Capitolo 1 - Ordine dei Farmacisti della provincia di

-1- INTRODUZIONE
1. INTRODUZIONE
1.1 CARATTERISTICHE GENERALI ED USI TERAPEUTICI
L’ossigeno è l’elemento gassoso di simbolo O e numero atomico 8
appartenente al gruppo VIB (o 16) della tavola periodica.
Si tratta di un gas incolore, inodore, insapore e debolmente magnetico
che può essere condensato in un liquido blu pallido con spiccate
caratteristiche magnetiche. Allo stato solido è di colore blu ed è
prodotto comprimendo ad altissime pressioni il liquido. Ha peso
atomico 15,9994 e densità 1,429 g per litro; a pressione atmosferica
solidifica alla temperatura di -218,8 °C e liquefa a -183,4 °C.
L’ossigeno gassoso non combinato si trova normalmente in forma di
molecole diatomiche (O2), tuttavia esiste anche una forma triatomica
(O3) detta ozono. E’ l’elemento più abbondante del nostro pianeta e
costituisce il 21% in volume dell’atmosfera, l’85,8% degli oceani e il
46,7% della crosta terrestre. Il nostro corpo è costituito per il 60% da
ossigeno il quale, oltre ad essere un costituente principale dell’acqua,
è presente nei composti chimici che formano i tessuti degli organismi
viventi; quasi tutte le piante e gli animali, tra cui l’uomo, hanno
bisogno di ossigeno, allo stato libero o combinato, per mantenersi in
vita. È l’elemento essenziale nei processi respiratori della maggior
parte delle cellule viventi.
Dal punto di vista medico l’ossigeno appartiene ai gas medicinali i
quali, secondo la descrizione dell’UE, sono quei gas utilizzati in vivo
per eseguire diagnosi mediche o per ristabilire, correggere o
modificare funzioni fisiologiche (farmacologicamente attivi). Quindi
non viene più considerato come in passato un prodotto di secondaria
necessità, bensì un prodotto di qualità farmaceutica.
La terapia che prevede l’utilizzo dell’ossigeno è detta ossigenoterapia
ed è stata introdotta in Europa solamente negli anni ’80 (Garattini e
Cornago, 2004), benché fosse da tempo presente negli Stati Uniti.
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-1- INTRODUZIONE
Viene prescritta soprattutto per la cura delle broncopatie croniche e,
più in generale, per tutti i problemi legati alle malattie polmonari
(Rees e Dudley, 1998). Nel caso dell’ insufficienza respiratoria acuta
(IRA) rappresenta un vero e proprio salva-vita mentre nell’
insufficienza
respiratoria
cronica
secondaria
(IRC)
o
broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) diventa soprattutto un
trattamento a lungo termine, da qui l’abbreviazione in OLT. Mentre
nel primo caso (IRA) non esistono ad oggi procedure standardizzate,
l’OLT è ormai una terapia ben definita da studi e protocolli noti,
collaudati e riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale.
Tecnicamente esistono tre diverse modalità di erogazione
dell’ossigenoterapia:
a) le bombole di ossigeno gassoso, che rappresentano la forma più
tradizionale;
b) il “concentratore”, ovvero un’apparecchiatura a corrente
elettrica che permette di arricchire l’aria di ossigeno e
garantisce al paziente la possibilità di usufruire in modo
continuativo della terapia al proprio domicilio;
c) i contenitori portatili di ossigeno liquido, i quali permettono ai
pazienti di muoversi più liberamente e di svolgere le attività
quotidiane con maggior disinvoltura (attraverso lo Stroller).
1.1.1 Ossigeno gassoso
L’ossigeno gassoso medicinale è usato generalmente per urgenze e nel
caso di malati terminali; inoltre è suggerito per i malati acuti
temporanei, quali gli asmatici (Garattini e Tediosi, 2000).
Il sistema è composto da:
a) una bombola per ossigeno medicinale avente capacità geometrica
fra i 7 e i 14 litri; essa sviluppa una quantità di ossigeno che varia da
1.200 a 3.000 litri di gas a seconda della sopraccitata capacità
geometrica (Figura 1);
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b) un riduttore di pressione con selettore di flusso (dispositivo
medico), il quale permette di selezionare la quantità di litri al minuto
che il medico ha indicato;
c) la cannula o la maschera nasale e l’umidificatore.
Figura 1: Bombole di ossigeno gassoso
Uno dei maggiori inconvenienti di questo sistema è il fatto che le
bombole hanno una bassa autonomia e di conseguenza necessitano di
frequenti rifornimenti; inoltre presentano dimensioni e peso elevati ed
essendo compresse a 200 atm comportano pericolo di esplosioni. Per
questo motivo è vietato lubrificare qualsiasi parte di apparecchiatura
destinata a venire a contatto con l’ossigeno, sottoporsi al trattamento
con le mani o il viso cosparsi di unguenti o di qualsiasi pomata e
fumare nell’ambiente nel quale il paziente pratica l’ossigenoterapia.
Inoltre è necessario evitare il contatto dei tubi con punti caldi (fornelli,
stufe, fiamme, ecc.) e materiali incandescenti (fonti luminose, ecc.).
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-1- INTRODUZIONE
1.1.2 Concentratore
Figura 2: Esempio di concentratore
I concentratori sono sostanzialmente dei setacci molecolari
(contenenti alluminiosilicati o zeoliti sintetici) che, sfruttando la
diversa dimensione esistente tra le particelle di ossigeno e quelle di
azoto, allontanano queste ultime, fornendo così un gas contenente in
funzione del flusso, ossigeno in percentuale variabile tra l’85% ed il
90%. L’aria è spinta da un compressore elettrico attraverso un setaccio
molecolare che viene progressivamente saturato di molecole di azoto
con riduzione progressiva dell’efficacia; a questo punto una valvola
inverte il flusso d’aria facendo così entrare in funzione un secondo
filtro, mentre il primo si rigenera. L’ossigeno viene raccolto in un
serbatoio ed erogato al paziente attraverso un flussometro ed un
umidificatore. Questo apparecchio (Figura 2) ha il vantaggio di essere
semplice (anche per quanto riguarda la manutenzione) e facilmente
trasportabile in quanto pesa sui 15-25 Kg ed è provvisto di ruote; non
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-1- INTRODUZIONE
è viceversa un sistema portatile e va quindi prescritto solo a quei
pazienti che sono obbligatoriamente confinati nell’ambiente
domestico a causa delle loro condizioni generali. Per quanto riguarda
gli inconvenienti i pazienti ne lamentano la rumorosità, soprattutto
notturna, solo in parte ovviata dalla sistemazione dell’apparecchio in
una camera adiacente; altri problemi sono rappresentati dalla continua
dipendenza dalla rete elettrica, con il rischio di interrompere
l’erogazione per mancanza di corrente, e dal fatto che l’ossigeno
erogato non è puro e non si possono ottenere flussi superiori a 5
litri/minuto.
Esistono inoltre numerose precauzioni d’ impiego:
- non utilizzare prese multiple per l’alimentazione elettrica dell’
apparecchiatura;
- non utilizzare cavi molto lunghi (pericolo d’inciampo);
- non utilizzare solventi per pulire le superfici del concentratore;
- tenere lontano da fonti di calore;
- pulire periodicamente il filtro dell’aria lavandolo con acqua
corrente;
- rimuovere l’umidificatore giornalmente, sciacquarlo con acqua
corrente e riempirlo nuovamente sino al livello indicato con acqua
distillata o bollita a lungo;
- lavare l’umidificatore con acqua fredda e liquido detergente ogni tre
giorni.
1.1.3 Ossigeno liquido
L’ossigeno liquido medicinale è usato generalmente per
l’ossigenoterapia a lungo termine e sembra più adatto ai pazienti in età
lavorativa con insufficienza respiratoria.
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-1- INTRODUZIONE
Figura 3: Contenitore base di ossigeno liquido e contenitore portatile (stroller)
Il sistema è composto da un contenitore criogenico base per ossigeno
liquido medicinale (dispositivo medico), avente capacità geometrica
fra i 20 ed i 45 litri (Figura 3); esso sviluppa una quantità di ossigeno
che varia da 15.000 a 40.000 litri di gas, a seconda delle sopraccitate
capacità. Il contenitore, che contiene ossigeno liquido a circa 180
gradi sotto zero, possiede una serpentina che permette al prodotto di
gassificare fino a raggiungere la temperatura ambiente, un riduttore di
pressione con selettore di flusso, che consente di ottenere flussi
regolabili da 1 a 6 l/minuto, ed un doppio sistema di valvole di
sicurezza. Il paziente attinge direttamente dal serbatoio, oppure può
travasare l’ossigeno liquido in un contenitore più piccolo e portatile,
detto Stroller. Lo Stroller ha capacità variabile da 0,5 a 1 litro e peso
complessivo tra 1,5 e 3 Kg, con autonomia tra le 3 e le 7 ore per flussi
pari a 2 l/minuto (Figura 3). Questo sistema consente al paziente di
effettuare la OLT anche a distanza dalla sorgente di stoccaggio,
soprattutto durante il movimento. Le basse pressioni di stoccaggio, la
mancanza di odori, la lunga autonomia e l’erogazione di ossigeno
puro anche a flussi elevati, sono enumerati tra i fattori vantaggiosi del
metodo. Il rischio di esplosioni ed incendi però, anche se minore
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-1- INTRODUZIONE
rispetto all’ossigeno gassoso, non si riduce del tutto specialmente
quando, per uno spandimento accidentale di ossigeno liquido, questo
venga a contatto con idrocarburi infiammabili. Altro rischio sono le
ustioni della cute al contatto con l’ossigeno liquido, conservato a
bassissime temperature, durante le operazioni di travaso dal
contenitore base allo Stroller (Figura 4).
Figura 4: Precauzioni da adottare nell’uso dell’ossigeno liquido
1.1.4 Tecniche di somministrazione
La connessione tra le fonti di approvvigionamento di ossigeno e
l’apparato respiratorio del paziente può avvenire attraverso svariati
sistemi: cannule nasali, maschere facciali, sondini naso-faringei e
trans-tracheali.
Le cannule nasali (Figura 5) sono il sistema più diffuso e conosciuto,
consistente in due tubicini che vengono inseriti nelle narici ed
agganciati alle orecchie. Sono per questo note come occhialini e forse
proprio per la somiglianza agli occhiali risulta il dispositivo meglio
tollerato dal paziente, anche perché gli consente di parlare,
alimentarsi, espettorare. Il loro principale limite consiste nella scarsa
possibilità di regolare la miscela aria-ossigeno che arriva al paziente;
inoltre sono frequenti gli episodi di malposizionamento, in particolare
durante il sonno. Il sondino nasale non può essere usato nei soggetti
che soffrono di patologie stenosanti le fosse nasali o in quelli che
respirano esclusivamente attraverso la bocca. I problemi che può
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-1- INTRODUZIONE
causare durante l’uso a lungo termine sono l’irritazione delle mucose
nasali con insorgenza di epistassi, e il decubito retroauricolare.
Figura 5: Esempio di cannule nasali
La maschera ad effetto Venturi (Figura 6) consente invece di ottenere
miscele aria-ossigeno in percentuali fisse e riproducibili per tutti i
soggetti ed in qualsiasi momento; consiste in una piccola camera
aderente al volto del paziente con fori per l’espirazione. La
concentrazione di ossigeno all’interno della maschera è in rapporto al
flusso, al diametro dell’ugello e alle dimensioni delle feritoie, i quali
sono tutti parametri regolabili. Flussi di ossigeno inferiori a 5
litri/minuto possono indurre rebreathing di CO2; inoltre tutti i tipi di
mascherina sono piuttosto claustrofobizzanti (specie per i pazienti
ansiosi), non consentono di assumere cibo, di parlare o espettorare e si
malposizionano durante il sonno.
Figura 6: Maschera ad effetto Venturi
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I cateteri naso-faringei (Figura 7) sono cateteri monouso, in materiali
plastici morbidi e trasparenti a punta arrotondata, con numerosi
forellini nei due cm terminali; vengono posizionati in faringe
attraverso le fosse nasali e fissati al volto mediante un cerotto. Hanno
il vantaggio di ridurre la dispersione di ossigeno e non presentano
rischio di malposizionamento; tuttavia richiedono competenza
nell’applicazione, frequenti spostamenti da una narice all’altra e
altrettanto frequenti sostituzioni. Inoltre sono poco accettati
esteticamente e devono essere utilizzati con umidificatori ad elevata
efficacia poiché bypassando le narici non consentono la fisiologica
umidificazione.
Figura 7: Cateteri naso-faringei
I cateteri trans-tracheali (Figura 8) vengono inseriti a livello dello
spazio tra il secondo e il terzo anello cartilagineo della trachea e fatti
scendere fino a 2 cm al di sopra della carina; permettono così una
notevole economia di ossigeno dato che la trachea in questo caso
funziona come un serbatoio. Consentono di effettuare
l’ossigenoterapia a flussi elevati senza necessità di umidificazione e si
mimetizzano quasi totalmente; necessitano però di attenzione sia da
parte del medico che li introduce che da parte del paziente per la
successiva gestione domiciliare. Risultano particolarmente indicati nel
caso in cui siano necessari flussi di ossigeno elevati, siano presenti
stenosi nasali o il paziente non accetti l’ossigenoterapia per motivi
estetici. Tuttavia i cateteri, sia quelli naso-faringei che trans-tracheali,
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-1- INTRODUZIONE
possono provocare rischi di infezioni, secchezza delle mucose,
decubiti e ostruzione.
Figura 8: Cateteri trans-tracheali
1.2 NORMATIVA
Secondo la Farmacopea Ufficiale Italiana, ultima edizione, i gas
medicinali sono farmaci a norma di legge; l’ossigeno tuttavia è
contemporaneamente assimilabile ad un dispositivo medico, per cui
risulta più complessa la sua regolamentazione da parte delle autorità
pubbliche per quanto riguarda modalità di confezionamento e
distribuzione.
Con il DL 463/1983 l’ossigeno viene inserito nel prontuario dei
farmaci concessi dal SSN; viene contemplato però il solo ossigeno
gassoso inteso come preparato galenico a totale carico del SSN.
Rimanevano perciò esclusi l’affitto ed il trasporto della bombola e
l’acquisto degli accessori (come i deflussori e le cannule ); il prezzo
veniva fissato dal Tariffario Nazionale dei Medicinali.
L’ossigeno liquido compare per la prima volta nella terapia a lungo
termine, affiancato a quello gassoso, in una lettera dell’Istituto
Superiore di Sanità alla Federfarma del 05/02/1990; si deve però
attendere la IX edizione della Farmacopea Ufficiale per vederlo
inserito a pieno titolo, con i requisiti minimi di purezza.
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-1- INTRODUZIONE
Con il DM 03/04/1992 l’ossigeno liquido viene inserito tra i farmaci
del Prontuario Terapeutico, con prescrizione limitata ai soggetti affetti
da insufficienza respiratoria cronica in ossigenoterapia a lungo
termine ed in possesso del relativo documento, rilasciato dalle ASL,
attestante l’esistenza della patologia e quindi il diritto ad usufruire
della sua dispensazione a carico del SSN.
Con la revisione del Prontuario Terapeutico e l’istituzione della nota
CUF n. 58, è venuta meno la necessità dell’autorizzazione delle ricette
in quanto il medico curante, indicando a fianco della prescrizione la
nota 58 e controfirmandola, si assumeva la responsabilità di aver
verificato il diritto del paziente ad ottenere il farmaco a carico del SSN
ed il rispetto del Piano Terapeutico.
Infatti la nota 58 riporta: “l’uso terapeutico dell’ossigeno gassoso è a
carico del SSN. L’ossigeno Terapeutico in forma liquida è a carico del
SSN con possibilità di distribuzione diretta anche da parte delle
strutture pubbliche limitatamente ai soggetti affetti da insufficienza
respiratoria cronica in ossigenoterapia a lungo termine, accertata
secondo le modalità previste dal decreto ministeriale n. 329/1999
( Regolamento recante norme di individuazione delle malattie
croniche ed invalidanti. La dispensazione di ossigeno terapeutico
liquido e gassoso, in qualsiasi volume e per qualunque tipo di
patologia, attuata tramite le farmacie aperte al pubblico, deve avvenire
senza onorario professionale relativo alla dispensazione.)”
Dal 01/01/2001 con la legge finanziaria 2001 viene abolito il ticket
quota fissa per ricetta.
Dal 19/11/2004 attraverso la determinazione (det.) AIFA del
29/10/2004 (S.O. GU 259 04/11/2004 n. 162) è stata abolita la nota n.
58 in attesa di uno specifico provvedimento. Pertanto il diritto del
paziente ad usufruire dell’ossigeno liquido si poteva evincere
esclusivamente dall’apposizione sulla ricetta del codice di patologia.
Dal 31/12/2004 la disposizione della det. 29 ottobre 2004 con
riferimento alla nota n. 58 viene abrogata. Quindi tale nota viene
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-1- INTRODUZIONE
ripristinata e, in attesa di un nuovo provvedimento, si applicano le
procedure vigenti prima dell’entrata in vigore della det. 29/12/2004.
Dal 02/02/2006 vengono rideterminati i prezzi dell’ossigeno
terapeutico attraverso la det. 25 gennaio 2006; esso viene classificato
come segue:
- O2 gassoso: classe di rimborsabilità “A”; prezzo ex factory (IVA
esclusa) 6,20 euro/m3;
- O2 liquido: classe di rimborsabilità “A”; prezzo ex factory (IVA
esclusa) 4,20 euro/m3;
prezzo valido 48 mesi.
Per quanto riguarda la fornitura, l’ossigeno rientra tra i medicinali
soggetti a prescrizione medica; la prescrizione dell’ossigeno liquido
richiede diagnosi e piano terapeutico e sia l’ossigeno liquido che il
gassoso vengono inseriti nell’allegato 2 alla det. 29 ottobre 2004 PHT
(Prontuario della distribuzione diretta). Il PHT rappresenta la lista dei
medicinali per i quali sussistono le condizioni di impiego clinico e di
setting assistenziale compatibili con la distribuzione diretta, ma la cui
adozione, per entità e modalità dei farmaci elencati, dipende
dall’assetto normativo, dalle scelte organizzative e dalle strategie
assistenziali definite e assunte da ciascuna Regione.
La produzione dell’ossigeno deve invece avvenire seguendo le norme
di produzione dei farmaci GMP (Good Manufacturing Practice).
1.3 USI NON TERAPEUTICI
Tra le numerosissime proprietà dell’ossigeno c’è anche quella di
essere un blando euforizzante; infatti già nel XIX secolo veniva usata
una miscela di ossigeno e protossido d’azoto (il cosiddetto gas
esilarante) per ottenere una specie di effetto analgesico.
Questa sua caratteristica venne scoperta da un pastore della Chiesa
anglicana, il celebre Joseph Priestley, alla fine del Settecento. Egli
aveva messo a punto un sistema completamente nuovo per studiare i
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-1- INTRODUZIONE
gas: poneva la sostanza da esaminare su una superficie di mercurio
liquido in un contenitore di vetro sigillato, che veniva poi riscaldato
dai raggi solari; i gas prodotti durante il riscaldamento si
raccoglievano sopra il mercurio. Tra le tante sostanze che mise alla
prova dei raggi solari ci fu l’ossido di mercurio che, sotto l’azione del
calore, produsse un gas incolore, che si depositò sopra lo strato di
mercurio liquido. Il gas prodotto dalla reazione aveva delle
caratteristiche particolari: era in grado infatti di rinfocolare una
fiamma e di allungare la vita di un topo posto sotto una campana di
vetro. Priestley decise allora di provare su se stesso i suoi effetti e notò
che l’inalazione del gas non causava alcun danno apparente, e aveva
anzi un piacevole effetto di benessere e di aumento delle forze.
Oggi tali effetti vengono sfruttati a scopo ricreativo nei bar con
ossigeno, i cosiddetti Oxybar (Figura 9), molto diffusi negli Stati Uniti
e sempre più famosi anche in altri paesi quali Giappone, Tailandia o
Inghilterra.
Figura 9: Bar con ossigeno
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-1- INTRODUZIONE
La nascita di questi locali è dovuta al fatto che l’aria che respiriamo è
sempre più povera di ossigeno. A partire dalla rivoluzione industriale,
nella seconda metà del diciottesimo secolo, il tasso di combustione dei
combustibili fossili sta continuamente aumentando per via della
sostituzione del lavoro degli esseri umani ed animali con quello delle
macchine. Per produrre l’energia necessaria ad alimentare tali
macchine si devono bruciare combustibili quali benzina ed olio
attraverso processi che esauriscono ossigeno e producono anidride
carbonica. Quindi la concentrazione di ossigeno nell’aria che
respiriamo si sta lentamente riducendo ed è necessario respirare più
aria per ottenere un sufficiente apporto di ossigeno. L’ossigeno infatti
è assolutamente essenziale per sostenere il processo di “combustione
vitale” che mantiene la vita; anche se una persona può vivere per
settimane senza cibo o per giorni senza acqua, muore in pochi minuti
se privato di ossigeno. Il corpo umano ne deve disporre per convertire
carboidrati, grassi e proteine della nostra dieta in calore, energia e
vita; più ossigeno abbiamo nel nostro sistema, più energia
produciamo. Tale energia è intesa anche in termini di lavoro
muscolare per migliorare le prestazioni atletiche e raggiungere gli
obiettivi desiderati.
L’Oxybar permette di rigenerarsi, ritornare in piena forma dopo sforzi
estenuanti, smaltire affaticamento e stress, aumentare lo spirito
agonistico e ristabilire rapidamente i livelli massimi di ossigeno. In
questi locali ci si distende, si ascolta musica e si inala una miscela
composta per il 90% da ossigeno puro e per il resto da aromi.
L’apparecchiatura necessaria per produrre tale miscela è composta da
un generatore ed un infusore che fa passare le bolle di ossigeno
attraverso le bottiglie aromatiche e trasporta la miscela al tubetto
flessibile per il naso da cui il cliente la inala. Il generatore viene
alimentato con aria ambiente e diretto verso un compressore ad aria
inserito nel generatore stesso. Questo consiste di due vassoi riempiti di
vagli molecolari lavorati con zeolite sintetica, che funge da mezzo
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-1- INTRODUZIONE
assorbente. Ha lo stesso meccanismo del concentratore: dopo che
l’aria viene compressa passa attraverso uno degli assorbitori che attrae
l’azoto e le impurità ad alta pressione e le rilascia ad una pressione più
bassa (ciclo di rigenerazione). Si ottiene in questo modo ossigeno puro
al 93%. L’infusore è invece necessario per mescolare l’ossigeno
gassoso in uscita dal generatore con aroma e acqua prima
dell’inalazione. Gli infusori contengono quattro diversi aromi che i
clienti possono scegliere, attivandoli singolarmente o mescolandoli;
sono poi dotati di un sistema a timer digitale (30 minuti) per regolare
tempo e flusso. Gli aromi hanno lo scopo di migliorare il delizioso
effetto e la piacevole sensazione dei clienti durante l’inalazione
(Figura 10).
Figura 10: Esempi di oli aromatici essenziali da miscelare all’ossigeno
Vengono distribuiti in set da 28,3 grammi per ogni odore e durano
circa un anno; i profumi disponibili sono: eucalipto (rinfrescante,
rinvigorente), lime (sensuale,esotico), limone (tiepido), clementina
(armonizzante), lavanda (allegro), mentina (dolce), menta (fresco),
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-1- INTRODUZIONE
anguria (bilanciato, semplice), noce di cocco (vitale), fragola
(sensazione forte), vaniglia (effetto pulente), cappuccino (energetico),
pesca (aumento dell’animazione, purificante).
L’inalazione avviene attraverso tubicini disegnati appositamente, con
un design ergonomico per un’applicazione facile e confortevole.
I frequentatori degli Oxybar assicurano che l’ossigeno aiuta a
distendersi, riduce lo stress, aumenta la concentrazione e la vigilanza e
favorisce una generale sensazione di benessere. Coloro che lo
respirano regolarmente affermano di dormire meglio, di svegliarsi più
felici e di sentirsi ringiovaniti.
Per quanto riguarda le procedure di sicurezza, l’Associazione
americana dei polmoni sostiene che non ci sia alcun rischio finchè
l’ossigeno viene inalato per periodi inferiori a 60 minuti. L’inalazione
può irritare i polmoni soltanto se questi sono esposti per lunghi
periodi (più di alcune ore). Le sessioni di inalazione nei bar con
ossigeno variano tra i 5 ed i 30 minuti, assicurando quindi solo
benefici e nessun rischio.
1.4 LINEE GUIDA
L’ossigeno è un gas ampiamente disponibile che viene prescritto da
personale medico e che, somministrato correttamente, può essere un
vero e proprio salva-vita; spesso però non vengono valutati
accuratamente i suoi benefici e i suoi effetti. Come ogni farmaco ci
sono precise indicazioni che riguardano il trattamento
ossigenoterapico; dosi inappropriate e mancanza di sorveglianza della
terapia possono avere serie conseguenze. Un’ indagine ospedaliera
avvenuta qualche anno fa negli Stati Uniti ha rilevato che, nel
campione in esame, il 21% delle prescrizioni di ossigeno erano
inappropriate e l’85% dei pazienti non era monitorato correttamente.
Studi analoghi riportano come nella pratica comune l’ossigeno sia
spesso prescritto inadeguatamente; per questa ragione è necessaria la
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-1- INTRODUZIONE
presenza di linee guida che vengano periodicamente aggiornate e
scrupolosamente rispettate (Bateman e Leach, 1998).
La prescrizione di ossigeno terapeutico a lungo termine (OLT)
necessita di una precisa regolamentazione anche al fine di garantire su
tutto il territorio regionale (in particolare si fa riferimento nel nostro
studio alla Regione Marche) una omogeneità nell’erogazione di tale
prestazione, in considerazione dell’aumentata incidenza delle
patologie respiratorie croniche e degli elevati costi connessi a questa
terapia.
Per ossigenoterapia a lungo termine si intende la somministrazione
continuativa di ossigeno supplementare ai pazienti con ipossiemia
cronica (PaO2 uguale o inferiore a 55 mmHg) in quantità tale da
riportare il contenuto di ossigeno nelle arterie a valori vicini alla
norma (PaO2 superiore a 60 mmHg); solitamente la terapia ha durata
minima di 15 ore al giorno (British Thoracic Society, 2006).
Gli obiettivi della OTL sono:
1. migliorare l’aspettativa di sopravvivenza;
2. migliorare le condizioni neuropsichiche e le prestazioni
psicofisiche, quindi la qualità della vita;
3. ridurre l’incidenza della poliglobulia;
4. prevenire e ritardare l’evoluzione verso l’ipertensione polmonare ed
il cuore polmonare cronico;
5. migliorare la qualità del sonno ed evitare gli episodi di
desaturazione notturna;
6. evitare gli episodi di desaturazione durante lo sforzo;
7. ridurre il numero delle riacutizzazioni, il numero dei ricoveri ed i
giorni di degenza annua e, di conseguenza, la spesa di gestione della
malattia ed i suoi costi sociali.
Le malattie trattabili con ossigenoterapia a lungo termine sono:
a) Broncopneumopatia cronica ostruttiva
(Raccomandazione Grado A) (NICE, 2004);
b) fibrosi polmonare diffusa;
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-1- INTRODUZIONE
c) fibrosi cistica;
d) sindrome post-TBC;
e) pneumoconiosi;
f) cifoscoliosi;
g) esiti di resezione polmonare;
h) ipertensione arteriosa polmonare;
i) patologia della gabbia toracica e malattie neuromuscolari.
Tali malattie sono trattate in OLT continuativa purché siano rispettati
determinati criteri:
a) Pazienti con ipossiemia cronica stabilizzata; l’ipossiemia è stabile
quando venga confermata da 4 emogasanalisi intervallate da 15 giorni
per due mesi consecutivi, sia in fase di stabilità clinica, sia con
paziente a riposo da almeno 1 ora. La terapia medica deve essere
finalizzata, oltre che al controllo della patologia respiratoria, anche
alla correzione di un’eventuale anemia o di uno scompenso cardiaco
congestizio. E’ infine estremamente importante rafforzare ogni
strategia volta alla sospensione dell’abitudine tabagica del paziente in
quanto questa rappresenta un pericolo per la sua sicurezza e limita i
benefici della OLT innalzando i livelli di carbossiemoglobina
(Raccomandazione Grado I) (Veterans Health Administration,
1999).
b) La OLT non deve essere prescritta ai pazienti con ipossiemia
cronica che hanno un valore di PaO2 superiore a 60 mmHg (British
Thoracic Society, 2006).
c) La valutazione dei pazienti candidati ad OLT deve comprendere
l’ emogasanalisi su sangue arterioso in due occasioni a distanza di
almeno tre settimane (Raccomandazione Grado D) (NICE, 2004).
Nel tempo intercorrente tra i prelievi può essere effettuata una
ossigenoterapia provvisoria.
d) La misurazione emogasanalitica su sangue arterioso deve avvenire
dopo trenta minuti di riposo respirando aria ambiente
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(Raccomandazione Grado I) (Veterans Health Administration,
1999).
e) PaO2 < 55 mmHg o SaO2 < 88%, con o senza ipercapnia
(Evidenza A) (GOLD, 2001).
f) PaO2 tra 55-60 mmHg o SaO2 pari a 89%, se associata a
(Raccomandazione Grado A) (NICE, 2004):
- policitemia;
- ipertensione polmonare;
- scompenso cardiaco congestizio;
- ipossiemia notturna (SaO2 < 90% per più del 30 %
del tempo);
- segni clinici di ipossia cerebrale (Veterans Health
Administration, 1999);
- cardiopatia ischemica (Raccomandazione basata
sul consenso).
g) Il paziente deve essere in grado di accettare il numero di ore
prescritte, che devono essere di almeno 15 ore al giorno per ottenere i
benefici attesi; i maggiori benefici si sono osservati in pazienti che
ricevevano ossigeno per 20 ore al giorno (Raccomandazione Grado
A) (NICE, 2004). Poichè la pressione polmonare aumenta in maniera
significativa solo dopo due-tre ore dalla sospensione dell’ossigeno, le
interruzioni non dovrebbero superare tale durata di tempo (Selinger et
al., 1987). Solitamente si inizia con un flusso di ossigeno pari a 2
litri/minuto con cannula nasale o maschera ad affetto Venturi. Se
l’ossigenazione risulta insufficiente il flusso può essere gradualmente
aumentato. Non ci sono evidenze di
benefici derivanti
dall’incremento di flusso durante la notte (British Thoracic Society,
2006).
h) I pazienti che assumono OLT devono essere rivalutati almeno una
volta l’anno (Raccomandazione Grado D), preferibilmente ogni sei
19
-1- INTRODUZIONE
mesi (Raccomandazione basata sul consenso) ( British Thoracic
Society, 1999).
L’aderenza alle linee guida rimane problematica in quanto la maggior
parte delle prescrizioni di OLT (60-82%) vengono basate su
emogasanalisi effettuate al momento di una riacutizzazione di BPCO e
relativamente pochi pazienti (35-65%) vengono valutati in condizioni
di effettiva stabilità clinica; per questa ragione un recente studio ha
dimostrato che se non è possibile individuare lo stato di stabilità
clinica, la valutazione del paziente deve essere effettuata ad almeno
due mesi dall’ultima riacutizzazione (MacNee, 2005).
Tutti i criteri sopra elencati vanno scrupolosamente rispettati in quanto
un’ ossigenoterapia inappropriata nei soggetti affetti da BPCO può
causare depressione respiratoria (Raccomandazione Grado C)
(NICE, 2004).
La OLT, oltre che nell’ipossiemia cronica, può essere utilizzata anche
in caso di:
1. ipoventilazione notturna, dovuta a obesità, patologie
neuromuscolari o spinali, apnee ostruttive del sonno (trattate con
ventilatore di tipo CPAP); in questi casi assume il ruolo di tecnica di
supporto al ventilatore;
2. uso palliativo nella dispnea dovuta a neoplasie polmonari o ad altre
patologie terminali (British Thoracic Society, 2006).
Le linee guida riportano nella definizione di OLT anche la
somministrazione discontinua di ossigeno (durante le ore notturne o
durante l’esercizio fisico) nei seguenti casi:
1. episodi di desaturazione notturna che comportino una riduzione del
valore di SaO2 al di sotto del 90% e che interessino complessivamente
almeno il 30% della durata di registrazione (Raccomandazione
Grado IIa) (Veterans Health Administration, 1999);
2. ipossiemia durante sforzo moderato (Raccomandazione Grado D)
( NICE, 2004): PaO2 < 60 mmHg o SaO2 < 90% durante test del
cammino per 6 minuti (COPD, 2002).
20
-1- INTRODUZIONE
Livelli di evidenza e/o Gradi delle Raccomandazioni nelle referenze
citate
Secondo la definizione dell’Institute of Medicine statunitense, le linee
guida sono “raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate
mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle
opinioni degli esperti, con lo scopo di aiutare medici e pazienti a
decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche
situazioni cliniche”.
Una linea guida per la pratica clinica si deve basare sulle migliori
prove scientifiche e deve includere una dichiarazione esplicita sulla
qualità delle informazioni utilizzate (Levels of evidence) e
importanza/rilevanza/fattibilità/priorità della loro implementazione
(Strenth of reccomendation).
Il metodo usato per sintetizzare le informazioni deve essere quello
delle revisioni sistematiche.
Il processo di sviluppo di una linea guida è multidisciplinare, con il
coinvolgimento di tutti gli operatori sanitari interessati, di esperti
metodologi e di cittadini o pazienti. Per questa ragione, nel caso
specifico dell’ossigenoterapia, ci sono numerosi istituti e gruppi di
esperti che hanno elaborato diverse linee guida, ciascuna con le
proprie evidenze e raccomandazioni.
Ad ogni raccomandazione viene attribuito un grado che riflette
direttamente la gerarchia dell’evidenza su cui è basato; gerarchia
dell’evidenza e grado delle raccomandazioni si riferiscono alla forza
dell’evidenza e non all’importanza clinica.
21
-1- INTRODUZIONE
1. NICE (National Institute for Clinical Excellance).
GERARCHIA DI EVIDENZA
LIVELLO
Ia
Ib
GRADI DELLE RACCOMANDAZIONI
TIPO DI EVIDENZA
evidenza da sistematiche reviews o
meta-analisi di studi randomizzati
controllati
evidenza da almeno uno studio
randomizzato controllato
II a
evidenza da almeno uno studio
controllato non randomizzato
II b
evidenza da almeno un altro tipo di
studio quasi sperimentale
III
IV
evidenza da studi descrittivi non
sperimentali come studi comparativi e
di correlazione
evidenza da reports di un'esperta
commissione o opinioni e/o
esperienze cliniche di autorità
rispettevoli
GRADO
EVIDENZA
A
basata sulla I evidenza
B
basata sulla II evidenza o
estrpolata dalla I evidenza
C
basata sulla III evidenza o
estrapolata dalla I o II
evidenza
D
direttamente basata sulla IV
evidenza o estrapolata dalla
I,II o III evidenza
2. VHA (Veterans Health Administration).
Grado I: raccomandazione solitamente indicata, sempre accettabile e
considerata utile ed effettiva.
Grado II a: raccomandazione accettabile, di efficacia incerta, può
essere discutibile. Il peso dell’evidenza dipende da utilità/efficacia.
Grado II b: raccomandazione accettabile, di efficacia incerta, può
essere discutibile. Non viene completamente stabilita dall’evidenza,
può essere utile e probabilmente non dannosa.
3. GOLD (Global Initiative for Chronic Obstructive Lung Disease).
A. Studi randomizzati controllati. Numerosi dati.
L’evidenza proviene dalle conclusioni di
studi randomizzati
controllati che forniscono un consistente campione di risultati
22
-1- INTRODUZIONE
riguardanti i soggetti per i quali viene fatta la raccomandazione. La
categoria A richiede un considerevole numero di studi e di
partecipanti.
B. Studi randomizzati controllati. Dati limitati.
L’evidenza proviene dalle conclusioni di limitati studi randomizzati
controllati; infatti in generale la categoria B si utilizza quando esistono
pochi studi randomizzati controllati e ci sono pochi partecipanti che
inoltre differiscono dal target della raccomandazione; oppure i risultati
sono alquanto inconsistenti.
C. Studi non randomizzati. Osservazionali. L’evidenza non proviene
da studi randomizzati ma osservazionali.
D. Giudizio di un gruppo di esperti. Questa categoria è utilizzata solo
nel caso in cui la disposizione di una linea guida sia ritenuta preziosa
ma la letteratura clinica relativa a quel determinato soggetto sia
ritenuta insufficiente a giustificare l’appartenenza ad una delle altre tre
categorie. Il giudizio di un gruppo di esperti è basato su esperienze
cliniche o letterarie che non rientrano nei criteri sopra elencati.
1.5 EFFETTI FISIOLOGICI, TERAPEUTICI E TOSSICI
DELL’OSSIGENOTERAPIA
1.5.1 Basi fisiologiche della respirazione
L’evento fisiologico più importante che coinvolge l’ossigeno è la
respirazione. Con questo termine viene indicata la cascata di eventi
coordinati che consentono agli organismi aerobici lo scambio gassoso
tra le cellule e l’aria ambiente. La continua richiesta di ossigeno da
parte delle cellule crea un gradiente che, per questo gas, è diretto
dall’esterno verso l’interno delle cellule stesse, mentre per la CO2 è
diretto in verso opposto. La necessità di ossigeno da parte delle cellule
è determinata dall’attività ossidativa dei mitocondri che producono,
per mezzo della fosforilazione ossidativa, l’ATP; questo è un prodotto
altamente energetico implicato in numerosissime attività,
23
-1- INTRODUZIONE
caratteristiche del metabolismo cellulare, che comportano consumo di
energia.
E’ necessario che nell’organismo sia mantenuto un flusso continuo di
ossigeno tra i polmoni e le cellule periferiche; tuttavia i miliardi di
cellule che compongono l’organismo non possono essere ossigenate
per semplice diffusione dei gas, per cui sono necessari dei sistemi di
trasporto. In particolare ricoprono questo ruolo il sangue (considerato
come eritrociti e plasma) ed il sistema cardiocircolatorio che, oltre a
pompare il sangue, ne cura la distribuzione a tutte le cellule e, nel
versante venoso, permette il trasporto della CO2 dalle cellule ai
polmoni consentendone l’eliminazione (Bruna e Onoscuri, 1993).
Per valutare la quantità d’aria effettiva che viene introdotta nelle vie
aeree durante gli atti respiratori si utilizza il concetto di ventilazione
polmonare, ovvero il volume d’aria mobilizzata nell’unità di tempo.
Essa risulta costituita da due componenti: la ventilazione alveolare
vera e propria e la ventilazione dello spazio morto. La ventilazione
alveolare è la quantità di gas che affluisce e defluisce dagli alveoli
nell’unità di tempo e partecipa agli scambi gassosi con il sangue
capillare polmonare; la ventilazione dello spazio morto è invece l’aria
mobilizzata tra la aperture oronasali ed i bronchioli terminali, che non
partecipa agli scambi gassosi. Per usi clinici non è necessario avere il
valore esatto della ventilazione alveolare ma è sufficiente una stima
della sua adeguatezza, che si ottiene facilmente attraverso la
valutazione della tensione alveolare di CO2; questa si identifica con la
PaCO2 del sangue arterioso, a sua volta facilmente determinabile
attraverso l’emogasanalisi.
E’ da un corretto rapporto ventilazione/perfusione che dipende la resa
complessiva della respirazione.
La respirazione è dotata di un duplice sistema di controllo, la
regolazione nervosa e la regolazione chimica.
La regolazione nervosa è quella che coinvolge i centri del respiro; essi
sono formati da diversi neuroni centrali suddivisi in centri respiratori
24
-1- INTRODUZIONE
bulbari e pontini. I primi sono localizzati nella sostanza reticolare del
quarto ventricolo, dove si distinguono un centro inspiratorio ed uno
espiratorio. Quelli pontini si trovano nella sostanza reticolare del
ponte e sono distinti in centro apneustico e centro pneumotassico. Un
complesso gioco di feed-back tra questi centri permette l’alternarsi
delle fasi del respiro. I centri respiratori sono collegati con la periferia
per mezzo di vie nervose sia afferenti che efferenti; le prime si
collegano a livello midollare con i neuroni motori che a loro volta
danno origine alle vie ventilatorie discendenti attraverso i cordoni
anteriori e anterolaterali del midollo: nervo frenico per il diaframma e
nervi intercostali per i muscoli intercostali. Dai centri respiratori
bulbari partono anche le vie efferenti che si mettono in contatto con i
nuclei motori del V, VII, IX, X, XI e XII paia di nervi cranici che a
loro volta controllano bocca, lingua, narici, faringe, laringe e muscoli
lisci del sistema tracheobronchiale. Le vie afferenti ai centri del
respiro portano stimoli da molte parti dell’organismo: dall’albero
bronchiale, dal diaframma, da alcune aree del sistema arterioso (arco
aortico, seno carotideo, glomi aortico e carotideo, barocettori delle
pareti dei vasi), da recettori articolari, muscolari e cutanei.
Per quanto riguarda la regolazione chimica, le variazioni di pH,
PaCO2, PaO2, operano un controllo di importanza fondamentale sui
centri del respiro. Sulla superficie ventrale del bulbo, nel IV
ventricolo, sono presenti recettori sensibili ai livelli di CO2 nel liquor;
quest’ultimo contenendo meno proteine del sangue, possiede anche
una minor capacità di tamponare la variazioni di pH indotte da un
aumento della CO2. L’aumento della PaCO2 nel liquor che viene a
contatto con i chemiorecettori centrali, determina un’iperventilazione
che tende ad aumentare l’eliminazione di CO2 con l’aria espirata.
L’ipercapnia (aumento della quantità di CO2 nel sangue) nel soggetto
normale rappresenta il più potente stimolo ventilatorio, potendo con
solo 2,5 mmHg di aumento determinare il raddoppio della
ventilazione di base. A sua volta la riduzione di CO2 determina un
25
-1- INTRODUZIONE
blocco nei centri del respiro che può arrivare fino all’apnea.
Un’iperventilazione può provenire anche da una riduzione del pH del
sangue arterioso che provoca eccitazione dei chemiorecettori
periferici; tale stimolo è però meno potente dell’ipercapnia.
Alla riduzione del pH sono sensibili anche i recettori centrali; a questo
livello però il pH non determina una loro stimolazione perché gli ioni
H+ non superano facilmente la barriera ematoencefalica, a meno che la
riduzione del pH sia molto importante; reciprocamente un aumento
del pH provoca inibizione dei centri del respiro e quindi
ipoventilazione. Le variazioni di pH agiscono in modo autonomo
rispetto alle variazioni di PaCO2.
L’azione della PaCO2 è prevalentemente diretta sui centri del respiro;
è ammessa anche un’azione indiretta con mediazione dei
chemiorecettori periferici, che sembra però essere molto meno
rilevante rispetto alla prima. Tale azione indiretta sarebbe potenziata
dall’ipossiemia, che comunque in condizioni fisiologiche ha
importanza nettamente minore. La diminuzione di PaCO2 provoca
iperventilazione da stimolazione dei neuroni dei chemiorecettori
aortici e senocarotidei, collegati ai centri del respiro per mezzo dei
nervi vaghi e glossofaringei.
I chemiorecettori periferici rappresentano il principale meccanismo di
controllo dell’ipossiemia poiché i recettori aortici e carotidei sono
modestamente sensibili a variazioni di PaCO2 mentre sono
potentemente stimolati da cambiamenti della PaO2 e del pH del
sangue arterioso.
La diminuzione di PaO2 nel sangue arterioso che arriva invece ai
centri del respiro non provoca aumento della ventilazione, per lo meno
non direttamente; infatti l’ipossia nel liquor determina depressione dei
centri del respiro causando ipoventilazione. Tale depressione viene
però corretta dal conseguente abbassamento del pH liquorale per
acidosi e ne consegue uno stimolo all’iperventilazione.
26
-1- INTRODUZIONE
Lo stimolo iperventilatorio prodotto da un’ipossiemia è efficace solo
se la PaO2 scende sotto i 50 mmHg; se però oltre all’ipossiemia è
presente anche ipercapnia, si ha una sommazione dei due stimoli e si
ottiene una buona risposta di iperventilazione anche per valori di PaO 2
superiori ai 50 mmHg. Nei casi patologici di ipossiemia stabile, si ha
al suo instaurarsi un aumento della ventilazione, che però, se perdura,
viene inibito dall’ipocapnia che ne risulta. Quindi in condizioni
fisiologiche lo stimolo guida all’iperventilazione è legato alla PaCO2.
I pazienti con ipercapnia cronica presentano un buon tamponamento
del pH liquorale, anche in presenza di acidosi respiratoria, perciò
risulta mancante o fortemente compromesso lo stimolo operato dagli
H+ sui recettori centrali. In questi casi una ventilazione adeguata è
mantenuta dai recettori periferici sensibili all’ipossiemia (guida
ipossica del respiro). Anche questi recettori però rispondono poco ad
una riduzione del pH ematico perché nelle insufficienze respiratorie
croniche questo è riportato alla norma dal compenso renale.
Nell’ipercapnia cronica superiore ai 60 mmHg la somministrazione di
ossigeno diventa critica perché può abolire l’unico stimolo valido a
mantenere elevata la ventilazione, con conseguente ulteriore aumento
della capnia. Nei casi di grave insufficienza respiratoria con livelli
liquorali ed ematici di CO2 elevati, l’ulteriore aumento della PaCO2
determina insensibilità dei chemiorecettori centrali alla CO2, con
abolizione della risposta ventilatoria (Bruna e Onoscuri, 1993).
1.5.2 Patologia della funzione respiratoria
Eventi patologici possono inserirsi in qualunque punto della catena di
meccanismi fisiologici che permettono il passaggio dell’ossigeno
dall’aria atmosferica ai tessuti che lo utilizzano nella loro attività
metabolica. Danni a vari livelli possono indurre un quadro di ipossia
tissutale; l’alterazione patologica si può presentare a livello
polmonare, ematologico, circolatorio o direttamente a livello dei
27
-1- INTRODUZIONE
tessuti, realizzandosi la suddivisione dell’ipossia in ipossica, anemica,
stagnante e istotossica.
L’ipossiemia arteriosa è caratteristica quasi esclusiva delle forme di
ipossia ipossica; comunque causata, essa può indurre tutta una serie di
conseguenze fisiopatologiche interpretabili come ricerca di un
compenso all’ipossiemia stessa, o provocate dal ridotto apporto di
ossigeno (Figura 11).
L’ipossiemia arteriosa induce innanzitutto un aumento della
ventilazione non per effetto diretto sui centri respiratori, ma per
stimolazione dei neuroni dei chemiorecettori periferici; a loro volta
questi inviano gli stimoli ai centri respiratori superiori attraverso il
nervo vago e glossofaringeo. L’iperventilazione da ipossiemia si
manifesta però solo per riduzioni importanti della PaO2, se queste non
sono accompagnate da un aumento della capnia.
Un altro effetto provocato dall’ipossia, così come anche
dall’ipercapnia, è un’ostruzione bronchiale riflessa, anch’essa mediata
dalla stimolazione dei recettori aortici e carotidei del vago. Questa
ostruzione è relativamente modesta ma essendo proporzionale al
calibro bronchiale di partenza, può essere significativa in
broncopneumopatici bronchitici.
L’aumento della portata cardiaca è un ulteriore meccanismo di
compenso che l’organismo mette in atto per difendere le sue cellule
dall’ipossiemia: essa tende ad incrementare la velocità del circolo e
quindi il rifornimento tissutale di ossigeno nell’unità di tempo; la
tachicardia è la prima e più immediata risposta cardiovascolare
all’ipossiemia.
L’ipossiemia arteriosa provoca un aumento della massa eritrocitaria
totale circolante per aumentata increzione di eritropoietina. Questo
ormone viene prodotto dal rene ed ha un effetto di stimolo sulla
componente eritropoietina-sensibile del comparto cellulare staminale,
del quale provoca l’orientamento differenziativo in senso eritroide. La
poliglobulia induce un netto miglioramento nel trasporto di ossigeno
28
-1- INTRODUZIONE
fino a che l’aumentata viscosità del sangue non inizia ad interferire
sulla velocità del circolo, il cui rallentamento annulla i vantaggi di un
maggior contenuto arterioso di ossigeno; infatti al di sopra del 55% di
ematocrito la viscosità ematica aumenta in maniera logaritmica.
Infine l’ipertensione polmonare, che si instaura progressivamente in
presenza di ipossiemia arteriosa, può essere interpretata entro certi
limiti come un meccanismo di compenso, almeno nelle
broncopneumopatie ostruttive (Bruna e Onoscuri, 1993).
Per rendere completo il quadro sull’ipossiemia è importante
considerare anche gli effetti biochimici a livello cerebrale e muscolare
indotti dalla carenza di ossigeno (Jakobson e Jorfeldt, 1995;
Hjalmarsen et al.,1999). A livello cerebrale la definizione “clinica” di
insufficienza respiratoria si conferma valida poiché 60 mmHg di PaO2
è il valore al quale i neuroni consumano tutto l’ossigeno disponibile.
Nell’animale da esperimento l’ipossia induce una disfunzione del
sistema dopaminergico e noradrenergico; nei pazienti affetti da BPCO
vi è una buona evidenza che il deficit cognitivo si correli con la
gravità e la durata delle alterazioni emogasometriche (ipossia in
particolare) (Hjalmarsen et al.,1999; Barberà et al., 2000). Invece per
quanto riguarda la muscolatura scheletrica è stato documentato da
esperimenti di laboratorio che l’ipossia cronica alteri spiccatamente
l’attività delle fibre nervose afferenti spiegando la più facile
stancabilità dei pazienti ipossiemici (Dousset et al., 2001). Infine a
livello del sistema nervoso simpatico è stato documentato che
un’ipossiemia moderata in pazienti con insufficienza respiratoria
cronica determina una marcata attivazione (Heindl et al., 2001).
29
-1- INTRODUZIONE
Figura 11: L’ipossia cronica: un quadro complesso e variegato
1.5.3 L’ossigenoterapia come correzione dell’ipossiemia
Il miglioramento dell’ipossia arteriosa induce, nei vari organi e
apparati, una riduzione dei danni a cascata secondari all’ipossia stessa.
Questo favorevole effetto si produce indipendentemente dal modo in
cui l’ipossia venga corretta anche se la risoluzione della causa prima è
indubbiamente il miglior modo per combattere gli effetti secondari.
Quando però, per la presenza di danni respiratori irreversibili, non è
possibile una cura eziologica, i problemi derivanti dall’ipossiemia
arteriosa possono essere risolti con approcci terapeutici che
correggano l’ipossiemia anche senza migliorarne le cause.
L’inalazione di aria arricchita di ossigeno comporta un incremento
della pressione parziale alveolare secondo l’equazione dei gas
alveolari:
PaO2 = PaiO2 (PaCO2/R) + K
30
-1- INTRODUZIONE
dove PaO2 è la pressione alveolare di ossigeno, PaCO2 è quella della
CO2, PaiO2 è la pressione di ossigeno nell’aria ambiente inspirata, R è
il quoziente respiratorio e K un fattore di correzione.
L’iperossia alveolare è in grado di correggere l’ipossiemia arteriosa
quando questa sia legata ad ipoventilazione alveolare, ad alterazione
della diffusione alveolo-capillare dell’ossigeno e a squilibri del
rapporto ventilazione/perfusione.
L’insufficienza respiratoria da broncopneumopatia cronica ostruttiva è
prevalentemente legata ad alterazione del rapporto ventilazione/
perfusione e in parte, soprattutto nelle forme ipercapniche, ad
ipoventilazione alveolare; quindi nella BPCO è logica l’indicazione ad
un aumento terapeutico della pressione di ossigeno nell’aria inspirata
e tale assunto teorico viene confermato dai risultati clinici.
Il fine ultimo dell’ossigenoterapia è la correzione dell’ipossia
tissutale, con un aumento della pressione mitocondriale di ossigeno e
quindi con un miglioramento delle prestazioni cellulari. Quando
l’indicazione è corretta, l’ossigenoterapia a lungo termine induce un
miglioramento fino alla cessazione delle conseguenze dell’ipossiemia
descritte precedentemente, sia di quelle compensatorie che di quelle
dovute a danneggiamento cellulare.
Il miglioramento della PaO2 riduce la frequenza ventilatoria, facendo
cessare lo stimolo ipossiemico compensatorio sui chemiorecettori
carotidei e aortici; il diminuito lavoro dei muscoli respiratori comporta
un risparmio di ossigeno e una diminuzione della dispnea.
Diminuisce anche il lavoro cardiaco poiché l’incremento della portata
non è più necessario per assicurare una ragionevole distribuzione
dell’ossigeno con il sangue arterioso. La tachicardia si riduce
rapidamente con il miglioramento dell’ossiemia: anche su questo
versante si ottiene quindi una riduzione del consumo di ossigeno.
La poliglobulia invece non diminuisce significativamente nei primi sei
mesi di trattamento con OLT, evidentemente perché i meccanismi
ormonali stimolanti il midollo osseo agiscono in tempi più lunghi;
31
-1- INTRODUZIONE
inoltre i globuli rossi già formati non risentono più della diminuita
increzione renale di eritropoietina. Una riduzione della poliglobulia si
osserva invece dopo 12 mesi di trattamento e diventa molto
significativa dopo 18 mesi.
L’ipertensione arteriosa polmonare dovuta a ipossiemia subisce una
modesta riduzione nei pazienti in trattamento continuativo; nei
soggetti che invece assumono ossigeno per meno di 12 ore al giorno
non si evince nessun miglioramento.
La tolleranza allo sforzo muscolare è sicuramente aumentata in corso
di ossigenoterapia, sia come maggior lavoro sviluppato, sia come
durata dell’esercizio fisico. Questo è dovuto ad un miglior
rifornimento di ossigeno ai muscoli, con diminuzione del lavoro in
anaerobiosi e quindi con una miglior resa energetica; l’aumentata
tolleranza è anche legata al miglioramento ventilatorio e circolatorio
che permette di compiere lo stesso lavoro ad un livello più basso di
ventilazione e di frequenza cardiaca (Bruna e Onoscuri, 1993).
Durante il trattamento in OLT i test documentano un miglioramento
dell’efficienza intellettuale, con riduzione delle preesistenti alterazioni
della memoria, dell’apprendimento, di astrazione, di rapidità delle
operazioni mentali e della coordinazione. Alcuni disturbi psichiatrici a
tipo psiconevrosi si possono ridurre per migliore ossigenazione
cerebrale (Heaton et al., 1983).
Migliora anche la qualità del sonno che diventa meno frammentato
consentendo al paziente di svegliarsi più riposato (Bruna e Onoscuri,
1993).
1.5.4 Effetti collaterali e rischi da ossigeno
La remora maggiore all’impiego continuativo dell’ossigenoterapia è il
rischio di ipercapnia (Figura 12). Non è un timore infondato poiché
l’ossigenoterapia, cancellando lo stimolo ipossico al respiro (in
condizioni di ridotta risposta ventilatoria alla CO2), può indurre una
ulteriore ritenzione di anidride carbonica fino a portare il paziente
32
-1- INTRODUZIONE
all’encefalopatia ipercapnica. Perché questo succeda è però necessario
che preesista un’insufficienza respiratoria ipossiemico-ipercapnica e
che lo stimolo ipercapnico non sia più sufficiente ad ottenere
un’adeguata stimolazione alla ventilazione. Il timore di un’ipercapnia
secondaria è perciò praticamente infondato quando inizialmente sia
presente un’ipossiemia senza ipercapnia. È vero che all’inizio di un
trattamento ossigenoterapico si registra sempre un modesto
incremento della capnia, ma rapidamente questa si stabilizza e non
presenta poi sensibili variazioni. Solo nelle ipercapnie acute e nelle
riacutizzazioni delle ipercapnie croniche (per esempio per
riacutizzazione della BPCO) si possono presentare dei rischi,
probabilmente legati all’improvvisa risoluzione per effetto
dell’ossigeno di un’acidosi lattica cerebrale, stimolatrice della
ventilazione. È perciò importante controllare con emogasanalisi
seriate le variazioni della CO2 e del pH arterioso all’inizio del
trattamento (Bruna e Onoscuri, 1993).
Figura 12: L’ossigenoterapia ad alti flussi provoca lo sviluppo di ipercapnia
33
-1- INTRODUZIONE
Un altro effetto che può verificarsi è la tossicità polmonare, evento
piuttosto raro che si verifica solo quando viene inalato ossigeno puro a
pressione superiore a due atmosfere; la tossicità è legata ai radicali
liberi, dannosi per le cellule alveolari e tracheobronchiali (ATS
Statement, 1995). In realtà solo alcune delle molecole di ossigeno
sono trasformate in radicali liberi, in quanto la componente principale
del metabolismo dell’ossigeno è l’acqua. L’esposizione prolungata a
concentrazioni elevate di ossigeno supera la capacità delle cellule di
eliminare i radicali liberi, da qui i fenomeni di ossidazione che
danneggiano il tessuto polmonare. La tossicità inizia con l’irritazione
del tratto respiratorio, la progressiva diminuzione della capacità vitale
e una sindrome caratteristica che si manifesta con modificazioni
dell’umore, nausea, vertigini, contrazioni muscolari, e porta infine a
convulsioni e perdita della coscienza.
Alcuni studi hanno dimostrato che in pazienti con BPCO al terzo
stadio la somministrazione a lungo termine di ossigeno a bassi flussi
provoca un forte stress ossidativo dovuto alla formazione di radicali
liberi; questo può essere contrastato dalla sommnistrazione di Nacetil-cisteina la quale, alla dose maggiore, è in grado di prevenire
completamente l’ossidazione proteica (Foschino Barbaro et al., 2005).
Ci sono poi i danni locali da ossigeno, legati alla modalità con cui
questo viene somministrato. Edema, arrossamento e senso di
secchezza possono verificarsi alle narici e in faringe in corso di OLT,
soprattutto se vengono utilizzati occhialini nasali o sondini
nasofaringei, ma anche con maschere ad effetto Venturi. Con i primi
due sistemi è possibile anche la comparsa di cacosmia ed epistassi, sia
per iperemia diffusa della mucosa nasale, sia per decubito su di essa
delle cannule. Per risolvere questi problemi sono solitamente
sufficienti una corretta umidificazione, l’eventuale impiego di creme
locali e l’uso alternato di diversi mezzi di raccordo (Bruna e Onoscuri,
1993).
34
-1- INTRODUZIONE
Non sono da trascurare infine le reazioni psicologiche negative che
possono avere i pazienti in OLT, come il timore di danni a lungo
termine, la paura di un’intossicazione e la vergogna per la reazione
altrui. Di solito l’appoggio psicologico e una blanda terapia
ansiolitica-antidepressiva sono sufficienti a risolvere le situazioni più
comuni, anche considerando che la OLT ha frequentemente un
benefico effetto sulle psiconevrosi depressivo-ansiose provocate dalla
malattia di base (Bruna e Onoscuri, 1993).
1.6 PATOLOGIE TRATTABILI: LA BPCO
La BPCO è la quarta causa di morte negli Stati Uniti (dopo
cardiopatie, neoplasie e malattie cerebrovascolari) e la quinta nel
mondo (GOLD, 2006); secondo le stime è destinata a divenire la terza
causa di morte entro il 2020 (Murray e Lopez, 1997).
Nel 2000 l’OMS ha stimato che ci sono stati 2,8 milioni di morti per
BPCO. Colpisce tutte le popolazioni ma è maggiore nei paesi
industrializzati; interessa sia maschi che femmine, con un continuo
aumento nel sesso femminile, ed ha una maggiore incidenza in età
avanzata (GOLD, 2006). Tuttavia la BPCO è un problema non
trascurabile anche in età giovanile; infatti è stato evidenziato da studi
epidemiologici che il 10% di giovani tra i 20 e i 44 anni presenta tosse
ed espettorato senza ostruzione bronchiale (stadio 0 a rischio) mentre
il 3,6% presenta sintomi con ostruzione bronchiale (stadio I-III) (De
Marco et al., 2004).
In Italia le malattie dell’apparato respiratorio rappresentano la terza
causa di morte e la BPCO è responsabile del 50-55% di esse; la
mortalità interessa le fasce di età più avanzate e maggiormente i
maschi rispetto alle femmine (GOLD, 2006). Nel nostro Paese è in
aumento considerando i dati degli anni ’80 ed è sottodiagnosticata
rispetto alle diagnosi formulate attraverso questionari standardizzati
negli studi epidemiologici (Viegi et al.,1999).
35
-1- INTRODUZIONE
L’ossigenoterapia, aumentando la concentrazione di ossigeno nell’aria
inspirata, ha il compito di normalizzare la pressione parziale
dell’ossigeno nel sangue arterioso, preservando con ciò la funzione
degli organi vitali; attualmente è l’unico trattamento in grado di
modificare il decorso naturale della BPCO, la principale causa di
insufficienza respiratoria (Grassi et al., 2003). La BPCO è una
malattia dell’apparato respiratorio caratterizzata da un’ostruzione
irreversibile delle vie aeree, di entità variabile a seconda della gravità.
La malattia è solitamente progressiva ed è associata ad uno stato di
infiammazione cronica del tessuto polmonare. La conseguenza a
lungo termine è un vero e proprio rimodellamento dei bronchi, che
provoca una riduzione consistente della capacità respiratoria. In
particolare la limitazione al flusso espiratorio è dovuta a:
- enfisema: lesione sostanzialmente irreversibile definita come perdita
del potere di ritorno elastico per distruzione proteolitica della trama
elastica del polmone, responsabile della compressione dinamica
(espiratoria) delle vie aeree periferiche;
- malattia delle piccole vie aeree: alterazione potenzialmente
reversibile definita come rimodellamento infiammatorio delle vie
aeree (ipertrofia e contrazione della muscolatura liscia, distorsione e
obliterazione dei bronchioli, ipersecrezione di muco) responsabili
dell’ostruzione al flusso (Figura 13).
Nel polmone infatti le vie aeree e il parenchima sono tra loro
interdipendenti: le vie aeree dipendono dal parenchima per la forza di
retrazione elastica che contribuisce a mantenerle pervie; il parenchima
dipende dalle vie aeree per il flusso d’aria che lo distende.
Un’alterazione primaria in una sede finisce con il determinare
influenze secondarie sull’altra (Fabbri et al., 2003).
36
-1- INTRODUZIONE
Figura 13: Meccanismi responsabili della limitazione al flusso nelle vie aeree
I dati attualmente disponibili indicano che nella stragrande
maggioranza dei casi la BPCO è la conseguenza di una prolungata
esposizione, per via inalatoria, ad agenti nocivi; questi a loro volta
innescano processi infiammatori a livello delle vie aeree inferiori. Il
danno strutturale, che ha come risultato finale il rimodellamento delle
vie aeree e dei vasi polmonari, è secondario all’esposizione inalatoria
nociva e, ancor più, alle conseguenti risposte infiammatorie. Alcuni
soggetti sono più suscettibili di altri agli effetti dannosi
dell’esposizione e dell’infiammazione e alla capacità di riparare il
danno (Figura 14) (Fabbri et al., 2003).
37
-1- INTRODUZIONE
Figura 14: Patogenesi della broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO)
La flogosi è la risposta di un tessuto vascolarizzato ad una lesione ed
il suo scopo è quello di riparare, ripristinare e, se necessario,
rimodellare il tessuto danneggiato. Nella BPCO molte sono le cellule
infiammatorie aumentate e/o attivate e numerose le loro interazioni
(Page et al., 2000). In particolare è stato dimostrato un aumento dei
neutrofili attivati (Thompson et al., 1989), dei linfociti T (Finkelstein
et al., 1995; Saetta et al., 1998) e dei macrofagi (Saetta et al., 2000;
Hill et al., 1999), il cui numero è correlabile alla gravità della malattia.
Il fumo di sigaretta attiva i macrofagi al rilascio sia di mediatori
chimici (leucotriene B4, interleuchina-8, fattore di necrosi tumoralealfa) che di enzimi elastolitici, incluse le catepsine e le
metalloproteineasi di matrice (Figura 15).
38
-1- INTRODUZIONE
Vengono inoltre liberati mediatori infiammatori, leucotrieni (dotati di
una potente azione chemiotattica per i neutrofili) (Hill et al., 1999) e
specie reattive dell’ossigeno (originate dal fumo di sigaretta, da
macrofagi e neutrofili). I pazienti affetti da BPCO sono sottoposti ad
un importante stress ossidativo e le loro difese sono ridotte; le specie
reattive dell’ossigeno (Repine et al., 1997; Ichinose et al., 2000)
esercitano numerosi e importanti effetti nocivi:
- ossidazione delle anti-protineasi (alfa1-antitripsina) e attivazione
delle metalloprotineasi di matrice con conseguente aumentata
proteolisi;
- costrizione della muscolatura liscia delle vie aeree (H2O2) ed
essudazione plasmatica delle stesse (OH);
- attivazione del fattore nucleare di trascrizione KB che orchestra
l’espressione di numerosi geni infiammatori.
Nei pazienti con BPCO sono aumentate anche le chemochine
(interleuchina 8) (Mueller et al., 1996) e le citochine (fattore di
necrosi tumorale-alfa) (Keatings et al., 1996) con, rispettivamente, una
potente azione chemotattica verso i neutrofili e un contributo ad alcuni
effetti sistemici della malattia.
L’endotelina-l (Back et al., 1989; Giaid et al., 1993) è aumentata
nell’espettorato indotto dei pazienti affetti da BPCO ed è possibile che
contribuisca al rimodellamento vascolare associato all’ipertensione
polmonare ipossica. Infine nella BPCO vengono rilasciati numerosi
enzimi (proteineasi) che degradano le proteine della matrice attraverso
il meccanismo responsabile della distruzione alveolare dell’enfisema.
I neutrofili secernono tre principali classi di proteineasi (McElvaney e
Crystal, 1997): l’elastasi neutrofila, la catepsina G e la proteineasi-3.
Le metalloproteineasi di matrice sono un gruppo di endopeptidasi
capaci di degradare tutti i componenti della matrice extracellulare del
parenchima
polmonare:
elastina,
collagene,
proteoglicani,
fibronectina. Sono prodotte dai neutrofili, dai macrofagi alveolari e
dalle cellule epiteliali.
39
-1- INTRODUZIONE
Figura 15: La risposta infiammatoria nella broncopneumopatia cronica
ostruttiva. IL-8 = interleuchina-8; LTB4 = leucotriene B4; MMP =
metalloproteineasi di matrice.
I due sintomi principali della BPCO sono la tosse e la dispnea,
qualche volta accompagnati da respiro sibilante. Spesso la tosse è
cronica, più intensa al mattino e caratterizzata dalla produzione di
muco. La dispnea compare gradualmente nell’arco di diversi anni e
nei casi più gravi può arrivare a limitare le normali attività quotidiane.
Ci sono però anche pazienti che sviluppano una significativa
ostruzione al flusso in assenza di sintomi respiratori cronici.
Il principale strumento diagnostico per la BPCO è la spirometria; si
tratta di un test di semplice e rapida esecuzione, facilmente
riproducibile e ben correlato al grado di deficit respiratorio. I
parametri comunemente esaminati dall’esame spirometrico si
distinguono in volumi polmonari statici e volumi polmonari dinamici
come FEV1, CVF (massimo volume d’aria mobilizzata a partire da
una inspirazione massima) e VEMS (volume di aria espirato dopo
40
-1- INTRODUZIONE
un’inspirazione massima). Il FEV1 è il parametro di riferimento per la
classificazione di gravità e in base a questo la malattia è stata
classificata in quattro diversi stadi:
stadio 0: soggetto a rischio che presenta tosse cronica e produzione di
espettorato; la funzionalità respiratoria risulta ancora normale alla
spirometria;
stadio I: malattia lieve, caratterizzata da una leggera riduzione della
capacità respiratoria;
stadio II: malattia moderata, caratterizzata da una riduzione più
consistente della capacità respiratoria e da dispnea in caso di sforzo;
stadio III: malattia severa caratterizzata da una forte riduzione della
capacità respiratoria oppure dai segni clinici di insufficienza
respiratoria o cardiaca;
stadio IV: malattia molto grave in presenza di insufficienza
respiratoria o di segni clinici di scompenso cardiaco destro.
Per quanto riguarda i fattori di rischio, questi comprendono i fattori
individuali e l’esposizione ad agenti ambientali; la malattia di solito
deriva dall’interazione fra questi due diversi tipi di fattori.
Il fattore individuale che è meglio documentato è il deficit ereditario
severo di alfa-1 antitripsina; invece i principali fattori ambientali sono
rappresentati dal fumo di sigaretta, da polveri e sostanze chimiche in
ambiente professionale e dall’inquinamento degli ambienti interni ed
esterni.
Il fumo di sigaretta è la principale causa della BPCO; l’OMS stima nel
mondo oltre 1 miliardo di fumatori, con un aumento fino ad oltre 1,6
miliardi nel 2025; nei paesi a basso-medio tenore di vita la percentuale
di fumatori sta crescendo in modo allarmante (GOLD, 2006). Circa il
20% dei fumatori sviluppa la BPCO mentre il 30% di quelli oltre i 40
anni presenta una limitazione al flusso aereo (Fletcher e Peto, 1977;
Zielinski e Bednarek, 2001). Anche l’esposizione al fumo passivo può
contribuire all’insorgenza di sintomi respiratori e della malattia,
41
-1- INTRODUZIONE
aumentando il carico globale di particelle e gas inalati; in particolare è
associato allo sviluppo di stadio 0 e stadio 1 (De Marco et al., 2004).
Non esiste una cura efficace per la BPCO che consenta di ripristinare
la funzionalità respiratoria perduta; esistono comunque tutta una serie
di trattamenti per gestire la malattia e consentire di raggiungere i
seguenti obiettivi:
- prevenire la progressione della malattia;
- migliorare i sintomi;
- migliorare la tolleranza allo sforzo;
- migliorare lo stato di salute;
- prevenire e curare le riacutizzazioni;
- prevenire e trattare le complicanze;
- ridurre la mortalità;
- minimizzare gli effetti collaterali della terapia.
Il trattamento può essere suddiviso in quattro fasi:
1. Valutazione e monitoraggio
La diagnosi di BPCO si basa sull’anamnesi di esposizione a fattori di
rischio e sulla presenza di una persistente riduzione del flusso aereo,
in presenza o meno di sintomi. La spirometria rappresenta lo
strumento diagnostico meglio standardizzato, più riproducibile ed
oggettivo; gli operatori sanitari che trattano pazienti con BPCO
dovrebbero avere la possibilità di eseguire una spirometria senza
difficoltà. I soggetti con tosse cronica ed espettorato, e/o dispnea, e/o
storia di esposizione a fattori di rischio dovrebbero essere testati per
valutare la presenza di riduzione del flusso aereo.
Oltre alla spirometria esistono tutta una serie di ulteriori indagini:
1) - test del cammino (6 minuti): distanza percorsa camminando alla
massima velocità per 6 minuti;
- BMI (Body Mass Index): peso (Kg) diviso altezza al quadrato;
- grado di dispnea (Scala del Medical Research Council);
2) funzionalità respiratoria;
42
-1- INTRODUZIONE
3) - test di reversibilità con broncodilatatori;
- Rx torace: per diagnosi differenziate con altre patologie
respiratorie;
- pulsossimetria (SaO2): per diagnosticare la desaturazione
arteriosa;
- emogasanalisi arteriosa: per diagnosticare l’insufficienza
respiratoria e/o l’ipercapnia.
Il test diagnostico per il deficit di alfa-1 antitripsina è indicato nei
soggetti con BPCO o asma non completamente reversibile e in
fratelli/sorelle con deficit severo di alfa-1 antitripsina.
4) - esame emocromo per valutare la presenza di poliglobulia;
- ECG ed ecocardiografia nei pazienti con insufficienza respiratoria,
per valutare la presenza di cuore polmonare;
- tomografia computerizzata del torace non come indagine di
routine ma da utilizzare nel caso si proponga un intervento chirurgico
per rimozione di bolle o per un lung volume reduction.
2. Riduzione dei fattori di rischio
Per prevenire l’insorgenza e l’evoluzione della BPCO è importante
ridurre l’esposizione al fumo di tabacco, alle polveri in ambito
professionale, all’inquinamento degli ambienti interni ed esterni. La
sospensione dell’abitudine tabagica è considerato l’intervento più
efficace ed economicamente vantaggioso per ridurre il rischio di
sviluppare la BPCO ed arrestarne la progressione (Evidenza A)
(GOLD, 2006). Un trattamento per la dipendenza dall’abitudine
tabagica dovrebbe essere proposto ad ogni fumatore; sono risultati
particolarmente efficaci il trattamento farmacologico ed il sostegno
comportamentale.
3. Trattamento della BPCO stabilizzata
Dovrebbe essere caratterizzato da un progressivo incremento della
terapia, in relazione alla gravità della malattia; tuttavia anche
43
-1- INTRODUZIONE
l’educazione sanitaria del paziente affetto da BPCO può migliorare la
sua capacità di gestire la malattia stessa.
1) TRATTAMENTO FARMACOLOGICO
Nessuno dei farmaci impiegati nella BPCO si è dimostrato efficace nel
modificare il progressivo peggioramento della funzione ventilatoria,
caratteristico della malattia. Sono tuttavia importanti per migliorare i
sintomi e/o ridurre le riacutizzazioni e possono aumentare la
sopravvivenza. Le categorie di terapie utilizzate sono: Beta-2 agonisti
e anticolinergici, corticosteroidi inalatori, vaccino anti-influenzale e
antipneumococcico, teofillina, immunomodulatori, antiossidanti,
mucolitici. I Beta-2 agonisti e gli anticolinergici a lunga durata
d’azione sono i broncodilatatori di prima scelta ed hanno un ruolo
centrale nel trattamento della BPCO; l’efficacia dei broncodilatatori
va valutata sia in termini di miglioramento funzionale che di
miglioramento dei sintomi, della tolleranza allo sforzo e della qualità
della vita. Recentemente sono stati annunciati importanti dati emersi
da un’analisi combinata di due studi condotti in pazienti con BPCO e
riguardanti la riduzione di mortalità con l’utilizzo di combinazioni
fisse di farmaci. I risultati evidenziano come i pazienti trattati con
budesonide/formoterolo o budesonide associati a terbutalina al
bisogno, abbiano manifestato una significativa riduzione della
mortalità rispetto a quelli trattati con formoterolo e/o terbutalina al
bisogno.
Questi
dati
evidenziano
come
l’uso
di
budesonide/formoterolo o budesonide, porti ad una riduzione della
mortalità del 44% rispetto all’utilizzo del solo broncodilatatore. In
un’altra pubblicazione, che riporta i risultati ottenuti su 4263 pazienti
in BPCO, le associazioni precostituite ICS+LABA hanno dimostrato
di ridurre la mortalità o l’ospedalizzazione dei pazienti che
utilizzavano questa terapia, rispetto a quelli che assumevano solo il
broncodilatatore (Soriano et al., 2003).
44
-1- INTRODUZIONE
2) TRATTAMENTO NON FARMACOLOGICO
Questo tipo di trattamento comprende la riabilitazione, la terapia
chirurgica, l’ossigenoterapia a lungo termine e la ventilazione
meccanica a lungo termine.
Il trattamento riabilitativo è in grado di determinare un miglioramento
della capacità di esercizio fisico e della dispnea (Evidenza A)
(GOLD, 2006) indipendentemente dal livello di ostruzione delle vie
aeree (Evidenza B) (GOLD, 2006); l’effetto positivo della
riabilitazione si osserva in funzione del numero di sedute, mentre non
vi è evidenza che l’aggiunta di ossigeno ne migliori gli effetti
(Evidenza C) (GOLD, 2006).
La terapia chirurgica invece comprende: bullectomia, riduzione di
volume polmonare e trapianto polmonare.
Per quanto riguarda l’ossigenoterapia a lungo termine, questa viene
utilizzata nei pazienti con insufficienza respiratoria cronica da BPCO
al IV stadio e si è dimostrata efficace nell’aumentare la sopravvivenza
(Evidenza A) (GOLD, 2006). Inoltre consente di ridurre i giorni di
ospedalizzazione del 43,5%, le percentuali di ricovero del 23,8% ed il
numero di pazienti con almeno un’ospedalizzazione del 31,2%
(GOLD, 2006).
Infine la ventilazione meccanica a lungo termine, in aggiunta alla
OLT, può migliorare gli scambi respiratori e i sintomi, ma non la
sopravvivenza di pazienti ipercapnici con BPCO stabile.
4. Trattamento delle riacutizzazioni
Le riacutizzazioni sono eventi clinici importanti nella storia della
BPCO e sono definite come un peggioramento della sintomatologia
tale da comportare una modificazione della terapia. La loro frequenza
aumenta con la gravità dell’ostruzione bronchiale e una maggiore
frequenza può comportare il peggioramento dello stato di salute ed un
aumento della mortalità. L’eziologia è tuttora sconosciuta anche se le
infezioni sembrano avere un ruolo significativo.
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-1- INTRODUZIONE
Secondo le stime i pazienti affetti da BPCO moderata o grave vanno
incontro a due riacutizzazioni l’anno, ma in fase grave esse possono
essere molto più frequenti (Miravitlles et al., 1999). In questi casi i
pazienti vengono più spesso ospedalizzati e la lunghezza della loro
degenza è maggiore rispetto a quella di chi è soggetto a riacutizzazioni
meno frequenti (Donaldson et al., 2002). In uno studio americano
condotto su oltre 1000 pazienti affetti da BPCO grave, la durata media
dei ricoveri per riacutizzazioni è risultata di 9 giorni (Connors Jr et al.,
1996). Nel Regno Unito, le riacutizzazioni sono responsabili di 1
ricovero al pronto soccorso ogni 8 ( Kidney et al., 2002). Possono
richiedere una lunga permanenza ospedaliera e una significativa quota
di pazienti non raggiunge la remissione completa (Seemungal et al.,
2000). Rappresentano inoltre una significativa causa di morte: in uno
studio americano condotto su oltre 1000 pazienti affetti da BPCO
grave ricoverati per una riacutizzazione, il 20% dei degenti è deceduto
entro due mesi dal ricovero, il 33% entro sei mesi e il 43% entro un
anno (Hilleman et al., 2000).
Quindi nel paziente affetto da BPCO, il rischio di mortalità è
strettamente correlato alla frequenza e gravità delle riacutizzazioni;
per questo risulterebbe utile ridurre tali episodi per allungare la vita.
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