MARCHI - Dipartimento di Giurisprudenza

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MARCHI
[Nota in tema di esaurimento del diritto di marchio]
Corte giustizia Unione Europea Sez. IV, 03 giugno 2010, n. 127
Corte giustizia comunita' Europee Sez. IV, 03 giugno 2010, n. 127
FONTE
Giur. It., 2011, 2
Con la decisione in commento la Corte di giustizia europea ha affrontato il tema dell'esaurimento dei diritti del titolare del marchio ai sensi degli artt. 7 Dir.
89/104/CEE e 13 Reg. (CE) n. 40/1994(1), che si verifica in seguito alla immissione in commercio di prodotti marchiati, quando questa venga effettuata, nello
Spazio economico europeo (SEE), direttamente dal titolare o comunque con il suo consenso (2).
Nel caso in esame la titolare della privativa produceva profumi con marchi propri o su licenza, commercializzandoli poi attraverso distributori selezionati, anche al
di fuori dello SEE. Il contenzioso sorgeva con riferimento ad alcuni campioni di profumi (c.d. tester) recanti un marchio comunitario, inizialmente consegnati dalla
titolare ad una propria depositaria al di fuori del territorio rilevante ai fini dell'esaurimento. Tale consegna avveniva con l'espressa previsione contrattuale che
non v'era trasferimento della proprietà dei contenitori marchiati, con la sola autorizzazione a far consumare il contenuto degli stessi a fini promozionalidimostrativi e con l'espresso divieto di procedere alla loro vendita; gli esemplari oggetto di controversia, inoltre, erano confezionati all'interno di scatole che
differivano da quelle tradizionalmente utilizzate per i prodotti commercializzati dalla titolare e recavano impressa la dicitura ''vietata la vendita''. Detti tester
venivano introdotti nello SEE da una società terza, la quale li trasferiva ad una catena di profumerie tedesca che li commercializzava al dettaglio. Dopo una
prima pronuncia favorevole all'asserita contraffattrice, la Corte d'appello adita dalla titolare riteneva opportuno rivolgere alla Corte di giustizia una domanda di
pronuncia pregiudiziale, avente ad oggetto la determinazione dell'effetto della prima consegna di prodotti tutelati da privativa di marchio alle condizioni
restrittive sopra descritte, perché chiarisse innanzitutto se essa poteva essere qualificata come immissione in commercio ai sensi della normativa richiamata e
dunque determinare l'esaurimento della privativa.
I giudici comunitari hanno ritenuto di risolvere la questione attribuendo precipua importanza alla valutazione del consenso prestato dalla titolare del diritto. Essi
hanno considerato anzitutto la circostanza che il primo atto di disposizione era avvenuto al di fuori dello SEE e la titolare non aveva autorizzato l'importazione di
quei prodotti, escludendo recisamente la configurabilità di un consenso implicito. La Corte ha poi affermato che, quand'anche la titolare avesse autorizzato
(rectius, anche solo implicitamente consentito) la circolazione di quei prodotti all'interno dei territori dove operava l'esaurimento comunitario, il fenomeno
estintivo(3) del diritto non si sarebbe comunque verificato, difettando tuttavia la sua volontà di immettere nel mercato quegli esemplari; i beni erano, infatti,
destinati ad uno scopo diverso rispetto alla loro circolazione commerciale. La pronuncia in commento si inserisce, così, nel solco di quella giurisprudenza che ha
nel tempo assunto un indirizzo chiaro in punto determinazione del consenso all'immissione in commercio all'interno dello SEE da parte dei titolari del diritto,
riconducendo ad ipotesi marginale quella del consenso implicito (4) e stabilendo che l'onere della prova della sussistenza di questo presupposto fondamentale
dell'esaurimento incombe sul soggetto cui venga imputata la violazione della privativa(5).
La decisione si segnala soprattutto perché l'argomento del consenso rileva abitualmente nei casi di importazione parallela, laddove sia già stato compiuto un atto
dispositivo astrattamente idoneo a determinare l'esaurimento, da parte di un soggetto legittimato a disporre del diritto, ma al di fuori di territori dove
opererebbe il principio dell'esaurimento e i beni vengano successivamente introdotti all'interno dello SEE contrariamente a quanto voluto dal titolare. In quel
caso, infatti, in virtù della decisione del legislatore europeo di non adottare il principio dell'esaurimento internazionale, il diritto non subisce limitazioni e i titolari
mantengono la piena facoltà di impedire, all'interno dello SEE, lo sfruttamento economico di esemplari originariamente destinati al commercio in mercati extraeuropei (6). Meno frequenti sono invece i casi in cui l'elemento territoriale è irrilevante e si discute piuttosto sull'individuazione di quali atti di disposizione iniziali
siano in assoluto idonei a determinare l'esaurimento del diritto di privativa; quali atti negoziali, cioè, implichino la destinazione al mercato del bene protetto(7). Il
caso paradigmatico è rappresentato, evidentemente, dal contratto di compravendita con cui il titolare trasferisce integralmente il diritto di disposizione sul bene;
l'esaurimento si perfeziona però anche nel caso di contratti che costituiscano un diritto di mero godimento (locazione, leasing), poiché il titolare ne trae
comunque un profitto economico, nonché nei casi di contratti a titolo gratuito, cui si accompagni però un'espressa rinuncia al profitto da parte del titolare(8). Da
ciò si deduce che, seppure si sia talvolta osservato che la privativa di marchio abbia quale elemento caratterizzante quello di permettere al titolare di
determinare il numero degli esemplari di beni marchiati che egli vuole far circolare sul mercato (9), ciò che più di tutto rileva è la sua facoltà di impedire lo
sfruttamento commerciale di prodotti incorporanti il segno tutelato, laddove egli non ne abbia tratto alcun utile economico iniziale(10).
Nel caso di cui alla sentenza in commento la convenuta affermava che la prima consegna dei tester alla depositaria comportava esaurimento poiché a
quest'ultima era stata trasferita una facoltà di disposizione de facto sui beni controversi. La Corte ha negato tale ricostruzione sulla base delle previsioni
contrattuali che escludevano espressamente il trasferimento della proprietà e la destinazione commerciale di quegli esemplari . A questo tema si ricollega,
dunque, la problematica relativa alla rilevanza erga omnes della limitazione contrattuale del potere di disposizione dei beni, imposta dai titolari del diritto ai
propri aventi causa in occasione del primo atto dispositivo di un prodotto incorporante il marchio. Allo stato, l'orientamento della Corte di giustizia europea pare
attribuire importanza decisiva e centrale alle specificazioni e limitazioni contrattuali delle facoltà di disposizione dell'uso dei beni protetti da marchio comunitario,
imposte dal titolare del diritto al momento della prima consegna o licenza di utilizzo, con conseguente opponibilità ai terzi di quanto stabilito nei negozi dispositivi
apicali (11).
----------------------La vicenda in esame è iniziata precedentemente al consolidamento, con l'integrazione delle modifiche apportate nel corso degli anni, dei testi normativi cui ci
si richiama in questa sede. Attualmente le fonti cui fare riferimento in materia di marchi comunitari sono dunque la Dir. 2008/95/CE, e il Reg. (CE) n. 207/2009
sul marchio comunitario (Rmc). Quanto ai temi qui trattati, tuttavia, non si segnala alcuna modifica sostanziale nelle nuove versioni, rispetto a quelle di cui in
epigrafe.
(1)
In generale sul tema dell'esaurimento cfr. Franzosi, Commento all'art. 5 C.p.i., in Il Codice della proprietà industriale a cura di Scuffi, Franzosi, Fittante, 2005,
66, nonché Sarti, Commento all'art. 30 TCE, in Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza a cura di Ubertazzi, Padova, 2007, 141.
(2)
La Corte si riferisce ripetutamente in sentenza all'estinzione del diritto di privativa. L'estinzione è però la conseguenza che discende dalle sole ipotesi di nullità
o decadenza del marchio e determina la definitiva consumazione del diritto che altrimenti non ha alcun limite temporale prefi ssato di durata. L'esaurimento è
invece un fenomeno che implica una limitazione alla facoltà del titolare di interferire nelle ulteriori commercializzazioni di determinati esemplari dei beni protetti
dalla sua privativa e da lui (o con il suo consenso) introdotti in commercio, cfr. Ricolfi, in Auteri, Floridia, Mangini, Olivieri, Ricolfi, Spada, Diritto industriale.
Proprietà intellettuale e concorrenza, 2005, 111 e 134.
(3)
V. da ultimo, Corte giust. CE, 15 ottobre 2009 (in causa C-324/08), caso Diesel, laddove si ribadisce che il titolare debba «esprimere con certezza una
rinuncia» al diritto di vietare l'introduzione nello SEE dei prodotti a proprio marchio, affinché si verifichi l'esaurimento. Ciò non esclude, peraltro, che da
determinati atti dispositivi del titolare non si possano trarre conseguenze estintive del suo diritto di privativa, anche in presenza di clausole che vorrebbero
escludere tale effetto; così, ad esempio, in un'interessante pronuncia resa dalla Corte d'appello di Inghilterra e Galles, è stato ritenuto che la vendita o
l'autorizzazione alla vendita di quantità ingenti di prodotti costituiva un'immissione in commercio incidente sulla privativa ai sensi della normativa di cui qui
trattasi, anche quando il contratto apicale prevedeva delle limitazioni relative alla possibilità di rivendere i prodotti ad operatori commerciali europei, cfr. EWCA
(4)
Civ. 176, 8 marzo 2007, caso Habanos, in EIPR, 2007, 29.
Diffusamente sul punto cfr. Hays, The free movement (or not) of trademark protected goods in Europe, in Trademark law and theory: a handbook of
contemporary research a cura di Dinwoodie, Janis, Oxford, 2008, 222.
(5)
Sul tema dell'importazione parallela, ampiamente, Hays, Parallel importation under European Union law, Londra, 2003. Da ultimo, quanto alla giurisprudenza
nazionale, si rimanda poi alla controversa Cass., 21 dicembre 2007, n. 27081, in Giur. It., 2008, 2220, con nota critica di Saraceno, Note in tema di importazioni
parallele, contraffazione di marchi e concorrenza sleale e ai relativi rimandi.
(6)
(7)
A tal proposito v. le considerazioni, sempre attuali, di Sarti, Diritti esclusivi e circolazione dei beni, Milano, 1996, 82.
(8)
V. Sironi, Commento all'art. 5 C.p.i., in Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, cit., 180.
(9)
Phillips, Trade mark law: a practical anatomy, Oxford, 2003, 270.
Cfr. Maniatis, Botis, Trade marks in Europe: a practical jurisprudence, Londra, 2010, 718. La sentenza peraltro non chiarisce, e ciò avrebbe forse potuto
rappresentare uno spunto d'interesse, quale fosse il regime fiscale applicato da parte della titolare al momento della prima cessione verso la depositaria.
(10)
A tal proposito è utile segnalare come il tema della limitazione delle facoltà di disposizione del marchio di un depositario, quanto alle forme e modalità della
commercializzazione dei prodotti che lo incorporino, ha già costituito oggetto di una recente pronuncia della stessa Corte di giustizia in materia di marchi che
godono di rinomanza. In quella sede è stato ritenuto che qualora i contratti apicali di disposizione del diritto di marchio non consentano la commercializzazione
dei prodotti al di fuori di una determinata filiera distributiva, l'eventuale vendita che intervenga al di fuori dei canali predefiniti rappresenta una forma di utilizzo
del marchio non consentita e perciò inidonea a provocare l'esaurimento del diritto di privativa. Trattavasi, nel caso di specie, di prodotti di abbigliamento di lusso
e la Corte ha assommato questa tutela favorevole al titolare del diritto di privativa con quella già prevista dall'art. 8, n. 2, Dir. 89/104/CEE (ora 2008/95/CE) che
prevede la possibilità per il titolare del marchio di opporsi agli atti di commercializzazione, anche successivi al primo che avrebbe determinato l'esaurimento del
diritto, in caso di potenziale detrimento del marchio, v. Corte giust. CE, 23 aprile 2009 (in causa C-59/08 P), caso Dior, in Dir. Ind., 2009, 538, con nota di
Landi, Titolare di marchio di prestigio e rivendita dei propri prodotti in saldo.
(11)
MARCHI
Sezione specializzata del Tribunale di Torino: tutela cautelare in tema di esaurimento del diritto di marchio e importazioni parallele
Anna Saraceno e Marco Venturello
Trib. Torino (Ord.), 16 gennaio 2004
FONTE
Giur. It., 2004, 7
La Sezione specializzata in materia di proprietà industriale e intellettuale del Tribunale di Torino si pronuncia, dando un giudizio conforme alla giurisprudenza sia
italiana che comunitaria sul punto, su di un tema molto dibattuto negli ultimi anni: l’«esaurimento del diritto di marchio» ed il fenomeno delle «importazioni
parallele» (in dottrina, per un inquadramento delle diverse problematiche: Ubertazzi, Commentario breve al diritto della concorrenza, Padova, 2004, 359; La
Villa-Guidetti, Marchi, in Brevetti, marchio, ditta, insegna, coordinato da Franceschelli, II, in Giur. Sist. di Dir. Civ. e Comm., diretta da Bigiavi, Torino, 2003,
723; Trigona, Il marchio, la ditta, l’insegna, Padova, 2002, 297; Ricolfi, I segni distintivi, diritto interno e comunitario, Torino, 1999, 148; Sena, Il nuovo diritto
dei marchi, Milano, 1998, 149).
Con l’espressione «esaurimento del diritto di marchio» s’intende la regola secondo la quale l’esclusiva non si estende oltre la prima commercializzazione
legittima, avvenuta ad opera del titolare o con il suo consenso, del bene contrassegnato dal marchio. Dalla prospettiva dell’Unione europea, quale mercato unico,
si è poi sempre differenziato tra: (i) «esaurimento comunitario»: ossia il caso in cui la prima immissione in commercio dei beni recanti il marchio avvenga, ad
opera del titolare o con il suo consenso, all’interno del territorio dell’Unione europea (in realtà, per maggiore precisione, la stessa regola vale, in forza
dell’Accordo internazionale che ha dato vita allo Spazio economico europeo (SEE) del 2 maggio 1992, per tutti i Paesi aderenti al SEE: Unione europea, Islanda,
Liechtenstein e Norvegia. Cfr. Ricolfi, op. cit., 151), e (ii) «esaurimento internazionale»: con cui s’intende la possibilità di applicazione del principio
dell’esaurimento nel caso in cui la prima immissione in commercio dei beni recanti il marchio avvenga, ad opera del titolare o con il suo consenso, al di fuori del
territorio dello SEE e, quindi, i medesimi beni vengano reimportati all’interno di tale territorio (Frignani, Le importazioni parallele: strumenti per incentivarle
all’interno dell’Unione Europea e per bloccarle quando provengono dall’esterno, in Giur. piemontese, 2000, 377).
Il concetto di esaurimento si applica, oltre ai marchi, anche ad altri titoli di proprietà industriale o intellettuale [ad esempio, per i brevetti per invenzione, si veda
l’art. 1 del R. D. 29 giugno 1939, n. 1127; per le topografie dei prodotti a semiconduttori si veda l’art. 4, 5° comma, della L. 21 febbraio 1989, n. 70; per i
disegni e modelli comunitari si veda l’art. 21 del Regolamento (CE) n. 6/2002; per il diritto d’autore, si veda, ad esempio, l’art. 17 e altri della L. 22 aprile 1941,
n. 633]; anche se le problematiche sono analoghe, ai fini del presente commento ci si limiterà ad analizzare il profilo relativo ai marchi.
Con l’espressione «importazioni parallele» s’intende, invece, il fenomeno per cui operatori economici effettuano importazioni di beni, per conto proprio o per
conto di terzi, al di fuori dei circuiti di distribuzione conosciuti dal titolare o licenziatario del marchio che contraddistingue tali beni. Gli importatori paralleli, che si
riforniscono presso grossisti o rivenditori del Paese dove i beni sono prodotti o venduti, lo fanno per trarre profitto dalle differenze di prezzo che si registrano tra
il Paese dove il bene è acquistato ed il Paese in cui questo sarà posto nuovamente sul mercato. Il dato economico, che sta alla base del fenomeno
dell’«esaurimento dei diritti di marchio» e delle «importazioni parallele» consiste infatti nella possibilità della compartimentazione dei mercati per mezzo dell’uso
dei diritti di marchi e della conseguente possibilità di adottare diverse politiche di prezzo, a seconda delle differenti aree geografiche che si sono potute
compartimentare (per un’analisi, anche economica, delle «importazioni parallele»: Pardolesi, C’era una volta in Europa: di diritto antitrust comunitario,
importazioni parallele ed idoli infranti, in Foro It., 2001, IV, 78; Frignani, op. cit., 365; Leone, Importazioni parallele e tutela del diritto di marchio: il caso
Silhouette, in Contratto e Impresa/Europa, Padova, 1998, 581).
In particolare, il principio di esaurimento comunitario dei diritti di marchio, come sopra descritto, trova una disciplina di diritto positivo all’art. 1 bis, 2° comma,
del R. D. 21 giugno 1942, n. 929 (introdotto dall’art. 2 del D. Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, che ha recepito in Italia la Direttiva n. 89/104/CEE, sul
ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, come modificata dall’Accordo sullo Spazi o economico europeo del 2 maggio
1992), nonché all’art. 13 (rubricato, per l’appunto, «Esaurimento del diritto conferito dal marchio comunitario») del Regolamento n. 40/94/CE, istitutivo del
marchio comunitario. Le due disposizioni contengono regole analoghe sia per i marchi italiani che per i marchi comunitari.
A livello di giurisprudenza comunitaria successiva all’adozione delle norme ora richiamate, si deve innanzitutto richiamare il caso Silhouette, in cui la Corte di
giustizia delle Comunità europee ha affermato il principio dell’esaurimento, ma limitatamente all’esaurimento comunitario, stabilendo che l’art. 7, n. 1 della
Direttiva n. 89/104/CEE debba essere interpretato nel senso che il marchio conferisce al suo titolare il diritto di vietare ad un terzo l’uso all’interno dello SEE del
medesimo per prodotti messi in commercio con detto marchio in uno Stato che non è uno Stato contraente dell’Unione europea (rectius dello SEE). La Corte in
tal caso ha quindi respinto l’argomento, sostenuto da alcuni Stati membri, secondo cui, dato che la Direttiva all’articolo sopra citato ha richiamato solamente il
principio dell’esaurimento comunitario, allora, per quanto riguarda l’adozione o meno del principio dell’esaurimento internazionale, i singoli Stati membri
sarebbero stati liberi di decidere (Corte giust. CE, 16 luglio 1998, causa C-355/96, in Giur. It., 1998, 2323, con nota di Peyron, Esaurimento internazionale sí
esaurimento internazionale no: la Corte di Giustizia tra protezionismo e liberalizzazione del mercato mondiale; in Riv. Dir. Ind., 1999, 411, con nota di Dragotti,
Esaurimento, importazioni parallele e rischio di confusione; in Dir. Ind., 1999, 27, con commento di Bellomunno, L’esaurimento del diritto di marchio resta
comunitario; in Giust. Civ., 1998, II, 2686, con nota di Albertini, Sull’esaurimento internazionale del marchio; in Giur. Dir. Ind., 1998, 3864; e in Dir. Scambi
Internaz., 2000, 6, 51, con commento di Rubini, Le stranezze della giurisprudenza della Corte di Giustizia tra importazioni parallele da Paesi terzi, esaurimento
del marchio e norme sulla concorrenza).
Successivamente, la giurisprudenza Silhouette è stata ripresa dalla Corte di giustizia delle Comunità europee nel caso Sebago, in cui è stata però affrontata
un’ulteriore questione relativa alla nozione di «consenso», cosí come prevista all’art. 7, n. 1, della Direttiva n. 89/103/CEE ossia consenso dato dal titolare del
marchio all’immissione in commercio dei beni contraddistinti dal marchio medesimo. In particolare, nel caso Sebago i giudici comunitari hanno precisato che il
fatto che il titolare del marchio abbia consentito all’importazione parallela di prodotti affini non significa che abbia, almeno implicitamente, anche consentito
all’importazione parallela dei beni oggetto di causa; il «consenso» deve infatti essere dato per ogni esemplare del prodotto per il quale l’esaurimento è invocato e
non genericamente per quel tipo di beni e, piú in particolare, il consenso, per implicare esaurimento dei diritti di marchio, dovrebbe riguardare la specifica partita
di prodotti per cui si controverte (Corte giust. CE, 1° luglio 1999, causa C-173/98, in Riv. Dir. Ind., 2000, 70, con nota di Calboli, Importazioni da paesi terzi,
principio di esaurimento e «consenso» del titolare del marchio: recenti sviluppi alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee; e in
Dir. Scambi Internaz., 2000, 6, 51, con commento di Rubini, cit.; in Giur. Dir. Ind., 1999, 4046).
La nozione di «consenso» di cui all’art. 7, n. 1, della Direttiva 89/104/CEE viene ulteriormente interpretata dalla Corte di giustizia delle Comunità europee nel
successivo caso Davidoff, decisione espressamente citata dal Giudice delegato nel primo provvedimento in epigrafe. In tale decisione è stato affermato che il
consenso del titolare del segno distintivo alla messa in commercio, all’interno del SEE, di prodotti contrassegnati con tale marchio, precedentemente messi in
commercio al di fuori del SEE dal titolare stesso o con il suo consenso, può essere tacito quando è desumibile da elementi e circostanze anteriori, concomitanti o
posteriori all’immissione in commercio al di fuori del SEE, tali da esprimere con certezza una rinuncia del titolare al proprio diritto di opporsi ad un’immissione in
commercio all’interno del SEE. Nella medesima decisione viene, inoltre, precisato che il consenso tacito non può però risultare: (i) da una mancata
comunicazione, da parte del titolare del marchio, a tutti gli acquirenti successivi dei prodotti immessi in commercio al di fuori del SEE, della sua opposizione a
una messa in commercio all’interno del SEE; (ii) da una mancata indicazione, sui prodotti, di un divieto di messa in commercio all’interno del SEE; (iii) dalla
circostanza che il titolare del marchio abbia ceduto la proprietà dei prodotti contrassegnati con il marchio senza imporre restrizioni contrattuali e che, in base alla
legge applicabile al contratto, il diritto di proprietà ceduto comprenda, in mancanza di siffatte restrizioni, un diritto illimitato di rivendita o, quanto meno, un
diritto di vendere successivamente i prodotti all’interno del SEE. Infine, nella medesima pronuncia, si dice che è irrilevante, per quanto concerne l’esaurimento
del diritto esclusivo del titolare del marchio, il fatto: (i) che l’operatore il quale importa prodotti contrassegnati con il marchio sia all’oscuro dell’opposizione del
titolare alla loro immissione in commercio all’interno del SEE o alla loro messa in commercio su tale mercato da parte di operatori diversi dai rivenditori
autorizzati; oppure (ii) che i rivenditori e i grossisti autorizzati non abbiano imposto ai propri acquirenti restrizioni contrattuali che riproducessero siffatta
opposizione, benché essi ne fossero stati informati da parte del titolare del marchio (Corte giust. CE, 20 novembre 2001, causa C-414-416/99 in Foro It., 2002,
IV, 7, con nota di Bastianon; in Impresa, 2002, 504; in Riv. Dir. Internaz. Priv. e Process., 2002, 465; e in Dir. e Prat. Soc., 2002, 16, 54, con nota di Pizzirusso,
Esaurimento comunitario del diritto di marchio e importazioni parallele). In merito ai diversi elementi messi in rilievo dalla Corte di giustizia delle Comunità nel
caso Davidoff relativamente alla nozione di «consenso», si noti che nel caso di specie la società titolare del marchio, come risulta dal provvedimento in epigrafe,
aveva adottato diversi accorgimenti per evitare di ricadere nella fattispecie del consenso tacito. In particolare: 1) l’aver utilizzato nella contrattualistica apposite
clausole relative ai limiti territoriali di utilizzo del marchio, 2) l’aver adottato un sistema di controllo della provenienza dei beni mediante l’inserimento di una
diversa banda pluricromatica all’interno di ogni prodotto, corrispondente alle diverse aree geografiche, che consente di identificare l’origine del bene, nonché la
sua destinazione.
Infine, sempre im merito alla giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee con la recente sentenza nel caso Van Doren (Corte giust. CE, 8
aprile 2003, C-244/00, in Raccolta, 2003, I-03051) la Corte si è pronunciata in merito all’onere della prova nei casi in cui si discute di esaurimento dei diritti di
marchio, profilo che è stato affrontato anche dalla Sezione specializzata del Tribunale di Torino nel provvedimento in epigrafe. La Corte ha dichiarato che è
compatibile con gli artt. 5 e 7 della Direttiva n. 89/104/CEE una normativa nazionale che preveda che l’esaurimento del diritto di marchio possa essere sollevato
come eccezione dal soggetto convenuto in giudizio dal titolare del marchio e che quindi, in linea generale, tale soggetto debba provare i presupposti
dell’esaurimento. Fatta questa affermazione di principio (conforme a quanto deciso dalla Sezione specializzata del Tribunale di Torino nel provvedimento in
epigrafe) la Corte, sempre nel caso Van Doren, ha poi aggiunto che, tuttavia, le esigenze derivanti dalla tutela della libera circolazione dei beni, sancita, in
particolare, dagli artt. 28 e 30 del Trattato CE, possano richiedere che la regola generale, secondo cui l’onere della prova grava sul convenuto, sia sottoposta a
taluni adattamenti. Infatti, nel caso in cui il convenuto riesca a dimostrare che sussiste un rischio concreto di compartimentazione dei mercati nazionali se egli
stesso sopporta l’onere della prova dell’immissione in commercio dei prodotti all’interno del SEE da parte del titolare del marchio ovvero con il suo consenso, in
tal caso l’onere della prova si ripartisce tra attore e convenuto e tocca al titolare del marchio dimostrare che i prodotti sono stati inizialmente messi in commercio
da lui stesso o con il suo consenso al di fuori del SEE. Qualora sia fornita tale prova, è compito poi del convenuto dimostrare l’esistenza di un consenso del
titolare alla successiva commercializzazione dei prodotti nel SEE.
In tutti i precedenti sopra menzionati, la Corte di giustizia della CE si è pronunciata in merito a casi in cui i beni oggetto di giudizio consistevano in prodotti
originali, in nessun modo alterati.
Pare opportuno aggiungere ancora che, in tema di esaurimento dei diritti di marchio, un ulteriore problema che si è posto in diverse occasioni di fronte alla Corte
di giustizia delle Comunità europee è quello relativo al riconfezionamento (che può anche consistere in una rietichettatura, ovvero in un vero e proprio
rebranding) del bene, nella maggior parte prodotti farmaceutici. In termini generali e senza entrare nello specifico dei singoli casi ad oggi discussi, si può dire
che il titolare del marchio non può opporsi all’importazione del prodotto riconfezionato dal terzo quando la confezione esterna originale non possa essere
utilizzata nel Paese dell’importazione, a causa di una particolare normativa nazionale. Qualora, invece, il riconfezionamento da parte dell’importatore non fosse
necessario, il titolare del marchio acquisterebbe nuovamente il diritto di opporsi allo smercio del prodotto riconfezionato, non essendoci in questo caso
esaurimento dei diritti [Zanolini, Note alla giurisprudenza comunitaria in materia di marchi d’impresa, in Riv. Dir. Ind., 2001, 375; La Villa-Guidetti, op. cit., 727;
per la giurisprudenza piú recente, si vedano: Corte giust. CE, 12 ottobre 1999, causa C-379/97, in Dir. Ind., 2000, n. 1, 15, con commento di Foglia,
Esaurimento del diritto di marchio e riconfezionamento; Id., 11 luglio 1996, cause C-71/94, C-72/94 e C-73/94, in Guida al Dir., 1996, n. 38, 91, con nota di
Pagano, La tutela dei marchi non deve contribuire all’isolamento artificioso dei mercati nazionali, e in Giur. Dir. Ind., 1996, 3557; non pubblicate, ma disponibili
sul sito della Corte di giustizia delle Comunità europee, al nome di dominio http://curia.eu.int: Id., 8 maggio 2003, causa C-113/01; Id., 10 settembre 2002,
causa C-172/00; Id., 23 aprile 2002, causa C-143/00. Per due casi di rietichettatura, non relativi a prodotti farmaceutici, si vedano: Corte giust. CE, 11
novembre 1997, causa C-349/95, in Giur. It., 1998, 1866, con nota di Peyron, Questioni d’etichetta: la Corte di Giustizia ed il principio dell’esaurimento del
diritto. Verso una definizione sempre piú complessa del marchio d’impresa; in Giust. Civ., 1998, I, 1471, con nota di Di Garbo, Marchio e libera circolazione delle
merci: diritti in conflitto nella giurisprudenza della Corte di Giustizia (il caso Ballantine); e in Giur. Dir. Ind., 1998, 3862; Id., 20 marzo 1997, causa C-352/95, in
Riv. Dir. Ind., 1997, 352, con nota di Guidetti, Esaurimento comunitario contro esaurimento internazionale: un problema tuttora irrisolto].
A livello di giurisprudenza nazionale relativa all’art. 1 bis, 2° comma, del R. D. 21 giugno 1942, n. 929 (ad oggi, perlomeno in Italia, non risultano pronunce
sull’art. 13 del Regolamento n. 40/94/CE), successivamente alla giurisprudenza Silhouette anche i giudici italiani hanno abbandonato le incertezze in merito
all’esaurimento internazionale, affermando, sia in sede di giurisprudenza di legittimità che di merito, che il medesimo non opera [ Cass., 18 novembre 1998, n.
11603, in Riv. Dir. Ind., 2000, 33, con nota di Guidetti, L’esaurimento internazionale del marchio nella giurisprudenza italiana e comunitaria; in Giust. Civ.,
1999, I, 1401, con nota di Albertini, Esaurimento internazionale dei marchi (con irrilevanza delle operazioni di mero sdoganamento), norme sull’etichettatura e
pubblicazione della sentenza; e in Giur. Dir. Ind., 1998, 3740; Trib. Milano, 17 marzo 2001 (ord.), in Giur. Dir. Ind., 2001, 4274; Id. Bologna, 15 aprile 2000,
ibidem, 4221; Id. Bologna, 28 febbraio 2000, ibidem, 4219; Id. Catania, 13 ottobre 1999, ivi, 1999, 4028; Id. Bologna, 4 marzo 1999, in Dir. Ind., 1999, 3,
215, con commento di Medri, Esaurimento ed importazioni da paesi terzi; App. Milano, 31 luglio 1998, in Giur. Dir. Ind., 1999, 3942; Trib. Milano, 17 dicembre
1998, ibidem, 3968; Id. Milano, 9 aprile 1998 (ord.), in Riv. Dir. Ind., 1998, 415, con nota di Casarini, Importazioni parallele: giurisprudenza italiana e
giurisprudenza comunitaria a confronto; Id. Bologna, 27 giugno 1997 (decr.), 17 luglio 1997 (decr.) e 2 ottobre 1997 (decr.), in Dir. Ind., 1998, 1, 15, con nota
di Mancuso, Contraffazione di marchio mediante importazioni parallele ed abuso della personalità giuridica; App. Milano, 11 ottobre 1996, in Giur. Dir. Ind.,
1997, 3619, in Nuova Giur. Comm., 1997, 507, con nota di Chindemi, Concorrenza sleale per contraffazione di marchio internazionale da parte di società
collegate alla titolare del marchio registrato e diritto alla prima commercializzazione dei prodotti e in Dir. Ind., 1997, 5, 391; Trib. Treviso, 20 marzo 1996, in
Giur. Dir. Ind., 1996, 3475]. Nel provvedimento in epigrafe anche il Giudice delegato della Sezione specializzata presso il Tribunale di Torino ha seguito
l’orientamento, ormai consolidato, del non esaurimento internazionale dei diritti di marchio.
La giurisprudenza italiana si è anche già pronunciata sul profilo relativo all’onere della prova nei giudizi in cui si faccia valere l’esaurimento dei diritti di marchio,
affrontato nel provvedimento in epigrafe e, come si è visto, dalla Corte di giustizia CE nel caso Van Doren sopra menzionato. In particolare, si è detto che spetta
a colui che invoca il principio dell’esaurimento, per legittimare il proprio uso del marchio contro il suo titolare o licenzi atario, l’onere di provare il presupposto per
l’applicazione del principio medesimo, ossia che il prodotto è stato immesso in commercio nella Comunità Europea con detto marchio dal titolare stesso o con il
suo consenso [Trib. Bologna, 21 agosto 1995 (ord.), in Giur. Dir. Ind., 1995, 3342; Id. Torino, 11 luglio 1994 (ord.), ibidem, 3244]. In particolare, con
riferimento a prodotti di marca provenienti da un Paese extracomunitario, l’onere della prova dell’esaurimento comunitario del diritto di marchio non può dirsi
adempiuto con la semplice prova di aver acquistato il bene da commerciante che opera all’interno dell’ambito comunitario, ma è necessaria la prova che costui a
sua volta l’ha importato dal titolare o da un soggetto a ciò abilitato dal primo [Trib. Padova, 20 luglio 1999 (ord.), in Giur. Dir. Ind., 1999, 4021].
L'ESAURIMENTO INTERNAZIONALE DEL MARCHIO
Galli Cesare
Cass. civ. Sez. I Sent., 21 dicembre 2007, n. 27081
FONTE
Dir. Industriale, 2008, 4, 356
I Giudici di legittimità sembrano delineare una sorta di «terza via » rispetto alla fattispecie del cosiddetto esaurimento internazionale del marchio, tra la
posizione della giurisprudenza assolutamente prevalente, che ritiene senz'altro contraffattoria l'importazione parallela di merci sulle quali il marchio è stato
apposto legittimamente, ma che non sono state messe legittimamente in commercio dal titolare o con il suo consenso nell'ambito dell'Unione Europea ovvero
dello Spazio Economico Europeo (1), e l'orientamento largamente minoritario, secondo cui invece tale condotta sarebbe lecita, appunto in quanto si tratterebbe
pur sempre di prodotti originali (2).
È però sin troppo evidente che questa pronuncia è fondata su un equivoco.
Come è noto - e come anche la pronuncia in esame spiega diffusamente - l'esaurimento del marchio è un istituto, elaborato dalla giurisprudenza comunitaria,
che impedisce al titolare di opporsi all'ulteriore circolazione di prodotti immessi in commercio nella Comunità da lui stesso o con il suo consenso, anche
invocando le norme nazionali di Paesi diversi da quello in cui è avvenuta la prima immissione in commercio (art. 5 C.p.i. e art. 13 Regolamento n. 94/40/CE
sul marchio comunitario).
L'esaurimento tuttavia non si spiega se non a partire dal principio che sta a monte di esso, e cioè quello della limitazione territoriale che caratterizza tutti i
diritti di proprietà industriale e quindi anche il diritto di marchio, principio in forza del quale l'esclusiva che ciascuno di essi attribuisce al proprio titolare è
limitata territorialmente al Paese (o, in alcuni casi eccezionali, come il marchio Benelux o il marchio comunitario, al gruppo di Paesi) per il quale essa è
concessa, cosicché anche quando uno stesso marchio o una stessa invenzione sono protetti in più Paesi, vi sono comunque tanti autonomi diritti quanti sono i
Paesi nei quali viene riconosciuta protezione ad un determinato oggetto di privativa. Anche diritti apparentemente sovrannazi onali, come il marchio
internazionale, previsto dall'Arrangement di Madrid del 1891, che viene registrato presso l'ufficio di Ginevra della Organizzazione Mondiale della Proprietà
Intellettuale (OMPI/WIPO), o il brevetto europeo, disciplinato da una convenzione internazionale di origine non comunitaria (la Convenzione sul Brevetto
Europeo del 1973) e concesso dall'Ufficio Europeo dei Brevetti avente sede a Monaco di Baviera, si configurano infatti come fasci, rispettivamente, di marchi e
di brevetti nazionali relativi ai Paesi designati, in ciascuno dei quali essi sono trattati alla stregua della disciplina interna ivi vigente.
Il principio di territorialità pone dunque questi diritti in rotta di collisione con uno dei principî fondamentali del diritto comunitario, e cioè quello della libera
circolazione delle merci all'interno della Comunità: è infatti evidente che in base al richiamato principio di territorialità, che governa la materia della proprietà
industriale, anche all'interno dell'ambito comunitario ad ogni passaggio di frontiera le merci rischiano di imbattersi in un diritto di proprietà industriale diverso
ed autonomo da quello in vigore nel Paese da dove provengono, diritto che, come tale, potrebbe essere invocato per impedirne l'ulteriore circolazione, e quindi
diventare strumento per la compartimentazione dei mercati.
Questo conflitto è stato affrontato, e risolto, dalla giurisprudenza comunitaria appunto enunciando il principio dell'esaurimento comunitario dei diritti di
proprietà industriale (3), la cui base normativa è stata desunta dai Giudici comunitari dall'art. 30 Trattato di Roma (ora art. 28 Trattato CE), a mente del quale
«Sono vietate tra gli Stati membri le restrizioni quantitative all'importazione, nonché qualsiasi misura di effetto equivalente ». Nella sua lettura più estrema,
questo principio doveva operare persino nell'ipotesi in cui il diritto di proprietà industriale parallelo invocato nel Paese d'importazione appartenesse a soggetti
distinti e non collegati al titolare del diritto corrispondente in ragione del quale l'esaurimento era invocato: nel noto caso «Hag », la Corte di Giustizia CE si
spinse sino al punto di ritenere irrilevante che in vari Paesi europei questo marchio appartenesse a soggetti diversi e indipendenti dall'originario titolare (una
società tedesca, le cui aziende in alcuni altri Stati erano state espropriate in seguito alle vicende belliche e cedute forzosamente a terzi), e quindi di negare il
diritto del titolare del marchio in uno di questi Paesi di opporsi all'importazione in quel Paese di caffè decaffeinato recante il marchio Hag prodotto in un altro
Paese dal titolare locale del medesimo marchio (4). Al fondo di questa soluzione vi era peraltro un fraintendimento: nel momento in cui uno stesso segno
appartiene a soggetti diversi in Paesi diversi, infatti, non abbiamo più un unico marchio, ma una pluralità di marchi diversi, ciascuno dei quali informa il
pubblico della titolarità dell'esclusiva in quello Stato in capo a un soggetto diverso: cosicché fa difetto lo stesso presupposto perché possa operare il principio
dell'esaurimento. E infatti la stessa Corte di Giustizia, con un clamoroso revirement, reso ancora più evidente dal fatto che anche la nuova decisione
riguardava il marchio Hag, riconobbe l'inapplicabilità dell'esaurimento a situazioni di questo genere (5), precisando anzi che a tal fine era irrilevante che la
cessione del diritto di proprietà industriale «per Stati » fosse avvenuta forzosamente (come appunto era successo nel caso Hag) ovvero che ad essa
l'originario titolare si fosse determinato liberamente (6): tutto ciò col solo limite che il diritto non venisse invocato proprio con la finalità di compartimentare i
mercati (7).
Come criterio per stabilire quando possano ritenersi giustificati divieti e restrizioni all'importazione derivanti da diritti di proprietà industriale e commerciale (8),
la giurisprudenza della Corte di Giustizia CE ha fatto riferimento alla nozione di «oggetto specifico » del diritto, considerando giustificati questi divieti e
restrizioni appunto in quanto fossero conformi a tale oggetto specifico, e non giustificati quelli che, viceversa, andassero oltre tale oggetto. Anche in questo
caso la base normativa per questa interpretazione era rinvenuta nel Trattato di Roma, e precisamente nel suo art. 36 (ora art. 30 Trattato CE), in base al
quale i divieti di restrizioni all'importazione previsti dalle norme precedenti lasciavano comunque impregiudicati i divieti giustificati, tra l'altro, da motivi di
«tutela della proprietà industriale e commerciale ». In base al criterio dell'oggetto specifico della tutela, la giurisprudenza della Corte di Giustizia comunitaria
ha invece riconosciuto, in particolare proprio in materia di marchi, che il titolare può impedire le importazioni parallele di prodotti originali all'interno della
Comunità (e dello Spazio Economico Europeo), in presenza di «motivi legittimi », tra cui il più importante è l'alterazione dello stato dei prodotti (9), ovviamente
quando tale alterazione sia stata apportata da terzi senza un consenso del titolare del diritto. Proprio in base al criterio sopra indicato, la Corte di Giustizia ha
ritenuto che si debba trattare di modifiche o alterazioni rilevanti nella prospettiva del pubblico, escludendo che siano tali quelle invece che concernono la sola
confezione, senza ripercussioni sul prodotto stesso, a condizione, tuttavia, che il pubblico sia espressamente avvertito del fatto che la modifica della
confezione è opera dell'importatore (10).
Che lo scopo, ma anche la giustificazione, dell'intervento del diritto comunitario in questa materia fosse quello della costruzione del mercato unico è però reso
evidente, proprio in relazione all'esaurimento, dal rifiuto di ammettere la liceità delle importazioni parallele di prodotti originali da Paesi extracomunitari, e cioè
di riconoscere il cosiddetto esaurimento «internazionale » (11); espressamente in tal senso si è espressa anche la Corte di Giustizia CE, che in materia di
marchi ha anzi ritenuto illegittime, per contrasto con l'art. 7 Direttiva n. 89/104/CE le eventuali norme nazionali che prevedano questo esaurimento
«internazionale » (12). In particolare, la Corte ha chiarito che il principio dell'esaurimento non trova applicazione nel caso in cui la prima messa in commercio
dei prodotti recanti il marchio dal titolare o con il suo consenso sia avvenuta fuori dell'Unione Europea o dello Spazio Economico Europeo, a meno che la
volontà del titolare del marchio di consentire l'ulteriore circolazione dei prodotti nel territorio della UE o del SEE sia espressa, oppure sia «desumibile da
elementi o circostanze anteriori, concomitanti o posteriori all'immissione in commercio al di fuori dello Spazio economico europeo, le quali, valutate dal giudice
nazionale, esprimano con certezza una rinuncia del titolare al proprio diritto di opporsi a un'immissione in commercio all'interno dello Spazio economico
europeo » (13).
In modo eguale e contrario, più di recente sempre la Corte di Giustizia comunitaria ha da un lato escluso che la semplice offerta in vendita non seguita dalla
vendita effettiva nel territorio dello Spazio Economico Europeo comporti l'esaurimento del diritto di marchio, in quanto tale condotta non consente al titolare
del diritto di «realizzare il valore economico del marchio », cosicché «anche successivamente a tali atti, il titolare conserva il proprio interesse al
mantenimento di un controllo completo dei prodotti contrassegnati dal marchio al fine, in particolare, di garantirne la qualità » (punti 36-44 della decisione); e
dall'altro lato ha rilevato che l'esaurimento opera ipso facto per effetto della vendita, cosicché «l'eventuale stipulazione, nell'atto di vendita che realizza la
prima immissione in commercio nel SEE, di restrizioni territoriali al diritto di rivendita dei prodotti concerne solamente i rapporti tra le parti contraenti » e
«non può ostare all'esaurimento previsto dalla direttiva » (punti 50-55 della decisione) (14). In un'altra sentenza la Corte ha considerato l'ipotesi di merci
recanti il marchio originale apposto in Paesi extracomunitari che vengano immesse nel territorio doganale comunitario in regi me di transito esterno o di
deposito doganale ed ha escluso che ciò sia equiparabile alla «prima immissione sul mercato nella Comunità dei prodotti contrassegnati dal marchio », che il
titolare del marchio ha diritto di vietare, affermando che «La "importazione" ai sensi degli artt. 5, n. 3, lett. c), della Direttiva e 9, n. 2, lett. c), del
regolamento, alla quale il titolare del marchio può opporsi laddove essa implichi "uso [del marchio] nel commercio" ai sensi del n. 1 di ciascuno dei detti
articoli, presuppone (...) l'introduzione dei prodotti nella Comunità al fine di essere ivi immessi in commercio » (punti 33 e 34 della decisione) (15).
L'elemento determinante per stabilire se un prodotto può beneficiare o meno dell'esaurimento è dunque il consenso del titolare alla sua immissione in
commercio nell'ambito del territorio comunitario. E così come la presenza di questo consenso determina ipso facto l'operare dell'esaurimento, a prescindere
dagli eventuali accordi contrattuali esistenti tra le parti, allo stesso modo la sua assenza fa sì che non ci troviamo di fronte a prodotti originali: ciò discende de
plano proprio dal principio di territorialità da cui abbiamo preso le mosse (ed al quale l'esaurimento, come pure abbiamo visto, costituisce una deroga), per
effetto del quale il prodotto originale di provenienza extracomunitaria reca bensì un marchio identico a quello del soggetto che è titolare del marchio nel Paese
comunitario di destinazione, ed un marchio che, in ipotesi, appartiene al medesimo titolare, ma che è tuttavia diverso da quello in un suo elemento
fondamentale, qual è appunto l'ambito territoriale entro il quale esso è destinato a produrre i suoi effetti; e diverso essendo sotto questo profilo il diritto di
marchio che compete al titolare (in ipotesi il medesimo) in questi due diversi ambiti territoriali, non si può dire che esso sia «esaurito » nel Paese di
destinazione delle merci per il fatto che lo è nel Paese (extracomunitario) di prima commercializzazione.
Sotto questo profilo ci troviamo cioè di fronte ad una situazione che è del tutto identica a quella che ricorre nelle fattispecie di cosiddetta overproduction, ossia
quando un terzista realizza i prodotti a marchio in un quantitativo superiore a quello autorizzato dal titolare di esso, immettendo quindi in circolazione dei
prodotti assolutamente identici a quelli originali e indistinguibili da essi, che però non sono originali, appunto in quanto manca il consenso del titolare: ed
anche in quest'ipotesi non si dubita del carattere contraffattorio di questi prodotti. Principio cardine del diritto dei marchi, costantemente ribadito dalla
giurisprudenza comunitaria oltre che da quella nazionale, è infatti quello secondo cui sono da considerarsi prodotti non contraffattorî esclusivamente quelli
posti in commercio con il consenso del titolare, consenso che nell'ipotesi qui considerata manca per i quantitativi realizzati oltre il limite prescritto, seppur da
un soggetto che produce per conto del titolare; appunto su questa base si è risolto il problema, del tutto analogo a quello qui considerato, che si pone
«quando il prodotto recante il marchio è stato messo in commercio senza il consenso del titolare, per esempio nel caso di prodotti originali rubati o posti in
commercio da un ex licenziatario, contro la volontà del titolare », giungendo all'esatta conclusione che anche «in questa ipotesi (...) il terzo acquirente
dovrebbe essere qualificato come contraffattore, così come l'ex licenziatario » (16), per il quale del resto opera anche un'altra norma espressa che ha il suo
fondamento nel principio generale sopra richiamato, e cioè l'art. 23, comma 3, C.p.i., che prevede che «il titolare del marchio d'impresa può far valere il diritto
all'uso esclusivo del marchio stesso contro il licenziatario che violi le disposizioni del contratto di licenza ».
A rigore, non è dunque nemmeno esatto quanto scrive la sentenza qui in esame, là dove nega l'applicabilità del diritto dei marchi alla fattispecie da essa
considerata, perché non vi sarebbe qui alcun pericolo di confusione, appunto in quanto i prodotti di origine extracomunitaria immessi sul mercato
dall'importatore parallelo sarebbero originali: tutto all'apposto, essi sono indistinguibili dagli originali, ma originali non sono, e quindi chi li acquista, persuaso
di acquistare un prodotto immesso sul mercato col consenso del titolare, è certamente indotto in confusione ed ingannato relativamente ad una caratteristica
essenziale del prodotto. Anzi, l'importazione parallela extracomunitaria è - esattamente come l'overproduction - una forma di contraffazione particolarmente
insidiosa, forse la più insidiosa di tutte, proprio in quanto i prodotti realizzati sono perfettamente corrispondenti agli originali, essendo provenienti dalla stessa
fonte e realizzati secondo il medesimo know-how. Non senza dire che, proprio in quanto nel caso delle importazioni parallele si tratta di un marchio identico a
quello originale utilizzato per prodotti identici a quelli per i quali esso è stato registrato, oggi non vi sarebbe neppure bisogno di configurare l'esistenza di un
pericolo di confusione di cui all'art. 20, comma 1, lett. b) C.p.i. e all'art. 9.1.b Regolamento n. 94/40/CE sul marchio comunitario (o, nel caso di marchio che
gode di rinomanza, dell'ipotesi alternativa di indebito vantaggio-pregiudizio della lett. c) perché sussista la contraffazione, potendo essere invocata la
disposizione della lettera a delle medesime norme: disposizione che nel caso di specie non veniva in considerazione solo perché la fattispecie che ha dato
origine alla decisione della Corte di legittimità risaliva al 1995 e quindi era anteriore all'introduzione di tale norma nel nostro ordinamento, avvenuta solo in
occasione dell'attuazione del TRIPs Agreement, con il D.Lgs. 19 marzo 1996, n. 198. Nella giurisprudenza comunitaria uno spunto in tal senso si può rinvenire
già nella sentenza della Corte di Giustizia del 1998 resa nel caso «Silhouette » e relativa all'interpretazione pregiudiziale dell'art. 7.1 Direttiva n. 89/104/CE,
che ha riconosciuto che «è innegabile che la direttiva obbliga gli Stati membri ad emanare disposizioni in base alle quali il titolare di un marchio, in caso di
violazione dei propri diritti, abbia la facoltà di ottenere che venga inibito ai terzi l'uso del marchio », precisando che «detto obbligo discende dall'art. 5 della
direttiva », cioè dalla norma che disciplina l'ambito di protezione del marchio, ed osservando che nel caso di specie (una rimessione operata dall'Oberster
Gerichtshof austriaco) il problema si poneva in quanto «il Markenschutzgesetz (la legge austriaca in materia di protezione dei marchi: n.d.r.) non di sciplina
alcuna azione inibitoria e non contiene neppure disposizioni corrispondenti all'art. 5, n. 1, lett. a) della direttiva », cosicché in tale ordinamento la protezione
inibitoria poteva essere ottenuta solo sulla base delle norme austriache in materia di concorrenza sleale «la cui applicazione presuppone in rischio di
confusione, rischio che non esiste qualora si tratti di prodotti originali del titolare del marchio » (17).
Si potrebbe pensare che nel nostro ordinamento la questione dell'inquadramento delle importazioni parallele extracomunitarie nell'ambito della contraffazione
di marchio, ovvero in quello della concorrenza sleale assuma un rilievo sostanzialmente accademico, posto che in entrambi i casi verrebbe riconosciuta
l'illiceità della fattispecie e che dal principio iura novit curia - oggetto proprio della prima massima della sentenza annotata - deriva che la scelta della
qualificazione giuridica della fattispecie è comunque rimessa al giudice. In realtà ciò è vero solo in parte. Anzitutto l'applicazione delle norme in materia di
concorrenza sleale presuppone, secondo la nostra giurisprudenza e la dottrina prevalente, un rapporto di concorrenza, che non è così scontato almeno in tutti i
casi in cui il titolare del marchio non è imprenditore (e dal 1992 ben sappiamo che ciò può avvenire), cosicché in questi casi potrebbe essere opportuno far
agire il licenziatario, e la stessa competenza a conoscere dell'illecito potrebbe essere sindacata, anche se in questo caso ritengo che, se pur si volesse seguire
l'impostazione della sentenza qui in esame, ci si trovi senz'altro di fronte a un caso di concorrenza sleale «interferente ». In ogni caso, poi, l'apparato
sanzionatorio previsto in materia di concorrenza sleale è molto più scarno di quello apprestato dal Codice, cosicché per il titolare del marchio la posizione
sarebbe considerevolmente ed ingiustificatamente deteriore. E dunque la soluzione adottata dalla Corte di legittimità sul punto merita senz'altro di essere
ripensata.
Sostanzialmente corrette appaiono invece quasi tutte le altre affermazioni di diritto oggetto delle residue massime della sentenza qui annotata. Del tema della
qualificazione giuridica della fattispecie, che spetta al Giudice, senza che possa ritenersi vincolante la qualificazione effettuata dalla parte (massima 1) si è già
detto. Intuitivamente esatta è anche l'affermazione (massima 3) secondo cui spetta al Giudice delimitare l'ambito dell'inibitoria pronunciata (in questo caso in
base all'art. 2599 c.c., ma non diversamente in applicazione dell'art. 124 C.p.i.); è anzi significativo che in relazione a questo punto (l'unico sul quale il ricorso
sia stato accolto, con rinvio ad altra Sezione della Corte remittente) i Giudici abbiano ritenuto assorbita l'ulteriore censura inerente la mancata previsione di
una penale, implicitamente ritenendone possibile la pronuncia anche in materia di concorrenza sleale. All'interpretazione della volontà della parte, nell'ambito
del principio dispositivo che informa il processo civile, è dedicata la quarta massima, che sottolinea come la richiesta di liquidazione equitativa dei danni
produca l'effetto di non vincolare il Giudice ad un importo preciso indicato nelle conclusioni. Infine, la quinta massima ribadisce l'insegnamento costante della
Corte regolatrice sulla rigorosa interpretazione del principio dell'autosufficienza del ricorso per cassazione, anche in relazione alla denuncia di un error in
procedendo, come l'omessa pronuncia su di una domanda o eccezione (18).
----------------------In tal senso, già prima della riforma del 1992 della legge marchi che ha espressamente codificato l'esaurimento (solo) comunitario del diritto di marchio
(all'art. 1-bis, ora incorporato nell'art. 5 C.p.i.), si vedano Cass. 4 giugno 1983, n. 3807, in Giur. ann. dir. ind., 1983, 125 ss. e in Giur. it., 1984, I, 1, 1170
ss.; Pret. Bologna, 6 maggio 1986 (ord.), ivi, 1988, I, 2, 363 ss. (con nota di Musso, Tre recenti provvedimenti giurisprudenziali in tema di importazioni
parallele, in Giur. it., 1988, I, 2, 363 ss.); Pret. Vigevano 7 giugno 1986 (ord.), ivi; Pret. Busto Arsizio 19 giugno 1986 (ord.), ivi; Pret. Milano 13 giugno 1988
(ord.), in Giur. ann. dir. ind., 1988, 640 ss.; Pret. Catania, 17 ottobre 1988 (ord.), ibidem, 792 ss.; Pret. Milano 8 agosto 1991 (ord.), in Giur. it., 1994, I, 2,
157 ss.; Trib. Milano 17 febbraio 1992, ivi, 1992, 468 ss.; Trib. Como 8 ottobre 1992 (ord.), in Giur. it., 1994, I, 2, 157 ss. (con nota di Roverati, Importazioni
parallele da Paesi extracomunitari, «esaurimento » del diritto di marchio e principio di «territorialità » alla luce della più recente giurisprudenza e della riforma
della legge marchi, in Giur. it., 1994, I, 2, 157 ss.). Nello stesso senso, nella giurisprudenza più recente, si vedano ad esempio App. Milano 22 luglio 1994, in
Giur. ann. dir. ind., 1995, 537 ss.; Trib. Bologna 21 agosto 1995 (ord.), ibidem,1212 ss.; Trib. Milano 20 novembre 1995, ivi, 1996, 501 ss.; Trib. Treviso 20
marzo 1996, ivi, 722; App. Milano 11 ottobre 1996, ivi, 1997, 395 ss.; ecc.
(1)
Così in particolare Trib. Prato 23 settembre 1985, in Giur. ann. dir. ind., 1985, 768 ss. (e in Giur. it., 1987, I, 2, 44 ss., con nota di P. Ferrari, Importazioni
parallele: modi e casi nella giurisprudenza comunitaria e nazionale), sulla base del rilievo che il diritto di marchio non attribuirebbe al titolare «la possibilità di
limitare, regolamentare o controllare la circolazione del bene e tantomeno l'utilizzazione dei prodotti marchiati una volta che questi sono usciti dalla sfera della
sua disponibilità a seguito di alienazione », ovunque questa alienazione sia avvenuta. Nella dottrina italiana anteriore alla riforma della legge marchi del 1992
a favore dell'estensione dell'esaurimento alle merci extracomunitarie si era espresso con particolare convinzione Auteri, Territorialità del diritto di marchio e
circolazione di prodotti «originali », Milano, 1973, 69 ss., e più di recente Musso, Tre recenti provvedimenti giurisprudenziali, cit.
(2)
Si veda, con particolare chiarezza, la sentenza resa dalla Corte di Giustizia CE nel caso Centrafarm/Winthrop: Corte di Giustizia CE 31 ottobre 1974, in Giur.
ann. dir. ind., 1974, 1480 ss. e in Racc., 1974, 1183 ss.
(3)
(4)Corte di Giustizia CE 3 luglio 1974, in Giur. ann. dir. ind., 1974, 1457 ss. e in Racc., 1974, 1457 ss.
(5)
Corte di Giustizia CE 17 ottobre 1990, causa C-10/89 ( «Hag 2 »), in Giur. ann. dir. ind., 1991, 844 ss.
(6)
Corte di Giustizia CE 22 giugno 1994, causa C-9/93 ( «Ideal Standard »), in Giur. ann. dir. ind., 1994, 1127 ss.
Emblematico di quest'uso strumentale dei diritti della proprietà industriale è la fattispecie che ha dato origine alla celebre pronuncia di Corte di Giustizia CE
11 luglio 1966, cause riunite C-56/64 e C-58/64. ( «Grundig/Consten »).
(7)
(8)
Sul punto si veda sempre Corte di Giustizia CE 17 ottobre 1990, causa C-10/89 ( «Hag 2 »), cit.
In tal senso si vedano in particolare Corte di Giustizia CE 23 maggio 1978, in Giur. ann. dir. ind., 1978, 814 e Corte di Giustizia CE 3 dicembre 1981, ivi,
1982, 703 ss. Particolare interesse riveste in questa prospettiva l'uso pubblicitario del marchio: sempre la Corte di Giustizia CE, infatti, ha affermato in termini
generali che «qualora vengano immessi sul mercato comunitario prodotti contrassegnati con un marchio dal titolare stesso del marchio o con il suo consenso,
il rivenditore ha, oltre alla facoltà di mettere in vendita tali prodotti, anche quella di usare il marchio per promuovere l'ulteriore commercializzazione dei
prodotti stessi » (Corte di Giustizia CE 4 novembre 1997, causa C-337/95, Dior/Evora), cioè gli è consentito di utilizzare il marchio nella pubblicità di questi
prodotti; la stessa sentenza richiamata da ultimo ha tuttavia rilevato che la facoltà di uso pubblicitario del marchio riconosciuta al rivenditore che abbia
acquistato prodotti originali immessi in commercio dal titolare o con il suo consenso in ambito comunitario non è senza limiti: i Giudici comunitari, infatti, dopo
avere richiamato con approvazione l'insegnamento generale per cui «il pregiudizio arrecato alla reputazione del marchio può costituire, in via di principio, un
motivo legittimo, ai sensi dell'art. 7, n. 2, Direttiva, perché il titolare si opponga all'ulteriore commercializzazione dei prodotti messi in commercio nella
Comunità dal titolare stesso o con il suo consenso », hanno affermato che «nel caso in cui un rivenditore utilizzi un marchio per promuovere l'ulteriore
commercializzazione di prodotti contrassegnati col marchio stesso, deve essere contemperato l'interesse legittimo del titolare del marchio, ad essere tutelato
contro i dettaglianti che facciano uso del suo marchio a fini pubblicitari avvalendosi di modalità che potrebbero nuocere all a reputazione del marchio stesso,
con l'interesse del dettagliante a poter mettere in vendita i prodotti in questione avvalendosi delle modalità pubblicitario correnti nel suo settore di attività »,
cosicché in particolare, in caso di prodotti di lusso (nel caso di specie si trattava di prodotti a marchio Dior), il dettagliante deve «adoperarsi per evitare che la
sua pubblicità comprometta il valore del marchio, danneggiando lo stile e l'immagine di prestigio dei prodotti in oggetto nonché l'aura di lusso che li circonda
»: pur aggiungendo che di per sé «il fatto che un rivenditore, il quale commercia abitualmente con articoli della medesima natura ma non necessariamente
della medesima qualità, utilizzi per prodotti contrassegnati con il marchio modalità pubblicitarie che sono correnti nel suo settore di attività pur non
corrispondendo a quelle utilizzate dal titolare stesso e dai suoi distributori autorizzati non costituisce un motivo legittimo, ai sensi dell'art. 7, n. 2, Direttiva,
che consenta al titolare di opporsi a tale pubblicità, a meno che non venga dimostrato, alla luce delle circostanze di ciascun caso di specie, che l'uso del
marchio fatto dal rivenditore a fini pubblicitari nuoce gravemente alla reputazione del marchio stesso »; ipotesi quest'ultima che la Corte di giustizia
esemplificava scrivendo che «Un grave pregiudizio del genere potrebbe intervenire qualora il rivenditore non avesse avuto cura, nell'opuscolo pubblicitario da
lui diffuso, di evitare di collocare il marchio in un contesto che rischierebbe di svilire fortemente l'immagine che il titolare è riuscito a creare attorno al suo
marchio » (Corte di Giustizia CE 4 novembre 1997, cit., punti 43-47 della decisione).
(9)
Si veda al riguardo in particolare Corte di Giustizia CE 11 luglio 1996, in Giur. ann. dir. ind., 1996, 1255 ss., che disciplina minutamente le ipotesi di
legittimità del riconfezionamento; in senso analogo cfr. anche Corte di Giustizia CE 11 novembre 1997, ivi, 1998, 1205 ss. Agli insegnamenti della Corte di
Giustizia si dovrà egualmente far capo per determinare il significato del «consenso » del titolare del marchio contemplato in questa norma, che verosimilmente
potrà anche essere tacito: così espressamente Minervini, Esaurimento del marchio, comunitario e no (note in margine al nuovo testo della legge marchi), cit.,
4-5, dove richiama in tal senso Vanzetti, Sulla sentenza HAG 2, in Giur. comm., 1991, II, 536 ss. (a 541) e ricorda uno spunto testuale contenuto appunto
nella sentenza Hag 2 (Corte di Giustizia CE 17 ottobre 1990, ivi, 1990, 531ss. e in Giur. ann. dir. ind., 1991, 833 ss.).
(10)
(11)
In argomento, oltre agli autori già citati, si veda ampiamente Sani, Le importazioni parallele extracomunitarie e il valore del marchio, in AA.VV., Il futuro
dei marchi e le sfide della globalizzazione, a cura di Galli, Padova, 2002, 79 ss., dove vengono attentamente analizzate anche le implicazioni economiche della
scelta pro o contro l'esaurimento internazionale del marchio.
Corte di Giustizia CE 16 luglio 1998, in Giur. ann. dir. ind., 1998, 1228 ss. Nella giurisprudenza successiva alla riforma del 1992 hanno escluso
espressamente la rilevanza dell'esaurimento extracomunitario App. Milano 22 luglio 1994, ivi, 1995, 537 ss.; Trib. Bologna 21 agosto 1995 (ord.), ivi, 1212
ss.; Trib. Milano 20 novembre 1995, ivi, 1996, 501 ss.; Trib. Treviso 20 marzo 1996, ivi, 722; App. Milano 11 ottobre 1996, ivi, 1997, 395 ss.
(12)
(13)
Corte di Giustizia CE 20 novembre 2001, cause riunite C-414/99, C-415/99 e C-416/99, Zino Davidoff, in Foro it., 2002, IV, 7 ss., con nota di Bastianon.
(14)
Corte di Giustizia CE 30 novembre 2004, causa C-16/03.
(15)
Corte di Giustizia CE 18 ottobre 2005, causa C-405/03.
(16)
Così espressamente Sena, Il diritto dei marchi. Marchio nazionale e marchio comunitario, Milano, 2007, 142.
Corte di Giustizia CE 16 luglio 1998, cit., punti 35 e 33 della motivazione. Va peraltro osservato che in alcune recenti sentenze la Corte di Giustizia
comunitaria sembra richiedere che anche in questa ipotesi l'uso del terzo interferisca concretamente con le funzioni giuridicamente tutelate del marchio anche
nell'ipotesi contemplata dall'art. 5, comma 1, Direttiva n. 89/104/CE, affermando (discutibilmente, data la formulazione della norma) che l'uso di un segno
identico al marchio per prodotti o servizi identici è vietato «solo se pregiudica o è idoneo a pregiudicare le funzioni del detto marchio e in particolare la sua
funzione essenziale, che è di garantire ai consumatori l'origine dei prodotti o dei servizi »: così in particolare Corte di Giustizia CE 11 settembre 2007, causa
C-17/06 Céline, punto 26 della decisione. Per l'analisi più dettagliata delle linee di tendenza della giurisprudenza comunitaria in materia di protezione del
marchio rimando a Galli, I marchi nella prospettiva del diritto comunitario: dal diritto dei segni distintivi al diritto della comunicazione d'impresa, in AIDA,
2007.
(17)
Nello stesso senso, oltre alle pronunce richiamate in motivazione, si possono ricordare ad esempio Cass. 16 aprile 2003, n. 6055, in Giust. civ. Mass.,
2003; e Cass. 11 gennaio 2002, n. 317, ivi, 2002.
(18)
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