Ennio De Simone APPUNTI DI STORIA ECONOMICA Questi Appunti integrano il testo di E. De Simone, Storia economica. Dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione informatica, Milano, Franco Angeli, seconda edizione, 2008 Indice Capitolo settimo – L’economia contemporanea 1. La crescita dell’economi mondiale 2. Stato, mercato e globalizzazione 1 3 Capitolo ottavo – Lo sviluppo ineguale 1. Il mondo sviluppato 1.1. Le disuguaglianze fra le nazioni 1.2. L’egemonia degli Stati Uniti 1.3. Dal Mercato comune all’Unione Europea 1.4. I principali paesi europei 1.5. Ricostruzione e miracolo economico in Italia 1.6. Rallentamento e ristrutturazione dell’economia italiana 1.7. Sviluppo e difficoltà dell’economia giapponese 7 7 8 11 14 19 22 25 2. Dall’economia pianificata all’economia di mercato 28 2.1. L’Unione Sovietica e il blocco comunista 2.2. Il crollo dei regimi comunisti e la crisi della transizione 2.3. Il caso cinese 28 31 33 3. I paesi in via di sviluppo 3.1. Decolonizzazione e strategie di sviluppo 3.2. L’India fra sviluppo e arretratezza 3.3. Le «tigri asiatiche» e gli altri paesi dell’Asia 3.4. Le difficoltà dell’America Latina 3.5. Il ritardo dell’Africa 3.6. Epilogo 36 Tabelle aggiornate 50 Anno accademico 2009-10 36 39 41 43 46 48 Capitolo settimo L’ECONOMIA CONTEMPORANEA Questi paragrafi integrano quelli del Capitolo settimo del libro 1. La crescita dell’economia mondiale (nuovo paragrafo iniziale del Capitolo settimo, p. 251) Dopo la seconda guerra mondiale iniziò un lungo periodo di nuove trasformazioni, che va sotto il nome di terza rivoluzione industriale. Forse, in questo caso, il termine riesce ancora meno a esprimere pienamente la profondità delle trasformazioni della struttura economica e sociale che hanno inciso direttamente o indirettamente sulla vita di tutti i popoli della Terra, anche perché l’elemento più caratteristico del periodo è la terziarizzazione dell’economia. Sono trasformazioni molto più profonde di quelle delle altre due rivoluzioni, acceleratesi con l’avvento dell’informatica, che si è estesa alle comunicazioni, facendo del mondo un «villaggio globale», ormai collegato in rete mediante Internet. Gli anni che vanno dalla fine della guerra ai nostri giorni hanno visto una crescita senza precedenti dell’economia mondiale, come dimostrano gli indicatori riportati nella tabella 7.0, in cui si mettono a raffronto i dati del 1955 con quelli del 2006. Di fronte a un incremento della popolazione mondiale, che in questo periodo è cresciuta di 2,3 volte, passando da 2,8 a 6,5 miliardi, si registra un incremento molto più consistente delle principali produzioni alimentari, come frumento, riso, granturco e pesce, che sono aumentate da 3,2 a 5,8 volte. Anche la produzione di altre materie prime, come cotone, caucciù, carbone, minerali di ferro, rame e petrolio, è cresciuta più della popolazione, mentre la produzione di energia elettrica è aumentata di quasi tredici volte e quella di fertilizzanti azotati di ben quindici volte. È evidente che le risorse a disposizione dell’umanità sono notevolmente cresciute, al contrario di quanto aveva ipotizzato Malthus a proposito del rapporto fra mezzi di sussistenza e popolazione. Purtroppo, esse non sono adeguatamente distribuite fra i popoli della Terra, sicché vi sono molte nazioni che soffrono la fame e altre che sprecano derrate e beni di cui possono disporre. La crescita, nel periodo in esame, si può sostanzialmente dividere in due fasi: una di vigorosa espansione e una successiva di rallentamento, anche se non generalizzato. Dopo la guerra fu innanzitutto necessario procedere alla ricostruzione economica dei paesi coinvolti nel conflitto, molti dei quali avevano subito parecchie distruzioni sul loro territorio, e riconvertire la produzione bellica in produzione per il tempo di pace. Questa volta non furono richieste riparazioni, ma i paesi usciti vincitori dalla guerra, in particolare gli Stati Uniti, aiutarono alleati ed ex nemici nello sforzo della ricostruzione, realizzata in poco tempo. Intanto, venivano gettate le basi per una più solida convivenza fra le nazioni, basata anche sull’incremento degli scambi internazionali. Effettuata rapidamente la ricostruzione, l’economia di quasi tutti i paesi del mondo, specialmente di quelli industrializzati, conobbe una lunga fase di sviluppo come non si era mai registrata prima di allora, alla quale è stato dato il nome di golden age, che durò almeno un 2 Ennio De Simone quarto di secolo. Si trattò di un periodo di elevata crescita economica e di grandi conquiste tecnologiche, che hanno consentito di mantenere una popolazione in continua e forte crescita, sfruttando una serie di condizioni favorevoli, come il basso prezzo delle materie prime, specialmente del petrolio, la consistente ripresa degli scambi internazionali e un sistema di cambi fissi, ripristinato dopo la guerra. Nel corso degli anni Settanta, venute a mancare alcune di queste condizioni, la crescita dell’economia mondiale rallentò, senza però esaurirsi. Anzi, parecchi paesi, specialmente asiatici, fra i quali la Cina e l’India, hanno fatto registrare una crescita accelerata, che ha prodotto un miglioramento delle condizioni materiali di vita delle loro popolazioni. Tab. 7.0. – Alcuni principali indicatori dell’economia mondiale nel 1955 e nel 2006 Indicatori Popolazione mondiale (miliardi) Frumento (milioni di quintali) Riso (milioni di quintali) Granturco (milioni di quintali) Orzo (milioni di quintali) Patate (milioni di quintali) Pesca (milioni di quintali) Cotone (milioni di quintali) Caucciù (milioni di quintali) Bovini (milioni di capi) Ovini (milioni di capi) Carbon fossile (milioni di tonnellate) Ferro, minerale (milioni di tonnellate) Rame, minerale (migliaia di tonnellate) Petrolio (milioni di tonnellate) Energia elettrica (miliardi di chilowattora) Fertilizzanti azotati (milioni di quintali) 1955 2006 2,8 1.575 1.991 1.578 691 1.537 277 75 19 856 887 1.385 133 2.700 708 1.369 68 6,5 6.059 6.346 6.952 1.386 3.151 1.599 248 99 1.560 1.102 6.165 1.690 15.300 3.660 17.351 1024 Crescita di n volte 2,3 3,8 3,2 4,4 2,0 2,0 5,8 3,3 5,2 1,8 1,2 4,5 12,7 5,7 5,2 12,7 15,1 Fonte: Calendario Atlante De Agostini, Novara, anni 1958, 2008 e 2009. Nota: La produzione di fibre di cotone del 1955 non comprende quella dell’Unione Sovietica; il secondo dato della produzione di energia elettrica è relativo al 2005 e quello della produzione di fertilizzanti azotati è del 2003. Un’altra caratteristica di questo lungo periodo, almeno fino a tutti gli anni Ottanta, fu la contrapposizione fra due modelli economici: quello rappresentato dall’economia di mercato e quello dell’economia pianificata. I paesi che si rifacevano all’economia libera di mercato, sia pure con diverse varianti, erano gli Stati Uniti d’America, l’Europa occidentale e il Giappone, nonché altri paesi ad essi collegati, come quelli del Commonwealth, quasi tutta l’America Latina e molte ex colonie europee. L’economia pianificata, già attuata dall’Unione Sovietica, si diffuse nell’Europa orientale, in Cina e in qualche altro paese asiatico e latinoamericano. Si trattò di una vera sfida fra sistemi economici e politici diversi, condotta sotto la guida delle due «superpotenze» dell’epoca, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, che difendevano e cercavano di imporre il loro modello. Questo scontro, com’è noto, è terminato con il crollo dell’economia pianificata e con l’affermazione di quella di mercato, la quale, però, mostra limiti e contraddizioni, che sono oggetto di analisi da parte di studiosi di diverse discipline. Appunti di Storia economica 3 Il successivo paragrafo 2 va aggiunto alla fine del Capitolo settimo del libro 2. Stato, mercato e globalizzazione Con la crisi degli anni Settanta, lo stesso modello di produzione e di consumo fordista, o taylor-fordista, cominciò ad evolvere verso un nuovo modello, chiamato, per convenzione, postfordista. Il fordismo, come si è visto, era caratterizzato dalla produzione di massa in serie, mediante la catena di montaggio, assicurata dalla grande impresa, che produceva per un mercato sempre in crescita, grazie all’aumento del reddito delle famiglie. Il nuovo modello postfordista, viceversa, sperimentato da tempo dalla giapponese Toyota, si proponeva di abbandonare la produzione basata sulla catena di montaggio (mass production) per passare alla cosiddetta produzione snella (lean production), più adatta alle mutate esigenze del mercato e in grado di sfruttare le nuove tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni. Il nuovo modello si fonda, in particolare, su una maggiore flessibilità operativa (per esempio, riducendo le scorte, che possono essere facilmente fatte giungere «just in time», poco prima della loro utilizzazione), e su differenti modalità lavorative, che hanno portato alla graduale riduzione del ripetitivo lavoro alla catena di montaggio, sostituito con nuove forme, basate sul lavoro di gruppo e su una pluralità di mansioni affidate al dipendente. È diminuita, però, la sicurezza del posto di lavoro e i lavoratori sono costretti a cambiare spesso occupazione, sicché oggi è difficile che una persona possa restare per tutta la vita presso la stessa azienda e svolgere lo stesso tipo di lavoro. In questo modello l’impresa è più leggera, agile e snella, capace di adattarsi alle variabili esigenze della produzione e della domanda. Perciò, molte grandi imprese hanno attuato un graduale decentramento produttivo, affidando ad altre aziende determinate operazioni o lavorazioni (esternalizzazione) oppure hanno trasferito alcune fasi del processo produttivo o l’intero processo in paesi dove vi sono condizioni più favorevoli, in particolare bassi costi della manodopera e tassazione limitata (delocalizzazione). Con la svolta degli anni Settanta si modificò anche il ruolo dello Stato nell’economia. I liberisti avevano sempre sostenuto che il mercato fosse capace di risolvere autonomamente le crisi, e perciò ritenevano che lo Stato dovesse essere «minimale», ossia dovesse limitarsi alle sue funzioni essenziali, predisponendo un insieme di regole generali per tutelare la proprietà privata, assicurare il rispetto degli obblighi contrattuali, garantire la stabilità della moneta e favorire lo sviluppo di mercati liberi e aperti. A partire dalla depressione degli anni Trenta, le teorie liberiste non erano state giudicate idonee ad affrontare e risolvere i problemi delle complesse economie moderne e avevano perso vigore. John M. Keynes aveva fornito la giustificazione teorica all’intervento dello Stato e le sue teorie si affermarono dappertutto nel secondo dopoguerra. Secondo il suo pensiero, l’intervento statale era considerato l’unico modo per rimediare alle carenze del capitalismo e del mercato e assicurare il pieno impiego dei fattori produttivi. Perciò, i governi attuarono gradualmente politiche ispirate alle teorie dell’economista inglese. Esauritasi la fase espansiva del dopoguerra, i neoliberisti ripresero il sopravvento sui keynesiani e riproposero, sia pure sotto forme più sofisticate, le teorie sulla capacità dell’economia e del mercato di autoregolarsi. Negli anni Ottanta, le politiche economiche ispirate a queste teorie trovarono i loro più convinti sostenitori nel presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan (1981-89), e nel primo ministro britannico, Margaret Thatcher (1979-90), 4 Ennio De Simone tanto che si parlò di reaganismo (o reaganomics) o tatcherismo. In quegli anni, i governi erano preoccupati principalmente dell’inflazione e non della disoccupazione e, perciò, si affidarono alle idee dei monetaristi, che insistevano sulla necessità di una moneta solida, anche se ciò comportava il ricorso a politiche monetarie restrittive. I neoliberisti, inoltre, al contrario dei keynesiani che puntavano sul sostegno della domanda, proponevano una politica dal lato dell’offerta (supply-side), atta a garantire il funzionamento dei mercati. Secondo questa teoria, era necessario attuare una decisa deregolamentazione dei mercati (deregulation), rimuovendo norme e regolamenti che ne impedivano il libero funzionamento, come la fissazione di salari minimi o i controlli sulle operazioni finanziarie. Tale politica prevedeva anche forti sgravi fiscali (e quindi una riduzione della spesa pubblica), nella convinzione che, riducendo le imposte da pagare, specialmente ai più ricchi, si sarebbe consentito loro di spendere di più e sostenere i consumi privati. Ma ciò avrebbe comportato (come infatti ha comportato) un aumento delle disparità sociali, che i sostenitori della supply-side ritenevano temporanea, perché alla fine il benessere si sarebbe progressivamente propagato dai ricchi alle altre categorie. E, infine, se Keynes aveva visto l’intervento dello Stato come una conseguenza del fallimento del mercato, i neoliberisti sottolineavano il fallimento dello Stato, che con il suo intervento avrebbe impedito il libero funzionamento del mercato. Chiesero, perciò, il drastico ridimensionamento della sua ingerenza nell’attività economica e con essa anche la revisione dell’impalcatura del Welfare. Ronald Reagan sosteneva che lo Stato non era la soluzione dei problemi, ma era esso stesso il problema. Ma quando, negli anni 2008-09, è esplosa una nuova grave crisi, favorita dall’eccessiva libertà del mercato, in particolare di quello finanziario, il prestigio dei neoliberisti sembra essersi incrinato, e molti di coloro che fino a poco tempo prima avevano avversato l’ingerenza dello Stato nell’economia, hanno reclamato a gran voce il suo intervento, per chiedere massicce iniezioni di denaro a sostegno delle imprese e delle banche in difficoltà e a favore dei redditi delle famiglie per sostenere i consumi, nonché nuove e più efficaci regole per garantire un più corretto funzionamento dei mercati. D’altronde, nonostante le politiche ispirate dai neoliberisti, era stato possibile ridurre solo in parte la presenza dello Stato nell’economia. Se risultò abbastanza agevole liberalizzare i mercati e privatizzare parecchie banche e imprese, finite nelle mani dello Stato per i salvataggi degli anni Trenta o in seguito alle nazionalizzazioni del dopoguerra, risultò molto più difficile contenere i costi del Welfare. Ormai i cittadini ritenevano una conquista irrinunciabile le prestazioni fornite dallo Stato (assistenza sanitaria, sicurezza sociale, istruzione e così via) e non ne avrebbero accettato la riduzione, specialmente in un periodo di crisi. I governi, perciò, per conservare tali servizi, dovettero indebitarsi ulteriormente e il debito pubblico di molti Stati non fece che crescere. La ristrutturazione economica e le politiche neoliberiste adottate per combattere la crisi degli anni Settanta favorirono la globalizzazione dell’economia (dall’inglese global, che sta per mondiale). Con questo termine, che si è cominciato ad usare negli anni Ottanta, s’intende il fenomeno che ha portato alla formazione di un mercato mondiale dei fattori della produzione, dei prodotti, dei servizi e dei capitali. Ciò è stato reso possibile dal progresso tecnologico, in particolare nel campo dell’informazione e della comunicazione, che permette di effettuare transazioni con immediatezza, e in quello dei trasporti, che consente di trasferire merci a grandi distanze, a costi molto contenuti. La globalizzazione non è un fenomeno del tutto nuovo. Già durante la Belle époque, per esempio, si era formato un mercato mondiale di molti beni e servizi, oltre che dei capitali e della manodopera, ma sicuramente, ai nostri Appunti di Storia economica 5 giorni, essa ha assunto dimensioni eccezionali e, per giunta, non riguarda solo la sfera economica, ma pure altri ambiti, come la politica, la cultura e le istituzioni. La globalizzazione è stata senza dubbio agevolata dall’attività delle imprese multinazionali, trasformatisi in imprese transnazionali, nelle quali le unità che operano all’estero godono di una maggiore autonomia operativa. La conseguenza è stata un’enorme intensificazione degli scambi e degli investimenti internazionali, che hanno prodotto una maggiore interdipendenza delle economie dei vari paesi. Negli ultimi quindici o venti anni, circa due miliardi di persone sono entrati pienamente o parzialmente nei circuiti di mercato e, in futuro, le reti informatiche e le telecomunicazioni digitali sono destinate ad ampliare ulteriormente l’economia globale. La globalizzazione ha ricevuto consensi entusiastici e critiche feroci. I suoi fautori ritengono che essa sia un fenomeno ormai irreversibile, che può contribuire a ridurre la distanza fra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. I suoi avversari, invece, sostengono che essa, se non adeguatamente controllata, porterà a una nuova forma di sfruttamento dei paesi sottosviluppati, senza realizzare una riduzione della povertà mondiale. Non è facile trattare eventi così recenti, perché vi è il rischio di non riuscire a distinguere con chiarezza gli aspetti congiunturali da quelli strutturali. Sembra, tuttavia, che, verso la metà degli anni Novanta, una serie di elementi abbia concorso a imprimere un diverso andamento al ciclo economico. Le politiche neoliberiste avevano portato a una maggiore libertà di azione delle imprese e della finanza, a una ristrutturazione produttiva e a una riduzione dell’ingerenza dello Stato in economia, nonché alla globalizzazione dei mercati. Intanto, erano crollati i sistemi ad economia pianificata, l’Asia nel suo complesso iniziava a crescere a ritmo accelerato e le economie americana e britannica davano segni di particolare vitalità e dinamismo. Durante gli anni Novanta, la crescita economica degli Stati Uniti aveva attirato capitali da altri paesi, per la fiducia degli investitori nella stabilità del dollaro e nell’efficienza del sistema economico americano. Agli inizi del nuovo secolo, la Borsa americana conobbe una forte espansione (fra il 2002 e il 2004, i titoli delle principali società fecero registrare ben undici trimestri consecutivi di crescita superiore al 10 per cento), grazie al credito facile accordato dalle banche, che erano state autorizzate a svolgere ogni tipo di operazione. Un particolare rilievo avevano assunto gli investimenti in titoli speculativi (di solito trattati su mercati senza alcun controllo, paralleli a quello ufficiale), come i «derivati», ossia titoli il cui valore è legato a quello di altri titoli, o gli «hedge funds», fondi di investimento ad elevato rischio 1 . Anche le famiglie erano state sostenute nei loro consumi da prestiti facili, accordati mediante carte di credito di ogni tipo, o mediante i cosiddetti mutui subprime, concessi, in genere, per l’acquisto della casa, a soggetti non in grado di addossarsi impegni finanziari così onerosi. Siccome i mutui erano garantiti da un’ipoteca sulla proprietà acquistata, erano ritenuti sicuri dalle banche, anche perché il prezzo delle abitazioni (e quindi la garanzia) era in aumento per la forte domanda, sostenuta proprio dai mutui. D’altra parte, le banche provve- 1 I fondi comuni d’investimento sono organismi di investimento collettivo, che raccolgono quote di partecipazione da parte dei risparmiatori e le impiegano in titoli, provvedendo a dividere il guadagno fra i partecipanti, dedotte le spese di gestione. In tal modo, si consente anche a piccoli risparmiatori di investire fondi che altrimenti non sarebbero in grado di impiegare convenientemente. In genere, i fondi si distinguono tra fondi aperti, che prevedono il rimborso delle quote sottoscritte in qualsiasi momento, e fondi chiusi, dai quali si può recedere solo a determinate condizioni. Il grado di sicurezza degli investimenti dipende dal tipo di titoli acquistati. I profitti attesi sono elevati sui titoli ad alto rischio e bassi su quelli più sicuri. 6 Ennio De Simone devano quasi subito a rimettere sul mercato questi loro crediti, emettendo su di essi titoli derivati, venduti ai risparmiatori di tutto il mondo. Nella primavera del 2007, la domanda di case cominciò a diminuire, mentre molte famiglie non riuscirono più a pagare le rate del mutuo e persero la loro abitazione. Oltre che negli Stati Uniti, anche in altri paesi (Gran Bretagna, Irlanda, Spagna, ecc.) molte banche si erano immobilizzate con i mutui ipotecari e alcune di esse si trovarono in difficoltà per le insolvenze dei clienti. Nell’autunno del 2008, vi fu il crollo delle quotazioni di Borsa di tutto il mondo e il panico si diffuse fra i risparmiatori, specialmente fra coloro che si erano convinti a investire in titoli ad alto rischio. Inoltre, come era avvenuto nel ’29, la crisi si estese all’attività produttiva. Le banche in difficoltà ridussero i loro finanziamenti a imprenditori e consumatori e molti risparmiatori, per le perdite subite o attese, limitarono gli acquisti di beni. Le industrie, in particolare quelle automobilistiche, fecero fatica ad andare avanti e dovettero essere sostenute con incentivi statali alla «rottamazione» dei vecchi modelli di autovetture. Il commercio internazionale rallentò e il prezzo del petrolio, giunto a quasi 150 dollari al barile nei primi mesi del 2008 (anche per spinte speculative), precipitò intorno ai 40 dollari alla fine dell’anno, a testimonianza del calo della produzione industriale mondiale. Successivamente, il prezzo è risalito fino a oltre 70 dollari nell’estate del 2009. La crisi ha colpito, sia pure in misura diversa, tutte le economie del mondo. Lo Stato, richiamato in causa dovunque, è dovuto intervenire per salvare molte banche e imprese sull’orlo del fallimento, mentre altre sono state lasciate al loro destino. Questa volta, al contrario di quanto era avvenuto durante la depressione degli anni Trenta, i governi dei principali paesi del mondo hanno cercato di operare congiuntamente per individuare e adottare rimedi atti a combattere la crisi, anche perché, a causa della globalizzazione dei mercati, le economie dei diversi paesi sono molto più interdipendenti che in passato. Gli effetti più gravi riguardano, oltre che l’«economia di carta», ossia quella finanziaria, l’«economia reale», che ha fatto registrare il calo della produzione e del Pil in quasi tutti i paesi sviluppati e un rallentamento della crescita in quelli in via di sviluppo, con la conseguente perdita del lavoro, spesso già precario, per decine di milioni di persone. Capitolo ottavo LO SVILUPPO INEGUALE Questo nuovo capitolo sostituisce i seguenti paragrafi del Capitolo settimo del libro: paragrafi 2.4, 2.5 e 2.6, pp. 273-282 paragrafi 3.2, 3.3 e 3.4, pp. 287-295 1. IL MONDO SVILUPPATO 1.1. Le disuguaglianze fra le nazioni L’eccezionale sviluppo dell’economia mondiale degli ultimi sessanta anni ha prodotto un ulteriore forte divario fra paesi ricchi e paesi poveri, facendo aumentare le disuguaglianze già emerse nel corso degli ultimi due secoli. Secondo le stime di Maddison, il Pil pro capite degli Stati Uniti era, nel 1820, tre volte superiore a quello dell’Africa. Nel 1913, esso era otto volte maggiore e nel 2006 quasi diciannove volte. Se si prendono in considerazione le grandi aree geografiche del mondo (vedi tab. 8.1), si nota come oggi solo l’Europa occidentale raggiunga un Pil pro capite pari a poco più dei due terzi di quello degli Stati Uniti. L’ex Unione Sovietica, l’Europa orientale, l’Asia e l’America Latina producono un Pil che si colloca fra il 17 e il 25 per cento di quello americano, mentre l’Africa arriva appena a poco più del 5 per cento e la sua situazione, sempre in termini comparativi, è andata progressivamente peggiorando. Il paese africano più povero, la Repubblica democratica del Congo (ex Zaire), che conta circa 70 milioni di abitanti, fa registrare un Pil pro capite pari a un centoquarantaduesimo di quello degli Stati Uniti. Nell’ultimo mezzo secolo, il numero di persone che vive nei paesi poco sviluppati è, purtroppo, notevolmente aumentato. Tab. 8.1. – Livello del Pil pro capite delle diverse regioni del mondo raffrontato con quello degli Stati Uniti, per alcuni anni dal 1950 al 2006 Regioni Stati Uniti Europa occidentale Unione Sovietica Europa orientale Asia America Latina Africa 1950 1960 1970 1980 1990 2000 100 48 30 22 7 26 9 100 61 35 27 9 28 9 100 68 37 29 10 27 9 100 71 35 31 11 30 8 100 69 30 23 12 22 6 100 67 16 21 13 21 5 2006 100 68 22 25 17 21 5 Fonte: Dati tratti dal sito web di A. Maddison, all’indirizzo “www.ggdc.net/Maddison” (nostri calcoli). Nota: I dati del 2000 e del 2006 dell’Unione Sovietica sono riferiti ai paesi che ne facevano parte. 8 Ennio De Simone L’espressione «Terzo Mondo», che pure continua ad essere utilizzata, non descrive più in modo appropriato la situazione attuale. Negli ultimi tempi, in particolare dopo la fine della Guerra fredda, il mondo sembra potersi dividere più adeguatamente in tre diverse parti. In cima vi sono i paesi sviluppati, in mezzo la gran massa dei paesi in via di sviluppo, che stanno crescendo in maniera consistente, e in fondo i paesi arretrati, che fanno fatica a uscire dal sottosviluppo e non riescono a recuperare il ritardo 2 . Il primo e il terzo gruppo ospitano ciascuno intorno a un miliardo di persone, mentre il resto della popolazione mondiale, ossia circa il 70 per cento, vive nei paesi del secondo gruppo. Di recente, un economista inglese, Paul Collier, ha chiamato the bottom billion («l’ultimo miliardo»), coloro che vivono nei paesi più poveri, quasi soltanto africani, intrappolati nel sottosviluppo. Da qualche tempo, di fronte all’inadeguatezza del Pil di valutare e rappresentare il divario fra i diversi Stati del mondo, viene costruito un nuovo indice, detto Indice di sviluppo umano (Human development index, Hdi), messo a punto da un economista pakistano e pubblicato annualmente dalle Nazioni Unite a partire dai primi anni Novanta. Esso, che pure ha ricevuto parecchie critiche, tende a «misurare» non soltanto la ricchezza ma anche il benessere sociale e si basa su alcuni parametri che riguardano tre dimensioni fondamentali dello sviluppo umano: la durata della vita (speranza di vita alla nascita), il livello culturale (tasso di alfabetizzazione e accesso ai vari livelli di istruzione) e la quantità di ricchezza disponibile (Pil pro capite a parità di potere d’acquisto). In tal modo, si assegna a ciascun paese un valore variabile fra 0 e 1 e si costruisce una graduatoria. I primi cinque Stati di tale graduatoria (su 179) sono attualmente l’Islanda (0,972), la Norvegia (0,970), il Canada (0,967), l’Australia (0,965) e l’Irlanda (0,960), che complessivamente contano appena una sessantina di milioni di abitanti. Gli ultimi cinque Stati sono tutti africani: Mozambico (0,366), Liberia (0,364), Repubblica democratica del Congo (0,361), Repubblica centrafricana (0,352) e Sierra Leone (0,329), dove vivono oltre 90 milioni di persone. L’Italia (0,945) occupa il diciannovesimo posto e gli Stati Uniti (0,950) il quindicesimo. La Cina (0,762) e l’India (0,609) si trovano rispettivamente al novantaquattresimo e al centotrentaduesimo posto. 1.2. L’egemonia degli Stati Uniti Gli Stati Uniti uscirono rafforzati economicamente dalla seconda guerra mondiale. Durante il conflitto sfruttarono in pieno la loro capacità produttiva e incrementarono la produzione agricola e quella industriale per soddisfare la forte domanda bellica. Dopo la guerra, il «gap» tecnologico dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti risultò evidente. Come si è visto, la tecnologia americana, soprattutto i processi produttivi basati sulla catena di montaggio e sui prodotti standardizzati, fu esportata dovunque vi fossero le condizioni per poterla applicare. Si assistette allora, in Europa e altrove, a una sorta di «americanizzazione» a tutti i livelli e l’American way of life divenne l’esempio da imitare in tutti i campi (economia, arte, musica, stile di vita, ecc.), specialmente per le nuove generazioni. 2 Gli economisti distinguono soltanto fra paesi sviluppati (Psv) e paesi in via di sviluppo (Pvs), fissando la linea di demarcazione fra i due gruppi intorno a 10 mila dollari di reddito medio pro capite annuo. È ovvio che al loro interno vi sono situazioni profondamente diverse, in particolare fra i Pvs, di cui fa parte il gruppo di paesi arretrati ai quali si è fatto sopra riferimento. Perciò, la Banca mondiale ha individuato delle sottoclassi fra i Pvs (paesi a basso reddito, paesi a reddito medio-basso e paesi a reddito medio-alto). Appunti di Storia economica 9 Gli Stati Uniti erano definitivamente diventati la maggiore potenza politica, militare ed economica del pianeta e avevano preso coscienza del loro ruolo di leader del mondo capitalistico. Gli Americani si sentirono collettivamente responsabili di una grande missione, consistente nel combattere il comunismo mondiale e nell’affermare e diffondere i loro principi, basati sulla certezza della superiorità della democrazia, delle libertà individuali e del libero mercato, anche se la lotta al comunismo li portò, in più occasioni, ad appoggiare regimi autoritari e corrotti, che non rispettavano i diritti umani. Il dollaro assunse la funzione di moneta dei pagamenti internazionali e gli Stati Uniti goderono del particolare privilegio di adoperarlo nei pagamenti all’estero e di vedere una massa sempre più grande di dollari trattenuti fuori dei propri confini dagli altri paesi, che li tenevano come riserva per le loro emissioni monetarie o li utilizzavano per i pagamenti internazionali, in particolare per acquistare il petrolio. Il Pil pro capite americano, che nel 1950 aveva superato quello di tutti i maggiori paesi industrializzati, crebbe al tasso del 2,5 per cento all’anno fino al 1973 (vedi nuova tab. 5.1). La crescita degli Stati Uniti riguardò tutti i settori, dall’agricoltura all’industria, dal commercio estero a quello interno, dalle banche al turismo. In agricoltura, però, nonostante l’incremento della produttività e della produzione, il reddito delle famiglie contadine rimase mediamente pari ai due terzi di quello delle altre famiglie americane e, in alcuni anni, scese fino alla metà. I farmers, oltre a godere di un grande prestigio in una società che serbava ancora viva la memoria del loro ruolo nella colonizzazione dell’Ovest, avevano anche un notevole peso elettorale, specialmente nell’elezione del Senato, in cui gli Stati agricoli dell’Ovest dispongono di due senatori come qualsiasi altro Stato dell’Unione. Perciò, il governo federale intervenne per sostenere i loro redditi, ma non riuscì a evitare un’eccessiva produzione di grano, per via della crescita dei rendimenti, che si cercò di vendere all’estero quando il mercato internazionale era in grado di assorbirlo. La conseguenza fu l’espulsione dal mercato di molte piccole aziende e la formazione di aziende più grandi e produttive. Le imprese continuarono a ingrandirsi in tutti i settori. Le corporations divennero più numerose e assunsero caratteristiche diverse da quelle dei periodi precedenti, quando erano gestite in modo centralizzato, spesso dallo stesso fondatore. Si affermò l’impresa multidivisionale, organizzata in divisioni o settori, ognuno con una sua autonomia funzionale e gestionale. Inoltre, si realizzò la separazione fra la proprietà, sovente dispersa fra un gran numero di azionisti e perciò incapace di esercitare una reale funzione di controllo, e il management aziendale, che acquistava sempre maggiore potere. Le grandi imprese attirarono l’attenzione degli investitori istituzionali, come compagnie di assicurazione, fondi comuni di investimento e fondi pensione 3 , che negli anni Ottanta arrivarono a possedere più della metà delle azioni quotate in Borsa, dove il volume delle transazioni aumentò di oltre cinquanta volte in trent’anni. Nacque addirittura un mercato delle aziende, sul quale aziende o parti di aziende erano acquistate, vendute, frazionate o accorpate. Dagli Stati Uniti, l’impresa multifunzionale si diffuse in Europa, dove contribuì a modificare l’organizzazione delle imprese familiari e dell’impresa pubblica. Le corporations americane, oltre che nei tradizionali rami di attività si svilupparono in particolare nell’elettronica e nell’informatica (Ibm), nella chi3 Gli investitori istituzionali sono società o enti, obbligati, per legge o per il loro statuto, a impiegare i fondi disponibili in titoli o in immobili. I fondi pensione sono una forma di previdenza volontaria a favore dei lavoratori di un’impresa o di una categoria professionale, che in genere si aggiunge al sistema pensionistico pubblico. Gli iscritti al fondo versano contributi in denaro per ottenere, all’epoca prestabilita, una pensione o un capitale. I contributi raccolti sono investiti in vario modo per accrescere il fondo con il quale erogare le prestazioni a favore degli iscritti. 10 Ennio De Simone mica e nei prodotti petroliferi. Molte di esse diedero vita, a partire dagli anni Sessanta, a un gran numero di conglomerate, verso le quali si era sempre rivolto l’interesse del capitalismo americano, pronto a cogliere le opportunità offerte dalla diversificazione produttiva. Gli Stati Uniti riuscirono a realizzare buoni risultati anche dopo il 1973. Non vi fu, quindi, il forte rallentamento registrato in Europa e in Giappone (vedi nuove tabb. 5.1 e 7.2). Gli anni Settanta, tuttavia, conobbero una fase di stagnazione e di aumento dell’inflazione (la cosiddetta stagflazione), che portò alla vittoria di Ronald Reagan alle elezioni del 1980 e all’adozione della politica economica che da quel presidente prese il nome (reaganomics). La lotta all’inflazione fu attuata con provvedimenti monetari e creditizi (alti tassi d’interesse, restrizione del credito, ecc.) volti a tenere sotto controllo la massa di moneta in circolazione. Il rilancio della crescita si fondò sulla riduzione dell’imposizione fiscale, sul taglio della spesa assistenziale (peraltro gli Stati Uniti non hanno un sistema sanitario pubblico che assiste tutti i cittadini come in Europa), su un forte aumento della spesa militare e su una decisa liberalizzazione dei mercati finanziari, industriali e del lavoro. Si cercò di incentivare la domanda con i tagli fiscali, specialmente sui redditi medio-alti, e si sostenne l’offerta mediante significative misure di deregolamentazione per dare maggiore libertà alle imprese. Ciò fu possibile anche perché gli Stati Uniti, a differenza dell’Europa, dove i lavoratori erano maggiormente tutelati, avevano un mercato del lavoro più flessibile e meno regolamentato. Inoltre, la loro economia è molto più integrata di quella europea, non essendovi le divergenze di interessi fra i singoli Stati, che invece caratterizzano i rapporti fra i paesi europei. Le disuguaglianze sociali aumentarono, per via dei tagli dei fondi per l’assistenza ai disoccupati e agli indigenti, ritenuta una spesa improduttiva e un fattore di inflazione. Le elevate spese per la difesa, però, non consentirono una riduzione del deficit del bilancio federale, il quale, anzi, aumentò, così come crebbe notevolmente il debito pubblico. Le spese militari erano ritenute necessarie per contrastare l’Unione Sovietica, definita da Reagan «impero del male», e servirono a costruire costosi e sofisticati sistemi di difesa e di offesa. Tuttavia, la crescita economica fu vigorosa, sostenuta da un forte calo dei prezzi delle materie prime e dalle spese militari, mentre la disoccupazione diminuì gradualmente. Intanto, la terziarizzazione dell’economia provocava una riduzione degli occupati nel settore industriale a vantaggio di quelli che trovavano lavoro (anche precario) nel settore dei servizi. Nonostante qualche difficoltà, come la crisi borsistica dell’ottobre 1987, quando Wall Street segnò, in pochi giorni, un calo delle quotazioni del 25 per cento, l’economia americana continuò a crescere, allargando il divario con le economie delle altre aree del mondo (vedi tab. 8.1). Nella seconda metà degli anni Novanta, conobbe un lungo ciclo espansivo, con tassi di crescita annui superiori al 4 per cento, che fecero scomparire il disavanzo del bilancio statale e ridurre il debito pubblico. Si procedette anche a una ristrutturazione delle imprese, che segnò il declino del fordismo nel paese stesso che lo aveva inventato. Le imprese divennero più piccole e snelle e spesso delocalizzarono alcuni processi produttivi nei paesi che offrivano condizioni migliori, in particolare in materia di costo della manodopera. Gli Stati Uniti riuscirono a profittare meglio di altri paesi della globalizzazione del mercato dei capitali internazionali. Dal 1989, dopo essere stati a lungo creditori netti verso il resto del mondo, divennero debitori, perché importavano capitali, indebitandosi verso l’estero. Ciò significava che, come era avvenuto prima della Grande guerra, gli altri paesi sostennero il lungo periodo di espansione americana e finanziarono il deficit della loro bilancia dei pagamenti (si ricordi che i finanziamenti provenienti dall’estero costituiscono una voce dell’attivo della bilancia dei pagamenti). D’altra parte gli Stati Uniti contribuirono a sostenere la domanda mondiale, Appunti di Storia economica 11 con un forte incremento delle loro importazioni, stimolate dal grande mercato interno e favorite dalle riduzioni tariffarie promosse da Gatt e Wto, oltre che dalla Nafta. La cosiddetta new economy (tecnologie dell’informazione e attività connesse) ebbe una funzione propulsiva dell’economia, anche se diede luogo a qualche bolla speculativa. La fase espansiva dell’economia continuò anche nei primi anni del nuovo secolo, nonostante una breve crisi seguita all’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York, nel settembre del 2001. La crescita fu sostenuta, ancor più di prima, da una forte espansione del credito, concesso con eccessiva facilità. La finanza si sviluppò, grazie all’introduzione di molti tipi di titoli, anche di quelli più rischiosi e privi di consistenza reale, e le quotazioni di Borsa aumentarono notevolmente, attirando nuovi capitali da ogni parte del mondo. Nel corso del 2007, come si visto, i nodi vennero al pettine e molti mutui (cosiddetti «subprime») non furono rimborsati. Quell’anno furono messe in vendita all’asta per insolvenza 1,3 milioni di proprietà immobiliari, quasi l’80 per cento in più dell’anno precedente. La crisi è esplosa nel biennio 2008-09 e si è estesa dal settore finanziario a quello dell’economia reale, con un crollo della domanda e della produzione. I consumatori, che sostenevano la domanda grazie all’indebitamento, si sono trovati privi di mezzi, anche per la riduzione dell’occupazione nel comparto delle costruzioni e dei servizi finanziari. Ancora una volta, come nel ’29, gli Stati Uniti e il mondo hanno dovuto affrontare una crisi di sovrapproduzione, manifestatasi con la caduta dei consumi e con l’impossibilità di assorbire la gran quantità di manufatti che l’apparato industriale è in grado di produrre. L’industria automobilistica, in particolare, ha visto crollare le vendite di un terzo nel corso del 2008 e la produzione di molti beni è rallentata, con il triste corollario del forte aumento della disoccupazione. Il governo federale è dovuto intervenire per salvare banche e imprese in difficoltà, con un piano di aiuti di quasi 800 miliardi di dollari e con altri provvedimenti, che sembrano aver sortito i primi effetti nella seconda metà del 2009. 1.3. Dal Mercato comune all’Unione Europea Nel secondo dopoguerra, la generazione che aveva vissuto due conflitti mondiali, rappresentata da uomini come i francesi Robert Schuman e Jean Monnet, gli italiani Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli, il tedesco Conrad Adenauer e il belga Paul-Henri Spaak, avviò un processo di integrazione economica che successivamente ha portato alla nascita dell’Unione Europea. I paesi che aderirono ai vari organismi via via istituiti furono costretti a cedere una parte della loro sovranità, in uno o più ambiti, a organismi sopranazionali, ma spesso lo fecero con riluttanza. Finora ogni tentativo di costruire un’unione politica è risultata vana e ciò ha contribuito a far diminuire il peso dell’Europa, che sulla scena internazionale non è in grado di presentarsi come un’unica entità politica ed economica. All’inizio, gli sforzi principali furono concentrati sull’ampliamento dei mercati, ritenuti troppo piccoli e non in grado di garantire una conveniente collocazione dei prodotti di massa. Si reputava che solo mercati più ampi e imprese di maggiori dimensioni potessero assicurare economie di scala e un aumento della produttività. L’Oece, sorta per accogliere e convogliare verso gli Stati Uniti le richieste di intervento del Piano Marshall, fu una palestra di cooperazione economica, perché consentì di compilare statistiche a livello europeo, di prevedere una progressiva liberalizzazione degli scambi e persino di abbozzare un piano quadriennale europeo. Ma le rivalità fra i paesi aderenti non consentirono all’organizzazione di ottenere 12 Ennio De Simone buoni risultati. Perciò, il primo passo effettivo verso l’integrazione europea fu compiuto, a cominciare dal 1948, da tre piccoli paesi, il Belgio, i Paesi Bassi e il Lussemburgo, i quali diedero vita a un’unione doganale, il Benelux, che decise la libera circolazione delle merci al suo interno e introdusse un’unica barriera doganale esterna. Qualche anno più tardi, nel 1951, su iniziativa del ministro degli Esteri francese Robert Schuman, fu fondata, con il trattato di Parigi, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), durata fino al 2002, alla quale parteciparono la Francia, la Germania occidentale, l’Italia e i tre paesi del Benelux. La Ceca era un’unione doganale per il minerale ferroso, il carbone, il coke e l’acciaio ed esercitava il controllo sulla produzione e sulle vendite di quei beni. Per la sua gestione furono istituiti diversi organismi: un’Alta autorità con poteri esecutivi, un Consiglio dei ministri composto, di volta in volta, dai ministri dei paesi aderenti competenti nella materia trattata, un’Assemblea generale con poteri consultivi e una Corte di giustizia per dirimere le controversie. La Comunità ebbe successo e la produzione di acciaio aumentò da 34 a 56 milioni di tonnellate fra il 1950 e il 1958, quando gli Stati Uniti ne producevano 77 milioni e la Gran Bretagna 20 milioni. Ma il passo più importante fu compiuto con i trattati di Roma del 1957, sempre fra i sei paesi che avevano dato vita alla Ceca, i quali istituirono la Comunità economica europea (Cee) – o Mercato comune europeo (Mec) – e la Comunità europea per l’energia atomica (Ceea o Euratom), entrate in vigore all’inizio del 1958, con scopi molto più ambiziosi. L’Euratom si proponeva di promuovere lo sviluppo delle ricerche e la diffusione delle conoscenze in materia nucleare, nonché di provvedere all’approvvigionamento della materia prima necessaria. Ben più importante fu il Mercato comune, che si prefiggeva la libera circolazione delle merci, dei lavoratori, dei capitali e dei servizi, da realizzare entro dodici anni. Si dovevano abolire i dazi doganali e le restrizioni quantitative agli scambi, bisognava fissare una tariffa doganale comune, garantire la libera concorrenza e praticare politiche comuni nel campo commerciale (verso i paesi terzi) e in quelli agricolo, dei trasporti e sociale. Gli organismi delle due Comunità istituite a Roma erano simili a quelli della Ceca e perciò vennero successivamente fusi, sicché le tre Comunità ebbero gli stessi organi di governo. I risultati furono superiori alle attese ed entro il 1968, con anticipo sui tempi previsti, i dazi tra gli Stati membri furono completamente eliminati. In seguito, l’Assemblea generale fu trasformata in Parlamento europeo, i cui membri, in un primo tempo, furono eletti dai Parlamenti nazionali e dal 1979 dai cittadini degli Stati aderenti a suffragio universale. La Gran Bretagna, pure invitata a entrare nel nuovo organismo, non vi aderì, perché non voleva rinunziare a parte della propria sovranità e ai suoi legami particolari con i paesi del Commonwealth. Tuttavia non era contraria a semplici aree di libero scambio e, perciò, promosse, assieme ai paesi scandinavi, alla Svizzera, all’Austria e al Portogallo, l’Associazione europea di libero scambio (Efta, European Free Trade Association), che entrò in funzione nel 1960. Ma già qualche anno dopo, la Gran Bretagna chiese di essere ammessa al Mercato comune. L’opposizione della Francia ne ritardò l’ingresso, che avvenne solo nel 1973, assieme all’Irlanda e alla Danimarca. Negli anni Ottanta aderirono alla Comunità europea anche la Grecia, la Spagna e il Portogallo. La crescita economica dei sei paesi della Comunità durante l’età dell’oro fu veramente imponente. Tutti gli indicatori economici mostrano un andamento che ha del «miracoloso» e il Pil non fece che aumentare a tassi mai raggiunti né prima né successivamente. Per fare un solo esempio, basti considerare come, fatta uguale a 100 la produzione industriale del 1938, essa fosse giunta, già nel 1958, a 195 nella Germania occidentale, a 188 in Francia e a ben Appunti di Storia economica 13 232 in Italia. Anche l’agricoltura conobbe una forte espansione ed entro il 1960 rese la Comunità autosufficiente in molti prodotti (latte e suoi derivati, carne suina e ortaggi) e quasi autosufficiente in altri (grano, zucchero e pollame). Il commercio estero dei paesi della Cee, per conseguenza, aumentò di ben 2,4 volte fra il 1953 e il 1962, quando essi controllavano il 24 per cento del commercio mondiale. La Comunità europea si dotò di una propria politica agricola comunitaria (Pac), la cui attuazione non fu facile per le divergenze di interessi fra i paesi dell’Europa settentrionale, produttori di cereali, di latte e dei suoi derivati, e quelli dell’Europa meridionale, che producevano ortaggi, vino e olio. La Pac si proponeva di sostenere i redditi degli agricoltori e di proteggere la produzione dalla concorrenza estera. Perciò, i prezzi furono tenuti alti, a scapito dei consumatori, e si realizzarono delle eccedenze di prodotti, che dovettero essere ritirate e distrutte. Con i paesi del Terzo Mondo, in particolare con gli ex possedimenti coloniali, la Comunità europea stipulò diverse convenzioni, a partire da quella di Yaoundé, nel Camerun (1963), che prevedeva forme di cooperazione commerciale, tecnica e finanziaria con 18 paesi africani, in gran parte ex colonie francesi e belghe. In seguito, il numero dei paesi che goderono di rapporti preferenziali con la Comunità europea, aumentarono fino a 65 (1984), anche per l’estensione di tali vantaggi alle ex colonie britanniche del Commonwealth. Le crisi petrolifere degli anni Settanta e il crollo del sistema dei cambi fissi colpirono in modo particolare i paesi dell’Europa occidentale. Il Pil pro capite aumentò, fra il 1973 e il 2003, dell’1,9 per cento all’anno, vale a dire meno della metà della crescita registrata nel periodo precedente (vedi nuova tab. 7.2) e la produttività del lavoro cominciò a diminuire. Nel frattempo rallentava la crescita demografica e il vecchio continente fu interessato da un imponente flusso di immigrazione. I principali problemi dell’economia europea, però, erano la disoccupazione e l’inflazione. La disoccupazione raggiunse livelli altissimi che, fra il 1994 e il 1998, oscillarono mediamente intorno all’11 per cento, mentre durante l’età dell’oro erano stati inferiori al 3 per cento. Una disoccupazione così elevata riuscì ad essere sopportata solo grazie al sistema di sicurezza sociale (pensioni, indennità di disoccupazione, assegni familiari, assicurazione obbligatoria contro infortuni e malattia, assistenza medica per tutti e così via). La necessità di combattere l’inflazione, che in qualche paese (Italia e Spagna) superò il 16 per cento medio annuo (1974-83), indusse i governi e le forze economiche a tralasciare un’efficace politica di lotta alla disoccupazione per puntare sulla stabilità dei prezzi. Essendo saltato anche il sistema dei cambi fissi, si temeva che l’inflazione si potesse trasformare in iperinflazione e si adottarono politiche restrittive del credito, che non favorivano gli investimenti e quindi la creazione di nuovi posti di lavoro. Le politiche deflazionistiche, comunque, ebbero successo e l’inflazione, a partire dalla metà degli anni Ottanta cominciò a decrescere, per portarsi poco sopra il due per cento nel periodo 1994-98 e rimanere a quei livelli anche successivamente. La necessità di combattere l’inflazione era dovuta anche a un obiettivo che i paesi europei volevano perseguire: realizzare l’unione monetaria. Una proposta in tal senso era già stata avanzata nel 1970, ma era stata accantonata in seguito alla fine del sistema di Bretton Woods. Se ne ricominciò a parlare molto tempo dopo, nel 1989. Nel frattempo, i paesi dell’Europa occidentale tentarono di limitare l’oscillazione dei cambi delle loro monete mediante appositi accordi. Quello più importante riguardò la costituzione del Sistema monetario europeo (Sme), entrato in vigore nel 1979, che prevedeva la fissazione di una parità fra le monete aderenti e la possibilità di oscillazioni del 2,25 per cento in più o in meno (la lira italiana, più debole, fu autorizzata a fluttuare del 6 per cento, concessione che durò fino al 14 Ennio De Simone 1990). Le parità furono calcolate in una nuova unità di conto, l’Ecu (European Currency Unit), composta di un «paniere» di monete europee. Negli anni successivi, però, alcune monete, come il franco francese e la lira italiana, furono svalutate, mentre il marco fu rivalutato. Lo Sme conseguì modesti successi fino al 1992, quando entrò in crisi. L’Italia e il Regno Unito ne uscirono, lasciando fluttuare liberamente le loro monete e l’anno successivo la banda di oscillazione fu portata al 15 per cento, decisione che significava il sostanziale fallimento del sistema europeo dei cambi fissi. Nel 1992, intanto, veniva stipulato il Trattato di Maastricht (Olanda), con il quale la Comunità Economica Europea si sarebbe trasformata in Unione Europea, con lo scopo di perseguire l’unione politica, economica e monetaria. Fu decisa l’introduzione di una moneta unica, l’euro, in sostituzione di quelle dei singoli Stati e vennero fissati rigidi criteri di convergenza ai quali i paesi che volevano adottare la nuova moneta si dovevano attenere. Questi criteri imponevano, in sostanza, di frenare l’inflazione e di mettere ordine nei conti dello Stato, riducendo il deficit e l’indebitamento pubblico. I paesi che non erano in regola, come l’Italia, dovettero fare grossi sacrifici per raggiungere tali obiettivi. L’euro fu introdotto nel 1999 come moneta di conto e nel gennaio del 2002 come moneta effettiva, usata da 300 milioni di Europei, con la speranza di poter fare concorrenza al dollaro come moneta internazionale. Esso fu adottato da dodici paesi, con l’importante e significativa eccezione della Gran Bretagna, che continuò a utilizzare la sterlina, non avendo aderito alla moneta unica. La sua emissione è stata affidata alla Banca Centrale Europea (Bce), che ha anche il compito di definire e attuare la politica monetaria nell’area dell’euro e di detenere e di gestire le riserve degli Stati membri. Il Consiglio direttivo della Bce è composto dai governatori delle banche centrali degli Stati che hanno aderito all’euro, le quali hanno perso la sovranità che avevano sulle loro monete. In seguito, l’Unione si è ulteriormente allargata fino a comprendere 27 Stati, che contano circa 500 milioni di abitanti, inclusi alcuni paesi dell’Europa orientale (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Repubblica slovacca, Slovenia, Bulgaria e Romania) o appartenenti all’ex Unione Sovietica (Estonia, Lettonia e Lituania). Finora (2009) solo sedici paesi hanno adottato l’euro (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Spagna, Portogallo, Irlanda, Austria, Grecia, Finlandia, Slovacchia, Slovenia, Malta e Cipro). 1.4. I principali paesi europei Nel secondo dopoguerra, i paesi più grandi dell’Europa occidentale – Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia – ebbero destini comuni, segnati dalla costruzione dell’Unione Europea, ma ognuno di essi seguì un proprio percorso per realizzare il grande sviluppo della seconda metà del ventesimo secolo. La Gran Bretagna, nonostante fosse uscita vincitrice dal secondo conflitto mondiale, si trovò in gravi difficoltà e dovette prendere atto che ormai la leadership economica (e politica) mondiale era definitivamente passata agli Stati Uniti. Durante la guerra aveva accumulato un pesante debito estero e fu costretta a chiedere un prestito di ben cinque miliardi di dollari agli Stati Uniti e al Canada per poter pagare le importazioni di derrate e di materie prime. Inoltre, fu particolarmente provata dal rigido inverno del 194647, che coprì le isole britanniche di una coltre di ghiaccio e paralizzò l’economia per diverse settimane, durante le quali, oltre al pane, dovette essere razionata anche la corrente elettrica. Il nuovo governo laburista mise mano, nell’immediato dopoguerra, a una serie di nazionalizzazioni (Banca d’Inghilterra, telecomunicazioni, aviazione civile, carbone, elettricità, tra- Appunti di Storia economica 15 sporti, gas, siderurgia), che, però, non mutarono i caratteri dell’economia di mercato, in quanto l’80 per cento dell’industria rimase nelle mani dei privati e le imprese nazionalizzate, più che diventare il settore trainante dell’economa, si trovarono a rimorchio di quelle private. Di grande importanza furono i provvedimenti tesi a realizzare il Welfare State, così come proposto da Lord Beveridge. Fu istituito il Servizio sanitario nazionale, che doveva garantire la completa assistenza medica a tutti i residenti nel Regno Unito, si varò un vasto programma di edilizia pubblica per ricostruire gli immobili distrutti dai bombardamenti, si introdussero diverse forme di assistenza ai lavoratori e ai cittadini e venne migliorato il sistema dell’istruzione. Superati i difficili momenti dell’immediato dopoguerra, l’economia riprese a crescere e i cittadini britannici poterono entrare nell’era dei consumi di massa qualche anno prima del resto dell’Europa. Ma si trattò di una crescita lenta. Dalla fine del conflitto all’inizio del Duemila, difatti, il Pil pro capite del Regno Unito aumentò a un ritmo medio di circa il 2 per cento all’anno. Sembra – come ha scritto uno storico – che questa percentuale «fosse stata elargita all’economia britannica per grazia divina», quasi che, effettuato lo sforzo di trainare la prima rivoluzione industriale, la Gran Bretagna avesse acquisito il diritto a un tasso di crescita modesto, ma costante, del quale si deve accontentare (vedi nuova tab. 5.1). Gli Inglesi non prestarono la dovuta attenzione alla modernizzazione dell’economia e trascurarono campi come la «ricerca e sviluppo» 4 , l’incremento della produttività e l’innovazione tecnologica, mentre la bilancia commerciale continuava a essere passiva, perché si importava più di quanto si esportasse. La crisi petrolifera fu particolarmente dura e coincise con un lungo sciopero dei minatori che, nel 1974, bloccò l’economia, chiaro sintomo di un malessere sociale abbastanza diffuso. Alcune crisi cicliche colpirono in modo particolare la Gran Bretagna e, in certi anni (197475, 1980-81, 1991), il Pil invece di aumentare fece registrare una diminuzione, anche se non molto grave. Negli anni Ottanta, la politica neoliberista di Margaret Thatcher portò alla privatizzazione di molte industrie statali (telecomunicazioni, gas, ecc.), alla riduzione della spesa pubblica, che fece peggiorare la qualità dei servizi (sanità, istruzione, ecc.) e a un processo di ristrutturazione industriale, che comportò la chiusura delle fabbriche inefficienti e un aumento della disoccupazione. Negli anni Ottanta e Novanta si svilupparono nuovi settori di avanguardia (in particolare l’elettronico) a scapito soprattutto dell’industria pesante e del tessile. Inoltre, la Gran Bretagna iniziò a sfruttare, dal 1975, assieme alla Norvegia, i ricchi giacimenti petroliferi scoperti nel Mare del Nord, che hanno portato l’attuale produzione complessiva dei due paesi al 5 per cento di quella mondiale e hanno consentito al Regno Unito di coprire la maggior parte del suo fabbisogno energetico. Negli ultimi anni, l’economia ha conosciuto una fase di crescita accelerata. Il Pil pro capite, a partire dal 1993, è aumentato in media del 2,6 per cento all’anno (superando la soglia del fatidico 2 per cento), anche grazie a una ritrovata competitività dei prodotti inglesi. La Gran Bretagna ha potuto recuperare, così, il ritardo precedentemente accumulato nei confronti degli altri paesi dell’Unione Europea (vedi nuova tab. 7.1). La Francia uscì dalla guerra con gravi distruzioni materiali sull’intero territorio nazionale. Essa presentava alcune debolezze sostanziali: la popolazione era rimasta praticamente invariata nei cinquanta anni precedenti (e perciò era invecchiata), l’economia era chiusa verso 4 L’espressione ricerca e sviluppo (in sigla R&S) indica le attività mediante le quali un’impresa studia e sperimenta la fattibilità tecnica di nuovi prodotti (ricerca) e traduce queste conoscenze in una forma standardizzata, che ne consenta la realizzazione industriale (sviluppo). 16 Ennio De Simone l’esterno e riusciva a sostenersi solo con misure protezionistiche e grazie ai rapporti commerciali con le sue colonie e, infine, lo Stato, dopo la lunga occupazione nazista, non aveva né gli strumenti né la volontà di impegnarsi in una vera politica economica. Il paese, inoltre, era ancora troppo legato all’agricoltura, con un numero di addetti particolarmente elevato. All’indomani della liberazione, però, la Francia fu capace di uno slancio nazionale, al quale parteciparono tutte le parti politiche e l’intera popolazione, che le consentì di riprendersi rapidamente (in cinque anni il Pil pro capite raddoppiò) e di entrare con determinazione nei «trenta gloriosi», come i Francesi chiamano gli anni della golden age, che per loro iniziò con anticipo sugli altri paesi europei. La popolazione, nel rinnovato clima di fiducia, riuscì a invertire la tendenza negativa che durava da troppo tempo e riprese a crescere a ritmi sostenuti. Dalla fine della guerra a oggi, essa è aumentata di oltre il 60 per cento, mentre quelle del Regno Unito, della Germania e dell’Italia sono cresciute di circa il 25 per cento. La ricostruzione fu realizzata a tempo di record, anche perché la Francia aveva accusato una caduta delle attività produttive negli anni dell’occupazione nazista (1940-44), sicché dopo la Liberazione poté subito iniziare la fase di rilancio in tutti i settori. Nel 1949, il paese era tornato ai livelli del 1939, che era stato l’anno migliore del periodo compreso fra le due guerre mondiali. L’obiettivo principale fu la modernizzazione sotto la guida dello Stato. Pur rimanendo legata all’economia di mercato, la Francia s’indirizzò, come altri paesi dell’Europa continentale, verso una forma di economia mista, con la creazione di un ampio settore pubblico accanto a quello privato. Il primo passo fu la nazionalizzazione di diverse imprese, eseguita immediatamente fra il 1944 e il 1946, che riguardò alcuni settori strategici: l’energia (carbone, elettricità e gas), i trasporti (aerei e marittimi) e il credito (le grandi banche). Grazie all’impegno di Jean Monnet, fu introdotta, già sul finire del 1946, la pianificazione economica, mediante l’approvazione di piani quadriennali, volti dapprima alla ricostruzione e poi alla crescita economica. I risultati furono notevoli, sia nella produzione industriale sia in quella agricola. L’agricoltura si modernizzò, fece largo uso di macchine e aumentò la sua produttività, mentre un consistente esodo rurale riforniva di manodopera le fabbriche. Lo Stato promosse anche l’apertura dell’economia verso l’esterno. Furono abbandonate le pratiche protezionistiche e le strategie autarchiche e la Francia, con Robert Schuman, fu tra i più convinti sostenitori della costruzione del Mercato comune europeo. La crisi petrolifera indusse la Francia, più di qualsiasi altro paese europeo, a puntare sulle centrali nucleari per la produzione di energia elettrica e oggi, in questo campo, è seconda solo agli Stati Uniti. Dopo la crisi, la politica economica francese fu caratterizzata da un alternarsi di privatizzazioni e nazionalizzazioni. Dapprima venne seguita una politica economica liberista, tesa al rilancio della competitività delle imprese, attraverso l’innovazione e la privatizzazione di alcune industrie di Stato. Negli anni Ottanta, il governo socialista, in controtendenza con quanto avveniva in altri paesi europei, effettuò ulteriori nazionalizzazioni (grandi banche e gruppi industriali chimici, siderurgici, dell’informatica e degli armamenti) e aumentò i salari e la spesa pubblica per rilanciare i consumi interni. Ma poi dovette rivedere il suo programma e fu costretto a tagliare le spese, congelare i salari e svalutare il franco. Negli anni Novanta furono di nuovo riprivatizzate alcune imprese precedentemente nazionalizzate. Oggi la Francia ha un’economia prospera, fondata principalmente sui servizi, possiede la più poderosa agricoltura dell’Unione Europea (con poco più del 3 per cento di addetti), un’industria di altissimo livello ed è il primo paese al mondo per arrivo di turisti stranieri. Lo Stato conserva una forte presenza e controlla circa un terzo delle attività industriali e la mag- Appunti di Storia economica 17 gior parte di quelle finanziarie. Può contare, inoltre, su una classe di pubblici funzionari preparati, appositamente formati in prestigiose scuole della funzione pubblica. La Germania, prostrata materialmente e moralmente dalla guerra, rimase priva di un proprio governo fino al 1949. Gli occupanti (specialmente i Sovietici) cominciarono subito a smantellare l’industria degli armamenti e altre industrie pesanti, parte delle quali acquisirono in conto delle riparazioni che pensavano di imporre al nemico sconfitto. Lo scopo degli Alleati era di impedire alla Germania di ricostruire un apparato produttivo e una concentrazione del potere economico che le avevano consentito di sostenere il peso di due guerre mondiali a distanza di poco tempo. Perciò, smembrarono le grandi imprese e le grandi banche e fecero sorgere al loro posto diverse società di più modeste dimensioni. Nel 1948, senza consultare i Sovietici, gli Americani introdussero una nuova moneta, il Deutsche Mark, in sostituzione del vecchio Reichsmark, ormai completamente privo di valore. Questo provvedimento acuì i contrasti fra le potenze occupanti e portò alla definitiva divisione della Germania in due Stati separati. La Germania occidentale (Repubblica Federale Tedesca), divisa in Länder (Stati federali) con ampia autonomia, dove vivevano 50 milioni di persone, era la parte più industrializzata e meglio dotata di risorse naturali. Il clima della Guerra fredda e la divisone in due del paese indussero gli Americani a rivedere la loro politica verso la nazione sconfitta, che vollero trasformare in un alleato in funzione anticomunista. Perciò ne favorirono la ricostruzione e lo sviluppo, inserendola nel programma di aiuti del Piano Marshall, e qualche tempo dopo, fu possibile anche la ricostituzione dei grandi gruppi bancari e imprenditoriali smembrati. Da allora ebbe inizio un lungo periodo di crescita, che va sotto il nome di miracolo economico tedesco, con un incremento medio annuo del Pil pro capite del 5 per cento fino al 1973 (vedi nuova tab. 5.1). Nel 1954, i Tedeschi avevano recuperato il livello del Pil pro capite dell’anteguerra (calcolato a valori costanti) e impiegarono appena quindici anni per raddoppiarlo. Diverse sono le ragioni di questo rapido sviluppo. Furono innanzitutto eliminate le bardature protezionistiche e autarchiche del periodo nazista e fu liberalizzata l’economia. La Germania s’ispirò all’economia sociale di mercato, una forma di economia mista che, in qualche misura, ha influenzato anche altri paesi dell’Europa continentale. Essa si basa sul libero mercato, ma prevede un’incisiva azione pubblica per perseguire la giustizia sociale e la solidarietà fra le diverse componenti della collettività, con particolare attenzione alle categorie più deboli. Questo modello fu completato con la cogestione, vale a dire con la partecipazione dei lavoratori alla conduzione delle aziende, introdotta già alla fine della guerra, ma generalizzata negli anni Settanta. La crescita dell’economia tedesca si basò principalmente sulle esportazioni, che aumentarono notevolmente a mano a mano che il paese si inseriva nel commercio internazionale e conquistava nuovi mercati con un’agguerrita politica di penetrazione commerciale. La Germania esportava, prevalentemente, beni a elevato contenuto tecnologico (macchinari, automobili, prodotti chimici, televisori, frigoriferi, ecc.), che arrivarono a un quarto della produzione complessiva del paese, facendo conoscere e apprezzare i prodotti tedeschi in tutto il mondo. La Germania occidentale si poté giovare anche di un continuo flusso di lavoratori immigrati, costituito, nei primi anni, da profughi provenienti dai territori caduti sotto il controllo sovietico (almeno 12 milioni), successivamente da lavoratori, spesso altamente specializzati, che fuggivano dalla Germania orientale e quindi facilmente integrabili (oltre 2,2 milioni), e, infine, da lavoratori generici affluiti dall’area mediterranea (almeno altri 4 milioni), in particolare italiani e, soprattutto, turchi, che ebbero non pochi problemi di inserimento. L’economia della Germania occidentale diventò la più solida dell’Europa e as- 18 Ennio De Simone sunse la funzione di «locomotiva» dello sviluppo dell’intera Comunità europea, con un marco «forte», che fu più volte rivalutato. La Germania orientale (Repubblica Democratica Tedesca), viceversa, con appena 18 milioni di abitanti, nacque come uno Stato accentrato e attuò, sull’esempio sovietico, l’economia pianificata. Essa era la parte meno sviluppata della Germania e il suo Pil pro capite, nel 1950, era la metà di quello della parte occidentale. Fino al 1973, però, la sua crescita fu solo di poco più lenta di quella della Germania occidentale (+ 4,5 per cento all’anno) ed essa fu fra le nazioni più ricche e avanzate del blocco sovietico. Partita da una situazione meno favorevole, subì, fino all’erezione del muro di Berlino nel 1961 (elevato proprio per questo motivo), un’emorragia di manodopera, che spesso mise in crisi la continuità del lavoro nelle fabbriche. La pianificazione puntò sull’industria pesante, a scapito dei beni di consumo, e l’agricoltura, che fu socializzata, diede scarsi risultati. Il confronto continuo fra le realizzazioni delle due Germanie, che condizionò, in qualche modo, l’operato dei rispettivi governi, era nettamente favorevole alla parte occidentale e i Tedeschi dell’Est soffrirono di un’insufficiente disponibilità di beni di consumo. La riunificazione tedesca, di cui si era parlato negli anni Cinquanta e che era poi stata accantonata, perché diventata impossibile nel clima della Guerra fredda, fu realizzata nel 1990, l’anno successivo alla caduta del muro di Berlino. Avvenne pacificamente per annessione, nel senso che i territori orientali chiesero di entrare a far parte della Repubblica Federale Tedesca come nuovi Länder. Il costo dell’operazione fu molto elevato. La necessità di agire con rapidità e decisione e la volontà di favorire, per motivi politici, i Tedeschi dell’Est indussero il governo a fissare la conversione del marco orientale con quello occidentale alla pari (uno contro uno), mentre valeva molto di meno, con beneficio di chi, nell’ex Germania comunista, percepiva un salario o uno stipendio. Il governo, inoltre, dovette affrontare spese ingenti, coperte con nuove imposte, per la modernizzazione delle infrastrutture e il risanamento dell’apparato industriale della parte orientale. Le imprese furono privatizzate e quelle poco produttive smantellate, con l’inevitabile incremento della disoccupazione, che creò malcontento in una popolazione – quella dell’ex Germania comunista – abituata a vivere modestamente, ma con i bisogni essenziali garantiti dallo Stato. Anche nella Germania occidentale non mancarono proteste per i sacrifici imposti per realizzare l’unificazione. Negli anni Novanta, perciò, l’economia rallentò la sua crescita e furono necessari dolorosi interventi di ristrutturazione produttiva (delocalizzazione) e di riduzione delle spese pubbliche. Fra il 1989 e il 2006, il Pil pro capite tedesco è cresciuto in media di appena l’1,1 per cento all’anno, mentre nei quindici anni precedenti aveva messo a segno una crescita del 2 per cento. L’economia tedesca è comunque molto solida e rimane fortemente legata alle esportazioni, il cui valore (2005) è pari al 51 per cento del Pil, seguita a distanza da Italia e Francia, rispettivamente con esportazioni pari al 29 e al 28 per cento del loro Pil. Un breve cenno merita pure la Spagna, per i successi che ha ottenuto negli ultimi decenni. La sanguinosa guerra civile (1936-39) fra il governo repubblicano e le truppe ribelli capeggiate dal generale Francisco Franco (sostenuto da Germania e Italia), si concluse con la vittoria dei franchisti e con l’instaurazione di un regime fascista. La Spagna non partecipò al secondo conflitto mondiale, ma rimase isolata, politicamente ed economicamente, dall’Europa democratica almeno per tutti gli anni Quaranta e Cinquanta. Nel decennio successivo, cominciò a ravvicinarsi all’Europa e conobbe uno sviluppo economico eccezionale. Se negli anni Cinquanta il suo Pil pro capite era cresciuto del 3,5 per cento all’anno, fra il 1960 e il 1973 aumentò del 7,3 per cento ogni anno. L’economia spagnola si stava modernizzando in Appunti di Storia economica 19 tutti i settori, con un massiccio esodo dalle campagne e una consistente industrializzazione, anche grazie a investimenti provenienti dall’estero, mentre il turismo stava trasformando intere zone del paese e costituiva una preziosa fonte di entrate di valuta estera. Alcuni milioni di Spagnoli, però, dovettero prendere la via dell’emigrazione, in particolare verso la Francia e la Germania. Alla morte di Franco, nel 1975, vi fu una pacifica transizione verso la democrazia e fu restaurata la monarchia, con l’incoronazione del giovane re Juan Carlos di Borbone. Entrata nella Comunità Economica Europea nel 1986, la Spagna è continuata a crescere a ritmi sostenuti. Il suo Pil pro capite, che nel 1960 era pari ad appena il 36 per cento di quello britannico, giunse, in appena venti anni, al 71 per cento e, fra il 1975 e il 2002, riuscì a raddoppiarsi (in valori costanti) (vedi nuova tab. 7.1). La Spagna, oggi una delle principali nazioni sviluppate, ha riacquistato in Europa la posizione che aveva perso da molto tempo. 1.5. Ricostruzione e miracolo economico in Italia Le condizioni dell’Italia, alla fine del secondo conflitto mondiale, erano disastrose. La guerra, combattuta per oltre due anni sul territorio nazionale, aveva provocato ingenti danni al patrimonio abitativo e al sistema dei trasporti, sia per i bombardamenti aerei degli angloamericani sia per le sistematiche distruzioni dei Tedeschi in ritirata. Erano stati distrutti 1,9 milioni di vani e quasi altri 5 milioni risultarono danneggiati (su circa 34 milioni di vani esistenti); si era perso più dell’80 per cento della marina mercantile; le linee ferroviarie erano interrotte per i danni arrecati a ponti, linee aeree e binari; le strade erano impraticabili e gli autocarri si erano ridotti a meno della metà. Relativamente pochi (meno del 10 per cento) erano, invece, i danni all’apparato industriale. Il biennio 1945-46 fu particolarmente duro per la popolazione, che fu soccorsa dagli aiuti dell’Unrra (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), un fondo di aiuti ai paesi colpiti dalla guerra, sostenuto principalmente dagli Stati Uniti, che inviò soprattutto viveri, medicinali e vestiario, ma anche sementi, concimi, macchinari, materie prime e combustibili. Il Pil pro capite era crollato, nel 1945, al 55 per cento di quello del 1939 ed era addirittura inferiore (in valori costanti) a quello del 1905. Nessuno avrebbe immaginato che sarebbero bastati appena cinque anni per ritornare al livello di prima della guerra, né che lo sviluppo successivo sarebbe stato eccezionale, tanto da far parlare di miracolo economico, e avrebbe trasformato profondamente l’economia e la società italiane. In appena ventitré anni, fra il 1950 e il 1973, il Pil pro capite riuscì a triplicarsi (sempre in valori costanti), e aumentò, in media, del 5 per cento all’anno, consentendo un miglioramento senza precedenti del tenore di vita degli Italiani (vedi nuova tab. 5.1). Per comprendere le trasformazioni realizzate, basti pensare che, secondo l’inchiesta parlamentare sulla miseria del 1951-52, quasi un quarto delle famiglie italiane era considerato misero o indigente, la metà degli appartamenti non possedeva il gabinetto interno e più della metà non disponeva di acqua corrente. E questi valori erano sensibilmente più elevati nel Mezzogiorno. Negli anni della ricostruzione, la nuova classe politica, in genere priva di esperienza di governo, non solo si trovò ad affrontare alcuni problemi immediati, come la ripresa della produzione e la lotta all’inflazione, ma dovette effettuare scelte fondamentali per il futuro del paese. La ricostruzione dell’apparato produttivo e dei trasporti fu rapida e si giovò degli aiuti americani, giunti dapprima attraverso l’Unrra e poi con il Piano Marshall, il quale, come si ricorderà, prevedeva sia aiuti gratuiti che prestiti. Il governo americano, in virtù di questo 20 Ennio De Simone piano, cedeva gratuitamente merci al governo italiano, che le metteva in vendita sul mercato nazionale e con il ricavato, confluito in un apposito «fondo lire» presso la Banca d’Italia, provvedeva alle spese per la ricostruzione, in accordo con gli Americani. Fra il 1948 e il 1952, giunsero combustibili, cotone, cereali, macchinari e attrezzature industriali, che servirono sia a fare fronte alle più pressanti necessità alimentari, sia alle esigenze produttive. Le imprese italiane, da parte loro, ottennero dagli Stati Uniti prestiti per l’acquisto di attrezzature, di cui beneficiarono principalmente le industrie meccaniche, metallurgiche ed elettriche (Fiat, Edison, Sip e numerose società dell’Iri). All’incirca i due terzi dei fondi andarono alle tre regioni del triangolo industriale e solo poco più del 9 per cento al Mezzogiorno continentale (quasi esclusivamente alla Campania). L’inflazione, che era stata abbastanza contenuta fino al 1943, esplose dopo l’armistizio dell’8 settembre, quando il fronte divise in due l’Italia. Nel 1947 il costo della vita era aumentato di oltre quaranta volte rispetto al 1939 per diversi motivi: la penuria di beni, che aveva fatto lievitare i prezzi; la massiccia emissione di biglietti di banca e di Stato, necessari per le spese della guerra e della ricostruzione; l’introduzione, da parte delle autorità militari alleate, delle «Amlire» (Allied military currency o Allied military lires), una moneta di occupazione che circolò dal 1943 al 1950. Alle Amlire fu attribuito un valore elevato rispetto alla lira, sicché gli acquisti delle truppe alleate, pagati con quella moneta, contribuirono a far aumentare i prezzi. L’inflazione fu combattuta con la cosiddetta linea Einaudi, una serie di misure prese dal ministro del Bilancio, Luigi Einaudi, che miravano alla riduzione della circolazione monetaria, mediante un forte rialzo del tasso ufficiale di sconto e un aumento delle riserve obbligatorie delle banche (in tal modo, le banche non potevano investire una parte dei depositi raccolti, che quindi non erano rimessi in circolazione). Questi provvedimenti, che comportarono una temporanea riduzione degli investimenti e un aumento della disoccupazione, riuscirono a fermare l’inflazione e diedero fiducia agli investitori stranieri. La lira fu stabilizzata, nel 1948, a 625 lire per dollaro, che costituì la parità con la quale la moneta italiana entrò nel sistema monetario internazionale, e tale rimase fino al suo crollo nel 1971. La scelta fondamentale del governo, costituito dal partito della Democrazia cristiana e da alcuni partiti minori, dopo l’estromissione (1947) di socialisti e comunisti, fu quella a favore di un’economia aperta fondata sul libero mercato, che doveva inserire l’Italia negli scambi internazionali, in particolare con i paesi europei. La scelta era, in qualche modo, obbligata perché, secondo gli accordi di Yalta, l’Italia rientrava nella sfera d’influenza americana. D’altra parte, il passaggio a un’economia aperta era inevitabile per un paese costretto ad acquistare all’estero le materie prime e le fonti di energia necessarie (carbone e petrolio), quasi del tutto assenti sul territorio nazionale, che poteva pagare solo con le sue esportazioni. Furono revocate le precedenti misure autarchiche, che ostacolavano il commercio con l’estero (contingentamenti, restrizioni valutarie, alti dazi doganali, ecc.) e l’Italia aderì al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale, nonché all’Unione europea dei pagamenti. Durante la ricostruzione non vi furono nazionalizzazioni, come in Francia e in Inghilterra, perché in Italia già esisteva un consistente settore pubblico. L’Iri, sorto in seguito ai salvataggi degli anni Trenta, controllava, attraverso le sue società finanziarie o mediante partecipazioni azionarie, diverse imprese che operavano nel settore industriale (meccanica, siderurgia, chimica, elettricità, costruzioni stradali), in quello dei trasporti (linee di navigazione marittime e aeree) e nel sistema bancario (grandi banche di interesse nazionale). In mano pubblica era pure l’Agip (Azienda generale italiana petroli), sorta nel 1926, che fu rilanciata da Enrico Mattei, ex partigiano e potente manager pubblico, il quale promosse, nel 1953, la co- Appunti di Storia economica 21 stituzione di un’altra grande azienda pubblica, l’Eni (Ente nazionale idrocarburi), che doveva assicurare all’Italia il rifornimento delle fonti di energia. Le imprese pubbliche operavano sul mercato in regime di concorrenza con quelle private ed erano costituite sotto forma di società per azioni, possedute, in tutto o in parte, dallo Stato. Perciò fu istituito il Ministero delle partecipazioni statali (1956-93), con il compito gestire le società che appartenevano allo Stato, che ricevette non poche critiche per i metodi politico-clientelari seguiti nello svolgimento della sua attività. Nel 1950 furono varati due importanti provvedimenti: la riforma agraria e la costituzione della Cassa per il Mezzogiorno. La cosiddetta riforma agraria (in realtà provvedimenti parziali, ma tuttavia importanti) consistette nell’espropriazione di 800 mila ettari di terre ai grandi proprietari (di cui 650 mila nel Mezzogiorno) e nella loro assegnazione a famiglie di braccianti agricoli. I proprietari furono indennizzati con titoli di Stato e gli assegnatari, che ebbero quote di modesta estensione, diventavano pieni proprietari dopo il pagamento di trenta annualità. In quegli stessi anni, molti contadini acquistarono terre da proprietari non coltivatori, potendo beneficiare di particolari facilitazioni e di ampie sovvenzioni creditizie. Entrambe queste redistribuzioni di terre (la riforma e i trasferimenti volontari) fecero aumentare la piccola proprietà coltivatrice che, se da un lato soddisfaceva l’atavica fame di terre dei contadini, dall’altro era di ostacolo all’ammodernamento dell’agricoltura, per via delle ridotte dimensioni delle aziende agricole. Si sviluppò, perciò, un vasto movimento cooperativo, che consentì, in molte zone, di superare i limiti posti dal frazionamento della proprietà. La Cassa per il Mezzogiorno, vissuta fino al 1984 (poi sostituita con un’Agenzia per il Mezzogiorno, soppressa nel 1993), doveva finanziare opere straordinarie di pubblico interesse nelle regioni meridionali, in Sicilia e in Sardegna. Nei primi anni s’impegnò nella creazione di infrastrutture (strade, opere idrauliche, scuole, ospedali, ecc.) e soprattutto nel sostegno dell’agricoltura, dal momento che si era deciso di accantonare l’ipotesi dell’industrializzazione del Mezzogiorno, per affidare solo alla più efficiente industria settentrionale il compito di essere presente sui mercati internazionali. Da 1960, rivista questa posizione e deciso di sostenere la creazione di imprese industriali nel Mezzogiorno, i fondi a ciò destinati furono notevolmente potenziati. A partire dal 1950, la crescita economica, come si è detto, fu eccezionale, almeno fino al 1963. Furono quelli gli anni del miracolo economico, durante i quali il Pil pro capite aumentò del 5,8 per cento all’anno, mentre successivamente, fino al 1973, i risultati furono più modesti, ma comunque ragguardevoli (+ 4 per cento). La crescita fu accompagnata da profondi mutamenti strutturali. Fra i censimenti del 1951 e del 1971, gli addetti all’agricoltura crollarono dal 42 al 17 per cento del totale (perdendo oltre 5 milioni di contadini), mentre aumentarono gli addetti all’industria (dal 32 al 45 per cento) e quelli del settore terziario (dal 26 al 38 per cento). Gli analfabeti si ridussero dal 10,5 al 4 per cento della popolazione e aumentarono i diplomati (+ 44 per cento) e i laureati (+ 109 per cento). L’agricoltura si modernizzò, anche grazie all’aiuto dello Stato, mediante una rapida meccanizzazione e una più diffusa utilizzazione di concimi chimici, e si rivolse maggiormente all’allevamento e alle produzioni specializzate (ortofrutta, vite, olivo, ecc.). Essa, inoltre, liberando la manodopera in eccesso delle campagne, fornì forza di lavoro a basso costo all’industria, dove si stavano sviluppando nuovi rami accanto a quelli tradizionali. L’automobile, la meccanica di precisione, gli elettrodomestici, la petrolchimica e la produzione di fibre sintetiche furono i comparti che caratterizzarono lo sviluppo del periodo in esame. La bilancia dei pagamenti si portò in attivo a partire dal 1957, non solo per le accresciute esportazioni, ma anche per le rimesse degli emi- 22 Ennio De Simone grati e per lo sviluppo del turismo, che ormai cominciava ad attirare un gran numero di stranieri, desiderosi di scoprire le bellezze dell’Italia. Le ragioni del miracolo economico italiano sono numerose e la loro individuazione è stata oggetto di parecchi studi da parte di storici e di economisti. Ne riassumiamo le principali: a) gli aiuti americani, che consentirono la ripresa dell’economia nel dopoguerra; b) la scelta di un’economia aperta orientata alle esportazioni, che costituirono, secondo molti, il motore della crescita; c) la disponibilità di manodopera a basso costo, durata fino alle rivendicazioni salariali del 1962-63 e del 1969 (il cosiddetto «autunno caldo») e all’introduzione dello Statuto dei lavoratori (1970), che tutelò maggiormente i lavoratori dipendenti; d) un lungo periodo di bassi prezzi internazionali delle materie prime e delle fonti energetiche, che l’Italia doveva importare; e) il ruolo dello Stato, che finanziò lo sviluppo di determinati settori, in particolare l’agricoltura, l’edilizia e i trasporti (fra il 1956 e il 1964 fu costruita l’Autostrada del sole da Milano a Napoli), e fu presente in numerosi rami economici con le imprese pubbliche, alle quali, nel 1963, si aggiunse l’Enel (Ente nazionale per l’energia elettrica), in seguito alla nazionalizzazione, l’anno prima, delle imprese elettriche; f) un solido sistema bancario, ristrutturato con la legge del 1936, capace di fornire i finanziamenti necessari, anche mediante i nuovi istituti di credito (in genere di origine pubblica) destinati ai finanziamenti industriali a medio-lungo temine (Mediobanca, Mediocrediti regionali, ecc.). Il miracolo economico presenta anche aspetti negativi, fra i quali sono da ricordare la ripresa dell’emigrazione e l’irrisolta questione meridionale. L’emigrazione dal Mezzogiorno (ma anche da alcune zone del nord-est, come il Veneto), dove la modernizzazione dell’agricoltura fece emergere la sovrappopolazione relativa delle campagne, fu di nuovo un fenomeno che coinvolse milioni di persone. Gli emigranti partirono non solo per le Americhe (Argentina, Stati Uniti, Canada e Brasile), ma anche e sempre più frequentemente per l’Europa (Francia, Svizzera e Germania) e l’Australia. Vi fu pure – e questa era una novità per l’Italia – una massiccia migrazione interna verso le zone del triangolo industriale. Negli anni Cinquanta e Sessanta si trasferirono dal Sud al Centro-Nord del paese circa due milioni di persone, con non pochi problemi di sistemazione e di adattamento nelle città di arrivo. Altre abbandonarono le zone interne per spostarsi in quelle costiere della stessa regione. Il ritardo del Mezzogiorno non riuscì a essere annullato, anche se le distanze fra le due parti del paese si ridussero (per divaricarsi di nuovo successivamente), grazie agli investimenti per l’industrializzazione. Nacquero, in alcune zone costiere, grandi industrie, pubbliche e private, tecnologicamente avanzate, le quali, però, assorbirono poca manodopera, sicché la disoccupazione rimase molto elevata e la soluzione continuò a essere l’emigrazione verso altre regioni italiane. Con il tempo, l’emigrazione ha cominciato a riguardare sempre meno la manodopera generica priva di istruzione e sempre più giovani diplomati e laureati. 1.6. Rallentamento e ristrutturazione dell’economia italiana L’economia italiana risentì della crisi petrolifera del 1973 e rallentò la sua crescita, realizzando, nel trentennio successivo, un incremento medio annuo del 2 per cento. Nel frattempo continuava il cammino verso la terziarizzazione dell’economia. Fra i censimenti del Appunti di Storia economica 23 1971 e del 2001, gli addetti ai servizi passarono dal 38 al 61 per cento, mentre si ridussero quelli dell’industria (dal 45 al 33,5 per cento) e caddero a livelli minimi gli addetti all’agricoltura (dal 17 al 5,5 per cento). L’inflazione fu molto elevata e si tenne mediamente intorno al 13,5 per cento all’anno sino agli inizi degli anni Ottanta. Nei mesi successivi all’aumento dei prezzi del petrolio, furono varate delle misure per il risparmio energetico che, sebbene durassero per poco tempo, resero evidente a tutti la gravità della crisi: fu vietato alle autovetture di circolare la domenica; le vetrine dei negozi dovevano essere spente dopo le 19; le sale cinematografiche, i bar e i ristoranti dovevano chiudere alle 23 e alla stessa ora dovevano terminare le trasmissioni televisive, allora mandate in onda solo dalla Rai. L’Italia cominciò a utilizzare sempre più il gas naturale, riducendo fortemente la dipendenza dal petrolio, che prima del 1973 costituiva quasi l’80 per cento del fabbisogno energetico italiano e ai nostri giorni è sceso sotto il 50 per cento, mentre la quota del gas (fornito soprattutto dall’Algeria e dalla Russia) è passata dal 10 a quasi il 40 per cento. La crisi fu affrontata grazie all’intervento dello Stato, mediante il sostegno alle imprese in difficoltà e ai redditi delle famiglie. Il sostegno alle imprese avvenne in diversi modi. Fu decisa la fiscalizzazione degli oneri sociali (rimasta in vigore fino al 1999), con la quale furono ridotti i contributi che i datori di lavoro dovevano versare agli enti previdenziali e assistenziali per i loro dipendenti (pensioni, assicurazioni contro gli infortuni e le malattie, ecc.). I salvataggi delle industrie in difficoltà avvennero tramite la Gepi (Società per le gestioni e partecipazioni industriali), un’agenzia pubblica, istituita nel 1971, incaricata di concedere finanziamenti agevolati alle aziende industriali in difficoltà transitorie, anche mediante l’assunzione di partecipazioni azionarie. Di fatto, però, la Gepi venne utilizzata per evitare il licenziamento delle maestranze e mantenne in vita aziende improduttive. Fu anche finanziata ulteriormente la Cassa integrazione guadagni (istituita alla fine degli anni Sessanta), che paga, per un certo periodo, una parte dello stipendio ai lavoratori licenziati. I redditi delle famiglie, oltre che con la Cassa integrazione guadagni, furono sostenuti mediante un allargamento del welfare. Furono introdotte le pensioni sociali a favore persone di oltre 65 anni di età prive di reddito e fu riformato il sistema pensionistico, che prevedeva, fra l’altro, per il pubblico impiego, la concessione di pensioni dopo soli quindici anni di servizio effettivo. Nel 1978 fu istituito il Servizio sanitario nazionale e furono assicurati a tutti le prestazioni mediche e ospedaliere, prima dispensate a pagamento o riservate ai lavoratori che versavano i contributi ai loro enti mutualistici (le cosiddette «casse mutue»). La conseguenza di tutte queste forme di intervento fu un forte aumento della spesa pubblica, alla cui lievitazione contribuirono anche la realizzazione di numerose opere pubbliche, l’istituzione delle regioni a statuto ordinario (1970) e le massicce assunzioni di nuovo personale nel pubblico impiego. Fu, perciò, necessario aumentare il prelievo fiscale, mediante la riforma del sistema tributario (1973), che prevedeva l’introduzione dell’Iva (imposta sul valore aggiunto) e dell’Irpef (Imposta progressiva sul reddito delle persone fisiche). Ma l’aumento delle imposizioni fiscali non bastò e fu necessario ricorrere all’indebitamento pubblico e all’emissione di banconote. Il debito pubblico cominciò a crescere fino a superare il 100 per cento del Pil annuo e da allora costituisce un peso notevole che continua a gravare sull’economia italiana. L’aumento della circolazione monetaria e la forte crescita dei prezzi internazionali del petrolio e delle materie prime contribuirono a far esplodere l’inflazione, che arrivò a toccare punte del 18 e del 21per cento (1978 e 1980). Per ridare competitività alle imprese sui mercati internazionali si fece ricorso a continue svalutazioni della lira, metodo frequentemente utilizzato fino all’adozione dell’euro. 24 Ennio De Simone Le grandi imprese, che si erano dovute notevolmente indebitare, procedettero ad una ristrutturazione produttiva. Per risparmiare sul costo della manodopera, diventato più rigido con le conquiste salariali e normative successive all’«autunno caldo», ricorsero sempre di più all’automazione dei processi produttivi, sostituendo i lavoratori con le macchine e, successivamente, con i computer, e decentrarono parte della loro attività a imprese più piccole o cominciarono a trasferirla all’estero. La disoccupazione aumentò, ma le grandi imprese, con un minor numero di occupati, furono in grado di recuperare produttività e competitività e di lanciarsi di nuovo, dalla metà degli anni Ottanta, alla conquista dei mercati esteri. Alcuni comparti, come quello chimico ed elettronico non riuscirono a ristrutturarsi e rimasero indietro, mentre la siderurgia, sia pure con difficoltà, superò la crisi. I settori più competitivi rimasero quello meccanico (macchinari, elettrodomestici, automobili) e il cosiddetto made in Italy, che proprio allora cominciava ad affermarsi. Costituito da un insieme di imprese che operano nei comparti del tessile-abbigliamento-calzature (Benetton, Armani, Versace, Tod’s, Luxottica, ecc.), dell’arredamento e, in generale, dei prodotti destinati alle fasce alte del mercato, il «made in Italy» è riuscito a incrementare notevolmente le proprie esportazioni e a far conoscere i prodotti italiani di qualità in tutto il mondo. Mentre il peso della grande impresa nel sistema industriale italiano diminuiva, aumentava quello delle piccole e medie imprese (Pmi). Esse, molto più flessibili, avevano sempre avuto un ruolo importante, ma ora assunsero caratteristiche particolari ed ebbero il compito di trainare l’economia del paese. La loro presenza, diffusa sul territorio nazionale, pose fine allo storico predominio del triangolo industriale e all’emergere della cosiddetta «Terza Italia» (Centro e Nordest). Si formarono anche numerosi distretti industriali, aree coincidenti, in genere, con pochi comuni, in cui si erano storicamente concentrate molte Pmi a carattere familiare, specializzate in una o più fasi di un processo produttivo. Queste imprese potevano contare sulla presenza di maestranze specializzate, anche per l’esistenza di apposite scuole professionali locali, e su una rete di relazioni commerciali con l’esterno per l’acquisto di materie prime e di macchinari e, soprattutto, per la collocazione sul mercato delle produzioni «tipiche» del distretto. Le famiglie imprenditoriali dei distretti avevano maturato un forte senso di appartenenza e di identificazione con il territorio, oltre che una specifica «cultura» (valore del lavoro, della famiglia e del risparmio, volontà di rischiare, ecc.) e una serie di relazioni fra di loro, che si dimostrarono importanti fattori di sviluppo dell’intera zona. Nel 2005 si contavano 156 distretti industriali, riconosciuti e tutelati dalla legge, dove vivono quasi tredici milioni di abitanti. Si possono ricordare, per fare solo qualche esempio, i distretti di Prato (tessile), di Carpi (tessile), di Sassuolo (ceramica), della Brianza (mobili), di Fermo (calzature), di Vicenza (oreficeria) e di Solofra (concerie). La lotta all’inflazione fu condotta in vario modo. Fu adottata una politica restrittiva del credito e il governo fece un minore ricorso alle anticipazioni della Banca d’Italia, che comportavano la stampa di nuova moneta, liberando (1981) l’istituto di emissione dall’obbligo che fino ad allora aveva avuto di acquistare i titoli di Stato che non si riuscivano a collocare fra i risparmiatori (si parlò, all’epoca, di «divorzio» fra Banca d’Italia e Tesoro). Inoltre, fu ridotta la cosiddetta «scala mobile», un sistema di adeguamento automatico di salari e stipendi al costo della vita, in vigore dal 1975 al 1992, creata per difendere le retribuzioni dall’aumento dei prezzi, ma che poi si ritenne contribuisse a far crescere i prezzi. Il tasso di inflazione si portò, alla fine degli anni Ottanta, al 6 per cento e continuò a diminuire successivamente fino al 2 per cento del 1997. La riduzione dell’inflazione, assieme al risanamento dei conti pubblici (contenimento del debito pubblico e diminuzione del disavanzo del bilan- Appunti di Storia economica 25 cio statale), erano fra le condizioni previste dal trattato di Maastricht per poter entrare nell’euro. Per raggiungere questi obiettivi furono necessarie alcune misure, come l’abolizione di certi privilegi pensionistici, l’innalzamento dell’età pensionabile e l’aumento della pressione fiscale, senza però riuscire a far diminuire significativamente il debito pubblico, rimasto a livelli molto elevati. Siccome era difficile ridurre le spese sociali (pensioni, sanità e istruzione), una strada percorribile (peraltro già seguita da altri paesi europei) fu quella della privatizzazione del rilevante patrimonio pubblico. Negli anni Ottanta erano state portate a termine le privatizzazioni dell’Alfa Romeo (ceduta alla Fiat) e di Mediobanca. Negli anni Novanta, dopo aver trasformato le banche e gli enti pubblici in società per azioni (per poter collocare le azioni sul mercato), si procedette a una serie di privatizzazioni che, fra il 1992 e il 2005, hanno portato nelle casse dello Stato quasi 140 miliardi di euro (circa 270 mila miliardi di lire). Esse riguardarono le banche, le imprese dell’Iri (soppresso nel 2002), l’Eni, l’Enel, il sistema dei trasporti (ferrovie, aerei, autostrade) e quello delle telecomunicazioni. Gli acquirenti furono imprenditori nazionali e stranieri, alcuni dei quali con scopi speculativi, vale a dire con l’intenzione di rivendere successivamente le imprese acquistate e non di potenziarle con un progetto strategico per il loro futuro. Non si riuscirono a collocare molte azioni fra i piccoli risparmiatori, anche se la Borsa italiana, che era sempre stata asfittica, conobbe una crescita significativa, dovuta proprio all’immissione sul mercato delle imprese pubbliche. Lo Stato ha tuttavia conservato importanti quote di partecipazione ed è ancora l’azionista di riferimento (detentore del pacchetto di controllo), di molte aziende, comprese cinque delle maggiori dieci imprese italiane. Il sistema bancario, oltre che privatizzato, fu riformato con alcune leggi, poi confluite nel Testo Unico Bancario del 1993, che sostituì la legge bancaria del 1936. Oltre a una semplificazione (oggi esistono solo banche sotto forma di società per azioni e banche cooperative), è stata superata la distinzione tra banche commerciali (credito a breve termine) e banche di investimento (credito a medio-lungo termine), per adottare il sistema delle banche universali, che si occupano indistintamente di tutti i tipi di operazioni, compresa la partecipazione azionaria nelle società. Vi sono state anche numerosissime fusioni fra banche che hanno portato a una riduzione del loro numero e alla formazione di grandi gruppi (Unicredit, Intesa San Paolo, Monte dei Paschi di Siena, ecc.), in grado di competere sul mercato internazionale dei capitali. Lo Stato, che, nel 1994, controllava il 70 per cento del sistema bancario, dieci anni dopo ne controllava solo il 10 per cento. La trasformazione dell’economia italiana, con la sostanziale scomparsa dello Stato imprenditore, ha riguardato anche il mercato del lavoro. Si è realizzato il passaggio da un mercato rigido a uno flessibile, con l’introduzione di una serie di contratti a termine, che interessano principalmente le nuove generazioni. Si è creata, in tal modo, una netta divaricazione fra chi ha un lavoro a tempo indeterminato e tutelato e chi ne ha uno precario e poco tutelato. Il mercato del lavoro si è arricchito, di recente, della presenza di alcuni milioni di immigrati provenienti dai paesi poveri del mondo, che vengono impiegati in lavori che gli Italiani, in genere, non desiderano più fare o perché troppo faticosi o perché mal retribuiti. Nonostante le trasformazioni attuate (che, però, non sono riuscite a ridurre in modo significativo il forte debito pubblico), l’economia italiana, dopo essere cresciuta a ritmi abbastanza elevati, si è dimostrata, negli ultimi quindici anni, piuttosto debole e ha fatto registrare un incremento annuo del Pil pro capite inferiore a quello degli altri grandi paesi europei, ai quali resta comunque strettamente legata (vedi nuova tab. 5.1). 26 Ennio De Simone 1.7. Sviluppo e difficoltà dell’economia giapponese Il Giappone aveva subito enormi distruzioni nella parte finale del conflitto, quando fu sottoposto a continui bombardamenti aerei e subì il tragico sgancio di due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Nel 1949, le sue condizioni erano ancora molto gravi e, specialmente nelle città, la maggior parte della popolazione soffriva la fame o quantomeno era malnutrita. La produzione agricola era crollata del 40 per cento rispetto a quella dell’anteguerra, mentre nel paese erano affluiti circa sei milioni di individui, fra militari smobilitati e coloni ridotti in miseria, che rientravano dai territori occupati dal Giappone. La produzione industriale era crollata a livelli molto bassi e la disoccupazione era elevatissima. In un solo anno, il 1945, il Pil pro capite si era dimezzato e risultava pari a meno del 12 per cento di quello americano. Le speranze nel futuro di una nazione umiliata e sconfitta erano molto basse. Invece, a partire dal 1950 e fino al 1973, anche il Giappone conobbe il suo miracolo economico. Il Pil pro capite aumentò in media dell’8,1 per cento all’anno, il doppio della crescita dell’Europa occidentale (vedi nuova tab. 7.2). La rimonta fu straordinaria: nel 1950 il Pil pro capite era ancora pari al 28 per cento di quello britannico e al 20 per cento di quello americano, ma nel 1973 aveva quasi raggiunto il Pil britannico (lo supererà poco dopo, nel 1980) e si era avvicinato a quello degli Stati Uniti. Gli investimenti e la produttività crebbero, la disoccupazione scese a livelli bassissimi e le esportazioni aumentarono di ben ventitré volte. I Giapponesi seppero adeguarsi alla domanda internazionale e le imprese, più che alla massimizzazione del profitto, si mostrarono interessate all’espansione produttiva e alla conquista di nuovi mercati con prodotti di ottima qualità, come automobili e articoli elettronici. L’eccezionale sviluppo economico giapponese si basò su diversi fattori, alcuni dei quali erano esterni al paese. Fra questi vi fu la guerra di Corea (1950-53), maturata nel clima della Guerra fredda, che contrappose gli Stati Uniti, alla guida di un esercito delle Nazioni Unite, alla Corea del Nord comunista, sostenuta dalla Cina. Durante quel conflitto, che peraltro si concluse senza vincitori né vinti con il riconoscimento di due Stati coreani, il Giappone, situato proprio di fronte alla Corea, fu in grado di rifornire le truppe americane di materiale bellico, in cambio di dollari, che si rivelarono preziosi per pagare le importazioni di materie prime e di petrolio, di cui aveva bisogno per la ripresa industriale. In tal modo, la sua economia poté ripartire. Il paese fu anche favorito dall’espansione del commercio internazionale, dovuta alla crescita costante delle economie degli Stati Uniti e di altri paesi occidentali e all’azione del Gatt e del Fondo monetario internazionale. Le sue esportazioni verso il mercato statunitense aumentarono costantemente, anche perché gli Stati Uniti, come avevano fatto in Germania, rividero la posizione inizialmente assunta verso il Giappone sconfitto e decisero di farne il fedele alleato asiatico contro il comunismo. Anche qui, difatti, gli Americani, che occuparono militarmente il paese fino al 1952, avevano deciso lo smantellamento del suo apparato industriale e avevano smembrato i potenti zaibatsu. Il Giappone poté fare affidamento, ancora una volta, su una tecnologia avanzata, disponibile sul mercato internazionale a basso prezzo, in modo da recuperare il «gap» tecnologico accumulato fra la fine degli anni Trenta e la fine degli anni Quaranta, quando la sua economia era rimasta sostanzialmente isolata dal resto del mondo. I Giapponesi seppero profittarne meglio di altri per due ragioni: disponevano di un capitale umano di alto livello, che consentì di utilizzare la tecnologia più moderna, e avevano un elevato volume di risparmio, dovuto alla vita sobria che conducevano, sicché il processo di accumulazione di capitali poté ripartire in modo consistente. Il Giappone riuscì non solo ad appropriarsi della tecnologia occiden- Appunti di Storia economica 27 tale, come aveva già fatto nell’epoca Meiji, ma anche a svilupparne una propria, soprattutto nel campo dell’elettronica, in cui raggiunse una posizione di primo piano, contrastando con successo il predominio statunitense. Fra i fattori interni che favorirono lo straordinario sviluppo economico, si deve certamente ricordare l’azione dello Stato, che, com’era nella tradizione nipponica, continuò a esercitare un’importante stimolo sull’attività economica. Il governo, attraverso la Banca del Giappone, tenne bassi i tassi d’interesse e indusse le banche a garantire i finanziamenti necessari alle imprese che introducevano nuove tecnologie. Ridusse le imposte sugli alti redditi e sugli investimenti di capitali e concesse sgravi fiscali alle imprese, in particolare sugli investimenti in ricerca e sviluppo. Fu favorita la creazione di cartelli (vietati dagli Americani durante l’occupazione), con l’obiettivo di fissare i prezzi e limitare la concorrenza. Il loro numero crebbe da una cinquantina nel 1953 a oltre mille nel 1966, ma poi cominciò lentamente a diminuire. Infine, vennero varate misure protezionistiche per ostacolare l’importazione di merci straniere, sia attraverso barriere tariffarie (alti dazi o dazi differenziati per tipologia di prodotti) sia attraverso barriere non tariffarie (fissazione di elevati standard di qualità, dei prodotti da importare, ispezioni e controlli complicati e costosi, ecc.). Il governo realizzò anche un’imponente riforma agraria (1950): acquistò a basso prezzo circa cinque milioni di ettari da proprietari assenteisti e li ridistribuì a quasi cinque milioni di contadini. Un altro importante fattore di sviluppo fu il clima di collaborazione fra gli attori economici e istituzionali. La collaborazione fra governo e imprese, che rientrava nella tradizione nipponica, consentì di predisporre specifiche politiche di intervento e persino una pianificazione indicativa per i singoli comparti industriali. I ministeri, fra i quali spiccava per autorevolezza e impegno il celebre Miti (Ministero dell’industria e del commercio internazionale), predisponevano direttive concordate, che, in genere, gli imprenditori e le loro associazioni applicavano diligentemente. Si sviluppò anche la collaborazione fra le singole imprese, in particolare fra quelle che facevano parte dei keiretsu, i nuovi gruppi imprenditoriali eredi degli zaibatsu. I keiretsu, una nuova forma di gruppo senza struttura gerarchica, sono formati da numerose imprese con partecipazioni azionarie incrociate e con incarichi direttivi intrecciati 5 . Le imprese che ne fanno parte, tenute assieme più da vincoli di carattere etico che di tipo giuridico, sono entità indipendenti che elaborano autonomamente le proprie strategie, in collaborazione con le altre società affiliate, fra le quali vi è sempre una banca, che provvede al loro finanziamento. Infine, si sviluppò la collaborazione fra il management delle imprese e i dipendenti, già attiva da tempo, che rientra nella tradizione confuciana di rispetto delle gerarchie all’interno del gruppo al quale si appartiene, e quindi anche all’interno dell’azienda. I manager garantivano la sicurezza del posto di lavoro e prevedevano una serie di benefici (formazione professionale, aumenti salariali per anzianità, gratifiche periodiche, ecc.), in cambio della fedeltà dei dipendenti all’azienda. In tal modo, le vertenze sindacali furono per lungo tempo meno numerose di quelle di qualsiasi altro paese industrializzato. La diffusione di «public companies», inoltre, consentendo a un gran numero di persone di diventare azionisti di grandi società, contribuì a legare i Giapponesi alle imprese nelle quali investivano i loro capitali e delle quali erano spesso dipendenti. 5 Si hanno partecipazioni azionarie incrociate, quando una società (A) possiede azioni di un’altra società (B), che a sua volta possiede azioni della prima (A). In tal modo, uomini della prima società (A) possono far parte del Consiglio di amministrazione della seconda (B), e viceversa. 28 Ennio De Simone L’economia giapponese, per i successi raggiunti, risentì meno delle crisi petrolifere degli anni Settanta. La crescita del Pil rallentò, anche in modo consistente, ma in misura inferiore a quella dell’Europa e degli Stati Uniti (vedi nuova tab. 5.1). Si procedette a una ristrutturazione produttiva, attraverso l’introduzione di nuovi metodi (la «produzione snella», inventata proprio dai Giapponesi) e l’utilizzazione diffusa dei robot, che sostituirono il lavoro umano, specialmente quando il loro funzionamento fu computerizzato, garantendo la competitività internazionale di molte industrie. Negli anni Ottanta, il Giappone era diventata la seconda potenza economica mondiale (per ammontare del Pil) e nel corso di quel decennio la crescita s’intensificò, facendo registrare un incremento medio annuo del Pil pro capite di circa il 3,5 per cento. Negli anni Novanta, invece, l’incremento del Pil pro capite fu di appena lo 0,7 per cento all’anno. Il Giappone era stato colpito da una grave crisi, che presenta non poche analogie con quella americana e mondiale del 2008-09. Le cause dell’inversione di tendenza sono da ricercarsi proprio nella crescita precedente, durante la quale le esportazioni verso gli Stati Uniti erano aumentate e il governo aveva adottato una politica di espansione del credito, mediante la riduzione dei tassi di interesse. Perciò, la disponibilità di moneta risultò elevata, anche per l’alto livello del risparmio interno, e i Giapponesi (imprese, istituzioni finanziarie e famiglie) investirono le loro disponibilità in titoli azionari e in immobili. Nella seconda metà degli anni Ottanta, il corso dei titoli azionari giunse a triplicarsi e i prezzi dei beni immobili quasi raddoppiarono, mentre i consumi aumentavano, per l’elevata occupazione, e i prezzi rimanevano stabili. L’economia sembrava solida e i Giapponesi si attendevano ancora un lungo periodo di crescita, senza rendersi conto che stavano entrando in una bolla speculativa. La bolla scoppiò all’inizio del 1990, quando alcuni investitori cominciarono a vendere le loro azioni, proprio mentre la Banca del Giappone, per ridurre la massa monetaria in circolazione, si era convinta a elevare il tasso ufficiale di sconto dal 3,75 al 6 per cento. In due anni e mezzo l’indice della Borsa crollò del 63 per cento e i prezzi delle proprietà immobiliari, acquistate con i prestiti facili delle banche, precipitarono. Le conseguenze furono quelle solite in tali casi: gli istituti finanziari e le banche non riuscirono a recuperare i loro crediti e molti fallirono o dovettero essere salvati, il credito bancario si ridusse notevolmente, i consumi ristagnarono e parecchie industrie dovettero ridurre la produzione, la disoccupazione aumentò e tutta l’economia entrò in crisi. Per combattere la crisi, fu preparato un piano di grandi lavori pubblici, il costo del denaro fu portato a livelli bassissimi (0,25 per cento) e si avviò un processo di deregolamentazione. Gli investimenti cominciarono di nuovo a crescere, anche se limitatamene ad alcuni settori, mentre il debito pubblico rimaneva a livelli elevatissimi. La fase di ristagno dell’economia nipponica è durata a lungo e il paese ha introdotto forme sostanziali di protezione (ricorrendo a barriere non tariffarie) per quelle industrie che, di volta in volta, sono state ritenute in espansione e perciò da potenziare, e ha fatto persino ricorso a procedure di dumping, pur di conservare i mercati di sbocco ai propri prodotti. Solo nei primi anni del nuovo secolo l’economia giapponese ha mostrato segni di ripresa, con un Pil pro capite che, fino alla crisi del 2008-09, è cresciuto a un tasso medio annuo dell’1,8 per cento. Il Giappone, comunque, con i suoi 130 milioni di abitanti e con un elevato Pil pro capite, continua a essere una delle prime potenze economiche mondiali. Appunti di Storia economica 29 2. DALL’ECONOMIA PIANIFICATA ALL’ECONOMIA DI MERCATO 2.1. L’Unione Sovietica e il blocco comunista Fra i paesi che avevano partecipato alla seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica fu quello che subì i danni maggiori, sia per le perdite di vite umane sia per le devastazioni materiali arrecate al suo territorio. Dopo la guerra fu ripresa la pianificazione e si varò il quarto piano quinquennale, che puntava ancora, come i precedenti, sull’industria pesante e sugli armamenti, con particolare riguardo a quelli nucleari. La Russia continuava a temere l’accerchiamento, anche se ormai aveva messo fra sé e l’Europa occidentale un largo cuscinetto costituito dagli «Stati satelliti», come si dissero i paesi dell’Europa orientale passati sotto il suo controllo. Anche dopo la morte di Stalin (1953), l’organizzazione dell’economia pianificata non mutò. Si continuarono a predisporre piani che sacrificavano la produzione di beni di consumo a vantaggio dei beni strumentali e degli armamenti, oltre che dell’esplorazione dello spazio, che fu l’unico campo in cui i Sovietici riuscirono a ottenere maggiori successi degli Americani, almeno nei primi anni. Tuttavia, anche l’Unione Sovietica partecipò alla generale fase di sviluppo dell’economia mondiale e il suo Pil pro capite crebbe al tasso del 3,4 per cento annuo, vale a dire a una velocità maggiore di quelli di Gran Bretagna e Stati Uniti. Esso, però, era, nel 1973, solo il 50 per cento di quello britannico e appena il 36 per cento di quello americano (vedi nuove tabb. 5.1 e 5.2). I regimi comunisti dei paesi dell’Europa orientale adottarono il sistema politico ed economico dell’Unione Sovietica ed entrarono a far parte del Comecon (Consiglio per la mutua assistenza economica), un’organizzazione con sede a Mosca, voluta dai Sovietici (1949) in contrapposizione al Piano Marshall. I paesi aderenti al Comecon erano l’Albania (uscita nel 1961), la Bulgaria, la Cecoslovacchia, la Germania orientale, la Polonia, la Romania, l’Ungheria e, dal 1972, anche Cuba, portata nell’orbita sovietica dal suo leader Fidel Castro. Il Comecon si proponeva di coordinare lo sviluppo economico dei paesi membri, di realizzare tra di loro una più efficiente divisione del lavoro e di favorire gli scambi. Fu, invece, lo strumento attraverso il quale i Sovietici imposero il loro dominio sui paesi satelliti. Il malcontento verso l’Unione Sovietica fu sempre molto forte e diede luogo a diverse rivolte, represse nel sangue, come quelle della Germania orientale (1953), dell’Ungheria (1956) e della Cecoslovacchia (1968). La crescita dei paesi dell’Europa orientale fu comunque più consistente di quella dell’Unione Sovietica e quasi identica alla crescita dell’Europa occidentale. Il Pil pro capite dei paesi socialisti europei 6 (compresa la Jugoslavia), difatti, aumentò, fra il 1950 e il 1973, al tasso annuo del 3,8 per cento, vicinissimo al tasso dei principali dodici paesi dell’Europa occidentale (3,9 per cento). I migliori risultati furono ottenuti dagli Stati che partivano da condizioni più arretrate, come la Bulgaria (5,2 per cento), la Romania (4,8) e la Jugoslavia (4,5), mentre la crescita più contenuta fu quella della Cecoslovacchia (3,1). La crisi degli anni Settanta non coinvolse direttamene l’Unione Sovietica e gli Stati satelliti dell’Europa orientale, poco colpiti dagli shock petroliferi e dalla fine di un sistema monetario internazionale di cui non facevano parte. Tuttavia, dal 1973 al 1990, il Pil pro capite aumentò al tasso dello 0,7 per cento in Unione Sovietica e dello 0,5 per cento nei paesi 6 I termini socialista e comunista (o socialismo e comunismo) vengono qui usati come sinonimi, nell’accezione comune di sistema sociale basato sulla eliminazione totale o parziale della proprietà privata dei mezzi di produzione e sul controllo collettivo della loro utilizzazione. 30 Ennio De Simone dell’Europa orientale. I limiti della pianificazione centralizzata sovietica, processo molto complesso e difficile da gestire in modo efficace, cominciavano a diventare più evidenti. Il coordinamento fra l’attività delle diverse fabbriche, indispensabile per il buon funzionamento del sistema, non riusciva ad essere assicurato in modo adeguato. L’approvvigionamento di materie prime e semilavorati di una fabbrica, difatti, dipendeva dal funzionamento di altre fabbriche e dalla loro capacità di rispettare i tempi di consegna, per cui se un anello della catena non funzionava si arrestava l’intero sistema. I piani quinquennali (peraltro riaggiustati ogni anno, sicché, di fatto, finivano con l’essere annuali), stabilivano la quantità fisica di beni che ogni fabbrica doveva produrre. Lo scopo dei manager era, perciò, di raggiungere gli obiettivi prefissati, senza badare alla qualità dei prodotti, che perciò risultava molto scadente, anche perché non vi era concorrenza fra i diversi beni. Un altro inconveniente della pianificazione era costituito dal fatto che risultava molto difficile prevedere la quantità di beni da produrre, sicché vi poteva essere un eccesso o, più frequentemente, una scarsità di beni, che costringeva i cittadini a lunghe file (oppure a ricorrere al mercato nero) per procurarseli. Inoltre, i prezzi al consumo erano fissati senza tenere nella dovuta considerazione i costi di produzione e, in particolare quelli dei generi di prima necessità (pane, burro, ecc.) e degli alloggi erano tenuti artificialmente bassi. La scarsità di beni e i loro bassi prezzi fecero aumentare la capacità di risparmio della popolazione, ma, in seguito, i loro risparmi furono polverizzati dall’inflazione, iniziata con la crisi del regime comunista ed esplosa con il suo crollo. Infine, la pianificazione non induceva a perseguire innovazioni tecnologiche, nonostante si spendessero somme cospicue per la ricerca, dal momento che non vi era uno stimolo alle invenzioni e alle innovazioni da parte dei manager delle imprese statali e la ricerca delle università non era strettamente collegata con l’attività produttiva. Per completare il quadro dell’economia sovietica, bisogna ricordare che in quel paese, come nelle altre economie pianificate, non vi era disoccupazione, perché un posto di lavoro era garantito a tutti, essendo ritenuto lo svolgimento di un’attività lavorativa un obbligo dei cittadini, ma la produttività del lavoro era bassissima e, quindi, il costo di produzione dei beni risultava elevato. Per garantire l’occupazione, le fabbriche sovietiche avevano un numero di dipendenti eccessivo, sicuramente molto superiore a quello delle fabbriche dello stesso tipo dei paesi capitalistici occidentali. Anche in agricoltura, che qualcuno ha definito il «tallone di Achille» dell’economia sovietica, la produttività era molto bassa, tanto più che il controllo del lavoro dei contadini risultava sicuramente più difficoltoso di quello degli operai. I contadini che disponevano di piccoli appezzamenti privati (non più di mezzo ettaro) preferivano dedicare i loro sforzi e le loro cure a questi fazzoletti di terra, i quali, pur costituendo appena il 3 per cento della terra coltivata, erano in grado di fornire il 20 per cento della produzione agricola complessiva. Più volte Nikita Chruščëv, capo dell’Unione Sovietica (195364), dichiarò di voler raggiungere gli Stati Uniti nella produzione di latte, burro e carne, senza però riuscirvi. Durante gli anni Settanta, grazie agli investimenti destinati all’agricoltura, la produzione di derrate alimentari aumentò notevolmente, ma non riuscì a rendere autosufficiente l’Unione Sovietica, che dovette continuare a importarne una parte. L’agricoltura, inoltre, sacrificata alle necessità della pianificazione industriale, continuava ad avere un numero eccessivo di addetti (da paese non industrializzato), inconcepibile per quella che comunque era la seconda potenza militare, politica ed economica (per valore del Pil) del mondo. Le disfunzioni del sistema erano note ai dirigenti sovietici, che tentarono più volte di riformarlo, fin dagli anni Cinquanta e Sessanta, senza risultati apprezzabili. Solo Michail Gorbačëv (1985-91) pose mano a riforme più incisive, che compendiò nei termini «glasnost» e Appunti di Storia economica 31 «perestrojka». La glasnost (trasparenza) doveva realizzare forme più democratiche di gestione del potere politico, partendo dalle libertà di espressione e di informazione. La perestrojka (ristrutturazione) riguardava la trasformazione del precedente sistema politico ed economico, ritenuto troppo autoritario e burocratico. Lo scopo di Gorbačëv era, comunque, di conservare il sistema socialista, mediante una sua radicale trasformazione. Furono approvate diverse riforme, sia nel campo economico, per esempio introducendo (1988) una certa libertà d’iniziativa delle imprese, sia in quello politico, con la graduale riduzione delle prerogative del Partito comunista a vantaggio delle cariche statali. Secondo alcuni, l’errore di Gorbačëv sarebbe stato quello di puntare più sulle riforme politiche che su quelle economiche, al contrario di ciò che stavano facendo i dirigenti cinesi. Le conseguenze furono il crollo del dominio del Partito comunista, il cui apparato burocratico comunque assicurava la gestione dell’economia e della pianificazione, e la disintegrazione dell’Unione Sovietica. Le riforme di Gorbačëv furono indubbiamente attuate in modo disordinato, ma non bisogna dimenticare che egli si dovette costantemente difendere dagli attacchi di due opposte correnti del partito: i conservatori, che non volevano le riforme, e i riformisti, che le consideravano troppo timide. Intanto, il deficit del bilancio statale dell’Unione Sovietica era straordinariamente cresciuto, per via delle enormi spese che lo appesantivano. Oltre ai normali elevati costi per conservare imprese inefficienti e tenere basso il livello dei prezzi al consumo, bisognò affrontare alcuni eventi eccezionali (l’incidente della centrale nucleare di Chernobyl in Ucraina, nel 1986, e il terremoto in Armenia, nel 1988) e soprattutto mantenere un costoso apparato difensivo, che era giunto ad assorbire (assieme alle spese per le imprese spaziali) il 15 per cento del Pil, percentuale tripla di quella impiegata allo stesso scopo dagli Stati Uniti. La liberalizzazione di alcuni prezzi, conseguenti alle riforme introdotte, assieme alle necessità finanziarie dello Stato, che dovette ricorrere all’emissione di cartamoneta, provocarono due fenomeni nuovi nella società sovietica: l’inflazione e la disoccupazione, che fecero crescere il malcontento della popolazione. 2.2. Il crollo dei regimi comunisti e la crisi della transizione Nei paesi dell’Europa orientale, i regimi comunisti non erano mai stati completamente accettati, come dimostrano le ricordate rivolte degli anni Cinquanta e Sessanta. Anche la statizzazione dell’economia era stata meno spinta che in Unione Sovietica. In Polonia, per esempio, dopo un breve esperimento di collettivizzazione dell’agricoltura, i contadini avevano potuto tornare a coltivare privatamente i loro piccoli poderi. In Ungheria, in Polonia e nella Germani orientale era consentita la gestione privata di alcuni tipi di botteghe e di altre piccole attività commerciali. Negli anni Sessanta, inoltre, la Polonia e l’Ungheria avevano attuato alcune riforme, compresa una maggiore apertura al commercio internazionale, che le portarono a indebitarsi all’estero e a trovarsi poi in difficoltà per rimborsare i prestiti ottenuti. L’incapacità dell’economia pianificata di migliorare le condizioni di vita delle masse fece crescere il loro scontento, tanto più che ormai era possibile osservare alla televisione l’abbondanza dei vicini paesi occidentali. Le riforme avviate da Gorbačëv in Unione Sovietica diedero maggiore forza ai gruppi che si opponevano ai regimi comunisti. Le condizioni per la loro caduta stavano maturando. Il 1989 fu l’anno della svolta. Dapprima in Polonia, dove era stata fatta l’esperienza del sindacato autonomo Solidarność, e poi in Ungheria, si realizzò una transizione pacifica verso governi non comunisti. Successivamente, anche in 32 Ennio De Simone Cecoslovacchia, dopo proteste e dimostrazioni di massa, si giunse a un accordo per la formazione di un nuovo governo e fu attuata una pacifica divisione del paese fra Repubblica ceca e Repubblica slovacca (1993). Ma l’evento, che ha ormai assunto una funzione simbolica, come la presa della Bastiglia durante la Rivoluzione francese, fu il crollo del muro di Berlino, nella notte fra il 9 il 10 novembre 1989. Una moltitudine di Tedeschi di Berlino Est e Ovest, sotto gli occhi stupiti di tutto il mondo, che seguiva l’avvenimento attraverso la televisione, cominciò ad abbattere il muro costruito nel 1961, senza che le autorità tedesco-orientali osassero intervenire, e i Tedeschi di Berlino Est si riversarono nella parte occidentale della città. L’anno successivo fu decisa la riunificazione della Germania. In rapida successione caddero tutti gli altri regimi comunisti, in modo pacifico in Bulgaria o in seguito a violente agitazioni di piazza in Romania, dove il dittatore Nicolae Ceauşescu e sua moglie furono giustiziati. La Jugoslavia tentò di tenere assieme le repubbliche che la componevano, ma la secessione della Slovenia e della Croazia (1991) portò alla sua dissoluzione e a una serie di atroci guerre intestine, con la persecuzione delle minoranze etniche. Il Comecon, che non era mai stato molto efficace, fu sciolto ufficialmente nel 1991. L’Unione Sovietica non intervenne per reprimere le manifestazioni che avevano portato al crollo dei regimi comunisti. Essa, come si è visto, stava attraversando un periodo difficile. Il tentativo di riforme di Gorbačëv non riuscì e, dopo un fallito colpo di Stato dei sostenitori del regime, le tre repubbliche slave (Russia, Ucraina e Bielorussia), nel dicembre del 1991, dichiaravano lo scioglimento dell’Unione Sovietica. Anche il Partito comunista fu sciolto e i suoi beni confiscati. Dall’ex Urss nacquero quindici repubbliche indipendenti, la più grande e importante delle quali è la Federazione Russa. La transizione al capitalismo fu lunga e difficile. Il passaggio da un’economia pianificata, in cui lo Stato era l’unico proprietario dei mezzi di produzione, a un’economia di mercato costituiva un’esperienza nuova e piena di incognite. I risultati furono disastrosi. Fra il 1990 e il 1998, il Pil pro capite diminuì in media di quasi il 7 per cento all’anno nella disciolta Unione Sovietica, mentre nell’Europa orientale si ridusse in misura minore. Nella Federazione Russa furono liberalizzati il commercio interno e quello estero e fu avviato un processo di privatizzazione delle imprese statali, vendute a poco prezzo a imprenditori improvvisati, spesso provenienti dalle file del precedente gruppo dirigente comunista. Vi furono, per conseguenza, grandi cambiamenti nella distribuzione del reddito. I beni che precedentemente venivano forniti gratuitamente o a prezzi molto bassi divennero più cari, mentre il potere d’acquisto dei salari fu falcidiato dall’inflazione. La sperequazione fra i nuovi ricchi, che seppero profittare in tutti i modi (anche illegali) della situazione, e la massa della popolazione si fece grave e preoccupante. La povertà aumentò in modo impressionante in tutte le ex repubbliche sovietiche: le persone considerate indigenti, per esempio, passarono in pochi anni dal 2 al 50 per cento nella Federazione Russa e dal 2 al 63 per cento in Ucraina. L’inflazione esplose violenta, tanto da diventare iperinflazione, sia per la liberalizzazione dei prezzi, sia soprattutto per le necessità finanziarie dello Stato, che fece continuo ricorso all’emissione di biglietti. In regime di economia pianificata, difatti, lo Stato traeva le sue entrate dalle imprese che gli appartenevano. Vendute queste per pochi soldi, dovette elaborare e attuare un nuovo sistema tributario, che fu di difficile applicazione, con un’evasione fiscale molto elevata. L’agricoltura fu ancora una volta sacrificata, nel senso che si fece poco per creare dinamismo in un settore arretrato, in cui i figli dei contadini collettivizzati non erano ancora pronti a lavorare in regime di mercato. E infatti, molti di loro preferirono restare nelle aziende di Stato o nelle cooperative Appunti di Storia economica 33 (ne rimasero in attività diverse migliaia), nonostante la riforma che consentiva la compravendita dei terreni. In Russia e in Ucraina la produzione agricola risultò, a fine secolo, inferiore del 40 per cento a quella del 1990. A partire dall’ultimo decennio del Novecento, si registrò anche un calo demografico (– 5 per cento fra il 1995 e il 2008), pare a causa della diffusione dell’alcolismo (antica piaga russa), della droga e di malattie sessualmente trasmissibili, nonché dell’emigrazione, sintomo di un evidente disagio economico e sociale. Anche altre repubbliche dell’ex Unione Sovietica hanno subito una diminuzione della popolazione, addirittura più marcata di quella russa, come la Bielorussia (– 6 per cento), le repubbliche baltiche (– 10 per cento), l’Ucraina (– 11 per cento) e la Georgia (– 15 per cento). La crisi della transizione fu superata verso la fine degli anni Novanta ed è stata seguita da una forte ripresa economica. Il Pil pro capite della Federazione russa, dopo essere crollato del 42 per cento fra il 1990 e il 1998, è successivamente cresciuto a ritmi elevati (+ 7,4 per cento), riportandosi, nel 2006, al livello del 1990. Tale risultato è dovuto, innanzitutto, alle consistenti esportazioni di petrolio e gas naturale, oltre che di metalli e legname, i cui prezzi sul mercato mondiale erano in crescita. Le grandi industrie russe, ancora arretrate e altamente inquinanti, sono in mano a pochi gruppi privati, ma lo Stato ha conservato grosse aziende, specialmente nel settore energetico (Gazprom) e, di recente, sta acquistando o espropriando alcune imprese cedute con le affrettate privatizzazioni degli anni Novanta. Lo sviluppo degli ultimi tempi ha interessato principalmente la regione di Mosca (e qualche altra grande città), dove i livelli di reddito si avvicinano a quelli europei, mentre gran parte del paese è rimasta indietro, soprattutto nelle zone rurali e nei territori asiatici. Il governo sta anche portando avanti piani di rientro del debito estero e del debito pubblico. Il Pil pro capite della Russia, tuttavia, è ancora pari al 29 per cento di quello americano, che è una percentuale addirittura più bassa di quella del 1970. Anche l’Ucraina, dopo aver assistito alla perdita completa del valore della propria moneta e a un crollo verticale dei redditi della popolazione, ha attuato drastiche riforme economiche e sta vivendo, negli ultimi anni, una fase di crescita (senza però essere ritornata ancora ai valori del 1990), dovuta allo sviluppo di alcune industrie, alla riforma agraria e al forte incremento delle esportazioni. Nell’Europa orientale il processo di transizione è risultato meno traumatico, perché il collettivismo era durato per un periodo più breve, era stato realizzato in modo meno incisivo e la fase di passaggio all’economia di mercato fu meglio gestita. Vennero assicurate maggiori garanzie giuridiche a chi, cittadino o straniero, avesse voluto investire i propri capitali e il processo di privatizzazione non portò alla nascita di una nuova oligarchia di capitalisti profittatori. Fu comunque necessario rinnovare gli obsoleti impianti industriali, riqualificare i lavoratori, trasformare il sistema tributario e quello della sicurezza sociale e ricostruire dal nulla il sistema bancario. I paesi dell’Europa orientale sono entrati, nel 2004 e nel 2007, nell’Unione Europea, tranne quelli sorti dalla dissoluzione della Jugoslavia (con l’eccezione della Slovenia, che invece è entrata nell’Unione). Le guerre che hanno coinvolto gli altri Stati dell’ex Jugoslavia hanno provocato gravi danni e il peggioramento dell’economia (specialmente in Bosnia e in Serbia), nonché l’intervento di forze armate di pace europee. Dopo essere diminuito, fra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, il Pil pro capite degli ex paesi comunisti europei ha ripreso a salire prima della fine del secolo. La crescita degli ultimi anni è stata persino superiore a quella dei paesi più industrializzati dell’Europa occidentale, e ha prodotto un aumento dei consumi e la riduzione della disoccupazione. 34 Ennio De Simone 2.3. Il caso cinese Diverso è il caso della Cina, dove nel 1949 fu instaurato il regime comunista e costituita la Repubblica Popolare Cinese. La Cina aveva vissuto un lungo periodo di decadenza, fra i secoli XVI e XIX, durante il quale si era chiusa ai rapporti internazionali. Fu costretta ad aprirsi ai traffici con l’Occidente verso la metà dell’Ottocento e dovette stipulare dei trattati che la obbligarono a tenere bassi i dazi doganali e ad ospitare sul suo territorio alcune delegazioni occidentali. L’economia cinese, anche per ragioni interne, collassò e il Pil pro capite del 1950 (in valori costanti) risultò addirittura inferiore a quello del 1820, proprio mentre l’economia dei paesi industrializzati stava crescendo. Dopo il crollo dell’ultima dinastia imperiale (1911), fu instaurata la repubblica e iniziò un periodo di torbidi interni, sfociato in un conflitto armato fra il Partito nazionalista e il Partito comunista. Durante la seconda guerra mondiale, le due fazioni sospesero le ostilità per combattere gli invasori giapponesi, ma a guerra finita ripresero la lotta, che fu molto dura e terminò con la sconfitta dei nazionalisti, rifugiatisi nell’isola di Taiwan (Formosa), e con il trionfo del Partito comunista di Mao Zedong. La storia economica della Cina comunista si può dividere in due periodi nettamente distinti: quello della realizzazione dell’economia pianificata (1949-1978) e quello delle riforme successive, che hanno portato all’«economia socialista di mercato», come una modifica della costituzione cinese (1993) ha definito il nuovo sistema economico. L’attuazione del comunismo passò attraverso diverse fasi, che in qualche modo ripeterono l’esperienza sovietica, anche se si tentò di evitare gli errori del potente vicino, al quale i Cinesi rimasero legati fino al 1960, ma dal quale si distaccarono successivamente. Dopo aver domato l’iperinflazione che, anche in questo caso, aveva accompagnato la rivoluzione, e dopo aver stabilizzato la moneta, il nuovo governo dovette affrontare la trasformazione socialista dell’economia. L’industria era già stata largamente statalizzata dal precedente governo nazionalista, che aveva confiscato la maggior parte delle aziende gestite dai Giapponesi durante la loro occupazione. Nei primi anni Cinquanta furono nazionalizzate, senza indennizzo, le grandi imprese e le banche, mentre le piccole imprese a conduzione familiare furono spinte a trasformarsi in cooperative. Il commercio all’ingrosso passò nelle mani dello Stato e quello al minuto fu trasferito a imprese miste, con la partecipazione pubblica. Anche in Cina, sull’esempio dell’esperienza sovietica, furono adottati piani quinquennali, che puntarono sull’industria pesante, a scapito della produzione dei beni di consumo. L’agricoltura costituiva il settore più importante dell’economia. In questo campo fu attuata la più grande riforma agraria che la storia ricordi, mediante la confisca (1950-52) di 80 milioni di ettari di terra e la loro distribuzione ai contadini. Le terre furono assegnate ai singoli individui e non alle famiglie, in modo da favorire l’emancipazione delle donne e dei giovani dal dominio patriarcale, al quale erano sottoposti da secoli. I proprietari terrieri scomparvero e il numero di contadini poveri si ridusse notevolmente a vantaggio di quelli medi. La proprietà individuale fu conservata, anche perché i nuovi dirigenti non volevano alienarsi l’appoggio dei ceti agricoli, che erano la stragrande maggioranza della popolazione e costituivano la base di sostegno del Partito comunista e del regime. Gli appezzamenti assegnati, però, risultarono troppo piccoli, per cui il governo promosse la costituzione di cooperative agricole, alle quali i contadini dovevano conferire i loro poderi e in cui la terra, gli strumenti di lavoro e il bestiame erano di proprietà comune. In media, una cooperativa era composta di 160 famiglie e aveva un’estensione di 150 ettari. I contadini potevano ottenere piccoli pezzi di terra, che coltivavano personalmente per i bisogni familiari. Le loro condi- Appunti di Storia economica 35 zioni, però, non migliorarono molto rispetto alle altre categorie e il salario agricolo rimase molto più basso di quello industriale. I risultati del primo decennio del nuovo regime, nonostante fossero complessivamente positivi, non vennero ritenuti soddisfacenti dai dirigenti del Partito comunista. Fu perciò lanciato il grande balzo in avanti (1958-60), un piano economico e sociale che richiese una generale mobilitazione della popolazione per riformare rapidamente il paese e trasformarlo in una moderna società industriale, con l’intento dichiarato di raggiungere i paesi sviluppati, soprattutto la Gran Bretagna. Nel campo industriale vennero attuate misure di decentramento, si potenziò la media e piccola industria locale e i lavoratori delle fabbriche furono coinvolti nella gestione. Nelle campagne si formarono le comuni agricole, a loro volta organizzate in brigate (le ex cooperative) e squadre (unità operative), ognuna con proprie competenze. Dopo qualche difficoltà iniziale, le comuni, diventate anche le nuove unità amministrative dello Stato, furono riorganizzate e fu loro consentito di possedere e gestire piccole fabbriche, laboratori, trattori, camion e magazzini. Nonostante i sacrifici imposti alla popolazione e gli errori commessi (il paese soffrì di una gravissima carestia, che provocò 14 milioni di morti, secondo le prudenti stime ufficiali), il grande balzo in avanti trasformò il volto della Cina rurale, con la realizzazione di grandi progetti locali, grazie al lavoro collettivo. Furono dissodate nuove terre, costruiti sistemi di irrigazione per milioni di ettari, assicurati servizi comunali (scuole, ospedali, ecc.) e fu insegnato un nuovo mestiere a milioni di persone. La crescita economica subì un rallentamento all’epoca della cosiddetta rivoluzione culturale (1966-69), voluta da Mao, già sostanzialmente estromesso dal potere effettivo, come rimedio straordinario al pericolo, da lui intravisto, di involuzione autoritaria e burocratica della rivoluzione comunista. Si trattò di una lotta interna al Partito, che si basò principalmente sulla mobilitazione dei giovani (universitari e non) riuniti in gruppi, denominati «guardie rosse», che imperversarono in tutto il paese per imporre il pensiero di Mao, sventolando il «libretto rosso» contenente le massime del loro leader, nel tentativo di modificare le strutture della società e finanche il modo di pensare dei Cinesi. I risultati conseguiti nei primi decenni di comunismo, pur tra molte difficoltà, erano comunque evidenti. Il Pil pro capite cinese raddoppiò fra il 1950 e la metà degli anni Settanta, anche se nel 1973 era ancora pari al 7 per cento di quello britannico, all’incirca quanto era nel 1950. Ma il solo fatto che l’economia cinese fosse riuscita a tenere il passo con quelle occidentali, senza arretrare, fu un successo, in un paese che doveva mantenere la popolazione più numerosa del mondo. Nel 1950 i Cinesi erano intorno a 550 milioni, ma trent’anni più tardi erano diventati quasi un miliardo, con un incremento dell’80 per cento. Dopo la morte di Mao (1976), il suo successore Deng Xiaoping avviò gradualmente un processo di liberalizzazione dell’economia. Il precedente sistema politico con un partito unico, il Partito comunista cinese, fu conservato e si avviò l’economia di mercato sotto il controllo dello Stato. A partire dal 1978 furono attuate riforme in tutti i settori, tendenti ad accelerare lo sviluppo e a modernizzare l’economia, mediante l’introduzione di elementi di capitalismo nel sistema. Ancora oggi i dirigenti cinesi sostengono che il controllo politico accentrato dell’economia, anche di mercato, rappresenti il modo più efficiente per creare sviluppo e sono convinti che il processo di modernizzazione richieda, specialmente nelle fasi iniziali, una struttura politica forte e centralizzata, per impedire che le tensioni sociali ne ostacolino lo svolgimento, e perciò hanno reagito con durezza alle manifestazioni volte a chiedere una maggiore democrazia. 36 Ennio De Simone Le riforme riguardarono tutta l’economia, dall’agricoltura all’industria, dal commercio interno e internazionale al sistema finanziario. Furono introdotti degli incentivi salariali, visti come un efficace strumento per stimolare il maggiore impegno dei lavoratori, mentre il concetto di egualitarismo, precedentemente perseguito, venne considerato un ostacolo alla crescita economica. Il sistema delle comuni agricole fu abbandonato e si tornò a una produzione fondata su aziende familiari, sostenute dallo Stato, che produsse un incremento del reddito degli agricoltori. La popolazione attiva in agricoltura è crollata da oltre il 70 per cento, livello al quale si trovava ancora nel 1995, sotto il 50 per cento attuale, valore ancora eccessivamente elevato se confrontato con quello dei paesi sviluppati. Sono state favorite le imprese private, comprese quelle con la partecipazione di capitali stranieri, ma è rimasto un forte settore di imprese di proprietà pubblica, che comprende grandi gruppi capaci di competere sui mercati internazionali. La moneta, lo yuan, è stata tenuta a bassi livelli rispetto al dollaro per dare competitività alle merci cinesi e sono state fornite tutte le garanzie necessarie agli stranieri per attirare i loro investimenti. La partecipazione della Cina comunista al commercio internazionale è aumentata in misura considerevole, alla ricerca di mercati dove esportare i propri prodotti e da dove importare tecnologia e beni di consumo di qualità superiore. Quel popoloso paese è diventato, così, uno dei principali attori del commercio mondiale, specialmente dopo il suo ingresso nella Wto (2001). Il valore in dollari delle sue esportazioni è aumentato di otto volte fra il 1980 e il 1996 e di altre sei volte entro il 2007. La Cina ha conosciuto uno dei tassi di crescita del Pil più elevati al mondo, in genere superiore al 10 per cento all’anno, mentre il Pil pro capite è giunto a triplicarsi fra il 1980 e il 1999 e a raddoppiarsi ancora entro il 2007, restando tuttavia a livelli molto bassi: circa il 20 per cento di quello americano (ma nel 1990 era solo l’8 per cento). Per la Cina è fondamentale mantenere un alto tasso di crescita, dal momento che ogni anno entrano a fare parte della forza di lavoro ben 12 milioni di persone. Per Pil complessivo prodotto, essa è diventata, dall’inizio degli anni Novanta, seconda solo agli Stati Uniti. Il suo evidente successo è in netto contrasto con il collasso economico dell’ex Unione Sovietica nell’ultimo decennio del Novecento. Le trasformazioni economiche attuate hanno comportato anche una maggiore mobilità sociale e geografica. Milioni e milioni di persone hanno avuto la possibilità di migliorare la loro condizione economica e sociale e si sono spostati dalle zone rurali dell’interno verso le città delle aree costiere, dove si addensa gran parte della popolazione cinese. Moltissimi Cinesi (circa 18 milioni), inoltre, hanno preso la via dell’emigrazione. Una serie di campagne di pianificazione familiare, intraprese fin dal 1970, assieme a disposizioni che avvantaggiano le famiglie con un solo figlio, hanno fatto diminuire il tasso di natalità ma, nonostante ciò, la popolazione è cresciuta a ritmi elevatissimi, portandosi, ai nostri giorni, a oltre 1,3 miliardi, pari al 20 per cento di quella mondiale. Si è ormai venuta affermando un’economia mista, con un peso sempre maggiore del settore privato, denominata, come si è detto, «economia socialista di mercato». La riforma costituzionale del 1993 ha anche previsto il superamento della pianificazione socialista e ha dichiarato «inviolabile» il diritto alla proprietà privata. Appunti di Storia economica 37 3. I PAESI IN VIA DI SVILUPPO 3.1. Decolonizzazione e strategie di sviluppo Quasi tutti gli attuali paesi in via di sviluppo hanno avuto un passato coloniale, remoto o recente, e hanno dovuto affrontare un difficile periodo di instabilità politica ed economica dopo l’indipendenza. Così avvenne per le colonie spagnole e portoghesi dell’America Latina agli inizi del secolo XIX e così è avvenuto per le colonie dell’Africa e dell’Asia intorno alla metà del secolo XX. Dopo la seconda guerra mondiale, il processo di decolonizzazione ricevette un forte impulso, dal momento che numerose truppe coloniali avevano preso parte al conflitto ed erano state inviate a combattere per gli ideali degli Alleati, come la libertà, la democrazia e l’autodeterminazione dei popoli. Questi principi furono inclusi nella Carta Atlantica, firmata dal presidente degli Stati Uniti Roosevelt e dal primo ministro inglese Churchill (1941), e nella Carta delle Nazioni Unite (1945). Gli indipendentisti si rifecero proprio a queste dichiarazioni solenni per organizzare i movimenti politici che rivendicavano l’indipendenza dei loro popoli. Dopo una resistenza più o meno convinta, le potenze occidentali dovettero abbandonare le colonie, a volte anche in seguito a violente guerre di liberazione, come in Algeria e in Indocina. Gli stessi ambienti economici dei paesi colonialisti cominciarono a rendersi conto che il mantenimento delle colonie era diventato molto costoso per i governi, mentre i profitti delle imprese che vi investivano i loro capitali erano in forte calo, sicché non risultava più conveniente conservare vasti imperi coloniali. Il primo paese a ottenere l’indipendenza fu l’India. Seguirono alcuni paesi asiatici, come la Birmania, la Cambogia, l’Indonesia, il Laos e il Vietnam, e quelli dell’Africa settentrionale (Libia, Tunisia, Marocco e Algeria). Intorno al 1960, infine, fu la volta dell’Africa nera. A metà degli anni Sessanta, quasi tutte le nazioni europee avevano concesso l’indipendenza alle loro colonie. Solo il Portogallo lasciò l’Angola e il Mozambico nel 1975, in seguito a una lunga lotta armata. I nuovi Stati indipendenti conservarono, in genere, legami economici e culturali con le ex potenze coloniali. Quelli sotto dominio britannico, per esempio, scelsero quasi tutti di rimanere nel Commonwealth, che, di fatto, finì con il sostituire il vecchio impero. In tal modo, poterono mantenere i rapporti economici con la Gran Bretagna e usufruire dei ridotti dazi fra i paesi che facevano parte dell’associazione. La rilevanza economica del Commonwealth cominciò a declinare dopo il 1973, quando il Regno Unito entrò nella Comunità Economica Europea e dovette rinunziare ai rapporti privilegiati con le ex colonie, molte delle quali ottennero condizioni di favore per il commercio con l’Europa comunitaria. Il Commonwealth continuò a sopravvivere come una libera associazione di Stati. I paesi in via di sviluppo (Pvs) rappresentano realtà anche profondamente diverse fra di loro. Ma il loro cammino verso lo sviluppo presenta alcune caratteristiche comuni che è opportuno richiamare, prima di trattare separatamente le vicende delle grandi regioni in cui essi possono essere raggruppati. Quasi tutti i Pvs individuarono, dopo la fine della seconda guerra mondiale o dal momento in cui ottennero l’indipendenza, strategie di sviluppo molto simili. L’intervento diretto dello Stato nell’economia fu previsto quasi ovunque, perché ritenuto necessario per recuperare il forte ritardo nei confronti dei paesi sviluppati. I Pvs guardavano all’esempio della pianificazione di tipo sovietico, che sembrava aver dato buoni risultati, visto che l’Unione Sovietica era riuscita a sconfiggere la Germania nazista, oppure alle varie forme di economia mista introdotte nell’Europa occidentale. L’intervento statale, quando 38 Ennio De Simone non portò a una completa pianificazione, come nel caso cinese o di altri paesi asiatici, si manifestò in diversi modi: furono nazionalizzati importanti settori produttivi (servizi di pubblica utilità, banche, industrie e distribuzione all’ingrosso dei prodotti agricoli), vennero conservate o introdotte misure protezionistiche a beneficio di alcuni comparti industriali, furono imposti bassi prezzi per i beni di consumo essenziali e si fissarono livelli minimi dei salari. Un secondo elemento comune fu l’adozione di politiche di sviluppo basate sulla sostituzione delle importazioni (import substitution). Si favorì, cioè, la creazione di industrie che consentissero di produrre nel proprio paese i beni che si dovevano importare (manufatti e macchinari), via seguita, in particolare, dai principali Stati dell’America Latina (Argentina, Brasile e Messico). Alcuni paesi dell’Asia sud-orientale (Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan), invece, fecero una scelta diversa e puntarono su una politica di promozione delle esportazioni (export promotion), sviluppando industrie tecnologicamente avanzate, capaci di competere sui mercati internazionali. Questi paesi emergenti, ai quali se ne aggiunsero in seguito altri (Malaysia, Indonesia, Thailandia, Brasile, Messico, nonché Cina e India), sono diventati noti, di recente, con il nome di paesi di nuova industrializzazione (Newly industrializing countries o Nic). Un terzo elemento fu il ricorso ai prestiti esteri, ottenuti sia sotto forma di aiuti (prestiti dei governi stranieri a condizione di favore, espressamente rivolti ad agevolare lo sviluppo) sia sotto forma di prestiti commerciali da parte delle banche. Questi trasferimenti di capitali, però, non sempre servirono per gli scopi ai quali erano destinati, ma talvolta furono utilizzati per sostenere i consumi e la loro gestione alimentò la corruzione degli amministratori pubblici. Infine, i Pvs si poterono giovare della diffusione delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, anche grazie agli organismi internazionali, nei campi della medicina e dell’agricoltura. Le conseguenze furono la riduzione della mortalità e un forte incremento demografico, nonché l’aumento delle rese per ettaro delle terre coltivate. Per l’agricoltura si parlò, negli anni Settanta, di «rivoluzione verde», per indicare la diffusione di varietà di riso, grano e altri cereali più resistenti alle avversità climatiche o capaci di una crescita più rapida, che, però, non interessò alcuni paesi, come quelli dell’Africa subsahariana. Le strategie di sviluppo seguite, anche se non riuscirono a ridurre le disuguaglianze sociali e la povertà, funzionarono abbastanza bene fino alla crisi degli anni Settanta. Da allora, come stava avvenendo quasi ovunque, il ruolo dello Stato fu in genere ridimensionato e si procedette alla liberalizzazione dell’economia e alla privatizzazione di diverse imprese. La presenza dello Stato in economia, però, anche se ridotta, continuò ad avere un peso rilevante. L’effetto più grave della crisi fu l’aumento del prezzo del petrolio, che costituì, per i paesi sottosviluppati che non ne possedevano, un forte aggravio del costo delle importazioni. Inoltre, la riduzione della domanda di beni da parte dei paesi avanzati, molti dei quali ricorsero a forme di protezione per le loro industrie in crisi, colpì le esportazioni dei Pvs. La conseguenza fu che molti di questi paesi esportavano meno e pagavano molto di più il petrolio importato. I loro governi, perciò, dovettero ricorrere ai prestiti esteri, tanto più che l’abbondanza di petrodollari sul mercato internazionale consentiva di ottenerli facilmente. Si venne a formare un enorme debito estero dei paesi in via di sviluppo, passato dai 70 miliardi di dollari del 1970 agli 850 del 1982 e ai quasi 1.500 del 1990. I prestiti furono contrattati in dollari e a tassi variabili, vale a dire a un tasso che, periodicamente, sarebbe aumentato se i tassi di interessi (quelli del mercato di Londra, assunti come riferimento) fossero aumentati e sarebbe diminuito se i tassi di interesse fossero diminuiti. Siccome i tassi di interesse aumentarono (per via dell’inflazione che colpì i paesi avanzati), e il dollaro si apprezzò sulle altre monete, cioè divenne più caro, il peso del debito Appunti di Storia economica 39 estero dei Pvs (per capitali da rimborsare e interessi da corrispondere) si fece insopportabile. Fra quelli fortemente indebitati vi erano grandi paesi come l’Argentina, il Brasile, il Messico, la Nigeria, la Costa d’Avorio e le Filippine. Nel 1982, il problema del debito estero esplose e il Messico fu costretto a chiedere una moratoria. I prestiti furono rinegoziati a condizioni più favorevoli e il Fondo monetario internazionale (il principale finanziatore) impose politiche di stabilizzazione ai paesi debitori, che in sostanza consistevano nel costringerli a prendere misure per favorire le esportazioni, in modo da procurarsi i dollari necessari al pagamento dei debiti, sottraendo quindi risorse ai consumi e agli investimenti. La crisi fu superata, anche perché i tassi di interesse cominciarono a diminuire a mano a mano che l’inflazione dei paesi avanzati veniva domata. I prestiti ottenuti, ancora una volta, non furono utilizzati per progetti di investimento a favore dello sviluppo economico, ma per pagare le importazioni, sostenere i consumi, compresi quelli di lusso delle élites, e finanziare progetti poco utili. La globalizzazione coinvolse anche i Pvs, molti dei quali ne trassero beneficio. Negli anni Novanta aumentò la loro partecipazione al commercio mondiale di beni e servizi e molti di essi accolsero le imprese dei paesi avanzati che stavano dislocando all’estero parte della loro attività. L’allargamento dei mercati finanziari internazionali, favoriti dalla liberalizzazione, attirò un nuovo flusso di investimenti esteri (nel 1999 il debito estero era di oltre 2.500 miliardi di dollari). Infine, le rimesse degli emigrati sono diventate sempre più consistenti e hanno costituito un’importante fonte di entrata per i paesi più poveri, che alimentano un ingente flusso migratorio. 3.2. L’India fra sviluppo e arretratezza Il subcontinente indiano conquistò l’indipendenza nel 1947, al termine di un lungo movimento politico, in prevalenza non violento, largamente dominato dal Partito del Congresso, sotto la guida del mahātmā Gandhi e del pandit Nehru. Nel momento in cui ottenne l’indipendenza, fu diviso in due Stati: l’India e il Pakistan. L’India, a maggioranza induista, costituì uno Stato laico, sotto forma di repubblica federale, composto di ventotto Stati, con propri governi e assemblee legislative. Il Pakistan, a maggioranza musulmana, risultò composto delle province nord-occidentali (l’attuale Pakistan) e del Bengala orientale (separatosi nel 1971, con il nome di Bangladesh). I rapporti fra i due paesi si rivelarono subito difficili per via del controllo sul Kashmir, una regione di confine, che da allora ha dato luogo a diversi scontri fra i due contendenti, senza che il problema sia stato risolto. La dominazione coloniale aveva comunque lasciato all’India alcune risorse che si rivelarono utili allo sviluppo successivo, come la conoscenza diffusa della lingua inglese, una moderna burocrazia statale e una buona dotazione di infrastrutture, in particolare un imponente sistema ferroviario. L’India, rimasta nel Commonwealth per i forti legami economici con l’Inghilterra e con l’area della sterlina, adottò una strategia di industrializzazione fondata su tre elementi fra loro strettamente collegati: la sostituzione delle importazioni, il protezionismo e l’intervento statale nell’economia. La scelta della sostituzione delle importazioni comportò l’abbandono del sistema coloniale, che aveva assegnato alle colonie (e voleva continuare ad assegnare ai paesi sottosviluppati) la funzione di esportare materie prime e importare manufatti. Il protezionismo, già in vigore durante la guerra, fu conservato e le importazioni furono sottoposte al sistema delle quote e delle licenze d’importazione, nonché a forti dazi, in modo da favorire le imprese che assicuravano la sostituzione delle importazioni. 40 Ennio De Simone Per garantire lo sviluppo e recuperare il grave ritardo del loro paese, anche gli Indiani ritennero necessario l’intervento dello Stato nell’economia e perciò progettarono il controllo pubblico delle attività economiche e la creazione di un solido sistema di imprese pubbliche. L’idea dell’intervento statale si era diffusa nel Partito del Congresso e finanche fra gli industriali, i quali, nel cosiddetto «piano di Bombay» (1944), delinearono un insieme di principi generali su cui fondare la conduzione pubblica dell’economia e impostare il protezionismo. Perciò, le idee erano chiare fin dal momento dell’indipendenza e il nuovo governo adottò subito una serie di misure per giungere all’elaborazione di piani quinquennali. I piani, se si esclude il primo (1951-56), che faceva affidamento principalmente sull’iniziativa privata, puntarono sulla presenza dell’impresa pubblica. Le imprese e l’attività industriale furono sostanzialmente divise in tre gruppi: a) le imprese pubbliche, che si sarebbero dovute occupare dell’industria pesante e della trasformazione delle risorse naturali; b) le imprese a partecipazione pubblica, in cui la presenza privata si sarebbe dovuta gradualmente ridurre, impegnate in diversi rami produttivi; c) le imprese private, prevalenti nell’industria leggera e destinate alla produzione di beni di consumo. Il numero delle imprese pubbliche di proprietà del governo federale aumentò da cinque, quante erano all’inizio del primo piano quinquennale, a quasi centottanta all’epoca del sesto piano nel 1980. Sul finire degli anni Sessanta, una nuova accelerazione dell’intervento statale portò alla nazionalizzazione delle banche, con lo scopo di far giungere i servizi bancari anche nelle zone rurali e favorire la formazione del risparmio. Qualche anno dopo furono nazionalizzati gli impianti di estrazione del carbone, le raffinerie e le compagnie di assicurazione. Le piccole imprese ricevettero particolare attenzione da parte dello Stato, specie a partire dagli anni Settanta, anche perché erano maggiormente in grado di assorbire manodopera. Fu aumentato il numero di prodotti loro riservati nei piani quinquennali (salito, fra il 1973 e il 1980, da 51 a 834) e ottennero facilitazioni fiscali, finanziarie e in materia di lavoro. Per continuare a godere di questi vantaggi, le piccole imprese preferirono non crescere ma rimanere di modeste dimensioni, così come molte grandi imprese decisero di articolarsi in aziende più piccole. L’agricoltura, invece, rimase affidata al settore privato, ma fu ampiamente sostenuta dallo Stato, che, fra l’altro, garantiva l’acquisto di cereali da destinare alla distribuzione a prezzi controllati. Il governo federale e quelli dei singoli Stati promossero la diffusione di nuove tecniche di coltivazione, l’utilizzazione di cereali ad alto rendimento, l’irrigazione, l’uso di fertilizzanti chimici e la meccanizzazione e facilitarono l’accesso al credito bancario. Ciò non riuscì a evitare due gravi carestie alla metà degli anni Sessanta, ma nei primi anni Settanta, l’India raggiunse l’autosufficienza alimentare, grazie all’aumento della produzione in alcune regioni del paese, in particolare negli Stati nord-occidentali, che producevano grandi quantità di grano. I risultati, però, furono modesti. Fra il 1950 e il 1980, il tasso di crescita medio annuo del Pil fu di appena il 3 per cento e grandi masse di popolazione rimasero escluse da qualsiasi beneficio, continuando a soffrire la fame e le malattie. Negli anni Settanta, dopo la crisi petrolifera e in considerazione del fatto che il settore industriale indiano si mostrava stagnante già da tempo, si cominciò a pensare a profonde riforme economiche. Furono introdotte le prime forme di liberalizzazione e fu realizzata la riforma del settore pubblico, per aumentare l’efficienza e la competitività del sistema. Ma solo a partire dal 1991 fu attuata una vera e propria liberalizzazione dell’economia e si procedette al graduale smantellamento del sistema dei controlli, con lo scopo di dare vita a un’economia competitiva sul piano internazionale, con imprese orientate all’esportazione. Nel contempo fu ridimensionato e ridefinito il ruolo dello Stato, mediante una decisa deregolamentazione, specialmente nel settore indu- Appunti di Storia economica 41 striale, una liberalizzazione del commercio estero, una riforma del settore finanziario, soprattutto del mercato azionario, e una maggiore apertura ai capitali stranieri. La privatizzazione delle imprese pubbliche è stata consistente e il loro numero si è fortemente ridotto, ma lo Stato ha conservato la proprietà di cospicue quote del loro capitale sociale. Anche il settore finanziario è stato liberalizzato: le banche private e quelle straniere hanno ottenuto maggiore libertà di azione e le banche nazionalizzate hanno conseguito una più ampia autonomia operativa. Le riforme si prefiggevano anche la riduzione del disavanzo pubblico, mediante il taglio delle spese statali. Furono aboliti i sussidi alle esportazioni e si ridussero gli investimenti in infrastrutture (energia, trasporti, comunicazione), ma, poco dopo, alcune spese ripresero a crescere, in particolare quelle a carattere sociale (salute, istruzione, sviluppo rurale e sussidi per i prodotti alimentari e per i fertilizzanti). Un’importante conseguenza del processo di riforma economica è stata l’affermazione di una competitiva e dinamica industria del software, che si è potuta giovare di giovani ingegneri preparati e che alimenta una crescente corrente di esportazione. A partire dagli anni Ottanta, l’India conobbe una crescita eccezionale, con un incremento medio annuo del Pil che si tenne intorno al 6 per cento sino a fine secolo e ha superato il 9 per cento negli anni successivi. Sono aumentati gli investimenti esteri ed è fortemente cresciuta la partecipazione al commercio internazionale, la quale, anche se ancora modesta, si è quasi quadruplicata in valore fra il 2001 e il 2007. Ma l’economia indiana è ancora poco internazionalizzata e rimane orientata verso il mercato interno. I problemi dell’India sono numerosi e lo sviluppo è stato pieno di contraddizioni. La popolazione, che al censimento del 1981 era di 685 milioni, è passata a 1.150 milioni nel 2008, con un incremento del 65 per cento in un quarto di secolo. Negli ultimi decenni, però, il tasso d’incremento annuo della popolazione sta diminuendo (dal 2,2 per cento nel 1980-85, all’1,5 per cento nel 2001-06). Il forte incremento demografico ha comportato che il Pil pro capite, pure aumentato, si sia tenuto troppo basso, pari, com’è, ad appena il 13 per cento di quello britannico e al 10 per cento di quello americano (vedi nuova tab. 7.1). Le persone che devono vivere con meno di un dollaro al giorno costituiscono il 34 per cento della popolazione e quelle che dispongono di due dollari al giorno raggiungono l’80 per cento. Gli analfabeti sono ancora il 39 per cento, ma erano l’80 per cento al momento dell’indipendenza. Ciò nonostante, l’India è considerata uno dei paesi emergenti più importanti (il suo Pil complessivo è terzo dopo quelli di Stati Uniti e Cina) e, se la sua crescita continuerà ai ritmi attuali, è destinata a diventare uno dei protagonisti dell’economia mondiale. 3.3. Le «tigri asiatiche» e gli altri paesi dell’Asia L’Asia nel suo complesso (esclusi i territori appartenuti all’Impero russo e poi all’Unione Sovietica) produceva, nel 1820, secondo i calcoli di Angus Maddison, quasi il 60 per cento del Pil mondiale. Nel 1950 la sua quota si era ridotta a meno del 20 per cento, per riportarsi a più del 40 per cento nel 2006. Questi soli dati bastano a fornire un’idea di come il continente asiatico avesse perso terreno di fronte all’avanzata della rivoluzione industriale in Occidente e come, negli ultimi decenni, abbia saputo realizzare una crescita per certi versi inaspettata. In quel continente, se si escludono rari casi di paesi con redditi molto bassi, anche per contingenze particolari (Afghanistan, Iraq e Territori palestinesi), sono concentrati i Pvs che stanno cercando (e alcuni vi sono già riusciti) di portarsi al livello dei paesi sviluppati. 42 Ennio De Simone Finora abbiamo trattato tre paesi asiatici, il Giappone, la Cina e l’India, che oggi contano 2,6 miliardi di abitanti, pari al 65 per cento della popolazione asiatica e a più della popolazione mondiale del 1950. È necessario accennare brevemente agli altri, che divideremo in quattro gruppi più o meno omogenei. Il primo gruppo è costituito da appena quattro paesi, le cosiddette tigri asiatiche (Hong Kong, Taiwan, Singapore e Corea del Sud), dove vivono circa 80 milioni di persone. Questi paesi, che hanno realizzato i risultati migliori (vedi nuova tab. 7.1), hanno orientato le loro economie in prevalenza alla produzione e all’esportazione di prodotti ad elevato contenuto tecnologico, ma per questo sono fortemente dipendenti dall’andamento dei mercati mondiali. Il loro Pil pro capite è al livello di quello dei paesi più sviluppati. Hong Kong è stata una colonia britannica fino al 1997, quando, in seguito a un trattato, è passata alla Cina, che ne ha fatto una regione speciale autonoma e si è impegnata a conservare per cinquanta anni il sistema economico e sociale vigente sotto l’amministrazione britannica, basato sulla libera iniziativa e sull’economia di mercato. La sua posizione di «porta verso la Cina» le ha consentito di svolgere il ruolo di intermediaria negli scambi fra la Cina e il resto del mondo. È riuscita ad attrarre ingenti investimenti esteri, è diventata una piazza finanziaria di prim’ordine e ha potuto contare su un inesauribile serbatoio di manodopera per le sue industrie, proveniente dalla Cina comunista. Anche Singapore, colonia britannica fino al 1959, ha saputo sfruttare la sua posizione strategica ed è diventata uno dei maggiori porti mondiali. La sua economia è simile a quella di Hong Kong, con la differenza che qui lo Stato ha avuto un ruolo maggiore nel favorire la crescita. Fra il 1950 e oggi, il Pil pro capite (in valori costanti) di queste due città-stato è aumentato, rispettivamente, di 13 e di 12 volte. Nello stesso periodo, Taiwan e Corea del Sud hanno fatto registrare un aumento del loro Pil pro capite di quasi 22 volte, il più alto realizzato da qualsiasi altro paese al mondo. Lo sviluppo della Corea del Sud è stato promosso da un governo autoritario, spesso retto da militari, che ha puntato su settori tradizionali ad alta intensità di capitale (industrie siderurgiche, automobilistiche, cantieristiche, del cemento, ecc.), ha sostenuto le esportazioni e ha costretto le imprese a misurarsi sul mercato globale. Un ruolo molto importante lo hanno avuto i chaebol, gruppi imprenditoriali familiari, simili ai keiretsu giapponesi, ma dei quali non fa parte una banca, che controllano grandi conglomerate e sono sostenuti dallo Stato. L’isola di Taiwan (Cina nazionalista), dove si era rifugiato il governo nazionalista sconfitto dai comunisti, portando con sé le riserve auree cinesi, è stata anch’essa retta da un regime autoritario a partito unico fino agli anni Ottanta. Ha puntato su piccole imprese altamente competitive orientate all’esportazione (materiale elettrico ed elettronico, circuiti elettronici integrati e microprocessori, macchinari, strumenti ottici e di precisione, ecc.) e, negli ultimi tempi, ha anche effettuato cospicui investimenti all’estero, specialmente in Cina. Il secondo gruppo, situato nell’Asia sudorientale, conta circa 850 milioni di abitanti ed è composto di nove paesi (Malaysia, Thailandia, Birmania o Myanmar, Indonesia, Bangladesh, Nepal, Pakistan, Filippine e Sri Lanka). Specialmente a partire dagli anni Settanta, questi paesi hanno conosciuto una crescita che per alcuni è stata consistente, mentre per altri più modesta. Quelli più ricchi sono la Malaysia e la Thailandia, che hanno visto il loro Pil pro capite crescere rispettivamente di 6 e 10 volte dal 1950 al 2006. Indonesia e Sri Lanka si collocano in una posizione intermedia e hanno messo a segno buoni risultati, specialmente partire dalla fine degli anni Ottanta. Alcuni paesi, però, come la Thailandia, l’Indonesia e la Malaysia, assieme alla Corea del Sud, incapparono nella grave crisi finanziaria asiatica della fine degli anni Novanta, provocata da una serie di speculazioni, in seguito alla liberalizzazione dei mercati. Gli investitori stranieri ritirarono i loro capitali e ne seguì una forte depressione e- Appunti di Storia economica 43 conomica. Per un paio d’anni il Pil pro capite di questi paesi si ridusse, ma la ripresa fu abbastanza rapida. I quindici paesi del Medio Oriente costituiscono il terzo gruppo, forte di circa 300 milioni di abitanti. Esso comprende principalmente paesi produttori di petrolio (Arabia Saudita, Iran, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Iraq, Oman, Qatar, Bahrein, Siria e Yemen), oltre a Israele, Turchia, Giordania, Libano e Territori palestinesi. Il Pil pro capite è in genere abbastanza elevato, ma dipende quasi esclusivamente dalla produzione e dall’esportazione di petrolio e di gas naturale, nonché dal loro prezzo internazionale. Molti di questi paesi sono stati interessati da una forte immigrazione di lavoratori stranieri, per lo più provenienti dal mondo arabo e dall’India, tanto che, dal 1950 a oggi, la popolazione degli Emirati Arabi Uniti è cresciuta di 64 volte, quella del Qatar di 33 volte, quella del Kuwait di 18 volte e quella dell’Arabia Saudita di 7 volte. Il loro Pil pro capite, tranne che per la Palestina e l’Iraq, è abbastanza elevato e, in alcuni casi (Israele, Kuwait, Emirati e Qatar), raggiunge i livelli delle nazioni sviluppate. Per alcuni di questi paesi (Iraq, Kuwait, Qatar ed Emirati), la crescita non è stata lineare e negli anni Ottanta e Novanta hanno accusato una recessione a causa di vicende politiche e militari. In particolare, l’Iraq ha subito la dittatura di Saddam Hussein (1979-2003), ha sostenuto una lunga guerra contro l’Iran, ha invaso il Kuwait ed è stato sconfitto nelle due cosiddette «guerre del golfo» (1990-91 e 2003) dagli Americani, che sono rimasti sul suo territorio assieme a contingenti militari di altri paesi. La sua economia, basata sull’esportazione del petrolio, è crollata e nel 2006 il suo Pil pro capite era pari ad appena il 15 per cento di quello del 1980. L’ultimo gruppo ha ottenuto i risultati più deludenti. Esso ospita circa 180 milioni di persone ed è composto di una trentina di paesi, fra i quali spiccano l’Afghanistan, la Cambogia, il Laos, la Mongolia, la Corea del Nord e il Vietnam. Questi paesi, alcuni dei quali ex colonie francesi, sono stati quasi tutti coinvolti in guerre o in rivolte o sono stati governati da regimi comunisti, sicché hanno dovuto affrontare una difficile fase di transizione in seguito al crollo di quel sistema. Il Vietnam, dopo la lunga guerra contro gli Stati Uniti (1961-75), durante la quale l’economia fu fortemente penalizzata, ha conosciuto una buona crescita che ha fatto triplicare il Pil pro capite. L’economia dell’Afghanistan, invece, è stata distrutta da una serie di eventi eccezionali a partire dal 1979: l’occupazione sovietica, durata dieci anni, una guerra civile e la presenza sul suo territorio di truppe americane e di altri paesi, giunte nel 2001 per combattere i terroristi islamici, rifugiatisi sulle sue montagne. Perciò, l’Afghanistan è oggi il paese con il Pil pro capite più basso di tutta l’Asia. 3.4. Le difficoltà dell’America Latina La grande depressione mondiale degli anni Trenta aveva colpito pesantemente anche l’America Latina. Fra il 1938 e il 1944, non essendo direttamente coinvolti nel conflitto mondiale, molti paesi latinoamericani registrarono una debole ripresa, basata su un allargamento dei consumi interni, grazie al sostegno statale, e sui rifornimenti che furono in grado di garantire agli Stati in guerra. La produzione di beni di consumo fu incoraggiata, per sostituire i prodotti che era difficile importare in tempo di guerra, e l’agricoltura fu stimolata con riforme agrarie, che prevedevano la redistribuzione di vasti patrimoni fondiari e la messa a cultura di nuove terre. Negli anni Trenta e durante la guerra, l’intervento dello Stato si era fatto più massiccio ed era stata attuata una politica protezionistica, strettamente collegata al nazionalismo allora 44 Ennio De Simone imperante anche in quella parte del mondo. I governi erano intervenuti in tutti i settori dell’economia, avevano nazionalizzato alcune attività produttive nel campo minerario e in quello agricolo e avevano creato apposite aziende di Stato. Anche quando, dopo la guerra, i principali paesi del mondo liberalizzarono le loro economie e avviarono una politica di libero scambio, i governi populisti dell’America Latina (di «destra» e di «sinistra») 7 restarono legati al protezionismo e all’intervento statale, presentati come una forma di difesa dell’economia nazionale, e isolarono, in tal modo, i loro mercati, peraltro di modeste dimensioni. Gli anni successivi al conflitto furono, anche in America Latina, un periodo di crescita. I paesi latinoamericani avevano sostanzialmente scelto il campo occidentale (tranne Cuba, che nel 1960 passò nell’orbita sovietica) e subivano, sia pure a malincuore, il dominio economico e politico degli Stati Uniti. Ciò nonostante, essi continuarono la politica di intervento statale. L’industria fu certamente il settore più dinamico, specie negli anni Sessanta, anche se non riuscì ad avere un ruolo propulsivo per realizzare la modernizzazione, perché rimase legata a una produzione basata sullo sfruttamento delle risorse naturali e di manodopera non qualificata, senza investimenti di capitali in nuove tecnologie che ne elevassero la competitività. Sostenuta dallo Stato, l’industria dei paesi latinoamericani si limitò a rifornire il mercato interno e non fu in grado di espandersi su quello internazionale. La stessa agricoltura, nonostante le continue riforme agrarie, non riuscì a progredire significativamente e la produttività rimase bassa. Il controllo governativo dei prezzi agricoli, che venivano artificialmente tenuti bassi, non incoraggiava gli agricoltori e finiva con il costituire una forma di sostegno ai ceti urbani e industriali. La strategia di potenziare l’industrializzazione sostitutiva delle importazioni fu appoggiata dalla borghesia latinoamericana, che sostenne i governi populisti, in quanto quella politica le consentiva di investire nel settore industriale i capitali di cui disponeva. Gli effetti negativi di queste politiche furono una forte inflazione, specialmente nelle economie più «chiuse», come quelle di Argentina, Brasile e Cile, e il deterioramento delle finanze statali, compromesse dalle spese e dai sussidi governativi, con una conseguente elevata pressione fiscale, specialmente sui ceti più deboli. L’America Latina è stata caratterizzata, dal dopoguerra a oggi, da un forte incremento demografico, al quale, nell’immediato dopoguerra, contribuì la ripresa dell’immigrazione proveniente dall’Europa. In seguito il subcontinente latinoamericano è diventato luogo di emigrazione, in particolare verso gli Stati Uniti. La sua popolazione si è quadruplicata dal 1945 a oggi (da 145 a 580 milioni) e continua a registrare un incremento superiore a quello dei paesi asiatici, europei e nordamericani. L’aumento della popolazione ha sicuramente contribuito a mantenere in vita politiche economiche populiste, volte anche a contenere la disoccupazione e la sottoccupazione, ma ha ostacolato un miglioramento generalizzato del tenore di vita dei cittadini. Per continuare la loro politica di sostegno della domanda e di spese pubbliche necessarie per assicurare i servizi ai cittadini, i paesi latinoamericani utilizzarono anche gli aiuti e i prestiti internazionali. La situazione peggiorò con la crisi degli anni Settanta. Molti paesi furono costretti a indebitarsi ulteriormente a tassi di interessi molto più elevati di prima e il debito estero complessivo aumentò di sette volte fra il 1973 e il 1982. Quando il Messico fu costretto a dichia7 Il populismo è variamente definito dalle scienze politiche. In questo caso è riferito a quei governi latinoamericani, basati sull’esistenza di un capo carismatico (come Juan Perón in Argentina), che si rivolge direttamente, in modo retorico e paternalistico, al popolo, in nome del quale dice di parlare e a favore del quale dice di operare, attuando una politica nazionalista di intervento statale in economia. Appunti di Storia economica 45 rare la sua insolvenza (1982), il flusso dei prestiti privati si arrestò di colpo e fu necessario ridurre gli investimenti sia nelle aziende statali sia nei servizi pubblici. Si verificò, inoltre, una consistente «fuga dei capitali» all’estero, ossia il trasferimento (anche illegale) in altri paesi di moltissimi capitali privati delle classi agiate, in cerca di migliori rendimenti, sicché mentre i governi latinoamericani s’indebitavano all’estero per sopravvivere, i detentori di capitali nazionali li esportavano. La crisi impose importanti cambiamenti nella politica economica. I governi attuarono forme di deregolamentazione e di privatizzazione, a ciò spinti anche dalla circostanza che gli aiuti internazionali e i prestiti esteri, che avevano consentito le spese pubbliche del lungo periodo precedente, si erano drasticamente ridotti. Le basse tariffe dei servizi pubblici dovettero essere riviste e la politica fiscale divenne più rigorosa. Le privatizzazioni furono avviate, fin dagli anni Settanta, nel Cile governato da una dittatura militare, in seguito al colpo di Stato contro il presidente Salvador Allende. Per impulso degli economisti della scuola di Chicago, fu trasferito a imprese private un ingente patrimonio pubblico, che comprendeva risorse naturali (petrolio, gas, petrolchimica, agroindustria, miniere), infrastrutture (porti e strade), servizi di pubblica utilità (telecomunicazioni, elettricità, acqua), aziende industriali, servizi finanziari e trasporti. Oggi il Cile è il paese latinoamericano con il Pil pro capite più elevato (negli ultimi venti anni si è più che raddoppiato) e con un basso tasso di povertà. Oltre al Cile, le privatizzazioni interessarono il Messico, l’Argentina, il Venezuela e il Perù. Gli acquirenti delle imprese messe in vendita erano sia imprenditori nazionali, che utilizzarono anche i capitali esportati negli anni Ottanta e successivamente rientrati in patria, sia imprenditori stranieri. I loro investimenti furono spesso di natura speculativa ed essi puntarono più su risultati di breve periodo (per rivendere le aziende acquistate) che su strategie durature. Perciò, il mercato dei titoli azionari, cresciuto notevolmente, fu caratterizzato da un’alternanza di periodi di euforia finanziaria e periodi di panico. Crisi finanziarie colpirono paesi come il Messico (1994), il Brasile (1999) e l’Argentina (2000). Le imprese passate ai privati continuarono a investire poco nella tecnologia e a fare affidamento soprattutto sullo sfruttamento delle risorse naturali e sulla manodopera generica a basso costo, sicché la competitività internazionale dei prodotti latinoamericani è rimasta a livelli molto bassi. L’inflazione fu un costante fattore di instabilità in America Latina. Le politiche populistiche avevano portato a un’espansione della spesa pubblica, senza un conseguente aumento delle entrate tributarie, e quindi imponendo il ricorso all’indebitamento pubblico e all’aumento della circolazione monetaria. Quando, con la crisi degli anni Settanta, l’inflazione interessò tutti i paesi a economia di mercato, quella latinoamericana divenne iperinflazione e molti paesi dovettero continuamente svalutare la loro moneta o anche ritirare quella in circolazione e sostituirla con nuove monete. Furono necessarie drastiche politiche di risanamento per mettere sotto controllo l’inflazione e assicurare una certa stabilità monetaria. Negli ultimi decenni è stata abbandonata la politica protezionistica e i paesi latinoamericani sono entrati prima nel Gatt e poi nella Wto, partecipando in misura maggiore al commercio internazionale. La loro quota nei traffici mondiali è aumentata, ma ha riguardato solo pochi comparti e si è limitata ad alcune aree geografiche. Dal 1995, inoltre, alcuni paesi (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay), cui si è successivamente aggiunto il Venezuela, hanno dato vita al Mercosur (Mercato comune del Sud), al quale si sono associati diversi paesi dell’America meridionale. Il Messico, invece, partecipa alla Nafta, assieme agli Stati Uniti e al Canada. L’America Latina, che alla fine della seconda guerra mondiale era un subcontinente con la maggior parte della popolazione legata all’agricoltura, è attualmente un’economia terzia- 46 Ennio De Simone rizzata, con profondi squilibri fra i diversi paesi e fra i vari ceti sociali. Le differenze fra le categorie più ricche e la massa di popolazione che, molto spesso, vive in condizioni di assoluta povertà, sono aumentate e ciò ostacola la crescita economica, che non è adeguatamente sostenuta da un flusso continuo di consumi, dai quali moltissimi individui sono esclusi. In alcuni paesi (Haiti, Nicaragua, Bolivia, Ecuador, El Salvador) oltre il 40 per cento degli abitanti deve vivere con meno di due dollari al giorno. Ciò ha comportato sia una massiccia emigrazione verso gli Stati Uniti, da dove arriva un consistente flusso di rimesse da parte degli emigrati, sia lo spostamento di moltissime persone nelle periferie delle grandi città. Gli agglomerati urbani di Città del Messico e San Paolo del Brasile contano quasi 20 milioni di persone e Buenos Aires quasi 13 milioni. Nell’area si segnalano due economie emergenti, quelle del Messico e del Brasile, che contano rispettivamente quasi 110 e 200 milioni di abitanti, vale a dire più della metà dell’intera America Latina. Il Messico è strettamente legato all’economia statunitense, di cui subisce l’influenza, mentre il Brasile sta puntando sullo sviluppo industriale, sulle infrastrutture e sulla finanza, con la Borsa di San Paolo che è diventata la più importane dell’America Latina. Nell’ultimo mezzo secolo, questi due paesi hanno goduto di una crescita abbastanza costante e regolare, anche se il loro Pil pro capite è inferiore a quello di altri Stati latinoamericani, come il Venezuela e l’Argentina, che però hanno avuto un andamento altalenante, fatto di periodi di crescita e di decrescita. Tuttavia, il Pil pro capite del Brasile e quello del Messico sono modesti se confrontati con quello degli Stati Uniti: appena il 21 per cento il Pil brasiliano e il 25 per cento quello messicano e, per giunta, queste percentuali sono peggiorate rispetto al 1980. 3.5. Il ritardo dell’Africa Fino alla fine dell’Ottocento, la maggior parte del continente africano era ancora sconosciuta e inesplorata. Gli abitanti di molte regioni praticavano un’agricoltura di sussistenza e le terre da coltivare erano periodicamente distribuite dai capi villaggio alle famiglie, senza che esistessero diritti di proprietà di tipo occidentale. Dal 1880, l’Africa fu conquistata dalle principali potenze europee (in particolare Francia e Gran Bretagna), che vi mantennero proprie colonie fino a dopo la seconda guerra mondiale. I colonialisti si appropriarono delle terre migliori, introdussero i diritti di proprietà e sfruttarono la manodopera locale nelle piantagioni e nelle miniere. Pochi furono gli sforzi compiuti per istruire la popolazione o per costruire un’efficiente rete di trasporti. Con la fine del colonialismo, fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, si formarono i nuovi Stati indipendenti, nella maggior parte dei casi creati artificialmente e, perciò, privi di una chiara identità nazionale, nei quali si trovarono a convivere diversi gruppi tribali o etnici, sovente in contrasto fra di loro. Scoppiarono numerose guerre tribali e molti Stati finirono nelle mani di governanti senza scrupoli, talvolta appoggiati dalle ex potenze coloniali. Anche in Africa, il periodo della golden age fu caratterizzato dall’intervento statale in economia, ritenuto indispensabile per garantire la modernizzazione dei nuovi Stati formatisi con l’indipendenza. L’azione dei governi conservò alle ex colonie la loro funzione di esportatrici di materie prime in cambio di manufatti. Si formarono gruppi di privilegiati, che trassero vantaggio da questi traffici (spesso illegali, come il contrabbando di diamanti per pagare le forniture di armi) e furono in grado di alimentare i consumi dei prodotti importati, mentre Appunti di Storia economica 47 la massa della popolazione viveva nell’ignoranza e nella miseria. Siccome era l’epoca della Guerra fredda, i paesi occidentali e quelli comunisti fecero a gara per sostenere i nuovi Stati africani con aiuti finanziari e forniture di armi, pur di attirarli nel loro campo. I governi africani fecero affidamento su questi aiuti per assicurare i servizi minimi alla popolazione. Comunque, fra il 1950 e il 1973 il Pil pro capite crebbe, in tutto il continente, a un tasso medio annuo di oltre il 2 per cento, con differenze talvolta rilevanti da paese a paese. I risultati migliori, fra gli Stati più popolosi, furono registrati dalla Nigeria, dalla Costa d’Avorio, dall’Algeria e dal Sudafrica. Il primo shock petrolifero del 1973, se portò qualche vantaggio ai paesi esportatori di petrolio (Nigeria, Algeria, Libia, Gabon e Repubblica del Congo), costrinse gli altri a indebitarsi per l’acquisto del petrolio di cui avevano bisogno, portando alla formazione di un ingente debito estero, parte del quale si è dovuto ridurre o cancellare, per l’impossibilità dei debitori più poveri di rimborsarlo. In molti paesi furono adottate politiche neoliberiste, che portarono alla liberalizzazione del mercato e alla privatizzazione delle imprese pubbliche, nel tentativo di far decollare l’economia e migliorare le condizioni della popolazione. Ma sino alla fine del secolo XX, la crescita del Pil pro capite si arrestò ed esso rimase in media, per l’intero continente, sostanzialmente agli stessi livelli del 1973. In alcuni paesi più grandi, come il Ghana, il Sudafrica, la Costa d’Avorio, il Madagascar, il Mozambico, la Nigeria, la Tanzania e l’Uganda, il Pil addirittura diminuì, segnando, quindi, un peggioramento delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione. Nei primi anni del nuovo secolo quasi tutti i paesi africani stanno facendo registrare un buon andamento della loro economia, ma si tratta di una crescita determinata dalle alte quotazioni del petrolio e delle materie prime minerarie che sono in grado di esportare, sicché non è ancora sicuro che si possa trasformare in uno sviluppo duraturo. L’Africa presenta molti problemi. La crescita demografica è stata più elevata che in qualsiasi altra area del mondo. Secondo alcuni studiosi, la popolazione africana era, agli inizi del Novecento, uguale a quella di tre secoli prima, quando era iniziata la tratta degli schiavi verso le Americhe, che sottrasse al continente africano circa undici milioni di persone (tredici milioni, se si considerano anche gli schiavi inviati in Asia). Secondo altri, la popolazione africana sarebbe comunque cresciuta, anche se in misura contenuta. Ciò che è certo è che dal 1945 a oggi essa è passata da circa 200 milioni a quasi un miliardo, giungendo a quintuplicarsi, con una crescita spettacolare. La vita media è dappertutto molto bassa, tranne che nei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, dove si avvicina ai livelli europei. Alcuni Stati a sud del Sahara fanno registrare i valori più bassi del mondo, con una speranza di vita alla nascita che oggi a stento raggiunge i 40 anni. Un altro problema dell’Africa è la scarsità di acqua, che provoca ricorrenti periodi di siccità, come quello degli anni Settanta e Ottanta. La siccità è sempre accompagnata da carestie, alle quali si cerca di fare fronte grazie agli aiuti internazionali. In «annate normali», sembra che almeno cento milioni di africani patiscano la fame e la denutrizione, che sono i principali fattori di diffusione delle epidemie. Non è un caso, perciò, che l’Aids colpisca in particolare i paesi dell’Africa subsahariana, vale a dire la parte più povera del continente. Guerre, siccità e malattie contribuiscono a spingere molti poveri nelle città o a emigrare verso i paesi ricchi dell’Europa, con lunghi, pericolosi e costosi viaggi. Le continue guerre e rivolte costituiscono un ulteriore grave ostacolo alla crescita dell’economia africana. La maggior parte dei paesi è stata scossa da guerre civili e colpi di Stato, che sembrano verificarsi con maggiore frequenza nei paesi a basso reddito o con una 48 Ennio De Simone crescita molto lenta. Sembra che il possesso o la scoperta di risorse naturali (petrolio, diamanti, minerali, ecc.), invece di consentire ai paesi che ne dispongono di svilupparsi, fomentino guerre e rivolte, perché attorno ai guadagni che si possono realizzare con la loro esportazione si concentra la cupidigia di governanti intenzionati a perseguire soltanto il loro interesse privato, sovente sostenuti dai governi dei paesi importatori. Le maggiori entrate derivanti dalle esportazioni di materie prime (o anche dalle rimesse degli emigrati e dagli aiuti internazionali) danno spesso l’illusione di un’improvvisa ricchezza, peraltro concentrata in poche mani, e non stimolano la produzione e l’esportazione di altri beni e servizi, che potrebbero innescare un processo di sviluppo. E molte di tali risorse finiscono nell’acquisto di armi e in progetti costosi quanto inutili, che accrescono la corruzione. Questi paesi, in genere, sono guidati da governi autoritari, ostili alla democrazia, che stenta ad affermarsi perché spesso si fonda sul clientelismo, favorito dalla stessa disponibilità di risorse finanziarie assicurate dalle esportazioni e dagli aiuti internazionali. Molti paesi africani, infine, hanno grande difficoltà a partecipare al commercio internazionale. Quelli che non hanno accesso al mare sono, quasi sempre, circondati da paesi altrettanto poveri e privi di efficienti sistemi di trasporto, sicché soffrono della condizione di Stati interni, che non riescono a inserirsi nei traffici mondiali e sono condannati alla povertà, anche quando dispongono di risorse da esportare. Né la partecipazione alla Wto produce qualche consistente beneficio, per la scarsa capacità contrattuale dei paesi africani nei lunghi negoziati che precedono la stipulazione degli accordi commerciali. Perciò, la maggior parte di questi paesi non è riuscita a profittare delle opportunità offerte dal processo di globalizzazione. D’altra parte, il costo dello sviluppo è, nel frattempo, ulteriormente cresciuto e la stessa globalizzazione ha reso le cose più difficili per i paesi arretrati. Le persone più giovani e intraprendenti emigrano, specialmente se conoscono un mestiere o hanno un titolo di studio, e finanche i capitali, legalmente o illegalmente accumulati dai benestanti, vengono trasferiti all’estero. La situazione economica del continente non è uniforme. I paesi con un reddito più elevato si trovano principalmente a nord e sono quelli che si affacciano sul Mediterraneo (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto), dove vivono circa 160 milioni di persone, ma ve ne sono anche al centro, come il Gabon e la Repubblica del Congo (esportatori di petrolio), con meno di 5 milioni di abitanti, e nell’Africa meridionale, con il Sudafrica (quasi 50 milioni di abitanti). I paesi più poveri si trovano nell’Africa subsahariana, che accoglie più dei tre quarti della popolazione del continente. Nonostante i problemi che affliggono l’Africa, vi sono segni di vitalità, a cominciare da quella demografica, che, se nell’immediato crea enormi problemi, in futuro potrebbe rivelarsi un fattore di sviluppo, specialmente per l’esistenza di una popolazione molto giovane. Non bisogna dimenticare che gli Africani hanno dovuto affrontare, dopo l’indipendenza, una fase molto difficile. Mancava una classe dirigente adeguata, che non si era formata durante il periodo coloniale, esisteva un grave ritardo nell’istruzione, la popolazione cresceva a ritmi incredibili e si urbanizzava (una città come Kinshasa, nel Congo, è passata dai 360 mila abitanti del 1955 agli oltre sette milioni attuali) e ha dovuto soffrire un lungo periodo di siccità, durato una ventina d’anni. Essere riusciti a mantenere una popolazione che si è raddoppiata ogni ventitré anni, sia pure grazie agli aiuti internazionali, e nonostante le inique sperequazioni nella distribuzione del reddito, è comunque un altro segno di vitalità del continente. Appunti di Storia economica 49 3.6. Epilogo Il cammino compiuto dall’uomo negli ultimi secoli è stato prodigioso. La popolazione mondiale è passata dai circa 800 milioni di individui a metà Settecento ai 6,8 miliardi attuali. Ma si è anche allungata di molto la vita media ed è cresciuto il tenore di vita di buona parte della popolazione mondiale. L’uomo è stato affrancato dal lavoro della terra e oggi bastano poche persone che, con l’aiuto di macchine sempre più perfezionate e di fertilizzanti chimici, riescono ad alimentare un gran numero di individui che si possono dedicare ad altre attività, soprattutto nel settore dei servizi, e peraltro dispongono di molto tempo libero. Lo sviluppo è costato grandi sacrifici a intere generazioni. Lo sfruttamento dei lavoratori nelle prime fasi dell’industrializzazione è stato molto forte, l’assoggettamento e lo sfruttamento di interi paesi sono durati a lungo e lo spostamento di tantissime persone alla ricerca di migliori condizioni di vita è stato massiccio e continua ancora, con elevati costi sociali. Come una volta l’uomo si spostava per inseguire il cibo, oggi si sposta per cercare lavoro, il che in sostanza è la stessa cosa. Le sperequazioni nella distribuzione della ricchezza, anche all’interno dei paesi più avanzati, restano, però, rilevanti. Anzi, le differenze fra i diversi ceti sociali si sono accentuate rispetto alla società preindustriale, quando, in genere, l’accumulazione di ricchezze individuali era limitata dalla possibilità di utilizzarle per migliorare la propria condizione di vita oltre una determinata soglia. L’esperimento di un’economia pianificata che garantisse l’eguaglianza economica fra gli uomini è miseramente fallito. Il capitalismo trionfante, che peraltro presenta molte varietà al suo interno, se risulta maggiormente capace di creare ricchezza, non riesce ad assicurare una sua equa distribuzione sia a livello nazionale che internazionale ed è oggetto di numerose critiche. Lo squilibrio fra nazioni sviluppate e in via di sviluppo, categorie peraltro assai molto poco omogenee, è andato continuamente crescendo e i loro interessi continuano ad essere divergenti. Purtroppo, come si è visto dall’evoluzione dei diversi paesi negli ultimi due o tre secoli, non esiste una sola via allo sviluppo e ogni nazione ha dovuto sforzarsi per trovare la sua, che quasi mai è stata identica a quella dei suoi vicini. Non vi è una «ricetta» che possa essere valida per tutti i paesi e per tutte le epoche. Tuttavia, a partire dalla metà del secolo XX, l’Asia è stato il continente più dinamico dal punto di vista economico. Dopo essere rimasta ferma per alcuni secoli, mentre altre regioni del mondo progredivano, l’Asia ha ripreso a crescere e ha cominciato anche a muovere concorrenza alla produzione di manufatti occidentali, potendo contare su una numerosa e finora poco esigente manodopera, e quindi a partecipare in modo più consistente al commercio internazionale. All’inizio del nuovo millennio l’interdipendenza fra gli uomini e i popoli del pianeta è sicuramente cresciuta rispetto ai secoli precedenti. Da un lato, la complessità dei sistemi produttivi e relazionali rende gli uomini dipendenti in misura molto maggiore che in passato dal comportamento di altri uomini. Dall’altro, le decisioni assunte in una parte del globo hanno effetti anche in posti molto lontani. Il mondo è diventato un unico grande mercato e la vita degli uomini ormai si svolge in un «villaggio globale», in cui le comunicazioni avvengono, come si dice, in tempo reale. Lo sviluppo economico è stato reso possibile da molti fattori, il più dinamico dei quali si è dimostrato sicuramente la tecnologia, che ha contribuito significativamente al compimento della rivoluzione industriale e che oggi permette di aprire nuovi orizzonti nel campo dell’informazione e della conoscenza. 50 Ennio De Simone Di recente, si sta prendendo coscienza che lo sviluppo non può essere solo economico, misurabile con l’incremento del Pil pro capite. Esso deve essere anche «umano», cioè deve tenere conto pure di altri parametri che riguardano le condizioni di vita degli individui e dei popoli, e «sostenibile», vale a dire che deve soddisfare le esigenze delle generazioni presenti, senza compromettere le capacità delle generazioni future di soddisfare le loro. I problemi – non solo economici – che l’uomo del secolo XXI dovrà affrontare sono, perciò, enormi e vanno dall’accelerato incremento demografico al rimescolamento dei popoli, dalle disuguaglianze fra le diverse aree del pianeta all’esistenza di armi di distruzione di massa, dalle problematiche ecologiche (che si fanno sempre più pressanti e vitali per il futuro del pianeta) all’organizzazione di nuove forme di produzione e di consumo. Forse la tecnologia potrà ancora venire in aiuto all’uomo per consentirgli di risolvere alcuni di questi problemi, ma i risultati dipenderanno da come egli saprà utilizzarla per il bene comune dell’intera umanità. 51 Appunti di Storia economica TABELLE AGGIORNATE Le seguenti tabelle sono quelle contenute alle pagine indicate del libro. Esse sono state aggiornate con i dati più recenti Pag. 154 Tab. 5.1. – Tassi percentuali medi annui di crescita del Pil pro capite nei principali paesi, per periodi, dal 1820 al 2008 Paesi Gran Bretagna Francia Germania Stati Uniti Russia (Urss) Giappone Italia 1820-1870 1870-1913 1913-1950 1950-1973 1,3 1,0 1,1 1,3 0,6 0,2 0,6 1,0 1,5 1,6 1,8 1,1 1,5 1,3 0,9 1,1 0,2 1,6 1,8 0,9 0,9 2,4 4,0 5,0 2,5 3,4 8,1 5,0 1973-1995 1,7 1,6 1,7 1,8 – 1,8 2,6 2,2 1995-2008 2,4 1,6 1,4 1,9 5,4 1,0 1,2 Fonte: Dati tratti da A. Maddison, L’economia mondiale dall’anno1 al 2030. Un profilo quantitativo e macroeconomico, Milano, 2008, p. 436 (tab. A.8), dal sito web di A. Maddison, all’indirizzo “www.ggdc.net/Maddison” e, per il periodo 1995-2008, dal sito dell’Università di Groningen, Groningen Growth and Development Centre, all’indirizzo “www.ggdc.net” (nostri calcoli). Nota: Tutti i dati tratti da Maddison (in questa e nelle tabelle successive) sono espressi in dollari 1990; le altre valute sono state convertite in dollari in base alla parità di potere d’acquisto. I dati della Germania sono riferiti, fino al 1913, ai confini del 1913 (escluse Alsazia e Lorena) e, dal 1950, ai confini del 1991 (Germania riunificata). I dati della Russia sono riferiti ai territori dell’ex Unione Sovietica (Urss), coincidenti all’incirca con quelli dell’Impero zarista. I dati della Gran Bretagna sono quelli del Regno Unito e, perciò, comprendono anche i dati dell’Irlanda fino al 1920. Tab. 5.2. – Livello del Pil pro capite dei principali paesi raffrontato con quello della Gran Bretagna, per alcuni anni dal 1820 al 2008 Paesi Gran Bretagna Francia Germania Stati Uniti Russia (Urss) Giappone Italia 1820 1870 1913 1950 1973 2008 100 58 50 59 32 32 53 100 54 52 70 27 21 43 100 68 71 103 29 27 50 100 76 56 138 41 28 51 100 109 100 139 50 95 89 100 95 87 131 33 95 83 Fonte: Dati tratti da A. Maddison, L’economia mondiale. Una prospettiva millenaria, cit., pp. 389-390 (tab. B.13), 420-421 (tab. B.21), dal sito web di A. Maddison, all’indirizzo “www.ggdc.net/Maddison” e, per il 2008, dal sito dell’Università di Groningen, Groningen Growth and Development Centre, all’indirizzo “www.ggdc.net” (nostri calcoli). Nota: Per la Germania e la Russia, vedi tab. 5.1. Per la Gran Bretagna sono stati considerati, fino al 1913, perché disponibili, solo i dati di Inghilterra, Galles e Scozia (senza l’Irlanda); dal 1950 i dati sono quelli del Regno Unito. 52 Ennio De Simone Pag. 270 Tab. 7.1. – Livello del Pil pro capite di alcuni paesi raffrontato con quello del Regno Unito, per alcuni anni dal 1950 al 2008 Paesi Regno Unito Stati Uniti Unione Sovietica Giappone Francia Germania Italia Belgio Olanda Svizzera Svezia Norvegia Danimarca Spagna Canada Australia Singapore Hong Kong Taiwan Corea del Sud Cina India Messico Brasile 1950 1960 1970 1980 1990 2000 2008 100 138 41 28 75 56 50 79 86 131 97 78 100 32 105 107 32 32 13 12 6 9 34 24 100 131 46 46 86 89 68 80 96 144 100 83 102 36 101 102 27 36 17 14 8 9 36 27 100 140 52 90 106 101 90 99 111 157 118 93 118 59 112 112 41 53 28 20 7 8 40 28 100 144 50 104 114 109 102 112 114 145 116 117 118 71 125 111 70 81 45 32 8 7 49 40 100 141 42 114 107 97 99 105 105 131 107 112 112 73 115 105 87 107 60 53 11 8 37 30 100 140 22 102 100 93 92 101 109 110 102 123 113 77 110 107 111 115 83 71 17 9 36 27 100 131 33 95 95 87 83 99 103 104 103 122 103 73 106 105 118 124 89 82 25 13 33 27 Fonte: Dati tratti dal sito web di A. Maddison, all’indirizzo “www.ggdc.net/Maddison” e, per il 2008, dal sito dell’Università di Groningen, Groningen Growth and Development Centre, all’indirizzo “www.ggdc.net”(nostri calcoli). Nota: I dati della Germania sono riferiti ai confini del 1991 (Germania riunificata). I dati del 2000 e del 2006 dell’Unione Sovietica sono riferiti al territorio dell’ex Urss. I dati per la sola Russia sono: 2000 = 26; 2008= 38 53 Appunti di Storia economica Pag. 284 Tab. 7.2. – Tassi percentuali medi annui di crescita del Pil pro capite nelle diverse regioni del mondo, dal 1913 al 2003 Regioni 1913-1950 1950-1973 Europa occidentale Usa, Canada, Australia e Nuova Zelanda Giappone Asia (escluso il Giappone) America Latina Europa orientale Unione Sovietica Africa Mondo 0,8 1,6 0,9 –0,1 1,4 0,6 1,8 0,9 0,9 4,1 2,5 8,1 2,9 2,6 3,8 3,4 2,0 2,9 1973-2003 1,9 1,9 2,1 3,9 0,8 0,9 –0,4 0,3 1,6 Fonte: Dati tratti da A. Maddison, L’economia mondiale dall’anno 1 al 2030, cit., p. 436 (tab. A.8).