Intervista Jazz Colours - Novembre 2013

Vincent Peirani
istantanea di un fisarmonicista
di Andrew Rigmore e Antonio Terzo
foto di Davide Susa
Per qualunque strumento viene il momento in cui un musicista apporta innovazioni stilistiche
che segnano il passo rispetto ai precedenti maestri: con Vincent Peirani è la volta della fisarmonica.
Forte di una formazione classica, le sue dita volano sui bottoni per portarlo a fianco di Louis Sclavis,
nei gruppi di Daniel Humair, con Youn Sun Nah e Ulf Wakenius, fino all’attuale duo con Michel Portal.
Che fa capolino, insieme al sopranista Emile Parisien, nel suo album di debutto con la ACT in trio.
Cosa ha — o cosa non ha — la musica classica che
ti ha fatto preferire concentrarti sul jazz e sulla
musica improvvisata e cosa deve avere un buon
musicista classico per diventare un buon jazzista
improvvisatore?
Non faccio differenza fra jazz e musica classica, per
cominciare. È solo che il jazz occupa un posto importante nella mia vita, ma la classica è ugualmente
molto presente — con François Salque, Laurent Korcia, Quatuor Ebène. Per me suonare e lavorare su
questi due stili di musica sono cose complementari.
Cerco di miscelare insieme i due tipi di pratica per
farne una sola. Per diventare un buon improvvisatore, che si venga dalla classica o da un altro ambito,
credo che la cosa migliore da fare sia innanzitutto
ascoltare il più possibile questa musica e praticarla,
sia attraverso i dischi che soprattutto in gruppo.
Quale particolare incontro o ascolto o concerto ti
ha fatto virare verso il jazz e la musica improvvisata?
Ho subìto un doppio choc grazie ad un amico che mi
ha fatto ascoltare due dischi: il primo con Bill Evans
nel cofanetto “Turn out the Star” ed il secondo con
un gruppo di fusion francese Sixun, con, fra gli altri,
Paco Sery, Louis Winsberg, Jean Pierre Como.
Oltre ovviamente ai fisarmonicisti, guardi anche
ai pianisti e ai tastieristi di jazz?
Non ho praticamente ascoltato fisarmonicisti! Ci
sono stati sicuramente [degli album di] Galliano, Azzola, Sivuca, Art Van Damme, ma ho ascoltato soprattutto altri strumentisti, pianisti quali Bill Evans,
Herbie Nichols, Lennie Tristano, Wynton Kelly, chitarristi tipo Frisell, Metheny, Marc Ribot, Benson,
trombettisti come Miles, Chet Baker, Enrico Rava,
Fresu, ma anche non pochi batteristi come Art Blakey, Peter Erskine, Manolo Badrena, Paco Sery.
E da dove provengono le nuance gitane del tuo stile?
Ho suonato in un gruppo di musica dell’Est Europa
per quasi 5 anni, si chiamava Les Yeux Noirs: era un
mélange fra la musica dell’Est, essenzialmente rumena, e la musica yiddish, il tutto arricchito di un
suono un po’ rock. Abbiamo girato tutto il mondo con
quel gruppo lì e fatto centinaia di concerti: è stato
il primo vero gruppo con il quale ho lavorato e questo mi ha fortemente marcato.
Cosa pensi d’aver dato e di star dando alla tradizione della fisarmonica in termini di innovazione e
nuovo sound?
È strano rispondere a questa domanda perché per
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foto Jens Vajen
parte mia non ho fatto altro che seguire il mio percorso, nutrendomi di musicisti e di musiche straordinarie. Poi ho voluto esprimere le sensazioni che
sentivo, e [questo] è avvenuto con la fisarmonica.
Ho solo cercato d’essere più vicino o musicalmente
più giusto a quel certo suono o sentimento che potevo aver ascoltato o provato.
Non so se il pubblico italiano si ricorda di te come
vincitore del Festival della fisarmonica di Castelfidardo, ma sicuramente quello del jazz ha iniziato
a conoscerti grazie al tour con Louis Sclavis “Dans
la Nuit”, qualche anno fa, e poi ad apprezzarti attraverso la tua presenza nei gruppi di Youn Sun
Nah e Ulf Wakenius: cosa ti è rimasto di ognuna di
queste diverse esperienze?
Che si tratti di Louis Sclavis, Youn Sun Nah o Ulf Wakenius, sono già degli artisti immensi, ognuno nel
proprio stile. Con Louis siamo su un versante più libero, più improvvisato, ho imparato tantissimo a
quel livello e continuo a farlo. Con Youn, quel suo
mélange fra chanson, jazz e pop mi seduce completamente. Lavoriamo molto sulle forme, sul suono
complessivo del gruppo. Quanto a Ulf, ascoltandolo
suonare ed aprendo al massimo le orecchie apprendo tantissimo.
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Hai suonato nello Sweet & Sour Quartet di Daniel
Humair con il contrabbassista Jérôme Regard ed il
sassofonista Émile Parisien. Oltre ad essere considerato un batterista stellare, Humair è anche un
grande band leader: cosa hai carpito da lui come
musicista e persona?
Con lui è la libertà assoluta, mi ha fatto suonare in
modo diverso. Grazie a lui ho preso coraggio. Ero obbligato [a farlo], perché lui mi spinge a suonare, a ricercare, a provocarlo! È incredibile suonare al suo
fianco. Ed in più è un piacere viaggiare con lui, in
quanto ha sempre delle storie su questo o quel jazzista: in fin dei conti li ha affiancati praticamente
tutti! Ha scritto parte della storia del jazz.
E questo gruppo con Humair ha favorito il tuo incontro con Parisien, portandovi a formare il vostro
duo.
Sì, è grazie a Daniel che con Émile ci siamo incontrati. Il nostro posto in seno a quel gruppo ha permesso di scoprirci musicalmente ed umanamente. È
in modo molto naturale che abbiamo finito per metter su questo duo. Fra qualche giorno registreremo il
nostro primo disco insieme, unicamente in duo.
Quando e come è avvenuto invece l’incontro con
Michel Portal?
Michel mi ha chiamato per la seduta di un film per il
quale si stava occupando della musica. Credo che sia
stato Daniel — ancora lui! — a parlargli di me. Mi
sembra fosse il 2003. In seguito ci siamo incrociati
di nuovo in studio, ancora per delle musiche da film,
due o tre volte, e successivamente Michel mi ha invitato nel trio a suo nome che all’epoca aveva con
Bruno Chevillon ed Eric Echampard.
Di chi è stata l’iniziativa di trasformare queste
esperienze occasionali nel vostro attuale PortalPeirani duo?
Quasi due anni fa, Michel ha avuto una carte blanche
all’Europa Jazz Festival di Mans, una serie di 15 concerti in forma esclusivamente ridotta, duo o trio. Mi
ha invitato a formare un duo ed è in seguito a quel
concerto che abbiamo deciso di continuare. Il repertorio si è in qualche misura sviluppato, ho portato anche alcune mie composizioni ma pure delle
reprise da brani che amo molto. Comunque, conoscevo assai bene la musica di Michel per averla ascoltata centinaia di volte, dunque il repertorio varia in
funzione dell’umore del giorno, del mood. Il che lo
rende qualcosa di molto vivo!
Una parola per descriverlo?
È divertente, malizioso e soprattutto molto teatrale.
Suonare dal vivo a fianco a lui è ogni volta una lezione. Emana qualcosa di unico in scena e gli spettatori lo percepiscono in modo molto forte.
Andrete mai ad incidere un disco basato su questo
VinCEnt PEirani
vostro scoppiettante duo?
Al momento siamo concentrati sui concerti dal vivo.
Duo, trio, quartetto, quintetto, non si sa, ma spero
vivamente che si possa registrare ancora insieme.
Non sono molti i fisarmonicisti puri della
musica
jazz: a parte le ambientazioni argen(aCt - 2013)
tine di Piazzolla — che puro non era — e prima
di lui, nel 1930, Charles Melrose ed i suoi Cellar Boys, solo negli anni ’80 la fisarmonica si
è imposta come strumento con una voce propria in grado di fraseggiare in jazz grazie alle
sue peculiari caratteristiche tecnico-sonore,
messe in luce dall’argentino Saluzzi, l’americano Klucevsek, il francese Galliano e l’italiano Salis, che l’hanno anche riscattata da
certe inflessioni folk-popolari. È per questo
che quando un nuovo fisarmonicista si affacVincent Peirani (fis, accordina, vc), Micia sul mondo del jazz suscita subito un certo
chael Wollny (pn, Fr), Michel Benita (cb) interesse. Ed il nizzardo Vincent Peirani ha
ospiti: Michel Portal (cl.bs, bandn),
una personalità musicale talmente peculiare
Émile Parisien (ss)
che è stato subito notato. Con diversi dischi
già
all’attivo, debutta ora in casa ACT con
Baïlero, Waltz for JB, hypnotic, good“Thrill Box”, album fondamentalmente in trio
night irene, B&h, air Song, 3 temps
— Michael Wollny al piano e Michel Bénita al
pour Michel’P, Shenandoah, i Mean
you, throw it away, Balkanski Cocek,
contrabbasso — nel quale, però, ha l’opporChoral
tunità di chiamare come ospiti alcuni degli
amici che ne hanno accompagnato, e in taluni casi anche determinato, l’ascesa. Un
suono, quello di Peirani, che sa essere rifinito
thrill Box
in Baïlero, trascinante su Hypnotic, in un magnifico unisono con Wollny, elegante in Waltz
for JB (di Brad Mehldau), misterioso insieme
al clarone del grande Michel Portal in B&H,
ma anche verace in 3 Temps pour Michel’P,
dedica all’ancista che in questa cavalcata in
3/4 lo accompagna al bandoneon. E ancora
delicato in Air Song, con il sopranista Émile
Parisien, il cui sax si libra sulle armonie tese
di Peirani. Toccante anche all’accordina nella
ninna-nanna tradizionale Goodnight Irene,
Peirani è allo stesso tempo ironico e puntuale
quando sfodera la sua abilità interpretativa
sulla monkiana I Mean You, ma anche riflessivo in Shenandoah, sentimentale e passionale in Throw It Away, omaggio a Abbey
Lincoln, popolare sugli accenti balcanici di
Balkanski Cocek affrontata con l’amico Parisien. E se si avessero dubbi sull’espressività
della sua fisarmonica si ascolti la solitaria
Choral. Un disco che per il trentatreenne Peirani è un modo di raccontare quanto finora
avvenuto nella sua carriera artistica e di raccontarsi insieme ai suoi mentori ed
amici._An.Rig.&An.Te.
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“Thrill Box”, il tuo lavoro più recente e debutto con
ACT, ti vede impegnato con il pianista tedesco Michael
Wollny ed il bassista franco-algerino Michel Bénita, in un
trio con alcuni ospiti. Si può dire che hai pensato il disco
come una sorta di “stato dell’arte” del tuo percorso?
Questo album è stato importante e diverso, dato che ho
voluto che l’incontro [fra i musicisti] si facesse direttamente in studio. Conoscevo musicalmente ciascuno di loro,
ma non ci conoscevamo tutti. Volevo che ci fosse freschezza, che si sentisse l’eccitazione ed il piacere dell’incontro nella musica. Inoltre, si passa dal solo al quartetto.
Mi piace molto quando le cose sono in continuo movimento.
Il fatto di cambiare formula su alcuni titoli per me è stata
una prova, così da poter davvero incontrare ciascun musicista in duo. Quest’album è come una foto, un’istantanea
di musica. Ognuna delle prese di registrazione è stata realizzata esclusivamente in un’unica incisione, in modo da
mantenere quella spontaneità, o anche quella fragilità.
Sei titolare del gruppo Living Being con Parisien, Tony
Paeleman al Fender Rhodes, Julien Herné al basso elettrico e Yoann Serra alla batteria: l’electric side di Vincent Peirani?
Assolutamente sì! È il mio lato elettrico. Dirò di più, non
ci sono praticamente composizioni in questo progetto. C’è
solamente una rilettura, quella di un brano di… Michel Portal: sempre presente con me! In ogni caso, si tratta di un
altro aspetto della mia personalità musicale. Mi sento vicino alla musica di “Thrill Box” tanto quanto a quella di Living Being, è in continuità.
A parte quello con tua moglie, la vocalist Séréna Fisseau, porti avanti anche alcuni progetti classici, come
quello con il violoncellista François Salque. In casi come
questi, ti limiti a suonare nel modo classico o c’è spazio
anche per qualcosa “fuori dal pentagramma”?
Ci sono certi pezzi in repertorio che non oso toccare, ma
in generale io, e pure François, cerchiamo di appropriarci
dei brani e di farne delle nuove versioni, delle nostre versioni. Comunque, siamo obbligati ad adattarci dal momento che le composizioni precedenti al XX secolo in
realtà non sono state scritte per violoncello e fisarmonica!
Cosa ne è del tuo progetto in solo L’Ébruiteur? È ancora
attivo e se sì quando ne farai un disco?
Il mio progetto in solo è sempre in attività, riesco a fare
una decina di concerti all’anno, che non è male. Sono felice di poter continuare quest’esperienza con me stesso. Il
solo è un esercizio a volte estremamente esigente, ma permette pure grandissima libertà. È un esercizio che adoro
praticare perché mi permette di provare nuove cose, di
assumere dei rischi e di restare vivo! Per quanto riguarda
un eventuale disco, arriverà, un giorno, ne sono certo: si
sta a vedere quando.