appunti di istituzioni di diritto pubblico

APPUNTI DI ISTITUZIONI DI DIRITTO PUBBLICO
Bin / Petruzzella, anno 2004
Università degli Studi di Milano
Facoltà di Scienze Politiche
Corso di Scienze dell’Amministrazione
1.
Oggetto e funzione del diritto pubblico
La distinzione tra i vari diritti (ex. pubblico e privato) non si basa sulla fonte della "normativa" (ex. in
entrambi i casi lo Stato) ma sull'oggetto cui il diritto viene applicato.
Quindi DIRITTO PUBBLICO tratta, oltre che dell'organizzazione dei pubblici poteri, dei rapporti tra l'autorità
pubblica ed i privati. Invece il DIRITTO PRIVATO tratta dei rapporti tra soggetti privati posti in posizione di
parità tra loro.
Diritto
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Pubblico:
diritto costituzionale;
diritto amministrativo;
diritto ecclesiastico;
diritto tributario
diritto penale;
Diritto
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Privato:
diritto civile;
diritto commerciale;
diritto del lavoro;
diritto industriale;
diritto di famiglia;
L'insegnamento del diritto pubblico è costituito dai principi del diritto costituzionale e amministrativo:
• organizzazione costituzionale;
• organizzazione della PA;
• fonti del diritto;
• provvedimenti amministrativi;
• libertà e diritti costituzionali
• organizzazione della giustizia (giustizia costituzionale);
2.
Lo Stato: politica e diritto
Il potere politico è quella specie di potere sociale che si basa sulla possibilità di ricorrere in ultima istanza alla
forza legittima per imporre la propria volontà.
Il potere sociale è la capacità di influenzare il comportamento di altri individui.
A seconda del tipo di mezzo sono stati distinti tre tipi di potere sociale:
• potere economico (ex. capitale);
• potere ideologico (ex. sacerdoti);
• potere politico (che usa la forza per affermarsi);
Non sempre nella società si è avuta la concentrazione della forza in un unico potere e non sempre nella
storia questi poteri sono stati distinti tra loro (e neppure oggi lo sono!).
2.1.
Legittimazione
Il potere politico si basa non solamente sulla forza (ultima istanza), ma ha anche un principio di
giustificazione. Secondo Weber tre sono i tipi di potere legittimo:
a) il potere tradizionale (sacralità);
b) potere carismatico (leader);
c) potere legale-razionale (diritto);
Quindi anche il potere politico (in Europa e America a partire dalle Rivoluzioni Amercana -1787- e Francese 1789) non agisce libero da vincoli giuridici, ma è esso stesso sottoposto al diritto a tutela delle libertà dei
cittadini contro gli abusi di chi detiene il potere (costituzionalismo).
Il principio di legalità, la separazione dei poteri, le diverse libertà costituzionali sono i principali mezzi giuridici
attraverso cui si è affermato il costituzionalismo.
La legittimazione legale-razionale è oggi superata dalla legittimazione per consenso conseguente la
democratizzazione degli Stati operata -in larga scala- a partire dal XX secolo.
La costituzione "democratica" si caratterizza per:
• la rigidità;
• la giustizia costituzionale;
• i diritti sociali;
• i referendum;
• la regolamentazione dei mercati;
• l'indipendenza del giudiziario;
La più recente evoluzione porta il diritto costituzionale ad adeguarsi contemporaneamente alla dimensione
sovra-nazionale dell'economia e al ruolo determinante degli enti locali (Regioni e Comuni) nello svolgimento
di fondamentali compiti dello Stato.
2.2.
Lo Stato
Stato è il nome dato ad una particolare forma storica di organizzazione del potere politico, che esercita il
monopolio della forza legittima in un determinato territorio e si avvale di un apparato amministrativo.
Lo stato moderno nasce in Europa tra il XV e il XVII secolo e si differenzia dalle precedenti forme di
organizzazione del potere politico per la presenza di due caratteristiche: a) una concentrazione del potere di
comando legittimo nell'ambito di un determinato territorio in capo ad un'unica istanza; b) la presenza di
un'organizzazione amministrativa in cui opera una burocrazia professionale.
La parola "stato" compare con il significato politico moderno per la prima volta nel Principe di Macchiavelli
nel 1513.
2.2.1.
La nascita dello Stato moderno
La spinta alla concentrazione del potere politico nello Stato è nata come reazione alla dispersione del potere
tipica del sistema feudale.
La base del sistema feudale era costituita dal rapporto vassallo/signore. I rapporti di potere erano di
carattere personale e privato e c'era coincidenza tra la proprietà privatistica del feudo e il potere di comando
sugli individui che a quel feudo erano collegati.
Il rapporto poteva ripetersi e stratificarsi su svariati livelli. Verticisticamente comunque si aveva una sorta di
"sopra-signore" che si fregiava del titolo di rex, princeps o dux e che rivendicava a sé poteri di comando più
ampi rispetto al "contratto feudale" relativamente a un territorio determinato e non a fondi realmente di
"proprietà".
La società non era composta da individui ma da comunità minori tra loro combinate: la famiglia, il clan, le
corporazioni, le sette o confessioni ecc…ecc...
Non esisteva un diritto univoco ma una molteplicità di sistemi giuridici che a volte si sovrapponevano fra
loro.
Nello stesso contesto le comunità principali (i ceti o ordini) operavano come custodi delle consuetudini o
leggi tradizionali attraverso i parlamenti o stati generali medievali. Il consenso di queste assemblee era
vincolante per autorizzare l'imposizione tributaria.
Tra gli elementi che contribuirono a modificare questo sistema sicuramente trovano spazio le guerre di
religione che si verificarono in Europa. A due secoli di guerre e di povertà, l'organizzazione sociale rispose
con l'affermazione dello Stato moderno, con la concentrazione della forza legittima e quindi con l'ordine
sociale.
2.2.2.
Sovranità
Lo Stato moderno si caratterizza per la sovranità, ovvero per disporre di un apparato centralizzato che ha il
monopolio della forza legittima in un determinato territorio.
La sovranità può essere vista con due chiavi di lettura:
1) supremo potere di comando che non trova eguali nell'ambito del determinato territorio proprio dello
Stato;
2) indipendenza da altri Stati;
Stabilito il concetto e la funzione di sovranità, diventa necessario individuare chi, nell'ambito dello Stato, ne
sia depositario:
a) lo Stato come persona giuridica;
b) la nazione;
c) il popolo;
Su queste tre grandi correnti ideologiche si è diviso per secoli il pensiero politico occidentale:
a) Stato. Geber, Orlando. In grado di aumentare il valore dell'unità nazionale dando carattere di
oggettività allo Stato, pone lo Stato come punto di mediazione tra il re e il popolo;
b) Nazione. Rivoluzione Francese, Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino: "la sovranità
popolare appartiene alla Nazione da cui emanano tutti i poteri". Presupponeva l'eliminazione dei ceti
e degli ordini nella società, immaginando il corpo sociale come unico e indistinto in grado di
esprimere una volontà sola più forte e più "vera" di quella del re.
c) Sovranità popolare. Rosseau. Volontà generale del popolo sovrano inteso come insieme dei cittadini
riuniti in un Ente collettivo. Supera il concetto di rappresentanza.
Fino a questo punto dell'evoluzione dello Stato moderno non si arriva a teorizzare un limite superiore alla
sovranità, una legge fondamentale capace di vincolare il potere sovrano.
2.2.3.
La sovranità si evolve
Con il secondo dopoguerra si è avuta una generale affermazione del principio della sovranità popolare.
La vigente costituzione afferma che: "la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti
della Costituzione" - art. 1, comma 2.
Ma diversamente da quanto previsto da Rosseau la sovranità generalmente non viene esercitata
direttamente, ma attraverso il sistema rappresentativo. Inoltre la sovranità popolare non è intesa in termini
assoluti, ma inserita nei limiti di una costituzione rigida. Allo scopo di garantire la salvaguardia e il rispetto
del dettame costituzionale viene istituito un livello giuridico nuovo con la Corte Costituzionale.
Questa sarebbe la risposta dell'organizzazione statuale all'evoluzione pluralistica della politica e della società.
Infatti il sistema dei limiti e dei principi fornisce garanzie alle minoranze e stabilisce dei diritti fondamentali, o
inalienabili, o minimi.
Le forme costituzionali evolvono oltre nel bilanciamento dei vari poteri tra loro fino a prevedere che la Corte
Costituzionale non diventi arbitro politico di dispute politiche. Queste forme costituzionali si dicono bilanciate
oppure si dice costituzionalismo dei contrappesi.
2.2.4.
Sovranità e organizzazione internazionale
Tradizionalmente la sovranità "esterna" non riconosce limiti se non quelli derivanti da Trattati (contratti fra
Stati). Questa concezione trova il suo apogeo nella prima metà del Novecento e la sua fine con l'ultima
guerra mondiale.
Anche "esternamente" quindi la tendenza è quella di limitare la sovranità dello Stato. Il processo si è avviato
con la firma del trattato istitutivo dell'ONU nel 1945, con la finalità del mantenimento della pace e della
sicurezza internazionale, e poi con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo approvata nel 1948. Anche
se lo stesso trattato istitutivo dell'ONU fonda l'organizzazione sulla sovrana eguaglianza di tutti i suoi
membri, escludendo quindi l'ingerenza nelle questioni interne de singolo Stato.
Maggiore la limitazione per la sovranità dello Stato per quanto riguarda la creazione delle organizzazioni
sovra-nazionali europee.
2.2.5.
Territorio
La sovranità è esercitata dallo Stato in un determinato territorio. La precisa delimitazione del territorio è
condizione essenziale per garantire allo Stato l'esercizio della sovranità e per assicurare l'indipendenza
reciproca degli Stati.
Secondo le regole del diritto internazionale il territorio di uno Stato è costituito da:
• terraferma;
• mare continentale;
• piattaforma continentale;
• spazio atmosferico sovrastante;
•
•
•
acque interne
navi e aeromobili battenti bandiera quando si trovino in aree internazionali;
sedi diplomatiche;
Terraferma: è la porzione di territorio delimitata dai confini sulla base di trattati internazionali.
Mare continentale: è la fascia di mare costiero interamente sottoposta alla sovranità dello Stato. Secondo la
convenzione internazionale di Montego Bay (Giamaica) del 1982 il mare territoriale termina a 12 miglia
marine dalla costa. L'italia recepisce questa regola all'art. 2 del codice della navigazione.
Piattaforma continentale: è costituita dal cosiddetto zoccolo continentale, e cioè quella parte del fondo
marino di profondità costante che circonda le terre emerse. La regola ormai generalmente accettata è che gli
Stati possano riservare a sé l'utilizzazione esclusiva delle risorse naturali estraibili dalla piattaforma, purché
sia garantita la libertà delle acque.
2.2.6.
Cittadinanza
La cittadinanza è uno status a cui la Costituzione riconnette una serie di diritti e di doveri. Essa è condizione
per l'esercizio dei diritti connessi alla titolarità della sovranità (diritti politici), ma è anche il fondamento di
alcuni doveri costituzionali.
La Costituzione italiana stabilisce che nessuno possa essere privato della cittadinanza per motivi politici (art.
22).
La cittadinanza può essere acquisita o perduta secondo quanto previsto dalla legge 91/02:
a) ius sanguinis: acquista cittadinanza il figlio, anche adottivo, di almeno un genitore con cittadinanza;
b) ius soli: acquista cittadinanza colui che è nato in italia da genitori apolidi o ignoti, oppure che non
possa vedersi riconoscere lo ius sanguinis dalle leggi dello Stato cui essi appartengono;
c) su richiesta dell'interessato;
I casi previsti per il punto c) sono:
1) dal coniuge di un cittadino italiano dopo 3 anni di matrimonio o almeno 6 mesi di permanenza nel
territorio;
2) dallo straniero che possa vantare un ascendente in linea retta di secondo grado che sia cittadino
italiano per nascita;
3) dallo straniero con maggiore età, adottato da cittadino italiano e residente nel territorio nazionale da
almeno 5 anni all'adozione;
4) dallo straniero che abbia prestato servizio alle dipendenze dello Stato per almeno cinque anni;
5) dal cittadino di uno degli Stati membri della CE, dopo almeno 4 anni di residenza nel territorio;
6) dall'apolide dopo almeno 5 anni di residenza;
7) dallo straniero dopo almeno 10 anni di regolare residenza in italia;
2.2.7.
Cittadinanza UE
Il Trattato sull'Unione Europea del 1992 (Maastricht) ha introdotto l'istituto della cittadinanza dell'Unione.
Presupposto per la cittadinanza dell'Unione è la cittadinanza di uno Stato membro. La cittadinanza
dell'Unione "completa la cittadinanza nazionale e non la sostituisce".
Tra i diritti garantiti a livello comunitario dalla cittadinanza dell'Unione troviamo:
a) "il diritto di circolare liberamente ne territorio degli Stati membri [...]";
b) "tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro [...]";
c) diritto di petizione al Parlamento europeo e il diritto di rivolgersi al mediatore europeo;
d) diritto di elettorato passivo ed attivo alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede e alle
elezioni del parlamento europeo nello Stato membro in cui risiede.
Il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni comunali è garantiro ai cittadini comunitari secondo
quanto previsto dal decreto lgs 197/1996 tramite l'iscrizione in apposite liste elettorali. L'elettorato passivo è
limitato alle cariche di consigliere comunale e assessore, con l'esclusione quindi della carica di Sindaco e di
Vice-Sindaco.
2.2.8.1.
Lo Stato apparato: apparato burocratico
Lo Stato si differenzia da altre organizzazioni politiche che pure hanno realizzato il monopolio della forza
legittima in un determinato territorio (es. Comuni storici) per la presenza di un apparato organizzativo servito
da una burocrazia professionale.
L'organizzazione è stabile nel tempo ed ha carattere impersonale perché esiste e funziona sulla base di
regole prestabilite.
Il funzionamento dell'apparato presuppone la presenza di una burocrazia professionale formata da soggetti
che "per vivere" prestano la loro opera professionale a favore dello Stato eseguendo compiti amministrativi
nel rispetto di regole tecniche.
Le origini di questa burocrazia professionale si collocano nel secolo XVI nei principali paesi europei:
Inghilterra, Francia, Spagna e Austria.
Le burocrazie sono nate per soddisfare esigenze scaturite dalle lotte della corona contro le baronie locali:
1) creare corpi militari più forti di qualsiasi altro potere interno;
2) rendere disponibili attraverso l'imposizione tributaria ingenti risorse con cui mantenere gli eserciti.
L'apparato statale civile e militare dello Stato assoluto era alle dipendenze della corona, che concentrava la
titolarità delle funzioni pubbliche, mentre nello Stato liberale si trova alle dipendenze degli organi di poteri
posti al vertice.
2.2.8.2.
Lo Stato apparato: persona giuridica
Per inquadrare giuridicamente la realtà dell'apparato statale, la dottrina giuridica tedesca del secolo scorso
impiegò la nozione di personalità giuridica.
Ciascun ordinamento giuridico individua con norme specifiche le proprie figure soggettive, attribuendo loro la
capacità di agire in modo giuridicamente rilevante e di costruire centri di imputazione di effetti giuridici.
Quindi oltre alle persone fisiche, l'ordinamento giuridico può attribuire la soggettività giuridica a entità
materiali.
Obiettivo di questa costruzione giuridica era quello di garantire impersonalità e obiettività alla volontà dello
Stato. Questa mentalità non è presente in Gran Bretagna, dove non si intende una volontà unica per lo
Stato, ma le singole volontà dei suoi organismi.
Anche oggi spesso si dice che lo Stato ha personalità giuridica, ma si tratta di un'affermazione falsa.
Giuridicamente, lo Stato non agisce mai unitariamente, ma attraverso singoli e specifici enti, organismi o
apparati. Pure la responsabilità civile non riguarda l'intero Stato, ma un suo determinato organo.
Quindi la descrizione più corretta di Stato può essere:
• "organizzazione disaggregata", cioè "un congiunto organizzato di amministrazioni diverse".
2.2.8.3.
Lo Stato apparato: enti pubblici
Lo Stato non esaurisce il mondo dei "pubblici poteri". Accanto ad esso esistono numerosi e diversi enti
pubblici come le Regioni, le Province e i Comuni, tutti dotati di personalità giuridica.
In termini generali, gli ENTI PUBBLICI posso essere definiti:
• "come quegli apparati costituiti dalle comunità per il perseguimento dei propri fini, i quali sono
riconosciuti come persone giuridiche o comunque come soggetti giuridici”.
Gli enti pubblici, a differenza dei soggetti di natura privatistica, sono istituiti per il soddisfacimento di
interessi ritenuti comuni ad una determinata comunità (INTERESSI PUBBLICI), e non per particolari interessi
leciti.
Nel modello ottocentesco c'era una visione unitaria dell'interesse pubblico e gli enti pubblici erano considerati
satelliti dello Stato medesimo, e cioè degli strumenti per realizzare l'interesse pubblico statale.
Oggi invece l'affermazione della democrazia pluralista ha modificato notevolmente il quadro. Infatti il
pluralismo ha comportato che numerosi interessi assurgessero a interessi pubblici e come tali venissero
affidati alla cura di un apparato statale o di un ente pubblico specifico.
Si è venuta a creare quindi una moltitudine di interessi pubblici spesso tra loro in conflitto, per cui oggi si
parla di eterogeneità degli interessi pubblici.
Inoltre ad alcuni enti rappresentativi delle collettività territoriali (Regioni, Province, Comuni) viene
riconosciuta autonomia politica. Succede così che i loro organi vengono eletti direttamente dai cittadini e
possono esprimere maggioranze e indirizzi diversi da quelli dello Stato.
2.2.8.4.
Lo Stato apparato: potestà pubblica
Lo Stato e gli enti pubblici sono collocati dalle norme giuridiche in una posizione di supremazia rispetto ai
soggetti privati. Per tale ragione gli effetti giuridici degli atti da essi compiuti, ed in primo luogo l'obbligo di
osservarli, derivano esclusivamente dalla loro manifestazione di volontà, essendo irrilevante il consenso o il
dissenso dell'interessato.
Questo potere di determinare unilateralmente effetti giuridici nella sfera dei destinatari dell'atto,
indipendentemente dal loro consenso, prende il nome di POTESTA' PUBBLICA o di POTERE DI IMPERIO.
Le potestà pubbliche però, a partire dallo Stato di diritto, devono essere attribuite dalla legge e devono
essere esercitate in modo conforme al modello legale. Al di fuori di quanto previsto espressamente dalla
legge, un'autorità pubblica non può esercitare alcuna potestà.
Diversa è la posizione dei soggetti privati che sono collocati su un piano di parità giuridica e possono
provvedere da sé e liberamente a disciplinare i propri rapporti, nel rispetto dei limiti stabiliti dalla legge.
2.2.8.5.
Lo Stato apparato: uffici e organi
La burocrazia opera secondo un particolare disegno organizzativo che prefigura lo svolgimento di determinati
servizi, a ciascuno dei quali è preposta una o più persone, e che ha una sua assegnazione di beni strumentali
e di risorse finanziarie.
L'unità strutturale elementare dell'organizzazione si chiama ufficio.
Naturalmente ciascun apparato per adempiere i suoi compiti deve poter instaurare rapporti giuridici con altri
soggetti. A tal fine l'apparato deve servirsi di una particolare categoria di uffici che prendono il nome di
organi:
• "l'organo è l'ufficio particolarmente qualificato da una norma come idoneo ad esprimere la volontà
della persona giuridica e ad imputarle l'atto e i relativi effetti. La persona giuridica può avere
parecchi uffici: solo alcuni hanno l'attitudine (giuridica) a compiere atti giuridici (cioè a manifestare
la volontà dell'ente all'esterno). Questi ultimi sono organi, gli altri sono uffici puramente e
semplicemente.
Degli organi si usano molte classificazioni:
1) organi rappresentativi, i cui titolari sono eletti direttamente dal corpo elettorale o che comunque
sono istituzionalmente collegati ad organi elettivi;
2) organi burocratici, cui sono preposte persone che professionalmente prestano la loro attività in
modo pressoché esclusivo a favore dello Stato o di altri enti pubblici, senza alcun rapporto con il
corpo elettorale;
3) organi attivi, decidono per l'apparato di cui sono parte;
4) organi consultivi, danno pareri agli organi attivi;
5) organi di controllo, devono verificare la conformità alla norme (legittimità) o l'opportunità (merito) di
atti compiuti da altri organi.
I pareri
a)
b)
c)
espressi da organi consultivi possono essere di 3 tipi:
parere facoltativo, se l'organo deliberativo ha la facoltà di richiederlo ma non l'obbligo;
parere obbligatorio, qualora essi debbano essere obbligatoriamente richiesti;
parere vincolante, che devono essere obbligatoriamente seguiti dall'organo che decide;
2.2.8.5.
Lo Stato apparato: uffici e organi
La figura degli ORGANI COSTITUZIONALI è stata elaborata dalla dottrina per indicare gli organi dotati delle
seguenti caratteristiche:
1) necessari dello Stato;
2) indefettibili dello Stato (modificandone la natura si modifica la stessa dello Stato);
3) strutturati alla base secondo il dettame Costituzionale;
4) in condizione di parità giuridica con gli altri organi costituzionali;
Quindi si può affermare che:
• "gli organi costituzionali si differenziano dagli altri non soltanto per una diversità di funzioni, ma
soprattutto per una differenza di posizione, poiché solo essi individuano lo Stato in un determinato
momento storico".
3.
Forme di Stato
3.1.
Forma di Stato e forma di governo
Con l'espressione FORMA DI STATO si intende:
• "il rapporto che corre tra le autorità dotate di potestà di imperio e la società civile, nonché l'insieme
dei principi e dei valori a cui lo Stato ispira la sua azione".
Invece con l'espressione FORMA DI GOVERNO si intendono:
• "i modi in cui il potere è distribuito tra gli organi principali di uno Stato-apparato e l'insieme dei
rapporti che intercorrono tra essi".
3.2.1.
Evoluzione delle forme di Stato: Stato assoluto
Lo STATO ASSOLUTO è la prima forma dello STATO MODERNO.
Nacque in Europa tra il 1400 e il 1500 e si affermò nei due secoli successivi.
Si caratterizzava per l'esistenza di un potere sovrano attribuito interamente al RE, o meglio alla CORONA,
che si distingue dal primo perché non era una persona fisica ma un organo dello Stato.
Nello STATO ASSOLUTO il potere sovrano era concentrato nelle mani della CORONA che perciò era titolare
sia della funzione legislativa che di quella esecutiva, mentre il potere giudiziario era esercitato da Corti e
Tribunali formati da giudici nominati dal RE.
La VOLONTA' DEL RE era la fonte primaria del diritto ed aveva quindi efficacia di legge: "quod principi
placuit legis habet vigorem". Il suo potere assoluto non incontrava limiti legali (era quindi "legibus solutus")
e non poteva essere condizionato dai sudditi. Ciò perché il potere regio non derivava da scelte umane, ma
era ritenuto di origine divina.
L'ASSOLUTISMO regio si affermò pienamente in quei paesi dove riuscì a limitare drasticamente il peso delle
corporazioni e della nobiltà feudale. In alcuni paesi si affermò l'assolutismo illuminato, secondo cui il compito
del Sovrano era quello di promuovere il benessere della popolazione. Al riguardo si parla anche di STATO DI
POLIZIA per intendere uno Stato caratterizzato dalla finalità di accrescere il benessere della popolazione e
che, spinto da tale finalità, si incaricava di avviare, dirigere e regolare molte attività sociali.
Pertanto lo STATO ASSOLUTO era uno Stato onnipresente, anche nella sfera economica. L'economia statale
era detta di MERCANTILISMO e si basava sull'idea per cui la grandezza del RE dipendeva dalla prosperità
economica dello Stato che pertanto doveva promuovere le industrie per produrre beni da vendere all'estero
e sottrarre risorse ad altri paesi. Lo Stato istituì manifatture e monopoli e sviluppò un efficace sistema
tributario.
3.2.2.
Evoluzione delle forme di Stato: nascita dello Stato liberale
Lo STATO LIBERALE è una forma di stato che nasce tra la fine del settecento e la prima metà dell'ottocento,
in seguito alla crisi dello Stato assoluto, dello sviluppo del modo di produzione capitalistico e
dell'affermazione della borghesia.
I CARATTERI STRUTTURALI che definiscono la forma dello STATO LIBERALE sono:
1) la base sociale ristretta ad un'unica classe;
2) il principio di libertà;
3) il principio di rappresentatività;
4) lo STATO DI DIRITTO;
Documenti fondamentali nella costituzione dello STATO DI DIRITTO furono:
a) Francia: Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789);
b) Inghilterra: Declaration of Rights e Bill of Rights (1689);
c) Stati Uniti: Dichiarazione di Indipendenza (1776);
3.2.3.
Evoluzione delle forme di Stato: Stato liberale ed economia di
mercato
Un importante fattore che ha promosso l'organizzazione del potere politico tipica dello Stato liberale è stato
l'avvento di un'economia di mercato connessa ad un modo di produzione capitalistico.
L'ECONOMIA DI MERCATO si basa sul libero incontro tra domanda ed offerta di un determinato bene.
Questo tipo di economia è basata sul massimo decentramento visto che l'equilibrio generale del mercato è la
risultante di un enorme numero di contratti conclusi tra singoli individui.
Lo Stato assoluto creava ostacoli alla nuova economia, per esempio, con il particolarismo giuridico. La nuova
economia aveva bisogno di:
1) certezza dei diritti di proprietà;
2) piena libertà contrattuale;
3) uguaglianza formale dei contraenti;
4) abolizione dei privilegi, dei monopoli pubblici e di tutte le restrizioni sulla circolazione delle merci;
5) la prevedibilità degli effetti giuridici.
Pertanto le nuove modalità di produzione della ricchezza e l'esigenza di garanzia della libertà contro le
tentazioni assolutistiche condussero all'affermazione di una società civile distinta e separata dallo Stato. Lo
Stato assoluto rendeva la società oggetto di gestione politica, invece lo STATO LIBERALE doveva riconoscere
e garantire la capacità della società civile di autoregolarsi e di sviluppare autonomamente i propri interessi.
In questa prospettiva si può cogliere il collegamento tra due tendenze giuridiche tipiche dello STATO
LIBERALE: le codificazioni costituzionali e le CODIFICAZIONI CIVILI. Quest'ultime esemplificative dalla
tendenza a racchiudere in un unico codice civile le regole sui rapporti tra privati, in modo tale da formare un
corpo sistematico e coerente di REGOLE GENERALI, ASTRATTE e CERTE. Il modello di questo nuovo modo
di legiferare era il Codice Napoleonico del 1805.
3.2.4.
Evoluzione delle forme di Stato: i caratteri dello Stato liberale
Il modello "STATO LIBERALE" è caratterizzato dai seguenti tratti essenziali:
1) finalità politico costituzionale GARANTISTICA. Lo Stato è considerato uno strumento per la tutela
delle libertà e dei diritti degli individui;
2) concezione dello STATO MINIMO. Uno Stato che si astiene dall'intervenire nella sfera economica;
3) principio di LIBERTA' INDIVIDUALE. Lo Stato riconosce e tutela la libertà personale, la proprietà
privata, la libertà contrattuale, la libertà di pensiero e di stampa, la libertà religiosa e la libertà di
domicilio; ma si tratta solo di libertà individuali. Quindi lo Stato liberale esclude qualunque
diaframma tra sé e i singoli cittadini, definendo un sistema giuridico che presuppone una società
formata da individui eguali di fronte alla legge.
4) separazione dei poteri. Lo Stato liberale affida la tutela dei diritti individuali ad una peculiare tecnica
di organizzazione: la separazione dei poteri per cui il potere politico viene suddiviso in soggetti
istituzionali diversi e che si controllano reciprocamente;
5) principio di legalità. La tutela dei DIRITTI è affidata alla LEGGE. La sua caratterizzazione come
STATO DI DIRITTO significa che ogni limitazione della sfera di libertà riconosciuta a ciascun
individuo deve avvenire per mezzo della legge. Questa funzione garantistica della legge si basa su
due premesse:
a) la legge abbia i caratteri della generalità e dell'astrattezza;
b) la legge sia formata dai rappresentanti della Nazione ai cui membri si applica (principio
rappresentativo).
c) le assemblee legislative dello Stato liberale rappresentano l'intera "nazione" o l'intero
"popolo".
3.2.5.
Evoluzione delle forme di Stato: nascita dello Stato di democrazia
Lo Stato di democrazia pluralista si afferma a seguito di un lungo processo di trasformazione dello Stato
liberale che porta all'allargamento della sua base sociale, per cui lo STATO MONOCLASSE si trasforma in
STATO PLURICLASSE.
Esso si fonda sul riconoscimento e la garanzia delle pluralità dei gruppi, degli interessi, delle idee, dei valori
che possono confrontarsi nella società ed esprimere la loro voce nei Parlamenti.
Nel passaggio dallo Stato liberale a quello di democrazia pluralista l'ampliamento "quantitativo" della base
elettorale provoca anche una profonda trasformazione "qualitativa". 3 principali trasformazioni hanno
determinato il modo di essere dello Stato di democrazia pluralista:
1) l'affermazione dei partiti di massa, che organizzano la partecipazione politica di milioni di elettori;
2) la configurazione degli organi elettivi come luogo di confronto e di scontro di interessi eterogenei;
3) il riconoscimento di diritti sociali come strumenti di integrazione nello Stato di gruppi sociali più
svantaggiati;
3.3.1.
Stato di democrazia pluralista: i partiti politici di massa
I PARTITI nello stato liberale erano ristretti gruppi di persone, legati da grande omogeneità economica e
culturale. Agivano principalmente dentro il Parlamento. In regime di suffragio limitato, tipico dell'età liberale,
per essere eletti erano sufficienti i voti di poche centinaia di elettori, che spesso conoscevano personalmente
il candidato.
L'estensione del diritto di voto ha richiesto che venisse organizzata la partecipazione politica di milioni di
elettori, portando a conoscenza di questi ultimi i candidati ed i loro programmi.
Con l'introduzione del suffragio universale perciò sono nati e si sono affermati i moderni PARTITI DI MASSA,
caratterizzati da una solida struttura organizzativa che ha consentito loro di essere radicati nella società e di
diventare strumenti di mobilitazione popolare e di integrazione delle masse nelle istituzioni politiche. I partiti
di massa danno vita ad una BUROCRAZIA di PARTITO. Nell'ambito dell'organizzazione interna di partito si
realizza prevalentemente la selezione della classe politica, dando luogo a quella che è stata definita la
"parlamentarizzazione dei dirigenti di partito".
C'è un altro fenomeno che ha condotto all'affermazione dei partiti di massa: il conflitto sociale. I partiti ed i
sindacati sono diventati organizzazioni di lotta per il miglioramento delle condizioni di vita delle classi
economicamente più deboli.
Con lo Stato di democrazia pluralista i partiti politici diventano capaci di controllare e dirigere l'azione del
Parlamento e del Governo.
3.3.2.
Stato di democrazia pluralista: alternative allo Stato di democrazia
nel XX secolo
Nei paesi in cui l'avvento della DEMOCRAZIA DI MASSA non si era accompagnato alla diffusa accettazione
dei valori del pluralismo e della tolleranza da parte delle forze politiche, la crisi di queste ultime sfociò
nell'affermazione di forme statuali basate sulla negazione del pluralismo e sull'identificazione del PARTITO
UNICO con lo Stato (STATO TOTALITARIO).
Lo Stato assumeva l'attributo della totalitarietà - nel senso che la collettività si integrava in modo totale nello
Stato - e quindi pertanto poteva occuparsi di tutti gli aspetti della vita sociale ed individuale, anche grazie
alla soppressione delle tradizionali libertà liberali.
Un'altra alternativa alla democrazia pluralista che ha conosciuto il '900 è stata rappresentata dallo STATO
SOCIALISTA (ex URSS). Questa forma trova origine nella DITTATURA DEL PROLETARIATO, con la quale si
sarebbe dovuto eliminare la classe antagonista al proletariato, cioè la borghesia, in vista dell'annullamento
del potere statale nella società senza classi né conflitti sociali.
3.3.3.
Stato di democrazia pluralista: affermazione dello Stato sociale
I principi dello Stato di democrazia pluralista hanno trovato conferma al termine del secondo conflitto
mondiale in tutte le aree di influenza politica e culturale delle potenze alleate diverse dall'URSS.
Questa fase costituzionale vede garantite dal diritto, insieme alle libertà liberali - ovvero le tradizionali libertà
negative -, anche le diverse manifestazioni del pluralismo politico, sociale, religioso, culturale ed in
particolare riconosce il ruolo costituzionale dei partiti politici.
Storicamente gli Stati di democrazia pluralista sono sorti in contesti sociali e politici caratterizzati dalla LOTTA
DI CLASSE, cui hanno cercato di dare uno sbocco pacifico attraverso un compromesso politico che sta alla
base delle loro Costituzioni e delle loro politiche.
Il problema principale quindi è stato quello di "tenere insieme la società" (COESIONE SOCIALE) formata da
classi sociali e individui cui il mercato e la nascita attribuiscono posizioni economiche molto differenti.
Da tutto ciò è derivato un ruolo dello Stato che è profondamente diverso da quello tipico dello Stato liberale,
e che ha fatto parlare di STATO SOCIALE o di STATO DEL BENESSERE o di WELFARE STATE. In questo
modo lo Stato supera l'individualismo liberale e sviluppa forme di SOLIDARIETA' tra gli individui e i gruppi
sociali.
Pertanto lo Stato di democrazia pluralista ha visto, sia pure con intensità diversa da Paese a Paese, lo
sviluppo di forme variegate di intervento pubblico nell'economia e nella società, che danno luogo ad un
sistema ad ECONOMIA MISTA.
Le diverse forme dell'interventismo statale che sono prevalse nel periodo di massimo successo dello Stato
sociale (1950-1980) possono essere ricondotte ora al governo del ciclo economico (POLITICHE DI TIPO
KEYNESIANO) ora all'intento di ridurre le disuguaglianza di reddito tra individui e tra gruppi (POLITICHE DI
TIPO REGOLATIVO o POLITICHE DI TIPO REDISTRIBUTIVO).
3.3.4.
Stato di democrazia pluralista: omogeneità e differenze
Nelle seconda metà del '900 l'area occidentale dell'Europa, Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia,
Nuova Zelanda, Giappone e Israele formano un complesso di ordinamenti costituzionali ispirati a principi
sostanzialmente uniformi, tipici delle così dette DEMOCRAZIE OCCIDENTALI.
La sufficiente omogeneità di questi ordinamenti consente di elaborare il modello "STATO DI DEMOCRAZIA
PLURALISTA"; tutto ciò non deve far sottovalutare come tra gli Stati riconducibili al modello permangono
alcune differenze.
Una delle più significative di tali differenze è quella relativa al ruolo ed ai caratteri dei PARTITI POLITICI.
Infatti mentre in Europa l'esperienza politica e costituzionale è rimasta contrassegnata dal fondamentale
ruolo dei partiti politici di massa, gli Stati Uniti hanno conosciuto un modello diverso di partito, senza una
complessa organizzazione e senza una classe dirigente di professionisti. Il ruolo del partito statunitense
(sostanzialmente sono due) è quello di dare al candidato una macchina elettorale. Il ruolo pluralista del
partito nello scenario politico americano è svolto dall'associazionismo e dalle lobby.
Un'altra importante differenza riguarda il grado di condivisione dei valori fondanti il tipo di Stato, quindi
l'omogeneità o l'eterogeneità della cultura politica. In taluni paesi (tra cui l'italia) la società è divisa in settori
sociali separati per ragioni etniche, linguistiche, religiose o ideologiche. Nei paesi "omogenei" il dibattito
politico si incentra sulle modalità di ripartizione del reddito nazionale e comunque il regime economico, nei
paesi "eterogenei" il conflitto è tra modelli alternativi di società e di regime politico. Parte di questa seconda
categoria è venuta meno con la dissoluzione del blocco sovietico.
Una terza notevole differenza riguarda le modalità di INTERVENTO DELLO STATO nell'economia e nella
società. In alcuni Paesi si è verificata una, per così dire, "predominanza economica privatistica" mentre in
altri, tra cui l'italia, una "predominanza economica pubblicistica". A partire dagli anni '90 questa differenza ha
iniziato sostanzialmente a livellarsi nella direzione privatistica per il prevalere di un'economia di mercato
concorrenziale.
A seguito del crollo del modello socialista si è sviluppata un'ondata di democratizzazione con una
conseguente diffusione di Costituzioni ispirate al modello di Stato di democrazia pluralista.
3.3.5.
Stato di democrazia pluralista: tra società post-classista e
globalizzazione
Lo Stato di democrazia pluralista ha dovuto affrontare alcune importanti cambiamenti nel corso degli ultimi
due decenni:
1) società post-classita;
2) crisi fiscale;
3) globalizzazione;
4) integrazione europea.
La crisi della divisione di classe ha creato una crisi dell'ideologia (soprattutto marxista) che ha diminuito
fortemente la capacità dei partiti di dare ordine agli interessi ed alle domande particolaristiche attraverso una
sintesi politica. Così che i singoli gruppi sociali tendono a riversare le domande sugli organi costituzionali parlamenti - chiedendo provvedimenti favorevoli ai propri interessi. Tutte queste richieste, avendo un costo
per lo Stato, hanno gravato sul bilancio dello stesso che si è quindi trovato nella condizione di cedere al
potere di pressioni dei singoli gruppi.
A partire dagli anni '70 si è parlato di crisi fiscale dello Stato per indicare la tendenza alla crescita della spesa
pubblica, per coprire la quale la pressioni fiscale è cresciuta fino a livelli così elevati da portare alla ribellione
i ceti più colpiti. Da questo è scaturita una prima spinta al riordino dello Stato sociale e dei suoi costi. Ben
presto è arrivata un'altra spinta allo Stato in questa direzione: la globalizzazione.
La globalizzazione ha determinato una serie di conseguenze nelle politiche dello Stato:
1) mobilità delle imprese. Eccessiva pressione fiscale equivale a fuga di capitali;
2) crisi della logica keynesiana. Il sostegno alla domanda interna finisce per beneficiare la produzione
"esterna", senza sensibili effetti sull'occupazione e l'inflazione;
3) flessibilità del lavoro. Minori vincoli legali nel rapporto di lavoro per compensare il GAP di
competitività rispetto ai paesi dove il modello del welfare non è così avanzato.
Inoltre nei paesi UE, con l'avvio dell'unione monetaria gli Stati hanno accettato una serie di vincoli alla
propria politica economica che hanno imposto una sensibile riduzione della spesa pubblica.
In questo scenario i diritti sociali diventano "diritti finanziariamente condizionati". L'esigenza quindi di
maggior rigore finanziario conduce alla ricerca di forme di razionalizzazione e riordino dello Stato sociale e di
nuove modalità di soddisfacimento dei diritti sociali che costino meno al bilancio statale. Si assiste così al
tentativo di adeguare lo Stato alle esigenze della competitività internazionale, garantendo però almeno pari
opportunità ai suoi cittadini, trasformandolo in STATO SOCIALE COMPETITIVO.
Questo insieme di elementi dovrebbe portare lo Stato nella direzione del "principio di sussidiarietà":
1) trasferimento della gestione di servizi agli enti locali che posso svolgere questi compiti con maggiore
efficienza e controllo. SUSSIDIARIETA' VERTICALE;
2) attribuzione di compiti propri dello stato a particolari associazioni senza scopo di lucro (ONLUS o
terzo settore) che possono svolgere questi compiti con minori costi e più motivazione rispetto alla
struttura burocratica dell'amministrazione pubblica;
e anche a demandare ad un livello sovra-nazionale alcuni compiti di tutela sociale.
3.3.6.
Stato di democrazia pluralista: caratteri
Sulla base di alcune caratteristiche fondamentali si può definire il modello di Stato di democrazia pluralista:
1) si basa sul SUFFRAGIO UNIVERSALE, la SEGRETEZZA e LIBERTA' del VOTO, ELEZIONI PERIODICHE
e PLURIPARTITISMO. Quindi rendono possibile la presenza di una molteplicità di interessi, idee,
valori, gruppi sociali attraverso la garanzia di esistenza e sviluppo. L'insieme di queste garanzie
rientra nel PRINCIPIO DI TOLLERANZA. E' possibile, come nel caso della Costituzione Italiana, che
per tutelare pluralismo e tolleranza vengano vietate certe organizzazioni politiche che operano
contro i principi democratici. La XXII disposizione transitoria della Costituzione italiana vieta la
ricostituzione sotto qualsiasi forma del partito fascista;
2) il pluralismo costituzionalmente garantito non è solo di idee e di valori, ma è anche pluralismo di
formazioni sociali e di formazioni politiche. Il pluralismo trova la sua garanzia nel riconoscimento
costituzionale di alcune libertà tra cui: di associazione, di formazione dei partiti politici, sindacali,
religiose. In questo senso si realizza una profonda differenza rispetto allo Stato liberale le cui
Costituzioni garantivano le libertà del singolo individuo rispetto allo Stato e prevedevano un rapporto
diretto tra cittadino e Stato, escludendo che tra l'uno e l'altro si inserisse il diaframma rappresentato
dalle formazioni collettive;
3) attraverso il pluralismo dei centri di potere, che obbliga lo Stato a confrontarsi con se medesimo e
garantisce una maggiore partecipazione dei cittadini all'attività dello Stato;
4) negando l'esistenza di un interesse generale o bene comune unico e assoluto con una propria
consistenza oggettiva. Lo schema di questo modello è piuttosto quello di un "politeismo dei valori"
riconosciuto, in maniera a tratti contraddittoria, nelle stesse Costituzioni. Per esempio da una parte
di riconosce l'uguaglianza formale - a prescindere quindi dal reddito - di fronte alla legge, salvo poi
affermare la necessità di realizzare un'eguaglianza sostanziale. Oppure mentre si tutela la proprietà
privata e l'iniziativa economica, allo stesso tempo si riconoscono i diritti sociali. Queste
contraddizioni, o spazi di interpretazione sono poi oggetto di un bilanciamento operato
principalmente dalle Corti costituzionali;
5) assicurazione delle libertà di manifestazione del pensiero e pluralismo di accesso ai mezzi di
informazione. In questo spazio si forma la SFERA PUBBLICA che, pur non coincidendo propriamente
con il circuito elettorato-partito-parlamento, riesce ad operare quella pressione sulle istituzioni che
riesce a condizionare le scelte.
3.4.
Rappresentanza politica
Nella nozione di RAPPRESENTANZA POLITICA confluiscono due significati che si collegano a contesti storici
diversi:
1) "rappresentanza" significa "agire per conto di" e perciò esprime un rapporto tra rappresentante e
rappresentato, per cui il secondo, per un atto di volontà chiamato MANDATO, dà al primo il potere di
agire nel suo interesse nel limite del mandato;
2) "rappresentanza" significa anche far vivere in un determinato ambito qualche cosa che
effettivamente in quel contesto non c'è. La dottrina tedesca preferisce perciò usare il vocabolo
"rappresentazione". La rappresentanza in questa accezione non presuppone l'esistenza di un
rapporto tra il rappresentato e il rappresentante, il quale invece dispone di una situazione di potere
autonoma rispetto al primo.
L'accezione moderna della rappresentanza politica, nata con la rivoluzione francese, è la seconda, mentre il
primo significato risale ai parlamenti medievali. I parlamenti medievali, dove erano rappresentati gli ordini, le
corporazioni e i territori erano incentrati sulla RAPPRESENTANZA DI INTERESSI che legava il rappresentante,
per esempio, alla sua corporazione e al mandato imperativo che questa gli aveva assegnato.
La società liberale avendo cancellato, insieme allo Stato assoluto, i corpi intermedi (ordini, corporazioni,
gruppi, chiese, comunità, città e territori) ha introdotto una rappresentanza diversa da quella di interessi. La
rappresentanza quindi doveva andare a comporre un organismo istituzionale, il parlamento, che fosse a
baluardo contro ogni tentazione assolutistica del governo ma che al contempo gestisse i cambiamenti indotti
nello Stato dall'evoluzione economica nella direzione desiderata dal gruppo sociale economicamente
dominante, quello borghese.
Una formulazione di queste esigenze si ha nella costituzione francese del 1791: la sovranità non apparteneva
né al Re né al Popolo, ma alla Nazione, un'entità astratta da cui emanavano tutti i poteri. La Nazione, che
coincideva con il bene comune, agiva tramite il parlamento che la rappresentava.
Da questa impostazione discendono alcune conseguenze:
a) i parlamentari erano scelti per volere della Nazione, quindi dovevano essere i più idonei nella tutela
del bene comune. Questa considerazione giustifica allora la possibilità per la Nazione, e quindi per la
Costituzione o per il Parlamento, di stabilire, al pari di qualsiasi altra funzione pubblica, la
consistenza e le caratteristiche dell'elettorato attivo. SUFFRAGIO LIMITATO;
b) se i parlamentari dovevano rappresentare l'interesse generale, allora non potevano curare interessi
territoriali;
c) e allo stesso tempo e di conseguenza non potevano avere un mandato imperativo da parte del
rappresentato;
Quindi caratteristica comune alle Costituzioni, Statuti, Dichiarazioni liberali è quella di VIETARE IL MANDATO
IMPERATIVO.
Il divieto di mandato imperativo non preclude però che un soggetto politico, l'eletto, debba rispondere ad un
altro soggetto politico, l'elettorato, sulla propria RESPONSABILITA' POLITICA e possa pagare un eventuale
giudizio negativo da parte degli elettori con la perdita del proprio potere.
Anzi, nello ambito dello Stato di democrazia pluralista questo concetto assume un ruolo centrale nel
funzionamento dello Stato. Lo Stato liberale aveva introdotto il concetto che il Governo era politicamente
responsabile nei confronti del Parlamento, lo Stato di democrazia pluralista rende Governo e Parlamento
entrambi dotati di responsabilità politica direttamente nei confronti del corpo elettorale.
3.4.1.
Nello Stato di democrazia pluralista
Per la presenza di una composizione sociale differenziata che può esprimersi integralmente nel sistema
politico mediante il suffragio universale, ecco che nello Stato di democrazia pluralista da una parte numerosi
ed eterogenei gruppi sociali, con le associazioni che li rappresentano, premono sullo Stato per ottenere una
soddisfazione immediata dei loro bisogni mediante la proiezione dei molteplici interessi nelle aule
parlamentari con il rischio di bloccare queste ultime nella propria attività a causa della conflittualità di
interessi contrapposti, mentre dall’altra parte, proprio per l’eterogeneità della base sociale dello Stato, viene
indebolita la legittimazione di tipo legale-razionale e la legittimità dello Stato che può rappresentare la
volontà prevaricatrice di una parte su un’altra.
Il problema di fondo è quello che viene definito GOVERNABILITA’ (o governance in inglese), ovvero la
capacità del sistema di decidere rimanendo legittimato dalla sovranità popolare. Il problema è affrontata
dalla combinazione dei due aspetti fondamentali della rappresentanza politica in rapporti tra loro variabili
secondo la soluzione adottata dai singoli stati:
1) la rappresentanza come rapporto con gli elettori;
2) la rappresentanza come situazione di potere autonomo;
Alcuni tipi rappresentativi delle soluzioni possibili sono:
a) lo STATO DEI PARTITI. Da una parte partiti sociali di integrazione assicurano il collegamento stabile
con gli elettori, dall’altro i partiti intesi come strutture in grado di trascendere le volontà individuali
sintetizzando politicamente le rivendicazioni della base in maniera organica e coerente al contesto.
In questo sistema i soggetti della rappresentanza politica non sono più i parlamentari ma i partiti,
tramite la re-introduzione del mandato imperativo, di origine partitica.
Ex. La costituzione italiana prevede come riconosciuto dalla Corte Costituzionale “il divieto del
mandato imperativo [il quale determina che] il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi
del suo partito, ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre
che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le
direttive del partito”.
Un altro aspetto da considerare è quello della rappresentatività dei partiti, ovvero: in una società con
una precisa divisione tra poche categorie sociali (capitale/lavoro – borghesia/proletariato) è facile
che ciascun individuo si rispecchi nel partito di riferimento della classe sociale cui appartiene. Con un
legame di identificazione così forte nella piramide della burocrazia del partito diventa anche realistico
pensare che il parlamento, ovvero l’insieme di tutti i partiti rappresentativi, sia lo specchio dell’intera
società. Nello Stato di democrazia pluralista moderno la tendenza pluralistica esasperata sta
allontanando il sistema politico da questo modello causandone una crisi profonda, la cui soluzione
può essere trovata solamente in un equilibrio tra sovranità e governabilità diverso;
b) il RAFFORZAMENTO DEL GOVERNO e l’INVESTITURA POPOLARE DIRETTA DEL SUO CAPO. Un altro
tipo di equilibrio può essere ottenuto rafforzando le prerogative del potere esecutivo e
controbilanciandone la portata con l’investitura popolare del medesimo. In questa maniera
l’esecutivo è posto al riparo da pressioni particolari ed è legittimato a governare nell’interesse
generale. Il parlamento quindi diventa cinghia di trasmissione delle istanze dal basso verso l’alto e
delle scelte dall’alto verso il basso;
c) gli ASSETTI NEOCORPORATIVI. Un’altra modalità per adeguare la rappresentatività alla complessità
sociale consiste nella creazione di assetti neo-corporativi. Già durante la crisi dello Stato liberale
erano state sviluppato teorie corporativistiche (ex. Stato fascista), ma nello Stato di democrazia
pluralista questo termine assume un significato diverso. La differenza di base sta nel fatto che le
associazioni di riferimento per le categorie sociali non sono “create” dallo Stato ma si sviluppano
autonomamente e vengono chiamate per la loro “spontanea” rappresentatività dal governo con lo
scopo di mediare le scelte economiche;
d) la RAPPRESENTANZA TERRITORIALE che si ottiene mediante la creazione di una seconda camera a
base territoriale, in cui cioè sono direttamente rappresentati gli interessi degli Stati membri o delle
Regioni;
e) la SOTTRAZIONE della decisione al circuito rappresentativo, cioè l’esclusione della regolamentazione
e del controllo di determinati settori dai poteri del sistema di rappresentanza politica e quindi
l’attribuzione degli stessi ad autorità amministrative indipendenti, slegate dal circuito democratico;
3.4.2.
Democrazia diretta e democrazia rappresentativa
Tra le modalità assunte dal costituzionalismo contemporaneo per fronteggiare la crisi della rappresentatività,
particolare importanza assume il ricorso agli istituti di DEMOCRAZIA DIRETTA. Attraverso questi istituti si
affida direttamente al corpo elettorale l’esercizio di alcune funzioni immediatamente efficaci nell’ordinamento
statale. Questo tipo di soluzione si muove nella direzione di colmare la distanza tra rappresentati e
rappresentanti dovuta alla perdita di legittimità del potere politico come portatore dell’interesse generale.
Gli istituti della democrazia diretta possono essere raggruppati in:
1) l’iniziativa legislativa popolare;
2) la petizione;
3) il REFERENDUM;
L’INIZIATIVA LEGISLATIVA è attribuita ad un certo numero di elettori (50.000 secondo la Costituzione
italiana). La PETIZIONE consiste in una determinata richiesta che i cittadini possono rivolgere agli organi
parlamentari o di Governo per sollecitare determinate attività. Riveste quindi una funzione propulsiva senza
alcun effetto giuridico.
Il più importante strumento di democrazia diretta è il REFERENDUM che consiste in una consultazione
dell’intero corpo elettorale produttiva di effetti giuridici. Il referendum può essere, secondo la Costituzione
italiana:
a) di revisione costituzionale;
b) abrogativo di una legge già approvata dalle camere;
c) consultivo;
Nella maggior parte degli altri Stati europei vige anche il referendum legislativo, ovvero che promuove o
approva leggi direttamente per volontà popolare, anche senza una precedente discussione nell’ambito dei
parlamenti rappresentativi.
3.5.1.
La separazione dei poteri: il modello liberale
Il principio della separazione dei poteri è stato elaborato dal costituzionalismo liberale con l’obiettivo di
limitare il potere politico per tutelare la libertà degli individui. Montesquieu nel 1748 teorizzava che i poteri
pubblici dovessero essere tre e distinti tra loro:
1) potere legislativo;
2) potere esecutivo;
3) potere giudiziario;
Gli aspetti caratterizzanti di questa dottrina politica sono riconducibili a 3 punti:
a) l’attribuzione ad ogni potere in senso soggettivo, cioè come complesso, di 1 funzione pubblica ben
individuata e distinta dalle funzioni attribuite agli altri poteri;
b) l’impossibilità per il medesimo potere di avocare a sé più di una funzione pubblica;
c) il bilanciamento delle funzioni pubbliche in maniera tale da permettere a ciascuna di verificare le
altre. CHECKS AND BALANCES;
L’ordinamento costituzionale statunitense è stato quello in cui il principio della separazione dei poteri ha
trovato la più coerente applicazione. La forma presidenziale statunitense prevede che il Presidente e il
Congresso siano eletti separatamente ed esercitino funzioni distinte. Così il Congresso non può sfiduciare il
Presidente ma neppure il Presidente può sciogliere le camere.
Diverso quanto avviene in Europa, dove la dottrina politica si è sviluppata in maniera molto meno rigida:
a) infatti con la forma di governo parlamentare affermatasi già nell’ottocento nel Regno Unito potere
esecutivo e legislativo si sono trovati legati a doppio filo, dipendendo il primo dalla fiducia del
secondo e approvando il secondo le leggi su indicazione del primo;
b) situazione questa che ha portato a una commistione di poteri al punto che il potere esecutivo emana
regolamenti che contengono norme giuridiche generali (di competenza quindi del potere legislativo),
mentre il potere legislativo approva la legge di Bilancio senza introdurre novità giuridiche (in linea
teorica competenza dell’organo esecutivo);
Fondamenti concettuali di queste teorie sulla separazione dei poteri nello Stato liberale sono la PREMINENZA
DELLA LEGGE e la SEPARAZIONE DELLO STATO DALLA SOCIETA’.
3.5.2.
La separazione dei poteri nelle democrazie pluraliste
Nei sistemi politici europei attuali si afferma una quarta funzione, che è la FUNZIONE DI INDIRIZZO
POLITICO. Consiste sostanzialmente nella determinazione delle linee fondamentali di sviluppo
dell’ordinamento e della politica interna ed esterna dello Stato e nella cura della loro coerente attuazione.
Nella maggior parte degli Stati di democrazia pluralista la suddetta funzione si è venuta gradualmente a
concentrare nell’organo di governo. Esso ha infatti risorse di legittimazione e di organizzazione che gli
consentono di assumere il suddetto ruolo di guida del sistema.
Vi è inoltre la tendenza affermatasi in alcuni Stati, tra cui l’italia, per cui l’amministrazione non può più essere
considerata né come apparato né come organizzazione unitaria. Nel dettato costituzionale è infatti prevista la
separazione tra politica e amministrazione, ossia tra la sfera che governa e la burocrazia, cioè la dirigenza
pubblica. Inoltre l’amministrazione scomponendosi in una pluralità di apparati più o meno interdipendenti
ciascuno dei quali con attribuito un preciso interesse è spesso conflittuale al proprio interno, non potendosi
quindi ritenere un’organizzazione unitaria.
Altre evoluzioni rispetto al modello liberale sono:
a) la funzione legislativa non si caratterizza più per la produzione di norme giuridiche generali e
astratte. Infatti frequentemente la legge assume i caratteri del concreto provvedere, ossia contiene
prescrizioni che si riferiscono a soggetti determinati ed a situazioni concrete, sicché si parla di
LEGGE-PROVVEDIMENTO. Lo sviluppo di questo tipo di strumento è riconducibile all’affermazione
dello Stato sociale che interviene nei rapporti economici e sociali;
b) la funzione giurisdizionale non è più dichiarativa rispetto a principi generali ma sussiste in un
rapporto di valutazione e integrazione discrezionale della norma, anche in considerazione della
sovrapposizione di vari livelli legislativi (Regione, Stato, UE);
A questi si somma ancora un’altra nuova funzione, quella di GARANZIA GIURISDIZIONALE DELLA
COSTITUZIONE, realizzata nei confronti di tutti gli altri poteri. In Italia questa funzione è demandata al
Presidente della Repubblica.
3.6.1.
Regola di maggioranza: definizioni
La regola di maggioranza che caratterizza il funzionamento dello Stato liberale e della democrazia pluralistica
assume significati e funzioni diverse:
a) PRINCIPIO FUNZIONALE, la tecnica attraverso cui un collegio può decidere;
b) PRINCIPIO DI RAPPRESENTANZA, il mezzo attraverso cui si eleggono le assemblee;
c) PRINCIPIO DI ORGANIZAZZIONE POLITICA, il criterio attraverso cui si strutturano i rapporti tra i
partiti politici nel Parlamento;
a) La regola della maggioranza è lo strumento attraverso cui ampie collettività e organi collegiali
possono adottare una decisione. La regola opposta è quella dell’UNANIMITA’ che richiede il consenso
di tutti i membri del collegio. L’affermazione della regola di maggioranza presuppone l’eguaglianza di
tutti i membri del collegio e quindi che il voto di ciascuno di essi sia dotato del medesimo valore di
quello degli altri. Il rovescio della medaglia del sistema della maggioranza è nell’utilizzo che può
esserne fatto da chi la detiene, che per esempio può adottare provvedimenti che eliminino la
minoranza. Si parla allora di TIRANNIA DELLA MAGGIORANZA;
La Costituzione italiana prevede alcuni meccanismi per limitare gli abusi della maggioranza:
1) la rigidità della Costituzione stessa;
2) l’attribuzione alla Corte costituzionale il compito di verifica della legittimità costituzionale
delle leggi dello Stato;
3) la previsione che alcune deliberazioni siano tenute anche con maggioranze diverse da quella
semplice. Vi è la maggioranza SEMPLICE (maggior numero di voti), la maggioranza
ASSOLUTA (la metà più uno degli aventi diritto) e la maggioranza QUALIFICATA (per
esempio 2/3 del collegio);
4) l’attribuzione di determinate facoltà a gruppi di membri del Parlamento di ridotte dimensioni,
che si traduce in potere di condizionamento procedurale per le minoranze;
5) la sottrazione di certe decisioni al circuito dell’indirizzo politico, tramite per esempio la
creazione di Autorità;
6) il decentramento politico;
b) la regola di maggioranza come tecnica per deliberare ed i limiti che essa incontra presuppongono
comunque che una maggioranza e delle minoranze politiche si siano già formate ed esistano
all’interno delle aule parlamentari. Nella seconda accezione, intesa come principio di rappresentanza,
la regola di maggioranza diventa lo strumento utilizzato per eleggere il Parlamento: in ciascun
collegio è eletto il candidato che ottiene più voti;
c) pertanto la regola di maggioranza come regola elettorale è particolarmente coerente con una
determinata concezione delle elezioni e del funzionamento della democrazia. Secondo questa
concezione le elezioni hanno il compito principale di assicurare la formazione di una maggioranza
politica stabile e coesa di un Governo autorevole in grado di esprimere un indirizzo politico coerente
per l’intero mandato. Al corpo elettorale spetta quindi di eleggere una maggioranza e di giudicarne
l’operato nel successivo turno elettorale;
3.6.2.
Democrazie maggioritarie e democrazie consociative
Anche sistemi elettorali che non sono basati sulla regola di maggioranza possono riuscire ad esprimere
maggioranze stabili e Governi autorevoli (Spagna e Germania). Perciò più che la distinzione tra ordinamenti
basati sui diversi principi di rappresentanza (maggioritario o proporzionale), è un’altra distinzione che
assume importanza sulle dinamiche di funzionamento dei diversi sistemi democratici.
In particolare occorre distinguere tra DEMOCRAZIE MAGGIORITARIE (UK, Germania, Francia, Spagna,
Canada e in un certo qual modo gli US) e le DEMOCRAZIE CONSOCIATIVE (Belgio e Olanda).
Nelle democrazie maggioritarie la regola di maggioranza diventa PRINCIPIO DI ORGANIZZAZIONE dei
rapporti tra soggetti politici (3° accezione). In questi casi la contrapposizione esiste durante le elezioni, dove
il corpo elettorale è posto di fronte all’alternativa secca tra due candidati alla carica di Capo del governo o tra
due partiti o coalizioni di partiti, e continua dopo le elezioni, per cui si crea una distinzione funzionale tra la
maggioranza politica ed il Governo, da essa sostenuto, in cui si concentrano i poteri di indirizzo. La
minoranza assume la FUNZIONE DI OPPOSIZIONE. In questi sistemi si può realizzare l’ALTERNANZA
CICLICA dei partiti nei ruoli di maggioranza e opposizione.
Diversamente le democrazie consociative tendono a incentivare l’accordo tra i principali partiti al fine di
condividere il controllo del potere politico. I partiti a livello elettorale competono ciascuno per conto proprio
per conquistare tanti seggi in parlamento quanta la forza politica di cui dispongono. Dopo le elezioni non si
crea una distinzione funzionale tra maggioranza e minoranza, piuttosto i partiti tendono ad utilizzare la
rispettiva forza (numeri) per negoziare tra loro e raggiungere compromessi politici. Le minoranze non sono
opposizione ma sono associate al potere politico perché partecipano alla formazione delle decisioni.
3.6.3.
Le minoranze permanenti
Non vi sono solamente le minoranze politiche, ma esistono alcune MINORANZE PERMANENTI, che si creano
sulla base di differenziazioni stabili presenti nella società e dovute a fattori religiosi, etnici o linguistici. Le
Costituzioni delle democrazie pluraliste si preoccupano di difendere l’esistenza di queste minoranze e delle
loro tradizioni culturali. La Costituzione italiana prevede:
1) il divieto di discriminazione in ragione dell’utilizzo di una lingua diversa da quella nazionale;
2) il divieto di discriminazioni in ragione della religione professata;
3) il divieto di discriminazione in ragione dell’appartenenza all’una o all’altra razza;
3.7.
Stato unitario, federale e regionale
La separazione dei poteri ed i limiti alla regola di maggioranza possono realizzarsi non solo a livello
orizzontale, ma anche a livello verticale. Per questo si distingue tra STATO UNITARIO (centralista) e STATO
COMPOSTO.
Lo Stato unitario ha caratterizzato a lungo l’esperienza europea (con le eccezioni di Germania e Svizzera),
mentre il tipo di Stato composto ha caratterizzato l’esperienza degli Stati Uniti. Da alcuni anni anche in
Europa il modello dello Stato composto ha avuto successo in due variante:
1) Stato federale;
2) Stato regionale;
I caratteri tipici dello STATO FEDERALE sono:
a) l’esistenza di un ordinamento statale federale, con una Costituzione federale e alcune Costituzioni di
enti politici territoriali (Stati membri in USA, Brasile e Australia; Lander in Germania e Austria;
Province in Canada e Argentina; Regioni in Belgio);
b) la previsione da parte della Costituzione federale di una ripartizione di competenze tra i livelli;
c) l’esistenza di un Parlamento bicamerale, in cui una delle due camere rappresenta gli Stati membri;
d) la partecipazione degli Stati membri alla revisione costituzionale e la presenza di una Corte
costituzionale per risolvere le controversie tra i vari livelli;
Lo STATO REGIONALE ha queste caratteristiche principali:
a) la presenza di una Costituzione statale che riconosce e garantisce l’esistenza di enti territoriali dotati
di autonomia politica e di un proprio Statuto (non Costituzione);
b) l’attribuzione costituzionale alle Regioni di competenze legislative e amministrative, una
partecipazione assai limitate alle funzioni statali e in particolar modo alla revisione costituzionale; la
mancanza di una Camera delle Regioni e l’attribuzione alla Corte costituzionale del compito di
risolvere i conflitti tra Stato e Regioni con preminenza per gli interessi dello Stato;
Un'altra distinzione dello Stato composto è quella tra federalismo duale e federalismo cooperativo.
3.8.1.
Unione europea: definizioni
L’UNIONE EUROPEA (UE) è una struttura istituzionale che è tradizione descrivere ricorrendo ad una
metafora: “un tempio greco che poggia su tre pilastri”.
Il pilastro centrale è quello della Comunità economica (CE) che comprende le 3 comunità originarie (CEE,
CECA, EURATOM). I due pilastri laterali sono costituiti dalla politica estera e dalla sicurezza comune (PESC) e
dalla cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni (CGAI).
La differenza sostanziale tra il primo pilastro e gli altri due si evidenza nei processi decisionali. Infatti
nell’ambito della CEE la maggior parte delle decisioni non richiedono l’unanimità degli Stati, mentre per la
PESC e il CGAI è richiesto il voto unanime di tutti gli Stati membri.
Con il Trattato di Amsterdam è stato introdotto il principio della cooperazione rafforzata che consente agli
Stati membri di instaurare forme di collaborazione specifiche, quindi un sistema a geometria variabile o a
due velocità.
Quindi: l’UE si fonda sulle 3 comunità pre-esistenti, si aggiunge a queste ed utilizza le loro istituzioni per
l’esercizio delle sue funzioni e per il perseguimento degli obiettivi previsti dal Trattato.
3.8.2.
L’organizzazione
L’organizzazione comunitaria si articola in diverse istituzioni:
a) il CONSIGLIO EUROPEO è l’organo di impulso dell’UE, chiamato a definire gli orientamenti politici
generali. E’ composto dai capi di Stato (o di Governo) membri e dal Presidente della Commissione. E’
tenuto ad informare il Parlamento europeo dei risultati di ogni sua riunione;
Il CONSIGLIO è l’organo titolare del potere di adottare gli atti normativi e del compito di coordinare
le politiche generali di tutti gli Stati membri. E’ composto da un rappresentate per ogni Stato
(secondo l’ambito di competenza) ed è presieduto da ciascuno dei suoi membri a rotazione per un
periodo di 6 mesi ciascuno. Le deliberazioni del Consiglio sono generalmente assunte a maggioranza
semplice anche se in alcuni casi il Trattato CE prevede la maggioranza qualificata calcolata con un
meccanismo di voto ponderato che attribuisce un peso diverso ad ogni Stato. In casi particolari è
richiesta l’unanimità. Al Consiglio è affiancato il COMITATO DEI RAPPRESENTANTI PERMANENTI
(COREPER), organo composto dai rappresentanti permanenti degli Stati membri, incaricato di
preparare il lavoro del Consiglio;
b) la COMMISSIONE si può considerare come il centro dei processi di decisione e come l’organo di
propulsione dell’ordinamento comunitario. Dispone di poteri d’iniziativa normativa (su indirizzo del
Consiglio), di poteri di decisioni amministrativa e di regolamentazione e di poteri di controllo nei
c)
d)
e)
f)
g)
confronti degli Stati membri. La commissione esercita un controllo indiretto sugli Stati membri circa il
rispetto del Diritto europeo tramite le segnalazioni di soggetti privati, creando così un rapporto
trilatero (Commissione, Amministrazioni nazionali, privati).
Rilevante è il ruolo della Commissione nella gestione dei finanziamenti comunitari, ne stabilisce
l’ammontare e la ripartizione.
La Commissione è composta da 20 membri (attualmente 1 per l’italia), che durano in carica 5 anni,
designati in accordo con gli Stati membri. La nomina del Presidente e dei componenti coinvolge
direttamente il Parlamento, che dapprima esprime il proprio parere (vincolante) sul Presidente e poi
con un voto distinto sull’intera Commissione;
il PARLAMENTO EUROPEO è composto dai rappresentanti dei popoli degli Stati membri, eletti in
ciascun Stato, per 5 anni e a suffragio universale e diretto. Il PE è un organo rappresentativo e
dotato di legittimazione democratica, ma non è titolare del potere di adottare atti normativi. Con il
Trattato di Amsterdam sono stati rafforzati i poteri del PE, che ora è pienamente partecipe del
processo di formazione degli atti normativi attraverso procedure di codecisione (diritto di veto sulle
proposte della Commissione) e cooperazione. Il PE dispone di un potere di iniziativa indiretta tramite
la Commissione. Il PE è titolare dei poteri di controllo verso la Commissione tramite commissioni
temporanee di inchiesta, interrogazioni, mozioni di censura e voto di fiducia iniziale;
la CORTE DI GIUSTIZIA è l’organo giurisdizionale comunitario, chiamato ad assicurare il rispetto del
diritto nell’interpretazione ed applicazione del Trattato. E’ composto da 15 giudici e può giudicare
anche l’azione degli Stati membri per quanto relativo il Diritto europeo. La Corte è coadiuvata dal
tribunale di primo grado le cui sentenze possono essere impugnate di fronte alla Corte;
la CORTE DEI CONTI è l’organo di controllo contabile della Comunità;
il COMITATO ECONOMICO E SOCIALE è un organo consultivo del Consiglio, della Commissione e del
PE. E ‘ composto dai rappresentanti delle diverse categorie economiche ed esprime pareri obbligatori
ove richiesto dal Trattato;
il COMITATO DELLE REGIONI è un organo consultivo del Consiglio, della Commissione e del PE. E’
composto dai rappresentanti delle collettività regionali e locali, delle quali esprime le istanze a livello
comunitario;
Le attribuzioni della Comunità europea e dell’UE sono solo quelle espressamente previste dal Trattato, e
riguardano campi rilevantissimi: la libera circolazione di merci, lavoratori, capitali e servizi; la disciplina della
concorrenza; l’agricoltura; i trasporti; la politica monetaria (ed economica); l’occupazione; ecc…
Il principio di tassatività delle attribuzioni è parzialmente temperato in almeno due casi:
1) la CE può esercitare i poteri necessari al raggiungimento degli scopi del Trattato, pur se questo non
li prevede espressamente (principio di autointegrazione);
2) la CE, secondo quanto stabilito dalla Corte di Giustizia, può adottare tutte le misure necessarie,
anche quelle non previste, per ottenere un esercizio efficace ed adeguato di una competenza
attribuitale;
Il Trattato UE prevede anche il principio di proporzionalità (mezzi commisurati agli obiettivi) e di sussidiarietà
(competenze variabili a seconda dell’efficacia).
4.
Forme di governo
4.1.1.
Stato liberale: la monarchia costituzionale
Le forme di governo conosciute dallo Stato liberale sono la MONARCHIA COSTITUZONALE, il GOVERNO
PARLAMENTARE e il GOVERNO PRESIDENZIALE.
La MONARCHIA COSTITUZIONALE è la forma di governo che si afferma nel passaggio dallo Stato assoluto
allo Stato liberale. Questa forma si caratterizza per la netta separazione dei poteri tra il Re e il Parlamento, il
primo esecutivo il secondo legislativo. Il Re resta all’apice dello Stato, può sanzionare l’attività legislativa del
Parlamento, nominare i giudici, concedere grazie e sciogliere il Parlamento. Da una parte il principio
monarco-ereditario, dall’altra il principio elettivo e man mano che questo equilibrio nella società si sposta a
favore della Borghesia il sistema tende sempre più alla forma di Governo parlamentare.
Abbiamo un Governo parlamentare quando compare una terza istituzione: il Governo o Gabinetto, distinto
dal re e dal Parlamento, a quest’ultimo legato dalla fiducia.
4.1.2.
Parlamentarismo dualista e monista
La forma di governo parlamentare si è affermata nello Stato liberale attraverso un lento processo storico, al
di là delle previsioni formali dei documenti costituzionali. Essa ha conosciuto due fasi distinte. Il sistema
parlamentare delle origini era un PARLAMENTARSIMO DUALISTA:
a) il potere esecutivo era ripartito tra il Capo dello Stato e il Governo (esecutivo bicefalo);
b) il Governo doveva avere una doppia fiducia, quella del re e quella del Parlamento;
c) a garanzia dell’equilibrio tra potere esecutivo e potere legislativo, al Capo dello Stato era
riconosciuto il potere di scioglimento anticipato del Parlamento, come contrappeso alla responsabilità
politica del Governo;
Con la graduale affermazione della Borghesia e dei suoi interessi si è vista l’affermazione del
PARLAMENTARISMO MONISTA, in cui il governo ha la fiducia solo dal Parlamento e il Capo dello Stato è
relegato a un ruolo di garanzia e quindi estraneo al circuito della decisione politica.
Il meccanismo attraverso cui questa mutazione è avvenuta è stato individuato nella prassi della
CONTROFIRMA. Nata come attestazione della volontà del Monarca che controfirmava gli atti del proprio
ministro, è diventata una prassi formale e di garanzia.
Il parlamentarismo monista ha ovviamente conosciuto varianti da paese a paese. Le principali possono
essere riassunte:
a) in GB è prevalso il ruolo di direzione politica del Governo sulla base di una forte maggioranza
parlamentare determinata dalla presenza di due soli grandi partiti;
b) in Francia invece con la III repubblica (1875) è prevalso il ruolo dell’Assemblea a causa della
debolezza dei Governi retti da maggioranze frammentate;
4.2.
Forme di governo nella democrazia pluralista
Abbastanza complesso in sistemi di democrazia pluralista determinare con esattezza il tipo di forma di
governo cui appartengono senza entrare nello specifico del sistema politico e soprattutto partitico. Quando
parliamo di SISTEMA DI PARTITI intendiamo riferirci essenzialmente al numero di partiti ed al tipo di
rapporto che si instaura tra di essi.
Per esempio la Scienza politica ha classificato i sistemi politici tenendo anche conto del tipo di aggregazioni
che sono possibili tra i singoli partiti, cioè del potenziale di coalizione dipendente in larga parte dalla cornice
ideologica di riferimento.
Mettiamo il caso che in un sistema vi siano partiti definiti ANTISISTEMA, il quadro che ne risulta è
ideologicamente polarizzato e il sistema può essere definito SISTEMA MULTIPOLARE. In questi casi
difficilmente a livello elettorale può operare la regola di maggioranza per la formazione di un Governo
stabile. Mancando frizioni così forti, pur avendo un sistema multipartitico, è facile che l’equilibrio vada a
stabilirsi su una forma BIPOLARE.
La conclusione è che in uno Stato di democrazia pluralista, tra forma di governo e sistema politico esiste un
rapporto di condizionamento reciproco.
4.3.1
Il sistema parlamentare e le sue varianti: caratteri
La forma di governo parlamentare si caratterizza per l’esistenza di un RAPPORTO DI FIDUCIA tra Governo e
Parlamento dove il primo rappresenta solo un’emanazione del secondo. Nel caso di sistemi bicamerali, è
importante stabilire se entrambi hanno il potere di sfiducia e comunque, nel caso negativo, quale dei due.
Nell’ultimo dopoguerra, allo scopo di evitare la debolezza manifestata dal parlamentarismo e identificata
come una delle cause del totalitarismo europeo, ha preso corpo una tendenza alla RAZIONALIZZAZIONE DEL
PARLAMENTARISMO. Ovvero alla trasformazione in codice scritto, contenuto nelle carte costituzionali, delle
prassi sviluppatesi nel sistema parlamentare.
Questo generi di intervento nelle costituzioni è rintracciabile più che altrove nella Costituzione tedesca del
1949, dove al Capo del Governo, chiamato Cancelliere federale, si attribuisce la centralità politica. Il
Cancelliere è eletto su proposta del Presidente federale con votazione a maggioranza, ma senza alcuna
discussione, dalla Camera. Se questo non ottiene la maggioranza la Camera ha 14 giorni di tempo per
eleggerne un altro a maggioranza assoluta. Se entro questo termine non viene trovata una maggioranza
assoluta, il Presidente può confermare alla carica di Cancelliere il candidato più votato oppure sciogliere la
Camera. Un’altra particolarità è quella della SFIDUCIA COSTRUTTIVA, che consiste nella possibilità per la
Camera politica di sfiduciare un Cancelliere solo se contestualmente è in grado di eleggere a maggioranza
assoluta un successore. Per queste peculiarità per indicare la forma di Governo tedesca si usa il termine
CANCELLIERATO.
4.3.2.
Il sistema parlamentare e le sue varianti: maggioritario e
compromissorio
Il PARLAMENTARISMO MAGGIORITARIO (o a PREVALENZA DEL GOVERNO) si caratterizza per la presenza di
un sistema politico bipolare, con due partiti o due coalizioni, fra loro alternativi. Le elezioni permettono di
dare vita ad una maggioranza politica, il cui leader assume la carica di Primo Ministro, godendo quindi di una
forte investitura popolare. Il Governo ha il sostegno della maggioranza che di regola lo sostiene fino alla fine
della legislatura (Governo di legislatura).
Il Governo dispone così dell’appoggio della maggioranza che può dirigere per ottenere l’approvazione
parlamentare dei disegni di legge che propone (Governo come comitato direttivo del Parlamento). Alla
maggioranza si contrappone il partito o la coalizione di partiti che costituisce l’OPPOSIZIONE
PARLAMENTARE. Il sistema si contraddistingue per la pratica dell’ALTERNANZA ciclica dei partiti nei ruoli di
maggioranza e di opposizione. Questo concetto è così radicato in GB che è stato istituzionalizzato il
GABINETTO OMBRA, contrapposto a quello governativo, composto dai leader destinati divenire ministri in
caso di rovesciamento al successivo turno elettorale.
Diversa è la situazione nelle società divise da fratture profonde nelle quali per evitare l’esplosione violenta di
conflitti e le tendenze disgregatrici, deve essere ricercato l’accordo tra le parti politiche sull’indirizzo e la sua
realizzazione. In tali tipi di democrazia si è adottata una forma di governo parlamentare di tipo diverso, che
prende il nome di parlamentarismo a prevalenza del Parlamento o addirittura di parlamentarismo
compromissorio.
Il PARLAMENTARISMO A PREVALENZA DEL PARLAMENTO è caratterizzato da un sistema politico che opera
seguendo un modulo multipolare. Sono i partiti dopo le elezioni a concludere accordi attraverso cui si forma
la maggioranza politica e si individua la composizione del Governo e la persona che dovrà assumere la carica
di primo ministro. Questo tipo di sistema parlamentare si caratterizza per la debolezza e l’instabilità del
Governo, mentre cresce il ruolo del Parlamento con cui il Governo per mantenere la fiducia è costretto a
contrattare il contenuto delle leggi.
In certi sistemi la procedura parlamentare è regolata in modo tale da favorire la ricerca del compromesso tra
maggioranza e minoranza. In questo caso il sistema può essere denominato PARLAMENTARISMO
COMPROMISSORIO.
4.4.1.
Presidenzialismo
La FORMA DI GOVERNO PRESIDENZIALE è quella il cui Capo dello Stato:
a) è eletto dall’intero corpo elettorale nazionale;
b) non può essere sfiduciato da un voto parlamentare durante il suo mandato che ha una durata
prestabilita;
c) presiede e dirige i Governi da lui nominati;
L’esperienza storico-costituzionale in cui la forma di governo presidenziale ha avuto la sua realizzazione di
maggior successo è quella degli USA. Qui il Presidente e il Vice-Presidente sono eletti per un mandato di 4
anni (massimo 2 mandati con l’emendamento XXII del 1951) attraverso una procedura che solo formalmente
è a doppio grado: in ogni Stato sono eletti gli “elettori presidenziali” (in numero uguale a deputati e senatori
dello Stato medesimo), i quali successivamente sono riuniti in un collegio ad hoc (Electoral College) che
procede alla scelta del Presidente e del Vice. Ma poiché i due grandi partiti nazionali, attraverso delle
convenzioni, hanno già scelto i propri candidati, nel momento in cui gli elettori votano per gli “elettori
presidenziali” sanno già che questi ultimi al momento della successiva elezione nel collegio presidenziale si
limiteranno a votare per i candidati scelti dai rispettivi partiti.
Il Presidente degli Stati Uniti gode della forte legittimazione politica che deriva dall’investitura popolare
diretta. Il Presidente ha alle sue dipendenze l’amministrazione dello Stato federale e nomina i suoi
collaboratori, che non possono essere parlamentari.
Non esiste neppure un organo chiamato “governo”: i collaboratori (Segretari di Stato) quando sono riuniti
formano il cosiddetto Gabinetto, privo di qualsiasi rapporto con l’Assemblea. Tra i collaboratori presidenziali
assume particolare rilievo la figura del Segretario di Stato, posto al vertice del Dipartimento di Stato e
incaricato delle relazioni esterne. Tra le attribuzioni presidenziali grande rilievo hanno quelle relative alla
politica estera e alle forze armate.
Di fronte al Presidente c’è il Parlamento che prende il nome di CONGRESSO, che ha struttura bicamerale. Le
due camere sono: il SENATO, formato da due rappresentanti per ogni Stato membro, e vengono
parzialmente rinnovati ogni due anni; la CAMERA DEI RAPPRESENTANTI, formata su base nazionale in modo
proporzionale alla popolazione degli Stati da deputati con mandato biennale.
Il CONGRESSO è titolare del potere legislativo, approva il bilancio annuale, necessario affinché
l’amministrazione sia autorizzata a spendere, può mettere in stato di accusa il Presidente (impeachment) per
tradimento, corruzione o altri gravi reati, e in tal caso il giudizio finale spetta al Senato.
Congresso e Presidente sono reciprocamente indipendenti e, attraverso meccanismi costituzionali, hanno
potere di verifica l’uno sull’altro e viceversa. Il Presidente ha il potere di veto sospensivo sulle leggi
approvate dal Congresso – il quale può superare il veto tramite voto a maggioranza qualificata dei 2/3 – e il
Congresso ha il potere di approvare le nomine Presidenziali alle più alte cariche e la facoltà, con sanzioni
penali, di convocare funzionari dell’amministrazione per esercitare un controllo sulla politica del Presidente.
Il sistema americano è determinato da un dualismo paritario tra Presidente e Parlamento, contrapposto al
monismo tipico dei sistemi europei.
4.5.1.
Semipresidenzialismo
La FORMA DI GOVERNO SEMIPRESIDENZIALE si caratterizza per i seguenti elementi costitutivi:
a) il Capo dello Stato è eletto direttamente dal corpo elettorale dell’intera nazione e dura in carica per
un periodo prestabilito;
b) il Presidente è indipendente dal Parlamento, perché non ha bisogno della sua fiducia, tuttavia non
può governare da solo, ma deve servirsi di un Governo, da lui nominato;
c) il Governo deve avere la fiducia del Parlamento;
In tale sistema c’è una struttura diarchica o bicefala del potere di governo, che, infatti, ha due teste: il
Presidente della Repubblica e il Primo Ministro. Questa struttura duale del potere di governo, con le sue due
teste, consente diversi equilibri nella forma di governo, che può vedere la prevalenza ora del Presidente ora
del Governo. Perciò è opportuno distinguere forme di governo semipresidenziali:
1. a Presidente forte (Francia);
2. a prevalenza del Governo (Austria, Irlanda, Islanda);
Nella Costituzione della V Repubblica francese il Presidente gode di importanti poteri, molti dei quali possono
essere esercitati senza bisogno della controfirma del Governo:
• nominare il Primo Ministro e, su proposta di quest’ultimo, nomina e revoca dei ministri;
• indire referendum su ogni progetto di legge concernente l’organizzazione dei poteri pubblici;
• sciogliere l’Assemblea Nazionale;
• inviare messaggi al Parlamento;
• deferire al Consiglio Costituzionale una legge prima della sua promulgazione e nominare 3 membri di
quest’organismo;
• presiedere il Consiglio dei Ministri;
• adottare tutte le misure necessarie per la salvaguardia dell’indipendenza e dell’integrità della
Nazione e per il rispetto degli impegni internazionali qualora fossero minacciati in maniera grave e
immediata;
Ma il ruolo di direzione politica del Presidente si è basato piuttosto che sull’esercizio dei suddetti poteri,
principalmente sull’autorità politica che gli deriva dall’elezione popolare diretta e dal controllo della
maggioranza parlamentare (che facilmente coincide con la maggioranza che ha espresso il Presidente).
Il Presidente e il Parlamento sono formati attraverso due distinti procedimenti elettorali che fino al 2000 si
svolgevano anche in periodi distinti. Questo può portare talvolta alla situazione definita COABITAZIONE in
cui la maggioranza che esprime il Presidente non coincidere con la maggioranza parlamentare. La
coabitazione espone il sistema semipresidenziale a rischi di conflitti paralizzanti tra le due teste del potere di
governo.
Nei sistemi semipresidenziali in cui prevale la componente parlamentare-governativa il ruolo di Presidente si
riduce a quello di garanzia. Ciò è dovuto alle caratteristiche del sistema politico, più che a norme
costituzionali. Nello specifico:
• la bipolarizzazione del sistema politico che vede due schieramenti contrapporsi, i cui leader sono
candidati alla carica di Primo Ministro;
• alla coincidenza nella medesima persona della carica di Primo Ministro e di leader della maggioranza;
• alla regola convenzionale per cui i partiti candidano alla Presidenza personalità politiche di secondo
piano;
Chiamare questi sistemi semipresidenziali è un po’ fuorviante. In effetti, eccezion fatta per l’elezione diretta
del Presidente che ha un ruolo di garanzia, questa sistemi ricalcano il modello del regime parlamentare.
4.6.1.
Altre forme di governo contemporanee
La forma di governo NEOPARLAMENTARE:
a) il rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento;
b) l’elezione popolare diretta del Primo Ministro;
c) l’elezione contestuale di Primo Ministro e Parlamento;
d) il “Governo di Legislatura”, per cui un’eventuale crisi con le dimissioni del governo comporta lo
scioglimento del Parlamento;
Quella neoparlamentare è una forma di governo elaborata dalla dottrina con l’intenzione di raggiungere
l’investitura popolare del Primo Ministro e la stabilità del Governo. L’unico esempio storico di forma di
governo riconducibile a questo tipo è Israele dopo la riforma costituzionale del 1992. Anche se a differenza
del modello manca la contestualità delle elezioni del Primo Ministro e del Parlamento e il meccanismo
elettorale, basato sul sistema proporzionale, è tale da creare frammentazione politica.
La forma di governo DIRETTORIALE, adottata solamente dalla Confederazione elvetica, si caratterizza per la
presenza, accanto al Parlamento, di un DIRETTORIO, formato da 5 membri, eletto ma non revocabile
dall’Assemblea, che svolge contemporaneamente le funzioni di Governo e di Capo dello Stato. Ciò impone
che Governo e Capo dello Stato abbiano una struttura collegiale in cui siano rappresentate le diverse
componenti etniche e linguistiche che vivono nell’ambito della Confederazione.
4.7.1.
La legislazione elettorale
Nella legislazione elettorale confluiscono tre diverse componenti:
a) le norme che definiscono l’area della CITTADINANZA POLITICA, ossia l’insieme delle norme che
stabiliscono i soggetti che godono dell’elettorato attivo;
b) le regole sul SISTEMA ELETTORALE, che stabiliscono il meccanismo attraverso cui i voti espressi
dagli elettori si trasformano in seggi parlamentari;
c) la LEGISLAZIONE ELETTORALE DI CONTORNO, quindi le modalità di svolgimento delle campagne
elettorali, di finanziamento della politica e di eleggibilità e compatibilità;
4.7.2.
L’elettorato attivo e passivo
Per quanto riguarda il primo dei profili indicati, si è visto come il passaggio dallo Stato liberale a quello di
democrazia pluralista ha comportato l’introduzione del suffragio universale.
L’art. 48 della Costituzione italiana afferma che sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che abbiano
raggiunto la maggiore età. Questa norma disciplina il cosiddetto ELETTORATO ATTIVO, ovvero la capacità di
votare.
La legge fissa il raggiungimento della maggiore età per esercitare il diritto di voto, ma prescrive allo stesso
tempo un età diversa per l’elezione dei membri del Senato. La Costituzione stabilisce i casi in cui il cittadino
perde la capacità di votare:
1) incapacità civile;
2) effetto di sentenze penali irrevocabili ove previsto;
3) indegnità morale;
Tra le cause di indegnità morale rientrano secondo la legge coloro che hanno un fallimento in corso, che
sono sottoposti a misure di prevenzione da parte delle forze di polizia e che sono sottoposti all’interdizione
temporanea dai pubblici uffici.
L’articolo 48.2 pone alcuni principi circa il diritto di voto:
1) è personale. Vietato quindi il voto per procura;
2) è eguale;
3) è libero. Lo Stato punisce ogni ingerenza o corruzione;
4) è segreto. Al fine di garantirne la libertà;
5) è dovere civico. Non giuridico;
Con la revisione costituzionale del 2000/2001 anche i cittadini italiani residenti all’estero possono esercitare
la capacità di voto al di fuori dei confini dello Stato. E’ stato quindi istituita una “circoscrizione estero” per
l’elezione di 12 deputati e 6 senatori.
Altra cosa è l’ELETTORATO PASSIVO, che consiste nella capacità di essere eletto. La Costituzione fissa due
limiti anagrafici all’elettorato passivo:
1) il compimento del 25° anno per la Camera dei Deputati;
2) il compimento del 40° anno per il Senato;
Per il resto rinvia alla capacità elettorale attiva e alle condizioni di eleggibilità.
4.7.3.
Ineleggibilità e incompatibilità parlamentari
L’INELEGGIBILITA’ PARLAMENTARE consiste in un impedimento giuridico a costituire un valido rapporto
elettorale per chi si trova in una delle cause ostative previste dalla legge.
L’INCOMPATIBILITA’ invece è quella della situazione giuridica in cui il soggetto, validamente eletto, non può
cumulare nello stesso tempo la funzione di parlamentare con altra carica.
Diverso è il fondamento giuridico che sta alla base delle due figure:
1) ineleggibilità: mirano a garantire la libertà di voto e la parità di chances tra i candidati;
2) incompatibilità: sono volte ad assicurare l’imparziale esercizio delle funzioni connesse alla carica
elettiva;
Diversi sono gli effetti di queste istituti:
1) ineleggibilità: determina la nullità dell’elezione;
2) incompatibilità: producono la decadenza del titolare della carica elettiva qualora non faccia venire
meno la causa. Quindi possono essere rimosse attraverso l’opzione;
La norma costituzionale sulle ineleggibilità e incompatibilità parlamentari (art. 65.1) rimanda alla legislazione
ordinaria la determinazione delle relative cause. Tuttavia trattandosi di limitazioni ad un diritto fondamentale,
la Corte Costituzionale ha sempre affermato che l’eleggibilità è la regola e l’ineleggibilità l’eccezione a cui si
può far luogo solo in presenza di validi e ragionevoli motivi.
Le cause di ineleggibilità parlamentari così come normate dal d.P.R. 361/1957 (e successive modifiche)
sono:
1) titolari di cariche di governo di enti locali, funzionari pubblici, alti ufficiali;
2) soggetti aventi rapporti di impiego con Governi esteri;
3) soggetti aventi peculiari rapporti economici con lo Stato;
A queste categorie vanno aggiunti i magistrati inferiori a cui non viene data la possibilità di candidarsi in
collegi comprendenti anche solo una porzione della giurisdizione dei propri uffici, salvo il caso le dimissioni
dall’ufficio precedano di almeno sei mesi l’accettazione di candidatura.
Le cause di ineleggibilità pervenute nel corso del mandato elettivo prendono il nome di INELEGGIBILITA’
SOPRAVVENUTE e vengono considerate alla stregua di incompatibilità.
Figura diversa dalle due viste fin qui è l’INCANDIDABILITA’, introdotta nel 1992, che consiste in una
inidoneità funzionale assoluta non rimovibile dall’interessato. La legge introdotta soprattutto contro i reati di
tipo mafioso è stata ammorbidita dalla Corte Costituzionale limitandola alle sentenze definitive e
introducendo la sospensione dalla carica fino a questo momento.
4.7.4.
Disciplina delle campagne elettorali
In un sistema democratico, la libertà di scelta dell’elettore e la parità di chances dei candidati costituiscono
principi irrinunciabili (artt. 48-50 della Cost.). Una parte importante della legislazione elettorale di contorno
ha proprio l’obiettivo di disciplinare la fase che precede la votazione vera e propria con l’obiettivo di
assicurare che il voto sia la genuina espressione della scelta popolare e l’eguaglianza di opportunità dei
candidati.
Con la legge 515/93 e poi con la legge 28/00 anche nell’ordinamento della Repubblica si è proceduto alla
disciplina dell’accesso all’informazione in campagna elettorale. Si parla di parità di accesso ai mezzi di
informazione, del regime delle spese elettorali per i singoli candidati e i raggruppamenti, di limiti alla
diffusione di messaggi elettorali e di un sistema sanzionatorio relativo (“par condicio”). Con la modifica del
2000 viene introdotto il principio di parità di accesso all’informazione anche al di fuori della campagna
elettorale e l’obbligatorietà per i mezzi di informazione pubblica di offrire programmi di comunicazione
politica.
4.7.5.
Il finanziamento della politica
La politica ha costi crescenti nelle odierne democrazie pluralistiche. In una democrazia basata
sull’eguaglianza di tutti i cittadini occorre evitare che solo chi detiene il controllo di ingenti risorse
economiche possa conquistare la titolarità del potere politico. Da qui la tendenza ad introdurre forme di
FINANZIAMENTO PUBBLICO dei partiti e dei candidati, in modo da assicurare a tutti i soggetti politici pari
opportunità nella competizione elettorale.
Risale alla legge 157/1999 (modificata nel 2002) l’ultima revisione della normativa relativa al finanziamento
pubblico dei partiti in italia. Questo dispositivo prevede:
a) il rimborso delle spese elettorali sostenute da partiti e movimenti politici per le elezioni del
Parlamento, Parlamento Europeo, Consigli Regionali e per le consultazioni referendarie a carico del
bilancio dello Stato nella misura, per ogni anno di legislatura, di un euro per elettore della Camera
dei Deputati;
b) il riparto dei fondi secondo criteri diversi in base al tipo di competizione elettorale. Per la Camera il
fondo è ripartito in maniera proporzionale tra i gruppi che abbiano superato l’1%;
4.7.6.
I sistemi elettorali
Il SISTEMA ELETTORALE è il meccanismo attraverso cui i voti espressi dagli elettori si trasformano in seggi.
Il sistema elettorale si compone di 3 parti:
1) il tipo di scelta che spetta all’elettore. A seconda della disciplina elettorale adottata, può essere una
scelta categorica o ordinale;
2) la dimensione del COLLEGIO, nel cui ambito viene preso in considerazione il voto per la ripartizione
dei seggi. Si distingue in collegio unico per l’intero territorio nazionale (il caso del Knesset Israeliano)
oppure in più collegi che suddividono il territorio ed esprimono ciascuno un numero predeterminato
di eletti. Se gli eletti sono più di uno si parla di collegio PLURINOMINALE, altrimenti UNINOMINALE.
Già questi fattori permettono di distinguere tra sistemi selettivi (collegi piccoli con pochi eletti) o
proiettivi (collegi grandi con molti eletti);
3) la FORMULA ELETTORALE, che è il meccanismo attraverso cui si procede sulla base dei voti al
riparto dei seggi;
Tenendo conto della formula elettorale, i sistemi elettorali si distinguono in maggioritari e proporzionali:
a) nei SISTEMI ELETTORALI MAGGIORITARI il seggio in palio è attributo a chi ottiene la maggioranza
dei voti. In questo caso i voti confluiti su altri candidati rispetto a quello risultato maggioritario non
contano nulla ai fini dell’attribuzione dei seggi. Si distingue se la maggioranza richiesta è ASSOLUTA,
e la votazione si svolge su due turni di cui il secondo, eventuale, di ballottaggio, oppure è RELATIVA,
e quindi su turno unico.
b) I SISTEMI ELETTORALI PROPORZIONALI sono quelli in cui i seggi in palio sono distribuiti a seconda
della quota di voti ottenuta da ciascuna lista che abbia superato una percentuale minima detta
QUOZIENTE ELETTORALE. Una volta attribuiti i seggi a ciascuna lista, i candidati eletti risulteranno
in base al meccanismo di voto che può essere a preferenza (singola o multipla) per cui risultano
eletti i candidati della medesima lista più votati oppure solo sul contrassegno, presupponendo che la
lista dei candidati sia preordinata dal partito (LISTA BLOCCATA).
Le formule elettorali proporzionali sono accomunate dal fine di ripartire i seggi tra le liste concorrenti in
proporzione ai voti conseguiti da ciascuna di esse. Numerose sono però le formule attraverso cui tale
risultato è raggiunto. Le più utilizzate sono il metodo d’Hont e il metodo del quoziente.
Il METODO D’HONT funziona nel modo seguente: il totale dei voti riportati da ciascuna lista nel collegio
prende il nome di CIFRA ELETTORALE. La cifra elettorale è divisa per 1, per 2 e così via fino al numero di
seggi da ripartire, quindi si scelgono fra i QUOZIENTI così ottenuti i più alti in numero eguale ai deputati da
eleggere e si collocano in una graduatoria decrescente.
Il METODO DEL QUOZIENTE funziona nel modo seguente: il totale dei voti validi riportati da tutte le liste
costituisce la CIFRA DEL QUOZIENTE GENERALE, viene divisa per il numero di seggi ottenendo il
QUOZIENTE ELETTORALE; si divide quindi la CIFRA ELETTORALE DI CIASCUNA LISTA per il quoziente
elettorale, il risultato corrisponde al numero di seggi attribuito alla lista.
Un sistema maggioritario ha un EFFETTO SELETTIVO, nel senso che l’accesso alle aule parlamentari viene
consentito esclusivamente a chi ottiene più voti nei collegi, cioè solo alle forze politiche maggiori. Viceversa
un sistema proporzionale garantisce l’accesso al Parlamento anche alle minoranze politiche, avendo come
obiettivo quello di fotografare la realtà del paese. Quindi quest’ultimo sistema si definisce con EFFETTO
PROIETTIVO. In alcuni sistemi proporzionali la selettività viene introdotta mediante la CLAUSOLA DI
SBARRAMENTO (Sperrklausel) in virtù della quale possono accedere alla ripartizione dei seggi solo quelle
liste che abbiano superato uno sbarramento. In Germania questo sbarramento è fissato al 5% a livello
nazionale. Un altro modo di coniugare formule proporzionali ed effetto selettivo è l’introduzione di un
PREMIO DI MAGGIORANZA.
Si può quindi osservare che il sistema elettorale influenza l’assetto del sistema politico, e quindi il
funzionamento del Governo. Il sistema elettorale nello specifico influenza il numero di partiti e i rapporti di
forza tra loro. Da queste considerazioni deriva la teoria dell’INGEGNERIA COSTITUZIONALE, ovvero dalla
possibilità di modificare un sistema politico, e tutto ciò che ne consegue, introducendo una norma piuttosto
di un’altra.
4.7.7.
Il sistema elettorale in italia
Sino al 1993 le due Camere del parlamento erano elette con un sistema proporzionale. Il meccanismo
elettorale italiano assicurava la sopravvivenza delle forze politiche, evitava la concentrazione di potere nelle
forze maggioritarie e spingeva verso ampi accordi nell’ambito parlamentare. In sostanza un parlamentarismo
compromissorio.
Con il referendum elettorale del 1993, con oltre il 90% di voti favorevoli, è stato introdotto il sistema
elettorale maggioritario, trasformando il paese in una DEMOCRAZIA MAGGIORITARIA.
La disciplina per l’ELEZIONE DELLA CAMERA dei deputati prevede che 475 seggi (poco più del 75%) siano
attribuiti in altrettanti collegi uninominali, mentre i restanti, meno 12 ora attribuiti alla circoscrizione estero,
siano attribuiti con il sistema proporzionale. Per realizzare questo meccanismo il territorio nazionale è stato
diviso in 26 circoscrizioni elettorali a cui è attribuito un certo numero di seggi in base alla popolazione, di
questi il 75% uninominali e il restante proporzionale. Il voto si esprime mediante due schede separate, una
per l’uninominale con i cognomi e nomi dei candidato per il collegio e i contrassegni collegati e una per il
proporzionale con il contrassegno di tutti i gruppi che partecipano alla competizione elettorale in quella
circoscrizione.
L’UFFICIO CENTRALE CIRCOSCRIZIONALE presso la Corte d’Appello del capoluogo proclama eletto per
ciascun collegio uninominale il candidato che abbia ottenuto il maggior numero di voti validi. Proclama poi gli
eletti nella quota proporzionale secondo il seguente meccanismo: viene calcolata la cifra elettorale
circoscrizionale di ogni lista che risulta essere la somma di tutti i voti validi espressi in tutte le sezioni
elettorali della circoscrizione per ciascuna lista sottratta, per ciascun collegio uninominale facente parte della
circoscrizione ove sia risultato eletto un candidato appartenente alla lista in esame, di un numero di voti pari
a quello conseguito dal primo dei non eletti in quel collegio aumentato di una unità. Questo sistema viene
definito SCORPORO ed è finalizzato a rendere più proporzionale il risultato della ripartizione dei seggi.
L’UFFICIO CENTRALE NAZIONALE, costituito presso la Corte di Cassazione, determina la CIFRA ELETTORALE
NAZIONALE di ciascuna lista, risultante dalla somma delle cifre elettorali circoscrizionali. Si stabiliscono le
liste che non abbiano superato la CLAUSOLA DI SBARRAMENTO del 4% a livello nazionale, escluse dal
riparto conseguente, e si procede alla ripartizione seguendo il METODO DEL QUOZIENTE. I resti eventuali
sono attribuiti con il metodo dei più forti resti.
Leggermente diverso è il metodo adottato per l’ELEZIONE DEL SENATO. Poco più di ¾ dei seggi (pari a 232)
sono attribuiti con il sistema maggioritario, mentre la parte restante è attribuita con metodo proporzionale
nell’ambito di ciascuna Regione. 6 seggi sono attribuiti alla circoscrizione estero.
Il Senato è eletto su base regionale e a ciascuna Regione è attribuito un numero di seggi in base alla
popolazione residente. ¾ di questi sono individuati in collegi uninominali, i restanti in quota proporzionale su
di un’unica circoscrizione elettorale comprendente l’intero territorio nazionale.
L’elettore dispone di un voto che può attribuire ad uno dei candidati del collegio uninominale e al
contrassegno collegato. Ogni candidato a collegio uninominale deve dichiarare il collegamento ad altri
candidati della stessa Regione (almeno 3) per costituire un gruppo e partecipare al riparto proporzionale.
La proclamazione degli eletti uninominali avviene allo stesso modo della Camera, mentre per la quota
proporzionale si procede come segue: l’UFFICIO ELETTORALE REGIONALE determina la cifra elettorale di
ciascun gruppo sulla base del voti validi espressi a favore della stessa in tutte le sezioni della Regione
sottratti dei voti ottenuti dai candidati del medesimo gruppo risultati eletti in collegi uninominali. Espletata
questa funzione, tramite il metodo d’Hont, viene divisa la cifra elettorale in funzione dei seggi da attribuire e
si individuano i quozienti più elevati ottenuti dai candidati in graduatoria decrescente e sempre pari al
numero di seggi a disposizione.
A ciascun gruppo spettano tanti seggi quanti sono i quozienti compresi nella suddetta graduatoria e vengono
ripartiti all’interno del medesimo gruppo sulla base della CIFRA INDIVIDUALE, ovvero in base a una
graduatoria decrescente che tenga conto solo del risultato percentuale del candidato nel singolo collegio.
Ovviamente non partecipano al riparto i candidati risultati eletti in quota uninominale.
4.7.8.
Le elezioni del Parlamento europeo
Le elezioni del Parlamento europeo sono svolte a partire dal 1979 sulla base di leggi elettorali diverse per
ciascuno Stato. In italia è regolato dalla legge 18/78, unico esempio di norma elettorale ancora puramente
proporzionale. I seggi a disposizione sono ripartiti su 5 macro-circoscrizioni in base al metodo del quoziente
e i resti vengono trattati con il metodo dei resti più alti.
4.7.9.
La verifica dei poteri e il contenzioso elettorale
La VERIFICA DEI POTERI è lo specifico procedimento che ciascuna camera svolge per controllare la
regolarità delle operazioni elettorali. A decidere se convalidare o meno la tornata elettorale è la GIUNTA PER
LE ELEZIONI che fa la sua proposta all’Assemblea cui spetta la decisione definitiva e non impugnabile. Nel
caso delle elezioni regionali il meccanismo è analogo ma le deliberazioni del Consiglio in materia sono
impugnabili di fronte alla magistratura ordinaria. Diverso per il Parlamento europeo nel qual caso la legge
attribuisce al TAR del Lazio l’arbitrato per le controversie elettorali e alla Corte d’Appello competente le
determinazioni in materia di incompatibilità e ineleggibilità.
5.0.
L’organizzazione costituzionale in italia
5.1.
La forma di governo: fiducia e maggioranza
La FORMA DI GOVERNO ITALIANA delineata dalla Costituzione è una forma di GOVERNO PARLAMENTARE A
DEBOLE RAZIONALIZZAZIONE.
La razionalizzazione costituzionale del rapporto di fiducia (art. 94) è diretta a garantire la STABILITA’ DEL
GOVERNO. La Costituzione contempla la MOZIONE DI SFIDUCIA, precisando che deve essere motivata e
votata per APPELLO NOMINALE. Quest’ultima norma è volta ad impedire l’azione dei cosiddetti FRANCHI
TIRATORI. La stessa mozione deve essere firmata da almeno 1/10 dei deputati e non può essere messa in
discussione prima che siano trascorsi 3 giorni dalla data di presentazione.
Il voto contrario di una delle due camere non comporta la sfiducia (art. 94.4). Tuttavia la richiamata
razionalizzazione della fiducia non ha mai operato e quindi non ha dato alcun contributo alla stabilità di
Governo, in quanto nell’esperienza repubblicana le crisi di Governo sono nate non già a seguito della
presentazione di una mozione di sfiducia bensì a causa della rottura degli accordi tra i partiti che davano vita
alla maggioranza di governo.
L’ordinamento costituzionale non prevede soltanto l’istituto della sfiducia, ma anche quello della fiducia,
ovvero della palese accettazione da parte del Parlamento dell’esecutivo nominato entro 10 giorni dal suo
giuramento tramite voto nominale (art. 94.3). Si configura una MAGGIORANZA POLITICA che non è più solo
aritmetica al fine delle votazioni parlamentari, ma una maggioranza stabile che si aggrega attorno ad un
determinato indirizzo politico e che pertanto si impegna politicamente a realizzarlo.
Infatti la Cost. fa esplicito riferimento a una MOZIONE DI FIDUCIA motivata, il che prefigura un accordo
politico con un indirizzo politico, e al voto nominale palese, ovvero una precisa assunzione di responsabilità
dei singoli parlamentari e dei gruppi nei confronti del corpo elettorale. Così in un Parlamento di partiti, come
quello italiano, si crea una divisione fondamentale tra la maggioranza politica e la minoranza (o le
minoranze) che presuppone nella sostanza che il rapporto di fiducia lega il Governo solo alla maggioranza
piuttosto che all’intero Parlamento.
La QUESTIONE DI FIDUCIA può essere posta da un governo in carica su sua iniziativa relativamente a un
DdL per richiederne l’approvazione parlamentare. Nel caso il DdL posto in votazione con la questione di
fiducia dovesse essere bocciato dal Parlamento, lo stesso Governo verrebbe automaticamente sfiduciato.
5.2.
Trasformazione del sistema politico e della forma di governo
La realtà socio-politica ideologizzata e divisa geograficamente ha dato origine ad un SISTEMA POLITICO A
MULTIPARTITISMO ESASPERATO, intendendosi non solo un elevato numero di partiti ma anche una
notevole distanza politica tra loro. Esisteva una convenzione tacita (CONVENTIO AD EXCLUDENDUM), per
esempio, che ha escluso per molti anni taluni partiti dalla formazione dei governi: quei partiti estremi,
sull’una e sull’altra ala, non erano ritenuti utilizzabili. Le caratteristiche del sistema politico impedivano
l’affermazione di una democrazia maggioritaria e richiamavano sempre più una democrazia consociativa.
In questo contesto:
a) erano impraticabili sia la dinamica bipolare del sistema politico, con la contrapposizione
maggioranza-minoranza, sia l’investitura popolare diretta del Governo;
b) erano esclusi dalle maggioranze i due poli estremi; i governi si imperniavano sempre sulla DC a
causa della sua forza parlamentare e delle sue caratteristiche ideologiche e sociali tali da renderla
compatibile con qualsiasi altro partito;
c) le maggioranza venivano formate dopo la consultazione elettorale e potevano finire per attrarre
anche l’80% delle forze parlamentari con una netta tendenza consociativa;
A cavallo tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 il sistema politico è mutato. Con il cammino di
unificazione europea cominciavano a farsi sentire i vincoli internazionali per una finanza pubblica “sana”, su
cui non si è più potuto riversare il costo economico e sociale del compromesso politico tra i partiti e i gruppi
sociali. La fine dei blocchi contrapposti e la fine della guerra fredda, sancita con il crollo del Muro di Berlino,
ha iniziato il processo di crisi delle ideologie. Il rifiuto del vecchio consociativismo politico ha fatto il resto
portando con il Referendum del 1993, che nella forma modificava soltanto la legge elettorale, a una nuova
forma di governo nel paese.
La riforma maggioritaria del sistema elettorale ha di fatto portato a un sistema bipolare tendente al
parlamentarismo maggioritario, dove i partiti sono cambiati, il loro numero ridotto rispetto al passato e
condizionamento ideologico sfumato.
5.3.
La formazione della coalizione
La Costituzione prevede che una maggioranza governi il paese. In un sistema pluripartitico come quello
italiano nessun singolo gruppo politico gode della maggioranza assoluta dei seggi al Parlamento, quindi la
maggioranza sarà necessariamente formata attraverso l’accordo tra più partiti ovvero sarà una COALIZIONE.
Pertanto il Governo che si basa sulla fiducia di un’unica forza politica si chiamerà GOVERNO MONOCOLORE,
su più forze politiche tra loro coalizzate GOVERNO DI COALIZIONE.
Diverso è se le COALIZIONI sono costituite DAVANTI AL CORPO ELETTORALE oppure in SEDE
PARLAMENTARE.
5.4.
Le crisi di governo
La CRISI DI GOVERNO consiste nella presentazione delle dimissioni del Governo causate dalla rottura del
rapporto di fiducia tra il Governo da una parte ed il Parlamento dall’altra. Tradizionalmente si suole
distinguere le CRISI PARLAMENTARI dalle CRISI EXTRA-PARLAMENTARI. Le prime sono motivate
dall’approvazione di una mozione di sfiducia o dalla mancata approvazione della fiducia e sono quindi atti
giuridicamente obbligatori. Le seconde sono motivate dalle volontarie dimissioni dell’esecutivo per ragioni
interne alla maggioranza che lo sostiene. Simile è il caso delle dimissioni del solo Presidente del Consiglio.
Nella storia repubblicana italiana la maggior parte delle crisi sono state extra-parlamentari, cioè consumate
al di fuori del dibattito pubblico parlamentare. Per ovviare questa mancanza di trasparenza politica, a partire
dagli anni ’80 ci fu il tentativo da parte dei Presidenti della Repubblica definito della
PARLAMENTARIZZAZIONE DELLE CRISI. Ovvero dell’obbligo per il governo volontariamente dimissionario di
presentarsi a una delle due camere per motivare la sue scelte.
L’assenza di prassi e convenzioni che assicurino un certo grado di durata alle coalizioni influisce sulla
STABILITA’ DEL GOVERNO. Il potere dei partiti di recedere dagli accordi di maggioranza aprendo la crisi ha
determinato la notevole instabilità dei governi italiani.
Anche se non esplicitamente previsto dal trattato Costituzionale (art. 94 parla di sfiducia all’intero governo),
la prassi parlamentare ha finito per accettare la possibilità della SFIDUCIA INDIVIDUALE nei confronti di un
singolo ministro.
5.5.
Il Governo
Il GOVERNO è un organo costituzionale complesso formato dal Presidente del Consiglio dei Ministri e
dall’organo collegiale Consiglio dei Ministri. Il Governo esercita una quota rilevante dell’attività di indirizzo
politico, della funzione esecutiva oltre che a poteri normativi.
Oltre ai delicati equilibri su cui si regge la forma di governo, altri fattori in grado di influenzarne ruolo e
funzioni sono:
• la spinta verso il decentramento, o federalismo, o sussidiarietà;
• la tendenza a ridurre la presenza pubblica nell’economia di mercato;
• il trasferimento di importanti funzioni economiche al livello comunitario della UE;
5.5.1.
Le regole giuridiche del Governo
Il diverso atteggiarsi del ruolo del Governo, e delle sue modalità di formazione e di funzionamento, è stato
reso possibile dall’elasticità della disciplina costituzionale che lo riguarda:
• formazione del governo, artt. 92.2, 93 e 94: Presidente della Repubblica nomina il Presidente del
Consiglio e i ministri, questi ultimi su indicazione del Presidente del Consiglio. L’intero Governo giura
nelle mani del Capo dello Stato ed entro 10 giorni si presenta alle camere per ottenere la fiducia. La
fiducia è accordata e revocata mediante mozione motivata votata per appello nominale;
• struttura, art. 92.1: cita soltanto gli organi governativi necessari, ovvero Presidente del Consiglio e
Ministri che assieme danno vita al Consiglio dei Ministri, non escludendo possano esserne creati altri.
Gli organi governativi non necessari sono, per esempio, la Vice-presidenza del Consiglio, i ministri
senza portafoglio, i sottosegretari di Stato, i comitati interministeriali e il Consiglio di gabinetto;
• funzionamento, art. 95: il quale rinvia poi alla LEGGE SULL’ORDINAMENTO DELLA PRESIDENZA DEL
CONSIGLIO DEI MINISTRI approvata solamente nel 1988 (legge 400/88) e ulteriormente
regolamentata con il D.Lgs. 300 e 303 del 1999;
• rapporti con la PA, artt. 95, 97 e 98;
5.5.2.
Unità e omogeneità del Governo
Il problema cruciale del sistema parlamentare è come assicurare l’unità ed omogeneità del governo. In tale
sistema il Governo si configura come un soggetto politicamente unitario, responsabile politicamente nella sua
unità per l’indirizzo politico che segue e capace di dare attuazione coerente a tale indirizzo, sia nell’attività
che nei rapporti con gli altri organi costituzionali.
Per evitare la possibilità che il sistema si evolvesse nella direzione di un governo forte, i costituenti previdero
che (art. 95):
1. il Presidente del Consiglio dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile;
2. il Presidente del Consiglio mantiene l’unità dell’indirizzo politico ed amministrativo del Governo,
promuovendo e coordinando l’attività dei ministeri;
3. i ministri rispondono collegialmente per gli atti del Consiglio dei ministri e individualmente per gli atti
dei loro ministeri;
Conseguenza di questa impostazione sono 3 principi di organizzazione di Governo:
1. il principio della responsabilità politica di ciascun ministro;
2. il principio della direzione politica collegiale, incentrata sul CdM;
3. il principio della direzione politica monocratica, basata sui poteri del Presidente del Consiglio;
Il reale equilibrio tra questi principi e sistemi non è indicato sulla carta costituzionale, ma è stabilito di volta
in volta dal contesto politico maturato.
5.5.3.
La formazione del Governo
La formazione del Governo nelle democrazie pluralistiche può avvenire secondo modalità diverse riconducibili
a due tipi:
• le DEMOCRAZIE MEDIATE, in cui i partiti sono, dopo le elezioni, i reali detentori del potere di
decidere struttura e programma di Governo;
• le DEMOCRAZIE IMMEDIATE, in cui esiste la sostanziale investitura popolare diretta del capo del
Governo.
La forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione esclude che il corpo elettorale possa
formalmente scegliere il Presidente del Consiglio, ma la disciplina costituzionale (artt. 92, 93, 94) è
compatibile con entrambe le modalità.
Nella prassi repubblicana è nata nel corso degli anni una figura non prevista dalla costituzione, cioè quella
dell’INCARICO PER LA FORMAZIONE DEL GOVERNO. Incarico assegnato al potenziale Presidente del
Consiglio dal Presidente della Repubblica affinché il primo fosse nelle condizioni di garantirsi una
maggioranza parlamentare e l’assenso dei partiti sulla nomina dei ministri.
5.5.4.
Consultazioni e incarico per la formazione del Governo
Dopo l’apertura della crisi di Governo, il Presidente della Repubblica procede alle CONSULTAZIONI – non
previste dalla costituzione – con cui si apre il PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE DEL GOVERNO. Nel giro
delle consultazioni il Presidente della Repubblica incontra i presidenti dei gruppi parlamentari, i leader dei
partiti, i presidenti delle Camere, gli ex-Presidenti della Repubblica e altre personalità ritenuti rilevanti ai fini
della mediazione politica (soprattutto fino all’introduzione della legge elettorale maggioritaria).
L’incarico è conferito oralmente dal Presidente della Repubblica e, di regola, viene accettato con riserva. La
riserva viene sciolta solo dopo che l’incaricato è in grado di presentare la lista dei ministri e il programma di
Governo con il consenso della maggioranza parlamentare.
Questo meccanismo nasce da un particolare interpretazione ormai consuetudinaria della Costituzione (art.92)
in cui si intende che il nome del Presidente del Consiglio e la lista dei ministri debbano essere presentati
contemporaneamente dal Capo dello Stato.
5.5.5.
La lista dei ministri, la nomina e il giuramento
Fino a quando la forma di governo ha operato sulla base di coalizioni formate dopo le elezioni, l’attività
dell’incaricato è stata essenzialmente un’attività di mediazione tra i partiti, cui spettava il potere sostanziale
in ordine alla formazione della coalizione, alla scelta dei ministri ed all’individuazione dei contenuti
fondamentali del programma di Governo, svuotando sostanzialmente del proprio contenuto l’art. 92 della
Costituzione.
Esaurita l’attività dell’incaricato e formata la lista dei ministri, il Presidente della Repubblica NOMINA con
proprio decreto il Presidente del Consiglio e quindi, su proposta di quest’ultimo, i ministri. Entro 24 ore
(mediamente) i nominati prestano GIURAMENTO nelle mani del Presidente della Repubblica.
Con il giuramento il Governo è immesso nell’esercizio delle proprie funzioni, in attesa della fiducia
parlamentare. Teoricamente nel lasso di tempo che trascorre tra il primo e il secondo evento, il Governo
dovrebbe limitarsi ad atti di ordinaria amministrazione, come se si trattasse di un governo uscente.
5.5.6.
I rapporti tra gli organi del Governo
Per garantire l’unità e l’omogeneità del Governo, la Costituzione fa leva sulla competenza collegiale del
Consiglio dei Ministri a determinare la politica generale del Governo (PRINCIPIO COLLEGIALE) e sulla
competenza del Presidente del Consiglio a dirigere questa politica e mantenere l’unità dell’indirizzo politico e
amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri (PRINCIPIO MONOCRATICO).
Il rispettivo bilanciamento di questi due principi è volto a contrastare gli eccessi di autonomia
autoreferenziale dei ministri (e ministeri), salvaguardandone comunque le competenze proprie. La
costituzione individua esplicitamente solo questi strumenti per il raggiungimento di questo fine:
• il potere del Presidente del Consiglio di proporre al Capo dello Stato la lista dei ministri da nominare;
•
•
il potere di indirizzare DIRETTIVE POLITICHE E AMMINISTRATIVE ai ministri in attuazione della
politica generale del Governo;
la competenza del Consiglio dei Ministri a deliberare sulle questioni che riguardano la politica
generale dei Governo;
Essendo, nella logica dell’accordo di coalizione, i ministri referenziali ad un partito di Governo risulta
abbastanza chiaro che, avendo a disposizione queste sole prerogative costituzionali, il ruolo del Presidente
del Consiglio, che è stato anche colui che ha mediato per costruire la coalizione, il punto di equilibrio e l’unità
del Governo, risulta fortemente indebolito rispetto all’autonomia dei singoli ministri.
Con la legittimazione popolare introdotta dal sistema elettorale maggioritario, la capacità unificante del
Presidente del Consiglio è cresciuta. Seppure in misura inferiore la mediazione continua ad avvenire non tra
il Presidente del Consiglio e il Consiglio dei Ministri, ma tra i partiti, il Capo del Governo e i ministri.
Comunque e a prescindere, il Presidente del Consiglio non dispone della facoltà di intervenire direttamente
sulla condotta dei singoli ministri. Lo strumento della REVOCA DI UN MINISTRO non è mai stato utilizzato,
sebbene giuridicamente lecito.
5.5.7.
L’unità dell’indirizzo politico e amministrativo (L. 400/88)
Con la legge 400/88 si ha la prima razionalizzazione degli strumenti di garanzia dell’unità politica e
amministrativa del Governo:
1) concentrazione delle decisioni relative alla politica generale del Governo nel Consiglio dei Ministri – le
più importanti: a) conflitti di attribuzione; b) iniziativa della fiducia; c) impegni programmatici; d)
DdL; e) decreti legge e legislativi e regolamenti; f) azioni contro altri enti dello Stato; g) politica
internazionale e trattati militari; h) rapporti con la religione; i) le nomine di valenza nazionale;
2) attribuzione al Presidente del Consiglio dei poteri relativi al funzionamento del Consiglio dei Ministri;
3) attribuzione al Presidente del Consiglio di poteri strumentali rispetto al coordinamento delle attività
dei ministri, tra cui: a) sospende atti ministeriali; b) adotta le delibere in attuazione alle direttive
generali del CdM; c) può istituire Comitati di ministri con il compito di esaminare in via preliminare
questioni di comune competenza;
5.5.8.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri
Per lo svolgimento dei suoi compiti il Presidente del Consiglio dispone di una struttura amministrativa di
supporto, cioè la PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI. Alla presidenza sovraintende un
SEGRETARIATO GENERALE.
5.5.9.
Gli organi governativi non necessari
La legge 400/88 ha razionalizzato varie figure di ORGANI GOVERNATIVI NON NECESSARI che erano state
utilizzate dalla prassi precedente:
a) il VICE-PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI che si configura principalmente come una
carica onorifica;
b) il CONSIGLIO DI GABINETTO, per coadiuvare il PdC nell’esercizio delle sue competenze;
c) i COMITATI INTERMINISTERIALI, di due tipi: o per legge o tramite Decreto del PdC. I primi
deliberano in via definitiva sulle materie di competenza;
d) i MINISTRI SENZA PORTAFOGLIO, non preposti a un ministero, svolgono funzioni loro delegate dal
PdC;
e) i SOTTOSEGRETARI DI STATO, coaudiuvano il ministro o il PdC. Sono collaboratori non facenti parti
il CdM. Il Sottosegretario assume le sue funzioni solo dopo il giuramento al PdC;
f) i VICEMINISTRI, ovvero quei sottosegretari cui vengono conferite deleghe relative all’intera
competenza di una o più aree dipartimentali o di più direzioni generali. Possono partecipare al CdM
su richiesta del PdC e del Ministro di riferimento senza diritto di voto;
g) i COMMISSARI STRAORDINARI DI GOVERNO, nominati al fine di realizzare specifici obiettivi in
relazione a programmi del Governo o del Parlamento;
5.5.10.
Gli strumenti per l’attuazione dell’indirizzo
Le linee generali dell’indirizzo politico e amministrativo di Governo sono espresse nel PROGRAMMA DI
GOVERNO. Per attuare il suo indirizzo il Governo ha a disposizione una molteplicità di strumenti giuridici:
a) la direzione dell’amministrazione statale;
b) i poteri di condizionamento della funzione legislativa del Parlamento riguardo la programmazione dei
lavori;
c) i poteri normativi di cui è direttamente titolare il Governo, tramite provvedimenti aventi forza di
legge (decreti legge e decreti legislativi);
5.5.11.
Settori della politica governativa
Vi sono alcuni settori dell’indirizzo politico che formano oggetto di discipline giuridiche particolari ed in cui si
sviluppano prassi che sostanzialmente concentrano nel Governo il potere decisionale. Sotto questo profilo
meritano di essere ricordati:
a) la POLITICA DI BILANCIO E FINANZIARIA. Questo indirizzo fa capo al MINISTERO DELL’ECONOMIA
E DELLE FINANZE;
b) la POLITICA ESTERA;
c) la POLITICA COMUNITARIA;
d) la POLITICA MILITARE, principalmente rimesso al Governo. La Costituzione ha disciplinato il REGIME
DI EMERGENZA BELLICA con gli artt. 78 e 87 secondo i quali le Camere deliberano lo Stato di guerra
e conferiscono al Governo i poteri necessari, il Capo dello Stato dichiara lo stato di guerra e assume
il comando delle forze armate;
e) la POLITICA INFORMATIVA E DI SICUREZZA. Il PdC può apporre il SEGRETO DI STATO su tutti gli
atti, i documenti, le notizie e le attività la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità dello
Stato democratico;
5.5.12.
Gli organi ausiliari
Gli ORGANI AUSILIARI sono quegli organi cui sono attribuite funzioni di ausilio nel confronti di altri organi, le
quali sono prevalentemente riconducibili a compiti di iniziativa, di controllo e consultivi. Gli organi previsti
dalla Costituzione sono:
a) il CONSIGLIO NAZIONALE DELL’ECONOMIA E DEL LAVORO (art. 99 e in attuazione legge 936/86) è
composto di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive in misura che tengano conto della
loro importanza numerica e qualitativa. I Componenti del CNEL sono 111 oltre al Presidente, di cui
12 rappresentanti del mondo accademico e 99 delle categorie produttive. Sono nominati dal
Presidente della Repubblica su indicazione del CdM e durano in carica 5 anni. La legge 936/86
attribuisce al CNEL la consulenza nei confronti del Governo e delle Camere e l’iniziativa legislativa in
materia economica sociale;
b) il CONSIGLIO DI STATO (art. 100) è organo di consulenza giuridico-amministrativa del Governo ed
organo giurisdizionale di appello della giustizia amministrativa. Si articola in 7 sezioni (4 consultive e
3 giurisdizionali);
c) la CORTE DEI CONTI (art. 100.2) esercita:
1) il controllo preventivo di legittimità su alcuni atti delle amministrazioni statali nonché il controllo
sulla gestione delle amministrazioni in genere (dallo Stato agli EELL);
2) il controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato. Sugli esiti del controllo la Corte dei
conti riferisce in Parlamento;
3) partecipa al controllo sulla gestione finanziaria degli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria,
anche qualora trasformati in SpA in cui lo Stato risulti azionista prevalente;
4) la funzione giurisdizionale in materia di responsabilità dei pubblici funzionari, di giudizi di conto,
di giudizi in materia di pensioni;
5.6.
Il Parlamento, la sua struttura e il bicameralismo perfetto
La struttura del Parlamento può essere bicamerale o monocamerale. La Costituzione italiana ha optato per la
prima alternativa, la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica. La Costituzione (artt. 55-82) ha
optato per un BICAMERALISMO PERFETTO (o paritario), con due Camere dotate delle medesime funzioni,
aventi lievissime differenze strutturali ed ha previsto un lievissimo – e vago – aggancio del Senato al
territorio regionale (art. 57).
Ciascuna Camera può votare la fiducia – o la sfiducia – (art. 94), ma entrambe debbono esprimersi sul
medesimo testo perché il Parlamento lo approvi (art. 70):
• “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”;
Le differenziazioni principali risiedono nella composizione, sia numerica (Camera 630, Senato 315) sia
qualitativa (fino a 5 senatori a vita di nomina del Presidente della Repubblica, almeno 40 anni di anzianità
per essere eletti senatori, 24 deputato e 25 per votare i senatori, 18 i deputati). La durata della
LEGISLATURA è la medesima, ovvero 5 anni.
Il risultato di questa impostazione del bicameralismo paritario è l’appesantimento del processo decisionale
parlamentare.
5.6.1.
Il Parlamento in seduta comune
La Costituzione ha previsto anche il PARLAMENTO IN SEDUTA COMUNE, ovvero un organo collegiale
composto da tutti i parlamentari per lo svolgimento di alcune particolari funzioni. E’ considerato un organo
imperfetto, perché non padrone del proprio ordine del giorno e viene infatti riunito per specifici compiti
definiti dalla Costituzione:
1) l’elezione del Presidente della Repubblica (cui partecipano anche i delegati delle Regioni);
2) l’elezione dei 5 giudizi costituzionali;
3) l’elezione di un terzo dei componenti il CSM;
4) la votazione dell’elenco dei cittadini dal quale si sorteggiano i membri “aggregati” alla Corte
Costituzionale per giudicare sulle accuse costituzionali;
5) la messa in stato di accusa del Presidente della repubblica;
E’ presieduto dal Presidente della Camera e vi si applica il medesimo regolamento.
5.6.2.
I regolamenti e il ruolo del Parlamento
Tanto l’organizzazione interna del Parlamento quanto lo svolgimento delle sue funzioni trovano la loro
disciplina fondamentale nel testo costituzionale e nei regolamenti parlamentari. A questi ultimi la
Costituzione demanda la disciplina del funzionamento interno di ciascuna Camera e la disciplina del
procedimento legislativo.
Ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi membri.
5.6.3.
L’organizzazione interna delle Camere: Presidenti e Uffici di
Presidenza
Ciascun ramo del Parlamento ha un’organizzazione complessa, dove agiscono diversi organi: il presidente
d’assemblea, l’ufficio di presidenza, le commissioni, i gruppi parlamentari, la conferenza dei capigruppo.
I due PRESIDENTI DELL’ASSEMBLEA rappresentano rispettivamente la Camera dei deputati e il Senato della
Repubblica e hanno il compito di regolare l’attività di tutti i loro organi facendo osservare il regolamento. Il
Presidente della Camera presiede il Parlamento in seduta comune, il Presidente del Senato supplisce il
Presidente della Repubblica ai sensi dell’art. 86 della Costituzione. Entrambi devono essere sentiti dal Capo
dello Stato prima di procedere allo scioglimento delle Camere.
Successivamente all’elezione dei Presidenti, le Camere provvedono all’elezione dei vice-presidenti, dei
deputati e senatori questori e dei segretari, che costituiscono l’Ufficio di Presidenza.
5.6.4.
I gruppi parlamentari
Un ruolo fondamentale nell’organizzazione di ciascuna camera è svolto dai GRUPPI PARLAMENTARI. Ovvero
le unioni dei membri di una Camera che si costituiscono con un organizzazione stabile e disciplina di gruppo.
La Costituzione si limita negli artt. 72 e 82 a stabilire che le commissioni devono rispecchiare la consistenza
dei gruppi parlamentari nella Camera di riferimento.
Entro pochi giorni dall’insediamento delle Camere tutti i parlamentari devono dichiarare il gruppo cui
intendono appartenere. Quei parlamentari che non aderiscono ad alcun gruppo parlamentare confluiscono
nel GRUPPO MISTO.
Tale disciplina si spiega alla luce del ruolo fondamentale che hanno i gruppi parlamentari nel funzionamento
del Parlamento. Quest’ultimo più che un organo formato dai singoli parlamentari, come avveniva
nell’Ottocento, è un’istituzione che si basa per il suo funzionamento sulla dimensione collettiva,
rappresentata dai gruppi parlamentari. Almeno con due risultati:
1) rafforzare il collegamento tra i partiti e il Parlamento;
2) salvaguardare l’efficienza decisionale del Parlamento;
In questa prospettiva si inseriscono le previsioni regolamentari che attribuiscono poteri significativi ai
presidenti dei gruppi parlamentari:
a) i presidenti dei gruppi danno vita alla CONFERENZA DEI PRESIDENTI DEI GRUPPI PARLAMENTARI
che ha poteri determinanti sull’organizzazione dei lavori dell’Assemblea;
b) alla Camera i presidenti dei gruppi possono azionare tutta una serie di poteri procedurali che
altrimenti necessiterebbero della richiesta da parte di un certo numero di parlamentari;
c) al gruppo è attribuito il potere di designare i membri che faranno parte delle commissioni
parlamentari;
I presidenti dei gruppi vengono sentiti dal Capo dello Stato nel corso delle consultazioni per la risoluzione
delle crisi di Governo. I PARTITI POLITICI sono, sotto il profilo giuridico, delle semplici associazioni private
non riconosciute e come tali non possono essere consultate dalla massima carica dello Stato nel
procedimento di formazione di un’altra istituzione chiave: il Governo. I gruppi diventano perciò l’unica
proiezione dei partiti sul piano delle istituzioni.
5.6.5.
Commissioni parlamentari e Giunte
Le COMMISSIONI PARLAMENTARI sono organi collegiali che possono essere permanenti o temporanei,
monocamerali o bicamerali. La costituzione sia delle Giunte che delle Commissioni deve avvenire in modo da
rispecchiare la proporzione dei vari gruppi parlamentari.
Le commissioni parlamentari temporanee (art. 82 della Costituzione) assolvono compiti specifici e durano in
carica il tempo stabilito per l’adempimento della loro particolare funzione. Le commissioni permanenti sono
invece organi necessari di ciascuna Camera, titolari di importanti poteri nell’ambito del procedimento
legislativo. Esercitano funzioni di indirizzo, controllo e informazione anche in sede consultiva.
Ciascuna commissione permanente ha competenza in una determinata materia.
Le COMMISSIONI BICAMERALI sono formate in parte eguale da rappresentanti delle due Camere. La
Costituzione prevede espressamente una sola commissione bicamerale (art. 126): quella per le questioni
regionali, modificata dalla riforma del Titolo V del 2001.
Sono state nel corso degli anni istituite commissioni bicamerali con poteri di controllo, di indirizzo e vigilanza:
• il Comitato per i servizi di sicurezza;
• la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi;
Le GIUNTE sono organi collegiali previsti dai regolamenti parlamentari per l’esercizio di funzioni diverse da
quelle legislative e di controllo:
a) per l’esercizio di compiti di garanzia della corretta osservanza del regolamento e di elaborazione di
proposte di modifica dello stesso (giunta per il regolamento);
b) per la verifica dell’assenza di cause di ineleggibilità e di incompatibilità e per la garanzia delle
prerogative parlamentari (giunta delle elezioni e giunta delle autorizzazioni a procedere);
5.6.6.
Il funzionamento del Parlamento: durata e regole decisionali
La durata in carica delle due Camere è pari a 5 anni. La stessa Costituzione prevede che le funzioni della
Camera dei deputati e del Senato possano essere esercitate anche al di là del termine di scadenza nel caso
della prorogatio (art. 61.2) o della proroga con legge (art. 60.2) disposta solo in caso di guerra.
La PROROGATIO è un istituto in virtù del quale l’organo scaduto non cessa di esercitare le sue funzioni fino a
quando non si sia provveduto al suo rinnovo.
Per la VALIDITA’ DELLE SEDUTE del Parlamento la Costituzione richiede la maggioranza dei componenti,
cioè significa che il numero legale (quorum strutturale) della seduta si raggiunge con la partecipazione alla
stessa della metà più uno dei deputati o dei senatori. Per la VALIDITA’ DELLE DELIBERAZIONI è richiesta,
salvo diverse previsioni costituzionali, la maggioranza dei presenti (quorum funzionale).
I regolamenti di Camera e Senato dettano disposizioni differenti circa il computo delle ASTENSIONI. Alla
Camera sono computati ai fini del numero legale, ma sono considerati non presenti nel computo della
maggioranza richiesta per l’approvazione. Al Senato chi è intenzionato ad astenersi si allontana fisicamente
dall’aula, così da raggiungere un risultato analogo a quello ottenuto alla Camera.
In ordine alle modalità di voto, la regola generale è quella del VOTO PALESE, l’eccezione è il VOTO
SEGRETO.
Per regola generale le sedute delle Camere sono pubbliche.
5.6.7.
Le prerogative parlamentari
Con l’espressione PREROGATIVE PARLAMENTARI si fa riferimento agli istituti, che in deroga al diritto
comune, mirano a salvaguardare il libero e ordinato esercizio delle funzioni parlamentari, ponendole al riparo
dai condizionamenti che altri poteri dello Stato potrebbero esercitare.
Le prerogative non sono privilegi dei singoli, ma garanzie dell’indipendenza del Parlamento, con la
conseguenza che sono irrinunciabili e indisponibili da parte del singolo parlamentare.
L’art. 68 della Costituzione prevede due distinti istituti:
1) l’INSIDACABILITA’ in qualsiasi sede (penale, civile, disciplinare) per le opinioni espresse e i voti dati
nell’esercizio delle funzioni parlamentari;
2) l’IMMUNITA’ PENALE, in virtù della quale il parlamentare non può essere sottoposto a misure
restrittive della libertà personale o domiciliare senza la previa autorizzazione della Camera di
appartenenza;
La prima ha efficacia anche al termine del mandato, la seconda termina con la legislatura.
5.6.8.
Gli interna corporis
Le prerogative dei parlamentari si fondano sull’esigenza di garantire l’autonomia e l’indipendenza
costituzionale delle Camere.
Ogni Camera è quindi dotata di AUTONOMIA NORMATIVA, di AUTONOMIA CONTABILE, e di AUTODICHIA,
ossia della giurisdizione esclusiva per ciò che riguarda i ricorsi relativi ai rapporti di lavoro con i dipendenti.
La medesima esigenza sta alla base del principio di insindacabilità degli INTERNA CORPORIS ACTA, che
consiste nella sottrazione a qualsiasi controllo esterno degli atti e dei procedimenti che si svolgono all’interno
delle assemblee parlamentari.
5.6.9.
La funzione legislativa del Parlamento
L’art. 70 della Cost. afferma che “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Gli
articoli dal 71 al 74 descrivono la modalità con cui viene esercitata la funzione.
La QUESTIONE DI FIDUCIA può essere posta su qualsiasi deliberazione tranne quelle relative al
funzionamento interno delle Camere stesse.
Con l’approvazione della questione di fiducia su un provvedimento, viene confermata la fiducia all’esecutivo,
viene deliberato il testo del provvedimento e vengono respinti automaticamente tutti gli emendamenti
presentati al testo. Così la questione di fiducia diventa anche un espediente per accelerare il procedimento
parlamentare.
5.6.10.
La funzione parlamentare di controllo
La FUNZIONE PARLAMENTARE DI CONTROLLO si concretizza in singoli istituti di diritto parlamentare il cui
comune denominatore è quello di essere diretti a far valere la responsabilità politica del Governo nei
confronti del Parlamento:
• l’INTERROGAZIONE è una domanda che un parlamentare rivolge, per iscritto, al Governo avente ad
oggetto la veridicità o meno di un determinato fatto;
• nell’INTERPELLANZA l’interpellante chiede, per iscritto, di conoscere quale sia l’intenzione politica del
Governo, in riferimento a un fatto o a una determinata situazione, date – queste ultime – per
scontate;
I regolamenti parlamentari dispongono che il Governo può dichiarare di non poter rispondere – motivando –
oppure può differire la risposta, indicando la data entro cui fornirà una risposta. L’interrogazione può
chiedere di ricevere risposta scritta.
Nel corso degli anni ’80 sono state introdotte nel nostro ordinamento le INTERROGAZIONI A RISPOSTA
IMMEDIATA. Si tratta di interrogazioni aventi ad oggetto una sola domanda la quale fa riferimento ad un
argomento di rilevanza generale, urgente e di particolare attualità politica.
5.6.11.
Atti parlamentari di indirizzo
I regolamenti parlamentari prevedono degli atti che mirano a indirizzare l’attività del Governo:
• la MOZIONE può essere presentata da un presidente di gruppo o da 10 deputati o da 8 senatori. Il
fine è quello di determinare una discussione e una deliberazione su questioni che incidono
sull’attività di Governo;
• la RISOLUZIONE può essere proposta anche in commissione. Ha come fine quello di manifestare un
orientamento o un indirizzo. La risoluzione al pari della mozione condiziona l’indirizzo governativo.
5.6.12.
Le inchieste parlamentari
La Costituzione attribuisce a ciascuna Camera la facoltà di istituire COMMISSIONI D’INCHIESTA su materie di
pubblico interesse, con poteri e limiti dell’autorità giudiziaria (art. 82 Cost.).
L’oggetto dell’inchiesta deve riguardare una “materia di pubblico interesse”. L’indagine può essere parallela a
quella della magistratura ordinaria e non vengono escluse collaborazioni.
La conclusione della commissione non è però un giudizio, ma soltanto una relazione. O meglio più relazioni,
una di maggioranza e una o più di minoranza. La commissione d’inchiesta può porre il SEGRETO
FUNZIONALE sull’indagine o su una parte, rimarcando ancora l’autonomia costituzionale delle Camere.
La commissione d’inchiesta è formata in modo da rispecchiare la proporzione parlamentare e integrata, nella
prassi, dalla rappresentatività in modo tale che tutti i gruppi siano presenti.
5.6.13.
Parlamento e Comunità europea
L’appartenenza dell’italia alla Comunità Europea, pone al Parlamento due fondamentali esigenze:
• la prima è quella di recepire le direttive comunitarie in tempi ragionevoli, evitando di determinare la
responsabilità dello Stato per la mancata immissione nell’ordinamento interno;
• la seconda è avere cognizione degli indirizzi europei sui grandi temi e dei progetti di atto normativo
prima che essi siano approvati dagli organi comunitari;
La legge 86/1989 (c.d. legge La Pergola) ha introdotto uno strumento annuale, la LEGGE COMUNITARIA per
recepire le direttive che non presentano particolari difficoltà di attuazione. Per le altre il recepimento avviene
tramite legge ad hoc.
La legge comunitaria prevede due canali di recepimento:
• il recepimento immediato attraverso disposizioni contenute nella stessa legge comunitaria;
• la delega al Governo, quando occorre predisporre una normativa di particolare complessità con il
parere delle commissioni parlamentari competenti;
• l’autorizzazione al Governo ad attuare in via regolamentare le direttive;
Il regolamento della Camera ha istituito una SESSIONE COMUNITARIA in modo da affrontare
contestualmente i problemi del recepimento e le questioni di indirizzo sulla formulazione dei provvedimenti
comunitari.
5.6.14.
Il processo di bilancio: finanza pubblica nella costituzione
La disciplina delle entrate e quella della spesa costituiscono i due aspetti della finanza pubblica. Entrambi i
profili formano oggetto di un’essenziale disciplina costituzionale. Per quanto concerne le entrate sono stabiliti
due principi fondamentali.
Il primo è quello secondo cui “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro
capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività” (art. 53 della Cost.). Ciò
significa che l’IMPOSIZIONE FISCALE non è proporzionale al reddito, ma PROGRESSIVA. Questo significa che
la percentuale di reddito prelevata dal fisco cresce al crescere del reddito.
L’altro principio fondamentale è quello della riserva di legge secondo cui “nessuna prestazione personale o
patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge” (art. 23 della Cost.).
5.6.15.
Il processo di bilancio: spesa pubblica
In materia di spesa la Costituzione pone alcuni fondamentali principi:
a) in primo luogo stabilisce che ogni anno il Governo redige un bilancio preventivo, che il Parlamento
deve approvare con legge (art. 81.1). Il BILANCIO PREVENTIVO è un documento contabile nel quale
vengono rappresentate le entrate e le uscite sulla base delle leggi già approvate, senza la possibilità
di contabilizzare nuove entrate o nuove uscite. Secondo la Costituzione (art. 81.3) la legge del
parlamento con cui è approvato il bilancio non può stabilire nuovi tributi o nuove spese. La legge di
approvazione del bilancio comporta un vincolo giuridico a carico del Governo. Nel caso in cui il
Parlamento non arrivi ad approvare il bilancio preventivo entro il 31 dicembre, il Parlamento può
autorizzare il Governo a ricorrere all’ESERCIZIO PROVVISORIO. La Costituzione fissa in 4 mesi la
durata massima dell’esercizio provvisorio (art. 81.2).
b) La Costituzione disciplina la legislazione che prevede nuove spese: ogni legge che importi nuove e
maggiori spese “deve indicare i mezzi per farvi fronte” (art. 81.4). Questa disposizione introduce
l’OBBLIGO DI COPERTURA DELLE LEGGI DI SPESA. Per evitare di innalzare la pressione fiscale e per
garantire la copertura alle spese, lo Stato può far ricorso all’INDEBITAMENTO DEL TESORO DELLO
STATO tramite l’emissione di obbligazioni. Con la normativa sulla finanza pubblica dell’UE che punta
ad evitare disavanzi di bilancio eccessivi la politica delle obbligazioni ha subito un arresto. La CE ha
stabilito che un disavanzo non è eccessivo e quindi la finanza pubblica è sana se: a) il disavanzo non
supera la soglia del 3% sul PIL e b) il debito pubblico non supera la soglia del 60% del PIL.
5.6.16.
Il processo di bilancio: crisi fiscale e razionalizzazione
L’art. 81 della Costituzione pone i precetti essenziali sulla DECISIONE DI BILANCIO, poi completati da leggi
ordinarie. Nel dibattito sulla programmazione degli anni ’60 e ’70 è emersa l’esigenza di uno strumento di
politica economica e fiscale che consentisse il riesame delle decisioni di spesa per conformarle agli obiettivi di
politica economica.
La riforma della contabilità del 1978 ha introdotto la LEGGE FINANZIARIA per la riconsiderazione globale dei
flussi finanziari di cui poteva essere corretto l’andamento.
La legge finanziaria è disegnata come un strumento potenzialmente omnicomprensivo, con il compito di
distribuire le risorse nuove per il futuro e di razionalizzare scelte passate, libera quindi di produrre qualunque
effetto finanziario.
5.6.17.
Il processo di bilancio: il contenuto tipico della finanziaria
La preoccupazione per i limiti della crescita, per l’incertezza sulle risorse future per sostenere lo Stato sociale
e la necessità di contenere l’espansione della spesa pubblica, ha portato all’abbandono della legge finanziaria
omnicomprensiva. Le novelle del 1988 e del 1999 danno nuova articolazione al ciclo del bilancio:
• prima che il Governo presenti il disegno di legge di bilancio di previsione e il disegno di legge
finanziaria, viene trasmesso alla Camere, entro il 30 giugno, il DOCUMENTO DI PROGRAMMAZIONE
ECONOMICA E FINANZIARIA (DPEF) che delinea preventivamente i contenuti essenziali della legge
finanziaria con riferimento all’indebitamento netto di tutte le amministrazioni dello Stato, così come
richiesto dalla UE;
• in autunno inizia la SESSIONE DI BILANCIO con la discussione della LEGGE FINANZIARIA e dei
disegni di legge collegati. L’approvazione del DPEF da parte del Parlamento limita il Governo durante
l’esame della finanziaria non essendo più ammissibili emendamenti che possano incidere sui saldi, e
rendendo recepibili quindi solo emendamenti compensativi;
• considerato che la LEGGE FINANZIARIA è un procedimento privilegiato con tempi rigorosamente
scanditi, onde evitare che potesse contenere anche deliberazioni diverse da quelle di bilancio, si è
precisato il contenuto tipico della legge;
• a completamento della manovra c’è un BILANCIO PLURIENNALE, approvato con apposito articolo
della legge di bilancio che espone separatamente a) l’andamento delle entrate e delle spese in base
alla legislazione vigente e b) la previsione sull’andamento delle entrate e delle spese tenendo conto
degli interventi programmati nel DPEF;
5.6.18.
Il processo di bilancio: legge e regolamento parlamentare
Il corpus della normativa regolamentare è segnato da 3 fondamentali direttrici:
• la concentrazione procedurale, al fine di razionalizzare il vaglio parlamentare e di evitare l’esercizio
provvisorio;
• il ruolo preminente della commissione bilancio;
• i tempi certi della procedura uniti ai limiti sul contenuto della legge;
I Presidenti delle due Camere debbono vigilare esercitando il potere di stralcio e un controllo
sull’ammissibilità degli emendamenti.
5.6.19.
Il processo di bilancio: verifica della copertura
Si è stabilita con la sovrapposizione delle normative una persistente asimmetria tra le regole che sono state
poste per scandire la sessione di bilancio e i meccanismi riscontro sulla copertura delle leggi di spesa. Infatti
per la decisione di bilancio le procedure parlamentari sono conformate sulle linee guida contenute nel DPEF.
Non così può dirsi per le regole sulla corretta quantificazione e copertura degli oneri finanziari delle nuove
leggi di spesa. A oggi la violazione della linee del DPEF per la copertura di una legge ordinaria può essere
sanzionata in Parlamento solo nel caso il Governo e la maggioranza intendano farlo.
Restano comunque i vincoli esterni: il Presidente della Repubblica in sede di promulgazione, la Corte dei
Conti e la Corte Costituzionale possono avere occasione di richiamare le Camere al rispetto dell’art. 81.4
della Costituzione.
5.7.
Presidente della Repubblica
5.7.1.
Capo dello Stato e forma di governo
Nei sistemi parlamentari il CAPO DELLO STATO può assumere ruoli politico-costituzionali differenti, che
oscillano tra i due estremi dell’organo di garanzia costituzionale e dell’organo governante. La diversità di
ruolo è dovuta alle differenze di disciplina costituzionali ed ai caratteri del sistema politico.
La razionalizzazione del parlamentarismo operata dalla Costituzione italiana ha previsto (titolo II part I, artt.
83 ss.) un Presidente della Repubblica, distinto e autonomo dal Governo, dotato di poteri propri, che è “il
Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale” (art. 87.1). Ma la Costituzione non dice quale deve essere il
complessivo ruolo del Presidente della Repubblica, limitandosi:
a) a fissare alcune caratteristiche dell’organo, ovvero lo sgancio dalla maggioranza parlamentare e
l’ampia rappresentatività;
b) ad attribuirgli alcuni poteri. I più importanti: nominare il PdC, sciogliere anticipatamente le Camere,
rinviare le leggi e nominare alcune cariche;
c) a porre sicuri limiti all’esercizio degli stessi poteri, che consistono principalmente nell’obbligo che i
suoi atti siano controfirmati (art. 89) dal Governo, che quindi esercita un controllo sul Capo dello
Stato che non può quindi agire in totale contrapposizione alla maggioranza, e dalla fiducia
parlamentare ai governi, che non possono quindi divenire “presidenziali”;
d) a sancire e garantire la sua irresponsabilità politica (art. 89);
Determinati gli argini costituzionali entro cui può operare il Presidente della repubblica, il concreto ruolo può
variare a seconda dei mutevoli equilibri della forma di governo e del sistema politico. Più precisamente:
• se la coalizione si forma dopo le elezioni ed i rapporti tra i partiti sono instabili, il ruolo del Capo dello
Stato si espande e a lui compete la scelta dei PdC e lo scioglimento delle Camere;
• se invece i rapporti tra i partiti sono stabili il Capo dello Stato si limiterà a esercitare i suoi poteri per
garantire il rispetto di alcuni valori costituzionali;
5.7.2.
Elezione del Presidente della Repubblica
Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune, integrato dai delegati regionali
eletti dai rispettivi Consigli (3 per ciascuna Regione, 1 per la Valle d’Aosta) in modo da garantire la
rappresentanza delle minoranza (art. 83.1 Cost.). La presenza dei delegati regionali dovrebbe rafforzare la
caratterizzazione del Presidente della repubblica come “rappresentante dell’unità nazionale” (art. 87).
I requisiti per essere eletto Presidente della Repubblica sono indicati dall’art. 84 della Costituzione:
cittadinanza italiana, compimento del 50° anno di età ed il godimento dei diritti civili e politici. Inoltre la
Costituzione dispone l’incompatibilità dell’ufficio di Presidenza con qualsiasi altra carica.
All’elezione si procede per iniziativa del Presidente della Camera che, 30 giorni prima della scadenza del
mandato presidenziale, convoca il Parlamento in seduta comune e i delegati regionali per l’elezione del
nuovo Presidente (art. 85.2). Analoga iniziativa è assunta dal Presidente della Camera entro 15 giorni nelle
ipotesi di impedimento permanente, morte o dimissioni del Presidente della Repubblica (art. 86.2).
Nel caso in cui le Camere siano sciolte o manchino meno di 3 mesi alla loro cessazione, l’elezione del
Presidente della Repubblica avviene entro 15 giorni dalla riunione delle nuove camere (art. 85.3).
L’elezione del Presidente della Repubblica avviene a scrutinio segreto e con la maggioranza dei 2/3
dell’Assemblea; dopo il terzo scrutinio è richiesta solo la maggioranza assoluta. Il Presidente della Repubblica
presta giuramento al Parlamento in seduta comune. Il mandato presidenziale decorre dalla data del
giuramento e dura per un periodo di 7 anni. Alle dipendenze esclusive del Presidente è posta una struttura
amministrativa, chiamata SEGRETARIATO GENERALE DELLA PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA.
La cessazione della carica presidenziale avviene per:
• conclusione del mandato (non esiste un vincolo costituzionale per la rielezione, ma la pressi lo ha
sempre escluso);
• morte;
• impedimento permanente;
• dimissioni;
• decadenza per effetto della perdita di uno dei requisiti di eleggibilità;
• destituzione, disposta per effetto alla sentenza di condanna pronunciata dalla Corte costituzionale
per i reati di alto tradimento e di attentato alla Costituzione;
Nei casi di dimissioni, scadenza naturale del mandato, impedimento permanente, il Presidente della
repubblica diviene di diritto senatore a vita (art. 59.1).
5.7.3.
La controfirma ministeriale
La Costituzione stabilisce che “nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato
dai Ministri proponenti che ne assumono la responsabilità” ed aggiunge che “gli atti che hanno valore
legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri”
(art. 89).
La CONTROFIRMA è, quindi, la firma apposta da un membro del Governo sull’atto adottato e sottoscritto dal
Presidente della Repubblica; essa è requisito di validità dell’atto e la sua apposizione rende irresponsabile il
Presidente per l’atto adottato, trasferendo la relativa responsabilità in capo al Governo.
Secondo l’interpretazione affermatisi nella dottrina e nella prassi, vi sono atti formalmente adottati dal Capo
dello Stato anche se il contenuto è deciso dal Governo (ATTI FORMALMENTE PRESIDENZIALI
SOSTANZIALMENTE GOVERNATIVI) e altri che sono adottati dal Presidente della Repubblica e di cui egli
stesso decide i contenuti (ATTI FORMALMENTE E SOSTANZIALMENTE PRESIDENZIALI).
A queste due categorie di atti presidenziali, se ne aggiunge una terza costituita dagli ATTI COMPLESSI, il cui
contenuto è deciso dall’accordo tra il Presidente della Repubblica e il Governo.
La controfirma riguarda tutti gli atti presidenziali (ad eccezione delle dimissioni) quale che sia il tipo cui
appartengano. La Costituzione fa riferimento per la controfirma al ministro proponente. Ma qualora si tratti
di atti formalmente e sostanzialmente presidenziali e quindi manchi il proponente, una prassi consolidata ha
affidato la controfirma al ministro competente per materia.
5.7.4.
Le irresponsabilità del Presidente
Secondo la Costituzione il Presidente della Repubblica è irresponsabile. Non può essere chiamato a
rispondere sul terreno della responsabilità politica e infatti non è previsto nessun meccanismo che consenta
di realizzare la rimozione anticipata dalla carica.
Per quanto concerne la responsabilità giuridica del Presidente della repubblica, occorre distinguere gli atti
posti in essere nell’esercizio delle sue funzioni da quelli che adotta come qualsiasi cittadino. Per i primi la
Costituzione prevede esclusivamente una responsabilità penale per i reati di alto tradimento e attentato alla
Costituzione. Diverso è il regime degli atti e dei comportamenti non riconducibili all’esercizio delle funzioni
presidenziali. L’opinione prevalente ritiene che il Capo dello Stato sia penalmente responsabile per i fatti
commessi e qualificabili come reati, anche se (nel silenzio costituzionale) l’azione penale sarebbe
improcedibile per tutta la durata del mandato. Mentre sarebbe civilmente responsabile al pari di qualsiasi
altro cittadino.
5.7.5.
La soluzione delle crisi di governo: nomina del PdC
Per la soluzione delle crisi di Governo il Capo dello Stato dispone di due poteri: il potere di nomina del
Presidente del Consiglio (art. 92) e il potere di sciogliere anticipatamente le Camere (art. 88).
La funzione di intermediazione politica del Presidente della Repubblica, preminente fino al 1993, si basa su
due pilastri:
• il primo è dato dal dritto costituzionale, con la facoltà di nominare il Governo comunque vincolato
alla successiva accettazione da parte del Parlamento;
• il secondo è prodotto dal sistema politico, con la formazione di coalizioni post-elettorali frutto di
laboriose trattative tra i partiti dove il Presidente della Repubblica poteva inserirsi attraverso gli
strumenti delle consultazioni e del mandato esplorativo;
5.7.6.
La soluzione delle crisi: lo scioglimento anticipato del Parlamento
Le considerazione precedenti sul diverso atteggiarsi del ruolo del Capo dello Stato a seconda degli equilibri
della forma di governo permettono di inquadrare correttamente il potere di SCIOGLIMENTO ANTICIPATO
DEL PARLAMENTO. Le disposizioni costituzionali (art. 88) prevedono che:
a) il Capo dello Stato può sciogliere entrambe le Camere o anche una sola di esse;
b) prima di sciogliere le Camere deve sentire i loro Presidenti che esprimono un parere obbligatorio ma
non vincolante;
c) questo potere non può essere esercitato negli ultimi 6 mesi del mandato presidenziale, salvo
coincida con gli ultimi 6 mesi della legislatura (SEMESTRE BIANCO);
Non risulta però chiaro come questo atto si configuri: se un potere presidenziale, un atto del Governo, che
controfirma, oppure un atto complesso, frutto della mediazione tra il Capo dello Stato e il Governo. In
concreto questo dipende dalla forma di Governo. Nel parlamentarismo maggioritario la decisione sostanziale
di sciogliere anticipatamente il Governo si è spostata, di fatto e anche di diritto, in capo al Governo stesso.
5.7.7.
Lo scioglimento anticipato del Parlamento: esperienza italiana
Il fatto che la forma di governo italiana abbia per lungo tempo operato come parlamentarismo
compromissorio, spiega perché lo scioglimento è stato considerato un atto complesso e duumvirale. Se ogni
tentativo del Capo dello Stato di individuare una maggioranza però falliva e le sue arti maieutiche non
riuscivano a superare la conflittualità paralizzante dei partiti, l’unica via che restava era lo scioglimento delle
Camere.
Quindi i presupposti dello scioglimento sono individuati nell’impossibilità del Parlamento di funzionare
correttamente in quanto incapace di formare una maggioranza di qualsiasi tipo (SCIOGLIMENTO
FUNZIONALE). Sostanzialmente allora il Presidente della Repubblica certifica la volontà delle forze politiche
di porre fine alla legislatura, quindi la decisione è riconducibile alle forze politiche stesse come una sorta di
AUTOSCIOGLIMENTO.
5.7.8.
Dopo lo scioglimento, l’ordinaria amministrazione
Una volta che è deciso lo scioglimento del Parlamento, a seguito di una crisi di Governo, quale Governo
dovrà restare in carica e “gestire” le elezioni: il Governo dimissionario oppure uno nuovo nominato dal PdR?
La soluzione ritenuta preferibile è che il decreto di scioglimento sia controfirmato dal Governo dimissionario
che resta in carica per “l’ordinaria amministrazione”.
5.7.9.
Atti formalmente e sostanzialmente presidenziali
Gli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali sono i seguenti:
a) gli atti di nomina, con cui il PdR nomina:
• 5 senatori a vita (art. 59.2) nel complesso del Senato e non, come interpretato da Pertini e
Cossiga, per ciascun Presidente della Repubblica;
• un terzo dei giudici costituzionali (art. 135.1), con decreto controfirmato dal PdC come
formalizzazione giuridica dell’atto senza alcun intervento sostanziale;
b) il rinvio delle leggi. Il PdR con un messaggio motivato può rinviare una legge alle Camere per una
nuova deliberazione;
c) i messaggi presidenziali. Il PdR può inviare messaggi “liberi”, cioè non vincolati nel contenuto, alle
Camere (art. 87);
d) esternazioni atipiche, ovvero tutte quelle manifestazioni pubbliche del pensiero presidenziale i cui
destinatari sono generalmente l’opinione pubblica che ovviamente non necessitano di controfirma;
e) la convocazione straordinaria delle Camere (art. 62), che è diretta a garantire il funzionamento delle
istituzioni costituzionali contro eventuali prevaricazioni della maggioranza;
5.7.10.
Atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi
Gli atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi sono i seguenti:
a) l’emanazione degli atti governativi aventi valore di legge e cioè i decreti legge, i decreti legislativi e i
regolamenti del Governo, che assumono la forma del decreto presidenziale;
b) l’adozione, con la forma del DECRETO PRESIDENZIALE (d.P.R.), dei più importanti atti del Governo,
ed in particolare della nomina dei funzionari di Stato. Con la legge 13/91 il numero di dPR è stato
drasticamente ridotto anche attraverso l’introduzione di un nuovo tipo di atto, il DECRETO DEL
PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (D.P.C.M.) o dei ministri (D.M.);
c) la promulgazione delle leggi è attribuita al Capo dello Stato, che deve provvedervi entro un mese
dall’avvenuta approvazione parlamentare, salvo il minor tempo richiesto dalle Camere stesse sul
presupposto dell’urgenza (votata a maggioranza assoluta da entrambe le Camere). La formula di
promulgazione:
• accerta che la legge è stata approvata nel medesimo testo da entrambi i rami del
Parlamento;
• manifesta la volontà di promulgare la legge;
• ne ordina la pubblicazione nella raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica
italiana;
• obbliga chiunque ad osservarla e farla osservare come legge dello Stato;
d) la ratifica dei trattati internazionali, predisposti dal Governo ed eventualmente autorizzati dal
Parlamento, l’accreditamento dei rappresentanti diplomatici esteri, la dichiarazione dello stato di
guerra previa deliberazione delle Camere – che attribuisce al Capo dello Stato il comando delle forze
armate e la presidenza del Consiglio supremo di difesa.
e) La concessione della grazia e la commutazione delle pene che un tempo costituivano, insieme
all’amnistia ed all’indulto tipiche manifestazioni del potere del Capo dello Stato di riduzione delle
sanzioni penali, tendono a diventare espressione di un potere sostanzialmente governativo. Con la
legge costituzionale 1/92 l’amnistia e l’indulto sono stati sottratti interamente al Capo dello Stato e
ormai la stessa GRAZIA e la COMMUTAZONE DELLA PENA sono state attratte nell’orbita governativa,
com’è comprovato dalla formulazione della proposta da parte del ministro di grazie e giustizia, cui la
legislazione ordinaria conferisce il compito di svolgere la fase istruttoria;
f) La Costituzione infine affida al Capo dello Stato i poteri:
• di autorizzare la presentazione alle Camere dei disegni di legge governativi;
• di indire le elezioni delle nuove Camere fissandone la prima riunione e di indire i referendum
popolari;
• di conferire le onorificenze della Repubblica;
• di emanare il decreto di scioglimento dei Consigli regionali e la rimozione del Presidente della
Giunta che abbiano compiuto atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge (art. 126);
5.7.11.
Atti come Presidente del Consiglio supremo di Difesa e CSM
In talune fattispecie il Capo dello Stato opera come Presidente di un organo collegiale e gli atti posti in
essere in tale veste si fondono con la volontà del collegio con la conseguenza che questi atti non richiedono
la controfirma.
Al Capo dello Stato è attribuita la presidenza del CONSIGLIO SUPREMO DI DIFESA. E’ un organo di cui
fanno stabilmente parte il PdC, alcuni ministri (esteri, interni, tesoro, difesa, industria, commercio) e il Capo
di stato maggiore della difesa. La titolarità sostanziale dei poteri militari e di difesa è del Governo, che
risponderà politicamente dinanzi al Parlamento dell’esercizio di detti poteri. Il Presidente della Repubblica ha
il potere di convocazione, di formazione dell’ordine del giorno, di nomina e revoca del segretario del
Consiglio.
Per quel che concerne la presidenza del Consiglio superiore della magistratura, comunemente si ritiene che
l’attività presidenziale si fonda con quella del collegio, con la conseguenza che si hanno atti del Presidente
del Consiglio superiore e non atti del Presidente della Repubblica e per questa ragione la controfirma non è
necessaria.
Per quanto attiene ai provvedimenti che attengono allo status giuridico dei magistrati ordinari, essi
assumono la forma di dPR controfirmati dal Ministro della Giustizia, conformemente a quanto deliberato dal
CSM. In questo caso la prassi riconosce al Capo dello Stato un generico potere di rinvio ove ravvisi mere
irregolarità formali nello svolgimento del procedimento per il conferimento degli incarichi direttivi.
5.7.12.
La supplenza del Presidente della Repubblica
Tutte le volte in cui il PdR non può adempiere le sue funzioni, queste sono esercitate dal Presidente del
Senato (art. 86 Cost.). La SUPPLENZA è un istituto che consente la continuità delle funzioni presidenziali
anche nell’ipotesi nella quale il Capo dello Stato non possa adempierle a causa di un impedimento.
Nel caso di impedimento permanente, così pure di morte o di dimissioni, scatta sempre la supplenza del
Presidente del Senato, ma in questo caso il Presidente della Camera avvia il procedimento per l’elezione del
nuovo PdR.
L’accertamento dell’impedimento temporaneo è dichiarato dallo stesso Capo dello Stato.
6.
Regioni e governo locale
6.1.
Regioni e EELL nella storia istituzionale italiana
6.1.1.
Dalla costituzione alla riforma
La Costituzione italiana aveva previsto uno Stato regionale e autonomista. Doveva basarsi su Regioni di
AUTONOMIA POLITICA (art. 115 Cost.), cioè sulla capacità di darsi un proprio indirizzo politico nonché di
autonomia legislativa (art. 117) e amministrativa nella materie costituzionali (art. 118). Strumentalmente
all’esercizio di quanto detto era attribuita l’autonomia finanziaria (art. 119).
Le Regioni cui veniva applicata questa disciplina erano 15, e ad esse si aggiungevano altre 5 Regioni dotate
di una diversa autonomia, più ampia e definita nei suoi contenuti dallo statuto di ciascuna di esse, approvato
con legge costituzionale.
Le Regioni disciplinate direttamente dalla Costituzione sono denominate REGIONI ORDINARIE, le altre
REGIONI SPECIALI. Condizioni di ulteriore specificità sono state inoltre attribuite alle Province autonome di
Trento e Bolzano.
Infine la Costituzione riconosceva l’autonomia di enti territoriali di livello inferiore a quello regionale, i comuni
e le province. L’autonomia di questi EELL doveva essere disciplinata da leggi generali dello Stato.
Nonostante il dettato costituzionale, le Regioni ordinarie sono state istituite nel 1970. L’esercizio effettivo
delle funzioni da parte delle Regioni richiedeva che lo Stato, con legge (DECRETI DI TRASFERIMENTO),
trasferisse loro le funzioni amministrative, insieme al personale e alle risorse correlate.
Il concreto trasferimento di funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni è avvenuto prima nel 1972 e poi
nel 1977, ma si è trattato di un trasferimento parziale perché i ministeri hanno conservato numerose
competenze nell’ambito delle materie che la Costituzione affidava alle Regioni.
Un cambiamento nella ripartizione delle funzioni amministrative c’è stata con la legge 59/97 detta Bassanini,
che introduceva questo principio: alle Regioni ed agli EELL dovevano essere attribuite tutte le funzioni e i
compiti amministrativi relativi alla cura e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità nonché
compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori. Prima del 1997 la Regione esercitava esclusivamente
le funzioni amministrative delegate dallo Stato, con la legge Bassinini in linea teorica si realizzava
un’interpretazione evolutiva dell’art. 118 della Costituzione in virtù della quale le funzioni amministrative
venivano attribuite interamente agli EELL anche nelle materie in cui lo Stato aveva titolarità della funzioni
legislativa.
Anche i decreti legislativi successivi hanno avviato un processo di riorganizzazione dello Stato in senso
regionalista e autonomista. Questo processo, avviato a Costituzione invariata, presentava forti dubbi di
compatibilità con l’ordinamento costituzionale. Nel 2001 il Parlamento ha approvato una legge costituzionale
di riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione. L’idea della riforma è stata quella di disegnare
una Repubblica delle autonomie articolata su più livelli territoriali di governo, ciascuno dotato di autonomia
costituzionalmente garantita. La riforma costituzionale del 1999 aveva invece modificato la forma di governo
regionale, introducendo l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e ampliando l’autonomia
statutaria in materia di forma di governo.
6.1.2.
Ripartizione delle competenze
La Costituzione (come modificata nel 2001) prevede che la Repubblica sia articolata in Comuni, Province,
Città metropolitane, Regioni e Stato, tutti dotati costituzionalmente di autonomia. Questa autonomia si
traduce in autonomia statutaria nell’ambito dei principi fissati dalla Costituzione (art. 114.2).
In un sistema in cui è prevista la parità di rango (equiordinanze) degli enti, la legge statale e la legge
regionale sono pure pariordinate – la prima ha quindi perduto la posizione di prevalenza che aveva nel
precedente sistema. Lo Stato avrebbe perduto quindi la potestà legislativa generale, e potrebbe legiferare
solamente nelle materie individuate dalla Costituzione ed espressamente riservate a lui. La legge statale e
regionale sono sottoposte agli stessi vincoli rispetto alla Costituzione e all’ordinamento comunitario e agli
obblighi internazionali.
L’art. 117 attribuisce allo Stato una POTESTA’ LEGISLATIVA ESCLUSIVA solamente nelle materie previste
dalla Costituzione (affari esteri, immigrazione, ordine pubblico, difesa, cittadinanza, giurisdizione, moneta,
risparmio, finanza). In questi campi vi è l’esclusione di interventi legislativi regionali (art. 117.2), ma in tutte
le altre materie non espressamente riservate allo Stato, quest’ultimo non potrebbe più legiferare, salvo che
per determinare i principi fondamentali nelle materia contenute in un altro elenco (art. 117.3).
Il nuovo testo ha previsto una POTESTA’ LEGISLATIVA CONCORRENTE in determinate materia (lavoro,
professioni, tutela della salute, protezione civile, previdenza complementare e integrativa, governo del
territorio). Per tutto il resto, la Regione ha una POTESTA’ LEGISLATIVA RESIDUALE che spazia in tutte le
materie non espressamente riservate allo Stato o ricomprese nella potestà concorrente.
Il testo originario della Costituzione operava secondo il PRINCIPIO DEL PARALLELISMO DELLE FUNZIONI,
mentre l’impostazione data con la legge Bassanini, e con la conseguente riforma costituzionale in senso
regionalista, si basa sui principi di SUSSIDIARIETA’, DIFFERENZIAZIONE, ADEGUATEZZA indirizzando la PA
verso sempre più l’amministrazione locale.
Anche il nuovo testo ha mantenuto le 5 Regioni speciali, mentre per le Regioni ordinarie sono previsti
strumenti per ottenere FORME ULTERIORI DI AUTONOMIA rispetto a quelle previste dalla disciplina
costituzionale relativamente alle materie concorrenti. Tale ampliamento potrà essere disposto per la singola
regione su iniziativa della stessa con legge dello Stato.
6.2.
I raccordi tra i diversi livelli territoriali
Negli Stati federali o comunque a forte decentramento politico si pone il problema dei RACCORDI TRA I
DIVERSI LIVELLI TERRITORIALI. La riforma costituzionale del 2001 non ha previsto quel meccanismo di
raccordo presente in numerosi Stati federali che è la Camera delle regioni dove lo Stato negozia con le
regioni la ripartizione delle attribuzioni. Attualmente quindi i due raccordi principali sono la Commissione
bicamerale integrata e il sistema della conferenza tra lo Stato e gli EELL.
6.2.1.
La Commissione bicamerale integrata
Il principale strumento di raccordo previsto dalla Costituzione è la COMMISSIONE PARLAMENTARE PER LE
QUESTIONI REGIONALI, introdotta dalla Costituzione del 1948 che l’ha configurata come commissione
bicamerale composta di deputati e senatori con compiti consultivi limitati essenzialmente all’ipotesi di
scioglimento anticipato dei Consigli regionali.
Con la riforma costituzionale del 1999 si è previsto lo scioglimento dei consigli o la rimozione del Presidente
della Giunta con dPR motivato solo con atti contro la Costituzione o gravi violazioni di legge oppure per
ragioni di sicurezza nazionale. Il decreto di scioglimento o rimozione può essere adottato solamente sentita
la Commissione bicamerale integrata.
Con la riforma del 2001 vi è stata l’attribuzione di rilevanti funzioni di raccordo alla Commissione:
a) i regolamenti parlamentari possono prevedere la partecipazione di rappresentanti delle Regioni, delle
Province autonome e degli EELL;
b) quando un PdL concernente materie in regime di competenza concorrente oppure relativo
all’autonomia finanziaria di entrata o spesa abbia ricevuto parere negativo dalla Commissione
bicamerale e la commissione competente all’esame non abbia recepito l’osservazione, le parti del
testo bocciate dalla Bicamerale possono essere deliberate solo con la maggioranza assoluta
dell’Assemblea;
6.2.2.
Il sistema delle conferenze e la Stato-Regione
Il SISTEMA DELLE CONFERENZE è stato creato prima della riforma istituzionale del 2001 e continua ad
operare nella direzione del principio di leale collaborazione creato dalla giurisprudenza costituzionale. Il
PRINCIPIO DELLA LEALE COLLABORAZIONE formulato con la sentenza della Corte Costituzionale 242/97
“deve governare i rapporti tra lo Stato e le Regioni nelle materie e in relazione alle attività in cui le rispettive
competenze concorrono o si intersechino imponendo un contemperamento dei rispettivi interessi”.
Tra i congegni più rilevanti per assicurare l’attuazione del principio di leale collaborazione ed il raccordo tra
Stato e Regioni vi è la CONFERENZA PERMANENTE PER I RAPPORTI TRA LO STATO, LE REGIONI E LE
PROVINCIE AUTONOME DI TRENTO E BOLZANO, a cui è stata affiancata anche la CONFERENZA STATO,
CITTA’ E AUTONOMIE LOCALI. Entrambe possono essere riunite assieme nella CONFERENZA UNIFICATA.
Questi organismi sono sedi di confronto tra il Governo e le Regioni (1°), il Governo e gli EELL (2°) o ancora
tra Governo, Regioni e EELL (3°). Questo parere non è giuridicamente vincolante.
6.2.3.
Altri tipi di raccordo
La Costituzione (riforma 2001) prevede altre forme di raccordo su alcune competenze in capo alle Regioni
ponendo lo Stato in una posizione di coordinamento, ovvero attribuendo allo Stato l’esclusività della
programmazione e del coordinamento di alcune materie e lasciando quindi alle Regioni la regolazione della
materia nell’ambito della cornice. Rientrano in questa categoria per esempio: 1) la determinazione dei livelli
essenziali per le prestazioni riguardanti diritti sociali o civili, 2) la tutela della concorrenza; 3) il
coordinamento informativo della PA.
Un’altra forma di raccordo riguarda l’esercizio del POTERE ESTERO delle Regioni ed i rapporti delle stesse
con l’UE. Lo Stato conserva potestà legislativa esclusiva in ordine a “politica estera e rapporti internazioni”,
“rapporti dello Stato con l’UE” e “diritto d’asilo” nonché “condizione giuridica dei cittadini non appartenenti
all’UE”. Tuttavia nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati o intese con
enti territoriali esteri nelle forme e nei casi disciplinati dalle leggi dello Stato (art. 117.9).
Il Governo inoltre gode del POTERE SOSTITUTIVO nei confronti degli organi delle Regioni e degli EELL. Può
quindi surrogarsi ad essi in casi di particolare urgenza, gravità o inadempienza.
6.3.
I rapporti tra le Regioni e gli EELL
Il testo originario della Costituzione del 1948 stabilisce che “la Repubblica riconosce e promuove le
autonomie locali” (art. 5) e demanda a leggi generali il compito di determinare principi e modalità di questa
autonomia (art. 128).
L’accelerazione del processo di sviluppo degli EELL si è avuta nel corso degli anni ’90 con la legge 142/90,
l’elezione diretta di Sindaci e Presidenti di Provincia e l’approvazione del T.U. degli EELL nel 2000. La nuova
disciplina si basa sui seguenti principi:
• il COMUNE è l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove
lo sviluppo;
• la PROVINCIA è l’ente locale intermedio tra Comune e Regione, il quale rappresenta la propria
comunità, ne cura gli interessi, ne promuove e coordina lo sviluppo;
• i comuni e le province hanno autonomia statutaria, normativa, organizzativa e amministrativa,
nonché impositiva e finanziaria nell’ambito dei propri statuti e regolamenti e delle leggi della finanza
pubblica;
• la generalità dei compiti e delle funzioni va attribuita ai Comuni e alle Province, con esclusione delle
funzioni che richiedono l’unitario esercizio a livello regionale;
Accanto a queste figure la riforma costituzionale del 2001 ha introdotto le CITTA’ METROPOLITANE. Nelle
aree metropolitane il Comune capoluogo e gli altri ad esso uniti da contiguità territoriale possono decidere di
costituirsi in città metropolitana. Quest’ultima acquisisce le funzioni della Provincia ed assume un
ordinamento differenziato determinato con proprio statuto.
Con la revisione del 2001 la condizione degli EELL è cambiata profondamente. Prima di questa data
l’autonomia degli enti locali risultava sostanzialmente “decostituzionalizzata”. Vi è così la garanzia
dell’autonomia di ciascuno di tali enti del potere di darsi autonomamente un proprio STATUTO. L’art. 118
stabilisce che le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni e coerentemente con questa previsione lo
stesso articolo stabilisce che i Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di FUNZIONI
PROPRIE. Lo Stato però conserva la potestà legislativa esclusiva per quanto riguarda legislazione elettorale,
organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane.
Per quanto riguarda i raccordi tra la Regione e gli enti locali, la Costituzione prevede che in ogni Regione lo
statuto preveda il CONSIGLIO DELLE AUTONOMIE LOCALI, in cui siedono i rappresentanti degli enti locali, il
quale deve funzionare come organo con funzioni consultive.
6.4.
Finanza regionale e finanza locale
L’art. 119 riconosce e garantisce l’AUTONOMIA FINANZIARIA, sia sul versante delle entrate che su quello
delle spese, a favore di Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni. Questo comporta:
a) i suddetti enti devono avere entrate proprie e il potere di concorrere a determinarne la quantità e la
composizione;
b) devono poter stabilire liberamente come spendere le risorse di cui dispongono, che possono
provenire da tributi propri o da trasferimenti dello Stato;
Lo Stato non ha comunque rinunciato al potere d’intervento nella finanza locale, infatti l’art. 117 prevede che
l’armonizzazione dei bilanci pubblici e il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario siano
materia concorrente dove lo Stato può fissare la cornice generale. Lo Stato mantiene competenza esclusiva
nella perequazione delle risorse finanziarie.
I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno anche un proprio PATRIMONIO, attribuito
secondo i principi generali fissati con legge dello Stato e possono ricorrere all’INDEBITAMENTO, ma
solamente per finanziare spese di investimento e non la spesa corrente.
6.5.
La forma di governo regionale
La legge costituzionale 1/99 ha modificato gli articoli da 121 a 126 della Costituzione introducendo una
forma di governo regionale basata sull’ELEZIONE POPOLARE DIRETTA DEL PRESIDENTE DELLA REGIONE.
Più precisamente è stata individuata una forma di governo transitoria, vigente fino a quando la Regione
attraverso il proprio statuto individuerà autonomamente la propria forma di governo e la propria legge
elettorale, in armonia con la Costituzione.
6.5.1.
La forma di governo antecedente
Prima della riforma le Regioni avevano una forma di governo parlamentare a predominanza assembleare,
per effetto della disciplina costituzionale, degli statuti e del sistema proporzionale. Questa architettura
politica creava governi regionali instabili e deboli. Con l’elezione diretta dei Sindaci e la crescita della loro
forza politica data dalla legittimità popolare e dalla stabilità di governo, le Regioni si erano trovate deboli e
schiacciate tra lo Stato che non devolveva competenze legislative e i Sindaci che premevano per guadagnare
spazio nell’amministrazione del locale.
Il primo tentativo per rafforzare il Governo regionale si è avuto nel 1995 con la riforma del SISTEMA
ELETTORALE DELLE REGIONI ORDINARIE. Questo sistema, pur basato sul proporzionale, prevede:
•
•
•
•
6.5.2.
un premio di maggioranza alla lista o alla coalizione che ottiene più voti a livello regionale;
la caratterizzazione delle liste regionali attraverso il capolista designato per la Presidenza della
Giunta (meccanismo che da designazione è stato trasformato nel 1999 in elezione diretta);
l’introduzione di una clausola di sbarramento;
riduzione delle preferenze a una;
La c.d. “forma di governo transitoria”
La riforma costituzionale del 1999 ha dato l’avvio ad un mutamento della forma di governo regionale, la
quale dovrà essere definita dagli Statuti regionali. Nel frattempo è in vigore una disciplina transitoria che ha
innestato l’elezione diretta del Presidente della Giunta sulla precedente legge elettorale.
Secondo quanto previsto nel 1999 da una parte c’è il CONSIGLIO REGIONALE, eletto, titolare della funzione
legislativa e del potere di fare proposte alle Camere, dall’altra il PRESIDENTE DELLA REGIONE, eletto
direttamente. Il Presidente rappresenta la Regione, dirige la politica della Giunta e ne è responsabile,
promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali, dirige le funzioni amministrative. La GIUNTA REGIONALE
è l’organo esecutivo della Regione, i cui membri sono nominati e revocati dal Presidente della Regione come
previsto dalla Costituzione.
Le relazioni tra il Consiglio regionale ed il Presidente e la Giunta sono riconducibili al modello della forma di
governo neoparlamentare. Il Consiglio può esprimere la sfiducia motivata al Presidente, sottoscritta almeno
da 1/5 dei membri del consiglio e votata con maggioranza assoluta. La mozione può essere discussa solo 3
giorni dopo la presentazione della stessa e la sua approvazione comporta la decadenza del Presidente, della
Giunta e del Consiglio stesso con conseguenti elezioni per il rinnovo degli organi.
L’assetto descritto della forma di governo regionale è previsto dalla Costituzione, che però affida allo Statuto
di ciascuna Regione la competenza a determinare, in armonia con la Costituzione stessa, la forma di governo
e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento (art. 123.1).
In attesa dei nuovi Statuti regionali, resta in vigore la disciplina transitoria che ha introdotto le seguenti
innovazioni:
• sono candidati alla Presidenza della Regione i capolista delle liste regionali;
• è proclamato eletto Presidente della Regione il candidato che ha conseguito il maggior numero di
voti validi a livello regionale;
• il Presidente della Regione fa parte del Consiglio regionale;
• entro dieci giorni dalla proclamazione il Presidente della Regione nomina i componenti della Giunta,
tra i quali un vice-presidente;
• se il Consiglio approva una mozione di sfiducia, entro 3 mesi si procede all’indizione di nuove
elezioni;
6.5.3.
Il margine delle scelte statutarie
Secondo l’art. 123 della Costituzione ogni Regione ha uno Statuto che ne determina la forma di governo e i
principi fondamentali di organizzazione funzionamento. Il sistema che viene a crearsi può così essere
sintetizzato:
a) la Costituzione fissa un criterio generale di elezione a suffragio universale e diretto del Presidente;
b) in questo contesto il rapporto tra Presidente e Consiglio è retto dal principio “simul stabunt, simul
candent”;
c) il Consiglio potrebbe sempre votare una mozione di sfiducia contro il Presidente e questa possibilità
non sarebbe derogabile dallo Statuto;
d) le Regioni, nell’esercizio della potestà statutaria, potrebbero scostarsi da questo modello al punto da
abbandonare l’elezione diretta del Presidente;
e) qualora invece decidesse di mantenere l’attuale sistema transitorio, dovrebbe attenersi alla disciplina
dell’art. 126 della Costituzione, compreso i casi di morte, impossibilità, rimozione, dimissioni;
6.6.
La forma di governo degli EELL
La forma di Governo del Comune e della provincia è stata modellata sulla legge 81/93, modificata dalla legge
265/99. Tale forma di governo si basa sull’ELEZIONE POPOLARE DEL SINDACO E DEL PRESIDENTE DI
PROVINCIA e su una combinazione tra sistema proporzionale e premio maggioritario a seconda del numero
di abitanti dell’ente.
Il Sindaco e il Presidente della Provincia durano in carica 5 anni e non possono ricoprire più di 2 mandati
consecutivi (salvo che uno dei due abbia avuto durata inferiore ai 2 anni 6 mesi e 1 giorno).
Nei Comuni FINO A 15.000 ABITANTI, ogni candidato Sindaco deve essere collegato ad una lista di candidati
a consigliere comunale. L’elettore può esprimere un voto per il candidato Sindaco e per la lista ad esso
collegata e una preferenza per uno dei candidati consiglieri della medesima lista. E’ eletto il Sindaco che
ottiene il maggior numero di voti validi (maggioranza relativa). La lista del Sindaco eletto ottiene 2/3 dei
seggi disponibili, mentre i rimanenti sono ripartiti tra le altre liste con formula proporzionale, applicando il
metodo d’Hondt.
Nei Comuni CON OLTRE I 15.000 ABITANTI, il candidato Sindaco deve essere collegato ad una o più liste di
candidati alla carica di consigliere. L’elettore dispone di 1 voto per il candidato Sindaco e di 1 voto per la lista
dei candidati consiglieri e può esprimere una preferenza per uno dei candidati della lista votata. Questo
meccanismo viene detto di VOTO DISGIUNTO. E’ eletto il candidato Sindaco che otterrà la metà più 1 dei
voti validi (maggioranza assoluta). Se nessun candidato raggiunge la maggioranza assoluta si procede con
un secondo turno di ballottaggio tra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti. Al
secondo turno è eletto il candidato che ottiene il maggior numero di voti. La ripartizione dei seggi avviene
con sistema proporzionale attraverso il metodo d’Hondt, ma al fine di assicurare maggiore stabilità e una
maggioranza ampia al Sindaco è prevista l’attribuzione di un premio di maggioranza alle liste collegate al
candidato Sindaco eletto.
Più precisamente:
a) qualora un candidato alla carica di Sindaco sia eletto al 1° turno, nel caso le liste a lui collegate non
abbiano raggiunto la soglia del 60%, ma abbia ottenuto almeno il 40% dei voti validi, è comunque
assegnato il 60% dei seggi in Consiglio Comunale. Non si dà però luogo all’attribuzione del premio di
maggioranza qualora un altro gruppo di liste abbia superato il 50%;
b) qualora un candidato alla carica di Sindaco sia eletto al 2° turno, al gruppo di liste a lui collegate,
che non abbiano già conseguito il 60%, è assegnato il 60% dei seggi in Consiglio Comunale. Vale la
stessa clausola conclusiva del punto a);
Il procedimento per l’elezione del Presidente di Provincia e del Consiglio provinciale è molto simile a quello
previsto per le elezioni comunali nei Comuni con più di 15.000 abitanti.
Per tutte le elezioni degli EELL è prevista una clausola di sbarramento fissata al 3%.
7.
L’amministrazione pubblica
7.1.
Pluralismo amministrativo
L’amministrazione dello Stato liberale seguiva un sistema organizzativo unitario (MODELLO MINISTERIALE),
con una forte struttura piramidale, una vera e propria GERARCHIA AMMINISTRATIVA. In questo sistema
amministrativo non c’era spazio per l’autonomia degli enti locali che venivano definiti dalla dottrina giuridica
ENTI AUTARCHICI, ovvero potevano perseguire interessi propri a condizione che fossero anche interessi
dello Stato che per fare questo esercitava penetranti controlli sull’attività degli EELL.
Nell’odierno Stato di democrazia pluralista l’uniformità dell’amministrazione è stata da tempo abbandonata a
favore di un sistema in cui sono seguiti diversi schemi di organizzazione. Così l’amministrazione si pluralizza
quando si articola in centri amministrativi distinti e portatori di interessi divergenti.
7.2.
Il governo e la PA
Ciascun MINISTRO è preposto ad uno dei grandi rami dell’Amministrazione statale che prende il nome di
MINISTERO. Il ministero quindi ha una duplice funzione, di decisione dell’indirizzo e di applicazione dello
stesso.
Il vecchio modello di organizzazione della PA è stato abbandonato in italia a partire dal 1993, quando
l’impostazione dei ministeri fu basata sul principio della SEPARAZIONE TRA POLITICA E AMMINISTRAZIONE:
agli organi di governo gli indirizzi e la verifica, ai dirigenti amministrativi l’adozione dei provvedimenti e la
gestione della struttura per la realizzazione degli indirizzi.
Quindi il ministro definisce obiettivi, priorità e programmi da attuare ed emana delle direttive generali cui i
dirigenti devono conformarsi, seguendone obiettivi, modalità e standard che devono garantire secondo il
principio della responsabilità dirigenziale.
Nel caso l’ufficio o il livello preposto al raggiungimento di quel determinato obiettivo dovesse fallire nella sua
missione, il ministro potrebbe revocare l’incarico ai livelli dirigenziali responsabili di quel settore della PA.
7.3.
I principi costituzionali sull’amministrazione
Esistono dei principi costituzionali comuni a tutte le amministrazioni:
a) la LEGALITA’ DELLA PA e la riserva di legge in materia di organizzazione. Il primo principio non è
palesato nella Costituzione ma si evince dalla divisione dei poteri e da alcune disposizioni
costituzionali. Il principio di legalità è la sottoposizione dell’amministrazione alla legge, ma non alla
stregua di un cittadino privato che deve rispettare i limiti della legge ma nell’ambito di essi è libero di
agire come meglio crede.
Per la PA è la legge stessa che oltre a determinare i limiti, determina anche la modalità di azione
nell’ambito di essi. Quindi la PA esercita delle opzioni nell’ambito della discrezionalità amministrativa
che la legge le concede.
Per quanto concerne invece l’organizzazione degli uffici pubblici, la Costituzione pone una riserva di
legge relativa, ovvero limita il campo di intervento legislativo alla definizione dei principi rinviando le
scelte nel dettaglio a regolamenti organizzativi. Questo consente alla PA di essere potenzialmente più
flessibile;
b) l’IMPARZIALITA’ DELLA PA (art. 97), vieta di effettuare discriminazioni tra soggetti non sorrette da
alcun fondamento razionale e perciò arbitrarie. L’imparzialità sta alla PA come l’eguaglianza sta allo
Stato;
c) il BUON ANDAMENTO DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE (art. 97), che richiede un’attività
amministrativa che risponda ai canoni di EFFICIENZA ed EFFICACIA. In questo senso la legge
241/90 secondo cui “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da
criteri di economicità, di efficacia e di pubblicità”;
d) il principio del CONCORSO PUBBLICO per l’accesso al rapporto di lavoro con le PA (art.97.3);
e) il DOVERE DI FEDELTA’, che è sancito per tutti i cittadini, e che si specifica nel dovere di adempiere
le pubbliche funzioni con disciplina e onore, prestando giuramento quando richiesto. La stessa
Costituzione attribuisce alla legge la competenza ad introdurre limiti al diritto di iscrizione ai partiti
politici per i magistrati, militari di carriera, funzionari e agenti di Polizia e i diplomatici all’estero (art.
98.3);
f) il principio della SEPARAZIONE TRA POLITICA E AMMINISTRAZIONE. La Costituzione non formula il
suddetto principio, ma afferma che “nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di
competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari” (art. 97.2);
g) la RESPONSABILITA’ PERSONALE DEI DIPENDENTI PUBBLICI, che esclude ogni forma di immunità
per gli atti da essi compiuti in violazione dei diritti (art. 28);
h) dopo la riforma del Titolo V, l’amministrazione pubblica deve essere una AMMINISTRAZiONE
LOCALE. L’art. 118 della Costituzione stabilisce che le funzioni amministrative sono attribuite ai
Comuni;
7.4.
I principi sul procedimento amministrativo
L’attività delle pubbliche amministrazioni prima di adottare il provvedimento amministrativo, vede la
confluenza di svariati altri atti preparatori del provvedimento finale. Quindi esistono svariati atti
amministrativo-strumentali rispetto all’adozione del provvedimento finale. In questo si dice che siamo in
presenza di un PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO. Quest’ultimo può essere definito come una sequenza di
atti preordinati all’adozione del provvedimento finale.
Il procedimento amministrativo si articola quindi nelle seguenti fasi:
1) la fase dell’iniziativa, aperta con l’istanza del soggetto interessato ad ottenere il provvedimento
finale, oppure dell’iniziativa della stessa amministrazione (quindi d’ufficio);
2) la fase istruttoria, in cui si accertano gli elementi di fatto e di diritto su cui si dovrà basare la
decisione dell’amministrazione. In questa fase vengono raccolti i pareri di altre amministrazionl
interessate all’oggetto dell’istanza, detti NULLA OSTA;
3) la fase costitutiva, in cui si adotta il provvedimento vero e proprio;
4) la fase integrativa dell’efficacia, che si ha quando il provvedimento per diventare produttivo di effetti
giuridici deve essere seguito da qualche adempimento ulteriore. In tal caso il provvedimento è
perfetto alla sua adozione, ed efficace dopo il compimento degli adempimenti di legge (ex.
pubblicazione);
In italia, dopo un lungo dibattito, è stata approvata una LEGGE GENERALE SUL PROCEDIMENTO
AMMINISTRATIVO (legge 241/90). Tale legge stabilisce che l’attività amministrativa deve conformarsi ai
seguenti principi:
a) l’amministrazione persegue i fini stabiliti dalla legge (principio di legalità) ed opera sulla base di
criteri di economicità, di efficiacia, e di pubblicità. Alla luce di tali esigenze, è stato introdotto il
divieto per l’amministrazione di chiedere al privato adempimenti o introdurre incombenze che non
siano strettamente imposte da esigenze istruttorie;
b) il procedimento deve necessariamente concludersi entro tempi certi. Qualora l’amministrazione non
ne determina la tempistica, essa è di 30 giorni;
c) ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato, con l’eccezione degli atti normativi e di
quelli di contenuto generale. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni
giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze
dell’istruttoria;
d) l’amministrazione ha il dovere di provvedere e il procedimento deve comunque terminare con un
provvedimento espresso;
e) ogni procedimento deve avere un funzionario responsabile;
f) la partecipazione dei soggetti privati interessati al procedimento che si realizza attraverso vari
istituti. La partecipazione al provvedimento si realizza attraverso la presentazione di memorie scritte
o documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare prima di adottare il provvedimento;
g) la semplificazione amministrativa che comporta la ricerca della massima snellezza operativa, della
conclusione in tempi certi e rapidi, della riduzione degli oneri imposti ai privati. Tra le previsioni di
legge dirette a realizzare la semplificazione si possono citare: 1) il silenzio-assenso e 2) la denuncia
di inizio attività da parte di un privato qualora sussistano i presupposti a norma di legge;
La legge sul procedimento amministrativo ha anche previsto un’ampia garanzia del DIRITTO DI ACCESSO ai
documenti amministrativi. Questo diritto viene riconosciuto a chiunque vi abbia interesse per la tutela di
situazioni giuridicamente rilevanti. Il diritto di accesso è escluso per i documenti coperti da segreto di Stato o
istruttorio, a tutela degli interessi dello Stato e della riservatezza di terzi.
7.5.
I contratti della PA
Le pubbliche amministrazioni per il raggiungimento dei loro fini possono servirsi degli strumenti offerti dal
diritto privato, ed in particolare dei contratti. Alla persona giuridica è riconosciuta la stessa capacità dei
soggetti privati.
I contratti della PA si possono distinguere in CONTRATTI ATTIVI E PASSIVI: con i primi acquisisce delle
entrate, mentre i secondi comportano delle spese.
Tra i contratti della PA rivestono notevole importanza quelli di APPALTO PUBBLICO, che sono contratti
conclusi dall’amministrazione con un privato, che quindi opera con una propria organizzazione e con gestione
delle attività richiesta a proprio rischio in cambio di un corrispettivo pattuito. L’oggetto del contratto può
essere la realizzazione di un opera, la fornitura di beni o la prestazione di servizi. Nel primo caso si parla di
appalto di opere, nel secondo di beni e nel terzo di servizi.
L’attività contrattuale della PA è sottoposta a regole speciali, soprattutto nella scelta del contraente privato.
Le procedure di scelta sono state strutturate ai fini di garantire pubblicità e concorrenza e vengono definiti
PROCEDIMENTI AD EVIDENZA PUBBLICA.
7.5.
I servizi pubblici
L’attività amministrativa diversa da quella che utilizza gli strumenti del diritto privato, si distingue in
FUNZIONE PUBBLICA e SERVIZIO PUBBLICO. La prima si caratterizza per i poteri autoritativi, esercitati
unilateralmente con conseguenze giuridiche al destinatario a prescindere dal suo consenso; la seconda si
svolge senza l’uso dei poteri autoritativi, anche se è l’adempimento di un obbligo di legge a tutela di interessi
generali.
Un regime particolare è previsto per i SERVIZI PUBBLICI LOCALI per cui la riforma del 2001 attribuisce la
competenza della materia, già normata da leggi dello Stato, alle Regioni.
8.
Fonti del diritto: nozioni generali
8.1.
Fonti di produzione
8.1.1.
Definizioni
Nel linguaggio giuridico la parola fonte indica gli strumenti di produzione del diritto. La definizione
tradizionale è: “l’atto o il fatto abilitato dall’ordinamento giuridico a produrre norme giuridiche, cioè a
innovare l’ordinamento giuridico stesso”.
È una definizione ricorsiva, ovvero circolare: è l’ordinamento giuridico a indicare i modi in cui si forma e si
rinnova l’ordinamento giuridico.
8.1.2.
Norme di riconoscimento
Gli ordinamenti moderni si istituiscono attraverso un processo costituente.
Ciò significa che è la stessa costituzione a indicare gli atti che possono produrre il diritto attraverso una
struttura gerarchica, la quale indica le FONTI PRIMARIE, ovvero il livello appena inferiore alla fonte
costituzionale, che a loro volta regolano le FONTI SECONDARIE, ovvero il livello gerarchicamente successivo
dall’alto verso il basso.
Le norme di un ordinamento giuridico che indicano le fonti abilitate a innovare l’ordinamento stesso si
chiamano usualmente NORME DI RICONOSCIMENTO.
8.2.
Fonti di cognizione: pubblicazione e ricerca
8.2.1.
Definizioni
Le FONTI DI COGNIZIONE del diritto non sono altro che gli strumenti attraverso cui si viene a conoscere le
fonti di produzione.
In italia vi sono fonti di cognizione ufficiali (GAZZETTA UFFICIALE G.U.) oppure private.
Altre fonti ufficiali sono i Bollettini ufficiali delle Regioni (B.U.R.) e la Gazzetta ufficiale della Comunità
europea (GUCE).
8.2.2.
Pubblicazione ufficiale e entrata in vigore
Il testo che viene pubblicato sulle fonti ufficiali ha molta importanza, perché quel testo ENTRA IN VIGORE.
Infatti tutti gli atti normativi devono essere pubblicati su una fonte ufficiale perché i cittadini e gli organi
preposti all’applicazione del diritto lo possano conoscere.
Trascorsi 15 giorni dalla data di pubblicazione (questo periodo viene detto VACATIO LEGIS) in cui gli effetti
della legge sono sospesi, l’atto diviene pienamente obbligatorio e vige la presunzione di conoscenza della
legge (“IGNORANTIA LEGIS NON EXCUSAT”) e l’obbligo del giudice di applicarla senza bisogno che siano le
parti a provarne l’esistenza (“IURA NOVIT CURIA”).
8.3.
Fonti-atto e fonti-fatto
8.3.1.
Definizioni
Le fonti di produzione si distinguono in due categorie: le FONTI-ATTO (o ATTI NORMATIVI) o le FONTIFATTO (o FATTI NORMATIVI).
Le fonti-atto sono parte degli ATTI GIURDICI, quindi comportamenti consapevoli e volontari che danno
luogo a effetti giuridici. Gli atti normativi, rispetto all’insieme più ampio degli atti giuridici, hanno due
caratteristiche specifiche:
a) quanto agli effetti giuridici, gli atti normativi hanno la capacità di porre norme vincolanti per tutti;
b) quanto ai comportamenti, questi devono essere imputabili a soggetti cui lo stesso ordinamento
riconosce il potere di porre in essere tali atti. Quindi l’agire volontario di un organo a ciò abilitato
dall’ordinamento seconda la norma di riconoscimento;
Quindi la definizione tradizionale può essere letta anche così: la fonte-atto (atto normativo) è l’espressione di
volontà normativa di un soggetto cui l’ordinamento attribuisce l’idoneità di porre in essere norme giuridiche.
Le fonti-fatto sono invece una categoria residuale e sono le altre fonti che l’ordinamento riconosce perché
esistenti. Appartengono alla categoria dei FATTI GIURDICI che producono conseguenze per l’ordinamento.
Quindi dagli atti normativi discendono norme vincolanti per tutti, dai fatti giuridici non necessariamente,
poiché le fonti-fatto creano conseguenze giuridiche solo per il soggetto del fatto, ovvero per l’evento
determinatosi.
8.3.2.
Tipicità degli atti normativi
Perché la volontà normativa sia vincolante deve essere riconoscibile, deve manifestare da quale fonte di
riconoscimento deriva la sua potestà normativa. La tipica forma dell’atto è data da una serie di elementi
quali l’intestazione dell’autorità emanante (ex. Decreto ministeriale), il nome proprio dell’atto (nomen juris,
ex. Decreto-legge) e il procedimento per la formazione dello stesso, ovvero la sequenza ordinata di atti fino
al risultato finale.
Dal punto di vista redazionale l’atto è suddiviso in ARTICOLI, e questi a loro volta in COMMI. Gli articoli,
spesso corredati da una RUBRICA che ne indica l’argomento, possono essere raggruppati in CAPI, e questi a
loro volta in TITOLI e PARTI.
8.3.3.
Le consuetudini
Una volta si poteva dire che la fonte-fatto per eccellenza fosse la CONSUETUDINE. Oggi la consuetudine è
quasi scomparsa, in ordinamenti che si ispirano alla codificazione. Vi sono ancora alcuni richiami, per
esempio nel codice civile relativamente agli usi contrattuali, ma comunque di scarsa rilevanza data la
difficoltà oggettiva di determinare l’esistenza degli usi.
Le c.d. CONSUETUDINE INTERPRETATIVE invece sono altra cosa rispetto alla consuetudine. Infatti non sono
comportamenti sociali ma costanti interpretazioni delle disposizioni di legge da parte degli interpreti. Non
sono pertanto fonti di diritto, ma di interpretazione del diritto.
Nel diritto costituzionale molti autori accennano alle consuetudini, ma anche qui si rischia di fare una grande
confusione. Perlopiù si tratterebbe di CONSUETUDINI “FACOLTIZZANTI”: sono quelle che consentono
comportamenti che le disposizioni scritte non vietano esplicitamente.
La Costituzione all’art. 10.1 (dove stabilisce che “l’ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute”) fa riferimento alle CONSUETUDINI INTERNAZIONALI.
Fonti-fatto, oltre alla consuetudine, sono per il nostro ordinamento tutte quelle che producono norme
richiamate dal nostro ordinamento stesso ma non prodotte dai nostri organi. Le norme comunitarie sono da
considerarsi, per esempio, fonti-fatto per il nostro ordinamento, fonti-atto per l’ordinamento comunitario.
Considerazioni similari valgono per le NORME DI DIRITTO INTERNAZIONALE PRIVATO.
8.4.
Tecniche di rinvio ad altri ordinamenti
8.4.1.
Il rinvio ad altri ordinamenti
Il PRINCIPIO DI ESCLUSIVITA’, che è espressione della sovranità dello Stato, attribuisce a questo il potere
esclusivo di riconoscere le proprie fonti, e quindi di indicare i fatti e gli atti che producono l’ordinamento. Le
norme di ordinamenti di Stati diversi, possono valere all’interno dell’ordinamento dello Stato soltanto se le
disposizioni di questo lo consentono.
Per consentire alle norme prodotte da fonti di altri ordinamenti si opera attraverso la tecnica del RINVIO. Si
distinguono due tecniche di rinvio, “fisso” e “mobile”.
8.4.2.
Il rinvio “fisso”
Il RINVIO FISSO (detto anche RINVIO MATERIALE o RECETTIZIO) è il meccanismo con cui una disposizione
dell’ordinamento statale richiama un determinato atto in vigore in altro ordinamento. Eventuali variazioni
all’atto cui si rinvia non produrranno effetti nell’ordinamento sino a un nuovo recepimento.
8.4.3.
Il rinvio “mobile”
Il RINVIO MOBILE (detto anche RINVIO FORMALE o NON-RECETTIZIO) è il meccanismo con cui una
disposizione dell’ordinamento statale richiama non uno specifico atto di un altro ordinamento ma una fonte
di esso.
8.5.
La funzione dell’interpretazione
L’atto normativo è un documento scritto, dotato di determinate caratteristiche formali. Come tutti i testi
scritti, l’atto normativo è articolato in ENUNCIATI, che rappresentano l’unità linguistica minima portatrice di
un significato completo. Tramite gli enunciati si esprime la volontà normativa del legislatore. Per la loro
caratteristica imperativa, gli enunciati degli atti normativi si chiamano DISPOSIZIONI.
Due cose distinte sono l’INTERPRETAZIONE e l’APPLICAZIONE del diritto. Si dice che usualmente
l’applicazione del diritto consiste nell’applicazione di una norma generale e astratta a un caso particolare e
concreto secondo lo schema del SILLOGISMO, che in questo caso si dice GIUDIZIALE.
La NORMA però è il frutto dell’interpretazione delle disposizioni.
8.6.
Le antinomie e tecniche di risoluzione
ANTINOMIE si chiamano i contrasti tra norme. E’ il compito dell’interprete risolvere le antinomie,
individuando la norma applicabile al caso. Talvolta, con un’interpretazione sistematica, è possibile risolvere le
antinomie, cioè attribuendo alle disposizioni in gioco un significato che le renda compatibili.
Qualora un’interpretazione sistematica non risolve le antinomie di taluni provvedimenti, quattro sono i criteri
stabiliti dall’ordinamento per la risoluzione delle contraddizioni: il criterio cronologico, il criterio gerarchico, il
criterio di specialità e quello della competenza.
8.6.
Il criterio cronologico e l’abrogazione
8.6.1.
Definizioni
Il CRITERIO CRONOLOGICO dice che in caso di contrasto tra 2 norme si deve preferire quella più recente
(LEX POSTERIOR DEROGAT PRIORI).
La prevalenza della nuova norma sulla vecchia si esprime attraverso l’ABROGAZIONE che sancisce il termine
dell’EFFICACIA della norma posteriore.
L’efficacia è una figura generale del diritto e consiste nell’idoneità di un fatto, un atto o un negozio giuridico
a produrre effetti giuridici.
8.6.2.
Efficacia delle norme e principio di irretroattività delle leggi
L’efficacia di una norma è la sua applicabilità come regola dei rapporti giuridici. La norma diventa efficace
quando la disposizione entra in vigore. Vige il PRINCIPIO DI IRRETROATTIVITA’ per gli atti normativi, come
disposto nelle Preleggi, ma non a livello costituzionale, dove è previsto solo per le norme penali
incriminatrici.
8.6.3.
Effetti temporali dell’abrogazione
Il principio di irretroattività vale anche per l’abrogazione. Se questa è effetto prodotto dal nuovo atto sulle
norme precedenti, opera in mancanza di disposizioni contrarie solo per il futuro. La norma abrogata quindi
sarà la norma che il giudice dovrà applicare per i vecchi rapporti intercorsi fino all’entrata in vigore della
nuova normativa. Si dice che l’abrogazione opera EX NUNC (da ora).
8.6.4.
Tipi di abrogazione
L’art. 15 delle Preleggi elenca tre ipotesi di abrogazione:
a) per dichiarazione espressa dal legislatore (ABROGAZIONE ESPRESSA);
b) per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti (ABROGAZIONE IMPLICITA);
c) perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore (ABROGAZIONE
TACITA);
L’abrogazione espressa è il contenuto tipico di una disposizione e possiede una valenza ERGA OMNES.
L’abrogazione implicita non è disposta dal legislatore ma dall’interprete (ex. un giudice) che risolve
l’antinomia. Ma l’interprete non può eliminare la disposizione anteriore, perché è una fonte-atto.
Quindi l’abrogazione implicita è temporalmente identica a quella espressa, ma non spazialmente, poiché se
le disposizione del legislatore valgono erga omnes, le interpretazioni valgono nel singolo giudizio (INTER
PARTES).
L’abrogazione tacita è in tutto simile negli effetti all’abrogazione implicita e si differenzia soltanto
nell’argomentazione che non riguarda il singolo enunciato ma il dispositivo nel complesso.
8.6.5.
Abrogazione, deroga e sospensione
Diversa dall’abrogazione è la DEROGA. La deroga nasce da un contrasto tra norme di tipo diverso, nel senso
che la norma derogata è una norma generale, mentre la norma derogante è una norma particolare: è
semplicemente un’eccezione alla regola. La norma derogata non perde efficacia (come nel caso di un
abrogazione) ma viene limitato il suo campo di applicazione.
Simile alla deroga è la SOSPENSIONE dell’applicazione di una norma.
8.7.
Il criterio gerarchico e l’annullamento
8.7.1.
Definizioni
Il CRITERIO GERARCHICO dice che in caso di contrasto tra due norme si deve preferire quella che nella
GERARCHIA DELLE FONTI occupa il posto più elevato (LEX SUPERIOR DEROGAT LEGI INFERIORI). La
Costituzione (art. 134) disegna implicitamente una gerarchia dove la Costituzione prevale sulla legge e
analogamente le Preleggi disegnano una gerarchia dove la legge prevale sul regolamento e questo sulle
consuetudini.
La prevalenza della norma superiore su quella inferiore si esprime attraverso l’ANNULLAMENTO.
L’annullamento è l’effetto di una DICHIARAZIONE DI ILLEGITTIMITA’ che un giudice pronuncia nei confronti
di un atto che quindi perde VALIDITA’. La validità è una figura generale del diritto e consiste nella
conformità alle norme che lo disciplinano, un caso ristretto della LEGITTIMITA’.
I vizi possono essere di due tipi: FORMALI o SOSTANZIALI. I vizi formali riguardano la competenza
dell’organo che lo ha emanato e il procedimento seguito e quindi riguardano l’atto nel suo complesso. I
secondi riguardano i contenuti normativi di una disposizione, cioè le norme che producono antinomie con
altre disposizioni.
Il criterio cronologico opera sulla fisiologia dell’ordinamento (crescita) mente il criterio gerarchico opera sulla
patologia dell’ordinamento, appunto i vizi.
8.7.2.
Effetti dell’annullamento
In linea generale quando un giudice dichiara l’illegittimità di un atto normativo, questa dichiarazione ha
effetti generali (erga omnes). Al contrario dell’abrogazione, l’annullamento opera anche per il passato (EX
TUNC) solo per quei RAPPORTI ancora PENDENTI (o aperti). I RAPPORTI ESAURITI (chiusi) non possono più
essere dedotti davanti a un giudice. I rapporti possono chiudersi per PRESCRIZIONE, DECADENZA del diritto,
per volontà cioè ACQUIESCENZA oppure in GIUDICATO.
8.8.
Il criterio della specialità
8.8.1.
Definizioni
Il CRITERIO DELLA SPECIALITA’ dice che in caso di contrasto tra due norme si deve preferire la norma
speciale a quella generale, anche se questa è successiva (LEX SPECIALIS DEROGAT LEGI GENERALI; LEX
POSTERIOR GENERALIS NON DEROGAT LEGI PRIORI SPECIALI)
La preferenza per la norma speciale non si esprime né con riferimento all’efficacia della norma (come per
l’abrogazione), né con riferimento alla sua validità (come per l’annullamento). Le norme in conflitto
rimangono entrambe efficaci e valide e l’interprete opera solamente una scelta di quale norma applicare;
l’altra norma semplicemente non è applicata. La deroga è quindi l’effetto tipico della prevalenza della norma
speciale su quella generale.
8.8.2.
Rapporti tra il criterio di specialità e gli altri
La deroga è però solo uno dei possibili esiti di un conflitti tra norma generale e norma speciale. Ecco il
quadro delle relazioni che riassume le cose già dette in precedenza:
a) se la norma generale è successiva, e la norma generale e la norma particolare hanno parità
gerarchica: è preferita la norma speciale (DEROGA);
b) se la norma generale è successiva, e la norma generale è superiore alla norma speciale: è preferita
la norma generale superiore (ILLEGITTIMITA’);
c) se la norma generale è successiva, e la norma generale è inferiore alla norma speciale: è preferita la
norma speciale superiore (ILLEGITTIMITA’);
d) se la norma speciale è successiva, e la norma generale e la norma particolare hanno parità
gerarchica: è preferita la norma speciale (DEROGA);
e) se la norma speciale è successiva, e la norma generale è superiore alla norma speciale: è preferita la
norma generale superiore (ILLEGITTIMITA’);
f) se la norma speciale è successiva e la norma generale è inferiore alla norma speciale: è preferita la
norma speciale superiore (ILLEGITTIMITA’);
8.8.3.
Regola e eccezione: problemi di interpretazione
Il criterio di specialità opera esclusivamente tra norme, e appartenendo alle tecniche dell’interpretazione
opera inter partes. L’eccezione e quindi la deroga può essere disciplinata dalla stessa disposizione che pone
la regola, ma in questi casi non si parlerebbe di applicazione del criterio della specialità ma di tecnica di
redazione legislativa con validità erga omnes.
Le eccezioni siano esse espresse o interpretate non possono essere lette in senso estensivo. Quindi se la
norma speciale va preferita alla norma generale, questa preferenza vale solo nei casi espressamente indicati
dalla norma speciale senza l’estensione a casi analoghi.
8.9.
Il criterio della competenza
8.9.1.
Definizioni
Il CRITERIO DI COMPETENZA non si presta a una definizione stringente in forma di regola per l’interprete,
questo perché esso non è un criterio prescrittivo ma esplicativo: serve cioè a spiegare come è organizzato
attualmente il sistema delle fonti.
Il problema dell’individuazione delle competenze nasce dal sistema costituzionale italiano, basato su di una
costituzione rigida che ha previsto vi siano più fonti di diritto non necessariamente organizzate in scala
gerarchica. La gerarchia delle fonti quindi non basta più a darci il quadro esatto del sistema, perché vi sono
suddivisioni non spiegabili in termini di “forza” ma di competenza.
8.9.2.
Effetti dell’applicazione
Se dovessimo utilizzare il criterio di competenza, non come schema esplicativo, ma come regola con cui
risolvere i conflitti tra norme, dovremmo dire che prescrive di dare preferenza alla norma competente.
Benché il criterio di competenza, in quanto prescrizione diretta all’interprete, non sembri dunque avere una
propria consistenza, autonoma dagli altri criteri, esso è tuttavia assunto dalla Corte Costituzionale come
criterio che deve guidare i giudici in alcune situazioni, come nei rapporti tra atti statali e regionali o contrasti
con le normative europee.
8.10.
Riserve di legge e principio di legalità
8.10.1.
Definizioni
La RISERVA DI LEGGE è lo strumento con cui la Costituzione regola il concorso delle fonti nella disciplina di
una determinata materia: perciò è una regola circa l’esercizio della funzione legislativa. E’ dunque evidente
che la riserva di legge acquista un significato preciso soltanto dove vi sia una Costituzione rigida perché solo
in questo caso i limiti posti dalla Costituzione alla funzione legislativa possono imporsi al legislatore.
Diverso significato ha il PRINCIPIO DI LEGALITA’. Esso affonda le sue radici nello Stato di diritto, della cui
definizione è un elemento integrante. Il principio di legalità prescrive che qualsiasi potere pubblico si fonda
su una previa norma attributiva della competenza: la sua ratio è di assicurare un uso regolato, non
arbitrario, controllabile e giustiziabile del potere.
La riserva di legge si presenta come l’espressione dell’estensione della legalità alla stessa attività legislativa.
8.10.2.
Tipologie
Il meccanismo della riserva opera in modi diversi:
a) le RISERVE A FAVORE DI ATTI DIVERSI DALLA LEGGE sono rare e si tratta di:
• riserve a favore della legge costituzionale. L’art. 138 introduce un particolare procedimento per
la revisione costituzionale. Alle leggi formate con questo procedimento è riservata la disciplina di
alcune materie, tra cui l’approvazione degli Statuti regionali;
• riserve a favore dei regolamenti parlamentari;
b) la RISERVA DI LEGGE FORMALE ORDINARIA impone che sulla materia intervenga il solo atto
legislativo prodotto attraverso il procedimento parlamentare con l’esclusione quindi degli altri atti
equiparati alla legge formale stessa. La ratio di questa riserva è quella di riservare all’approvazione
parlamentare quelle leggi che rappresentano strumenti tramite i quali il Parlamento può controllare il
Governo. Ad esempio tutti gli atti con forza di legge approvati dal Governo devono essere
confermati, o prima o dopo, dal Parlamento;
c) le riserve di legge in senso stretto prescrivono la materia da esse considerata sia disciplinata dalla
legge ordinaria e dalle fonti equiparate, escludendo o limitando l’intervento di atti di livello
gerarchico inferiore alla legge, cioè dei regolamenti amministrativi. A seconda dei rapporti tra legge
e regolamento i distinguono due tipi di riserve di legge:
• la RISERVA ASSOLUTA esclude qualsiasi intervento di fonti sub-legislative dalla disciplina della
materia, che, pertanto, dovrà essere integralmente regolata dalla legge formale ordinaria o da
atti ad essa equiparata. Ad esempio l’art. 13.2 prevede l’arresto “nei soli casi previsti dalla legge”
(riserva di legge assoluta) e poi aggiunge “per atto motivato dell’autorità giudiziaria” (RISERVA
DI GIURISDIZIONE);
• la RISERVA RELATIVA non esclude che alla disciplina della materia concorra anche il
regolamento amministrativo, ma richiede che la legge disciplini preventivamente almeno i
principi a cui il regolamento deve attenersi. Ad esempio l’art. 97.1 dispone che “i pubblici uffici
sono organizzati secondo disposizioni di legge”, quindi impone due vincoli: il primo al legislatore
che deve normare l’attività degli uffici pubblici, il secondo al Governo che deve utilizzare gli uffici
pubblici come disposto dal legislatore;
d) le RISERVE RINFORZATE sono un meccanismo con cui la Costituzione non si limita a riservare la
disciplina di una materia alla legge, ma pone ulteriori vincoli al legislatore. Si possono distinguere:
1) le riserve rinforzate per contenuto si hanno in quei casi in cui la Costituzione prevede che una
determinata regolamentazione possa essere fatta dalla legge ordinaria soltanto con contenuti
particolari:
l’art. 14.3 consente al legislatore di dettare regole speciali, meno rigide, per le perquisizioni
domiciliari ma soltanto per motivi di sanità o incolumità pubblica oppure ai fini economici e
fiscali;
• l’art. 16.1 consente al legislatore di limitare la libertà di circolazione ma solo con regole che
dispongano “in generale per motivi di sanità o di sicurezza”;
• l’art. 43 consente allo Stato “a fini di utilità generale” di nazionalizzare le imprese solo
individuando “determinate imprese o categorie di imprese”;
2) le riserve rinforzate per procedimento prevedono invece che la disciplina di una determinata
materia debba seguire un procedimento aggravato rispetto al normale procedimento legislativo:
• l’art. 7 prevede che i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica possano essere modificati previo
accordo tra entrambe le parti;
• l’art. 8 prevede una situazione simile per le intese che il Governo può raggiungere con i
rappresentanti dei culti “acattolici”;
• il nuovo art. 116.3 prevede che con legge formale a maggioranza assoluta, sulla base di
intesa fra lo Stato e la Regione interessata e iniziativa della stessa, sentiti gli enti locali si
possano riconoscere a determinate regioni “forma e condizioni particolari di autonomia”
riguardanti alcune specifiche materie;
•
9.
La Costituzione
9.1.
Significati di Costituzione
Negli ordinamenti giuridici moderni la fonte posta al vertice della gerarchia delle fonti è la costituzione. Il
termine COSTITUZIONE è però impiegato nel linguaggio dei giuristi con significati notevolmente diversi:
a) in un primo uso, costituzione indica gli elementi che caratterizzano un determinato sistema politico,
come è fatto e funziona. Una funzione quindi descrittiva. Assumendo questo punto di vista ogni
società ha una costituzione;
b) oppure costituzione indica un manifesto politico. La Costituzione così intesa non è un dato ma è un
documento, il documento fondamentale che segna il trionfo di un ideale e sancisce la vittoria di una
visione politica. Proiettato al futuro, programmi e speranze;
c) la Costituzione è anche un testo normativo, una fonte del diritto;
Allora questo termine è usato in senso descrittivo dai sociologi e dai politologi, come manifesto politico dagli
storici e dai filosofi mentre i giuristi lo utilizzano nella sua accezione di testo normativo. Ma per conoscere un
testo bisogna prima interpretarlo e valutare in che misura è oggettivante, oggi, e in quale misura è
espressione di una specifica interpretazione voluta dai costituenti, ieri.
9.2.
Potere costituente e poteri costituiti
Se tutti i sistemi politici hanno una costituzione in senso descrittivo, non tutti hanno un testo normativo
chiamato Costituzione. Il documento costituzionale è una conquista relativamente recente spinta dal
movimento costituzionalista voluta coma manifesto politico tradotto in testo normativo con regole giuridiche.
Per il giurista positivista, che si occupa del diritto costituito, la fase storica preliminare alla posizione del
diritto importa relativamente. L’emanazione della Costituzione segna il passaggio tra due fasi storiche e tra
due situazioni giuridiche differenti. Con la Costituzione si esaurisce il potere costituente ed inizia il potere
costituito. Nel linguaggio giuridico il POTERE COSTITUENTE è definito un potere libero.
Non meno importante è il riconoscimento esterno che si esprime attraverso la pratica del RICONOSCIMENTO
INTERNAZONALE. Per il diritto internazionale l’affermarsi e la legittimazione di uno Stato è un fenomeno non
spiegabile in termini di diritto: lo Stato si legittima da sé.
Riflettendo sulle condizioni storiche che hanno determinato le costituzioni moderne che si può cogliere il
significato di ripartizione tra costituzioni flessibili e rigide.
9.3.
Costituzioni flessibili e rigide
9.3.1.
Definizioni
La distinzione tra COSTITUZIONI FLESSIBLI e COSTITUZIONI RIGIDE è generalmente spiegata così: sono
flessibili le costituzioni che non prevedono un procedimento particolare per la loro modificazione, ma
consentono che questa avvenga attraverso la normale attività legislativa, rigide quelle che dispongono per la
modificazione del testo un particolare procedimento.
Per le prime non esiste una forma di controllo costituzionale delle leggi, poiché se la legge dispone
diversamente dalla Costituzione è quest’ultima a modificarsi. Per le seconde invece è prevalente la
Costituzione.
Le Costituzioni flessibili sono tipiche del ‘800, rigide del ‘900.
9.3.2.
Nozione di Costituzione flessibile
Il senso delle Costituzione dell’800 era quello di sancire il passaggio dalla titolarità assoluta del potere del Re
a una procedura di codecisione con il Parlamento. Sostanzialmente sancivano le modalità del procedimento
legislativo, il quale poteva poi portare nel merito anche a negare le libertà fondamentali. Esse erano
manifesti politici e per lo più atti non normativi.
Come si vede la nozione di Costituzione flessibile ha qualche margine di ambiguità. E’ flessibile nella parte in
cui non pretende di essere una regola giuridica, o almeno una regola capace di imporsi sulle leggi; ma è più
che rigida nella parte in cui attribuisce la sovranità alla legge e al suo procedimento di formazione. Per
questo le costituzioni flessibili sono abbastanza brevi: le dichiarazioni di inviolabilità dei diritti si configurano
come enunciazione di un manifesto senza che posseggano forza regolativa se non quella di vietare quanto
vietato dalla legge.
9.3.3.
Nozione di Costituzione rigida
Le Costituzioni rigide pretendono che tutte le loro disposizioni abbiano forza regolativa e siano trattate come
regole inderogabili. La rigidità è una caratteristica fissa delle costituzione del ‘900, ma la prima Costituzione
moderna è quella degli Stati Uniti -rigida- del 1787.
Quello che la costituzione rigida vuole garantire è che la parte che ottiene la maggioranza (sia essa una
componente politica, sociale, religiosa o territoriale) non si impossessi definitivamente e non minacci
l’esistenza delle minoranze. Quindi ogni Costituzione rigida è frutto di un compromesso, che è
necessariamente lunga perché ogni componente accetta l’accordo a condizione che i suoi interessi siano
tutelati dal testo costituzionale, che è necessariamente a sua volta garantito da un giudice cui è attribuita la
facoltà di assicurare il rispetto del compromesso. Le garanzie sono di due tipi: il procedimento di revisione
costituzionale e il controllo di legittimità delle leggi.
9.4.
La Costituzione italiana
9.4.1.
Genesi
La Costituzione italiana repubblicana entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Essa fu approvata dall’Assemblea
costituente, eletta contemporaneamente al referendum istituzionale.
Il fatto che il testo finale della Costituzione sia stato approvato con quasi il 90% dei voti di un’assemblea
politicamente divisa spiega alcune caratteristiche della stessa. E’ una Costituzione lunga perché frutto di un
ampio compromesso, una somma di istanze. E’ una Costituzione aperta poiché non individua il punto di
equilibrio tra i diversi interessi.
9.4.2.
Contenuti
La Costituzione italiana del 1948 si compone di parti diverse. Inizia con i Principi fondamentali: 12 articoli
che elencano principi anche in contrapposizione tra loro.
Che la repubblica si fondi sul lavoro (art. 1) e il medesimo sia un diritto fondamentale (art. 4) sono
affermazioni di carattere essenzialmente politico, che ispirano l’ordinamento giuridico ma che non possono
avere piena attuazione se non tramite una legislazione ordinaria che individui gli strumenti per operare in tal
senso. Così il riconoscimento delle autonomie locali (art. 5), la tutela delle minoranze (art. 6) e la
valorizzazione del patrimonio, nel senso lato, della nazione (art. 9) sono compiti assegnati al legislatore e
non al giudice che non ha mezzi per assolverle.
Quindi il giudice non può promuovere iniziative volte alla realizzazione dei principi ma può impugnare le leggi
che non si muovono nella direzione descritta nel testo. Una funzione negativa, di limite, è quindi attribuita a
tutte le affermazioni di principi, o NORME PROGRAMMATICHE.
L’avvento della Corte Costituzionale ha fatto perdere di significato la distinzione tra NORME PRECETTIVE e
NORME PROGRAMMATICHE.
Una seconda parte della Costituzione (Parte prima – Diriti e doveri dei cittadini) pone le garanzie delle libertà
individuali (Titolo I – Rapporti civili), dei diritti sociali (Titolo II – Rapporti etico-sociali) e delle libertà
economiche (Titolo III – Rapporti economici), nonché i modi in cui il popolo esercita la sovranità (Titolo IV –
Rapporti politici).
Segue poi una parte (Parte II – Ordinamento della Repubblica) dedicata alla organizzazione costituzionale
dello Stato, alla disciplina della PA (Titolo III, sezione II) e della magistratura (Titolo IV), delle Regioni e
delle autonomie locali (Titolo V) e delle garanzie costituzionali (Titolo VI).
10.
Le fonti dell’ordinamento italiano: Stato
10.1.
Costituzione e leggi costituzionali
10.1.1.
Definizioni
La Costituzione della Repubblica italiana del 1948 rappresenta il vertice della gerarchia delle fonti
dell’ordinamento. Essa è quindi il fondamento validità delle fonti primarie di cui detta la disciplina. Stabilisce
il procedimento per essere modificata, detto di REVISIONE COSTITUZIONALE.
10.1.2.
Leggi costituzionali: procedimento
La Costituzione italiana predispone un procedimento di formazione della LEGGE COSTITUZIONALE che si
concretizza così come disposto dall’art. 138 tramite due deliberazioni successive da parte di ciascuna
Camera, quindi 4 deliberazioni in tutto sul medesimo testo. La prima deliberazione è a maggioranza relativa.
In questa fase le Camere possono approvare qualsiasi emendamento e il progetto è destinato a fare la spola
tra Camera e Senato (NAVETTE) fino a quando il medesimo testo non sarà approvato da entrambe le
camere. Nella seconda votazione non è possibile approvare emendamenti al testo votato in precedenza.
Nella seconda approvazione si aprono due strade distinte: se il consenso raggiunge i 2/3 la revisione è
approvata e promulgata, se il consenso si limita alla maggioranza assoluta la revisione viene pubblicizzata e
sottoposta a referendum confermativo. Il referendum può essere chiesto da 500.000 elettori o da 1/5 dei
membri di una Camera o da 5 Consigli Regionali. Nel referendum costituzionale non è richiesto alcun
quorum.
Il doppio binario della revisione costituzionale è finalizzato a rendere possibile una modifica del testo con un
consenso simile a quella costituente senza dare alle minoranze un potere di veto troppo forte.
10.1.3.
I limiti della revisione costituzionale
Non tutta la Costituzione è revisionabile. Vi è un limite esplicito posto dall’art. 139: “la forma repubblicana
non può essere oggetto di revisione costituzionale”.
Valutando la condizioni storiche di approvazione della Costituzione si dovrebbe ritenere questo limite legato
alla sola forma dello Stato, quindi il carattere elettivo del Capo dello Stato. Invece è prevalsa
un’interpretazione estensiva tale da comprendere anche il carattere democratico, i diritti inviolabili e l’unità
dello Stato. La Corte costituzionale ha avallato questa tesi.
10.2.
Legge formale ordinaria e atti con forza di legge
10.2.1.
Definizioni
La LEGGE FORMALE è l’atto normativo prodotto dalla deliberazione delle Camere e promulgato dal PdR. E’
stata, soprattutto in passato, la fonte del diritto per eccellenza. Attraverso questo procedimento sono
formate sia le leggi ordinarie che le leggi costituzionali. Il processo di revisione costituzionale non è altro che
una forma aggravata del procedimento di formazione delle leggi ordinarie.
Con il termine LEGGE FORMALE si indica sia la legge con valore costituzionale, sia quella appena inferiore, la
legge ordinaria.
Gli atti con forza di legge sono invece atti normativi che non hanno la forma di legge (non sono deliberati
dalle Camere e promulgati dal PdR), ma sono equiparati alla legge ordinaria, ovvero occupano la stessa
posizione gerarchica oppure hanno la stessa FORZA ATTIVA (di abrogazione) e PASSIVA (di essere
abrogate). Possono quindi sostituirsi alla legge ordinaria laddove la Costituzione non ponga una riserva di
legge formale. Le LEGGI FORMALI ORDINARIE e gli atti con forza di legge costituiscono assieme le FONTI
PRIMARIE.
10.2..2.
Tipicità e tassatività delle fonti primarie
“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” dice l’art. 70, mentre gli articoli dal 71
al 74 dettano la disciplina di massima del procedimento di formazione della legge formale. Gli atti con forza
di legge rappresentano un’eccezione. Come deroga alla regola costituzionale, essi non possono essere
previsti da fonti che non abbiano il rango costituzionale. Infatti sono gli stessi articoli successivi della
Costituzione a indicare le eccezioni, cioè gli atti con forza di legge:
• art. 75: il referendum abrogativo delle leggi;
• art. 76: il decreto legislativo delegato;
• art. 77: il decreto-legge;
• art. 78: i decreti del Governo in caso di guerra
• il decreto di attuazione degli Statuti regionali;
Eventuali innovazioni all’elenco possono essere introdotte soltanto con legge costituzionale. Questo principio
si traduce nel divieto alla legge ordinaria di creare fonti con essa concorrenziali.
10.3.
Procedimento legislativo
10.3.1.
Definizioni
Il PROCEDIMENTO è una serie coordinata di atti rivolti ad uno stesso risultato finale: la legge formale. Gli
atti di cui dispone il procedimento legislativo sono:
• l’iniziativa legislativa;
• la deliberazione legislativa delle Camere;
• la promulgazione;
10.3.2.
L’iniziativa legislativa
L’INIZIATIVA LEGISLATIVA consiste nella presentazione di un PROGETTO DI LEGGE ad una Camera. Nel
linguaggio tecnico si chiamano DISEGNI DI LEGGE se di iniziativa del Governo, PROPOSTE DI LEGGE negli
altri casi.
Un progetto di legge consta di 2 parti:
• il testo dell’articolato;
• la relazione che accompagna l’articolato e che ne illustra gli scopi e le caratteristiche;
L’iniziativa legislativa è riservata ad alcuni soggetti tassativamente indicati dalla Costituzione all’art. 71.1:
a) iniziativa governativa. Il Governo è l’unico soggetto che ha potere di iniziativa su tutte le materie. La
formazione del disegno di legge è organizzata partendo dall’iniziativa ministeriale, la deliberazione
del CdM, l’autorizzazione del PdR e la presentazione alla Camera;
b) iniziativa parlamentare. Ogni deputato e ogni senatore può presentare progetti di legge alla Camera
di appartenenza, salvo per le materie riservate al Governo (artt. 81 e 77.2);
c) iniziativa popolare. L’art. 71.2 prevede che un progetto di legge possa essere presentato da 50.000
elettori. Valgono i limiti dell’iniziativa governativa;
d) iniziativa regionale. L’art. 121.2 riconosce ai Consigli Regionali il potere di presentare progetti di
legge alle Camere;
e) iniziativa del CNEL. Al CNEL l’articolo 99.1 attribuisce l’iniziativa legislativa senza stabilire limiti;
L’iniziativa legislativa non crea mai un obbligo per la Camera di deliberare. Il progetto di legge presentato è
stampato e distribuito ai membri della Camera; che la discussione sia posta all’odg dipende dalla Conferenza
dei capigruppo. La pratica dell’INSABBIAMENTO non è un fenomeno patologico ma una scelta politica.
10.3.3.
L’approvazione delle leggi
L’art. 72.1 vieta che un progetto di legge sia discusso direttamente dalla Camera senza prima essere stato
esaminato dalla commissione permanente competente. In relazione alle diverse funzioni che svolgono la
commissione e l’aula, si distinguono 3 procedimenti principali:
a) procedimento ordinario (per COMMISSIONE REFERENTE). Spetta al Presidente della Camera
individuare la commissione competente per materia dove si procede alla discussione del testo e alla
votazione degli EMENDAMENTI. Per facilitare questi passaggi è possibile creare un comitato tecnico
ristretto. Il testo viene approvato insieme ad una relazione finale, viene nominato un relatore con
l’incarico di riferire in aula e anche la minoranza può esprimere uno o più relatori di minoranza.
In aula la discussione procede per 3 letture: la prima di discussione generale può concludersi con un
odg di non passaggio agli articoli causando la bocciatura del PdL; la seconda prevede la discussione
articolo per articolo; la terza che consiste nell’approvazione finale dell’intero testo di legge;
b) procedimento per COMMISSIONE DELIBERANTE (o LEGISLATIVA). E’ una particolarità del nostro
ordinamento, ereditata dal fascismo prevista dall’art. 72.3. Consente alla commissione di assorbire
tutte e 3 le fasi che ordinariamente competono all’aula. Data la particolarità di questo procedimento
vi sono molte garanzie:
• alcune materie sono escluse. L’art. 72.4 esclude le leggi costituzionali, elettorali, di
delegazione legislativa, di ratifica dei trattati internazionali, di approvazione dei bilanci. Per
queste materie vi è una RISERVA DI ASSEMBLEA;
• per la composizione che l’art. 72.3 dispone secondo il criterio di rappresentanza
proporzionale;
• quanto all’assegnazione della proposta alla commissione, essa è insindacabile al Senato
sottoposta al veto alla Camera. In qualsiasi momento il PdL è rimesso all’Assemblea su
richiesta del Governo o di un 1/10 dei deputati o della commissione stessa (1/5 dei membri);
c) procedimento per COMMISSIONE REDIGENTE. Questo procedimento è una via di mezzo tra i primi
due, non previsto dalla Costituzione ma dai regolamenti parlamentari con significative differenze tra
Camera e Senato. Questo procedimento sgrava l’aula della discussione degli emendamenti
riservando all’Assemblea la votazione finale. Anche per questo procedimento valgono i limiti previsti
per la commissione deliberante;
I regolamenti delle Camere prevedono inoltre procedure abbreviate per PdL dichiarati urgenti. Terminato
l’esame dalla prima Camera l’esame passa all’altra che è libera di apportare qualsiasi emendamento al testo
già approvato pena il ritorno alla Camera precedente per l’analisi delle parti emendate.
10.3.4.
La promulgazione delle leggi
Conclusa la fase dell’approvazione, la legge è perfetta ma non ancora efficace. L’efficacia è data dalla
PROMULGAZIONE da parte del PdR. E’ il Governo che deve trasmettere la legge al PdR che deve
promulgarla entro 30 giorni.
Il PdR svolge un controllo formale e sostanziale: ha il potere di rinviare la legge alle Camere, con un
messaggio motivato. Non perfettamente definibili sono i motivi per cui il Presidente può disporre il RINVIO
DELLA LEGGE. E’ pacifico che lo possa fare per illegittimità costituzionale e non per merito politico, ma tra
questi due poli vi è un’ampia area residuale e non definibile cui si dà convenzionalmente il nome di MERITO
COSTITUZIONALE.
L’atto di promulgazione o il messaggio di rinvio devono essere controfirmati dal Governo e il rinvio può
essere compiuto una volta sola. L’art. 74.2 prevede che “se le Camere approvano nuovamente la legge,
questa deve essere promulgata”. Il potere di rinvio non è quindi un potere di veto, ma una forma di controllo
con riesame.
10.4.
Leggi a procedura rinforzata
10.4.1.
Definizioni
Non tutte le leggi sono uguali, poiché attraverso il meccanismo della riserva di legge, e in particolare, della
riserva di legge rinforzata, la Costituzione ha frantumato l’unicità tipologica della legge ordinaria e ha creato
alcune figure che si discostano dal tipo. Nella disciplina di alcune materie ha previsto procedimenti più
complessi di formazione della legge (LEGGI RINFORZATE), in altri ha posto la disciplina data da
provvedimenti di legge in una particolare collocazione gerarchica (LEGGI ATIPICHE):
a) per lo più le leggi rinforzate sono tali non perché sia rafforzato il procedimento parlamentare
prescritto, ma perché è reso più complesso il procedimento di formazione del PdL;
b) le riforme costituzionali degli ultimi anni manifestano la tendenza ad introdurre leggi rinforzate che
incidono proprio sul procedimento di formazione della legge;
c) i procedimenti rinforzati sono procedimenti specializzati per produrre leggi specializzate. Sono atti
che hanno competenza riservata e limitata e possono essere spiegati tramite l’introduzione del
criterio di competenza. Nel sistema delle fonti si distinguono sia per forza attiva (possono abrogare
solo leggi che hanno quello specifico contenuto) e passiva (possono essere abrogate solo da leggi
con quello specifico procedimento). Il che significa che le leggi rinforzate sono anche a loro esempi
di leggi atipiche.
10.4.2.
Fonti atipiche
Non appartengono interamente al tipo della legge ordinaria quegli atti legislativi che pur avendo la stessa
forma della legge, hanno una posizione particolare nel sistema delle fonti per quanto riguarda la loro “forza”.
Sono ipotesi eterogenee, che non consentono di parlare di FONTI ATIPICHE come di una categoria precisa e
connotata da caratteristiche univoche. Due sono le ipotesi principali:
a) sono atipiche perché dotate di una forza passiva potenziata per via dell’esclusione del referendum
abrogativo secondo l’art. 75.2;
b) sono atipiche le cosiddette LEGGI MERAMENTE FORMALI, ovvero alcuni atti formali con forma di
legge (coperti dalla riserva di legge formale) che non hanno un contenuto normativo tipico delle
leggi. Gli esempi maggiori sono le leggi di bilancio e la ratifica dei trattati internazionali:
• sono approvati con leggi sia il BILANCIO DI PREVISIONE che il RENDICONTO CONSUNTIVO.
La questione se la LEGGE DI APPROVAZIONE DEL BILANCIO DI PREVISIONE sia meramente
formale è stato un problema dibattuto per almeno un secolo, poiché sostenevano taluni che
non apportando norme giuridiche non necessitava dell’approvazione parlamentare. Come
nelle altre costituzioni moderne, l’art. 81.3 vieta che con la legge di bilancio siano stabiliti
nuovi tributi e nuove spese. La tipologia delle entrate e il quantum delle spese, nonché le
voci di spesa e il limite relativo devono essere già decisi da leggi sostanziali. Ecco l’atipicità
del bilancio di previsione, dove la legge che lo approva non può modificare la legislazione
vigente e quindi la forza attiva di questo atto è azzerata. Ma la legge di bilancio è atipica
anche per la forza passiva: ha durata annuale, può essere variata da apposite leggi ma non
abrogata in toto e neppure sottoposta a referendum;
• è autorizzata con legge formale anche la ratifica dei TRATTATI INTERNAZIONALI che sono
di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o comportano variazioni del
territorio od oneri alle finanze o modificazioni delle leggi secondo l’art. 80. Gli altri trattati
non necessitano dell’approvazione legislativa e posso essere perfezionati dal solo Governo. Il
Parlamento dunque partecipa alla formazione dei trattati attraverso la LEGGE DI
AUTORIZZAZIONE ALLA RATIFICA. Per questa ragione la legge di autorizzazione alla ratifica
è atipica: non ha forza attiva, non innova le leggi ordinarie, e quella passiva non è di chiara
definizione: può essere abrogata un’autorizzazione al compimento di un atto quando questo
è già stato compiuto? Va tuttavia aggiunto che nella maggior parte dei casi la formula di
autorizzazione è seguita dall’ordine di esecuzione, cioè dalla formula che serve a produrre
effetti giuridici nel nostro ordinamento. Un’assimilazione dell’ordine di esecuzione al regime
della norma di autorizzazione si è compiuta attraverso la giurisprudenza costituzionale e la
prassi parlamentare. La Corte costituzionale ha esteso all’ordine di esecuzione due regole, la
riserva di assemblea per estendere le garanzie anche nell’esecuzione dei trattati stipulati in
via semplificata e l’esclusione del referendum abrogativo per estendere alle leggi che danno
esecuzione ad un trattato un esclusione che altrimenti avrebbe poco senso se riferita solo
alla norma di autorizzazione. Le Camere hanno anche previsto l’inemendabilità all’ordine di
esecuzione.
10.5.
Legge di delega e decreto legislativo delegato
10.5.1.
Definizioni
La LEGGE DI DELEGA è la legge con cui le Camere possono attribuire al Governo il proprio potere legislativo.
Il DECRETO LEGISLATIVO (o DECRETO DELEGATO) è il conseguente atto con forza di legge emanato dal
Governo in esercizio della delega conferitagli dalla legge.
10.5.2.
La legge di delega
La delega di funzioni legislative al Governo è un’eccezione stabilita dall’art. 70 della costituzione. L’art. 76
delimita il potere di delega con vincoli, il cui mancato rispetto costituisce un vizio di costituzionalità:
a) la delega può essere conferita esclusivamente con legge formale, ovvero la legge di delega è
coperta dalla riserva di legge secondo la procedura ordinaria;
b) la delega è conferita solo al Governo inteso nella sua collegialità del CdM, e non ai singoli ministeri o
comitati interministeriali;
c) la legge di delega deve contenere (art. 76) le indicazioni minime o contenuti necessari;
d) e deve restringere l’ambito tematico della funzione delegata, indicando un oggetto definito;
e) inoltre deve indicare l’ambito temporale della delega, cioè prevedere un tempo limitato entro il quale
il decreto deve essere emanato. Se il limite temporale eccede i 2 anni, il Governo è tenuto a
presentare insieme alla legge delega lo schema di decreto delegato;
f) infine deve restringere l’ambito della discrezionalità del Governo, indicando i principi e criteri direttivi
che servono alla guida per l’esercizio della delega.
Nella prassi legislativa più recente ha perso di importanza l’enunciazione dei principi direttivi preferendo la
previsione di passaggi procedurali scadenzati con determinati organi parlamentari o commissioni ad hoc.
10.5.3.
Il decreto legislativo delegato
Il potere esecutivo esercita le proprie funzioni attraverso la forma del decreto. Quanto ai decreti emanati in
forza della legge di delega la loro formazione segue questo procedimento:
• proposta del Ministro competente;
• deliberazione del CdM;
• eventuali adempimenti ulteriori;
• eventuale deliberazione definitiva del CdM sentiti i soggetti consultati;
• emanazione da parte del PdR (art. 87.5);
Di tutte le fasi procedimentali deve essere data indicazione nella premessa del decreto. L’art. 14 della legge
400 introduce una novità nel nomen juris dei decreti delegati che vengono pubblicati sulla GU come decreti
legislativi (d.lgs.) con la stessa numerazione progressiva delle leggi.
Il d.lgs. deve essere promulgato dal PdR entro la scadenza dei termini previsti dalla legge delega e su di
esso il PdR esercita un controllo pari a quello esercitato sulle leggi formali.
10.5.4.
Deleghe accessorie e testi unici
Spesso la delega legislativa non costituisce il principale contenuto della legge approvata dal Parlamento, ma
un suo completamento. Capita cioè che nelle norme finali di una legge di riforma, il Parlamento deleghi il
Governo ad emanare norme di attuazione, coordinamento o transitorie.
Una particolare delega è quella che autorizza il Governo a coordinare le leggi esistenti in una certa materia
raccogliendole in un TESTO UNICO.
10.6.
Decreto legge e legge di conversione
10.6.1.
Definizioni
Il DECRETO-LEGGE è un atto con forza di legge che il Governo può adottare in casi straordinari di necessità
e urgenza, entra in vigore immediatamente dopo la pubblicazione ma gli effetti prodotti sono provvisori se il
Parlamento non li converte in legge entro 60 giorni dalla loro pubblicazione. La disciplina del decreto legge è
contenuta nell’art. 77 della Costituzione e nell’art. 15 della legge 400/88.
Il decreto-legge non può essere emanato nelle materie coperte da riserva d’Assemblea e non può conferire
deleghe legislative.
10.6.2.
Procedimento
Il decreto-legge deve essere deliberato dal CdM, emanato dal PdR e immediatamente pubblicato sulla GU.
Vale per il decreto-legge quanto detto per il decreto delegato sulla stesura della premessa, con l’aggiunta
che l’articolo 15 della legge 400/88 prevede che sia pubblicato “con la denominazione di decreto-legge e con
l’indicazione nel preambolo delle circostanze straordinarie di necessità e urgenza che ne giustificano
l’adozione, nonché dell’avvenuta deliberazione del CdM” e contenere la clausola di presentazione al
Parlamento.
Lo stesso decreto-legge spesso stabilisce il giorno d’entrata in vigore e in quello stesso giorno deve essere
presentato alle Camere (art. 77.2 Cost.) anche se sciolte. Presentando il decreto–legge il Governo chiede al
Parlamento di produrre la legge di conversione, di cui il decreto è l’allegato. Inizia così un procedimento
legislativo che deve concludersi, promulgazione compresa, entro il termine di 60 giorni.
Il regolamento del Senato prevede il parere obbligatorio espresso preliminarmente della commissione affari
costituzionali sulla sussistenza dei requisiti di urgenza e necessità. La commissione deve esprimersi in 5
giorni, e in caso di parere negativo deve esprimersi l’assemblea entro altri 5 giorni. Alla Camera è stato
eliminato il passaggio in commissione sostituendolo con:
• una relazione del Governo che descrive le ragioni di urgenza e necessità e gli effetti previsti
dall’attuazione del decreto relativamente a queste;
• l’assegnazione alla commissione referente che può chiedere al Governo di integrare gli elementi
forniti nella relazione;
• la sottoposizione del disegno di legge, oltre alla Commissione referente, al Comitato per la
legislazione;
10.6.3.
Decadenza del decreto non convertito
I decreti-legge, se non convertiti in legge entro 60 giorni, “perdono efficacia sin dall’inizio”. La perdita di
efficacia del decreto-legge è chiamata DECADENZA e costituisce un fenomeno unico nell’ambito delle fonti
del diritto, diverso dall’abrogazione e dall’annullamento. Infatti la decadenza travolge tutti gli effetti prodotti
dal decreto-legge, probabilmente anche lo stesso giudicato.
La situazione che si crea è paradossale: quando il decreto entra in vigore esso è pienamente efficace e va
applicato, ma se decade tutto ciò che si è compiuto in forza di esso è come se fosse stato compiuto senza
una base legale, arbitrariamente.
E’ evidente che la situazione che si crea a seguito della decadenza è in molti casi insostenibile e talvolta non
è neppure possibile ripristinare la situazione pre-esistente.
L’art. 77 della Costituzione appresta due strumenti attraverso i quali è possibile dare una risposta:
a) la LEGGE SANATORIA degli effetti del decreto-legge decaduto. Si tratta di una legge riservata alle
Camere senza che però queste vi siano tenute avente come scopo quello di regolare i rapporti
giuridici sorti;
b) l’altro strumento è individuabile in questo inciso dell’art. 72.2 “il Governo adotta, sotto la sua
responsabilità, provvedimenti provvisori”. Per responsabilità non si intende tanto quella politica,
implicita, quanto quella giuridica.
Tre tipi
1)
2)
3)
di responsabilità possono essere imputate ai ministri:
penale, ove vi sia dolo;
civile;
amministrativo-contabile, di un eventuale DANNO ERARIALE;
Se il decreto-legge è adottato per varare una disciplina complessa, per il quale il procedimento legislativo
ordinario sarebbe stato troppo dispersivo, è assai improbabile che 60 giorni bastino all’esame parlamentare.
Così è invalsa la prassi della REITERAZIONE DEL DECRETO-LEGGE alla scadenza dei 60 giorni il Governo
emana un nuovo decreto-legge con la retroazione degli effetti alla data del primo decreto-legge reiterato.
Con una sentenza del 1996 la Corte Costituzionale ha posto un argine (quasi) definitivo alla reiterazione.
10.6.4.
La legge di conversione e gli effetti degli emendamenti
La legge 400 ha offerto al problema una risposta univoca al problema degli emendamenti ai decreti-legge:
“le modifiche eventualmente apportate in sede di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a quello
della pubblicazione della legge di conversione, salvo che quest’ultima non disponga diversamente”.
Ma come indicato più volte dalla Corte costituzionale gli emendamenti aggiuntivi avranno efficacia solo con
l’approvazione della legge di conversione, ma per gli emendamenti soppressivi si verifica la non conversione
di una parte del decreto determinando la decadenza ex tunc.
Lo stesso accade per gli emendamenti sostitutivi.
10.7.
Altri decreti con forza di legge
Altri decreti con forza di legge sono utilizzati nel nostro ordinamento.
Trattandosi di fonti primarie sono previsti anche questi in Costituzione all’art. 78 e negli Statuti delle Regioni
ad autonomia speciale.
10.7.1.
Decreti emanati dal Governo in caso di guerra
L’art. 78 della Costituzione dispone che “le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i
poteri necessari”.
La dottrina ritiene che tra i poteri conferiti all’esecutivo vi possa essere anche una sorta di delega anomala al
Governo, cui deve essere concesso il potere di emanare norme con forza di legge derogando le normali
procedure.
Questi atti potrebbero essere autorizzati a sospendere alcune garanzie costituzionali. Si tratta di atti extra
ordinem.
10.7.2.
Decreti legislativi di attuazione degli Statuti speciali
Gli Statuti delle Regioni speciali, che sono leggi costituzionali, prevedono che all’attuazione dello Statuto e
trasferimento delle funzioni, dei mezzi e delle risorse provveda con un decreto legislativo, emanato da PdR
previa deliberazione del CdM su proposta di una COMMISSIONE PARITETICA.
10.8.
Regolamenti parlamentari (e di altri organi costituzionali)
10.8.1.
Definizioni
Il REGOLAMENTO PARLAMENTARE è l’atto cui l’art 64 della Cost. riserva la disciplina dell’organizzazione e
del funzionamento di ciascuna Camera. Approvato a maggioranza assoluta e pubblicato in GU. Nonostante il
nome regolamento, i regolamenti parlamentari sono fonti primarie. Attraverso essi si manifesta l’autonomia
delle Camere e la loro indipendenza rispetto agli altri poteri dello Stato e all’altra Camera.
10.8.2.
I regolamenti parlamentari nel sistema delle fonti
La definizione della FORZA DI LEGGE è di tipo relazionale: si definisce la qualità di determinati atti con
riferimento al tipo di relazioni che essi hanno con un altro atto. Ma i regolamenti delle Camere non hanno
relazioni con le altre fonti primarie, se non quella della reciproca esclusione
10.8.3.
Regolamenti degli altri organi costituzionali
Anche gli altri organi costituzionali sono dotati della stessa autonomia del Parlamento?
a) il Governo sicuramente no poiché la fonte dei suoi regolamenti sono leggi formali ordinarie;
b) il PdR adotta dei regolamenti su proposta del Segretario Generale della Presidenza, ma si tratta di
semplici strumenti di gestione e non di fonti normative. L’indipendenza del PdR costituisce non il
fondamento di un potere normativo, ma un limite all’ambito di applicazione delle leggi e delle altre
fonti;
c) anche per la Corte costituzionale non c’è un’esplicita previsione in Costituzione, che pone una riserva
di legge costituzionale per la disciplina della proposizione dei giudizi di legittimità e delle garanzie di
indipendenza della Corte (art. 137.1) ed una riserva di legge ordinaria per la costituzione e il
funzionamento della stessa. E’ proprio la legge ordinaria a prevedere che la Corte possa approvare
un regolamento per il proprio funzionamento;
10.9.
Il referendum abrogativo come fonte
10.9.1.
Definizioni
Il REFERENDUM è la richiesta fatta al corpo elettorale di esprimersi direttamente su una determinata
questione. Esso è dunque uno strumento di democrazia diretta, una delle forme in cui la Costituzione
prevede che il popolo eserciti la sua sovranità, senza l’interposizione di rappresentanti.
Se nel nostro ordinamento il principio è che la sovranità popolare si esprime tramite la rappresentanza
elettiva, il referendum appare come una deroga. Imprudente è stato il costituente ad affidare alla legge
ordinaria, e quindi al sistema rappresentativo, la disciplina del referendum.
La Costituzione prevede soltanto 4 tipi di referendum. Nell’ambito delle fonti statali, accanto al referendum
costituzionale e a quello confermativo previsto per alcune fonti rinforzate, una funzione effettivamente
normativa la svolge il referendum abrogativo.
Il REFERENDUM ABROGATIVO è lo strumento con cui il corpo elettorale può incidere direttamente
sull’ordinamento giuridico attraverso l’abrogazione di leggi o atti con forza di legge dello Stato, oppure di
singole disposizioni. Come affermata dalla Corte costituzionale (sent. 29/87) è un atto-fonte dell’ordinamento
dello stesso rango della legge ordinaria.
10.9.2.
Procedimento
Il referendum abrogativo richiede un procedimento lungo e difficile, disciplinato dalla legge 352/70. L’art. 75
della Cost. prevede che esso possa essere proposto da 500.000 elettori o da 5 Consigli regionali: il
procedimento quindi si differenzia per un primo tratto in ragione di chi richiede il referendum:
a) richiesta popolare: l’iniziativa parte dai promotori, almeno 10, che depositano il quesito. Entro 3 mesi
devono essere raccolte 500.000 firme;
b) richiesta regionale: i Consigli di almeno 5 Regioni devono approvare la richiesta a maggioranza
assoluta indicando ovviamente il quesito;
Le richieste vanno depositate tra il 1° gennaio e il 30 settembre, non nell’anno precedente la scadenza
legislativa e nei 6 mesi successivi alla convocazione dei comizi elettorali.
a) presso la Cassazione si costituisce l’Ufficio centrale per il referendum. Entro il 15 dicembre si chiude
la fase di valutazione assunta con ordinanza;
b) i quesiti dichiarati legittimi vengono trasmessi alla Corte costituzionale per il giudizio di ammissibilità
secondo la Costituzione. La Corte decide entro il 10 febbraio dell’anno successivo;
c) se la Corte dichiara ammissibile il quesito il PdR deve fissare il giorno della votazione tra il 15 aprile e
il 15 giugno. Gli elettori troveranno sulla scheda il quesito e potranno votare con un sì o con un no;
d) l’Ufficio centrale accerta che alla votazione abbia preso parte la maggioranza degli aventi diritto al
voto e solo allora procede alla conta dei voti proclamando il risultato. Se i “no” superano i “sì” lo
stesso quesito non potrà essere riproposto per 5 anni;
e) se il risultato è favorevole all’abrogazione, il PdR decreta l’avvenuta abrogazione e il d.P.R. è
pubblicato immediatamente sulla GU. Tuttavia il PdR può ritardare su richiesta del Governo fino a 60
giorni l’entrata in vigore dell’abrogazione;
In due casi le procedure sopra descritte si interrompono:
• in caso di scioglimento anticipato delle Camere;
• nel caso in cui prima dello svolgimento del referendum, la legge venga abrogata. L’Ufficio centrale
dichiara che le operazioni non hanno più corso;
10.10.
Regolamenti dell’esecutivo
10.10.1.
Definizioni
Con il termine REGOLAMENTO si designano atti normativi difficilmente riconducibili a tipologie unitarie. Il
termine è utilizzato per indicare le più svariate tipologie di atto normativo. In alcuni casi regolamento
designa atti tipici, fonti dell’ordinamento giuridico generale: è questo il caso dei regolamenti dell’esecutivo.
La tradizionale definizione dei REGOLAMENTI DELL’ESECUTIVO come atti sostanzialmente legislativi ma
formalmente amministrativi rispecchia bene l’attuale realtà. Quale spazio normativo possa occupare il
regolamento dell’esecutivo dipende dalla legge: questo perché il regolamento esecutivo è una FONTE
SECONDARIA, sottoposta nella gerarchia delle fonti alla fonte primaria, le leggi ordinarie e gli atti con forza
di legge.
10.10.2.
Fondamento normativo
La Costituzione non disciplina i regolamenti dell’esecutivo, anche se all’art. 87.5 attribuisce al PdR
l’emanazione di questi. La riforma del titolo V ha introdotto un’importante innovazione (art. 117.6): ha
stabilito il PRINCIPIO DI PARALLELISMO TRA FUNZIONE LEGISLATIVE E FUNZIONI REGOLAMENTARI,
limitando la potestà del Governo di emanare regolamenti nelle sole materie nelle quali lo Stato ha potestà
legislativa.
Mentre per le fonti primarie il sistema è chiuso, in quanto la tipologia degli atti è compiutamente e
tassativamente elencata dalla Costituzione, lo stesso non vale per le fonti secondarie. Inoltre mentre esiste
uno spazio costituzionalmente garantito per le leggi e gli atti equiparati, non v’è invece uno spazio garantito
per i regolamenti dell’esecutivo.
La disciplina generale del potere regolamentare del governo è contenuta:
a) nelle Preleggi;
b) nell’art. 17 della legge 400/88;
Le Preleggi dedicano ai regolamenti 2 articoli:
• art. 3 “il potere regolamentare del Governo è disciplinato da leggi di carattere costituzionale [leggi
ordinarie]”;
• art. 3 “il potere regolamentare di altre autorità è esercitato nei limiti delle rispettive competenze, in
conformità con leggi particolari”;
• art. 4 “i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi”, mentre
“altre autorità non possono nemmeno dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal
Governo”;
Quest’impostazione è ripresa dalla legge 400/88 con l’aggiunta che per i regolamenti governativi è attribuita
una funzione normativa generale al Governo, mentre per i regolamenti ministeriali occorre che il potere di
emanare un tale regolamento sia attribuito esplicitamente dalle leggi ordinaria.
10.10.3.
Procedimento
I regolamenti governativi vengono deliberati, su proposta di uno o più ministri, dal CdM, previo parere
obbligatorio ma non vincolante del Consiglio di Stato. Il regolamento viene poi emanato con DECRETO DEL
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA. L’atto a questo punto è perfetto ma non ancora efficace, almeno non
prima di aver superato il vaglio della Corte dei conti e quindi essere pubblicato sulla GU.
I regolamenti ministeriali sono emanati dal Ministro (DECRETO MINISTERIALE) sempre previo parere del
Consiglio di Stato. Con lo stesso provvedimento, ma con DECRETO INTERMINISTERIALE sono emanati i
regolamenti che riguardano più ministeri. Sono entrambi soggetti alla verifica della Corte dei conti e
pubblicati sulla GU.
10.10.4
Tipologia
La legge 400 distingue diverse tipologie di regolamento governativo:
a) REGOLAMENTI DI ESECUZIONE delle leggi. Sono regolamenti che il Governo adotta anche senza
una specifica autorizzazione legislativa. Possono avere funzione applicative e interpretativa. Qualora
la materia fosse coperta da riserva di legge ordinaria, comunque il Governo ha la facoltà di
deliberare un regolamento esclusivamente esecutivo che non integri la fattispecie legislativa;
b) REGOLAMENTI D’ATTUAZIONE, qualora espressamente previsti dalle leggi da attuare;
c) REGOLAMENTI INDIPENDENTI, sono emanati nelle materie in cui manchi la disciplina delle leggi o di
atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie comunque riservate alla legge. Sono
una figura molto discussa che configura un potestà normativa residuale rispetto alle leggi ordinarie e
alle riserve di legge, ma riguardano sostanzialmente un aspetto estremamente marginale
dell’ordinamento;
d) REGOLAMENTI DI ORGANIZZAZONE, sono un residuato pre-repubblicano di quando il Governo
plasmava direttamente l’organizzazione della PA. Oggi quest’ambito rientra nella riserva di legge e
pertanto questi regolamenti si configurano come regolamenti di esecuzione;
10.10.5
Delegificazione
Tramite l’art. 17.2 della legge 400 è introdotto il fenomeno dei REGOLAMENTI DELEGATI o AUTORIZZATI.
La particolarità di questi regolamenti è quella di declassare le leggi precedenti in materia. Infatti l’assenza di
una riserva di regolamentazione amministrativa ha portato il legislatore ad occuparsi di aspetti marginali che
hanno reso ipertrofico l’ordinamento. La DELEGIFICAZIONE si propone come rimedio all’ipertrofia
dell’ordinamento mediante declassamento delle leggi a regolamento.
Non potendo un fonte secondaria abrogare una fonte primaria, la legge ordinaria che definisce la stesura dei
regolamenti stabilisce l’abrogazione di altre leggi ordinarie all’approvazione dei regolamenti medesimi.
11.
Le fonti comunitarie
11.1.
Il sistema delle fonti comunitarie
11.1.1.
Definizione
Così come la Comunità europea è un’istituzione complessa e in divenire, anche il sistema delle fonti che
formano l’ordinamento giuridico comunitario non è semplice da disegnare.
La distinzione fondamentale da cui muovere è tra il diritto convenzionale e il diritto derivato. Le fonti del
DIRITTO CONVENZIONALE consistono nei trattati con cui la Comunità europea è stata istituita e
successivamente modificata e sviluppata. Nel trattato CE sono disciplinati gli organi della Comunità e i loro
poteri normativi: questi si esprimono attraverso atti normativi che costituiscono il DIRITTO DERIVATO.
I trattati sono una fonte gerarchicamente sovraordinata al diritto derivato ed un apposito organo
giurisdizionale, la CORTE DI GIUSTIZIA DELLA CE, è istituita dai trattati per garantire questa prevalenza
gerarchica.
11.1.2.
Diritto derivato: tipologia delle fonti comunitarie
Le fonti del diritto derivato si distinguono in atti vincolanti e non vincolanti. Degli atti non vincolanti è detto
rapidamente: sono le RACCOMANDAZIONI CE, inviti agli Stati a conformarsi ad un certo comportamento e i
pareri, che esprimono il punto di vista di un organo su un determinato oggetto, che ogni organo della
Comunità europea può emanare.
Sono invece pienamente atti normativi le fonti vincolanti. Essi si distinguono in 3 tipologie, profondamente
diverse in linea di principio:
a) REGOLAMENTI CE: hanno le caratteristiche che sono tipiche, all’interno del nostro ordinamento,
della legge. Hanno portata generale, sono obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente
applicabili in ciascuno degli Stati membri. La DIRETTA APPLICABILITA’, che significa che non è né
necessario né ammesso un atto dello Stato che né ordini l’esecuzione nell’ordinamento dello Stato;
b) DIRETTIVE CE: sono atti normativi che hanno come destinatario lo Stato membro e lo vincolano per
quanto riguarda il risultato da raggiungere, ferma restando la competenza degli organi nazionali in
merito alla forma e ai mezzi;
c) DECISIONI CE: hanno caratteristiche che sono tipiche del provvedimento amministrativo. Sono
obbligatorie in tutti i loro elementi e sono direttamente applicabili ma hanno portata particolare
poiché si rivolgono a soggetti specifici, a una singola personalità giuridica;
11.1.3.
Diritto derivato: tipologia delle fonti comunitarie
La DIRETTA APPLICABILITA’ è una qualità di determinati atti comunitari che producono immediatamente i
loro effetti giuridici nell’ordinamento nazionale senza la interposizione di un atto normativo nazionale.
Diversa concettualmente la nozione di EFFETTO DIRETTO. Essa non riguarda gli atti ma le norme ed è
perciò una nozione non definita dal legislatore ma dall’interprete.
La Corte di giustizia ha ritenuto che dove una disposizione comunitaria possa esprimere una norma chiara,
precisa e non condizionata dall’intervento del legislatore nazionale, questa deve essere applicata
direttamente senza attendere l’attuazione nazionale. Il singolo che ne abbia interesse potrà invocare la
norma comunitaria e lo Stato membro non potrà opporsi invocando la mancata attuazione dell’atto
comunitario: che lo Stato membro non possa giovarsi della propria inadempienza è applicazione dell’antica
massima EX INIURIA IUS NON ORITUR.
Se incrociamo la caratteristica tipologica che in astratto connota alcuni atti-fonte – diretta applicabilità – con
la caratteristica che in concreto connota determinate norme – efficacia diretta – possiamo avere 4
possibilità:
a) norme direttamente efficaci (self-executing) espresse da atti direttamente applicabili: sono le norme
che caratterizzano i regolamenti CE;
b) norme non direttamente efficaci espresse da atti direttamente applicabili: vi sono alcuni regolamenti
CE che definiscono un quadro normativo che deve essere attuato o da altri regolamenti CE o da
norme nazionali;
c) norme direttamente efficaci espresse da atti non direttamente applicabili: sono per lo più divieti posti
da direttive dettagliate o dagli stessi Trattati, così come interpretati dalla Corte di giustizia;
d) norme non direttamente efficaci espresse da atti non direttamente applicabili: sono le norme che di
regola derivano dalle direttive CE. Esse non sono in grado di far sorgere posizioni soggettive
azionabili senza un preventivo intervento attuativo del legislatore nazionale;
11.2.
Rapporti tra norme comunitarie e norme interne
11.2.1.
Limitazione di sovranità e deficit normativo
La Corte di giustizia ha dichiarato che l’effetto normativo diretto comporta la prevalenza del diritto
comunitario su quello interno, comportandone quindi l’abrogazione.
Se la legge è la manifestazione più tipica della sovranità, la prevalenza del diritto comunitario sulle leggi
nazionali segna dunque la perdita di una porzione di sovranità nazionale, conseguente all’adesione all’UE.
In quasi tutti gli altri Stati europei, l’adesione alla Comunità europea prima e l’accettazione delle sue
trasformazioni più salienti poi, sono state accompagnate da riforme costituzionali. In italia no. L’unica fonte
che disciplina l’adesione dell’italia è la legge di ratifica del Trattato di Roma e l’ordine di esecuzione ad esso
relativo. Ma la legge di ratifica è una legge meramente formale e l’ordine di esecuzione una formula
stereotipata, entrambi fonti primarie sub-costituzionali: bastano a disporre una cessione di sovranità?
Secondo la Corte costituzionale sì, poiché l’art. 11 della Costituzione consente in condizioni di parità alla
limitazione di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri pace e giustizia fra le Nazioni. Con questa
interpretazione – abbastanza tirata – della Corte costituzionale si è legittimata l’appartenenza dell’italia
all’UE. Uno dei risultati di questa prassi è la mancanza di una vera disciplina dei rapporti tra l’ordinamento
interno e quello comunitario. Ciò ha consentito che l’intera disciplina fosse elaborata dalla giurisprudenza
costituzionale.
11.2.2.
Il cammino comunitario della Corte costituzionale
In un primo tempo la Corte costituzionale ha applicato il solo criterio cronologico per dirimere i conflitti tra
leggi nazionali e comunitarie, con la conseguenza che una più recente legislazione interna poteva abrogare
una più forte legislazione europea. La Corte di giustizia europea, impegnata ad estendere il potere della
Comunità, ritenne queste scelte delle infrazioni sanzionabili. Così la Corte costituzionale iniziò ad applicare il
criterio gerarchico la cui conseguenza fu l’impugnazione di leggi interne per violazione dei regolamenti
comunitari di fronte alla Corte stessa che, non reggendo il carico di lavoro, lasciò per lungo tempo valide
norme nazionali in contrasto con regolamenti comunitari.
Per risolvere entrambe le problematiche viste sopra, la Corte costituzionale sviluppa una teoria riassunta
nella sentenza 170/1984 (Granital o La Pergola):
a) l’ordinamento comunitario e l’ordinamento italiano sono due ordinamenti giuridici autonomi e
separati, ognuno dotato di un proprio sistema di fonti (TEORIA DUALISTICA);
b) la normativa comunitaria non entra a far parte dell’ordinamento interno, né viene assoggettata al
sistema delle leggi. Non può esistere un vero e proprio conflitto tra le fonti interne e quelle
comunitarie, perché ognuna è valida e efficace nel proprio ordinamento;
c) con la ratifica e l’ordine di esecuzione del Trattato il legislatore italiano ha riconosciuto la
competenza della Comunità europea ad emanare norme giuridiche in determinate materie. Queste
norme non si impongono direttamente nell’ordinamento interno non perché abbiano forza di legge,
ma per la forza attribuita ad esse dal Trattato. E’ quindi quest’ultimo a segnare la ripartizione di
competenza tra i 2 ordinamenti e il regime giuridico delle proprie fonti;
d) i conflitti tra norme che eventualmente sorgano vanno risolti dal giudice italiano applicando il criterio
di competenza. Il giudice deve accertare se, in base al Trattato, sia competente su di una data
materia l’ordinamento comunitario o nazionale. Così la norma interna se non competente non viene
abrogata, né dichiarata illegittima, ma semplicemente non applicata.
11.2.3.
Contrasto tra norme interne e comunitarie: il quadro attuale
Il quadro attuale che si ricava dalla sentenza 170/1984 e successive è il seguente:
a) contrasto tra legge ordinaria e norme CE self-executing, si applica la legge comunitaria e non si
applica quella ordinaria. Questa regola è rivolta a tutti i soggetti dell’applicazione del diritto, non solo
agli organi giudiziari, ma anche alle strutture dell’amministrazione pubblica, aprendo una falla
nell’applicazione del principio di legalità della PA;
b) contrasto tra legge ordinaria e norme CE non self-executing: finché la norma comunitaria non è
attuata è la vecchia normativa ordinaria a dover essere applicata, mentre una volta attuata sarà
applicata la nuova normativa ordinaria. Eventuali illegittimità nell’applicazione della norma CE
nell’ordinamento interno potranno essere sollevate dal Giudice di fronte alla Corte;
c) contrasto tra norme sub-legislative e norme CE: in questo caso non siamo più nell’ambito del criterio
di competenza e della non-applicazione, ma si tratta di una questione gerarchica tra il regolamento
interno e la legge formale dell’ordine di esecuzione. E’ chiaro che il contrasto viene risolto con la
prevalenza della legge relativa al Trattato e quindi della norma CE, ma è altrettanto chiaro che non
vi è alcuna possibilità di confronto tra il regolamento interno e il regolamento CE, poiché
quest’ultimo non fa parte dell’ordinamento.
d) contrasto tra norme costituzionali e norme comunitarie: la Corte costituzionale ha ammesso che le
norme comunitarie possono comportare deroghe alle norme costituzionali di dettaglio, ma non ai
principi fondamentali. Con questa impostazione la Corte costituzionale ha voluto aprire la strada
all’ampliamento dei poteri UE senza la necessità di revisioni costituzionali. Nel caso una norma
comunitaria muovesse contrariamente a un principio della Costituzione, l’ordine di esecuzione del
Trattato dovrebbe essere impugnato davanti alla Corte costituzionale. In nessun caso può essere
impugnato il dettato costituzionale, mentre la norma CE può essere portata solo davanti alla Corte di
Giustizia europea, che è comunque un organismo estraneo all’ordinamento interno.
11.2.4.
I giudici e l’amministrazione di fronte al diritto comunitario
La teoria dualistica che la Corte costituzionale (ma non solo quella italiana) ha assunto come premessa per
intendere i rapporti tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale, affonda le sue radici in una
visione tradizionale della natura della Comunità europea: un’organizzazione comune creata da Stati sovrani
con strumenti di diritto internazionale. Ma nel suo sviluppo la Comunità ha elaborato strumenti, relazioni,
poteri spesso simili a quelli tipici degli Stati federali.
L’aspetto paradossale della concezione dualistica è che abbiamo due ordinamenti autonomi e distinti per
quanto riguarda la legislazione, ma uniti per quanto riguarda l’applicazione del diritto. Così giudici e
amministratori sono servitori di due padroni.
I giudici possono anche utilizzare lo strumento del RINVIO PREGIUDIZIALE alla Corte di giustizia della CE per
ottenere indicazioni sulla validità di una norma derivata dai Trattati oppure sull’interpretazione delle
disposizioni comunitarie.
11.2.5.
L’attuazione delle norme comunitarie
Dall’introduzione del 1989 della legge “La Pergola” per l’attuazione delle norme comunitarie, si è avuto un
processo di delegazione e delegificazione. Delegazione al Governo per i regolamenti comunitari, al pari dei
regolamenti interni e delegificazione con l’accorpamento in un’unica legge comunitaria annuale l’adozione di
tutti i provvedimenti richiesti dall’UE e la possibilità per le Regioni di applicare direttamente alcuni atti della
CE.
12.
Le fonti delle autonomie
12.1.
Statuti regionali
12.1.1.
Definizioni
Tutte le Regioni hanno uno Statuto, ma gli statuti sono di tipo diverso: si distinguono le Regioni a Statuto
speciale da quelle a Statuto ordinario.
Per le Regioni a Statuto speciale è lo Statuto stesso che ne fonda l’autonomia, fissandone limiti e modi,
derogando il Titolo V della Costituzione e in particolare l’art. 117. Gli STATUTI DELLE REGIONI SPECIALI
sono adottati con legge costituzionale.
Diversa è la funzione degli STATUTI DELLE REGIONI ORDINARIE, per cui le forme e condizioni di autonomia
sono definite in Costituzione. Con la legge costituzionale 1/1999 è attribuita agli Statuti ordinari la facoltà di
definire integralmente la forma di governo della Regione, compresa la legge elettorale.
12.1.2.
Procedimento di formazione
Lo Statuto delle Regioni speciali è una legge costituzionale un po’ particolare, perché:
a) è derogabile attraverso delle leggi regionali in alcune sue parti, per esempio riguardo la forma di
governo;
b) la revisione degli Statuti non sono sottoposte a referendum costituzionale, essendo sufficiente il
parere vincolante della Regione stessa;
Lo Statuto delle Regioni ordinarie ha subito una radicale riforma:
a) l’art. 123 della Costituzione così come riformato nel 2001 dispone che lo Statuto sia approvato a
maggioranza assoluta dal Consiglio Regionale, con due deliberazioni successive adottate a distanza
almeno di 2 mesi.
b) il Governo può impugnare lo Statuto dinanzi alla Corte costituzionale entro 30 giorni dalla sua
pubblicazione sul BUR. Entro 3 mesi dalla sua pubblicazione, un cinquantesimo degli elettori della
Regione oppure un quinto dei componenti il Consiglio Regionale possono chiedere un referendum
approvativo, o sospensivo. Lo Statuto non è promulgato fino a che non supera anche la fase
referendaria. Nel periodo compreso tra la pubblicazione e la promulgazione, la prima ha solo valore
notiziale.
12.1.3.
Natura e funzione degli Statuti ordinari
Gli Statuti delle Regioni ordinarie sono quindi leggi regionali rinforzate cui è riservata la disciplina della forma
di governo regionale, dei principi fondamentali di organizzazione e di funzionamento della medesima, del
diritto di iniziativa legislativa e di referendum, la pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali.
Se prima della riforma del 2001 lo Statuto doveva mantenersi nell’ambito della legislazione statale,
successivamente si è posto come limite il solo puntuale rispetto del dettato Costituzionale.
Così le leggi dello Stato non possono incidere sugli Statuti per quanto riservato alle Regioni al pari delle leggi
regionali, gerarchicamente subordinate.
12.2. Leggi regionali
12.2.1.
Definizioni
La LEGGE REGIONALE è una legge ordinaria formale. La forma della legge le è data dal procedimento
(iniziativa, deliberazione e promulgazione), la collocazione tra le fonti primarie è garantita dalla Costituzione
nell’ambito delle competenze esclusive e concorrenti e perché sottoposta al controllo di legittimità della Corte
costituzionale.
Alle leggi regionali sono del tutto equiparate le LEGGI PROVINCIALI emanate dalla Province di Trento e
Bolzano.
12.2.2.
Procedimento
Il procedimento di formazione della legge regionale è disciplinato in minima parte dalla Costituzione, in parte
dallo Statuto e per il resto dal regolamento interno del Consiglio Regionale. Il procedimento si svolge in
queste fasi:
• iniziativa: oltre alla Giunta e ai Consiglieri regionali, l’iniziativa spetta agli altri soggetti individuati
dagli Statuti;
• approvazione in Consiglio regionale: è generalmente previsto il ruolo delle Commissioni consiliari in
sede referente, anche se taluni Statuti prevedono anche una funzione redigente. Sono in genere
previste le 3 letture in assemblea e la legge è approvata almeno con maggioranza relativa, salvo
maggioranze rinforzate previste dai singoli statuti. Ad essi spetta anche il compito di definire la
modalità di partecipazione al processo del Consiglio delle autonomie;
• promulgazione: da parte del Presidente della Regione mediante pubblicazione sul BUR;
Allo Stato è consentito solo d’impugnare le leggi regionali successivamente alla loro pubblicazione, senza
alcuna possibilità di veto preventivo.
12.2.2.
Estensione della potestà legislativa regionale
La riforma del titolo V del 2001 ha mutato l’autonomia legislativa delle Regioni. In una costituzione federale
in senso stretto vengono elencati i poteri ceduti dagli Stati contraenti il patto allo Stato centrale, mentre in
una costituzione regionale troviamo elencati i poteri devoluti dal centro agli enti territoriali. Quest’ultimo è il
caso della nostra Costituzione.
Il precedente testo costituzionale elencava le materie su cui le Regioni ordinarie avevano potestà legislativa
(concorrente) aggiungendo che leggi ordinarie potevano stabilirne di altre (potestà attuativa). L’art. 117 così
come approvato nel 2001 stabilisce:
c) un elenco di materie dove viene esercitata POTESTA’ ESCLUSIVA DELLO STATO (art. 117.2 Cost.);
d) un elenco di materie su cui le Regioni hanno POTESTA’ LEGISLATIVA CONCORRENTE (art. 117.3),
per cui lo Stato determina i PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA MATERIA mentre il resto della
disciplina compete alle Regioni;
e) una clausola residuale per cui tutte le materie non comprese nei due elenchi precedenti spettano alle
Regioni per quanto riguarda la potestà legislativa (POTESTA’ LEGISLATIVA RESIDUALE DELLE
REGIONI);
Questo è lo schema generale. Alcuni degli aspetti problematici di questo testo sono:
a) gli obblighi internazionali. Mentre in precedenza solo lo Stato aveva il c.d. POTERE ESTERO per
sottoscrivere impegni giuridici e la legislazione regionale doveva necessariamente adeguarsi a
quanto deliberato in sede nazionale, questo testo (art.117.1) sembra parificare il legislatore
regionale e statale vincolando entrambi al rispetto degli OBBLIGHI INTERNAZIONALI. Inoltre
secondo l’art. 117.9 le Regioni hanno la facoltà, nell’ambito dei limiti fissati da una legge statale, di
stipulare accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad un altro Stato. Questa situazione
porterebbe inevitabilmente a vincolare l’ordinamento statale agli accordi esteri di una singola
Regione;
b) le interferenze delle leggi statali nelle materie regionali. Tra le competenze esclusive dello Stato ve
ne sono diverse che tagliano le materie di competenza regionale. Ad esempio la tutela della
concorrenza, l’ordinamento civile e penale, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali, le funzioni fondamentali degli enti locali. Inoltre pure tra le materie
concorrenti ve ne sono alcune “trasversali” alle competenze di Stato e Regioni come il governo del
territorio. La possibilità di intrusione dello Stato nelle aree di competenza regionale ha creato una
grande quantità di conflitti di attribuzione di competenza a cui la Corte costituzionale è chiamata a
dare una risposta. Così la legge costituzionale 3/2001 ha determinato che le leggi statali che
intervengono in materie di competenza concorrente siano sottoposte al parere della Commissioni
bicamerale integrata, parere del quale le Camere potranno discostarsi solo deliberando a
maggioranza assoluta;
c) la successione delle leggi nel tempo. Resta dubbio come potrà lo Stato imporre alle regioni il rispetto
delle proprie leggi, specie delle nuove leggi che fissano i principi fondamentali nelle materie di
competenza concorrente (LEGGE CORNICE), in presenza di precedenti leggi regionali;
d) potestà legislativa delle Regioni speciali. I vecchi Statuti speciali restano formalmente in vigore ma
sono legati alla vecchia impostazioni ovvero alla clausola residuale a favore dello Stato creando una
situazione paradossale dove alle Regioni speciali verrebbero negate potestà devolute alle Regioni
ordinarie. Il Titolo V riformato a tal riguardo si limita a dire che sino all’adeguamento dei rispettivi
statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a statuto
speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di
autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite. A ciò si aggiunge un’ulteriore complicazione
prevista dall’art. 116.3 consente con una legge ordinaria rinforzata di concedere a singole Regioni
ordinarie “forme e condizioni particolari di autonomia” in materia di organizzazione della giustizia di
pace, di istruzione, di tutela dell’ambiente e dei beni culturali;
12.3. Regolamenti regionali
Le riforme costituzionali hanno profondamente inciso sulla funzione regolamentare delle Regioni, sia per ciò
che riguarda la competenza degli organi, sia per l’estensione del potere.
a) la Costituzione, che non si preoccupa di disciplinare i regolamenti dello Stato, dettava invece, prima
della riforma del 2001, una norma relativa ai REGOLAMENTI REGIONALI, per cui il potere
regolamentare era attribuito al Consiglio e non alla Giunta. Ovviamente riferito alle Regioni ordinarie,
poiché quelle straordinarie erano e sono regolamentate dallo Statuto. Come con la revisione del
2001 avverrà anche con le Regioni ordinarie il cui Statuto disciplinerà titolarità e modi della potestà
regolamentare.
b) la riforma costituzionale ha poi introdotto il principio del parallelismo tra funzioni legislative e
funzioni regolamentari, limitando la potestà del Governo di emanare regolamenti alle sole materie
sulle quali lo Stato ha potestà legislativa esclusiva e riservando alle Regioni il potere regolamentare
in tutte le altre materie;
c) nella gerarchia delle fonti dell’ordinamento regionale il regolamento è sottoposto alle leggi, le quali
sono sottoposte allo Statuto, che allora stabilisce anche la competenza normativa tra leggi e
regolamenti. Essendo quindi gli Statuti diversi da Regione a Regione, il risultato di questa riforma
potrà essere visto solo quando questi verranno promulgati e differirà nell’ambito del territorio
nazionale;
12.4. Fonti degli enti locali
12.4.1.
Le fonti locali nel sistema delle fonti
La riforma del Titolo V ha modificato anche la posizione costituzionale degli enti locali e delle loro fonti
normative. La pariordinazione degli enti locali, delle Regioni e dello Stato quali componenti la Repubblica
(art. 114.1) ha riflessi sul sistema delle fonti.
L’art. 114.2 attribuisce rilevanza costituzionale agli STATUTI DEGLI ENTI LOCALI, mentre l’art. 117.6
riconosce ad essi “potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento
delle funzioni loro attribuite”.
Quindi il fondamento degli EELL è nella Costituzione, ma è la legge ordinaria a determinarne competenze e
modalità. Alla legge statale in via esclusiva è attribuita la competenza di stabilire la legislazione elettorale, gli
organi di governo e le funzioni fondamentali degli EELL. Per la restante parte sia la legge statale che
regionale concorre alla definizione dei compiti degli EELL.
12.4.2.
Statuti
La legge 142/90, assorbita nel TUEL (d.lgs. 267/2000), prevede che Comuni e Province si dotino di uno
Statuto che deve dettare le norme fondamentali sull’organizzazione dell’ente. Il TUEL svolge la funzione
legislativa ordinaria di definizione dei compiti, competenze e modalità degli EELL.
12.4.3.
Regolamenti
“Nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo Statuto, il comune e la provincia adottano regolamenti
nelle materie di propria competenza ed in particolare per l’organizzazione e il funzionamento delle istituzioni
e degli organismi di partecipazione, per il funzionamento degli organi e degli uffici per l’esercizio delle
funzioni” (art. 7 TUEL).
Il regolamento è lo strumento normativo tipico degli EELL, serve non soltanto all’organizzazione dell’ente ma
anche a disciplinare le materie di competenza dell’ente stesso. E’ una fonte secondaria.
13.
Gli atti e i provvedimenti amministrativi
13.1.
Atti normativi, atti amministrativi e provvedimenti
13.1.1.
Definizioni
Le fonti del diritto, e in particolare gli atti normativi, pongono regole generali e astratte. Gli individui e i loro
comportamenti sono invece particolari e concreti, è compito dei soggetti che si occupano dell’APPLICAZIONE
DEL DIRITTO applicare le norme giuridiche, generali e astratte, ai casi specifici e concreti.
La PA agisce attraverso ATTI AMMINISTRATIVI. Sono atti giuridici in quanto comportamenti consapevoli e
volontari che danno luogo a effetti giuridici e tramite essi vengono esercitati i poteri attribuiti dalla legge,
sulla base del principio di prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato.
La categoria degli atti amministrativi è molto vasta e generica e ricomprende gli atti amministrativi dello
Stato, delle Regioni e degli EELL, gli ATTI DI PROGRAMMAZIONE, le DIRETTIVE AMMINISTRATIVE o anche i
MERI ATTI AMMINISTRATIVI privi di rilevanza esterna ma attraverso cui si snoda il processo amministrativo.
Quindi gli atti amministrativi che producono effetti esterni e quindi influiscono sulle situazioni giuridiche dei
soggetti cui sono destinati, si chiamano PROVVEDIMENTI AMMINISTRATIVI. Generalmente i provvedimenti
amministrativi sono il risultato del procedimento amministrativo.
13.1.2.
Caratteri del provvedimento amministrativo
I provvedimenti amministrativi hanno in comune alcune caratteristiche:
a) UNILATERALITA’ e AUTORITARIETA’. Con questi termini si indica il particolare potere che distingue
l’autorità amministrativa, che agisce unilateralmente senza il consenso del destinatario, e
autoritariamente per la prevalenza dell’interesse pubblico che persegue;
b) TIPICITA’. Con questo termine si indicano le conseguenze dell’applicazione del principio di legalità.
L’amministrazione può esercitare poteri autoritativi solo se la legge glieli conferisce: la legge deve
precisare che tipo di provvedimento l’amministrazione può emanare (NORMATIVITA’) e indicare
quale interesse pubblico lo giustifichi, quali siano i presupposti per la sua emanazione, attraverso
quale procedimento debba essere formato e quali effetti esso produca;
c) ESECUTIVITA’ e ESECUTORIETA’. Con questi termini si indica l’idoneità dei provvedimenti
amministrativi ad essere direttamente esecutivi, senza la necessità di un preventivo intervento del
giudice (esecutività), nonché la capacità che la legge riconosce talvolta all’amministratore di portare
direttamente in esecuzione coattiva determinati provvedimenti (esecutorietà);
13.2. Tipologia dei provvedimenti amministrativi
Se classifichiamo i provvedimenti amministrativi dal punto di vista degli interessi del privato che ne è
destinatario, la grande divisione passa tra i PROVVEDIMENTI FAVOREVOLI e i PROVVEDIMENTI
SFAVOREVOLI. La distinzione è intuitiva:
a) i primi ampliano la sfera giuridica del privato (PROVVEDIMENTI AMPLIATIVI, per mezzo di
AUTORIZZAZIONI o CONCESSIONI, AMMISSIONI, ESONERI, ESENZIONI o INCENTIVI);
b) i PROVVEDIMENTO SFAVOREVOLI sono quelli che incidono negativamente nella sfera giuridica del
privato, comportando una limitazione parziale o totale di un diritto (ORDINI, DIVIETI,
ESPROPRIAZIONI, REQUISIZIONI oppure SANZIONI AMMINISTRATIVE).
13.3. Discrezionalità amministrativa
L’attività di applicazione delle leggi da parte della PA è solo raramente un’attività di semplice esecuzione
della legge, priva di qualsiasi margine di valutazione di opportunità. Non tanto per quanto riguarda le
ATTIVITA’ VINCOLATE, quanto per il margine di discrezionalità nel perseguimento dell’INTERESSE
PUBBLICO.
Un soggetto privato è libero di comportarsi come ritiene nel rispetto delle leggi (LICEITA’ ovvero vincolo
negativo), mentre un soggetto pubblico è vincolato strettamente alle leggi: che lo istituisce, ne definisce le
finalità, gli obiettivi e l’interesse pubblico che deve perseguire. Non potendo però la legge prevedere tutto
quanto necessario alla PA per raggiungere l’interesse pubblico definito, l’attività della PA non è più solo di
mera esecuzione ma richiede delle scelte, legittime se orientate verso l’interesse pubblico definito
(LEGITTIMITA’ DELL’ATTIVITA’ AMMINISTRATIVA)
Lo spazio di scelta che la legge attribuisce alla PA si chiama DISCREZIONALITA’ AMMINISTRATIVA e può
riguardare il se, quando, quanto e come. All’amministrazione è prescritto di rispettare le prescrizioni di legge,
svolgendo un’adeguata ISTRUTTORIA per poi procedere alla valutazione degli elementi acquisiti comparando
gli interessi in gioco e quindi al loro bilanciamento. Il criterio che presiede la valutazione è il PRINCIPIO DI
PROPORZIONALITA’ che significa:
1) congruità del provvedimento al raggiungimento del fine;
2) massima limitazione del sacrificio di altri interessi pubblici;
3) massima limitazione del sacrificio di interessi privati;
4) massima efficacia degli strumenti adottati in un rapporto tra risultati-costi;
Nella motivazione deve trasparire la razionalità e la ragionevolezza del procedimento e del ragionamento che
ha guidato l’amministrazione nell’uso del potere discrezionale. Ed è proprio la motivazione l’oggetto
principale su cui appunta l’attenzione del giudice chiamato a sindacare la legittimità dell’atto.
13.4. Vizi del provvedimento amministrativo
13.4.1.
Definizioni
I vizi del provvedimento amministrativo ne compromettono la validità. Le nozioni di EFFICACIA e di
VALIDITA’ si applicano anche ai provvedimento amministrativi.
I casi di invalidità – detti anche VIZI DEL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO – vanno distinti in due ampie
categorie. I casi di nullità dell’atto amministrativo da quelli di illegittimità.
La nullità è causata da motivi gravi che gli impediscono di perfezionare la sua formazione:
• perché emesso da un soggetto sprovvisto di autorità amministrativa;
• perché l’oggetto dell’atto è indeterminato o inidoneo, o il contenuto è illecito;
• perché la volontà del soggetto agente è viziata da violenza fisica;
• perché manca di forma essenziale, quando tale forma è prescritta dalla legge;
L’ILLEGITTIMITA’ dell’atto amministrativo copre l’intera area del contrasto tra l’atto e le norme vigenti che si
inserisce tra le ipotesi della nullità e quelle della mera IRREGOLARITA’.
13.4.2.
Ipotesi di illegittimità dell’atto amministrativo
Per tradizione, i vizi di legittimità degli atti amministrativi sono divisi in 3 categorie:
a) INCOMPETENZA: si ha quando il provvedimento è emanato da un’amministrazione che ha potestà
sulla materia, ma da un organo incompetente (INCOMPETENZA RELATIVA);
b) VIOLAZIONE DI LEGGE: è il puntuale contrasto tra il provvedimento con qualsiasi norma giuridica
vigente. Questa categoria è da intendersi in senso residuale rispetto alla prima e all’ultima;
c) ECCESSO DI POTERE: è il vizio specifico della discrezionalità amministrativa. Esso quindi non può
colpire gli atti vincolati della PA, ma nasce dalla volontà del giudice di annullare i provvedimenti
amministrativi che, pur non presentando vizi di incompetenza o violazione di legge, si
manifestassero chiaramente viziati nel ragionamento e nelle valutazioni attraverso le quali si è
formata la volontà dell’organo amministrativo.
13.4.3.
Figure sintomatiche dell’eccesso di potere
Le FIGURE SINTOMATICHE DELL’ECCESSO DI POTERE sono le ipotesi tipiche di difetti nel processo di
formazione delle scelte discrezionali della PA:
a) SVIAMENTO DI POTERE. Quando un provvedimento, previsto per un determinato interesse, viene
impiegato per un fine del tutto diverso. Si viola quindi la tipicità del provvedimento;
b) TRAVISAMENTO DEI FATTI. Quando un provvedimento si basa su un’erronea ricostruzione delle
circostanze;
c) CONTRADDITORIETA’ INTERNA o EVIDENTE ILLOGICITA’. Quando un provvedimento si basa su
premesse inconsistenti o peggio contradditorie;
d) DISPARITA’ DI TRATTAMENTO. E’ la violazione del principio di uguaglianza;
e) VIZI DELLA MOTIVAZIONE. Di per sé l’assenza della motivazione nei processi discrezionali
costituisce violazione di legge e dalla motivazione il giudice può eventualmente rintracciare sintomi
dell’eccesso di potere che ha portato alla decisione;
f) VIOLAZIONE DELLE PRASSI AMMINISTRATIVE. Quando un’amministrazione, senza un’adeguata
motivazione, si discosta da circolari, direttive o dalla costante interpretazione;
g) INGIUSTIZIA MANIFESTA. Quando per esempio avviene una lesione della proporzionalità tra
infrazione e sanzione;
Questa serie di figure servono a dotare il giudice degli strumenti per verificare la validità degli atti
amministrativi senza entrare nel MERITO AMMINISTRATIVO, che non è competenza della magistratura ma
dell’organo politico.
E’ importante notare che, essendo il procedimento che porta al provvedimento composta anche da numerosi
atti amministrativi, se un vizio colpisce anche uno solo degli atti che concorrono alla determinazione del
provvedimento quest’ultimo perde interamente di validità (INVALIDITA’ DERIVATA).
13.4.4.
L’autotutela
La PA che emana un provvedimento viziato può, prima che esso venga annullato da un giudice, utilizzare
alcuni strumenti per riparare i vizi. Si parla in questi casi di SANATORIA. Se l’atto è viziato per incompetenza,
può essere RATIFICATO anche dopo la pubblicazione dall’organo competente. Se è viziato il procedimento
dell’atto, tale procedimento può essere CONVALIDATO mediante il completamento con l’atto mancante.
Ovviamente non tutti i vizi sono sanabili. In questi casi l’amministrazione può procedere, in AUTOTUTELA,
emanando un ulteriore provvedimento: l’ANNULLAMENTO D’UFFICIO. Inoltre il Governo dispone di un potere
di ANNULLAMENTO D’UFFICIO di ogni atto amministrativo emanato da qualsiasi autorità amministrativa in
nome di uno specifico interesse pubblico.
13.5. Tutela nei confronti dei provvedimenti amministrativi
13.5.1.
Definizioni
La tutela degli interessi del privato può seguire due strade: il ricorso amministrativo e il ricorso
giurisdizionale. Il RICORSO AMMINISTRATIVO è un’istanza che il privato rivolge all’amministrazione per
chiedere l’annullamento o la revoca di un provvedimento illegittimo o inopportuno; il RICORSO
GIURSDIZIONALE è lo strumento con cui il privato impugna il provvedimento illegittimo di fronte al giudice,
rivolgendosi ad un organo terzo.
13.5.2.
Ricorsi amministrativi
Vi sono 4 tipi di ricorso amministrativo:
a) il RICORSO GERARCHICO PROPRIO è un rimedio riconosciuto in via generale attraverso il quale il
privato può chiedere all’organo gerarchicamente superiore, a quello che ha emanato l’atto
impugnato, l’annullamento, la revoca o la riformulazione del provvedimento entro 30 giorni
dall’avvenuta notifica del provvedimento. Se entro 90 giorni dal ricorso, l’amministrazione non
risponde il ricorso si intende rigettato;
b) il RICORSO GERARCHICI IMPROPRIO è un rimedio fruibile solo ove previsto dalla legge;
c) il RICORSO IN OPPOSIZIONE è un rimedio anch’esso fruibile solo qualora previsto per legge e
consiste nel ricorrere al medesimo organo che ha adottato il provvedimento impugnato dal privato.
Anche in questo caso vale il silenzio-rigetto entro 90 giorni;
d) il RICORSO STRAORDINARIO AL CAPO DELLO STATO è una soluzione estrema praticabile solo
quando non vi sia altra possibilità di ricorso o in alternativa al ricorso giurisdizionale. Può essere
presentato anche a 120 giorni dalla notificazione dell’atto e la decisione sul ricorso è imputabile al
parere obbligatorio del Consiglio di Stato;
13.5.3.
Il ricorso giurisdizionale
Il privato, destinatario di un provvedimento illegittimo, non ha alcuna necessità di ricorrere in via
amministrativa, perché può impugnare il provvedimento direttamente davanti al giudice. L’art. 113 della
Costituzione garantisce “contro gli della PA, è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli
interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria e amministrativa” aggiungendo poi che “tale
tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate
categorie di atti”.
La Costituzione stessa ha anche stabilito che la maggior parte delle
fossero attribuite di competenza alla magistratura ordinaria, ma a
AMMINISTRATIVO. Sostanzialmente quando cittadino e PA stanno
giudice ordinario, quando il conflitto è tra interesse pubblico e
amministrativo.
13.5.4.
vertenze tra privati cittadini e la PA non
un giudice speciale, chiamato GIUDICE
sullo stesso piano la competenza è del
privato, la competenza è del giudice
Diritto soggettivo e interesse legittimo
Secondo la nozione tradizionale si ha un DIRITTO SOGGETTIVO quando un determinato bene o vantaggio è
garantito dall’ordinamento giuridico. Quando il privato subisce una compressio del diritto soggettivo, in nome
della prevalenza dell’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione, l’ordinamento gli garantisce
l’interesse alla legittimità dell’atto. Questa situazione prende il nome di INTERESSE LEGITTIMO.
Riformulando la distinzione del capitoletto precedente, qualora la PA abbia agito priva di autorità la
magistratura competente è quella ordinaria, invece qualora la PA abbia agito con autorità la magistratura
competente è quella amministrativa.
14.
Diritti e libertà
14.1.
Libertà e diritti costituzionalmente garantiti
14.1.1.
Definizioni
Una delle componenti essenziali presenti in tutte le costituzioni moderne è la disciplina dei diritti e delle
libertà. Essa costituisce un elemento fondamentale per la definizione della forma di stato.
È necessario introdurre alcune nozioni:
a) si parla generalmente di SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE per indicare sia le posizioni
giuridiche attive o di vantaggio (libertà e diritti) che le posizioni giuridiche di passive o di svantaggio
(obblighi e doveri). Le posizioni attive si suddividono generalmente in LIBERTA’ e in DIRITTI. Libertà
generalmente intese in senso negativo (i paletti) e diritti in senso positivo (la pretesa di);
b) un’altra distinzione assai comune è tra DIRITTI ASSOLUTI e DIRITTI RELATIVI. Assoluti non vuol
dire illimitati, ma erga omnes. Possono essere i DIRITTI DELLA PERSONA (libertà personale,
domicilio, privacy) oppure DIRITTI REALI (la proprietà), e hanno quindi come oggetto una libertà il
cui esercizio non richiede prestazioni di terzi quanto piuttosto l’astensione. Così l’effetto erga omnes
è essenzialmente un divieto di interferenza per gli altri soggetti. Al contrario i diritti relativi per
essere fatti valere da parte di determinati soggetti richiedono una prestazione di terzi: questi sono i
DIRITTI SOCIALI;
c) si può inserire anche la distinzione tra DIRITTI INDIVIDUALI E DIRITTI FUNZIONALI, ovvero tra i
diritti (individuali) a vantaggio del singolo e i diritti (funzionali) attribuiti al singolo a vantaggio della
comunità. Nel primo caso la libertà personale, nel secondo la proprietà;
14.1.2.
Strumenti di tutela
La vera novità delle costituzioni moderne è sicuramente, oltre ad aver ampliato l’elenco dei diritti con quelli
sociali, è di aver potenziato gli strumenti di garanzia dei diritti classici. I congegni di protezione dei diritti e
delle libertà sono ovviamente diversi e diversi sono i piani su cui operano. Eccone i principali:
a) la riserva di legge;
b) la riserva di giurisdizione è un meccanismo che rafforza la riserva di legge, prevedendo l’intervento
del giudice per l’autorizzazione alla restrizione delle libertà;
c) la tutela giurisdizionale per cui “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e
interessi legittimi”;
d) la responsabilità del funzionario come stabilito dall’art. 28 della Costituzione si concretizza nella
prassi in forme di responsabilità penale e amministrativa per i funzionari della PA e la responsabilità
civile solidale dello Stato;
e) il sindacato di legittimità costituzionale, ovvero la Corte costituzionale;
14.2.
Principio di eguaglianza
L’art.3 della Costituzione enuncia il PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA e ne dà una formulazione complessa. Esso
esprime il principio di eguaglianza formale, nonché una serie di specifici divieti di discriminazione, e il
principio di eguaglianza sostanziale.
a) la formulazione tradizionale del principio di EGUAGLIANZA FORMALE prescrive che si devono trattare
in modo eguale situazioni eguali e in modo diverso situazioni diverse. Questa enunciazione è rivolta
essenzialmente al legislatore cui vieta di creare privilegi o discriminazioni ingiustificate. Questo
concetto è all’origine del controllo di RAGIONEVOLEZZA delle leggi, che è diventato lo schema che
domina larga parte dei giudizi della Corte costituzionale;
b) il NUCLEO FORTE DEL PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA vieta distinzioni “di sesso, di razza, di lingua, di
religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Questo non comporta il divieto
assoluto per il legislatore di introdurre differenziazioni nel senso che ammette una legislazione
positiva (o premiale) nella misura necessaria ad impedire discriminazioni di fatto;
c) il PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA SOSTANZIALE punta esattamente a “rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale” che impediscono l’eguale godimento dei diritti e delle libertà con un
programma d’intervento volto a eliminare gli handicap sociali attraverso la legislazione positiva. Il
punto di equilibrio tra eguaglianza formale e sostanziale è da ricercarsi nel giudizio di
ragionevolezza, non è determinato in Costituzione ed è una mediazione tra gli eccessi della dura lex
(formale) e della REVERSE DISCRIMINATION (sostanziale);
14.3.
L’applicazione delle garanzie costituzionali
14.3.1.
Cittadini e stranieri
In certi casi la Costituzione riconosce a tutti la tutela dei diritti, in altri casi solo ai cittadini (vedi quelli
politici). Il problema che qualcuno vorrebbe porre è se e in quale misura i diritti costituzionali destinati ai
cittadini possono essere estesi agli stranieri.
Questa estensione non è automatica poiché l’art. 3.1 della Costituzione fa esplicito riferimento ai cittadini
dello Stato.
Va preso in considerazione l’art. 10.2 per lo STATUS GIURIDICO DELLO STRANIERO pone una riserva di
legge rinforzata: “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei
trattati internazionali”. E’ sulla base di questa disposizione che si possono giustificare estensioni dei diritti
fondamentali agli stranieri anche nei casi in cui la Costituzione sembrerebbe riservarli ai soli cittadini.
La Corte costituzionale attraverso un doppio meccanismo ha esteso l’applicazione delle garanzie riconosciute
agli stranieri in base ai trattati internazionali sull’interpretazione dell’art. 2 dove parla di diritti inviolabili nel
senso di diritti dell’uomo e non solo del cittadino. Con alcune precisazioni:
a) nell’applicazione l’estensione dei diritti opera solo per quelli definibili inviolabili sulla base della
Costituzione. Per altri diritti, vale il contenuto delle Preleggi dove stabiliscono che lo straniero possa
godere dei diritti civili del cittadino dello Stato a condizione di reciprocità, ovvero che nello Stato di
provenienza dello straniero vengano riconosciuti gli stessi diritti ai cittadini italiani;
b) l’eguaglianza dello straniero nel godimento dei diritti inviolabili è un principio, non una regola
tassativa. Questo significa che non è vietato prevedere per il legislatore particolari norme per le i
cittadini stranieri presenti sul territorio;
14.3.2.
L’evoluzione delle nozioni costituzionali
Tutte le disposizioni costituzionali impiegano termini tecnici che necessitano di una definizione. Ognuno di
questi termini presenta rilevanti problemi di definizione. Sono termini tecnici perché impiegati usualmente
dai tecnici di diritto e spesso dalla legislazione precedente alla Costituzione, ma questo non significa affatto
che la nozione costituzionale che essi evocano debba essere ancorata agli usi terminologici in voga al
momento dell’entrata in vigore della Costituzione.
La Corte costituzionale ha sistematicamente respinto l’idea che le nozioni costituzionali siano pietrificate,
ossia che esse debbano essere intese nel senso cui venivano impiegate dai giuristi o dalla legislazione
precedente.
14.3.3.
L’anacronismo legislativo
Se l’area di beni o degli interessi protetti dalla Costituzione è in continua mutazione, ciò significa che la
disposizione legislativa che la Corte ha ritenuto un giorno non contrastante con le garanzie sancite da una
disposizione costituzionale può risultare con essa compatibile.
E’ il c.d. ANACRONISMO LEGISLATIVO, cui spesso la Corte si richiama per modificare precedenti sentenze di
rigetto, mutando indirizzo interpretativo. L’anacronismo può essere causato da diverse ragioni.
14.3.4.
L’evoluzione indotta dal diritto internazionale
Sempre più spesso, la Corte costituzionale fa uso delle convenzioni internazionali per aggiornare il significato
delle disposizioni costituzionali. Ma salvo l’improbabile ipotesi che sia una norma di rango costituzionale a
dare esecuzione ad un trattato, le norme di questo non hanno mai potuto costituire un parametro della
validità delle leggi ordinarie, non essendo ad esse superiori nella gerarchia delle fonti.
Questa situazione ha reso particolarmente problematica l’applicazione delle convenzioni internazionali che
tutelano i diritti umani, e soprattutto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La stessa
giurisprudenza della Corte di Strasburgo, fonte interpretativa della CEDU, lascia traccia nelle motivazioni
della Corte costituzionale e diviene perciò un fattore di interpretazione dinamica delle disposizioni
costituzionali sui diritti. Nonostante questo la Corte costituzionale ha mostrato scarse aperture nella direzione
del riconoscimento di uno status differenziato della CEDU rispetto ad altri trattati e ancora meno nel senso di
riconoscere a tutti i trattati in rango costituzionale.
Un mutamento potrebbe aversi a seguito della modifica dell’art. 117 introdotta dalla riforma costituzionale
del 2001 che prevede il vincolo degli obblighi internazionali per il legislatore nazionale e regionale.
14.3.5.
Bilanciamento dei diritti
Il BILANCIAMENTO DEI DIRITTI è una tecnica impiegata in genere da tutte le corti costituzionali per
risolvere questioni di costituzionalità in cui si registri un contrasto tra diritti o interessi diversi.
I diritti e le libertà costituzionali sono espressi come PRINCIPI. I principi sono un tipo di NORMA GIURIDICA,
che si distingue dalle REGOLE, perché dotati di un elevato grado di genericità e non sono quindi
circostanziati. In quanto principi, i diritti sono affermati in modo assoluto, senza gerarchie o precedenze.
Si possono individuare almeno 3 ipotesi generali di conflitto tra interessi (o diritti):
a) concorrenza tra soggetti diversi nel godimento dello stesso diritto: le risorse sono limitate, quindi c’è
un problema di regolazione della concorrenza;
b) concorrenza tra interessi individuali non omogenei;
c) concorrenza tra interessi individuali e interessi collettivi;
14.3.6.
I nuovi diritti
La tecnica del bilanciamento degli interessi consente alla Corte di prendere in considerazione anche interessi
che non hanno uno specifico riconoscimento in Costituzione. Spesso vengono chiamati NUOVI DIRITTI, per
indicare l’assenza di una specifica disciplina costituzionale.
Parte della dottrina ha ritenuto che questi ultimi abbiano un fondamento nell’art. 2 della Costituzione. La
disposizione “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” è letta come un CATALOGO
APERTO DEI DIRITTI, ossia una formula in bianco che consente di importare nel sistema dei diritti tutelati
dalla nostra Costituzione tutti quegli interessi che l’evoluzione della coscienza sociale porta ad accreditare. La
logica ideologica di questa impostazione si muove sulla base dell’idea che i diritti preesistano al diritto e che
quindi quest’ultimo non debba fare altro che recepirli.
La Corte costituzionale è stata in passato assai ferma a negare la lettura aperta dell’art. 2, ritenendo i diritti
inviolabili quelli di cui trattano gli articoli successivi (CATALOGO CHIUSO DEI DIRITTI).
14.4. I diritti nella sfera individuale
14.4.1.
Definizioni
La logica usata dalla Costituzione per scrivere le garanzie dei diritti procede secondo una logica precisa, che
presuppone uno schema di classificazione:
• artt. 13-16, diritti legati all’individuo;
• artt. 17-21, diritti legati all’attività pubblica degli individui;
• artt. 29-34, diritti di solidarietà sociale;
• artt. 35-47, diritti economici;
• artt. 48- 51, diritti politici;
I diritti legati alla sfera personale sono costruiti a spirale partendo dall’HABEAS CORPUS (art. 13), ovvero la
libertà della persona, la sua tutela fisica. Essendo gli spazi di garanzia di ciascuna libertà adiacenti e talvolta
sovrapposti, ed essendo che l’intensità della tutela varia attenuandosi man mano che ci si allontano dal
centro della spirale, ecco che è indispensabile decidere se una certa situazione reale ricada sotto la garanzia
accordata da questo o da quell’articolo della Costituzione.
14.4.2.
La libertà personale
14.4.2.1.
Definizioni
Nella sua accezione più ristretta e storica la LIBERTA’ PERSONALE coincide con la libertà dagli arresti, ossia
con l’HABEAS CORPUS. Il nucleo fondamentale della libertà personale è dunque la libertà fisica, la
disponibilità della propria persona in termini quantitativi e qualitativi.
Tra i vari livelli di limitazione quantitativa della libertà personale, quelli minori sono considerati prestazioni
imposte e non rientrano sotto la tutela costituzionale (le impronte digitali per esempio). Il concetto
qualitatitativo, superando il concetto della violenza fisica, riscontra in qualsiasi coercizione che leda la dignità
della persona e ne comporti la degradazione giuridica la violazione del diritto.
Alla luce di questo, ancor più che l’elemento fisico, ciò che contraddistingue la violazione della libertà
personale è il livello di degradazione giuridica.
14.4.2.2.
Strumenti di tutela
Gli strumenti di tutela della libertà personale predisposti all’art. 13.2 sono i più forti che la Costituzione
preveda: riserva assoluta di legge e di giurisdizione.
Inoltre l’art. 111 prevede che contro tutti i provvedimenti giurisdizionali che incidono sulla libertà personale
sia sempre ammesso ricorso davanti alla Corte di cassazione.
L’art. 13.3 prevede un’eccezione, coperta da riserva di legge, per cui le autorità di PS possano adottare
provvedimenti restrittivi provvisori comunicati all’autorità giudiziaria entro 48 ore e nello stesso lasso di
tempo da essa convalidati. Se non convalidati si intendono revocati e privi di ogni effetto.
14.4.2.3.
Restrizioni e pene
Sono diversi i principi, non solo l’art. 13.2, che operano per l’individuazione del tipo di restrizione cui può
essere sottoposta la libertà personale:
a) il divieto di ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizione (art. 13.3);
b) “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato” (art. 27.3);
c) l’esclusione della pena di morte come corollario dell’art. 27.3;
d) la giurisprudenza più recente della Corte costituzionale ha allargato il giudizio di ragionevolezza
anche alla misura delle pene, cioè alla proporzione che deve sussistere tra gravità della pena e
gravità del reato;
14.4.2.4.
Trattamenti sanitari obbligatori
Per TRATTAMENTO SANITARIO OBBLIGATORIO si intende ogni tipo di attività diagnostica o terapeutica
imposta all’individuo. Qualora il trattamento abbia finalità di PS ricade sotto l’art. 13, qualora invece abbia
finalità sanitarie ricade sotto l’art. 32.2 dedicato alla tutela della salute. Il regime di garanzia accorda la
riserva di legge ma non di giurisdizione. L’obbligo imposto per legge di sottoporsi a trattamento medico deve
essere motivato esclusivamente da esigenze di tutela della salute pubblica. Per la salute individuale prevale
la libertà di scelta individuale.
14.4.3.
La libertà di domicilio
14.4.3.1.
Definizioni
Secondo una definizione classica il DOMICILIO è la proiezione spaziale della persona.
Secondo l’ordinamento giuridico vi sono più definizioni del domicilio. Il codice civile lo intende il luogo in cui
essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi, distinguendola dalla RESIDENZA che invece è il
luogo dove la persona ha dimora abituale. La DIMORA invece è una realtà di fatto che indica il luogo dove la
persona soggiorna occasionalmente.
Per il diritto penale il domicilio è l’abitazione e ogni “altro luogo di privata dimora”. Chi violi il domicilio
“contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi s’introduce clandestinamente o
con l’inganno” incorre in una sanzione penale.
Quindi il significato attribuibile a domicilio riferendosi all’art. 14 della Costituzione è quello del codice penale.
Anche se la Corte costituzionale ha mostrato disponibilità nell’estendere la norma al di là di questa norma
per includervi anche ambiti estranei come può essere l’automobile.
14.4.3.2.
Strumenti di tutela
Come la libertà personale, anche il domicilio è inviolabile (art. 14.1). Al domicilio si estendono le medesime
garanzie previste per la libertà personale, ossia riserva di legge assoluta e di giurisdizione per atti di
ispezione, perquisizione e sequestro (art. 14.2). La libertà di domicilio è garantita non solo alle persone
fisiche ma anche a quelle giuridiche (società o associazioni).
Il codice di procedura penale ci fornisce la definizione dei termini ispezione, perquisizione e sequestro come
mezzi di ricerca della prova penale:
1. ISPEZIONE, per “accertare le tracce e gli effetti materiali del reato”;
2. PERQUISIZIONE, serve per la ricerca di cose pertinenti al reato;
3. SEQUESTRO, successivo alla perquisizione per l’ottenimento della cosa cercata;
Per le procedure di emergenza vale quanto detto relativamente all’art. 13.3 sulla libertà personale.
14.4.3.3.
Leggi speciali
L’art. 14.3 ammette eccezioni alla disciplina generale ma solo con particolari limiti riguardo l’oggetto e la
finalità e comunque con riserva di legge rinforzata. La legge può consentire questo tipo di azioni solo per
motivi di sanità, incolumità pubblica o per fini economici e fiscali. Allora la PA potrà procedere all’accesso al
domicilio anche senza la previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria.
14.4.4.
La libertà di corrispondenza e comunicazione
14.4.4.1.
Definizioni
L’art. 15 della Costituzione tutela la libertà e la segretezza di ogni forma di comunicazione a partire da quella
più tradizionale, ovvero la corrispondenza.
A differenza della libertà di pensiero, che è una libertà pubblica, la libertà di comunicazione è primariamente
una libertà personale e privata. La segretezza è perciò l’elemento che caratterizza la disciplina di questo
articolo.
Estendendo la tutela costituzionale riferita alla corrispondenza, si può sintetizzare che l’art. 15 tutela la
segretezza di ogni comunicazione realizzata attraverso strumenti idonei a garantire la segretezza stessa del
messaggio. Viene punito anche l’impedimento nelle comunicazioni, telefoniche o informatiche.
14.4.4.2.
Strumenti di tutela
La libertà e la segretezza della corrispondenza sono tutelate attraverso il doppio meccanismo della riserva di
legge e giurisdizione.
14.4.5.
La libertà di circolazione
14.4.5.1.
Definizioni
Molto vicina alla libertà personale è la LIBERTA’ DI CIRCOLAZIONE E SOGGIORNO. La prima comprende la
seconda, ma la differenziazione tra le due libertà sta nell’assenza nella violazione della seconda del carattere
coercitivo e degradante. Infatti la legge può disporre limitazione alla circolazione delle persone soltanto in via
generale e non contro un singolo, e sempre e comunque per motivi di sanità e sicurezza.
La libertà di circolazione comprende sia la libertà di espatrio che la libertà di scelta del luogo di esercizio
delle proprie attività economiche. L’art. 16.2 sottopone la LIBERTA’ DI ESPATRIO agli obblighi di legge. La
libertà di scelta del luogo di esercizio delle proprie attività economiche è stata rafforzata dalla UE con il
DIRITTO DI STABILIMENTO ampliato all’intero territorio della Comunità per ciascun cittadino comunitario.
14.4.5.2.
Strumenti di tutela
La libertà di circolazione è garantita ai cittadini da una riserva di legge rafforzata per contenuto, ma non da
riserva di giurisdizione.
Secondo alcune sentenze della Corte costituzionale la locuzione “in via generale” esprime il principio di
eguaglianza e non limita il raggio di azione dei provvedimenti di restrizione della circolazione alle categorie di
cittadini escludendo che possano essere adottati nei confronti di singoli.
Allora questo termine non starebbe ad indicare l’ORDINE PUBBLICO IN SENSO MATERIALE (incolumità
fisica), ma l’ORDINE PUBBLICO IN SENSO IDEALE (morale). Questo in ogni caso non può riguardare ragioni
politiche (art. 16.1).
14.5. I diritti nella sfera pubblica
14.5.1.
Definizioni
I diritti che attengono alla sfera pubblica dell’individuo sono posti a tutela della dimensione sociale della
persona. Essa si esprime nella direzione della libertà di espressione, di riunione e di associazione.
E’ chiaro che queste libertà sono strettamente connesse all’iniziativa politica, o meglio l’attività politica si
svolge per mezzo di esse. Quindi le norme sui diritti pubblici dell’individuo garantiscono la sfera degli
interessi sociali e il buon funzionamento del dibattito democratico.
14.5.2.
La libertà di riunione
14.5.2.1.
Definizioni
Per RIUNIONE si intende la compresenza volontaria di più persone nello stesso luogo. E’ la volontà di stare
insieme per uno scopo comune a distinguere una riunione da altre forme di assembramento.
14.5.2.2.
Condizioni di legittimità e scioglimento delle riunioni
La condizione che pone la Costituzione al diritto di riunione è che essa si svolga “pacificamente e senza
armi”. L’interesse che l’art. 17.1 vuole tutelare è l’ORDINE PUBBLICO in senso materiale. A questa la legge
aggiunge anche il possesso di ARMI IMPROPRIE, ovvero gli strumenti utilizzabili per l’offesa alla persona
secondo le circostanze, e l’uso di caschi protettivi o altri mezzi che non rendano identificabile la persona.
14.5.2.3.
Tipologie di riunione e preavviso
A seconda del luogo in cui si svolgono, le riunioni si distinguono in riunioni in luogo privato, riunioni in luogo
aperto al pubblico e riunioni in luogo pubblico.
I LUOGHI APERTI AL PUBBLICO sono quelli in cui l’accesso del pubblico è soggetto a modalità determinate
da chi ne ha la disponibilità.
LUOGHI PUBBLICI sono infine quelli ove ognuno può transitare liberamente. La libertà di riunione può
divenire in contrasto con la libertà di circolazione qualora si trasformasse in BLOCCO STRADALE, punito con
sanzione penale.
Solo per le riunioni in luogo pubblico l’art. 17.2 prevede l’obbligo del preavviso, almeno 3 giorni prima al
questore (responsabile della PS), ma non di autorizzazione. Il questore può vietare preventivamente la
riunione ma soltanto per le classiche ragioni di eccezionalità (art. 17.2).
14.5.3.
La libertà di associazione
14.5.3.1.
Definizioni
Per ASSOCIAZIONE s’intendono quelle formazioni sociali che hanno base volontaria ed un nucleo, sia pure
embrionale, di organizzazione e di tendenziale stabilità. La disciplina dell’art. 18 della Costituzione si rivolge a
tutte le associazioni, in qualsiasi forma, tuttavia successivamente la stessa Costituzione detta norme
specifiche per le associazioni religiose, i sindacati e i partiti politici.
14.5.3.2.
Strumenti di tutela
L’art. 18.1 pone 3 garanzie alla libertà di associazione:
f) La prima garanzia riguarda l’adesione all’associazione che deve essere libera, anche se la Corte
costituzionale ha dichiarato compatibile con l’art. 18.1 tutta una serie di ASSOCIAZONI
OBBLIGATORIE cui è necessario aderire per svolgere determinate attività. Queste associazioni sono
ibridi tra il soggetto privato e l’ente pubblico (ordini professionali, federazioni sportive e consorzi
obbligatori). Lo statuto dell’associazione può regolare ma mai impedire il diritto di recesso del socio;
g) la seconda garanzia riguarda l’istituzione dell’associazione, che può avvenire senza autorizzazione;
h) la terza garanzia, costituita dalla riserva di legge rinforzata, dove dice “per fini che non vietati al
singolo dalla legge penale”. Così le associazioni possono fare tutto ciò che fanno i singoli;
14.5.3.3.
Le associazioni vietate
L’art. 18.2 vieta solo due tipi di associazione (cui si aggiunge il divieto di riorganizzare in qualsiasi forma il
disciolto partito fascista. Si tratta di associazioni segrete e di associazioni paramilitari:
a) “si considerano ASSOCIAZIONI SEGRETE, come tali vietate dall’art. 18 della Costituzione, quelle che,
anche all’interno di associazioni palesi, occultando la loro esistenza ovvero tenendo segrete
congiuntamente finalità e attività sociali ovvero rendendo sconosciuti, in tutto o in parte ed anche
reciprocamente, i soci, svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio degli organi costituzionali,
di amministrazioni pubbliche, di enti pubblici anche economici, nonché di servizi pubblici essenziali di
interesse nazionale”. La legge P2 sanziona penalmente l’appartenenza ad associazioni segrete e
risolve finalmente il problema di come si deve procedere allo scioglimento: ci deve essere una
sentenza irrevocabile che accerti l’esistenza dell’associazione segreta cui segue un DPCM che ne
ordina lo scioglimento e la confisca dei beni;
b) il secondo tipo di associazioni vietate dall’art. 182 sono le ASSOCIAZIONI PARAMILITARI, ossia
quelle che perseguono anche indirettamente scopi politici mediante organizzazioni di carattere
militare. Due condizioni devono verificarsi perché diventi applicabile il divieto costituzionale: che
l’associazione persegua uno scopo politico, di per sé lecito, e che abbia un’organizzazione, una
struttura di tipo militare, anch’essa di per sé lecita. Con questa norma la Costituzione intende
impedire la ricomparsa delle squadre, dei partiti militarizzati che sono in antitesi con il metodo
democratico con cui deve essere determinata la politica nazionale (art. 49). L’associazione paramilitare per essere tale non necessita di essere di per sé armata, e non sono necessarie neppure
azioni di violenza o minaccia, basta la struttura militare dedita a fini politici;
14.5.4.
La libertà religiosa e di coscienza
14.5.4.1.
Definizioni
La LIBERTA’ DI COSCIENZA è la libertà di coltivare profonde convinzioni interiori e di agire di conseguenza.
La Costituzione non regola i processi interiori ma solo le manifestazioni esteriori, quindi le azioni. Di libertà di
coscienza la Costituzione non parla esplicitamente come fa con la libertà di pensiero e di culto, ma risulta
implicito tra i diritti di libertà.
14.5.4.2.
Strumenti di tutela
La libertà di coscienza e la libertà religiosa sono tutelate attraverso un ricco strumentario:
a) il divieto di discriminazione sancito dal principio di eguaglianza;
b) l’eguaglianza tra le confessioni religiose, quindi non solo dei singoli ma anche delle formazioni
sociali. Così “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”: eguale libertà
ed eguale trattamento (art. 8 Cost.);
c) la libertà di culto, garantita dall’art. 19 della Costituzione, ovvero il “diritto di professare liberamente
la propria fede”;
d) l’OBIEZIONE DI COSCIENZA, cioè il rifiuto da parte dell’individuo di compiere atti, prescritti
dall’ordinamento, contrari alle proprie convinzioni.
14.5.5.
La libertà di manifestazione del pensiero
14.5.5.1.
Definizioni
La LIBERTA’ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO consiste nella libertà di esprimere le proprie idee e di
divulgarle ad un numero indeterminato di destinatari. Siccome la circolazione delle idee è il presupposto della
democrazia, questa libertà (detta anche LIBERTA’ DI ESPRESSIONE) è da sempre considerata la pietra
angolare del sistema democratico.
Nessuna selezione può essere compiuta tra le idee quanto a scopi, contenuti o circostanze. Un passaggio
specifico della Costituzione tutela la LIBERTA’ DI INSEGNAMENTO (art. 33.1).
14.5.5.2.
Limite del buon costume
L’unico limite che l’art. 21 pone alla libertà di espressione è il BUON COSTUME, la cui definizione è variabile
nel tempo come il concetto di pudore che verrebbe leso da quelle manifestazioni che oltrepassano, appunto,
il buon costume.
14.5.5.3.
I reati d’opinione
Nella legge penale vi sono alcuni reati che si realizzano attraverso l’espressione del pensiero con cui quindi
l’art. 21 della Costituzione dovrebbe contrastare.
La Corte costituzionale invece ha lasciato nell’ordinamento buona parte di questi reati di opinione con le
seguenti motivazioni:
a) pensiero e azione, ovvero la distinzione tra cose pensiero e cose è gia principio di azione.
Quest’argomentazione vale per i reati come l’ISTIGAZIONE, l’APOLOGIA di delitti, la PUBBLICAZIONE
DI NOTIZIE FALSE O TENDENZIOSE, dove fatta salva dall’art. 21 la libertà di pensare queste
fattispecie di reati in astratto, demanda al giudice di valutare se l’espressione possa generare azioni
pericolose;
b) pensiero e offese, ovvero la libertà di espressione non può giungere al punto di offendere l’onore
altrui. E’ il caso dell’INGIURIA e della DIFFAMAZIONE.
E neppure quello di istituzioni riconosciute come possono essere lo Stato o la religione. E’ questo
invece il caso del VILIPENDIO e dell’OLTRAGGIO;
14.5.5.4.
Mezzi di comunicazione
La libertà di espressione è garantita a tutti, e tutti possono esprimere il loro pensiero “con la parola, lo scritto
e ogni altro mezzo di diffusione” (art. 21.1 Cost.). Il problema è che i mezzi di diffusione del pensiero più
efficaci non sono disponibili per tutti, per ragioni di disponibilità, di organizzazione e di costi. Per questo oggi
si ritiene che la libertà di pensiero comprenda anche la LIBERTA’ DI INFORMAZIONE, ovvero il diritto passivo
di essere informati. Da qui nascono le leggi anti-trust che collegano la libertà di espressione, la libertà di
comunicazione alla libertà di iniziativa economica.
14.5.5.5.
Il regime della stampa
Dato il periodo storico in cui fu scritta, la Costituzione disciplina soltanto la STAMPA. Il regime della stampa è
caratterizzato dal divieto di sottoporre la stampa a controlli preventivi. E’ invece ammesso il SEQUESTRO,
cioè un provvedimento di ritiro successivo alla pubblicazione. Il sequestro è circondato da garanzie molto
rigide:
a) riserva di legge assoluta. Il sequestro è possibile in due ipotesi: 1. qualora prefiguri reati
espressamente previsti dalla LEGGE SULLA STAMPA, quale per esempio l’APOLOGIA DEL FASCISMO
2. nel caso di violazione delle norme di responsabilità prescritte dalla legge sulla stampa, per
esempio il divieto di anonimato della stampa e l’iscrizione del direttore responsabile di ciascuna
testata all’ALBO DE GIORNALISTI;
b) riserva di giurisdizione, con le eccezioni previste per la libertà personale e analoghe;
14.5.5.6.
Il regime della radiotelevisione
In assenza di regole costituzionali specifiche, è stato compito della Corte costituzionale elaborare i principi
che devono ispirare la disciplina della radiotelevisione. Ed è stato su sollecitazione della giurisprudenza
costituzionale che il SISTEMA RADIOTELEVISIVO è passato dal regime di monopolio pubblico al sistema
misto attuale.
14.6. I diritti sociali
14.6.1.
Definizione
Per DIRITTI SOCIALI comunemente s’intendono i diritti dei cittadini a ricevere determinate prestazioni dagli
apparati pubblici: sono i diritti caratteristici dello Stato sociale. Non v’è dubbio che i diritti sociali siano
espressi in Costituzione come programmi la cui attuazione è rinviata all’attività successiva degli organi
pubblici. Questi diritti sono ispirati ad esigenze di eguaglianza sostanziale e quindi dal principio di solidarietà
espresso dagli artt. 2 e 3.2 della Costituzione.
I diritti sociali non sono facilmente applicabili ipso facto, devono essere relazionati alla programmazione
economica ma non sono solo spunti programmatici: sono una garanzia, poiché pur essendo comprimibili, per
esempio per esigenze di bilancio, non lo sono in termini assoluti e poi, comunque, godono di una difesa
giurisdizionale.
14.6.2.
Strumenti di tutela
La Costituzione non predispone particolari strumenti di tutela per i diritti sociali: i riferimenti alla legge, alla
Repubblica e allo Stato sono sostanzialmente equivalenti e stanno a significare che questi compiti gravano
sulla PA, o più in generale sugli apparti pubblici. E’ attraverso la legislazione ordinaria che questi diritti
vengono organizzati in prestazione e in servizi: gli strumenti di tutela di cui dispone il cittadino sono quelli
comuni apprestati dall’ordinamento.
14.6.3.
I servizi sociali
Lo strumento con cui i diritti sociali sono resi concreti è costituito dalla rete dei SERVIZI SOCIALI. Si tratta di
un complesso di servizi di cui si occupa un ramo del diritto detto legislazione sociale.
I principali meccanismi attraverso cui si svolge la protezione della sicurezza sociale sono i seguenti:
a) la PREVIDENZA SOCIALE. Tutela i lavoratori ed i loro familiari dai rischi derivanti dalla perdita del
lavoro a causa di malattie o infortuni oppure consente di godere di una pensione al termine del
periodo lavorativo. Ciò a fronte di una contribuzione obbligatoria da parte del lavoratore lungo tutto
l’arco della vita lavorativa e proporzionata alla retribuzione percepita, di cui sono beneficiari alcuni
enti pubblici;
b) l’ASSISTENZA SANITARIA. E’ l’insieme dei servizi di prevenzione e di cura attraverso cui viene
assicurato il diritto alla salute. A tal fine dal 1978 è stato istituito il SSN Servizio Sanitario Nazionale a
cui ogni cittadino è obbligatoriamente iscritto. I suoi servizi sono erogati attraverso le ASL Aziende
Sanitarie Locali con ambito sovracomunale e autonomia imprenditoriale. Da esse dipendono anche
molti ospedali;
c) l’ASSISTENZA SOCIALE. Una recente riforma ha istituito il sistema integrato di interventi e servizi
sociali, alla cui realizzazione partecipano lo Stato, le Regioni e gli EELL;
14.6.4.
Il diritto all’istruzione
L’art. 34 della Costituzione pone due principi: il principio di eguaglianza nell’accesso alla scuola e il diritto
all’istruzione. L’istruzione è anche un dovere, per ciò che riguarda la scuola dell’obbligo.
Ma poiché la scuola è anche d’obbligo e comunque è garantita a chiunque, anche a chi non possiede i
requisiti economici per gravarsi dei costi della medesima, nascono il principio della gratuità della scuola
dell’obbligo e del sistema del DIRITTO ALLO STUDIO per gli altri livelli.
14.6.5.
La libertà della scuola
L’art. 33.1 tutela quella particolare forma di espressione del pensiero che è l’insegnamento, sia esso inteso
come insegnamento scolastico che come qualsiasi altra forma di trasmissione del sapere.
I commi successivi regolano la LIBERTA’ DELLA SCUOLA, imperniata sul principio del pluralismo scolastico.
Accanto alla scuola pubblica, la cui istituzione è obbligatoria per lo Stato, è sancita la libertà delle scuole
private che godono di libertà ideologica e sono quindi ORGANIZZAZIONI DI TENDENZA.
Queste ultime scuole devono essere organizzate senza oneri per lo Stato.
Con la legge 62/2000 si istituisce il SISTEMA NAZIONALE DI ISTRUZIONE.
Le scuole non-statali , per rientrare a fare parte di questo sistema devono rispettare alcuni requisiti:
• che l’insegnamento sia improntato ai principi di libertà della Costituzione;
• che l’iscrizione sia aperta a tutti coloro che ne accettino il progetto educativo;
• che le attività extra-curricolari che esigono l’adesione ad una determinata ideologia o confessione
non siano obbligatorie;
• che vengano istituiti organi collegiali di partecipazione democratica;
• che il personale docente sia fornito del titolo di abilitazione e si applichino i contratti collettivi
nazionali;
14.7. I diritti nella sfera economica
14.7.1.
Definizioni
I diritti nella sfera economica sono quelli compresi nella Costituzione economica, cioè il Titolo terzo della
prima parte. In esso vengono dettati principi in materia di lavoro (artt. 35-38,46), di organizzazione
sindacale (artt. 39-40), di impresa e di proprietà (artt. 41-44).
14.7.2.
Libertà sindacale
L’art. 39 non è stato mai applicato, salvo il primo comma che sancisce la LIBERTA’ DI ORGANIZZAZIONE
SINDACALE. Essendo l’organizzazione sindacale una particolare associazione sarebbe bastata la tutela
dell’art. 18 della Costituzione, la quale invece prefigura un modello sindacale quasi corporativo dove il
sindacato che accetta un organizzazione democratica acquisisce personalità giuridica e stipula con lo
strumento delle rappresentanze unitarie CONTRATTI COLLETTIVI DI LAVORO con efficacia normativa.
I sindacati italiani hanno sempre rifiutato quest’impostazione pur di non essere obbligati a pesare nelle
rappresentanze unitarie per il numero di iscritti rispettivi e non per gli accordi politici. Ad oggi sono semplici
soggetti di diritto privato.
14.7.3.
Diritto di sciopero
Lo SCIOPERO è la sospensione collettiva temporanea delle prestazioni di lavoro rivolta alla tutela di un
interesse dei lavoratori: è un diritto nel senso che chi sciopera non può subire conseguenze negative sul
piano penale, civile o disciplinare (a parte la sospensione della retribuzione).
Lo sciopero tutelato dall’art. 40 è solo quello dei lavoratori dipendenti, non quello politico, o dei datori di
lavoro (SERRATA) o dai liberi professionisti. Comunque anche queste manifestazioni sono libere e garantite
se non dall’articolo 40 dalle altre libertà riconosciute dalla prima parte della Costituzione.
L’art. 40 rinvia alle leggi la regolazione e i limiti del diritto di sciopero. Ma anche questa disposizione è stata
fino ad oggi disattesa ed esiste solo la disciplina del diritto di sciopero nei SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI
(legge 146/90).
14.7.4.
La libertà di iniziativa economica
L’articolo 41 sancisce la LIBERTA’ DI INIZIATIVA ECONOMICA ed è stato a lungo al centro di complessi
dibattiti dottrinali poiché pone un principio di bilanciamento tra l’iniziativa economica privata e l’interesse
collettivo. L’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare
danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
In questo articolo, forse più che ogni altra disposizione costituzionale, sembra scorgersi l’ambiguità di un
compromesso tra l’ideologia capitalista e quella socialista.
Con l’espansione della CE, l’affermazione di principi come la libera circolazione dei capitali, delle merci e dei
lavoratori, le regole di concorrenza, il divieto di aiuti pubblici al settore privato hanno allontanato
gradualmente l’economia dalla concezione del dirigismo pubblico.
Anche l’art. 43 sembra destinato all’obsolescenza. Esso consente la NAZIONALIZZAZIONE o addirittura la
COLLETTIVIZZAZIONE di determinate imprese o categorie di imprese attraverso una riserva di legge
rafforzata per contenuto (servizi pubblici essenziali). Sulla base di questa norma si è compiuta l’unica
nazionalizzazione repubblicana, quella delle imprese produttrici di energia elettrica cha ha dato vita all’ENEL,
e sono stati per anni giustificati i monopoli pubblici nell’economia del paese.
14.7.5.
La proprietà privata
Anche nell’art. 42 si manifesta la difficile coesistenza di due differenti ideologie sulla questione della
proprietà privata e della sua funzione sociale. La riserva di legge rinvia al legislatore di trovare i punti di
equilibrio tra la proprietà privata e gli interessi generali.
L’art. 42 regola anche l’ESPROPRIAZIONE, “la proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e
salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale”. Essa è una manifestazione della prevalenza
dell’interesse pubblico su quello privato. Questa tematica è oggetto del diritto amministrativo.
14.7.6.
Il mercato nella Costituzione
Lo Stato liberale e lo Stato di democrazia pluralista storicamente sono stati accoppiati all’esistenza di
un’economia di mercato. Lo Stato sociale è intervenuto correggendo e compensando il mercato, per
raggiungere finalità sociali o per contrastare crisi economiche, dando luogo ad un’economia mista. In cui il
ruolo dello Stato si è progressivamente esteso attraverso vari strumenti.
Attraverso l’insieme di questi strumenti si è affermato almeno fino agli ’80 il DIRIGISMO ECONOMICO
secondo cui lo Stato deve intervenire nell’economia orientandola e dirigendola per il conseguimento dei suoi
obiettivi politici e sociali.
Secondo alcuni interpreti la Costituzione economica si impernierebbe sul principio del dirigismo economico,
volto a raggiungere i fini sociali prescelti dal legislatore. Seguendo questa interpretazione, la pubblicizzazione
dell’economia italiana costituirebbe la coerente attuazione della Costituzione. Se questa opinione fosse
fondata, il Trattato UE sarebbe in conflitto con la Costituzione. Ma non è così.
14.7.7.
Il mercato nel trattato CE
Il Trattato CE, nell’individuare i compiti della Comunità, esordisce affermando che essi realizzano “mediante
l’instaurazione di un mercato comune” (art. 2) e che l’azione della Comunità comporta la creazione di “un
mercato interno caratterizzato dall’eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione
delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali”.
Alla creazione di un mercato unico europeo si è giunti utilizzando 3 strumenti previsti dai Trattati: 1) la
libertà di circolazione delle merci, dei lavoratori, dei servizi e dei capitali; 2) il divieto degli aiuti finanziari; 3)
la disciplina della concorrenza.
Ma il diritto comunitario non si limita a garantire un mercato unico, basato sul principio della libertà di
concorrenza, ma ha posto le premesse giuridiche per la drastica riduzione, se non proprio l’eliminazione, dei
monopoli pubblici o legati a diritti di esclusiva.
Il mercato unico è stato completato dalla creazione di una moneta unica (euro), nonché dalla definizione e
dalla conduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche gestite direttamente da
istituzioni comunitarie, il Sistema europeo di banche centrali (SEBC) indipendente sia dalle istituzioni
nazionali che da quelle comunitarie.
La politica monetaria e la politica del cambio devono avere l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei
prezzi e di sostenere le politiche economiche generali della Comunità conformemente al principio di
un’economia di mercato ed in libera concorrenza.
14.7.8.
La rilettura della Costituzione economica
Benché sia opinione comune che la Costituzione economica sia stata svuotata dal Trattato europeo, è
necessario ricordare che:
a) la garanzia dell’iniziativa economica privata (art. 41.1) comprende il pluralismo competitivo;
b) quindi la Costituzione può essere letta nel senso della tutela della concorrenza, così come il
monopolio pubblico (art. 43) sia una possibilità da esercitare qualora impercorribili altre vie;
c) i servizi pubblici essenziali (art. 43) sui quali la legge può creare un diritto di esclusiva devono essere
intesi in senso restrittivo;
d) i programmi e i controlli sull’iniziativa economica (art. 41) vanno considerati strumentali al
raggiungimento di fini sociali, anche attraverso la garanzia del controllo della Corte costituzionale;
Quanto alla giurisprudenza costituzionale può osservarsi che già nel 1982 la Corte ha affermato che la libertà
di concorrenza “integra la libertà di iniziativa economica” che spetta nella stessa misura a tutti gli
imprenditori, ed è diretta “alla protezione della collettività” in quanto l’esistenza di una pluralità di
imprenditori in concorrenza tra loro giova a migliorare la qualità dei prodotti ed a contenere i costi.
14.7.9.
Le autorità amministrative indipendenti
La tendenza a ricondurre le attività economiche ai soggetti privati ed a realizzare un mercato concorrenziale,
in attuazione dei valori comunitari, sta alla base dell’istituzione delle cosiddette AUTORITA’
AMMINISTRATIVE INDIPENDENTI. Con questa formula si comprendono alcune istituzioni che:
a) sono indipendenti rispetto al Governo ed al suo indirizzo politico;
b) svolgono funzioni di controllo e di arbitraggio in certi settori economici;
c) servono a garantire l’osservanza di regole generalmente riconducibili a valori comunitari, in primo
luogo a quello della realizzazione di un mercato concorrenziale;
Lo Stato da “imprenditore” si trasforma in “regolatore”, che in attuazione dei principi e valori comunitari fissa
le regole limitatrici dell’iniziativa economica a tutela degli interessi collettivi. Pertanto i titolari di tali autorità
non sono nominati dal Governo e durano in carica per un periodo predeterminato e hanno garantita una
retribuzione elevata. Tali autorità, pur non appartenendo alla giurisdizione ne seguono spesso i moduli, e i
loro atti sono sottoposti a controllo da parte degli organi giurisdizionali.
L’Antitrust è un organo collegiale costituito dal Presidente e da 4 membri nominati con determinazione
adottata d’intesa dai Presidenti di Camera e Senato. L’Autorità ha il compito di garantire il diritto di iniziativa
economica, contro quei comportamenti delle imprese che producono una limitazione della concorrenza. I
comportamenti vietati sono stabiliti dalla legge e rispondono alla seguente tipologia:
a) intese restrittive della libertà di concorrenza;
b) abuso di posizione dominante del mercato;
c) operazioni di concentrazione restrittive della libertà di concorrenza;
All’Autorità garante della concorrenza si aggiungono altre figure con potere regolamentare come la CONSOB.
14.8.
I diritti nella sfera politica
Politici sono i diritti riconosciuti ai cittadini di partecipare alla vita politica e alla formazione delle decisioni
pubbliche. Attraverso di essi si realizza il principio della sovranità popolare, enunciato dall’art. 1.2 della
Costituzione. Questa disposizione richiama le altre norme costituzionali che fissano “forme” e “limiti”
dell’esercizio della sovranità da parte del popolo: ossia i DIRITTI POLITICI elencati negli att. 48-51.
La Costituzione riserva questi diritti ai soli cittadini, legando la titolarità dei diritti politici allo status di
membro della collettività. I diritti politici si possono perdere, come conseguenza della perdita della capacità
di agire (infermità mentale per esempio) oppure in seguito ad una condanna per gravi reati.
L’INTEDIZIONE DAI PUBBLICI UFFICI, che comprende tra l’altro la perdita dell’elettorato attivo e passivo e
di ogni incarico pubblico, è una pena accessoria che accompagna le condanne più gravi. Inoltre una
SOSPENSIONE DEI DIRITTI POLITICI è prevista per i falliti e i sottoposti a misure di prevenzione, a libertà
vigilata o simili.
14.9.
I doveri costituzionali
14.9.1.
I doveri dei cittadini
La Costituzione contiene vari riferimenti ai doveri dei cittadini, ma per lo più si tratta di principi non
facilmente traducibili in regole di comportamento. Difficile è anche l’interpretazione del dovere di fedeltà alla
Repubblica previsto dall’art. 54.1. Quindi i doveri costituzionali si riducono essenzialmente a due: il DOVERE
DI DIFESA DELLA PATRIA (art. 52.1) e il DOVERE DI PAGARE LE TASSE (art. 53.1).
15.
L’amministrazione della giustizia
15.1.
Giudici ordinari e giudici speciali
Il sistema giudiziario italiano si caratterizza per la contestuale presenza di più giurisdizioni: sono istituiti i
giudici ordinari, i giudici ordinari, i giudici amministrativi, i giudici contabili, i giudici tributari e i giudici
militari. La competenza dei giudici appena richiamati è stabilita dalla legge secondo criteri differenti che
tengono conto o della materia su cui la giurisdizione va esercitata o della posizione giuridica vantata dal
soggetto di diritto.
I GIUDICI ORDINARI amministrano la giustizia civile e penale attraverso organi giudicanti e organi
requirenti. Gli ORGANI GIUDICANTI CIVILI si dividono in organi di primo grado (giudice di pace e tribunale)
e di secondo grado (corte d’appello). Anche tra gli ORGANI GIUDICANTI PENALI vi sono organi di primo
grado e organi di secondo grado.
Gli ORGANI REQUIRENTI sono i PUBBLICI MINISTERI (PM), che esercitano l’azione penale e agiscono nel
processo a cura di interessi pubblici. L’OBBLIGO DELL’AZIONE PENALE (art. 112 Costituzione) significa che il
PM non può discrezionalmente avviare o non avviare la propria azione a seconda del crimine, ma è tenuto ad
intraprendere la sua azione sempre e comunque in presenza di una notizia criminis.
I GIUDICI AMMINISTRATIVI sono i tribunali amministrativi regionali, istituiti uno in ciascuna Regione ed
eventualmente articolati in sezioni, e il Consiglio di Stato. Così al giudice ordinario spettano le controversie in
materia di diritti soggettivi, al giudice amministrativo in materia di interessi legittimi.
Il CONSIGLIO DI STATO assomma a sé oltre ai poteri giurisdizionali (giudice d’appello amministrativo) anche
poteri consultivi.
La CORTE DEI CONTI opera attraverso sezioni regionali e centrali. La Corte dei conti esercita la giurisdizione
in tema di responsabilità dei pubblici amministratori qualora abbiano recato un danno economico ai soggetti
pubblici dai quali dipendono.
I GIUDICI TRIBUTARI esercitano la giurisdizione nelle controversie fra i cittadini e l’amministrazione
finanziaria dello Stato. I GIUDICI MILITARI esercitano la giurisdizione secondo quanto stabilito dalla legge.
In tempo di pace, sui reati commessi dagli appartenenti alle forze armate.
15.2.
Principi costituzionali in tema di giurisdizione
15.2.1.
Principio di precostituzione del giudice
La Costituzione pone alcuni principi fondamentali in tema di giurisdizione. In primo luogo, il PRINCIPIO
DELLA PRECOSTITUZIONE DEL GIUDICE (detto anche PRINCIPIO DEL GIUDICE NATURALE): “nessuno può
essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge” (art. 25 Costituzione).
E pure posto il divieto di istituite GIUDICI SPECIALI, cioè organi che sono formati fuori dall’ordinamento
giudiziario (art. 102). Portata generale hanno le disposizioni costituzionali che vogliono che la giustizia sia
amministrata in nome del popolo (art. 101), che immaginano una partecipazione popolare della stessa
giurisdizione (art. 102.3), che impongono al giudice la sola soggezione alla legge (art. 101.1) stabilendo che
la disciplina dell’ordinamento giudiziario sia rimessa alla competenza della legge, e che sempre la legge
assicuri l’indipendenza delle giurisdizioni speciali e del PM (art. 108).
A ciò si aggiunge che secondo la Costituzione i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati e che
contro le decisioni dei giudici ordinari è ammesso ricorso alla Corte di cassazione che rappresenta il più alto
grado di giudizio.
La CORTE DI CASSAZIONE si configura come giudice di legittimità, cioè competente a riconoscere le sole
violazioni delle legge compiute dagli organi giurisdizionali di grado inferiore. La Corte di cassazione si
configura come organo di chiusura del sistema giudiziario a cui le disposizioni dell’ordinamento giudiziario
affidano la funzione di NOMOFILACHIA, cioè la soluzione delle questione interpretative più controverse al
fine di indirizzare l’attività giurisdizionale degli organi giudicanti e requirenti.
15.2.1.
Diritto di difesa e giusto processo
La Costituzione garantisce il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri interessi e interessi legittimi e
afferma che la difesa è “un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento” (art. 24). La tutela
giurisdizionale di diritti e interessi legittimi è azionabile sia nei confronti di soggetti privati che nei confronti
dello Stato e di altri enti pubblici (art. 113).
La garanzia del DIRITTO DI DIFESA, unitamente al principio del giudice naturale precostituito per legge
dovrebbe fondare la necessità che il processo si caratterizzi:
1) per il CONTRADDITORIO fra le parti, il quale esige che vi sia un confronto dialettico paritario tra le
parti processuali lungo lo svolgimento di tutte le fasi;
2) per la PARZIALITA’ e la TERZIARIETA’ DEL GIUDICE, la cui decisione può essere accettata dalle parti
e dalla società in quanto provenga da un soggetto competente ad applicare e interpretare il diritto in
modo imparziale e quindi autonomo rispetto agli opposti interessi delle parti che affrontano la
contesa;
Questi principi, a seguito della legge 2/1999, si trovano ora chiaramente formulati nel nuovo testo dell’art.
111. Quest’ultimo richiamando alcune indicazioni contenute nel V emendamento della Costituzione
americana, ha consacrato la formula del GIUSTO PROCESSO. Più precisamente, i primi due commi dell’art.
111 stabiliscono che: 1) la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge; 2) ogni
processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e
imparziale.
Il nuovo testo stabilisce altresì che la legge deve assicurare la RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO.
15.3.
Lo status giuridico dei magistrati ordinari
15.3.1.
L’accesso alla magistratura
La Costituzione, in continuità con l’esperienza prerepubblicana, stabilisce che la nomina a magistrato debba
avvenire per concorso (art. 106.1 Costituzione).
In linea di massima, colui che aspiri a diventare un magistrato, deve superare un concorso a cui consegue la
nomina ad uditore giudiziario. La carriera dei magistrati ordinari si svolge automaticamente per via degli
automatismi che rendono l’avanzamento dei magistrati scontato. Questa scelta è stata giustificata sul
presupposto che la Costituzione all’art. 107.3 afferma che “i magistrati si distinguono fra loro solo per
diversità di funzioni”.
15.3.2.
Indipendenza, autonomia e inamovibilità magistratura ordinaria
Le disposizioni costituzionali si soffermano sulla magistratura ordinaria proclamando l’autonomia e
l’indipendenza del potere giudiziario. L’art. 104.1 afferma che “la magistratura costituisce un ordine
autonomo indipendente da ogni altro potere”.
L’AUTONOMIA DELL’ORDINE GIUDIZIARIO è una garanzia destinata ad esplicare i suoi effetti all’interno
dell’ordine giudiziario stesso e fa sì che ogni magistrato possa determinarsi autonomamente senza ricevere
alcun condizionamento da altri magistrati
appartenenti all’ordine. L’INDIPENDENZA DELL’ORDINE
GIUDIZIARIO è riferita al potere giudiziario nel suo complesso, ma si tratta di una garanzia costituzionale
destinata ad esplicare i suoi effetti anche in riferimento all’esercizio concreto della funzione giurisdizionale, in
quanto tutela ogni magistrato da tutti quei condizionamenti che possono provenire da poteri diversi da
quello giudiziario.
L’art. 107.1 afferma che “i magistrati sono inamovibili”. Ciò significa che senza il loro consenso non possono
essere trasferiti ad una sede diversa da quella che occupano. L’ordinamento prevede la possibilità che il
magistrato possa essere trasferito ad altra sede solo con un provvedimento del Consiglio superiore della
magistratura (CSM).
15.3.3.
Consiglio superiore della magistratura
A garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura la Costituzione ha previsto il CONSIGLIO
SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA (CSM). Si è voluto così evitare che il Governo utilizzasse strumenti
amministrativi relativi alla carriera e allo status del magistrato per condizionarne l’autonomia. Il CSM è
composto da (art. 104.2):
• 3 membri di diritto: il PdR, il Presidente della Cassazione e il Procuratore Generale della Corte di
Cassazione;
• di membri eletti dai magistrati ordinari che devono rappresentare i 2/3 del Collegio (membri togati);
• dei cosiddetti membri laici, che costituiscono il restante terzo, e che sono eletti dal Parlamento in
seduta comune tra gli appartenenti alle seguenti categorie: professori universitari in materie
giuridiche e avvocati che esercitino la professione da almeno 15 anni;
Nel 2002 è stata approvata una riforma della composizione del CSM e delle modalità di elezione (legge
44/02). Attualmente i membri togati sono sedici, i membri laici 8 per un totale di 27 membri. L’elezione dei
magistrati avviene nel modo seguente:
1) in un collegio unico nazionale 2 seggi per magistrati esercitanti presso la Corte di Cassazione o la
Procura Generale della medesima;
2) in un collegio unico nazionale 4 seggi per PM;
3) in un collegio unico nazionale 10 seggi per giudici;
Votano con 3 schede tutti i magistrati (tranne gli uditori) e risultano eletti i candidati con il maggior numero
di voti per ciascun collegio in base ai seggi disponibili.
La titolarità dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati è attribuita al ministro della giustizia. La
decisione a seguito dell’avvio di un procedimento disciplinare, spetta all’apposita SEZIONE DISCIPLINARE
istituita in seno al CSM e tale decisione viene poi sottoposta all’intero plenum.
La RESPONSABILITA’ DISCIPLINARE opera in caso di violazione dei doveri connessi al corretto esercizio della
funzione giurisdizionale e di lesione del prestigio dell’ordine. I magistrati ordinari sono sottoposti anche alla
responsabilità civile e penale.
Gli atti del CSM assumono la veste di decreti del PdR e sono sottoposti al sindacato del giudice
amministrativo ove vengano impugnati con apposito ricorso giurisdizionale. Il Giudice competente è il Tar del
Lazio e in appello il Consiglio di Stato. L’esigenza di assicurare anche l’indipendenza dei giudici speciali ha
spinto il legislatore a prevedere degli organi collegiali modellati sull’esempio del CSM.
15.3.4.
Il Ministro della giustizia
Prima della Costituzione del 1948, il ministro di grazie e giustizia aveva rilevanti poteri in materia di
ordinamento giudiziario, di status, di carriera e ciò pregiudicava l’autonomia e l’indipendenza della
magistratura. La Costituzione del 1948 segna una svolta fondamentale perché sposta in capo al CSM la gran
parte di questi poteri. Ormai il Ministro della giustizia si limita a:
1) curare l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (art. 110);
2) promuovere l’azione disciplinare;
3) partecipare al procedimento di conferimento degli UFFICI DIRETTIVI insieme al CSM sulla base di
una leale collaborazione;
4) esercitare poteri di sorveglianza ed attività ispettive nei confronti degli uffici giudiziari;
16.
Giustizia costituzionale
16.1.
Che cos’è la giustizia costituzionale
16.1.1.
Definizioni
Per GIUSTIZIA COSTITUZONALE s’intende un sistema di controllo giurisdizionale del rispetto della
Costituzione. La giustizia costituzionale è la principale garanzia della rigidità della Costituzione: consente di
reagire a determinate infrazioni della Costituzione rivolgendosi in determinati modi ad un determinato
giudice.
16.1.2.
Il modello italiano
Il modello italiano di giustizia costituzionale è prevalentemente orientato verso un giudizio successivo,
accentrato, ad accesso indiretto. Successivo perché investe leggi già in vigore, accentrato perché è svolto da
un unico organo – la Corte costituzionale – ed indiretto perché i cittadini non possono ricorrere direttamente
alla Corte, ma questa può essere investita del caso solo da un giudice. Con alcune eccezioni:
• esiste anche una forma di sindacato preventivo, per esempio sugli statuti regionali (prima della
riforma del Titolo V del 2001 anche per tutte le leggi regionali) da parte del Governo e sui
regolamenti amministrativi governativi e ministeriali da parte della Corte dei conti;
• esiste anche l’istituto del sindacato diffuso sulle leggi, ma solo come strumento sussidiario in
assenza della Corte costituzionale, che demanda ai giudici ordinari la soluzione delle controversie
sull’applicazione delle leggi e della Costituzione;
• esiste anche il giudizio in via diretta, ma come strumento riservato allo Stato, nei confronti della
legge regionale, e alla Regione, nei confronti dello Stato o di un’altra Regione.
16.1.3.
L’estensione del principio di legalità ai conflitti “politici”
Il giudizio di legittimità costituzionale delle leggi è uno strumento attraverso il quale viene estesa
l’applicazione del principio di legalità anche alla funzione legislativa: non più sovrana, ma fondata,
disciplinata e limitata da una previa norma della Costituzione rigida. L’art. 134 elencano le funzioni riservate
alla Corte costituzionale, ne enumera le funzioni:
• sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti con forza di legge,
dello Stato e delle regioni nell’ambito della riserva di legge posta dalla Costituzione;
• sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato;
• sui conflitti di attribuzione tra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni;
• sulle accuse al PdR. Per quanto riguarda la responsabilità dei Ministri, con la legge costituzionale
1/1989 anch’essi rispondono alla magistratura ordinaria e non più alla Corte costituzionale.
• il giudizio di ammissibilità dei referendum;
16.2.
La Corte costituzionale
16.2.1.
Composizione
Come raggiungere la neutralità della Corte costituzionale rispetto al dibattito politico e alle maggioranze che
si formano nel Parlamento o nel paese? Questo è il problema che si pongono tutte le Costituzioni moderne.
La risposta può essere:
•
•
•
la neutralità è innanzitutto rispetto alla politica in genere. E’ quindi nella qualità tecnico-giuridica del
loro lavoro che si fonda la legittimazione dei giudici costituzionali. È la stessa Costituzione ad
indicarne i requisiti: “magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria e
amministrativa, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo vent’anni
di esercizio” (art. 135.2);
la neutralità deve essere assicurata anche rispetto alle parti e questa si rispecchia nelle modalità di
nomina della Corte. In Germania metà sono nominati dalla Camera eletta a suffragio universale e
metà dalla Camera delle Regioni (Lander), negli Stati Uniti sono nominati da Presidente con
l’approvazione del Senato, espressione degli Stati membri. In Italia invece l’organizzazione Regionale
non si riflette nella Corte, privilegiando l’equilibrio tra poteri dello Stato, tra maggioranza e
minoranza. Il sistema di nomina della Corte costituzionale è così previsto: a) 5 dal Parlamento in
seduta comune a scrutinio segreto e con la maggioranza di 2/3 dei componenti. Al 3° scrutinio la
maggioranza necessaria scende ai 3/5 dei componenti; b) 5 dal PdR; c) 5 dalle supreme
magistrature ordinaria e amministrativa, di cui 3 dalla Cassazione ed uno ciascuno il Consiglio di
Stato e la Corte dei conti;
la neutralità è anche verso interessi sia pubblici che privati. Negli Stati Uniti la carica di giudice della
Corte suprema è vitalizia, in Italia i giudici durano in carica 9 anni e il loro mandato non è
rinnovabile, sono soggetti a una severo regime di incompatibilità che riguarda anche la professione e
non possono svolgere attività inerente ad una associazione o partito politico.
16.2.2.
Status del giudice costituzionale e prerogative della Corte
Ricco è il complesso di garanzie attraverso il quale la Costituzione e le leggi cercano di assicurare la
neutralità della Corte costituzionale e dei suoi giudici:
a) immunità e improcedibilità: “i giudici della Corte costituzionale non sono sindacabili, né possono
essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni” e inoltre
godono della stessa immunità personale dei parlamentari;
b) inamovibilità: i giudici della Corte costituzionale non possono essere rimossi ne sospesi dal loro
ufficio se non a seguito di una deliberazione della stessa Corte, presa a maggioranza dei 2/3 dei
presenti, o per sopravvenuta incapacità o ancora per il mancato svolgimento delle funzioni per sei
mesi;
c) convalida delle nomine: spetta alla stessa Corte con delibera a maggioranza assoluta la convalida
della nomina dei suoi membri;
d) trattamento economico: almeno pari del massimo grado della magistratura ordinaria con la garanzia
del reinserimento nell’attività professionale al termine del mandato;
e) autonomia finanziaria e normativa: la Corte amministra un proprio bilancio e alcuni strumenti
normativi per regolare il proprio funzionamento;
f) autodichia: competenza esclusiva nel giudizio dei ricorsi in materia di impiego dei propri dipendenti;
16.2.3.
Funzionamento
I giudici della Corte durano in carica 9 anni e il rinnovo della Corte è graduale. Il mandato ha inizio dal
giuramento e non può essere prorogato oltre il periodo già detto, neanche per coprire la vacatio fino alla
surroga.
La Corte per funzionare richiede un quorum di 11 su 15 e le sue decisioni devono essere deliberate dai
giudici presenti a tutte le udienze in cui si è svolto il giudizio. Per i soli giudizi si accusa è previsto il regime
della prorogatio. Il Presidente è un giudice della Corte, eletto dalla Corte a maggioranza assoluta con
scrutinio segreto. Il suo mandato è triennale e rinnovabile e a lui spetta di:
• fissare il ruolo delle udienze e delle adunanze in camera di consiglio e di convocare la Corte;
• designare il giudice incaricato dell’istruzione della causa e introdurla di fronte alla Corte;
• designare il giudice incaricato di redigere il progetto di motivazione della decisione, che dovrà poi
essere approvato dalla Corte;
• presiedere il collegio giudicante e dirigerne i lavori;
• votare per ultimo ed esprimere il voto decisivo in caso di parità;
Le decisioni che la Corte emana sono di due tipi: sentenze e ordinanze. La Corte giudica in via definitiva con
sentenza. Tutti gli altri provvedimenti di sua competenza sono adottati con ordinanza”.
16.3.
Il controllo di costituzionalità delle leggi
16.3.1.
Atti sindacabili
La Corte costituzionale giudica “sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti,
aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni” (art.134.1). Questa disposizione apparentemente chiara ha
posto alcuni delicati problemi interpretativi:
a) innanzitutto che cosa si intenda per legge: se solo le fonti primarie o anche le leggi costituzionali. La
Corte costituzionale ha chiarito che l’interpretazione corretta è quella che ricomprende nell’ambito
della sua giurisdizione le fonti primarie e quelle anche gerarchicamente superiori, sia per quanto
concernente VIZI FORMALI che MATERIALI;
b) l’applicabilità della giurisdizione della Corte anche alle leggi approvate precedentemente all’entrate in
vigore della Costituzione che ha istituito la Corte stessa. Con la sentenza 1/1956 viene stabilito che
per le leggi promulgate prima dell’adozione della Costituzione repubblicana possa essere esercitata
dalla Corte un giudizio solo relativamente ai vizi materiali e non formali;
c) l’indicazione leggi esclude le fonti-fatto dalla giurisdizione della Corte, quindi le consuetudini e le
norme comunitarie per esempio;
16.3.2
Il parametro del giudizio
Per PARAMETRO di giudizio s’intende il termine di confronto impiegato nel giudicare la legittimità degli atti
legislativi. Il parametro è dato in primo luogo dalle disposizioni costituzionali e delle leggi costituzionali, e poi
dalle fonti sub-costituzionali quali le leggi quadro o la legislazione nazionale rispetto a quella regionale.
Si parla invece di PARAMETRO INTERPOSTO quando si fa riferimento alle fonti esterne all’ordinamento, che
non hanno rango costituzionale, ma la cui violazione comporta implicitamente la violazione di norme
costituzionali.
16.3.3.
Giudizio incidentale
L’art. 137 della Costituzione rimanda ad una legge costituzionale la determinazione delle condizioni, delle
forme, dei termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale e ad una legge ordinaria la disciplina
della costituzione e del funzionamento della Corte.
E’ detto GIUDIZIO IN VIA INCIDENTALE in quanto la questione di legittimità costituzionale sorge nel corso di
un procedimento giudiziario (GIUDIZIO PRINCIPALE o A QUO), come incidente processuale che comporta la
sospensione del giudizio e la remissione della questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale.
È un giudizio successivo e concreto, perché la legge viene in rilievo al presupposti, è tenuto a sollevare la
questione dinanzi alla Corte costituzionale, né le parti possono opporsi.
L’art. 1 della legge cost. 1/1948 e l’art. 23 della legge 87/1953 prevedono che la QUESTIONE DI
LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE debba essere sollevata “nel corso di un giudizio” e “dinanzi ad una autorità
giurisdizionale”. Il giudice deve verificare la sussistenza di 2 requisiti:
a) che la questione sia rilevante per la risoluzione del giudizio in corso. La RILEVANZA consiste in un
legame di strumentalità, di PREGIUDIZIALITA’, tra la questione di legittimità costituzionale e il
giudizio a quo;
b) che non sia manifestamente infondata. La NON MANIFESTA INFONDATEZZA mira a verificare che la
questione di legittimità prima facie abbia un minimo di fondamento giuridico, sussista un ragionevole
dubbio;
Qualora il giudice ritenga che questi requisiti sussistano, emette un ORDINANZA DI RINVIO (o REMISSIONE)
che sospende il giudizio principale e introduce il giudizio costituzionale fino alla pronuncia della Corte. Le
parti in giudizio a quo possono costituirsi in giudizio con il loro avvocato, ma la loro partecipazione è
puramente facoltativa: si tratta di un GIUDIZIO A PARTI EVENTUALI, nel senso che queste non incidono nel
processo costituzionale. Infatti quest’ultimo ha carattere oggettivo perseguendo l’obiettivo di stabilire la
legittimità costituzionale delle leggi e solo indirettamente di tutelare le situazioni giuridiche a quo.
16.3.4.
Il giudizio in via principale
Il GIUDIZIO IN VIA PRINCIPALE (o d’azione) può essere proposto con ricorso da parte dello Stato contro le
leggi regionali o da parte della Regione contro le leggi statali o di altre Regioni. Questo tipo di procedimento
è denominato in via principale poiché la questione viene posta direttamente con una procedura ad hoc; è
astratto in quanto le leggi sono impugnate a prescindere da un singolo caso di applicazione; è disponibile
dato che i soggetti legittimati non sono tenuti ad instaurarlo potendo addivenire ad una soluzione di natura
politica.
Con la riforma del 2001 al Titolo V della Costituzione, per quanto riguardante i ricorsi, è stata mantenuta
l’impostazione per cui lo Stato non è tenuto a dimostrare l’INTERESSE A RICORRERE mentre la Regione deve
dimostrare l’invasione della sfera di competenza attribuita dalla Costituzione.
L’atto introduttivo del giudizio in via principale è il RICORSO e deve essere deliberato entro 60 giorni dalla
pubblicazione della legge ed entro 10 dalla deliberazione depositato presso la cancelleria della Corte
costituzionale.
16.3.5.
Tipologia delle decisioni della Corte
Le decisioni della Corte costituzionale possono essere suddivise in 3 grandi famiglie:
a) decisioni di inammissibilità;
b) decisioni di rigetto;
c) decisioni di accoglimento;
16.3.5.1.
Decisioni di inammissibilità
La Corte pronuncia l’INAMMISSIBILITA’ DELLA QUESTIONE quando manchino i presupposti per procedere
ad un giudizio di merito. Ciò può accadere:
a) quando manchino i requisiti soggettivi e oggettivi per la legittimazione a sollevare la questione
costituzionale;
b) quando sia carente l’oggetto del giudizio, ossia quando l’atto impugnato non rientra tra quelli indicati
dall’art. 134. Se tale difetto è macroscopico, ovvero nel caso di MANIFESTA INAMISSIBILITA’ lo
stralcio avverrà in camera di consiglio senza bisogno di un’udienza pubblica e dichiarata per mezzo
di un’ordinanza;
c) quando manchi il requisito di rilevanza. Se vi è una semplice carenza di motivazione, la Corte, con
ordinanza, ordinerà la RESTITUZIONE DEGLI ATTI al giudice a quo, perché riconsideri la rilevanza.
Altrettanto accadrà nel caso di JUS SUPERVENIENS, ovvero quando la disposizione impugnata è
stata abrogata nel frattempo, poiché la Corte restituirà gli atti al giudice a quo cui spetta il giudizio
se applicare la norma nuova o quella abrogata;
d) quando l’ordinanza di remissione manchi di indicazioni sufficienti ed univoche per definire la
questione;
e) quando siano stati compiuti errori meramente procedurali;
f) quando la questione sottoposta alla Corte comporti “una valutazione di natura politica” o un
sindacato “sull’uso del potere discrezionale del Parlamento”, esplicitamente esclusi dal controllo della
Corte;
16.3.5.2.
Sentenza di rigetto (e ordinanze di manifesta infondatezza)
Con la sentenza di RIGETTO la Corte dichiara non fondata la questione prospettata dall’ordinanza di
remissione. La Corte non dichiara legittima la legge impugnata, ma si limita a respingere l questione
sollevata dal giudice a quo. Per questa ragione la sentenza di rigetto non ha effetti erga omnes, e nessuna
preclusione subiscono altri giudici e neppure lo stesso giudice in altro processo.
Nel caso una questione sollevata sia già stata affrontata in precedenza dalla Corte, quest’ultima con
un’ordinanza in CAMERA DI CONSIGLIO ne dichiara la MANIFESTA INFONDATEZZA.
16.3.5.3.
Sentenze di accoglimento
Con la sentenza di ACCOGLIMENTO la Corte dichiara l’ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE della disposizione
impugnata. Opera quindi erga omnes con un effetto assimilabile all’annullamento sempre mediante sentenza
e non ordinanza.
La sentenza ha valore costitutivo nel senso che, anche se il contrasto con la Costituzione è sorto sicuramente
prima, è solo con la sentenza che esso è accertato e la legge invalidata. Tuttavia gli effetti della sentenza di
accoglimento operano ex tunc, poiché questa si traduce in un ordine rivolto ai soggetti dell’applicazione di
non applicare la norma illegittima per tutti i rapporti in corso e non solo per quelli futuri. Sono esclusi
chiaramente i rapporti giuridici ormai chiusi o esauriti.
Un rapporto è ancora PENDENTE e non ESAURITO qualora non sia ancora passato in GIUDICATO, oppure
qualora l’oggetto del rapporto non sia passato in PRESCRIZIONE oppure superato i termini che ne
comportano la DECANDENZA. Con l’eccezione però che una sentenza di accoglimento, anche di fronte a una
sentenza irrevocabile di condanna penale, ne sospende l’esecutività e tutti gli effetti penali. Questo anche
alla luce di norme più generali che impediscono di essere puniti per un fatto considerato da una legge
posteriore un reato.
16.3.5.4.
Sentenze interpretative di rigetto
Le SENTENZE INTERPRETATIVE DI RIGETTO sono le decisioni con cui la Corte dichiara infondata la
questione di legittimità costituzionale, non perché il dubbio di legittimità sollevato dal giudice non si
giustificato, ma perché esso si basa su una cattiva interpretazione della disposizione impugnata.
La Corte costituzionale ha da sempre affermato un preciso canone d’interpretazione delle leggi: nel caso in
cui la stessa disposizione possa essere interpretata in modi diversi, l’interprete deve scegliere
l’INTERPRETAZIONE CONFORME A COSTITUZIONE, ossia ricavarne la norma compatibile con la costituzione.
È in fondo una variante del criterio dell’INTERPRETAZIONE SISTEMATICA, per il quale alla disposizione deve
essere attribuito il significato che meglio faccia il sistema con le altre norme dell’ordinamento. La Cassazione
e i giudici ordinari si sono dimostrati compatti nel negare efficacia vincolante alle interpretazioni conformi alla
Costituzione delle leggi con cui la Corte costituzionale motiva le sentenza interpretative di rigetto. Ciò ha
indotto la Corte a farne un uso limitato e a conformarsi all’interpretazione prevalente, al così detto DIRITTO
VIVENTE.
16.3.5.5.
Sentenze manipolative di accoglimento
Le sentenze di accoglimento sono dette manipolative, interpretative od anche normative quando il loro
dispositivo non si limita alla semplice dichiarazione di illegittimità della legge o delle singole sue disposizioni,
ma l’illegittimità è dichiarata “nella parte in cui” la disposizione significa o non significa qualcosa, ossia per la
norma che essa esprime.
E’ un genus che comprende species diverse. Eccone le principali:
a) SENTENZE DI ACCOGLIMENTO PARZIALE. Con esse la Corte dichiara illegittima la disposizione per
una parte solo del suo testo;
b) SENTENZE ADDITIVE. Sono decisioni con cui la Corte dichiara illegittima la disposizione nella “parte
in cui non” prevede ciò che invece sarebbe costituzionalmente necessario;
c) SENTENZE SOSTITUTIVE. Sono le decisioni con cui la Corte dichiara l’illegittimità di una disposizione
legislativa “nella parte in cui prevede X anziché Y”.
16.4.
I conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato
16.4.1.
Definizioni
I CONFLITTI DI ATTRIBUZIONE TRA POTERI DELLO STATO sono lo strumento con cui un potere dello Stato
può agire davanti alla Corte per difendere le parole “attribuzioni costituzionali” compromesse dal
comportamento di un altro potere dello Stato.
Se la Costituzione rigida è un modo per regolare la maggioranza, i rapporti tra Stato e Regioni e garantire le
libertà fondamentali, lo è anche per garantire la forma di governo e regolare i rapporti tra le istituzioni che
compongono lo Stato. Il conflitto di attribuzioni è lo strumento predisposto dalla Costituzione per affrontare
la violazione di queste regole e per trasformare in giuridici quei conflitti che senza Costituzione rigida erano
politici.
Il riparto dei POTERI, intesi come complesso di organi concorrenti all’esercizio della medesima funzione, non
si limita ai classici 3 ma è molto più complesso e questi sono i soggetti che possono sollevare i conflitti di
attribuzione. Il termine ancora più esatto per definire questo ruolo è però quello di ATTRIBUZIONE, poiché
hanno un potere tutti i soggetti che costituzionalmente hanno un ruolo, ovvero un’attribuzione
costituzionale.
16.4.2.
Oggetto del conflitto
Il conflitto può sorgere sia da un atto di “usurpazione” di potere, con cui un organo svolge una attribuzione
spettante all’organo di un altro “potere”, sia del comportamento di un organo che intralci il corretto esercizio
delle competenze altrui.
Quando entrambi i soggetti in causa rivendicano a sé l’attribuzione ad emanare un dato atto, si verifica una
VINDICATIO POTESTATIS. Invece quando si ha la contestazione del modo in cui un soggetto ha esercitato
attribuzioni che sono incontestabilmente sue, poiché da ciò deriva un impedimento all’esercizio delle
attribuzioni spettanti al ricorrente, si hanno CONFLITTI DI MENOMAZIONE O INTERFERENZA.
Il conflitto di attribuzione ha una funzione tipicamente residuale, poiché può essere attivato solo qualora non
vi sia altro strumento di tutela giurisdizionale.
16.4.3.
Il giudizio
Vi sono poteri strutturalmente costituiti da un unico organo (ORGANI-POTERE), ma vi sono anche poteri
costituiti da più organi e per questi ultimi si pone il problema di chi sia legittimato a stare in giudizio. Il
problema è risolto dall’art. 37.1 della legge 87/1953 per la quale il conflitto sorge “tra organi competenti a
dichiarare definitivamente la volontà dei poteri cui appartengono”.
Il giudizio viene introdotto dal ricorso presentato dalla parte che si ritiene lesa direttamente alla Corte
costituzionale, senza notificazione alla controparte. Il ricorso deve contenere l’esposione sommaria delle
ragioni del conflitto e l’indicazione delle norme costituzionali che regolano la materia.
La particolarità di questo giudizio è che esso inizia con una decisione della Corte circa l’ammissibilità del
conflitto, assunta in camera di consiglio, con una semplice DELIBERAZIONE. Se il ricorrente rinuncia al
ricorso e se la rinuncia è accettata dalle altre parti, la Corte dichiara “estinto il processo”. La Corte può anche
dichiarare che ritiene”cessata la materia del contendere” sulla base di atti e comportamenti delle parti e
chiudere il giudizio.
Un’eventuale sentenza non agisce erga omnes nei confronti di altri poteri circa l’attribuzione di quella
funzione, ma agisce erga omnes qualora comporti l’annullamento di atti ritenuti in conseguenza alla
sentenza illegittimi.
16.5. Il giudizio
I CONFLITTI DI ATTRIBUZIONE TRA STATO E REGIONE sono lo strumento con cui vengono risolte le
controversie che sorgono tra Stato e Regione o tra Regioni. A differenza dei conflitti di attribuzione che
avvengono tra organi dello stesso ente (lo Stato), siamo di fronte in questo caso a conflitti tra enti. L’atto di
qualsiasi organo dello Stato o della Regione può comportare il conflitto con la Regione o dello Stato, tranne
gli atti legislativi regolati in via principale.
Il conflitto è introdotto da un ricorso. Condizione di ammissibilità del ricorso è l’INTERESSE A RICORRERE: il
ricorrente deve dimostrare di aver subito una lesione attuale (non potenziale) e concreta (non solo teorica)
della sua competenza. Nel caso in cui l’interesse a ricorrere venga meno, la Corte dichiara “cessata la
materia del contendere”.
In giudizio sono legittimati a stare solo il Presidente del Consiglio dei ministri e il Presidente della Giunta
regionale.
16.6. Il giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo
Il giudizio di ammissibilità è introdotto d’ufficio con l’ordinanza dell’Ufficio centrale per il referendum che
dichiara la legittimità della richiesta di referendum. La Costituzione non aveva previsto un controllo
sull’ammissibilità del referendum. Esso fu introdotto dalla legge cost. 1/1953 che ha affidato alla Corte
costituzionale il compito di giudicare se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma dell’art. 75
siano ammissibili ai sensi del comma secondo dell’articolo stesso, rinviando la disciplina procedurale alla
legge ordinaria che regola del referendum.
L’art. 75.2 pone pochi casi di esclusione del referendum. Esso non è ammesso per:
• leggi tributarie;
• leggi di bilancio;
• leggi di amnistia e di indulto;
• leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali;
Ulteriori motivi di inammissibilità elaborati e impiegati dalla giurisprudenza della Corte sono i seguenti:
a) sono sottratti a referendum la Costituzione e le leggi costituzionali, ma anche le leggi rinforzate
come pure quelle a contenuto costituzionalmente vincolato oppure quelle la cui abrogazione
pregiudicherebbe il funzionamento dello Stato in parti vitali;
b) sono sottratte a referendum tutte le leggi che attengono alla manovra finanziaria e anche le leggi
che servono all’esecuzione dei trattati;
c) sono pure inamissibili i referendum il cui quesito non abbia una matrice razionalmente unitaria, cioè
non sia omogeneo (COERENZA ED UNIVOCITA’ DEL QUESITO);
16.7.1.
La giustizia politica
Con l’espressione GIUSTIZIA POLITICA si suole fare riferimento a quelle funzioni che la Corte costituzionale
esercita quando giudica sulle accuse promosse contro il PdR, nella fattispecie di alto tradimento o attentato
alla Costituzione commesse nell’esercizio delle sue funzioni (gli unici due su cui può essere chiamato a
rispondere).
È messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi membri e
giudicato dalla CORTE COSTITUZONALE IN COMPOSIZIONE INTEGRATA da 16 membri tratti a sorte dalla
lista dei cittadini eleggibili alla carica di senatore.
16.7.2.
I cosiddetti reati ministeriali
Prima della modifica intervenuta con la legge costituzionale 1/1989 anche i REATI MINISTERIALI rientravano
nella cosiddetta giustizia politica. A seguito del referendum popolare del 1987 con cui venivano abrogate le
disposizioni relative alla cosiddetta COMMISSIONE INQUIRENTE, è stato modificato l’art. 96 della
Costituzione investendo la magistratura ordinaria della competenza a giudicare.