Recensioni teatrali | Teatro.Persinsala.it
Alessandro
Alfieri
luglio 28, 2016
Al Globe Theatre di Roma, va in scena Il mercante di
Venezia, una delle commedie più celebri di Shakespeare, ma
anche una delle più in rapporto al ruolo che il suo personaggio
più importante, l’ebreo Shylock, ha assunto – nel male più che
nel bene – nell’immaginario europeo.
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Le opere dei grandi geni attraversano i secoli caricandosi di volta in volta
di una forza spirituale nuova, perché potenziata in relazione alla storia che
nel frattempo è trascorsa tra gli uomini e nel mondo; le grandi opere infatti
sono da un lato documenti, testimonianze dell’epoca nella quale sono
state realizzate, dall’altra lenti efficaci per comprendere il presente
nonché la storia intercorsa tra la loro stesura e noi. Shakespeare rientra
pienamente in questa grandezza, solo le tragedie, ma anche le commedie
dimostrano di possedere un carico di significato sorprendente.
Pensiamo a tal proposito a un’opera come Il mercante di Venezia, in
scena fino al 7 agosto al Globe Theatre di Roma per la regia di Loredana
Scaramella; prima grande difficoltà è pensare quest’opera come a
un’autentica commedia, e definirla commedia è da subito insistere sulla
dimensione antisemita che contraddistingue il testo: Scaramella non
rinuncia a far ridere il pubblico, dedicando a ciò una buona parte della
messa in scena (complici degli attori perfetti nel ruolo, basti pensare ad
Antonio Tintis nei panni di Graziano, Federico Tolardo in quelli di
Lancillotto, e Sara Putignano in quelli di una Porzia cinguettante e
sarcastica), e lo spettacolo viene valorizzato dall’esecuzione delle
splendide musiche dal vivo.
Ma l’antisemitismo di Shakespeare si registra nel profilo del personaggio
più importante dell’opera, ovvero quello Shylock che tanto successo ha
avuto nell’immaginario occidentale da diventare lo stereotipo tipico
dell’ebreo usuraio, avido e spietato, tanto da venire utilizzato dal Nazismo
durante la persecuzione per legittimare la sua bestiale furia. Sì, perché
non possiamo non considerare che Il mercante di Venezia fu scritta a
fine Cinquecento e tra noi e quest’opera c’è stata la Shoah, ed è
impossibile non ricomprendere la fortuna e la forza di un personaggio
come Shylock alla luce di quanto è accaduto nel Novecento;
l’interpretazione memorabile di Carlo Ragone è profonda, intrisa di
drammaticità, istituzionale, autoritaria potremmo dire: Shylock non è più,
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come il testo sembrerebbe volere, solo un goffo anziano burbero che
merita la derisione della città di Venezia, un miscredente che si lamenta
dei comportamenti a lui rivolti ma che in ogni istante sembra darne adito.
Lo Shylock della Scaramella è un personaggio denso e drammatico, e se il
processo dove viene gabbato dai suoi avversari è ritenuto l’essenza
dell’happy end nella versione classica dell’opera, qui il tono trionfalistico si
smorza. D’altronde, bisogna tener conto del fatto che l’antisemitismo ha
radici antichissime e che ha attraversato tutta la storia occidentale, e non
è un’eresia sostenere che Shakespeare appartenga a questo flusso; anche
perché il paese più antisemita della storia probabilmente è proprio
l’Inghilterra, che mise al bando gli ebrei nel Duecento proseguendo fino
all’epoca elisabettiano-shakespeariana. Per tornare al discorso della
grandezza dei classici e della potenza del loro genio, non possiamo non
aggiungere però un elemento affascinante: forse è proprio Shakespeare a
segnare la fine dell’esclusione forzata della confessione giudaica, e non è
un caso che a pochi anni dalla sua morte sarà Cromwell ad abolirla
invitando gli ebrei e tornare nel Regno Unito. Probabilmente
ha contribuito l’incipit dell’opera, dove è lo stesso poeta a sostenere che
d’altronde il mondo è un palcoscenico e ognuno recita la propria parte (e
l’ebreo usuraio non fa che recitare la sua parte nel mondo), ma ancora più
decisivo è stato il famoso monologo di Shylock «Non ha occhi un ebreo?»,
reso da brividi da Ragone su una scena spoglia e solo sul palco; un
monologo diventato celebre per essere stato un manifesto contro
l’antisemitismo, anche se nella scena successiva Shylock sostiene di voler
vedere morta la figlia perché gli ha sottratto il suo tesoro. Quel monologo
fa cortocircuito, come se entrasse in tensione con tutto il resto dell’opera,
aprendo una fessura, una voragine del senso; la messa in scena del Globe
coglie questa stortura, cerca di riscattare il profilo di Shylock dandogli
un’autorità e un’impostazione signorile. Scelta intrigante, ma anche
pericolosa: un conto è ridurre l’ebreo nel classico stereotipo (ognuno recita
una parte), riducendolo a qualcosa di astratto, un conto dargli una
concretezza tale da farne un personaggio drammatico, che può comparire
agli occhi del pubblico come un perseguitato, o peggio ancora una
canaglia che merita la punizione che gli è stata inflitta.
Questo vortice di significati contraddittori non s’acquieta e questa è anche
la potenza del testo, ma un fattore specifico della regia di Scaramella
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rende tutto ancora più intricato e pericoloso: si tratta dei costumi fin de
siècle, costumi ottimi e affascinanti ma che proiettano le vicende in
un’Europa a cavallo tra Ottocento e Novecento, in piena modernità
borghese. Si tratta di una scelta registica che merita attenzione, perché
molte sono le implicazioni legate a essa: la borghesia commerciale e
mercantile di fine Ottocento si trova perfettamente a suo agio
nell’universo della Serenissima, luogo dove Shakespeare ha ambientato la
commedia (perché, aggiungiamo, di ebrei non poteva averne visti in
Inghilterra per le ragioni di cui sopra, perciò Shylock era già dominato da
un antisemitismo radicato nell’immaginario occidentale diffuso e non
determinato dall’esperienza empirica). Così come lo straordinario
ragionamento che scaturisce dal dibattito del processo, sul significato
cristiano della clemenza e del suo rapporto con la rigidità della legge, il
conflitto tra caritas e la lucidità spietata del diritto, dove tale conflitto non
è risolto alla maniera dei classici greci in tono tragico quanto evidenziando
come la spietatezza della legge “ingiusta” possa essere corretta all’interno
dei suoi stessi vincoli (un’idea di una modernità spaventosa, che
implicherebbe un’argomentazione filosofica che non è il caso di portare
avanti in questa sede). Insomma, i personaggi che sembrano usciti dalla
grande tradizione del romanzo europeo moderno contribuiscono ad
avvicinare tutto il dibattito sul significato della giustizia verso la nostra
epoca, ma se l’antisemitismo nella Recherche di Proust era un fatto che
annunciava la disgrazia dell’Olocausto, perché già evidenti erano le
storture e le implicazioni razzistiche (e questo Proust lo intuì, anche in
relazione all’affare Dreyfus), qui il rischio è sempre quello di trovare delle
giustificazioni storiche ed emotive della persecuzione del popolo ebraico;
quei costumi rappresentano un’epoca nella quale lo spirito dell’uomo era
arrivato a un diverso livello di maturazione, che dialetticamente avrebbe
portato alla catastrofe e allo stesso tempo al dubbio sulla legittimità
dell’antisemitismo; calare le vicende del Mercante di Venezia alla vigilia
di tale catastrofe rappresenta una scelta audace che la Scaramella
gestisce bene per quanto resti molto più ambigua e “strisciante” rispetto
alla scelta di ambientare l’opera nel contesto nella quale è stata
originariamente scritta, ovvero cinquecento anni fa. I personaggi borghesi
che festeggiano per la punizione inflitta all’avido ebreo, dove è la stessa
figlia a gioire perché il padre è caduto in miseria per mezzo dei cavilli
giuridici, riflettono l’orrore di quel razionalismo che raggiungendo il suo
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apice, negli anni trenta del secolo scorso, si capovolse in barbarie:
possiamo godere di questo finale felice?
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Lo spettacolo continua:
Silvano Toti Globe Theatre
Parco di Villa Borghese, P.zza di Siena – Roma
fino al 7 agosto
ore 21.15, lunedì riposo
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Il mercante di Venezia
di William Shakespeare
regia Loredana Scaramella
scene e costumi Susanna Proietti
costumi Maria Filippi
musiche a cura di Stefano Fresi
con Fausto Cabra, Mimosa Campironi, Diego Facciotti, Paolo
Giangrasso, Roberto Mantovani, Fabio Mascagni, Ivan Olivieri,
Loredana Piedimonte, Sara Putignano, Carlo Ragone, Mauro
Santopietro, Antonio Sapio, Antonio Tintis, Federico Tolardo.
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