della musica.
134
L’etnomusicologo italiano F. Giannattasio pone l’accento sul concetto di musica
facendo notare come la ricerca etnomusicale «mettendo a confronto forme e
comportamenti musicali delle diverse società e culture, ha posto di fatto al centro
della questione il concetto stesso di musica, suggerendone uno di più universale
portata, ed ha inciso a vari livelli – da quello del senso comune fino alla nuova
circolazione e interazione di ‘lingue’ e generi musicali cui oggi assistiamo –
nell’esperienza di tutti e non solo in quella ristretta degli addetti ai lavori»
(Giannattasio, 1998, p.12).
Ed anche T. Magrini, altra etnomusicologa italiana, fa rilevare che «gli studiosi
occidentali, abituati a concepire la musica come un prodotto puramente motivato da
finalità estetiche, con gli studi etnomusicologici hanno incontrato società che
utilizzavano l’attività sonora in modo profondamente diverso e molto più
chiaramente connesso alle loro necessità esistenziali» (Magrini, 2002, p.169). Infatti
è soprattutto nella tradizione occidentale che la musica sembra assumere una
espressione estetica autonoma, mentre al di fuori dell’area colta europea la musica
appare sempre legata e funzionale ai momenti salienti della vita sociale (riti,
celebrazioni, ecc.), e non concepita come una ‘cosa in sé’. Come pure nel contesto
terapeutico l’uso della musica sembra per certi versi simile alle concezioni musicali
presenti in ambiti culturali tradizionali, in cui la funzione estetica della musica è
subordinata a funzioni di utilità pratica e non usata come forma artistica fine a se
stessa.
L’etnomusicologo inglese J. Blacking afferma che «uno dei vantaggi che offre la
musica in quanto oggetto di studio, è che essa è un processo relativamente spontaneo
ed inconscio. La musica può fornire un’immagine del funzionamento, senza
interferenze, della mente umana e perciò l’osservazione delle strutture musicali può
rivelare alcuni dei principi strutturali su cui si fonda ogni vita umana. Se saremo in
grado di dimostrare con esattezza come il comportamento musicale (e forse ogni
aspetto del comportamento umano in una cultura) sia generato da insiemi finiti di
regole applicate ad un numero infinito di variabili, sapremo non solo quali aspetti del
comportamento musicale sono specificamente musicali, ma anche come e quando
135
queste variabili possono essere applicate ad altri tipi di comportamento umano.
Sapendone di più sulla complessità automatica del corpo umano, potremo provare in
maniera definitiva che tutti gli uomini nascono con grandi potenzialità intellettuali, o
almeno con un alto grado di competenza cognitiva, e che la fonte prima della
creatività culturale è la coscienza che deriva dalla cooperazione sociale e dagli
scambi d’amore. Se scopriremo con precisione come la musica è creata ed apprezzata
in contesti sociali e culturali differenti, e se arriveremo, magari, a stabilire che la
musicalità è un carattere universale e specifico della specie, potremo dimostrare che
tutti gli esseri umani, e non solo alcuni di essi, sono da considerare ancora più
straordinari di quanto non si ritenga ora, e che la maggior parte di noi vive molto al di
sotto delle sue potenzialità, a causa della natura oppressiva della maggior parte delle
società» (ivi, p.125-126).
La ricerca etnomusicologica e i suoi metodi possono rivelare una vasta gamma di
concettualizzazioni sulla musica, la pratica esecutiva e la risposta contestualizzata;
d’altra parte, per la conoscenza dei fenomeni musicali e la definizione dei processi e
comportamenti che li determinano, è da sottolineare l’importanza sia di un apporto di
tipo interdisciplinare, che la necessità di una unificazione teorica del campo di studi.
Infatti ogni disciplina può offrire un particolare contributo all’impostazione, al
chiarimento e alla soluzione di questo tema, tenendo presente che ogni sapere ha vie
di ricerca che possono essere molteplici, ma che vanno poi collegate a campi di
indagine specifici che permettono di muoversi in una unica direzione.
A questo punto, per capire perché e in che modo la collaborazione fra
musicoterapia ed etnomusicologia possa essere proficua, si può pensare di operare un
confronto fra i due ambiti evidenziandone affinità e divergenze, a partire da un
confronto fra i rispettivi termini e definizioni.
Etnomusicologia:
«L’etnomusicologia porta con sé i germi della sua duplicità, dal momento che
risulta composta da due parti distinte, quella musicologica e quella etnologica; il
problema principale sta nella riunificazione di questi due aspetti senza che nessuno
136
dei due ne abbia a soffrire. Tale doppia natura si rileva dalla stessa letteratura
etnomusicologica: uno studioso si occuperà con perizia della struttura del sistema
sonoro, un altro tratterà la musica come un aspetto della cultura umana e come parte
integrante di una unità più vasta» (Merriam, 1983, p.21).
«Etnomusicologia è un termine relativamente nuovo e comunemente usato per
definire lo studio dei diversi sistemi musicali esistenti nel mondo» (Blacking, 1986,
p.27).
«Dall’etimo composito di etno-musico-logia si possono trarre due diverse ma
altrettanto legittime interpretazioni: a) musicologia etnica (dei diversi popoli); b)
etnologia della musica. Entrambe le formulazioni corrispondono in effetti a due
tendenze realmente presenti nella ricerca etnomusicale e alternamente prevalenti nella
storia degli studi» (Giannattasio, 1998, p.17-18).
«L’etnomusicologia nasce con la scoperta e l’osservazione delle ‘alterità’
musicali […] essa ha come scopo principale […] quello di interpretare ogni
fenomeno musicale in rapporto alla particolare cultura che lo ha prodotto, adottando
strumenti e categorie di portata e validità universali» (Giannattasio, 1998, p.31).
Musicoterapia:
«La musicoterapia ha molti aspetti che la rendono difficile da definire: come
corpo di conoscenza è multidisciplinare; come combinazione di discipline, è ad un
tempo arte, scienza, e processo interpersonale; come terapia di trattamento è diversa;
come disciplina e professione ha una doppia identità; e come materia giovane è
ancora in divenire. Tutti questi aspetti non consentono una definizione univoca o
universalmente accettata. Il primo grosso problema nella definizione della
musicoterapia è che essa è transdisciplinare per natura. Cioè, la musicoterapia non è
una disciplina singola, isolata con limiti ben definiti e immodificabili. Piuttosto è la
dinamica combinazione di molte discipline attorno a due grosse aree: la musica e la
terapia. […] Sia la musica che la terapia hanno per sé stesse delimitazioni poco
chiare, e […] ci sono molte e diverse filosofie musicali, e persino più teorie
terapeutiche a complicare il quadro» (K.E. Bruscia, pp.17-18).
137
«La musicoterapia è un processo finalizzato in cui il terapeuta aiuta il cliente a
migliorare, mantenere o ristabilire uno stato di benessere, usando esperienze musicali
e le relazioni che si sviluppano loro tramite come forze dinamiche di cambiamento»
(Bruscia, 1987, p.5).
«La musicoterapia è una disciplina composita che si pone al punto di convergenza
di numerose altre discipline dotate di ben precisa identità: musicologia, antropologia,
psicologia, psichiatria. A tutte queste essa attinge largamente, pur mantenendo una
propria identità […]. Il concetto di musicoterapia è ampio, ha implicazioni molto
vaste, si riferisce ad ambiti operativi profondamente differenziati tra loro. Definiremo
pertanto la musicoterapia come una tecnica, mediante la quale varie figure
professionali, attive nel campo della educazione, della riabilitazione e della
psicoterapia, facilitano l’attuazione di progetti d’integrazione spaziale, temporale e
sociale dell’individuo, attraverso strategie di armonizzazione della struttura
funzionale dell’handicap, per mezzo dell’impiego del parametro musicale; tale
armonizzazione viene perseguita con un lavoro di sintonizzazioni affettive, le quali
sono possibili e facilitate grazie a strategie specifiche della comunicazione non
verbale (Postacchini, 1995). Ci rendiamo perfettamente conto di quanto una
definizione di questo tipo possa risultare ampia e complessa, come d’altro canto lo è
la disciplina di cui tratta» (Postacchini, 1997, pp.15 e 17).
Da questo sintetico quadro emergono già importanti analogie e differenze:
entrambe rientrano nel corpus delle scienze umane, sono relativamente recenti,
sempre in progress, quindi nulla viene dato mai come scontato e definitivo. Non
esprimono giudizi di valore sul fatto musicale e tutte le possibili manifestazioni
musicali vengono considerate con pari dignità. Si può ritenere affine l’interesse di
entrambe al rapporto fra testo e contesto, fra analisi e descrizione musicale e analisi e
descrizione degli aspetti non-musicali della musica (simbolici, estetici, sociali,
psicologici, fisici, ecc.). Esistono diversi modelli teorici di riferimento e diverse aree
di pratica; le attività di ricerca e di pratica hanno carattere fortemente
interdisciplinare, infatti vi possono essere utilmente applicati approcci derivanti da
altri campi del sapere. Le discipline affini all’una e all’altra riguardano soprattutto
138
l’area musicale (musicologia, analisi musicale, antropologia della musica, psicologia
della musica, sociologia della musica, semeiotica della musica), ma anche l’area
psicologica (psicologia generale e psichiatria, psicologia dell’età evolutiva,
pedagogia). In entrambe il focus è musicale e umano, in cui «il suono è l’oggetto, e
l’uomo è il soggetto» (Blacking, 1986, p.48).
Entrambi i termini sono dotati di una duplice identità, etno-musicologia e musicoterapia, e in questa duplice identità appare evidente una prima affinità nel focus
centrale delle due discipline, che per entrambe è nel ‘musicale’, come pure una
sostanziale divergenza nel tipo di approccio a tale nucleo. Come già ricordato, infatti,
mentre la prima è un’attività di ricerca dedicata alla documentazione e
all’interpretazione delle forme e dei comportamenti musicali presenti nel mondo, con
lo scopo di individuare dei principi generalizzabili sul comportamento musicale, la
seconda è un’attività pratica di intervento in cui le esperienze musicali vengono usate
come forze dinamiche di cambiamento dell’individuo, con lo scopo di migliorare il
benessere psico-fisico del soggetto attraverso l’uso terapeutico della musica.
Sintetizzando molto, possiamo dire: ciò che accomuna ambedue le discipline è la
musica e il rapporto uomo-musica, mentre ciò che le diversifica è lo scopo, l’una
finalizzata alla comprensione e l’altra al cambiamento.
In altre parole è diverso il fine delle due discipline: la musicoterapia utilizza
questo grande serbatoio di conoscenze per un intervento di carattere applicativo,
mentre l’etnomusicologia è essenzialmente una disciplina teorica, per quanto le sia
necessaria una fase di lavoro ‘sul campo’. L’etnologo musicale ha una formazione di
tipo musicologico di cui si serve per una ricerca di tipo antropologico, non certo per
cambiare o trasformare la cultura che sta osservando. Inoltre la musicoterapia nella
relazione uomo-suono cerca la chiave per la comprensione del singolo individuo,
mentre l’etnomusicologia cerca la comprensione di una cultura per scoprirne i
modelli generali.
Quindi sotto il profilo operativo dobbiamo riconoscere un’effettiva divergenza fra
i due ambiti, ma dobbiamo anche riconoscere all’etnomusicologia il primato
nell’essersi posta per prima il problema dell’osservazione, della raccolta e dell’analisi
139
dei dati, vale a dire del rapporto fra osservatore-cultura osservata, della relazione fra
testo-contesto, la questione delle modalità di trascrizione, ecc.
Pur avendo scopi diversi, il terreno comune alle due discipline è assai vasto, infatti
è sotto il profilo concettuale che l’etnomusicologia può offrire i suoi specifici
contributi; se la musicoterapia è composta da due grosse aggregazioni disciplinari
attorno ai due temi fondamentali, la musica e la terapia, ricche ognuna di implicite
sfaccettature, gli studi etnomusicali possono mettere a disposizione a tal proposito,
sia la documentazione relativa agli usi terapeutici della musica presenti nelle varie
culture, che i propri studi circa la comprensione del rapporto uomo-musica in
generale.
In generale, percorrendo un viaggio attraverso i principali testi ed autori della
letteratura etnomusicologica si possono trovare numerose tematiche di interesse
musicoterapico e, indirettamente, oltre ad offrirle nuovi spunti di riflessione traspare
anche una sostanziale fiducia e conferma nei confronti nell’applicazione clinica della
musica.
A. P. Merriam mette la musica in stretto rapporto alla cultura e alle convenzioni
sociali, determinanti nei comportamenti musicali; inoltre, di notevole interesse è la
sua proposta sulle principali funzioni della musica nelle diverse culture. L’autore
cerca di «fornire un supporto teorico allo studio della musica in quanto
comportamento umano; chiarire il tipo di processo che deriva da fattori antropologici
e musicologici insieme, migliorare infine la nostra conoscenza di entrambe le
discipline, sotto la comune prospettiva di studi comportamentali» (ivi, 1983, p.16).
J. Blacking, dopo la sua lunga esperienza con la popolazione Venda in Sudafrica,
espone le sue riflessioni sul «modo di fare musica in differenti culture» (ivi, p.23),
aprendo orizzonti che vanno ben oltre i confini dell’etnomusicologia, infatti le sue
argomentazioni, per il loro taglio interdisciplinare, mal si prestano ad essere raccolte
entro ambiti precisi e si presentano spesso come considerazioni interrogative; inoltre,
da notare è la particolare attenzione rivolta ai rapporti fra processi cognitivi, sociali
ed espressivi della musica. G. Rouget, oltre ad offrire un’opera unica per ricchezza e
ampiezza documentativa sui rapporti fra musica e transe, rispetto alla varietà di
140
aspetti connessi alla musica aggiunge qualche nuovo elemento sulle origini,
significato, effetti della musica nel rapporto tra l’io e il mondo e sulle potenzialità
insite nel mezzo musicale. Il contributo di F. Giannattasio si rivela prezioso per
chiarezza e articolazione; infatti, viene analizzata la musica come costante del
comportamento musicale, le sue principali funzioni e
alcune recenti ipotesi
sull’elaborazione dell’informazione musicale provenienti dagli studi cognitivi. T.
Magrini riflette sull’impossibilità di formulare una definizione universale di musica e
si sofferma sul concetto di ‘intelligenza musicale’, ipotizzando che essa possa essere
oltre che un fatto sociale anche una capacità specifica della specie, sul concetto di
‘multifunzionalità’ dell’attività sonora, sulle interazioni fra biologia umana e culture
musicali.
In particolare è possibile evidenziare quattro temi fondamentali: la definizione del
concetto di musica, il rapporto fra aspetti biologici e culturali della musica, le
funzioni della musica e i moventi del comportamento musicale. Si tratta di temi che
in ambito musicoterapeutico forniscono nuove chiavi di lettura per un ampliamento
epistemologico del concetto di musica, producono nuove prospettive per la
conoscenza del fenomeno musicale così ricco di sfaccettature, ne approfondiscono le
implicazioni e ne aumentano la consapevolezza.
Certamente si tratta di temi
complessi e vasti tali da meritare ognuno un approfondimento specifico, mentre in
questa sede si è preferito mantenere dei riferimenti generali per evidenziare quanto
ampio possa essere il contributo dell’etnomusicologia; inoltre, data l’aderenza dei
temi trattati si è preferita una selezione di citazioni originali piuttosto che operare una
parafrasi del pensiero e delle affermazioni dei vari studiosi.
Definizione del concetto di musica
«La musica è un universale della cultura umana, anche se non si tratta di un
universo assoluto; il fatto stesso che la si trovi dappertutto ci dice del valore che essa
141
ha per l’umanità, mentre le particolari differenze che si possono riscontrare fra la
musica di due diverse società potrebbero essere d’ordine sociale e non musicale»87.
«In alcune culture, se non in tutte, la musica non è separabile dal suo contesto
culturale; in altre parole è dal contesto che prende le mosse il processo di
concettualizzazione relativo alla musica»88.
«La musica si compone di modelli sonori accettati socialmente, è un complesso di
attività, idee ed oggetti che danno origine a suoni culturalmente significativi; questi
suoni comunicano ad un livello diverso dalla normale comunicazione»89.
«La musica non può mai essere una cosa a sé stante […] nel senso che non può
essere trasmessa o avere significato al di fuori dei rapporti sociali. La musica è
profondamente legata ai sentimenti e alle esperienze dell’uomo in quanto essere
sociale. Il fondamento di molti processi essenziali della musica va ricercato nel corpo
umano e nei sistemi d’interazione sociale dei corpi umani»90.
«C’è così tanta musica nel mondo, che è ragionevole supporre che essa, come il
linguaggio e forse la religione, sia un tratto peculiare della specie umana»91.
«La musica è un prodotto del comportamento dei gruppi umani, a prescindere dal
loro grado di organizzazione: è suono umanamente organizzato. Nonostante le
diverse società tendano ad avere idee differenti su cosa sia la musica, tutte le
definizioni si fondano su un qualche consenso circa i principi secondo cui i suoni
dovrebbero essere organizzati»92.
«Si tratta di suono umanamente organizzato, destinato ad altre orecchie umane,
perciò riguarda la comunicazione e i rapporti interindividuali»93.
«Il fatto che una musica sia semplice o complessa è in definitiva irrilevante […]
E’ il contenuto umano del suono umanamente organizzato a “catturare” la gente […]
87
Vedi A. P. Merriam, Antropologia della musica, 1983, pp.15-212;
Id;
89
Id;
90
Vedi J. Blacking, Come è musicale l’uomo?, p.24;
91
Id, p.30;
92
Id, p.33;
93
Id, p.34;
88
142
Si tratta sempre del prodotto di un essere umano sensibile ed è questa sensibilità che
ha il potere di suscitare o meno i sentimenti di un altro essere umano»94.
«La musica è una sintesi dei processi cognitivi presenti nella cultura e nel corpo
umano: le forme che assume e gli effetti che produce sono il risultato delle esperienze
sociali che i corpi umani vivono in ambienti culturali diversi. Essa esprime aspetti
dell’esperienza sociale degli individui»95.
«L’aspetto più importante della musica [è] quello proprio al corpo umano ed
universale per tutti gli uomini»96.
«La ‘rivoluzione antropologica’ che ha caratterizzato l’ultimo secolo, consentendo
alle diverse culture di svelarsi reciprocamente, ha permesso fra l’altro di constatare
che non esistono società, per quanto ristrette e isolate possano essere, prive di una
qualche forma espressiva musicale. In altri termini, è oggi possibile ritenere che la
musica costituisca un ‘universale’ del comportamento umano, come il linguaggio o
l’organizzazione sociale. Naturalmente, così come esistono società e lingue diverse,
esisteranno molteplici tipi di musica e differenti sistemi di organizzazione delle forme
e dei comportamenti musicali»97.
«La musica non è soltanto una via del tutto particolare della comunicazione, un
complemento spesso indispensabile di molti momenti e fasi dell’esistenza umana o
un modo privilegiato di esprimere aspetti della vita mentale che esulano dalle
possibilità del linguaggio parlato. Essa è anche in grado di provocare significative
modificazioni comportamentali, stimolando reazioni di natura psicologica e
fisiologica. Può determinare, ad esempio, variazioni del ritmo cardiaco, della
respirazione, della risposta sensorio-motoria – soprattutto se si tratta di musica
fortemente ritmata e se è associata a schemi di movimento, come nel caso della danza
– e può anche condizionare gli stati emotivi, tanto più se la sua forma veicola un testo
verbale (nel canto) o rinvia, per convenzione (per “riflesso condizionato”), a
determinati eventi extramusicali. Esistono inoltre, anche se non sono state ancora
94
Id. p.54;
Id. p.103;
96
Id. p.122;
97
Vedi F. Giannattasio, Il concetto di musica: contributi e prospettive della ricerca
etnomusicologica, 1998, p.20;
95
143
sufficientemente studiate, complesse relazioni fra stimolazione musicale, mnemonica,
apprendimento e pensiero»98.
«L’apparente impenetrabilità e ineffabilità dei fenomeni musicali è uno dei
principali motivi del loro fascino, tant’è che fin dalle epoche più remote essi sono
stati ritenuti, a tutte le latitudini, un idoneo veicolo di espressione della religiosità,
della magia, della poesia e, in generale, dell’emotività collettiva e individuale. Nella
nostra cultura, un certo timore sacrale di svelare l’arcano e rompere l’incantesimo
(termine che non a caso deriva da in-cantare) è ravvisabile ancora oggi
nell’insofferenza e nella diffidenza che molti musicisti ostentano verso ogni forma di
‘vivisezione’ analitica della musica. D’altronde, il dogma della sua imperscrutabilità
ha origini lontane e non a caso la stessa etimologia del termine ci riconduce a una
genesi mitica: l’arte delle Muse, figlie di Zeus e della dea Memoria (!). Infrangendo
questo dogma e trasformando radicalmente il concetto di musica, l’etnomusicologia
ha senza dubbio creato, almeno inizialmente, un certo sconcerto […] Ma nessuno,
credo, può oggi legittimamente sostenere che i nuovi orizzonti aperti da una
concezione della musica come costante del comportamento umano manchino di
fascino, o che il progetto conoscitivo avviato dall’antropologia della musica sia privo
di solidi fondamenti e intendimenti scientifici. E se qualcuno poi temesse che la
realizzazione di tale progetto possa segnare la fine dell’in-canto, si tranquillizzi.
Poiché è certo che la musica non perderà mai quella forza suggestiva che consente di
condividere con gli altri l’illusione di manipolare l’ineffabile e l’ignoto»99.
«Le varietà di pensiero e pratica musicale nel mondo presuppongono
un’intelligenza musicale innata, anche se la ricerca etnomusicologica ha dimostrato
che la musica è un fatto sociale, che i sistemi musicali sono sistemi culturali
intrecciati alla più ampia rete delle culture delle comunità, e che la varietà di questi
sistemi di simboli precludono una definizione della musica universalmente valida o
98
99
Id. p.231;
Id. p. 274-75;
144
un accordo universale su ciò che la musica costituisce in quanto distinta dalla nonmusica o rumore»100.
Rapporto fra aspetti biologici e culturali della musica
«La prima considerazione da fare riguarda la natura della musica e le sue relazioni
con la cultura. Le convenzioni sociali hanno un ruolo determinante nella costituzione
del suono, ad esempio in culture diverse dalla nostra la musica non è interessata
necessariamente alla bellezza in quanto tale»101 .
«L’uomo è portatore di cultura, perché si trova nella condizione fisiologica adatta.
Se non avesse un Sistema Nervoso centrale e periferico, un cervello e la capacità di
esprimersi per mezzo della parola, non potrebbe essere soggetto di cultura»102.
«Il suono musicale prende forma in rapporto alla cultura cui fa parte: ogni cultura
decide cosa debba considerarsi musica, quale debba essere il modello ed il
comportamento musicale; in generale la musica è la composizione di ritmo e altezza,
secondo modelli che sarà la società a fissare»103.
«Altre caratteristiche sociali della musica: essa costituisce un fenomeno umano
unico che si giustifica solo in termini di interazione sociale; cioè, è composta ed
eseguita da alcuni uomini per altri uomini, e non può che essere comportamento
appreso culturalmente. La musica non esiste, né può esistere, per sé ed in sé. In breve
la musica non può essere definita soltanto come fenomeno sonoro, poiché presuppone
il comportamento di uno o più individui»104.
«La musica comunica all’interno di una determinata comunità musicale, ed ha
luogo soltanto se la musica viene caricata di significati simbolici tacitamente accettati
dai membri della comunità»105.
100
Vedi T. Magrini, Universi sonori: introduzione all’etnomusicologia, 2002, p.245;
Vedi Merriam, 1983, p. 15-212;
102
Id.;
103
Id.;
104
Id.;
105
Id.;
101
145
«A che punto sono le ricerche in psicologia della musica e i test attitudinali sulla
musicalità? Esistono diverse scuole di pensiero e non sono giunte ad una valutazione
unanime […] ciò potrebbe dipendere dal modo prevalentemente etnocentrico in cui
sono stati realizzati. Measures of Musical Talents di Carl Seashore (1919), è stata la
prima raccolta di test standardizzati sull’abilità musicale ad essere pubblicata; i test si
basano esclusivamente sulle capacità di discriminazione. Ma la discriminazione si
sviluppa all’interno di un contesto culturale»106.
«Le prove di attitudine musicale possono essere significative solo per le culture i
cui sistemi musicali sono simili a quello dello sperimentatore. E poi ancora: qual è
l’utilità dei test musicali? Cosa provano? Che rapporto c’è fra i loro risultati e la vera
abilità musicale?»107.
«Cos’è il talento musicale? Quali, tra le qualità del genio musicale sono specifiche
della musica? Possono trovare espressione in altri media? In che misura queste
qualità sono latenti in tutti gli uomini? Quanto pesa la società e la cultura nel favorire
o inibire la manifestazione del genio musicale? La scuola gestaltica afferma che il
talento musicale è qualcosa di più di un insieme di attributi specifici dipendenti da
capacità sensoriali, ma non investe il campo complessivo della cultura, di cui la
musicalità è solo una parte. Bisogna allargare il campo d’indagine se vogliamo
scoprire quali capacità sono implicate nella musicalità. Per rispondere alla domanda
“Come è musicale l’uomo?” bisogna sapere quali tratti del comportamento umano
sono peculiari, ammesso che ne esistano, alla musica»108.
«Adottando un punto di vista universale, risulta chiaramente che la creazione e
l’esecuzione di gran parte della musica sono principalmente il prodotto della capacità
umana di scoprire strutture sonore e di riconoscerle in seguito. Senza processi
biologici di percezione uditiva e senza il consenso culturale, di almeno un gruppo di
individui, su ciò che si ascolta, non ci possono essere né musica né comunicazione
musicale»109.
106
Vedi J. Blacking, 1986, p. 29;
Id. p. 30;
108
Id. p. 30;
109
Id. p. 32;
107
146
«Sono molti i modi in cui si può analizzare un brano musicale. Ad un certo livello
di analisi, ogni comportamento musicale è strutturato in base a processi biologici,
psicologici, o puramente musicali; spetta proprio all’etnomusicologo identificare tutti
i processi pertinenti ad una spiegazione del suono musicale»110.
«Solo combinando informazioni musicali ed extramusicali si può scoprire cosa c’è
‘fra le note’»111.
«Non possiamo continuare a studiare la musica come una cosa a sé stante, quando
le ricerche etnomusicologiche provano che i fatti musicali non sono solo strettamente
musicali e che l’espressione di rapporti tonali nelle strutture sonore può essere un
fattore secondario rispetto alle relazioni extramusicali che i suoni rappresentano. La
musica è suono organizzato in strutture socialmente accettate, il fare musica è una
forma di comportamento acquisito, e gli stili musicali si basano su ciò che l’uomo ha
scelto di prendere dalla natura più come parte della sua espressione culturale che
come imposizione della natura stessa. Ma la natura da cui l’uomo trae i suoi stili
musicali non è una cosa a lui esterna; essa include la sua stessa natura, cioè le sue
capacità psicofisiche, […] a loro volta parte di un continuo processo adattivo di
maturazione della cultura. Non sappiamo quali di queste capacità psicofisiche, ad
eccezione dell’udito, siano essenziali nella produzione della musica, né se qualcuna
di esse le sia peculiare. Sembra che le attività musicali siano associate a determinate
regioni del cervello, diverse da quelle del linguaggio»112.
«Ciò che per un individuo è piacevole può essere sgradevole per un altro, non per
una qualità assoluta della musica in sé, ma per quello che essa significa per lui in
quanto membro di una particolare cultura o gruppo sociale. Dobbiamo anche tener
presente che, proprio perché è possibile avere delle preferenze personali, non
possiamo giudicare l’efficacia della musica sulla base delle reazioni apparenti della
gente. […] Senza contare che in alcune culture o in certi tipi di musica e di danza
110
Id. p. 35;
Id. p. 40;
112
Id. p. 47;
111
147
all’interno di una stessa cultura, le emozioni potrebbero essere volutamente non
esternata, senza per questo essere meno intense» 113.
«Il valore accordato alla musica nella società ed i suoi effetti diversificati sulla
gente possono essere fattori essenziali nello sviluppo o nell’inibizione delle capacità
musicali, e può darsi che la gente rivolga il suo interesse più alle attività sociali ad
essa collegate che alla musica in sé. D’altro canto, l’attitudine musicale non potrebbe
mai svilupparsi senza qualche motivazione extramusicale. […] Questo conflitto è
stato molto attenuato da alcuni programmi scolastici di educazione musicale, ma
l’integrazione fra attività sociali, fisiche e musicali non è totale come lo è fra i Venda.
Vedendo come i ragazzi venda coltivano il loro corpo, le loro amicizie e la loro
sensibilità nella danza di gruppo, non potevo fare a meno di rimpiangere le centinaia
di pomeriggi perduti sui campi di rugby e nelle palestre di pugilato. Ma, a quei tempi,
mi si educava non a cooperare, ma a competere. Persino la musica era intesa più
come una competizione che come un’esperienza da condividere con altri»114.
«La musica è una sintesi dei processi cognitivi presenti nella cultura e nel corpo
umano […] Ne consegue che ogni valutazione della musicalità umana deve tener
conto di processi che sono extramusicali e che questi dovrebbero essere inclusi belle
analisi della musica […] un’analisi circoscritta al solo suono può risultare inadeguata
e fuorviante» 115.
«I processi creativi sono probabilmente inconsci […] ciò che conta è che non
sempre si possono rintracciare i principi del processo creativo nelle strutture di
superficie della musica e che molti dei fattori generativi non sono musicali»116.
«Si imparerebbe di più sulla musica e la musicalità umana se si andasse alla
ricerca delle norme fondamentali del comportamento musicale, le quali sono
biologicamente e culturalmente determinate, oltre che peculiari della specie. Mi
sembra che, in fondo, ciò che è più importante nella musica non può essere appreso
così come si apprendono altre pratiche culturali: si tratta di qualcosa che risiede nel
113
Id. p. 53-54;
Id. p. 63;
115
Id. p. 103;
116
Id. p. 110;
114
148
corpo ed attende di essere appreso e sviluppato, così come i principi fondamentali che
presiedono alla formazione del linguaggio»117.
«Se i bianchi del Sudafrica sembrano suonare meglio dei neri o se i ricchi e l’élite
di un paese sembrano farlo meglio dei poveri e della massa, non è perché loro o i loro
genitori siano più intelligenti o possiedano un’eredità culturale più ricca, ma perché la
loro società è organizzata in modo che abbiano maggiori opportunità di sviluppare il
loro potenziale umano, e conseguentemente, la loro organizzazione cognitiva»118.
«Nella musica, a livello di strutture profonde, esistono elementi che sono comuni
alla psiche umana, anche se non traspaiono dalle strutture di superficie»119.
«Sotto certi aspetti, l’etnomusicologia è una branca dell’antropologia cognitiva.
Nella musica sembrano vigere dei principi strutturali universali, come l’uso di forme
specularmene simmetriche, il tema e la variazione, la ripetizione e la forma binaria.
E’ sempre possibile che queste forme derivino dall’esperienza di determinate
relazioni della vita sociale o del mondo naturale»120.
«La prova più convincente del fatto che alcune capacità creative sono innate può
essere fornita dal modo in cui i Venda affrontano nuove esperienze sonore […] I
modi in cui i Venda hanno adottato e riadattato la musica europea sono prova
dell’applicazione inconscia e creativa di processi musicali […] Non sto cercando di
sostenere che particolari sistemi musicali siano innati, ma che alcuni dei processi che
li generano possono essere innati in ogni uomo e quindi specifici della specie […]
Non vedo come i processi generativi più profondi ed apparentemente inconsci
possano essere stati insegnati o appresi nella società, se non attraverso un
complicatissimo processo di relazioni fra le potenzialità innate e la maniera in cui
queste, mediante l’interazione sociale, si realizzano nella cultura»121.
«Quali campi del sentire tocca la musica? Semplificando al massimo, possiamo
dire che si è sensibili alla musica a vari livelli: fisiologico, psicologico, affettivo,
estetico. Sul piano fisiologico, se l’udito è la principale funzione sensoriale che
117
Id. p. 112;
Id. p. 118;
119
Id. p. 120;
120
Id. p. 123;
121
Id. p. 125;
118
149
permette di percepire la musica, non è tuttavia l’unico canale di percezione. Le
vibrazioni musicali sono movimenti la cui ampiezza, se riferita al corpo umano, è
relativamente grande. Il movimento degli oggetti che le generano […] è sempre
sensibile e spesso persino visibile, e quindi di natura direttamente materiale e
concreta. Una vibrazione musicale può essere qualcosa di palpabile. Basta toccare la
tavola armonica di un violino mentre viene suonato per sentire la palpitazione dei
suoni con la punta delle dita. […] “Essere immersi nella musica” non è una semplice
metafora; accade veramente che la si riceva fisicamente. […] Ma non è solo
l’apparato sensoriale esterno ad entrare in gioco. Anche quello interno, fungendo da
canale di trasmissione, viene sollecitato dalla musica. […] La musica anima quindi
gli oggetti e fa insieme palpitare il corpo. L’atto musicale genera sensazioni ben più
intense del semplice ascolto. Si dovrebbe poter dire “agire” la musica in opposizione
a “subire” la musica, dal momento che si tratta di due modi assai diversi di viverla. Ci
basterà sottolineare, comunque, l’importanza del suo impatto fisico sull’ascoltatore
nonché la modificazione sensoriale della coscienza del proprio essere che questa
comporta. […] D’altra parte, la musica è per essenza movimento. Essa trae origine
dai movimenti corporali […] incitando di rimando al movimento. […] Anche sotto il
suo aspetto più immateriale – come nel caso del suono totalmente isolato dalla sua
fonte – la musica viene sentita come movimento che si realizza nello spazio.
Evidentemente lo è ancora di più allorché la si esegue durante la danza o per la danza.
Danzare vuol dire inscrivere la musica nello spazio, cosa che avviene attraverso una
incessante modificazione dei rapporti delle diverse parti del corpo fra di loro. La
coscienza del corpo ne viene perciò completamente trasformata. In quanto
incitamento alla danza, la musica si rivela pertanto capace di modificare
profondamente il rapporto dell’io con se stesso, in altri termini la struttura della
coscienza. Sul piano psicologico, la musica influisce anche sulla percezione, tanto
spaziale quanto temporale, che si ha del proprio essere. Analogamente al suono della
parola, il suono musicale definisce lo spazio in cui mi trovo come uno spazio abitato
da uomini, nel quale vengo ad assumere una certa collocazione. Il silenzio è il segno
di uno spazio vuoto o immobile – morto o assopito – al contrario del suono, che è il
150
segno di uno spazio pieno o in movimento. I rumori della natura mi informano sui
suoi movimenti, i suoni prodotti dagli uomini sulla loro presenza e la natura di tali
suoni sull’attività che stanno svolgendo […] Sento la presenza di uomini che stanno
facendo qualcosa. I suoni che odo costellano lo spazio e mi consentono di integrarmi
in esso. Nella dimensione temporale, la musica modifica ancor più la coscienza del
proprio essere. In quanto architettura del tempo, gli conferisce una densità diversa da
quella quotidiana, una materialità insolita o di un altro ordine. La musica indica che
qualcosa sta succedendo; che il tempo è occupato da un’azione in svolgimento,
oppure che un certo stato regna sugli esseri. Ne è un esempio il rullo del tamburo che
risuona nel circo mentre il trapezista esegue un salto mortale […] A questo livello
assai elementare dell’organizzazione temporale attraverso la musica se ne sovrappone
un altro che è un’autentica architettura del tempo. Le musiche di possessione non si
servono solo, contrariamente a ciò che si ritiene di solito, della ripetizione e
dell’accumulazione. Le divise musicali sono degli enunciati melodici o ritmici e
quindi delle forme temporali, suscettibili di variazioni e di ornamenti, che si
susseguono nel corso della cerimonia, formando delle sequenze che assolvono una
funzione di rinnovamento e di sviluppo del tempo musicale senza tuttavia intaccarne
l’unità, dal momento che i vari brani che si concatenano appartengono tutti ad un
unico genere. Trasformando pertanto in varia maniera il modo di sentire il tempo e lo
spazio, la musica modifica il nostro “essere nel mondo”.
La risonanza affettiva suscitata dalla musica – per lo meno da certe musiche – in
qualsiasi individuo costituisce un ulteriore aspetto dello sconvolgimento da essa
operato nella coscienza. La capacità della musica di risvegliare associazioni emotive
e di ricreare situazioni che coinvolgono l’intera sensibilità dell’essere è unica,
determinando uno stato interiore accompagnato da rapporti con il mondo in cui
prevale l’affettività. Quando raggiunge le vette dell’arte, infine, la musica suscita un
sentimento di totale adesione dell’io a quanto sta accadendo intorno, e opera in tal
senso un’ulteriore trasformazione della struttura della coscienza, attuando un
particolarissimo rapporto dell’io con il mondo. Queste osservazioni assai sommarie
151
servono unicamente a ricordare che la musica modifica profondamente e a vari livelli
la coscienza di sé e del proprio rapporto con il mondo»122.
«Si potrebbe sostenere che l’espressione musicale è il prodotto di una continua
dialettica fra cultura e processo cognitivo. L’esecuzione musicale è l’applicazione di
una sintassi di suoni, che da un lato riverbera sul contesto sociale, riproducendo come
in una sorta di metafora i fondamentali princìpi e schemi logici della cultura,
evocando significati e provocando piacere estetico – in sostanza si godrebbe della
musica in quanto essa ci conferma in modo sostanzialmente inconscio essenziali
valori culturali -
dall’altro interagisce col sistema cognitivo, generando emozioni
che oltre ad avere un intrinseco valore ‘estesico’ possono essere considerate il vero
fattore dinamico del ‘discorso’ musicale»123.
«La relazione fra tensione emotive e musica è molto complesso, anche perché i
fenomeni emozionali sono di per sé difficili da comprendere ed estremamente vari.
Soprattutto il rapporto emozione e musica è complicato dal fatto che “oltre a
provocare reazioni emotive negli ascoltatori, i brani di musica sono anche in grado di
rappresentare emozioni secondo modalità riconoscibili da coloro che li ascoltano
[…]. Spesso può addirittura accadere che l’emozione rappresentata coincida con
l’emozione indotta” (Dowling, Harwood, 1986, pp. 202-3). Come può la musica
evocare e suscitare emozioni?[…]. Va sottolineato come molti studi abbiano
dimostrato che anche le reazioni emotive musicali, almeno quelle più intense,
coinvolgono il sistema neurovegetativo […]. Secondo Berlyne (1971), il principale
processo soggiacente alla scelta personale di musica sarebbe il desiderio di ogni
organismo di sottoporsi a un moderato livello di eccitazione. In questo senso, più la
musica è complessa e imprevedibile – cioè, più interruzioni di schemi cognitivi
provoca –, e
più eccitazione produce. Naturalmente, il livello di eccitazione è
proporzionale al grado di competenza musicale dell’ascoltatore e si mantiene
comunque all’interno di determinate soglie: se la musica è troppo complessa, diventa
fastidiosa o addirittura incomprensibile, se è troppo semplice e prevedibile non
122
Vedi G. Rouget, Musica e trance: i rapporti fra la musica e i fenomeni di possessione, 1986,
pp.164-169;
123
Vedi F. Giannattasio, 1998, p. 273;
152
produce eccitazione […]. Un limite forse di queste teorie e delle ipotesi che ne
conseguono è che esse si basano soprattutto su una dimensione della musica propria
del mondo occidentale, in cui la dicotomia produttore/ascoltatore è particolarmente
sviluppata. Potrebbe rivelarsi estremamente utile sperimentare a fondo la loro
applicazione in contesti musicali folklorici ed etnici, dove i rapporti tre produzione e
fruizione, reazione individuale e collettiva, tradizione e innovazione sono
sostanzialmente diversi […] Si tratta di campi ancora largamente inesplorati»124.
«La ricerca etnomusicologica, come a volte succede, ha sollevato più problemi di
quanti non ne abbia risolti sulla biologia del fare musica. Essa si è interrogata su temi
inerenti alle strutture musicali universali, elementari, sui processi di apprendimento e
sulle reazioni emozionali, temi a partire dai quali potrebbe essere possibile fondare
una teoria coerente delle basi biologiche del fare musica, soprattutto perché ha
svelato una diversità delle percezioni umane, delle definizioni della musica e delle
risposte affettive che non possono essere spiegate in termini naturalistici»125.
«L’importanza attribuita alla tonalità calcolata in modo matematico, alla
consonanza e alla dissonanza nella musica tonale in Europa dopo il XVII secolo è il
risultato, così sembra, di una scelta culturale, e non di uno sviluppo inevitabile
nell’evoluzione della capacità umana del fare musica secondo parametri
biologicamente determinati. Le definizioni e le misurazioni dell’attitudine musicale
delle persone sono elementi specifici della cultura. La competenza musicale dei
bambini non procede in tutte le culture in base a una sintassi universale, essa si
sviluppa in modi diversi in culture musicali diverse. I significati di suoni musicali e
‘linguaggi’ simili variano enormemente da cultura a cultura e da individuo a
individuo in funzione dell’esecuzione, dello status e del ruolo degli esecutori e dei
partecipanti. Sebbene la risonanza corporea sia un prerequisito di un’efficace
comunicazione musicale, non vi è prova convincente che gli stessi pattern musicali
abbiano lo stesso significato per le persone educate nella stessa società, per non
parlare di coloro che sono cresciuti in tradizioni culturali diverse. Né vi è prova che
124
125
Id. pp. 268-272;
Vedi T. Magrini, 2002, p. 230;
153
melodie, ritmi e timbri particolari siano in grado di provocare stati alterati di
coscienza quali trance o sensazioni generiche di gioia, tristezza o nostalgia»126.
«La ricerca etnomusicale ha anche contribuito a portare argomentazioni a
sostegno di una competenza musicale specifica della specie. Per esempio, gli studi
della prassi musicale nell’Africa subsahariana e nel Sudest asiatico mostrano come
presso comunità con sistemi culturali che tengono in gran conto la competenza
musicale generale, tutti gli esseri umani normali sono capaci di danzare, cantare e
suonare strumenti. Questi fatti possono essere interpretati in tre modi:
1)
l’abilità musicale è acquisita indipendentemente dalla biologia umana: la
musica è un fatto sociale, […] l’abilità di capire la musica e di partecipare alla sua
esecuzione dipende in larga misura dall’enfasi assegnata all’attività musicale in un
sistema culturale, e dalle opportunità di partecipare al fare musica;
2)
l’abilità musicale è ereditata geneticamente;
3)
l’abilità musicale è specifica di tutti gli esseri umani normali ed è parte del
loro programma biologico»127.
«Per quanto un sistema musicale e le risposte delle persone all’esecuzione
possano essere costrutti culturali, bisogna tenere presente alcuni processi biologici
relativamente invariabili. Naturalmente, nessuno di questi processi in sé può essere
peculiare del fare musica, ma la tempo stesso un approccio riduzionistico non potrà
spiegare l’unicità del fare musica in quanto esperienza umana»128.
«Il crescente interesse verso la biologia del fare musica, soprattutto da parte di
neurologi, psicologi, psichiatri, non è stato suscitato dalla fede nel determinismo
biologico, quanto piuttosto dalla convinzione che una migliore comprensione delle
interazioni fra biologia umana e le culture musicali possa esercitare un benefico
influsso sullo sviluppo del fare musica nella società umana. Le convenzioni sociali e
musicali possono aiutare alcune persone a fare musica ma ostacolarne altre,
soprattutto a causa dell’eredità biologica […]. La deformità del tronco e delle gambe,
come per esempio cifosi e rachitismo, potevano influire sul fare musica se l’attività
126
Id. pp. 231-232;
Id. p.232;
128
Id. p. 236;
127
154
musicale aveva a che fare con la danza: in alcune società africane i gobbi parevano
quasi spinti a superare il loro senso di disabilità fisica tramite la passione per la danza
e il canto a questa associato, mentre i rachitici tendevano ad esprimere musicalmente
se stessi tramite strumenti che prevedono l’uso della parte superiore del corpo, quali
cetre, lire, arpe arcuate. Una delle caratteristiche più sorprendenti di molte società
tradizionali africane era che le persone fisicamente handicappate parevano servirsi in
modo positivo della musica e della danza per superare ogni stigma di anormalità
sociale […].
Una migliore comprensione di tutti gli aspetti della biologia del fare musica
potrebbe contribuire alla pratica e alla teoria della musicoterapia […]. Il potenziale
musicale rispetto alla crescita umana non può essere utilizzato del tutto finché non si
sia compreso meglio il biogramma delle possibili reazioni fra corpo sociale e corpo
fisico, musica, affetto, mente e cervello, e finché non si arrivi a una teoria più
generale del fare musica che concili le strutture di un fenomeno culturale con i suoi
fondamenti biologici»129.
«Benché vi siano argomenti attraenti a favore dei fondamenti biologici di certi
comportamenti umani che possono essere chiamati ‘musicali’, vi sono seri problemi
nell’identificare le loro forme. Questa complicazione è dovuta in parte alla diversità
dei sistemi musicali che gli etnomusicologi hanno scoperto, in parte alla difficoltà
insita nell’individuare universali musicali di qualsiasi tipo, e in particolare al fatto che
sembra necessario dimostrare che si sono sviluppati muscoli e capacità cognitive
adatti alla musica»130.
Funzioni della musica
«Quando parliamo degli usi della musica ci riferiamo ai modi in cui la musica
viene impiegata nella società umana, alla pratica ed agli esercizi musicali considerati
isolatamente o in rapporto ad altre attività […] La funzione riguarda le ragioni
dell’impiego della musica in una particolare situazione e più specificamente il fine
129
130
Id. pp. 241-243;
Id. p. 250;
155
generale che s’intende realizzare […] Nella letteratura etnomusicologica si trovano
altre definizioni sulla funzione della musica che insistono sulla integrazione tra
musica, da un lato, e tutti gli altri aspetti della vita nelle società incolte, dall’altro.
Questa integrazione non si verifica nella società occidentale»131.
«La musica viene usata sia per integrare un certo numero di attività sia come
parte fondamentale di attività che perderebbero valore se non fossero accompagnate
dalla musica. Con ogni probabilità nessun’altra attività culturale dell’uomo si estende
quanto la musica oppure condiziona, formalizza e controlla il comportamento
umano».
«Cercando di scoprire gli scopi o funzioni della musica in generale, vorrei
proporre
dieci funzioni principali che ricorrono nelle diverse culture musicali:
Espressione delle emozioni. Sono molte le prove che confermano che la musica
funziona, ai vari livelli, come mezzo per esprimere le proprie emozioni […] La
musica sembra essere strettamente vincolata alle emozioni […] La musica può
funzionare come meccanismo di liberazione delle emozioni per un gran numero di
persone che agiscono insieme […] Una funzione importante della musica è dunque
rappresentata dall’opportunità di esprimere una varietà di emozioni, la liberazione di
pensieri ed idee che non potrebbero essere espresse in altro modo, la correlazione di
emozioni e musica, il bisogno di risolvere i conflitti sociali, le ostilità sentite in seno
al gruppo […]. Funzione del godimento estetico. Il problema estetico legato alla
musica non è di facile soluzione e riguarda sia il produttore che il consumatore di
musica […]. Musica ed estetica sono associate nella cultura occidentale come in
quella araba, indiana, cinese, giapponese, coreana, indonesiana, e via dicendo. Ma è
dubbio se questa relazione valga anche per le culture delle popolazioni incolte. A
questo punto […] è sufficiente dire che la funzione del godimento estetico è operante
in un buon numero di culture e che probabilmente l’analisi successiva potrà estendere
questo numero. Funzione di intrattenimento. La musica ha una funzione di
intrattenimento in tutte le società […]. Sarebbe bene distinguere tra intrattenimento
‘puro’, caratteristico della musica occidentale, ed intrattenimento accoppiato ad altre
131
Vedi A. P. Merriam, 1983, pp.15-212;
156
funzioni, caratteristico delle società incolte. Funzione comunicativa. […] anche se
sappiamo che la musica comunica qualcosa, non conosciamo esattamente cosa sia né
come avvenga questa comunicazione. La musica è un linguaggio universale in quanto
assume le caratteristiche della cultura di cui è parte […]. Funzione della
rappresentazione simbolica. Ormai sappiamo con certezza che la musica funziona in
tutte le società come rappresentazione simbolica di qualcos’altro: idee o
comportamenti […]. Funzione della risposta fisica. Esiste qualche perplessità nel
definire questa ‘funzione’, poiché è dubbio se la risposta fisica possa o debba essere
classificata come funzione sociale. Comunque il fatto che la musica stimoli la
risposta fisica è da tutti riconosciuto, sebbene questa risposta possa essere legata a
convenzioni culturali. L’invasamento, per esempio, è stimolato dalla musica eseguita
in momenti e condizioni particolari; senza di esso alcuni riti religiosi non avrebbero
alcuna validità. La musica stimola, eccita e canalizza il comportamento della folla;
incoraggia le reazioni fisiche dei guerrieri e dei cacciatori. La produzione di risposte
fisiche è chiaramente una funzione importante della musica e dal momento che
questa ha un legame stretto con la cultura diventa superfluo definire l’origine
biologica di tale funzione. Potenziamento del conformismo e del rispetto delle norme
sociali. […] I canti del controllo sociale hanno un ruolo sostanziale in moltissime
culture in quanto costituiscono un ammonimento per alcuni membri della società, ed
in quanto stabiliscono indirettamente quale debba essere il comportamento corretto.
Questa caratteristica si trova anche nei canti usati, per esempio, durante i riti di
iniziazione quando ai giovani si insegna a distinguere i comportamenti giusti da
quelli sbagliati. Lo stesso vale per i canti di protesta. Questa è certamente una delle
funzioni principali della musica. Funzione di supporto delle istituzioni sociali e dei
riti religiosi. Anche se sappiamo che la musica viene usate in situazioni sociali e
religiose, disponiamo di poche informazioni che ci indichino fino a che punto essa
diventa supporto delle istituzioni e dei riti […] I sistemi religiosi si rafforzano grazie
ai canti che rievocano miti e leggende, ed anche grazie alla musica che ribadisce i
precetti religiosi. Le istituzioni sociali si rafforzano attraverso i canti che mettono in
risalto ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e che quindi suggeriscono alla gente ciò
157
che si deve e ciò che non si deve fare. Questa funzione della musica andrebbe
studiata in maniera più approfondita. Contributo alla continuità e alla stabilità della
cultura. Se la musica facilita l’espressione delle emozioni, dà piacere estetico,
intrattiene, comunica, stimola la risposta fisica, rafforza il consenso alle norme, alle
istituzioni sociali ed ai riti religiosi, essa contribuirà pure alla continuità ed alla
stabilità della cultura. In questo senso il suo contributo non è né maggiore né minore
di qualsiasi altra espressione culturale […]. Nello stesso tempo va detto che non sono
molte le attività culturali che danno la possibilità di esprimere le proprie emozioni, di
intrattenere, di comunicare e così via, almeno non come avviene in musica. La
musica è, in un certo senso, un’attività finalizzata all’espressione dei valori, un mezzo
attraverso cui gli aspetti della cultura vengono presentati al di là dei meccanismi
protettivi che circondano le altre attività culturali […]. Contributo all integrazione
sociale, […] la musica, additando gli elementi attorno ai quali si sviluppa la
solidarietà degli individui, funziona in effetti per l’integrazione sociale. Molti scrittori
si sono occupati di questa funzione. Nketia dice: “la musica […] soddisfa il bisogno
di partecipare a qualcosa che è a tutti familiare, dà a questo popolo la certezza di
appartenere ad un gruppo i cui componenti condividono valori, modi di vita e forme
artistiche. Dunque la musica rinnova sempre la solidarietà tribale” (1958, p.43). […]
Dunque, la musica è un punto di riferimento per i membri della società che si trovano
impegnati in attività che richiedono la cooperazione ed il coordinamento del gruppo.
Non tutta la musica ha questa funzione, naturalmente, ma ogni società tiene in vita
manifestazioni musicali al fine di favorire la solidarietà e l’unità dei suoi membri. E’
possibile che questa lista di funzioni della musica vada rivista ed estesa ma ad ogni
modo essa costituisce una sintesi del ruolo della musica nella cultura umana. La
musica è indispensabile per promuovere attività sociali; essa costituisce un
comportamento umano universale senza il quale l’uomo prederebbe la propria
identità, con tutto ciò che questo comporta»132.
«Prendere in considerazione la funzione della musica nella società è necessario
solo in quanto può aiutarci a spiegarne le strutture. Parlare degli usi e degli effetti
132
Id. pp.15-212;
158
della musica, per capirne l’essenza, non ciò per cui essa è usata. Solo sapendo
esattamente cosa essa sia, potremo essere in grado di usarla e svilupparla in forme e
modi oggi impensabili, ma forse ad essa propri»133.
«La qualità essenziale della musica è il suo potere di creare un altro universo di
tempo virtuale»134.
«Può darsi che le funzioni della musica nella società siano fattori determinanti
nello sviluppo, o nell’inibizione, di abilità musicali latenti, come anche nella scelta di
concetti e materiali culturali necessari alla composizione. Non saremo in grado di
spiegare i principi della composizione e gli effetti della musica fino a quando non
comprenderemo meglio le relazioni che intercorrono fra l’esperienza umana e quella
sociale»135.
«La funzione della musica è di dare maggior vigore ad esperienze che rivestono
un particolare significativo nella vita sociale o di mettere la gente in più stretta
relazione con esse»136.
«La musica può trascendere il tempo e la cultura»137.
«La ‘dimensione’ musicale interviene nelle situazioni più diverse e, in ambito
etnologico non c’è […] un’occasione che non richieda il concorso indispensabile di
un’azione musicale. Un’analoga gamma di occasioni si potrebbe riscontrare anche
nelle società complesse occidentali […] anche se in esse le relazioni fra occasioni,
norme e funzioni della musica sono state fortemente condizionate dalla
parcellizzazione dei ruoli sociali e dalla possibilità di differire nel tempo e nello
spazio, grazie alla scrittura (i media audiovisivi), la trasmissione dei prodotti e dei
saperi musicali. Queste particolari circostanze hanno contribuito a determinare la
concezione secondo cui la musica sarebbe uno specifico comportamento creativo a
funzione prevalentemente estetica, sostanzialmente riservato a compositori ed
esecutori di mestiere […] Viceversa, in ambito di tradizione orale la funzione estetica
della musica appare, se non subordinata, comunque commisurata ad altre funzioni di
133
Vedi J. Blacking, 1986, p. 48;
Id. p. 48;
135
Id. p. 56;
136
Id. p. 112;
137
Id. p. 119;
134
159
carattere prevalentemente «utilitario» ed «emozionale» (Mukarovsky, 1973, p.49).
Proprio perché la musica è un’attività altamente sensibile al contesto sociale, la
questione delle funzioni non si riduce a un problema di finalità e normative d’uso, ma
incide sulla natura stessa dei fenomeni che le diverse culture riconoscono come
musicali. I rapporti che una determinata società stabilisce tra forme, funzioni,
occasioni e modalità di esecuzione della propria musica sono l’espressione di
un’unica e indivisibile ratio musicale e questa a sua volta è il prodotto e il riflesso di
comportamenti e concetti sulla cui base tale società ordina e interpreta la realtà […]
Per questo, se vogliamo comprendere le concezioni musicali di una determinata
cultura non ci si può limitare ad analizzarne i modelli sonori e a compararli con quelli
di altre culture, a meno di non sapere che corrispondono ad analoghi concetti e
comportamenti. La questione delle funzioni è meno semplice di come potrebbe
sembrare […]. Parlare di funzioni significa formulare delle ipotesi sulle finalità del
comportamento musicale. Secondo Merriam (1983, pp.212-29) dieci funzioni
principali ricorrono nelle diverse culture musicali […] forse potrebbero essere ridotte
a tre ordini di funzioni: a) espressive, b) di organizzazione e supporto delle attività
sociali, c) di induzione e coordinamento delle reazioni sensorio-motorie. Le funzioni
espressive rinviano nel loro insieme alla questione di come la musica è in grado di
veicolare significati e di evocare o rappresentare eventi, emozioni, concetti e stati
d’animo extramusicali; questione divenuta oggetto, negli ultimi decenni, di vari studi
estetici transculturali e della semiologia della musica […] Occorre sottolineare un
aspetto importante del problema: essendo immateriale ed estremamente adattabile al
contesto, la musica è ‘pervasiva’, nel senso che estende e sovrappone la sua sfera
d’azione a quella dei diversi sistemi espressivi e comunicativi cui è associata nelle
varie occasioni e con i quali condivide una dimensione simbolica. Giustamente ha
osservato Rouget (1968, p.1344): “sarebbe veramente difficile dire, qualunque sia la
popolazione considerata, dove per essa la musica comincia e dove termina” .Uno dei
casi più evidenti di sovrapposizione è quello fra musica e lingua […] A livello
funzionale, cosa separa e distingue la musica dalla danza, dal rito, dall’azione ludica
o da quella drammatica? Fra le varie ipotesi a questo riguardo, la più suggestiva è
160
forse quella espressa da Norma McLeod (1974, p.108) la quale, dopo aver osservato
che “in considerazione dell’alto numero di vincoli implicati nella musica, si potrebbe
sostenere che essa è analoga al discorso rituale” si è domandata se la musica non vada
in realtà considerata una “sindrome comportamentale derivata dal rito ed estesasi ad
aree meno complesse dell’esistenza umana”. Tale ipotesi conduce direttamente a
prendere in esame la seconda categoria di funzioni. Le funzioni di organizzazione e
supporto delle attività sociali si esplicano nelle occasioni comunitarie (ritualicerimoniali, ludiche, lavorative ecc.) dove ‘l’ordine’ musicale viene anche utilizzato
per inquadrare, sincronizzare e in definitiva socializzare i comportamenti individuali
[…] Il simbolismo musicale consiste in una sorta di rappresentazione sintetica dei
ruoli e degli schemi di organizzazione sociali. Questa concezione, espressa anche
nelle funzioni di Merriam , è piuttosto diffusa fra gli etnomusicologi e gli antropologi
della musica (al riguardo confronta anche Blacking, 1986, p.113) [...] Quel che è
certo è che la dimensione musicale interagisce sempre, e in modo sensibile, con il
contesto e in particolare con gli schemi di comportamento dei partecipanti all’azione,
indipendentemente dal ruolo più o meno attivo che ad essi spetta nell’esecuzione
musicale. Un’indicazione significativa a questo riguardo si ritrova nel terzo ordine di
funzioni. Le funzioni di induzione e coordinamento delle reazioni sensorio-motorie si
collocano in realtà a metà strada fra le prime due classi, in quanto rinviano:
-
agli specifici schemi cinetici connessi all’evento musicale e in particolare
all’esecuzione strumentale, all’ascolto ‘partecipante’, ai canti di lavoro e alla danza;
-
alle modalità secondo cui la musica interagisce con i meccanismi automatici
e volontari del corpo umano, concorrendo fra l’altro a reazioni cinestesiche ed
emotive che incidono nel processo di simbolizzazione e possono anche contribuire
all’induzione di stati alterazione della coscienza.
[…] Si deve all’antropologia della musica l’avvio di una completa e sistematica
dei rapporti fra musica e movimento, che tenga conto anche delle risposte fisiche
dell’organismo umano al suono organizzato e delle sue implicazioni a livello neurofisiologico e psicologico. Non a caso, già nel manuale di Antropologia della musica
di Merriam (1983) un capitolo significativo è dedicato appunto al comportamento
161
fisico legato alla produzione e all’organizzazione del suono. Sarà poi un altro
esponente dell’antropologia musicale, John Blacking, a inserire definitivamente la
questione in una più generale Anthropology of the body (1977), e lo psicologo ed
etnomusicologo inglese John Baily, a fornire la valutazione più puntuale dei problemi
interpretativi insiti nel rapporto musica-movimento […]. Gli aspetti ritmici sono
quelli che si prestano più naturalmente a tale tipo di indagine. Non a caso, il rapporto
suono/movimento è all’origine di molte metafore relative al ritmo […]. Il rapporto fra
strutture musicali e schemi motori può avere risvolti ancora più complessi se ci si
riferisce alle modalità, non tutte ancora chiarite, secondo cui la musica interagendo
con i meccanismi automatici e volontari del corpo umano – ad esempio innescando
alterazioni della respirazione, del battito cardiaco ecc. -, induce reazioni cinestetiche e
agisce nel campo emozionale […]. A questo proposito va ricordato come, accanto
alle modalità strettamente acustiche (ovvero neuro-sensoriali) della percezione
musicale, i suoni possano anche essere assorbiti direttamente dal corpo, attraverso le
vie scheletriche e muscolo-cutanee. “E’ noto come toni gravi siano preferenzialmente
localizzati alle parti declivi del nostro corpo, e toni acuti al collo e alla testa, con
possibilità di sensazioni intermedie” (Postacchini, 1985, p.156). Ma certamente il
risvolto più eclatante e oscuro di questo nesso funzionale fra musica e
comportamento psico-fisico, riguarda il ruolo che il suono organizzato sembra avere
nell’induzione di stati alterati di coscienza, all’interno di riti a sfondo terapeuticoreligioso praticati, in forme diverse, da tutte le società e culture tradizionali. In
conclusione, va sottolineato che anche la distinzione tra funzioni espressive, di
organizzazione sociale e di induzione sensorio-motoria è soprattutto un espediente
analitico. Nella pratica musicale, fra i tre ordini di funzioni non vi è un’effettiva
soluzione di continuità, ma piuttosto si assiste al prevalere di un ordine rispetto agli
altri a seconda delle occasioni in cui la musica è impiegata, del diverso peso che
assumono le componenti ritmiche, melodiche e poetiche (laddove si tratti di testi
cantati)»138.
138
Vedi F. Giannattasio, 1998, pp. 207-218;
162
«Nella seconda metà del secolo scorso, sotto l’influenza del funzionalismo
fondato in antropologia da Malinowski e Radcliffe-Brown e adottato in
etnomusicologia da Merriam, gli studiosi si sono dedicati all’indagine sui valori
sociali connessi alla vita musicale in una determinata comunità, attraverso una vasta
gamma di aspetti connessi al suono […]. Fin dall’inizio si è rivelato però difficoltoso
interpretare tutti gli aspetti dell’evento sonoro alla luce di un solo concetto e si è
quindi introdotta la distinzione fra funzione […] e uso […]. La differenziazione fra i
ruoli connessi all’attività musicale, comunque si è rivelata spesso fortemente
problematica […]. Quando si parla oggi di funzioni nel campo etnomusicologico, si
intende la parola nel senso ben più ampio dei ruoli svolti dall’attività musicale
nell’esistenza individuale e sociale […]. Bisogna tenere conto della molteplicità dei
punti di vista che possono essere applicati al fenomeno musicale […] la musica
agisce in un certo contesto o in una data società in un’ampia varietà di modi […] la
musica può essere dotata di multifunzionalità, un concetto che ci può essere molto
utile per trattare l’ampia gamma dei compiti affidati all’attività sonora nell’esistenza
delle società umane […] il contesto è un elemento di particolare valore per
comprendere ruoli e significati dell’azione sonora […]. Secondo Bruno Nettl la
musica sarebbe espressione o riflesso o risultato diretto dei valori centrali di una
cultura […] la musica esprime in forma astratta i valori centrali di maggior rilievo
nelle singole culture […]. L’ipotesi che i valori culturali abbiano il ruolo di esprimere
i valori centrali dei diversi tipi di società è stata ampiamente condivisa all’interno
dell’antropologia culturale ed è stata applicata anche al mondo sonoro. Ma va
sottolineato che la musica ha la possibilità di andare oltre la rappresentazione dei
valori di una cultura percepibili attraverso le sue istituzioni sociali: se da una parte è
vero che i sistemi musicali sono connessi alle istituzioni sociali, essi non ne sono il
mero epifenomeno. Il rapporto fra musica ed istituzioni sociali è dialettico, dinamico
e altamente problematico e soprattutto è raramente verbalizzato e pone pertanto
difficili problemi di interpretazione […]. La diversità delle posizioni espresse in
questi e altri studi sulla musica intesa come fenomeno culturale prodotti nella
seconda metà del secolo XX può essere ben riassunta affermando che il suo ruolo
163
varia a seconda che, come sostiene Daniel Neuman, la musica sia considerata come
“una componente di un sistema socio-culturale” che “influenza ed è influenzata da
altri elementi”, oppure “modello, un microcosmo o un riflesso di un sistema
socioculturale”, o infine una sorta di “commento, lettura o esegesi di un sistema
socioculturale” […]. E’ evidente che, a seconda del modo in cui lo consideriamo, il
fenomeno sonoro si presta ad assumere i ruoli più multiformi nelle società umane,
talora associando a sé una pluralità di effetti, ed è quindi estremamente difficile
riuscirne a cogliere tutta la varietà e seguirne le dinamiche […]. La finalità di base
della musica potrebbe essere riconosciuta nell’attivazione di uno specifico regime di
comunicazione, riservato a particolari tipi di espressione (normalmente non attuabili
in assenza della musica), e nell’articolazione di una durata temporale destinata spesso
a contenere, oltre la pura azione sonora, eventi ulteriori: un’azione verbale (la
comunicazione di un testo di un canto), gestuale (la danza), sociale (un rito) […].
Rilevante è notare che l’elemento musica evidenzi comunque l’attivazione di un
regime di comportamento e comunicazione specifico in cui parole e gesto assumono
significati particolari. Questo ruolo della musica è funzionale all’organizzazione della
vita sociale ed è variabile nelle diverse società»139.
Moventi e costanti del comportamento musicale
«La ricerca etnomusicale ha esteso le nostre conoscenze sui diversi sistemi
musicali del mondo, ma non è ancora giunta a ridefinire la musicalità umana così
come sarebbe richiesto da queste conoscenze »140.
«Abbiamo bisogno di sapere quali suoni e quali tipi di comportamento le diverse
società hanno scelto di chiamare musicali. Fino a quando non ne sapremo di più, non
potremo iniziare a rispondere al quesito “Come è musicale l’uomo?”»141.
«Le norme del comportamento musicale non sono convenzioni culturali arbitrarie
e le tecniche musicali non sono paragonabili ai progressi della tecnologia. Il
comportamento musicale può riflettere i diversi livelli di coscienza delle forze sociali
139
Vedi T. Magrini, 2002, pp. 170-184;
Vedi J. Blacking, 1986, p. 28;
141
Id. p. 28;
140
164
e sia le strutture che le funzioni della musica possono essere ricondotte alle basilari
pulsioni umane ed al bisogno biologico di mantenere un equilibrio fra esse […] La
principale funzione della musica nella società e nella cultura è di promuovere
un’umanità armoniosamente organizzata, innalzando il livello di coscienza degli
uomini»142.
«Sulla conoscenza dei fondamentali moventi e delle costanti del comportamento
musicale umano l’etnomusicologia può portare il suo contributo più consistente, già
oggi e nel prossimo futuro» 143.
«Il comportamento musicale, per la sua diffusione universale, può essere
considerato “un tratto peculiare della specie umana” (Blacking, 1986, p.30) e come
tale lascia supporre l’esistenza di procedimenti invariabili. […]. Se ci si pone in una
prospettiva cognitiva il ‘fare musica’ non consiste soltanto nel produrre suoni in
modo organizzato e secondo un determinato fine, ma implica una serie di operazioni
complesse come ascoltare, pensare, comprendere, apprendere, ricordare, provare
emozioni e, in ultima istanza, agire. A questo complesso sistema di operazioni la
psicologia cognitiva della musica si propone di applicare il paradigma teorico detto
dell’information processing (elaborazione dell’informazione), in base al quale è
possibile studiare “come il cervello percepisce e struttura l’informazione che riceve
dal mondo esterno, come tale informazione viene rappresentata nella memoria e
come è recuperata quando necessita per il comportamento” (Harwood, 1976 p.524).
In questa prospettiva, la dicotomia struttura/funzioni rischia di essere effettivamente
insufficiente e poco operativa, in quanto “il processo di comprensione e di
coinvolgimento nel comportamento musicale può rivelarsi più universale di una
qualsiasi azione o conoscenza musicale”»144.
«Ecco alcune recenti ipotesi emerse dagli studi cognitivi sull’elaborazione
dell’informazione
musicale:
si
considerino
innanzitutto
le
principali
fasi
dell’information processing della musica. Scrivono Dowling e Harwood (1986, p.4):
142
Id. p. 113;
Vedi F. Giannattasio, 1998, p. 12;
144
Id. p. 523;
143
165
“I nostri sistemi sensori ricevono l’informazione dal mondo esterno. Le
sensazioni sono filtrate attraverso processi percettivi che concentrano l’attenzione
sugli eventi importanti […]. I suoni e le azioni musicali degli altri sono stimoli
ambientali importanti – in quanto di significativo hanno per noi – che vengono
percepiti sensorialmente dalle nostre orecchie e dai nostri occhi e interpretati nel
contesto della nostra memoria. Gli studi sulla percezione musicale e sulla memoria
suggeriscono che l’information processing implicato è flessibile e sensibile al
contesto. Esso dipende sostanzialmente dalla nostra familiarità con l’informazione da
comprendere, dal fine che stiamo perseguendo e dal grado di complessità
dell’informazione sensoriale […]. Il risultato finale della nostra capacità di percepire,
ricordare, concettualizzare e agire in rapporto all’informazione musicale è la
formazione di strutture interiori, o schemi, per rappresentare e riprodurre una
conoscenza musicale più complessa. Anche gli schemi sono flessibili. Essi
certamente cambiano quanto più diventiamo vecchi o quanto più cresce la nostra
familiarità con le tradizioni musicali”. In sostanza il processo consiste nel
raggruppare le informazioni percepite secondo categorie che consentano un loro
immagazzinamento nella memoria e un loro riutilizzo nella comprensione e nel
compimento di nuove esperienze musicali. Quanto alle modalità di formazione di tali
schemi interiori, in via del tutto generale si può dire che si tratta di un meccanismo di
analisi/sintesi che consente di operare serie di discriminazioni significative. Come
hanno scritto Howell, Cross, West (1985, p.44):
“La schematizzazione della musica implica per lo meno un’identificazione di
quali elementi vanno insieme, di dove intervengono le disgiunzioni, e l’inclusione di
elementi e gruppi di elementi in classi gerarchiche. Richiede inoltre l’identificazione
di elementi che sono percepiti come strutturalmente importanti in opposizione ad altri
che sono in qualche modo degli abbellimenti”. La maggior parte degli studiosi
(Meyer, 1956; Imberty, 1986; Deutsch, 1982; Howell, Cross, West, 1985; Dowling,
Harwood, 1986) ritiene valido anche per la musica un concetto della Gestalttheorie
generalmente applicato alla percezione visiva, secondo cui gli stimoli si
raggrupperebbero in configurazioni sulla base di alcuni semplici princìpi:
166
a)
il principio di prossimità, per cui si tende ad associare assieme elementi
contigui (nel caso dei suoni può essere una contiguità nel tempo o di altezza);
b) il principio di continuità, per il quale si tendono a considerare come un
insieme elementi sonori che seguono una regola comune;
c)
il principio di similarità, che interviene dove non si possono rilevare
contiguità o regole comuni (ad esempio per successioni di suoni timbricamente
affini);
d) il principio di regolarità, per cui si ha la tendenza a raggruppare gli eventi
sonori sulla base della loro uniformità (ritmica, melodica, armonica ecc.);
e)
il principio di simmetria, per cui nella percezione sono privilegiati
raggruppamenti (ritmici, melodici ecc.) simmetrici a gruppi a gruppi asimmetrici;
f)
il principio di complementarietà (common fate) per cui si colgono i diversi
elementi nelle loro relazioni reciproche e si è in grado, col variare di un elemento
(ripetizione, trasposizione, modulazione ecc.), di prevedere come tale cambiamento si
rifletta nell’insieme.
Pur avendo portata generale, tali principi si adattano al contesto, nel senso che da
una parte si conformano alle regole e alle modalità di organizzazione dello specifico
sistema musicale, dall’altra possono combinarsi diversamente da una cultura all’altra
e, all’interno di una stessa cultura, da un’epoca all’altra. Questi princìpi di
discriminazione sono anche alla base dei meccanismi evocativi ed emozionali della
musica […] Sembra che sia l’evocazione che l’emozione siano connesse al rapporto
fra variazione e ripetizione, che ha un’importanza basilare nel meccanismo di
negazione o di conferma delle aspettative musicali»145.
«Mentre la natura specifica del fenomeno musicale varia da una società all’altra,
essa è presente dappertutto. Al ragionevole dubbio se sia possibile comprendere e
spiegare fino in fondo il fenomeno musicale, si può rispondere osservando come lo
scarto fra descrizione dei fenomeni e definizione dei comportamenti ritenuti musicali
è oggi riempito da un campo di ipotesi, per quanto fluttuanti, in continuo
aggiornamento. I confini di tale campo di ipotesi, aperto e continuamente alimentato
145
Id. pp. 266-268;
167
dall’etnomusicologia, sono gli universali del comportamento musicale. Dai risultati
che cominciano ad emergere, si può ritenere di essere ormai sulle tracce dell’homo
musicus. L’obiettivo, per quanto ambizioso, è davvero affascinante […] Certamente
si è ancora lontani da tale obiettivo»146.
«Come mai un’attività come la musica, che è apparentemente svincolata dalle
necessità basilari dell’uomo, è coltivata da tutte le popolazioni del mondo? A quali
tipi di bisogno risponde l’invenzione e la reinvenzione della musica nei diversi luoghi
della terra? Come mai la produzione sonora assume in ogni luogo forme
differenziate, dimostrando in questo modo di essere oggetto di un’attività creativa
molto articolata?»147.
«La concezione della musicalità è un’esperienza più profonda e viscerale di
qualsiasi altro elemento acquisito culturalmente, […] la partecipazione all’esecuzione
(ascoltando attentamente o suonando realmente) può coinvolgere il sistema
sensomotorio del corpo in modo tale che le risposte delle persone alla musica siano
avvertite come espressione della parte più profonda del loro essere nonché come
elemento intrinseco della loro natura umana. Dato che sono letteralmente stimolati,
sia internamente che esternamente, dalla partecipazione all’esecuzione musicale, essi
possono diventare più consapevoli del corpo umano e del suo repertorio di sensazioni
ed emozioni»148.
«Si può ipotizzare che ‘l’intelligenza’ musicale sia una capacità specifica della
specie, la cui comparsa nella filogenesi umana è anteriore rispetto al linguaggio
parlato, che venga espressa con modalità di pensiero e di comunicazione non verbale
ora considerate tipiche dell’elaborazione nell’emisfero destro del cervello, e che il
suo valore per la sopravvivenza non sia stato soppiantato, poiché consente alle
persone di trascendere le risposte immediate all’ambiente e di creare strategie
immaginative secondarie»149.
146
Id. pp. 273-74;
Vedi T. Magrini, 2002, p. 169;
148
Id. p. 236;
149
Id. p. 251;
147
168
Riassumendo possiamo dire che la musicoterapia è sensibile alle seguenti
tematiche presenti nella ricerca etnomusicologica:
1)
La comprensione della musica, di tutta la musica in quanto attività
espressiva umana universale, per una definizione epistemologica ampia della
componente ‘musica’ all’interno dell’ambito musicoterapeutico;
2)
La ricerca dei principi generali sul comportamento musicale, sui processi
cognitivi, sociali, ed espressivi della musica per una comprensione più completa
possibile dei vari aspetti connessi alla produzione e alla fruizione dei fenomeni
musicali;
3)
Gli studi rivolti al ruolo del contesto e della cultura, quindi all’importanza
dell’ambiente sociale e culturale nella strutturazione dell’individuo, dei modelli
espressivi e di tutti quegli aspetti della musica e della terapia che sono connessi ai
modelli culturali;
4)
La documentazione degli usi terapeutici della musica presenti nel mondo,
per avere un’ampia visione del fenomeno e perché la conoscenza di altre pratiche
obbliga a ripensare il proprio ambito.
L’apporto dell’etnomusicologia alla musicoterapia è quindi essenzialmente di
natura teorica. Gli studi etnomusicali arricchiscono la pratica musicoterapeutica
occidentale offrendo l’opportunità di un allargamento
delle conoscenze, che si
riflette sulla modalità di approccio nel fare musicoterapia. Conoscenza finalizzata ad
una maggiore consapevolezza dei nostri valori musicali e all’adozione di una
prospettiva transculturale oggi necessaria.
Un contributo importante riguarda proprio il rapporto dell’individuo e dei
fenomeni musicali con la cultura, infatti non si può ignorare il significato simbolico
del suono, secondo associazioni e significati che sono culturalmente sottesi.
«L’etnomusicologia analizza e spiega la musica come espressione, attraverso i suoni,
dell’esperienza umana nel contesto di diversi tipi di organizzazione sociale e
culturale» (Blacking, 1986, p.51).
169
Conoscere e capire il modo di fare musica in culture differenti porta ad avere una
maggiore consapevolezza sul rapporto fra musica, contesto e cultura, perché, come
afferma Blacking (1986, p.89): «i sistemi operativi sono universalmente dati, mentre i
modelli espressivi sono culturalmente acquisiti».
Così gli studi etnomusicali possono aiutare i musicoterapeuti a non cadere in facili
pregiudizi, ad esempio quello di considerare le musiche extraeuropee come ‘altre’
musiche, a saper accogliere le più diverse espressioni musicali, ad accedere ad un
nuovo mondo musicale e ad una più profonda comprensione della ‘nostra’ musica.
Aiuta quindi ad essere consapevoli dell’insieme dei propri valori musicali (repertori,
tecniche compositive ed esecutive, gusto e abilità musicali), che sono indotti
dall’ambiente sociale e culturale, come suggerisce l’etnomusicologo inglese J.
Blacking dopo i suoi studi in Sudafrica: «ho iniziato a capire meglio la mia società e
a valutare meglio la mia musica» (Blacking, 1986, p.56). Nella sua esperienza con i
Venda, Blacking ha imparato che la musica non è mai una cosa a sé stante, che non
può avere significato al di fuori dei rapporti sociali: infatti risulta essere
profondamente legata ai sentimenti e alle esperienze dell’uomo in quanto essere
sociale, e il fondamento di molti processi essenziali della musica va ricercato nel
corpo umano e nei sistemi d’interazione sociale, per cui ad esempio la complessità
delle strutture della musica può essere semplicemente la conseguenza di sistemi
d’interazione sociale più rilevanti, di una più articolata divisione del lavoro e
dell’accumularsi di una tradizione tecnologica.
Altro punto a favore della ricerca etnomusicale è nella modalità di analisi del
fenomeno musicale, infatti non opera confronti meccanici fra strutture di superficie
(come scale, intervalli, ecc.), ma analizza il comportamento e la musicalità
dell’uomo.
Si tratta di una ricerca comparativa che si basa sul puntuale
riconoscimento degli elementi comuni alla psiche umana e degli elementi specifici
della cultura. Ai fini di una efficace comprensione di tutti i sistemi musicali, Blacking
propone un approccio di tipo antropologico, piuttosto che un’analisi delle sole
strutture sonore prese come entità a sé stanti.
170
L’etnomusicologia si propone dunque come metodo, come antropologia della
musica e del comportamento musicale. Favorisce la comprensione di come
interagiscono i fattori psicologici, sociali, culturali, insieme a fattori puramente
musicali nei processi di produzione e fruizione del suono organizzato. Di
conseguenza sia l’analisi delle sole strutture di superficie della musica, che le
descrizioni delle funzioni e degli aspetti sociali e culturali risultano poco pregnanti se
non rivelano ruolo e conseguenze nell’organizzazione del suono.
Ecco che l’ambito musicoterapeutico, per sua natura interdisciplinare, si
arricchisce dell’apporto di un altro ambito interdisciplinare, l’etnomusicologia, in
particolare per l’importanza che riveste l’ambiente, quindi la società e la cultura,
nella strutturazione dell’individuo in tutte le sue manifestazioni. Ogni nuova ricerca,
ogni nuova documentazione etnomusicale rappresenta un piccolo tassello verso la
costituzione di una ‘grande mappa’, da cui ricavare le potenzialità/capacità espressive
dell’uomo e della musica, per comprendere appieno il legame uomo-suono in tutte le
sue manifestazioni. Gli studi etnomusicali sui principi generali del comportamento
musicale rappresentano, oltreché un traguardo ambizioso, anche una fonte di grande
interesse da verificare in ambito clinico musicale. La conoscenza dei processi
fisiologici, cognitivi e psicologici universali legati alla musica permetterebbe di
sganciarsi da un sistema relativo di suoni dipendenti dalla cultura, per cogliere una
dimensione musicale dotata di nuove potenzialità comunicative.
Dalle ricerche etnomusicali sul campo possono emergere interessanti spunti di
riflessione, in particolar modo da quelle riguardanti gli usi terapeutici della musica; si
tratta di tematiche particolarmente complesse che meritano sicuramente un adeguato
approfondimento in ambito musicoterapeutico. Queste pratiche
fanno sorgere
questioni estremamente rilevanti, ad esempio potrebbero far nascere nuove
prospettive sul valore terapeutico della musica nelle relazioni d’aiuto ampliando i
confini della conoscenza in generale e offrendo la possibilità di una rilettura di tali
fenomeni utile alle applicazioni a noi più vicine. Certamente non è possibile
estrapolare una certa pratica da tutta la cultura in cui è immersa, quindi non si cerca
né di ‘importare’ i riti terapeutici a sfondo musicale presenti nelle altre culture, né
171
‘esportare’ la musicoterapia in altri contesti che non le sono propri. E’ possibile,
invece, considerare la musicoterapia all’interno del quadro generale delle pratiche
terapeutiche musicali presenti nel mondo, ed in questo senso è possibile fare un
confronto utile per un mutuo apprendimento. Esistono infatti molti modi in cui la
musica accompagna riti di guarigione; a questo proposito è da sottolineare che la
musica, non essendo un farmaco, acquista valore terapeutico solo se inserita
all’interno di una cornice di riferimento, un contesto o setting; infatti cambiando
l’ambiente, cioè la cornice culturale, cambia anche il significato che diamo alla
musica. Il rito è un fenomeno culturale, una dimensione dell’esperienza che abbiamo
perso, ma che è presente in molte culture tradizionali come pratica terapeutica per la
guarigione. Potremmo definirlo come un contenitore per riconoscere ed accogliere
forme di disagio, offrendo l’opportunità di risolvere gli impulsi irrazionali attraverso
uno sfogo, una forma di catarsi. La musicoterapia non può rimanere indifferente di
fronte a certe pratiche musicali a scopo terapeutico presenti in altre parti del mondo,
per quanto possano essere (o sembrare?) distanti non solo a livello geografico, ma
soprattutto a livello culturale. Si può vedere ad esempio, attraverso un piccolo stralcio
tratto da un’opera fondamentale della letteratura etnomusicologica di G. Rouget sui
rapporti fra musica e trance, quanto un culto di possessione praticato in Africa mostri
delle corrispondenze interessanti, oltreché affascinanti, tra musicista/musicoterapeuta
e posseduto/cliente:
«la posseduta è in balìa dei suonatori di tamburo, che accompagnano i suoi gesti
imprimendo loro un ritmo sempre più rapido e violento. In effetti, a partire da questo
momento si stabilisce una stretta relazione interpersonale fra il tamburino e la
posseduta. In certo qual modo questi la prende a carico: si tiene vicinissimo a lei e
non l’abbandona più, seguendo i suoi benché minimi movimenti, osservando
continuamente il suo comportamento e regolandosi su di esso per accelerare il tempo
o viceversa per rallentarlo, per scegliere le percussioni necessarie e adeguarne
l’intensità. Insufflando nella posseduta il ritmo della danza, la mantiene sotto il suo
potere e la trascina nel turbine sempre più violento della sua musica. Ma se è in grado
di dirigerla a suo piacimento, ciò è possibile perché ha saputo instaurare con lei
172
un’intima intesa; se la domina e può imporle la sua volontà, è perché sa seguirla. E’
lui a dirigere il gioco, ma vi è dialogo: lui parla con la musica e lei risponde con la
danza» (Rouget, 1986 p.155).
Sono inoltre da notare le ripercussioni che possono derivare dalle ricerche
etnomusicali. Ad esempio, le ipotesi di Blacking sulle origini biologiche e sociali
della musica potrebbero ripercuotersi sul modo di valutare la musicalità e sui sistemi
di educazione musicale; potrebbero far nascere qualche nuova idea sul ruolo della
musica nell’educazione e più in generale nelle società, perché il fattore culturale si
riflette sulla concezione e sul valore accordato alla musica, quindi sui possibili effetti
e sviluppo delle attitudini musicali. Inoltre è da tenere presente il valore del contesto
come elemento per comprendere ruoli e significati dell’azione sonora.
Musicoterapia ed etnomusicologia rappresentano ognuna un intreccio di strade che
si intersecano spesso su temi centrali comuni, e che portano verso la conoscenza
dell’uomo e della musica: capire l’uomo per comprendere la musica, capire la musica
per comprendere l’uomo. Uomo e musica sono
legati indissolubilmente l’uno
all’altra: «la musica è un elemento che si aggiunge alla complessità del
comportamento umano. Laddove non esistono uomini che pensano, agiscono e
creano, il suono musicale non può esistere» (Merriam, 1983, p.16). Al centro di tutto
c’è l’uomo e i suoi rapporti con gli altri uomini; uomo inteso nella sua totalità, cioè
nel suo essere biologico, sociale e portatore di cultura. Così la musica, intesa come
tratto peculiare della specie umana, prodotto di processi fisiologici e cognitivi
universali, e come sistema relativo di suoni, le cui strutture sono prodotto,
espressione e funzione di un particolare sistema sociale.
Un nodo cruciale del dialogo fra etnomusicologia e musicoterapia che merita di
essere sviluppato è quanto evidenziato da Giannattasio150 a proposito dei limiti della
musicoterapia occidentale. Innanzitutto la musicoterapia va difesa dall’accusa di
sottovalutare la complessità del comportamento musicale, anche se, come abbiamo
visto, è da riconoscere il consistente apporto etnomusicologico nella comprensione
delle componenti culturali della musica; infatti, anche se non si tratta di un tema
150
Vedi pag. 51-52
173
nuovo nella letteratura musicoterapeutica,151 si presenta più ricco di connotazioni in
ambito etnomusicale. Inoltre non vi è in realtà disaccordo con Giannattasio nel
sostenere che la musica non è un farmaco e non esiste una formula valida in assoluto:
in altre parole la musicoterapia non è una ‘musicofarmacia’. Etnomusicologia e
musicoterapia sono entrambe d’accordo nel riconoscere alla musica capacità
extramusicali:
provocare
modificazioni
comportamentali,
stimolare
reazioni
psicologiche e fisiologiche (sistema neurovegetativo, ritmo cardiaco, respirazione,
risposta sensorio-motoria), condizionare gli stati emotivi. Essendo una via particolare
della comunicazione che esula dalle possibilità del linguaggio parlato, la musica può
soddisfare il bisogno di sentirsi appartenenti ad un gruppo i cui componenti
condividono i valori; può offrire la possibilità di innalzare il livello di consapevolezza
delle sensazioni, delle emozioni, della partecipazione e delle relazioni all’interno del
gruppo stesso.
Certamente come musicoterapeuti è importante essere consapevoli del ruolo
giocato dalla cultura in tutte le sue innumerevoli implicazioni e l’incontro con
l’etnomusicologia si rivela in tal senso fondamentale e unico, sollevando peraltro
questioni di grande attualità: in un periodo caratterizzato dalla globalizzazione
l’etnomusicologia si pone come disciplina ponte che collega culture diverse nel pieno
rispetto e valorizzazione delle reciproche diversità e contro ogni tipo di
discriminazione. Essere consapevoli della dialettica che lega il singolo alla cultura,
come «dimensione sovraindividuale cui i singoli appartengono […] è uno strumento
per cognitivizzare e condividere il mondo, un modo per saper orientarsi nel
comportamento e per interpretare le azioni altrui e le loro conseguenze […] la cultura
riassume dunque l’orientamento di fondo di un gruppo che vive in condizioni simili
di esistenza, e si invera in ogni individualità» (Coppo, 2003, p.79). L’antropologo
Ralph Linton ha sostenuto che «la cultura è come l’acqua in cui il pesce nuota: il
pesce vede attraverso quell’acqua, ma non la vede come tale. Le culture sarebbero le
acque in cui nuotano i diversi gruppi umani; acque certo diverse tra loro per
151
Vedi concetto di ISO culturale in Benenzon, (1997 e 1998). Per ISO egli intende l’identità
sonora in generale di un individuo, che non può essere separata dall’identità culturale etnica di
appartenenza.
174
determinate caratteristiche, ma che restano comunque varietà della stessa cosa […]. Il
pesce può diventare consapevole dell’acqua in cui nuota solo uscendone o
sperimentando acque davvero diverse» (ivi, pp.99-100).
Dal concetto di cultura ne scendono a cascata altri; alla cultura è legata la
strutturazione del singolo, dei suoi valori e comportamenti «è proprio di ogni cultura
reprimere o al contrario incoraggiare l’espressione delle emozioni, scegliendo quelle
che saranno o no valorizzate» (Rouget, 1986, p.402). Le caratteristiche della musica
variano secondo le culture: se la musica è il prodotto del comportamento umano e
l’uomo è portatore di cultura, le manifestazioni musicali sono il risultato delle
convenzioni sociali e culturali. Di conseguenza il significato della musica va sempre
messo in relazione ai comportamenti e alla cultura che l’hanno determinata. E a
proposito della valutazione, non si può non notare che si tratta sempre di una
valutazione culturale; infatti il ricercatore, per quanto cerchi di essere obbiettivo, fa
sempre parte di un sistema e di un contesto di valori.
Altri elementi della pratica musicoterapeutica immersi nel mare culturale sono i
concetti di malattia, terapia, e guarigione. Infine non si può non accogliere un
suggerimento presente sia in Blacking che negli scritti della Magrini riguardo la
comunicazione musicale, per cui la risonanza corporea sarebbe un prerequisito
efficace e il modo migliore per entrare in risonanza con un’altra persona.
Tutte queste considerazioni mi convincono del fatto che se vogliamo giungere ad
una comprensione complessiva dei fenomeni musicali è auspicabile un approccio di
tipo interdisciplinare, per riprendere il contatto con la musica nella sua interezza
attraverso le sue innumerevoli relazioni: «oggi, nessuna ricerca e nessuna azione
complessa è pensabile senza una metodica inter- e multidisciplinare» (Coppo, 2003,
p.94). E, a maggior ragione, merita di essere approfondito il dialogo e la reciproca
collaborazione fra queste due discipline, consapevoli ormai delle possibilità e dei
limiti di entrambe.
175
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AL DI LA’ DELLE PAROLE.
SUONI E TEMPI DA UNO STAGE DI MUSICOTERAPIA
M. Degli Stefani *, R. Ziglio *, L. Xodo °, G. Ferrari °.
*Psichiatra Asl 17 Monselice , Padova
°Musicoterapeuta, Associazione MusicaOltre Padova
Nelle righe a seguire si sono riportate alcune riflessioni stimolate da una esperienza
diretta effettuata in uno stage di musicoterapia.
Queste parole non sono certamente in grado di riprodurre la ricchezza e l’intensità
del materiale emerso.
Ogni incontro, quando è vero, ci parla di ciò che siamo, e nel gruppo formatosi
durante l’esperienza sonora, in alcuni momenti ,si è avvertito un “come se” ci
trovassimo davanti ad un’esperienza concreta di “corporeità nel fare terapia”.
Altri incontri ci sottolineano come la vita professionale sia segnata da incontri e
confronti con saperi diversi , dove l’apparire di linguaggi inizialmente sconosciuti,
riporti al fascino della psichiatria come area di sapere in continuo divenire.
Le prime riflessioni rimandano ad una serie di considerazioni intuitive sulla
applicazione spontanea di “musicoterapie”, provenienti dalla cultura popolare come
nel caso “..canta che ti passa..” oppure, come in molte culture, una barretta metallica
fatta vibrare tra i denti sia in grado di “...scacciare i pensieri...”. Nel pensiero
comune, quindi, una relazione più o meno stretta tra immaginario emotivo e armonia
parrebbe essere presente da lungo tempo.
181
In questa linea gli studi di Ernesto De Martino hanno ben documentato come
momenti di agitazione psicomotoria, in taluni contesti culturali, possano essere
contenuti tramite il ritmo scandito dal tamburo accompagnato dalla voce e dal canto.
Risalgono, alla metà degli anni ‘90 gli ultimi episodi di tarantate seguite nelle loro
crisi dal suono della pizzica salentina.
La musica è intuitivamente percepita come linguaggio in ogni popolo, spesso è
indissolubilmente legata alla danza e al movimento, ed è uno strumento di
comunicazione oltre le pure sonorità linguistiche o le barriere culturali. Ovunque,
viene riconosciuta come in grado di esprimere-liberare componenti affettive-emotive
dell’animo umano, e forse presenti anche nel mondo animale dove non mancano
certo le melodie.
In un setting analitico, la consegna al paziente indica più o meno: “...stia sdraiato, e
dica
cosa le passa per la mente...”, limitando dunque l’osservazione al solo
significato delle parole. Il non agire viene indicato come requisito fondamentale per
queste forme di psicoterapia, e per lunghi anni sono state segnalate come
controindicazione a tale trattamento le condizioni (psico)patologiche che non
permettessero un tale controllo.
In realtà si è poi potuto valutare in più occasioni come i toni, i ritmi, i tempi della
relazione, assumano un valore forse di pari importanza del significato stesso del
linguaggio parlato, e anzi talora permettano di raggiungere regioni e profondità
inaccessibili alle sole possibilità razionali interpretative dei significati verbali.
Da qui il passaggio alla riflessione circa l’utilità di altre forme di psicoterapia che
considerino la possibilità di azione o di linguaggi alternativi, accessibili alle forme o
alle aree patologiche meno strutturate e indifferenziate (o semplicemente più gravi),
sembra una naturale conseguenza.
Possibilità relazionali e di comunicazione-accesso che aprono la via verso un
materiale comune, condiviso e condivisibile arrivando poi eventualmente in un
secondo tempo, se possibile, a momenti e spazi di mentalizzazione e di pensiero.
182
In questa prospettiva se la danza potrebbe essere considerata il pensiero del corpo, il
canto è forse la voce del respiro, e quindi il linguaggio dell’animo.
Nella musicoterapia pensiero e azione possono probabilmente trovare un terreno
comune di espressione, forse dalle matrici ancora confuse, ma proprio per questo
comprensibilmente esprimibili e condivisibili.
Al paziente nella stanza dei giochi, con la possibilità degli strumenti (musicali)
transizionali, si offre il messaggio: agisciti.
Ecco allora l’espressione dapprima
solamente catartica, ma poi anche relazionale-terapeutica di contenuti emotivi, verso
opportunità di comprensione e elaborazione, e anche in quelle situazioni per certi
versi un po’ di difficile accesso al linguaggio della parola.
Nella situazione musicoterapeutica colpiscono molte vicinanze o risonanze con
setting terapeutici classici, e in particolare di matrice dinamica.
Anche qui fondamentale la necessità di un ascolto, qualità certamente non carente a
chi di musica si occupa, così come la capacità di “accordarsi” e “intonarsi”, unite
queste (e qui, la principale differenza rispetto al semplice fare musica assieme, e che
rende invece obiettivo comune del suonare come aspetto terapeutico), alla
disponibilità-capacità-responsabilità del prendersi cura dell’altro.
Percepita quindi la possibilità di assonanze terapeutiche, si è passati a riflessioni
circa eventuali campi psicopatologici di applicazione.
Seguendo una linea lungo la gravità delle situazioni possibili, si ipotizza la
musicoterapia utile e adatta alle forme di ritiro molto gravi come nei pazienti
autistici, nelle forme catatoniche, forse alcuni coma, dove, facendo di necessità virtù,
la possibilità di linguaggi non verbali e non invasivi diventa quasi requisito
indispensabile.
Anche nelle patologie con problemi di “coordinazione”, motoria così come anche
psichica (se viene perdonata tale licenza nosografica), l’uso di tempi ritmi, sequenze
armoniche può rivelarsi utile.
Nelle forme meno gravi, dove la percezione della realtà è conservata e la patologia
riguarda momenti di conflitto intrapsichico, la opportunità di una alleanza con le
183
capacità espressive e creative della coppia terapeutica, può trovare nello strumento
musicale terreno fertile per il riconoscimento e la elaborazione dei tratti sofferenti.
Per quanto rigurda le forme medio-gravi ( si perdoni il riduzionismo classificatorio, e
ci appelliamo alle proprietà intuitive e all’esperienza dei lettori),
è opportuno
riservare particolare attenzione. Ci si muove infatti in relazioni dagli elementi ancora
confusi quando non persecutori o fortemente abbandonici, e il proporre qualsiasi
forma di avvicinamento, deve tenere in considerazione gli spostamenti di equilibri
instabili e precari, talora poco prevedibili.
Inoltre ci è sembrato che lo strumento musicoterapeutico possa in alcuni casi offrire
una rapidità espressiva fin troppo veloce, raggiungendo alle volte profondità emotive
che richiedono alla parola tempi molto piu lunghi e a velocità più controllabili.
Qualità senza dubbio apprezzabile, ma che appunto richiede una attenta calibratura
con pazienti che possono manifestare difficoltà di registro delle proprie capacità di
insight.
In questo ambito l’eventuale supporto musicoterapeutico si inserisce , in situazioni
dove si fa riferimento ad un continuo contatto istituzionale.E’ importante, se non
fondamentale, il coordinamento e la comunicazione con la rete di contenimentoaccudimento offerta dall’istituzione. Una modalità di interazione che possa inserirsi
nella storia terapeutica del paziente e forse dell’intero servizio di riferimento.
Bruce Chatwin ne “Le vie dei canti” si pone la seguente domanda : “ Perchè gli
uomini invece di stare fermi se ne vanno da un posto all’altro?”
Come potrebbe forse dire Don Juan, ci è sembrato di cogliere nella musicoterapia una
via con un cuore, dove il viaggio appare gradevole e in grado di offrire momenti di
sosta verso la percezione di uno stare (anche assieme) e quindi essere.
Forse necessita ancora …di un po’ di fegato.....
In memoria di Roberto
184
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Finito di stampare
nel mese di novembre 2004
presso
Editrice IL TORCHIO
Via S. Biagio, 54 – Padova
Copyright by
©
Associazione Scuola di Musicoterapia “Giovanni Ferrari”
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