PROGRAMMA FILOSOFIA
INDICE
UNITA’ 1 FILOSOFIA ANTICA
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PARTE 1
Platone…………………………………………………………………P.3
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PARTE 2
Aristotele…………………………………………………………………P.19
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PARTE 3
Presocratici……………………………………………………………….P.23
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PARTE 4
Socrate…………………………………………………………………P.33
UNITA’ 2 FILOSOFIA CRISTIANA
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PARTE 1
Patristica……………………………………………………………….P.39
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PARTE 2
Scolastica…………………………………………………………………P.41
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PARTE 3
Il pensiero arabo e ebraico……………………………………………..P.44
UNITA’ 3
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FILOSOSFIA MODERNA E PENSIERO SCENTIFICO
PARTE 1
La rivoluzione culturale tra umanesimo e
rinascimento………………………………………………………….P.47
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PARTE 2
La rivoluzione astronomica…………………………………………..P.49
UNITA’ 1
PARTE 1 PLATONE
Platone (in greco Πλάτων, Pláton) (Atene, 427 a.C. – Atene, 347 a.C.) è stato un
filosofo greco antico. Assieme al suo maestro Socrate ed al suo allievo Aristotele ha
posto le basi del pensiero filosofico occidentale.
Biografia
Nacque ad Atene da genitori aristocratici, Aristone, che gli impose il nome del nonno,
Aristocle, e Perittione, la quale, secondo Diogene Laerzio, discendeva da Solone. La
sua data di nascita viene fissata da Apollodoro di Atene, nella sua Cronologia,
all'ottantottesima Olimpiade, nel settimo giorno del mese di Targellione, ossia alla
fine di maggio del 428 a.C. Ebbe due fratelli, Adimanto e Glaucone, citati nella sua
Repubblica, e una sorella, Potone, madre di Speusippo, futuro allievo e successore,
alla sua morte, alla direzione dell'Accademia di Atene.
Fu un altro Aristone, un lottatore di Argo, suo maestro di ginnastica, a chiamarlo
Platone, (da platos, ampio) date le ampie spalle; altri danno del nome un'altra
derivazione, come l'ampiezza della fronte o la maestà dello stile letterario. Diogene
Laerzio, riferendosi ad Apuleio, a Olimpiodoro e a Eliano, informa che avrebbe
coltivato la pittura e la poesia, scrivendo ditirambi, liriche e tragedie, che avrebbero
avuto in seguito, insieme ai mimi, un' importanza fondamentale per la scrittura dei
suoi dialoghi.
Avrebbe partecipato a tre spedizioni militari, durante la guerra del Peloponneso, a
Tanagra, a Corinto e a Delio, dal 409 a.C. al 407 a.C., anno in cui, conosciuto Socrate,
avrebbe distrutto tutte le sue composizioni poetiche per dedicarsi completamente alla
filosofia. Dopo la parentesi del governo, oligarchico e filo-spartano, dei Trenta
tiranni, del quale fece parte suo zio Crizia, il nuovo governo democratico accusò di
empietà e di corruzione dei giovani Socrate, condannandolo a morte nel 399 a.C. alla cui esecuzione Platone non assistette perché malato.
Frequentò allora l'eracliteo Cratilo e il parmenideo Ermogene, ma non è certo se la
notizia sia reale o se voglia giustificare la sua successiva dottrina, influenzata sotto
diversi aspetti dal pensiero dei suoi due grandi predecessori, Eraclito e Parmenide, da
lui considerati gli autentici fondatori della filosofia. Sempre verso il 399 a.C. sarebbe
andato a Megara insieme con altri allievi di Socrate, poi a Cirene, frequentando il
matematico Teodoro di Cirene e ancora in Italia, dai pitagorici Filolao ed Eurito. Di
qui, si sarebbe recato in Egitto, dove i sacerdoti l'avrebbero guarito da una malattia.
Ma la fondatezza della notizia di questi viaggi è molto dubbia.
Certo è invece che Platone sia stato a Siracusa, intorno al 388 a.C., governata da
Dionigi I, dove strinse amicizia col cognato del tiranno, Dione, che guardò con favore
ai programmi politici di Platone. Ma opposto fu l'atteggiamento di Dionigi, che
costrinse Platone ad abbandonare Siracusa per Atene; fatto sbarcare nell'isola di
Egina, nemica di Atene, vi venne fatto prigioniero e reso schiavo; per sua fortuna, il
socratico Anniceride di Cirene lo riscattò. Ma anche quest'episodio, narrato con
varianti da Diogene Laerzio, è molto dubbio.
I primi dialoghi
A partire dal 395 a.C. dovrebbe aver iniziato a scrivere i primi dialoghi, nei quali
affronta il problema culturale rappresentato dalla figura di Socrate e la funzione dei
sofisti: nascono così, in un possibile ordine cronologico, l'‍Apologia (il suo primo
dialogo), il Critone, in cui Socrate discute la legittimità delle leggi, lo Ione, parodia
ironica di poeti, l'‍Eutifrone, il Carmide, il Lachete, il Liside, l'‍Alcibiade I,
l'‍Alcibiade II (queste due attribuzioni a Platone sono tuttavia discusse), l'‍Ippia
Maggiore, l'‍Ippia Minore, il Trasimaco (che confluirà nella Repubblica come primo
libro), il Menesseno, il Protagora e il Gorgia.
La fondazione dell'Accademia
Nel 387 a.C. è ad Atene; acquistato un parco dedicato ad Academo, vi fonda una
scuola che intitola Accademia in onore dell'eroe e la consacra ad Apollo e alle Muse.
Sull'esempio opposto a quello della scuola fondata da Isocrate nel 391 a.C. e basata
sull'insegnamento della retorica, la scuola di Platone ha le sue radici nella scienza e
nel metodo da quella derivato, la dialettica; per questo motivo, l'insegnamento si
svolge attraverso dibattiti, a cui partecipano gli stessi allievi, diretti da Platone o dagli
allievi più anziani, e conferenze tenute da illustri personaggi di passaggio ad Atene.
In vent'anni, dalla creazione dell'Accademia al 367 a.C., Platone scrive i dialoghi in
cui si sforza di determinare le condizioni che permettono la fondazione della scienza:
tali sono il Clitofonte (tuttavia di incerta attribuzione), il Menone, il Fedone, l'
Eutidemo, il Convito, la Repubblica, il Cratilo e il Fedro.
Nel 367 a.C., poco prima dell'arrivo di Aristotele nell'Accademia, Platone è a
Siracusa, invitato da Dione che, con la morte di Dionigi il Vecchio e la successione al
potere di suo nipote Dionigi il Giovane, conta di poter attuare le riforme impedite dal
precedente tiranno. Ma i contrasti con Dionigi, che sospetta nello zio intenzioni di
ribellione, portano all'esilio di Dione: Platone può tuttavia rimanere a Siracusa come
consigliere di Dionigi e coltivare i suoi progetti di trasformazione istituzionale dello
Stato siracusano.
Nel 365 a.C. Siracusa è in guerra e Platone torna ad Atene, con la promessa di poter
tornare a Siracusa alla fine della guerra insieme con Dione. Ad Atene scrive il
Parmenide, il Teeteto, e il Sofista.
Nel 361 a.C. Platone compie il suo terzo e ultimo viaggio in Sicilia. Non c'è però
Dione, verso il quale Dionigi manifesta un'aperta ostilità; i tentativi di Platone di
difendere l'amico portano alla rottura dei rapporti con il tiranno siracusano che arriva
a imprigionare il filosofo. Liberato grazie all'intervento di Archita, il pitagorico
tiranno di Taranto, amico di entrambi, nel 360 a.C. Platone può ripartire per Atene;
durante il viaggio sbarca a Olimpia per incontrare per l'ultima volta Dione. Questi
progettava una guerra contro Dionigi, dalla quale Platone cercò invano di dissuaderlo:
nel 357 a.C. riuscirà a impadronirsi del potere a Siracusa ma vi sarà ucciso tre anni
dopo.
Ad Atene Platone scrisse le ultime opere, il Timeo, il Crizia, il Politico, il Filebo e le
Leggi. Morì nel 347 a.C. e la guida dell'Accademia venne assunta dal nipote
Speusippo. La scuola sopravviverà fino al 529 d.C., anno in cui venne definitivamente
chiusa da Giustiniano dopo vari periodi di alterne interruzioni della sua attività.
Opere
Di Platone sono pervenute tutte le opere, che comprendono 34 dialoghi e 13 lettere.
Platone si avvale del dialogo perché lo ritiene l'unico in grado di riportare l'argomento
alla concretezza storica di un dibattito fra persone, oltre a far mettere in luce il
carattere di ricerca, elemento chiave della sua filosofia. Egli vuole inoltre evidenziare
col ricorso al dialogo l'importanza del discorso orale rispetto allo scritto.
In genere, si suole riunire i dialoghi platonici in vari gruppi, a seconda che risalgano
ai primi anni della sua attività letteraria, sotto la viva influenza di Socrate (primo
gruppo); o alla maturità, quando compose e sviluppò la teoria delle idee (secondo
gruppo); o all’ultimo periodo, quando sentì l’urgenza di difendere la propria
concezione contro gli attacchi alla sua filosofia, attuando una profonda autocritica
della teoria delle idee (terzo gruppo). Lo stile muta notevolmente da un periodo
all’altro: nei periodi giovanili si hanno interventi brevi e briosi che danno vivacità al
dibattito; negli ultimi, invece, vi sono interventi lunghi, che danno all’opera il
carattere di un trattato e non di un dibattito, trattandosi piuttosto di un dialogo
dell'anima con se stessa.
In genere il protagonista è Socrate; soltanto negli ultimi dialoghi costui assume una
parte secondaria. La caratteristica di questi dialoghi è che il soggetto principale in
questione è solito discorrere molto più dell'interlocutore a cui si rivolge, il quale si
limita solamente a confermare o disapprovare quello che il protagonista espone.
Ordinamento in tetralogie
Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., ordinò le opere platoniche in gruppi di
quattro, seguendo una poco persuasiva affinità di argomento; i dialoghi di sicura
attribuzione sono indicati in grassetto per distinguerli dagli spuri:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
Teage, Carmide, Lachete, Liside
Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere
Altre opere spurie sono:
Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione,
Epigrammi.
Una diversa, e più antica classificazione risale ad Aristofane di Bisanzio (III secolo
a.C.), che ordinò le opere platoniche in cinque trilogie:
1.
2.
3.
4.
5.
Repubblica, Timeo, Crizia
Sofista, Politico, Cratilo
Leggi, Minosse, Epinomide
Teeteto, Eutifrone, Apologia di Socrate
Critone, Fedone, Lettere
La filosofia di Platone
La genesi dell'idealismo dal problema della giustizia
Quella che in termini storici possiamo chiamare "filosofia platonica" - ovvero il
corpus di idee e di testi che definiscono la tradizione storica del pensiero platonico - è
sorta dalla riflessione sulla politica. Come scrive Alexandre Koyré: «tutta la vita
filosofica di Platone è stata determinata da un avvenimento eminentemente politico, la
condanna a morte di Socrate».
Occorre tuttavia distinguere la "riflessione sulla politica" dall'"attività politica". Non è
certo in quest'ultima accezione che dobbiamo intendere la centralità della politica nel
pensiero di Platone. Come egli scrisse, in tarda età, nella Lettera VII del suo
epistolario, proprio la rinuncia alla politica attiva segna la scelta per la filosofia, intesa
però come impegno "civile". La riflessione sulla politica diventa, in altre parole,
riflessione sul concetto di giustizia, e dalla riflessione su questo concetto sorge
un'idea di filosofia intesa come processo di crescita dell'Uomo come membro
organicamente appartenente alla polis.
Fin dalle prime fasi di questa riflessione, appare chiaro che per il filosofo ateniese
risolvere il problema della giustizia significa affrontare il problema della conoscenza.
Da qui la necessità di intendere la genesi del "mondo delle idee" come frutto di un
impegno "politico" più complessivo e profondo.
La dottrina della conoscenza: le idee
La gnoseologia di Platone, messa a punto in vari dialoghi come il Menone, il Fedone,
ed il Teeteto, deve combattere contro l’opinione che la ricerca della conoscenza sia
impossibile. La tesi era stata sostenuta dagli eristi, i quali basavano questo loro
insegnamento sulla base di due assunti:
1. se non si conosce ciò che si cerca, qualora lo si sia trovato, non lo si
riconoscerà come l’obiettivo da raggiungere;
2. se si conosce già quel che si cerca, la ricerca non ha senso.
Platone tuttavia ha ben presente la figura di Socrate, che aveva fatto della ricerca la
componente di base della filosofia vera e propria. La sua ricerca secondo Platone era
resa possibile dal fatto che l'uomo conosce solo parzialmente, o almeno
inconsciamente, l'oggetto da conoscere. È così che Platone elabora la famosa dottrina
della reminiscenza, secondo cui l’apprendere è un ricordare (anàmnesis). Tale
dottrina si rifà alla credenza religiosa propria dell'orfismo e del pitagorismo secondo
cui quando il corpo muore l'anima, essendo immortale, trasmigra in un altro corpo.
Platone sfrutta tale mito fondendolo con l'assunto fondamentale che esistano delle
Idee che hanno caratteristiche opposte agli enti fenomenici: sono incorruttibili,
ingenerate, eterne, non soggette a mutamento. Queste Idee albergano nell'iperuranio,
mondo soprasensibile e che è parzialmente visibile alle anime una volta slegate dai
loro corpi.
L'Idea, traducibile più correttamente con «forma», è dunque il vero oggetto della
conoscenza: ma essa non è soltanto il fondamento gnoseologico della realtà, ossia la
causa che ci permette di pensare il mondo, bensì ne costituisce anche il fondamento
ontologico, essendo il motivo che fa essere il mondo. Le idee rappresentano l’eterno
Vero, l’eterno Buono e l’eterno Bello, a cui si contrappone la dimensione vana e
transitoria dei fenomeni sensibili.
Come viene spiegato nel Fedro, dopo la morte le anime diventano simili a cocchi alati
che procedono in schiere dietro ai carri degli dèi: in questa loro processione alcune
riescono, più distintamente di altre, a scorgere le Idee che appaiono attraverso uno
squarcio tra le nuvole, diaframma obbligato tra il mondo sensibile e quello
soprasensibile. Quando le anime precipitano nei corpi, reincarnandosi, dimenticano la
loro visione delle idee e, prigioniere dei sensi, sono portate a identificare la realtà col
mondo sensibile. L’opera del filosofo dialettico, che ha saputo vedere le idee meglio
degli altri, è quella di riportare all’anima la memoria del mondo delle idee, attraverso
il dare e ricevere discorso, dialogando con l’anima e persuadendola della verità. La
dottrina dell’apprendere come ricordare riconduce immediatamente alla cura
dell’anima professata da Socrate: la conoscenza è, di fatto, un conoscere meglio se
stessi, riportando alla luce dell’intelletto ciò che l’anima ha dimenticato nel momento
della reincarnazione; l'idea è quindi in un certo senso corrispettiva del dàimon
socratico.
Una conseguenza della reminiscenza è l'innatismo della conoscenza: tutto il sapere è
già presente, in forma latente, nella nostra anima. A tal proposito i sensi svolgono
comunque una funzione importante per Platone, poiché offrono lo spunto per aiutarci
a ridestarlo. L'esperienza serve però solo da stimolo; la vera conoscenza deve essere
fondata universalmente sulla noesis, e su di essa deve poggiare ogni tecnica
particolare, che è invece il luogo della praxis. L'errore contro cui Platone combatte,
rappresentato dalla cultura sofista, consiste nel basare la conoscenza sulla sensazione.
Al contrario, solo l'anima, e non i sensi, può conoscere l'aspetto "vero" di ogni realtà.
La dottrina platonica è inoltre spesso oggetto di fraintendimenti. Di fatto, come
Platone stesso suggerisce in numerosi passi, è impossibile recuperare completamente
la conoscenza del mondo delle Idee anche per il filosofo. La conoscenza perfetta di
queste è propria solo degli dèi, che le osservano sempre. La conoscenza umana, nella
sua forma migliore, è sempre filo-sofia, ossia amore del sapere, inesausta ricerca della
verità. Ciò suggerisce una frattura "sofistica" all’interno del pensiero platonico: per
quanto l’uomo si sforzi, il raggiungimento della verità è impossibile, perché confinata
nel cielo iperuranio e dunque assolutamente inconoscibile. La parola, che è lo
strumento utilizzato dal filosofo dialettico per persuadere le anime della verità e
dell’esistenza delle idee, non rispecchia che parzialmente la realtà ultrasensibile, che è
irriproducibile e non presentabile.
Per fare un esempio, è come se un insegnante, che pure ha presente come è fatto un
triangolo, cercasse di spiegarlo ai suoi allievi senza poterglielo esibire o far vedere
alla lavagna. Può forse persuadere loro di com’è fatto all’incirca un triangolo, ma la
conoscenza degli alunni rimarrà comunque lontana da coloro che lo sanno
rappresentare correttamente. La conoscenza del mondo delle idee dunque può essere
solo intuita, mai comunicata; per conoscerla nel modo meno confutabile possibile ci si
può basare al massimo sull’uso dei lògoi, ossia dei discorsi, ragionamenti in forma di
dialogo svolti attorno a tali argomenti.
L’opera di ricerca filosofica deve limitarsi così al persuadere le anime, in maniera
simile alla maieutica socratica. Qui Platone fa esplicito riferimento alla metafora della
seconda navigazione: con questo termine i greci indicavano la navigazione a remi, più
faticosa di quella a vela (prima navigazione) e usata in caso di necessità (come la
mancanza di vento). La seconda navigazione consiste proprio nell’uso dei lògoi, che
presuppongono una frattura radicale tra il pensiero-parola, e la realtà. Platone, ben
lungi dall’essere il filosofo della scienza forte e dottrinaria che per molti anni gli è
stata erroneamente attribuita, ha scoperto, di fatto, l’impossibilità di raggiungere una
verità piena ed incontrovertibile.
La più compiuta teoria platonica della conoscenza, esposta nel dialogo Repubblica ed
altrimenti nota come teoria della linea, è quindi rappresentabile col seguente schema:
conoscenza intellegibile o scienza
(επιστήµη)
conoscenza sensibile o opinione (δόξα)
immaginazione
(εικασία)
credenza
(πίστις)
pensiero
discorsi
vo
(διάνοια
)
intellezione
(νόησις)
Solo la conoscenza intellegibile, cioè concettuale, assicura un sapere vero e
universale; l'opinione invece, fondata sui due stadi inferiori del conoscere, è portata a
confondere la verità con la sua immagine. Platone polemizza in proposito contro il
materialismo di Democrito, secondo cui erano gli atomi, entità materiali fisse, a
determinare la formazione o la distruzione degli elementi. Secondo Platone non ci
sono in natura princìpi (o arché) ultimi e indivisibili: tutta la realtà fenomenica
«scorre» in un continuo mutamento; al contempo però essa tende a costituirsi secondo
forme atemporali che sembrano preesisterle. Proprio questo è il punto di cui
Democrito non aveva saputo rendere ragione, ossia del perché la materia si aggreghi
sempre in un certo modo, per formare ad esempio ora un cavallo, ora un elefante. Ciò
evidentemente è possibile perché dietro ogni animale deve esistere un'idea, cioè una
«forma» precostituita per ogni tipo, spirituale e non materiale.
L'Idea è inoltre ciò che consente a Platone di conciliare il dualismo filosofico venutosi
a creare tra Parmenide ed Eraclito: nelle idee risiede infatti la dimensione ontologica
dell'Essere parmenideo, ma esse forniscono anche, in virtù della loro molteplicità, una
spiegazione al divenire eracliteo che domina i fenomeni naturali, al quale Platone
cercava una motivazione razionale che non lo riducesse a semplice illusione come
aveva fatto Parmenide.
La funzione del mito
Oltre al dialogo, una caratteristica peculiare di Platone nella sua esposizione della
dottrina delle idee consiste nella reintroduzione, con la sua opera, del mito, quale
forma di conoscenza tradizional-popolare che, cronologicamente, precedeva di molto
la nascita della filosofia greca.
Platone ha un atteggiamento diversificato nei confronti del mito, che ritiene vada
rivalutato in quanto utile, e anzi necessario, alla comprensione. Il mito va infatti
inteso come esposizione di un pensiero ancora nella forma di racconto, quindi non
come ragionamento puro e rigoroso. Esso ha una funzione allegorica e didascalica,
presenta cioè una serie di concetti attraverso immagini che facilitano il significato di
un discorso piuttosto complesso, cercando di renderne comprensibili i problemi, e
creando nel lettore una nuova tensione intellettuale, un atteggiamento positivo nei
confronti dello sviluppo della riflessione.
Il mito ha così una doppia funzione: da un lato è un semplice espediente didatticoespositivo di cui Platone fa uso per comunicare in maniera più accessibile e intuitiva
le sue dottrine. Dall'altro è un mezzo per superare quei limiti oltre i quali l'indagine
razionale non può andare, diventanto un vero e proprio strumento di verità, una "via
alternativa" al solo pensiero filosofico, grazie alla sua capacità di armonizzare
unitariamente gli argomenti. Il mito è il momento in cui Platone esprime la bellezza
della verità filosofica, in cui questa si manifesta anche con immagini e figure
sensibili, e di fronte alla quale i discorsi razionali risultano insufficienti.
Le scienze rappresentano un sapere inferiore perché, pur trattandosi di argomentazioni
necessarie e dimostrate, vivono di ipotesi. Classico esempio è la costruzione dei
teoremi di geometria, basati su ipotesi e tesi, che Euclide raccolse e sistematizzò
secoli dopo, e che erano parte di una tradizione tramandata oralmente. Se il mito
pecca di scarso senso del rigore, e la scienza di incapacità di elevazione, entrambi
però, in mancanza di una conoscenza migliore, hanno una loro dignità. L'unica forma
di sapere che il filosofo non può mai accettare è la doxa, il mondo dell'opinione
mutevole e transitoria.
I racconti mitici platonici toccano le questioni fondamentali dell'esistenza umana,
come la morte, l'immortalità dell'anima, la conoscenza, l'origine del mondo, e le
collegano strettamente ai temi e ai discorsi logico-critici, a cui il filosofo affida il
compito di produrre una conoscenza e una rappresentazione vere della realtà.
I sedici miti che si riscontrano nell'opera platonica sono:
1. Mito di Epimeteo e Prometeo
2. Mito di Aristofane o dell'androgino
3. Mito della nascita dell'amore
4. Mito del carro e dell'auriga
5. Mito della reminiscenza
6. Mito della caverna
7. Mistero dell'amore
8. Mito della sentenza finale
9. Mito della distribuzione delle pene
10. Mito di Er il Panfilio
11. Mito del Demiurgo
12. Mito dei cicli inversi
13. Mito di Atlantide
14. Mito di Gige
15. Mito delle cicale
16. Mito di Theuth
La filosofia come Eros
È proprio per spiegare l'umano desiderio di conoscenza che Platone ricorre a un
celebre mito, quello di Eros, dio greco dell'Amore e della forza, figlio di Poros e
Penia, cioè di Abbondanza e Povertà. Il filosofo, secondo Platone, è mosso da una
tensione verso la verità con lo stesso desiderio d'amore che attrae due esseri umani.
Per la sua caratteristica di essere principio unificante del molteplice, la peculiarità di
eros consiste essenzialmente nella sua ambiguità, ovvero nell'aspirazione alla verità
assoluta e disinteressata (ecco la sua abbondanza); ma al contempo nel suo essere
costretto a vagare nelle tenebre dell'ignoranza (la sua povertà). La contrapposizione
tra verità e ignoranza viene sentita da Platone, come già dal suo maestro Socrate,
come una profonda lacerazione, fonte di continua irrequietezza e insoddisfazione.
Si desidera infatti soltanto quello che non si ha, e l'uomo tende ad una sapienza della
quale si ricorda vagamente, ma di cui in realtà è povero. Si può notare come la ricerca
di questa sapienza muova dalla stessa consapevolezza socratica del «sapere di non
sapere». Platone aggiunge che l'uomo non desidererebbe con tanta forza una tale
verità se non l'avesse mai vista, se non fosse certo che esiste. In tal senso, non solo si
desidera quel che non si ha, ma di più si può affermare: si desidera soltanto ciò che
non si ha più, che si è perso.
Per Platone vale l'ideale della kalokagathìa (dal greco kalòs kài agathòs), ossia
«bellezza e bontà». Tutto ciò che è bello (kalòs) è anche vero e buono (agathòs), e
viceversa. La bellezza delle idee che attira l'amore intellettuale del filosofo perciò è
anche il bene dell'uomo. Il fine della vita umana diventa la visione delle idee e la
contemplazione di Dio.
Tale contemplazione è sempre imperfetta nella dimensione del mondo sensibile,
dominata dalla materia che, in quanto priva di essere, è un semplice non-essere.
L'uomo si trova a metà strada tra questi due estremi: mentre le idee sono in sé e per
sé, come realtà indipendente e assoluta (ab-soluta), appunto perché "sciolta da" ogni
altra, non essendo relative ad altro da sé, l'uomo invece è calato nell'esistenza (da exsistentia, "essere fuori"). L'esistenza per Platone è una dimensione ontologica che non
ha l'essere in proprio, ma esiste solo in quanto è subordinata ad un essere superiore;
egli la paragona ad un ponte sospeso tra essere e non essere. L'uomo è dilaniato così
da una duplice natura: da un lato avverte il richiamo del mondo iperuranio, in cui
risiede la dimensione più vera dell'Essere, eterna, immutabile, e incorruttibile, ma
dall'altro il suo essere è inevitabilmente soggetto alla contingenza, al divenire, e alla
morte (non-essere).
Questa duplicità umana è vissuta dallo stesso Platone ora in maniera più ottimista, ora
con toni decisamente più pessimisti. Da ciò deriva il disprezzo dei platonici per il
corpo: Platone più volte nei dialoghi gioca con l'assonanza di parole sèma/sòma, ossia
"tomba"/"corpo": il corpo come tomba dell'anima.
L'ontologia
Il tema della frattura interiore dell'uomo porta a domandare: su che cosa si fondano, e
che rapporto hanno le idee con gli oggetti della conoscenza sensibile? La risposta a
questa domanda costituisce la cosiddetta ontologia platonica.
Il testo fondativo di questo aspetto del pensiero platonico è senza dubbio il celebre
mito della caverna del libro VII de La Repubblica. In esso, il mondo sensibile è
presentato come immagine evanescente e imperfetta del mondo delle idee, inteso
invece come "mondo vero" e fondamento di tutto ciò che è. Platone stesso fornisce
l'interpretazione dell'allegoria: lo schiavo che viene liberato dalla caverna rappresenta
l'anima, che si libera dai vincoli corporei mediante la conoscenza. Gli elementi del
mondo esterno rappresentano le idee, mentre gli oggetti dentro la caverna (e le
immagini di questi proiettate sulla parete) non sono che le loro copie imperfette. Il
sole, che permette di riconoscere l'aspetto vero della realtà, è simbolo dell'idea del
Bene, l'idea suprema in vista della quale l'intero mondo delle idee è costituito e al
quale essa conferisce la sua unità.
Una conferma di tale impostazione ontologica del reale è data nel mito narrato nel
dialogo Fedro, attraverso l'immagine della faticosa salita dell'anima al cielo
iperuranio delle idee, così descritte: «essenze incolori, informi e intangibili,
contemplabili solo dall'intelletto (...) essenze che sono scaturigine della vera scienza».
Per testimoniare l'essere delle idee, Platone porta l'esempio delle figure geometriche,
dei solidi platonici da lui stesso scoperti, dei triangoli e dei cerchi. In natura non esiste
un cerchio o un quadrato perfetto, che pur ogni individuo conosce sapendone
calcolare area e perimetro. Una tale capacità è dovuta al fatto che l'intelletto vede al di
là del sensibile un'idea di cerchio e quadrato che non si trova nel mondo esteriore.
Soltanto nelle idee quindi si trova la dimora dell'Essere, che è una dimensione
trascendente rispetto a quella della semplice esistenza. L'ontologia platonica si
presenta così come "dualistica", comprensiva cioè di due piani concettuali, quello
delle realtà sensibili e quello delle idee, tra i quali esiste una differenza ontologica,
incolmabile e costitutiva della loro stessa natura. L'unico rapporto possibile tra il
piano dei fenomeni e quello delle idee è quello "mimetico" (mimesis): ogni realtà
sensibile (ente) ha il suo modello (eidos) nel mondo intelligibile. L'unico "salto"
possibile tra i due livelli resta quello che può compiere l'anima umana, elevandosi
attraverso la conoscenza dall'esistenza materiale a quella intellettuale. Platone, come
già accennato, si rifà alla concezione orfica pitagorica dell'anima, ove questa infatti è
scissa in due parti: la prima, mortale, che muore insieme al corpo, e la seconda,
immortale, che secondo Pitagora si reincarna in altri corpi.
Ontologia e dialettica
Come conciliare la differenza tra mondo sensibile e intelligibile e tuttavia la loro
corrispondenza? Come partecipano tra loro i due piani della realtà? A queste domande
è chiamata a rispondere la dialettica.
Il problema è legato storicamente alla presenza di Aristotele nell'Accademia, durante
gli anni della tarda maturità platonica. È infatti presumibile che da un certo momento
la critica aristotelica all’ontologia della differenza abbia costretto il vecchio maestro a
rivedere criticamente le sue originali concezioni in funzione di un maggior "realismo"
logico della teoria delle idee. In altri termini, la domanda è: se il mondo delle idee e
quello empirico si contrappongono - essere e non-essere - che senso ha porre l'idea
come causa della realtà apparente? Non sarebbe più coerente concludere, come già
aveva fatto Parmenide, che esiste solo il mondo delle idee, riducendo il mondo della
natura a pura illusione?
La prima soluzione che Platone aveva cercato a questa aporia era stata la teoria della
partecipazione (mèthexis): le entità particolari parteciperebbero ognuna dell'idea
corrispondente.
In una seconda fase, il filosofo aveva proposto come si è visto la teoria dell'imitazione
(mimesis), secondo la quale gli enti naturali sarebbero imitazioni della loro rispettiva
idea. A tal proposito Platone introdurrà nel Timeo, dialogo della vecchiaia, la figura
del Demiurgo proprio per attribuirgli il ruolo di mediatore tra le due dimensioni; il
Demiurgo è un semi-dio che vitalizza il cosmo attraverso un'Anima del mondo,
plasmando la chora, una materia già esistente ma sottoposta al caos, allo scopo di
darle una forma sul modello delle Idee.
L'Essere secondo Platone: gerarchicamente strutturato secondo passaggi graduali che
vanno da un minimo a un Massimo
Entrambe le risposte però mantenevano aperte molte e complesse contraddizioni di
carattere logico. In una terza fase Platone mette allora in discussione una delle basi
parmenidee della sua ontologia, quella dell'immobilità dell'essere, attuando quello che
lui chiama un «parricidio», ritenendosi egli filosoficamente "figlio" di Parmenide. Ora
infatti il mondo delle idee assume l'aspetto di un sistema complesso, in cui trovano
posto i concetti di diversità e molteplicità. Più che di una contrapposizione tra idea e
realtà, entra in gioco il principio della divisione (diairesis) del mondo intelligibile,
che consente di collegare dialetticamente ogni realtà empirica al suo principio
sommo. Ciascuna idea si articola con quelle ad essa subordinate (più particolari) e
sovraordinate (più generali), secondo regole dialettiche di somiglianza e comunanza
(generi, specie); in cima a tutte sta l'idea del Bene. In questa ipotesi teorica entra in
gioco la possibilità dell'errore: esso consiste nella determinazione di connessioni
arbitrarie tra generi e specie, non rispettose delle loro relazioni logiche. Viene inoltre
profondamente modificato il concetto stesso di "non-essere": esso non è più il "nulla",
ma viene a costituirsi come il "diverso", come un'altra modalità dell'essere. In altri
termini, ora anche il non-essere in certo qual modo è, perché non è più radicalmente
contrapposto all'essere, ma esiste in senso relativo (relativo cioè agli enti sensibili). Il
non-essere esiste come "corrosione" o decremento della bellezza originaria delle idee
iper-uraniche calate nella materia per dare forma agli elementi, in un sinolo o unità di
materia e forma, come dirà Aristotele; unione che si decomporrà poi con la morte o
distruzione dei singoli enti.
La diairesi non elimina, naturalmente, il carattere trascendente delle idee, ma avvicina
maggiormente il metodo dialettico alle possibilità conoscitive del metodo scientifico.
Platone si vede costretto a postulare una tale gerarchia o suddivisione della realtà
ontologica anche per rispondere al problema sorto con Parmenide, da lui definito
«terribile e venerando», circa l'impossibilità di oggettivare l'Essere, al quale, secondo
il filosofo eleata, non si poteva attribuire nessun predicato. In tal modo però diventava
impossibile conoscere l'Essere, e in ultima analisi pensarlo: una condizione che
secondo Platone equivaleva di fatto al non-essere, del quale pure, a rigore, nulla si
può dire.
Nel Sofista, pertanto, Platone postula cinque generi sommi (essere, identico, diverso,
stasi e movimento) a cui tutte le idee possono essere subordinate; la conciliazione di
unità, molteplicità, staticità e movimento è detto «rapporto di comunanza» (koinonìa).
Una notevole difficoltà che s’incontra studiando gli ultimi dialoghi di Platone
(Parmenide, Sofista, Teeteto) è la definizione di dialettica che Platone non dà mai.
Nella Repubblica Platone ne parla come il metodo più efficace per raggiungere la
verità. Nel Fedro si trova che la dialettica è un “processo di unificazione e
moltiplicazione”:[16] partendo cioè da un’analisi di certi fenomeni, si tratta di
unificarli sotto un unico genere; mentre all’opposto la dialettica si occupa anche di
dividere un genere in tutte le specie che comprende sotto di sé. Possiamo forse dire
che l’Idea è di fatto un'unità del molteplice, che racchiude ed assume in sé la
caratteristica principale propria di alcuni esseri: si pensi ad esempio all’idea del bello
che unifica in sé tutte le varie realtà belle.
Nel Parmenide Platone dà una dimostrazione di come lavora la dialettica all’interno
del discorso: si tratta di trovare tutte le risposte possibili ad una domanda; poi, con un
procedimento falsificatorio, si procederà nel confutare ad una ad una le risposte date,
sulla base di certi principi; la risposta che non è falsificata dal procedimento è meno
confutabile delle altre e dunque risulta più vera della altre, mai però vera in senso
assoluto. Si potrebbe obiettare a questo punto che tale applicazione della dialettica
non corrisponde alla pseudo-definizione datane da Platone nel Fedro. Tale obiezione
si rafforza tenendo conto che nel Filebo Platone riformula una nuova concezione. Nel
dialogo infatti Socrate è impegnato a definire che cosa sia il piacere. Anzitutto i
piaceri sono tanti oppure è solo uno? Filebo non sa rispondere, ed allora Socrate
pronuncia la famosa frase secondo cui «i molti sono Uno e l’Uno è molti».
Cosa significa quest'asserzione? Semplicemente ribadisce un principio proprio delle
Idee, ossia quella di essere uniche e perfette, eppure, nel contempo, di riflettersi nella
molteplicità del sensibile. La metodologia più coerente dell’applicazione della
dialettica è probabilmente quella esposta nel Sofista: si tratta del metodo dicotomico.
All’interno di una domanda si tratta di isolare il concetto che si vuole definire;
nell’attribuire questo concetto ad una classe più ampia nella quale siamo certi sia
compreso il concetto medesimo; quindi nel suddividere tale classe in due parti, più
piccole, per vedere in quale delle due sottoclassi è ancora compreso il concetto da
trovare, e così via, suddividendo finché non troviamo più nulla da dividere e, dunque,
la definizione trovata è proprio quella del concetto che volevamo spiegare. Pur
presentandosi come scienza (epistème), la dialettica, è bene ribadirlo, è solo un
procedimento rigoroso, che però non riesce mai ad arrivare alla verità (sempre per il
fatto che si serve dei lògoi). Si può dire allora che la scienza presentata da Platone non
è certo quella a cui cercherà di approdare ad esempio Cartesio nel Seicento, o in
seguito Hegel. Da notare come anche Aristotele, nonostante le sue critiche a Platone,
collocava i princìpi primi al di sopra del ragionamento dimostrativo sillogista,
giudicandoli raggiungibili solo attraverso l’intuizione intellettuale.
Lo Stato filosofico
Il dualismo che Platone aveva teorizzato tra verità e apparenza, anima e corpo, si
riflette anche nella concezione politica. Come la sapienza è distinta dall'ignoranza,
così anche i filosofi vanno distinti da coloro che sono rimasti fermi ad una conoscenza
puramente sensibile del mondo.
Uno Stato che assegni ai suoi cittadini funzioni incompatibili col livello di sapienza
da essi raggiunto diventa disarmonico e rischia facilmente di degenerare. Si può
notare qui come Platone interpreti la società in analogia ad un organismo vivente. Il
compito di far rispettare l'armonia tra le parti spetta a coloro che più hanno saputo
recuperare la reminiscenza dell'idea del Bene: i filosofi. Costoro hanno dunque il
compito di governare. La loro funzione è identica a quella che nell'anima umana,
secondo la tripartizione platonica, spetta all'anima razionale: la coordinazione e il
governo delle altre due, l'intellettiva e la concupisciente. Nel mito del carro e
dell'auriga l'anima razionale è infatti assimilata a un cocchiere che deve sapere bene
indirizzare i due cavalli a lui sottomessi, affinché il carro proceda rettamente. Una
sana organizzazione dello Stato è dunque il riflesso dell'organicità dell'anima umana,
a cui i filosofi sono preposti. L'anima intellettiva, simbolizzata dal cavallo bianco,
diventa virtuosa quando è caratterizzata da coraggio e audacia: essa trova il suo
corrispettivo nella classe dei guerrieri, che hanno il compito di difendere la città.
L'anima concupiscibile, simbolizzata dal cavallo nero, è rappresentata infine dagli
artigiani e i commercianti, che devono sapere sviluppare la virtù della temperanza;
costoro sono più portati al lavoro produttivo.
« …noi pensiamo di modellare una polis felice non prendendo pochi individui
separatamente e rendendoli tali, ma considerandola nella sua interezza. »
(Platone, Repubblica, IV, 420c)
Quando ogni classe conduce al meglio il proprio compito, ognuno nella sua
autonomia, lo Stato ne risulta armonicamente beneficiato. La concezione politica di
Platone si fonda quindi su un forte senso della giustizia, che d'altronde aveva ispirato
tutta la sua dottrina delle idee. La preoccupazione di Platone tra l'altro è la stessa che
aveva animato il suo maestro Socrate quando lo aveva spinto a fare opera di maieutica
presso i suoi concittadini, e nasce da una sostanziale sfiducia verso i metodi politici
vigenti nella sua epoca: questi sono responsabili, secondo Platone, di curare solo gli
aspetti esteriori e transitori dell'individuo, trascurando l'interiorità dell'anima.
Affinché la classe dei governanti e dei guerrieri non si faccia distrarre da interessi
terreni e personali, essi sono chiamati a mettere in comune ogni proprietà; i loro figli
analogamente non dovranno appartenere alle rispettive famiglie, ma sarà la collettività
a prendersi cura di loro. Sono inoltre disapprovate da Platone le usanze educative del
suo tempo basate sulle espressioni artistiche come la poesia o la musica, perché
invece di proporre esempi di moralità si limitano a una sterile imitazione del mondo
sensibile, già a sua volta imitante l'idea. Nel suo Stato filosofico non c'è neppure
bisogno di leggi positive: ogni individuo infatti non deve rispondere a comandi
impartiti dall'esterno, ma obbedire alla sua propria attitudine interiore. In virtù di
quest'ultima, le tre classi-funzione della città platonica sono dinamiche, e non
vengono assegnate alla nascita: è solo durante l'educazione selettiva che si arriva a
stabilire quale ruolo ogni individuo sia più adatto a svolgere, poiché, come Platone
spiega nel mito delle stirpi, ognuno possiede un'indole che indirizza l'individuo ad
uno solo dei tre percorsi.
Il modello educativo di Platone (paidèia) si basa sulla selezione per tappe: il giovane
è sottoposto ad una prima istruzione da parte dello Stato comprendente, oltre alla
ginnastica e al combattimento (ossia l'esercizio del corpo), anche la musica (ossia
l'esercizio dello spirito) purché esprima davvero l'amore per il Bello ideale e non per
le bellezze sensibili. L'istruzione tuttavia non va imposta con la forza «poiché un
uomo libero dev'essere libero anche nella conquista del sapere». Se l'educando si
dimostra all'altezza, egli viene privilegiato ed educato alla matematica, col fine di
diventare stratega, e all'astronomia, disciplina solo teorica il cui fine è elevare l'animo.
Tra i migliori infine vengono scelti coloro che, per diventare buoni governanti,
intraprenderanno lo studio della filosofia e della dialettica, la massima scienza. Non
essendoci differenze esteriori di nascita, anche le donne sono chiamate, ognuna
secondo la propria inclinazione, ad assolvere le stesse funzioni degli uomini,
comprese la guerra e il governo, avendo i loro stessi diritti-doveri.
« …non c'è nessuna attività di coloro che amministrano la città che sia della
donna in quanto donna, né dell'uomo in quanto uomo, ma le nature sono
disseminate in entrambi gli esseri, e la donna partecipa secondo natura di tutte le
attività, e alla pari l'uomo di tutte. »
(Platone, Repubblica, V, 455d)
L'educazione dei giovani cittadini consente così di costruire una civiltà armonica in
grado di prevenire le forme degenerative della timocrazia, della plutocrazia e della
democrazia, che sfociano tutte inevitabilmente nel peggiore dei governi: la tirannide.
Lo Stato ideale tracciato da Platone è stato oggetto di alcune critiche; si è parlato in
proposito di comunismo platonico, presumendo di vedere in esso un'anticipazione
della società egualitaria vagheggiata da Marx. Quello di Platone è tuttavia un
comunismo etico, non sociale, che si propone l'abolizione della proprietà, ma solo per
le classi superiori; la distinzione stessa tra le classi viene mantenuta. Margherita
Isnardi Parente parla in proposito di comunismo morale dei governanti, non di popolo,
ristretto cioè a pochi. Lo stesso Marx rimproverava a Platone di avere ideato uno stato
diviso in rigide caste, unendosi alle critiche di coloro che ravvisano nella sua utopia
un carattere aristocratico. Occorre anche qui precisare tuttavia che l'aristocrazia
platonica è del tutto diversa da quella tradizionale fondata sulla stirpe sociale. I
"migliori" che Platone chiama a governare infatti sono aristocratici in un senso
intellettuale: non per un diritto acquisito con la nascita, ma secondo criteri morali
rinvenibili in chiunque.
Le dottrine non scritte
« Su queste cose non c'è un mio scritto, né ci sarà mai. In effetti la conoscenza
della verità non è affatto comunicabile come le altre conoscenze, ma, dopo molte
discussioni fatte su questi temi, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente,
come luce che si accende dallo scoccare di una scintilla, essa nasce dall'anima e
da se stessa si alimenta. »
(Platone Lettera VII 341 B - 342 A)
Per questo motivo Platone non scrisse nulla su alcune questioni della massima
importanza. Alcuni esponenti della cosiddetta scuola di Tubinga (tra gli altri Hans
Joachim Krämer, Konrad Gaiser e Thomas Alexander Szlezák) e della scuola di
Milano (Giovanni Reale) ritengono tuttavia di poter ricavare, da alcuni accenni sparsi
nei dialoghi e da alcune considerazioni polemiche presenti nella Metafisica di
Aristotele (Libri I, XIII e XIV), le linee di fondo delle cosidette "dottrine non scritte".
Le scuole di Tubinga e di Milano ritengono infatti che le dottrine di Platone non si
esauriscano nei suoi scritti ma che, anzi, parte di esse possano essere recuperate nella
cosiddetta "tradizione indiretta".
Tale critica all'esegesi dell'opera platonica procede lungo un percorso storico che
aveva visto la modernità, soprattutto con Friedrich Schleiermacher (1768-1834,
manifestare la convinzione che gli scritti di Platone esaurissero le sue dottrine,
rigettando così l'interpretazione allegorica delle sue opere operata dagli autori
medioplatonici e neoplatonici.
Ma già Friedrich Nietzsche aveva individuato la contraddizione tra la tesi di
Schleiermacher e le affermazione del filosofo greco nel Fedro. Secondo Nietzsche,
per Platone lo scritto ha il solo scopo di richiamare alla memoria ciò che è già stato
appreso da colui che è stato formato all'interno dell'Accademia.
In seguito Heinrich Gomperz (1873-1942), partendo da un'interpretazione del passo
341 C. della lettera VII di Platone, sostennne che una piena comprensione dell'opera
di Platone poteva avvenire solo attraverso le testimonianze indirette:
« Il sistema filosofico di Platone non viene espressamente sviluppato nei dialoghi,
ma si trova solamente, almeno a partire dalla Repubblica, dietro di essi. Questo
sistema è un sistema di deduzione, e precisamente dualistico, poiché esso conduce
"tutte le cose" a due fattori originari essenzialmente diversi fra loro »
(Heinrich Gomperz. Op.cit. citato in Giovanni Reale Autotestimonianze e rimandi
dei dialoghi di Platone alle "dottrine non scritte". Milano, Bompiani, 2008, pagg.
48-9)
Negli anni '20 Hans-Georg Gadamer (1900-2002) scopriva anch'esso le "dottrine non
scritte" anche se le riteneva basilari unicamente per la comprensione della matematica
in Platone.
Il primo autore che ha affrontato organicamente la nuova interpretazione di Platone è
stato comunque Hans Joachim Krämer con il suo Platone e i fondamenti della
metafisica. Saggio sulla teoria dei principi e sulle dottrine non scritte di Platone
contestualmente tradotto in italiano da Giovanni Reale nel 1982 per la casa editrice
milanese Vita e Pensiero.
Dopo Krämer, ed altri autori della scuola di Tubinga, è intervenuto lo stesso Giovanni
Reale che ha applicato a questa nuova interpretazione i canoni epistemologici di
Thomas Kuhn ritenendo il lavoro di Tubinga come un "nuovo paradigma
ermeneutico".
Un'analisi del testo di Fedro (276A, 276E, 277B) unitamente alla Lettera VII sono per
questi studiosi più che sufficienti a dimostrare l'autotestimonianza dello stesso Platone
del fatto che il filosofo non affida e non comunica tutto il suo insegnamento sui
"rotoli di carta" ma soprattutto quelli di maggior valore li redige direttamente negli
animi degli uomini in grado di comprenderli.
Questi insegnamenti "non scritti" sono per questi autori il cuore delle dottrine
platoniche e, facendo leva sulla testimonianza di Aristotele e dei suoi commentatori
Alessandro di Afrodisia e Simplicio, ritengono che per Platone l'intera realtà, non solo
quella sensibile ma anche del mondo delle Idee, sia il risultato di due Principi primi:
l'Uno e la Diade. Tale concezione, di tipo pitagorico, intende l'Uno (il «Bene» dei
dialoghi) come tutto ciò che unitario e positivo, mentre la Diade, ovvero il mondo
delle differenze e della molteplicità, genera il disordine.
È evidente che questo un nuovo paradigma interpretativo del pensiero di Platone non
intende più il mondo delle Idee come la dimensione ontologica primaria, ma restringe
questa condizione ai soli Principi primi. Le Idee "procedono" da quei due Principi
partecipando dell'unità e distinguendosene per difetto o per eccesso; le stesse Idee
quindi entrano in relazione con la materia e generano gli enti sensibili, che
partecipano dell'Idea corrispondente e se ne differenziano secondo la Diade, sempre
per eccesso o per difetto.
Ne consegue che le stesse Idee sarebbero "generate", forse ab aeterno; il bene, poi,
nel mondo sensibile, dove non può esservi unità, ma solo molteplicità, consiste
nell'armonia delle parti, come si evince anche dai dialoghi.
La fortuna di Platone
Parlare della fortuna di Platone equivale a parlare dell'intera storia della filosofia
occidentale, perché si dice che sia interamente derivata dal suo pensiero o resti
comunque in dialogo perenne con Platone. Come disse Ralph Waldo Emerson: "In lui
trovate ciò che avete già trovato in Omero, ora maturato in pensiero, il poeta
convertito in filosofo, con vene di saggezza musicale più elevate di quelle raggiunte
da Omero; come se Omero fosse il giovane e Platone l'uomo finito; eppure con la non
minore sicurezza di un canto ardito e perfetto, quando ha cura di avvalersene; e con
alcune corde d'arpa prese da un più alto cielo. Egli contiene il futuro, pur essendo
uscito dal passato. In Platone esplorate l'Europa moderna nelle sue cause e nella sua
semente, il tutto in un pensiero che la storia d'Europa incarna o dovrà ancora
incarnare." Sempre a questo proposito, Alfred North Whitehead ha detto che "tutta la
storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone".
Nel considerare la fortuna di Platone va tenuto conto dell'ampiezza dei suoi interessi
etici e metafisici, nonché del fatto di aver assunto i numeri e le forme geometriche
come enti reali, cioè idee iperuranie. Molti matematici moderni condividono il
realismo platonico relativo alla matematica e ai suoi oggetti. Si tratta della corrente
chiamata "platonista" della matematica, che vede aderirvi anche matematici di
indirizzo filosofico non platonico, come Bertrand Russell.
UNITA’ 1
PARTE 2 ARISTOTELE
La vita
Nel 384 a.C. a Stagira, una cittadina della penisola Calcidica, nasce Aristotele, figlio
del medico personale del re di Macedonia. All’età di diciassette anni, rimasto orfano,
si trasferisce ad Atene ed entra nell’Accademia di Platone, dove incomincia a
studiare, con pieni risultati, tutto ciò che riguarda il campo del sapere matematico e
astronomico. Durante l’assenza del maestro, Aristotele si avvale dell’insegnamento di
Eudosso di Cnido.
Dopo la morte di Platone avvenuta nell’anno 347, il filosofo stagirita lascia la scuola
di Atene per trasferirsi ad Atarneo. Qui conosce e diviene amico di Teofrasto, col
quale, qualche anno dopo, si trasferisce a Mitilene nell’isola di Lesbo per dedicarsi a
ricerche di carattere biologico. Dalla professione del padre, Aristotele riceve
probabilmente un incentivo verso l’interesse per le scienze della natura che rimase
costante in tutta la sua attività di ricerca.
Nel 343 Filippo di Macedonia offre ad Aristotele l’incarico di sovrintendere
all’educazione del figlio Alessandro. Nella località di Mieza, Aristotele svolge
abilmente il suo compito di precettore del futuro Alessandro Magno, trovandosi così
in rapporto diretto tra la nuova monarchia emergente nel mondo greco, e la
tradizionale cultura delle città elleniche.
Dopo l’assassinio di Filippo di Macedonia, Alessandro sale al trono, trovandosi, in
giovane età, a dover fronteggiare una rivolta antimacedone, che porterà alla
distruzione della città di Tebe. In questo periodo Aristotele torna ad Atene e fonda
una scuola propria, un ginnasio pubblico posto sul colle del Licabetto, chiamato
Liceo, poiché aveva sede in un luogo sacro ad Apollo Licio. E’ qui che il maestro
tiene le sue lezioni, sia di tipo specialistico sia per un pubblico più vasto. Ai numerosi
giovani che frequentano le sue lezioni, Aristotele rende noti i risultati dei propri studi
riguardandi diverse discipline quali la fisica, la geometria, l’astronomia, la zoologia, e
la politica. Successivamente fu costituita una ricca biblioteca per favorire un’intensa
attività di ricerca.
Nel 323, l’anno in cui morì Alessandro, si afferma ad Atene il partito antimacedone.
Aristotele è costretto a lasciare nuovamente la città e si ritira a Calcide, nell’isola
Eubea, dove, nel 322, all’età di 62 anni, muore dopo alcuni mesi di malattia.
Le opere
Le opere di Aristotele vanno suddivise in due categorie:
- scritti acromatici o esoterici (riservato agli allievi)
- scritti essoterici (quelli destinati al pubblico)
Gli scritti appartenenti alla II° categoria, ovvero quelli essoterici, sono andati perduti
e ci sono state tramandate solo attraverso testimonianze e citazioni di altri autori.
La raccolta delle opere è ripartita in quattro gruppi di argomenti.
1. Opere di carattere logica-linguistico, che sono: L'interpretazione (breve studio sulle
funzioni sistematiche del linguaggio), Le Categorie, Analitici primi (sul sillogismo),
Analitici secondi (sulla dimostrazione), i Topici (sulla dialettica) e Le confutazioni
sofistiche (lo studio dei metodi contraffatti del confutare).
2. Opere di fisica:
Fisica (teoria generale della natura), Il cielo (astronomia e cosmologia), Nascita e
morte, Meteorologia, Storia degli animali, Generazione degli animali (genetica ed
embrionologia), Parti degli animali (anatomia e fisiologia), Locomozione degli
animali, L’anima (brevi trattati di psicofisiologia), Il senso, La memoria.
3. Metafisica (sui problemi filosofici della fisica).
4. Opere morali, politiche, di poetica e di retorica:
Etica eudemea, Etica nicomachea, Grande etica, Politica (distinzione delle forme di
governo), La poetica (teoria della composizione drammatica), Retorica (studio
dell’argomentazione persuasiva), La costituzione degli ateniesi.
Vanno aggiunte inoltre delle opera apocrife come la Retorica ad Alessandro.
La filosofia secondo Aristotele
Aristotele concepisce la filosofia non tanto come un esercizio di sapienza, bensì
un’attività scientifica articolata in un sistema di discipline distinte, e mirante ad
abbracciare tutti gli aspetti della realtà. Essa non serve a trasformare il mondo, ma
soltanto a comprenderne l’ordine e a giustificarlo così com’è. Il sapere è inteso come
la conoscenza delle cause e i principi.
Al di sopra di ogni disciplina, allo stagirita va il merito di aver insegnato la logica,
l’arte del ragionare in modo corretto per scoprire la verità delle cose. Prima di lui,
quando non si riusciva ad interpretare un fenomeno naturale, si credeva che
intervenisse una forza soprannaturale. Egli dimostrò che con il ragionamento si
potevano spiegare i fenomeni dell’Universo. Molte sue geniali osservazioni non sono
ora più accettabili, in virtù del fatto che egli vi giunse solo con l’aiuto della logica,
senza mai sperimentare. Le teorie di Aristotele furono considerate le più autorevoli
fino a quando gli strumenti della fisica moderna, come il telescopio, non rilevarono i
complessi aspetti dell’Universo.
La concezione aristotelica dell’Universo è la seguente: una serie di sfere concentriche,
al cui centro si trova la Terra. Al limite esterno si trova una sfera di dimensioni finite
contenente le cosiddette stelle fisse. L’universo risulta quindi finito e circoscritto da
una specie d’involucro materiale. Il Sole è considerato l’elemento che assicura il
rapporto fra i moti astrali e la vita terrestre.
Gran parte della riflessione logica consiste nella descrizione delle forme proprie della
lingua greca. Dietro di ciò agisce nel filosofo stagirita la consapevolezza
dell’esistenza di uno stretto rapporto fra linguaggio e ordine della realtà.
L’intero campo del sapere è diviso in tre partizioni: le discipline poietiche, quelle
pratiche e quelle teoriche. Le prime sono quelle il cui scopo sta nella produzione di
oggetti materiali. Le seconde producono non oggetti, bensì comportamenti umani. Le
terze infine, sono caratterizzate da finalità esclusivamente conoscitive.
Lo scopo della scienza aristotelica consiste nel penetrare più a fondo possibile nella
struttura delle singole cose che popolano l’universo, che variano dagli astri, le specie
biologiche, la psiche umana e i diversi regimi sociali.
Il filosofo stagirita è considerato il principale teorico della tragedia. Nell’antichità
greca questo genere drammatico era definito come mimesi, in altre parole imitazione
della natura e della vita. Aristotele attribuisce alla mimesi ulteriore e inconfondibili
caratteri. Essa non è tanto imitazione della storia, ma del verisimile. Non si tratta di
scrivere cose realmente accadute, bensì quelle che potrebbero accadere. Un altro
elemento introdotto è la catarsi: la purificazione che la rappresentazione teatrale
esercita nell’animo degli spettatori.
La natura invece è intesa come un insieme di realtà dotate di autonomia e di una
capacità di generare processi finalizzati alla realizzazione di un’ordine.
Il Dio di Aristotele è il frutto di un’esigenza cosmologica, e non di un bisogno di
salvezza. E’ la condizione assoluta della vita e del pensiero. Dio inoltre garantisce la
stabilità e l’ordine del mondo.
Il filosofo stagirita attribuisce una sostanziale importanza anche alla psiche, alla quale
dedica un’intera opera: l’Anima. Essa non è altro che una forma di un corpo vivente,
la struttura funzionante di un organismo biologico. Corpo e anima stanno nello stesso
rapporto di materia e forma, potenza e atto, organo e funzione.
L’arte della retorica
La retorica è considerata, per ciò che concerne il linguaggio, la più antica delle
discipline.
Ancor oggi essa rappresenta la base essenziale per inoltrarsi nel complesso studio
delle tecniche di persuasione. Nel trattato della Retorica, l’autore cerca di determinare
e spiegare logicamente le leggi che stanno dietro i fenomeni, fornendo all’oratore
svariati consigli pratici, come il deteminare negli ascoltatori, gli atteggiamenti e gli
stati d’animo più favorevoli.
Anche se i primi retori furono Empedocle, Corace, e Tisia dalla Sicilia, Aristotele
rappresenta sicuramente il più accreditato approfonditore e insegnate di retorica di
tutti i tempi.
A tale proposito il filosofo stagirita nella Retorica, afferma che il discorso si compone
di tre elementi: colui che parla, ciò di cui si parla e colui al quale si parla, in altre
parole l’ascoltatore.
I discorsi inoltre vanno distinti in tre generi: deliberativo, giudiziario ed epidittico.
Nel primo genere l’oratore consiglia ciò che è utile e sconsiglia ciò che è dannoso.
Quello giudiziario consiste nel condurre i giudici nel decidere di difendere il giusto e
accusare l’ingiusto. Il discorso epidittico o dimostrativo, infine, ha la funzione di
lodare ciò che è bello e biasimare ciò che è brutto.
Sia nell’oratoria deliberativa che in quella giudiziaria, la confutazione dell’avversario,
può essere attuata per mezzo dei sillogismi, lo studio dei quali è stato introdotto da
Aristotele negli Analitici primi. Il sillogismo tipico è quello categorico, costituito da
tre proposizioni di cui una (detta conclusione) segue logicamente dalle altre due
(premesse). Il nesso sta nel fatto che le tre proposizioni hanno, a due a due, un termine
in comune. Il sillogismo, che può essere interpretato come un vero e proprio calcolo
logico, in cui la verità delle conclusioni dipende interamente dalla verità delle
premesse, costituisce la principale innovazione di Aristotele nel campo della logica.
Anche la dialettica aristotelica è impostata da silloggismi. Essa però non è una scienza
della dimostrazione, ma della discussione e della confutazione..
L’Aristotelismo
L’aristotelismo fu ripreso e sviluppato, nelle diverse epoche, da diversi movimenti
dottrinali.
I successori svilupparono l’opera dello stagirita soprattutto nel campo delle ricerche
scinentifiche e storiche. Tra questi ricordiamo Teofrasto di Eresso che coltivò la
botanica, Eudemio di Rodi la storia delle scienze, Aristossene di Taranto la tecnica
della musica, Stratone di Lamprasco la fisica.
Anche gli arabi apprezzarono e diffusero il pensiero aristotelico.
Intorno al III secolo d. C., l’aristotelismo incomincia a perdere la sua autonomia
speculativa, trovando i continuatori nelle scuole del neoplatonismo, rifondendo in lui
il suo messagio.
Nel Medio Evo latino la corrente aristotelica riprende vigore; gli Scolastici vi
riscoprono una metafisica dell’essere, intesa come pura espressione del pensiero
razionale.
Nel 1700 Kant cerca di demolire la metafisica aristotelica, attuandone una
fondamentale correzione.
Altri illustri esponenti nel campo filosofico, quali Galilei e Copernico, rivisitarono il
cosmo aristotelico, negando all’uomo la sua posizione centrale, inducendolo a cercare
in se stesso il proprio centro, e nella storia umana il suo effettivo mondo.
Il grande merito di Aristotele è comunque quello di aver divulgato una concezione
che crede nei limiti dell’umano riponendo la saggezza nella fedeltà all’Essere..
.
UNITA’ 1
PARTE 3 PRESOCRATICI
I Presocratici vengono appunto definiti i filosofi vissuti prima di Socrate, autori di cui
abbiamo diversi frammenti che ci possono far cogliere la loro originalità (in passato
ad esempio si ritenevano Parmenide discepolo di Senofane ed Eraclito della scuola di
Mileto).
Se la conoscenza è, come abbiamo esaminato, visione, è da dirsi che si vede
l'immagine di un oggetto reale, che si ritiene possibile espriumere in un discorso
(lògos, termine che significa sia parola che discorso che pensiero). In questo modo
risulta esserci una connessione tra realtà, pensiero, parola. La connessione pertanto si
perpetua tra ontologia (che studia la realtà), la logica (che studia il pensiero) e il
linguaggio (che studia la parola).Così si rivela assai importante l'etimologia, ricerca
del nome, che è la verità della cosa.
Eraclito e la sua scuola
Eraclito nacque ad Efeso, in Ionia, e la sua akmè è fissata da Apollodoro tra il 504 ed
il 500 a.C., come Parmenide. Non fu interessato alla vita politica, indipendentemente
dalla sua nobile origine (regale, dice Diogene Laerzio, secondo il quale Eraclito
rinunciò al titolo in favore del fratello). Il suo atteggiamento meditabondo e schivo
pare confermato dalla oscurità espressiva del suo Sulla natura (l'opera fu così
nominata, in origine il titolo verosimilmente era l'incipit "Eraclito efesio dice
questo..."), opera in prosa depositata nel tempio di Artemide, come fosse un'opera
oracolare
Ho indagato solo me stesso, uno solo per me vale diecimila se è il migliore- sono
frammenti che dimostrano come non tutti secondo Eraclito abbiano le stesse capacità
di cogliere la verità o comunque lo stesso valore, in consonanza colla sua origine
aristocratica e colla testimonianza della sua avversione alla democrazia.
L'antitesi tra i migliori ed i più è ricorrente.
L' opera è divisa dagli studiosi in tre argomenti: fisico, politico, teologico: rimane in
dubbio se il tema centrale fosse fisico o etico-religioso.
La verità delle cose, del pensiero del discorso è il lògos secondo cui tutto è un'unità di
opposti, discorde armonia, ingenerata ed eterna. Da ciò è stata attribuito a Eraclito il
primo uso della dialettica.
Eraclito non è il padre della teoria del divenire. Nei suoi numerosi frammenti (più di
cento) non esiste il motto pànta rhéi. Piuttosto egli vuole sottolineare il contrasto tra le
cose ed il proprio nome. Non è possibile entrare due volte nello stesso fiume perché il
nome è lo stesso ma la realtà che sostanzia (le acque) no, come negli stessi fiumi
entriamo e non entriamo, siamo e non siamo. Identica è la via all'insù ed all'ingiù (la
stessa via è salita e discesa), l'arco (biòs) ha per nome vita e per opera morte.
Poiché però il nome esprime la natura della cosa, il contrasto è nella cosa stessa,
ribadendo il principio dell'opposizione nell'unità.
Il conflitto è nelle cose, la giustizia è contrasto e necessità.
I mortali (anche Omero e Pitagora) ritengono vere le conoscenze particolari, pensano
solo a vincere in politica, si interessano solo dei progressi della tecnica, perciò non
capiscono il lògos neppure dopo averlo ascoltato. Di qui la superiorità che Eraclito
mostra anche nella critica di multiscienza senza intelligenza rivolta a Esiodo,
Pitagora, Ecateo. Il filosofo si rivolge ad oggetti molteplici ma li riduce ad unità.
Eraclito perciò filosofo della ricerca, imposta dalla natura che ama nascondersi.
L'uomo deve indagare se stesso e cercare ciò che è comune a tutti: quindi cerecare
l'essenza dell'uomo che è ciò che lega gli uomini. Per questo bisogna vegliare e non
dormire. La ricerca è phronèsis, saggezza di vita che determina l'indole dell'uomo
(èthos) ed il suo destino.
Simbolo del lògos è il fuoco sempre vivo che trasforma (il fuoco si scambia con tutte
le cose come la merce con l'oro) e si trasforma secondo fasi naturali, cambiando nome
a seconda di ciò con sui si mischia. Questa non è né un'ingenua determinazione
dell'archè né aspetto di una cosmologia complessa come hanno voluto vedere in
molti. Eraclito vuole mostrare l'unità e l'opposizione di tutto: il fuoco vive se muore la
terra, l'aria se muore il fuoco, l'acqua l'aria, la terra l'acqua.
La conoscenza è homologhèin, convenire col lògos, essere fuoco.
La divinità come il fuoco, si altera nella combinazione è unità degli opposti. Questa
affermazione si accorda a critiche che Eraclito svolge contro i riti e le preghiere della
religione greca, fatte da chi non conosce la vera natura degli dei.
Cratilo di Atene fu discepolo di Eraclito e maestro di Platone: a lui sarebbe da
attribuire l'interpretazione celeberrima del pensiero di Eraclito secondo cui non ci si
può bagnare due volte nello stesso fiume per la rapidità dell'acqua e non si può
nominare alcuna cosa perché significherebbe contrastare il loro divenire, per cui
l'ideale sarebbe solo indicarle col dito. Le sensazioni variano da un soggetto all'altro e
da un momento all'altro per il divenire del mondo, perciò non v'è un criterio di verità
per la conoscenza. Un dialogo di Platone sul linguaggio ha il suo nome.
Parmenide e la sua scuola
Di Parmenide di Elea (Lucania) l'akmè è fissata nel 504-500 a.C. da Apollodoro.
Piuttosto che discepolo del pitagorico Aminia o di Senofane pare gli vada attribuito il
ruolo di maestro di Senofane; fu legislatore o mediatore nella sua città. Nel Parmenide
di Platone è raffigurato vecchio (venerando e terribile) ad Atene in compagnia del
discepolo Zenone di fronte al giovane Socrate. Parmenide fu autore di Sulla natura,
opera in esametri, in cui nel proemio di 32 versi dalle "case della notte" viene
condotto dalle dee al cospetto della dea della giustizia che gli offre la conoscenza
della
rotonda
verità
e
delle
opinioni
errate
dei
mortali.
Quest'opera si leggeva integralmente ancora all'epoca di Simplicio (VI d.C.), oggi ne
abbiamo
154
versi
in
19
frammenti.
I mortali bicefali sostengono che essere e non essere sono identici ed in questo
frammento si è voluto vedere la polemica con Eraclito, se effettivamente c'è stata.
Parmenide afferma che dire che ogni cosa nel mondo è se stessa e non è altra cosa,
significa far coincidere essere e non essere in maniera contraddittoria. Non esiste
molteplicità di cose.
Tenendo presente quanto detto all'inizio circa l'unicità di parola, pensiero e realtà
Parmenide ci induce a dire solo ciò che è, a non parlare neppure di ciò che non è,
poiché
non
esprime
né
un
pensiero
né
qualcosa
di
reale.
E' perciò possibile dire solo ciò che è, senza alcuna predicazione, che ci
reintrodurrebbe nella contraddizione essere-non essere. Così diventa comprensibile la
formula l'essere è ed il non essere non è; ciò che è è ingenerato ed incorruttibile,
poiché esso non può venire o finire nel non essere (si nega perciò ogni passato o
futuro); l'essere non è in movimento, perché ciò che è qui ora non è più in qualche
luogo e non è ancora in qualche altro ancora (si nega perciò il movimento). L'essere è
perciò
integro,
uno,
continuo,
sferico,immobile
ecc.
Parmenide oppone la verità (alétheia) all'opinione (dòxa) di chi crede al divenire,
anche se nei frammenti superstiti pare che lo stesso Parmenide nell'esporre la filosofia
della natura ritenga che il cosmo sia basato sull'opposizione luce-tenebre, caldofreddo. Perciò c'è chi crede che questa sezione esponga criticamente le idee ioniche e
pitagoriche; c'è chi pensa che Parmenide studi la via dell'opinione per trovare le leggi
che l'uomo, bisognoso dell'apparenza, si crea; c'è chi pensa che questa sia l'ipotesi sui
fenomeni
visibili
che
Parmenide
ritiene
più
verosimile.
Il mondo delle cose visibili viene perciò svalutato; Parmenide viene ritenuto il padre
della metafisica.
Zenone di Elea secondo Platone era 25 anni più giovane di Parmenide e nel 455-452
sarebbe avvenuta la sua akmè; secondo Diogene Laerzio che si riferisce ad
Apollodoro nacque tra la fine e l'inizio del V secolo. Fu discepolo di Parmenide e,
secondo Platone, alla metà del secolo si sarebbe recato ad Atene dove avrebbe
incontrato Socrate. Forse incontrò il sofista Protagora e Pericle ascoltò le sue lezioni.
Scrisse Sulla Natura, opera in prosa, di cui ci rimangono solo 5 frammenti, i più estesi
dei quali derivano dal commento di Simplicio alla Fisica di Aristotele.
Secondo Platone l'opera di Zenone fu tesa soprattutto a contrastare le tesi degli
oppositori di Parmenide, mostrando le conseguenze assurde che derivano
dall'accettare i dati provenienti dal senso comune (movimento e molteplicità
dell'essere). Proclo nel commento al Parmenide di Platone ci fa sapere che le
argomentazioni di Zenone erano 40.
Contro la molteplicità degli enti egli sostiene che se gli enti sono quelli che sono,
sono di numero finito, e dovendo necessariamente essere distinti, se sono due vi deve
essere un tezo ente che li distingue e per essere tre vi deve essere un quarto e così via.
Si giunge così a sostenere l'infinità degli enti in contraddizione con la tesi iniziale ( il
molteplice è finito, il molteplice non è finito). Contro la molteplicità nell'unita chiama
in causa il segmento: consta di infiniti punti ma se ogni punto ha una dimensione, il
segmento è infinito, se invece il punto non ha dimensione il segmento non esiste.
Contro la falsa percezione: se un grano di miglio quando cade non fa rumore, come fa
un medimno di grani di miglio? Contro lo spazio: se tutto è nello spazio, lo spazio
dovrà essere nello spazio, e via all'infinito: ma questo è impossibile, perciò nulla è
nello spazio.
L'essere si avvia ad essere anche per la riflessione di Zenone l'"uno" assoluto.
Contro il movimento Zenone offre quattro argomentazioni: un corpo mobile, per
andare da A a B deve passare per il punto C intermedio e prima ancora il punto D
intermedio tra A e C e così all'infinto, ma non è possibile percorrere infiniti punti in
un tempo finito, cosicchè è impossibile andare da A a B; Achille piè veloce non potrà
mai superare la tartaruga che parte da un punto più avanzato di lui perché quando
Achille avrà raggiunto il punto A la tartaruga sarà al punto B e quando Achille sarà al
punto B la tartaruga al C ecosì all'infinito; un oggetto in movimento in ogni istante del
tempo è in uno spazio uguale alle sue dimensioni, cioè è immobile; due corpi in punti
opposti verso un punto A percorrono uno spazio uguale (rispetto ad A) e doppio
(rispetto all'altro corpo). Aristotele nel VI libro della Fisica critica
quest'argomentazione, rilevando che partono dal presupposto che il tempo (freccia) e
lo spazio (il mobile e Achille) siano infiniti, il che rende impossibile percorrere
qualunque distanza.
Queste contraddizioni rivelate da Zenone sono importanti soprattutto nell'esprimere
una dottrina contro l'apparenza. Aristotele lo ritiene padre della dialettica, metodo con
cui si giunge a conclusioni opposte rispetto alla tesi iniziale, Platone lo fregia del
titolo di Palamede Eleate (Palamede era un eroe omerico celebre per le sue
invenzioni).
Melisso di Samo, del V a.C., discepolo di Parmenide, scrisse Sulla Natura, opera in
prosa. Difende il maestro, sostenendo che solo la conoscenza razionale coglie l'essere:
la conoscenza sensibile testimonia la realtà delle cose ed il loro mutamento ma se
sono reali non mutano e viceversa. Per Melisso l'essere è immutabile. Diversamente
dal maestro, l'essere è una totalità infinita nello spazio e nel tempo diversamente da
come pensava il suo maestro: esso è inoltre incorporeo (se avesse un corpo avrebbe
parti e non sarebbe più uno).
Per questo e per l'affermazione che l'essere è pieno e il vuoto non c'è Aristotele
osserva che Parmenide accenni all'uno secondo il concetto, Melisso secondo la
materia.
Per l'assenza di questi caratteri non esiste la molteplicità diversamente da come pensa
la moltitudine degli uomini, non per la contraddittorietà rilevata da Parmenide.
Empedocle
Empedocle di Agrigento ebbe la sua akmè nel 444 a.C. Il padre fu uno degli artefici
della caduta della tirannide di Trasideo ed egli rifiutò il potere assoluto e offrì tutte le
sue ricchezze al bene pubblico. Fu oratore, scienziato, mago, medico. L'amore della
comunità nei suoi confronti è testimoniato dalla sua morte che si narra sia avvenuta
una notte in cui, chiamato da una voce misteriosa, si accese una luce nel cielo; l'Etna
poi restituì i suoi calzari, mostrando così la sua assunzione tra le divinità.
Scrisse due poemi, Sulla natura e Purificazioni o Carme lustrale. Della prima opera
abbiamo un centinaio di frammenti, per un totale di 400 versi. Nella seconda ( di cui
abbiamo 120 versi) Empedocle sostiene tesi pitagorico-orfiche (l'immortalità
dell'anima, la colpa originaria da purificare attraverso la metempsicosi) prettamente
religiose. Si è cercato un filo rosso tra le sue opere ritenendo la prima una escatologia
segreta preparatoria della fase miserico religiosa della seconda. Gli studi degli ultimi
anni mettono in relazione il pensiero di Empedocle con quello eleatico, temperato
dall'esperienza
si
senso
comune
del
divenire.
Secondo Empedocle ci sono quattro elementi, fuoco, terra, aria, acqua, raffigurate
come le quattro divinità Zeus, Era, Edoneo, Nesti che costituiscono tutta la realtà e
che sono scisse da Nèikos, la contesa che separa il simile, e unite da Philìa, l'amicizia
che unisce il dissimile. La seconda tende a costituire la perfezione, sferica,
immutabile, immobile, divina, omogenea; la prima invece costituisce le cose
particolari ed imperfette e tende al caos; ciò avviene in modo ciclico, nelle fasi
intermedie si manifesta il cosmo. Gli elementi si compongono e ricompongono ma
mai passano dall' essere al non-essere, perciò sono eterni e non nascono e non
muoiono; nascono e muoiono i composti. Matrice evoluzionistica è stata riscontrata
nella descrizione della creazione delle cose, giacchè gli elementi si sono composti in
maniera singolare fino a giungere allo stato odierno (egli cita l'esempio di uomini con
volti di bovini e viceversa).
L'uomo può conoscere le cose perché esse emanano effluvi che ne riproducono le
forme e che vengono percepiti dai pori degli organi sensoriali umani: d'altro canto
uomo e cose sono costituiti dagli stessi elementi.
I presocratici di Atene
Atene dopo la sconfitta dei persiani e il periodo di Pericle si rivela un grande centro
della Grecia sotto tutti i punti di vista.
Ippone di Samo, contemporaneo di Pericle e Ideo di Imera sono i primi filosofi
ateniesi che incontriamo: fisiologi, identificano l' arkè con l'umido il primo, l'aria il
secondo.
Anassagora di Clazomene, vissuto tra il 500 ed il 428, scrisse Sulla natura, opera di
cui abbiamo 22 frammenti. Si allontanò dal lungo soggiorno ad Atene per un'accusa
di empietà: egli non credeva che luna e sole fossero divinità ma che fossero una massa
terrosa ed una pietra incandescente. Euripide, Archelao e forse Socrate furono suoi
discepoli. Visse poi in Ionia. Pare sostenesse che la sua patria fosse il cielo e di vivere
per il sole, la luna ed il cielo.
Come Melisso, ritiene che la nascita e la morte delle cose siano solo apparenti,
giacchè la realtà è eterna ed identica; varia solo l'aggregazione degli elementi. Noi
infatti mangiamo pane ma poi crescono le nostre unghie, capelli, arti, provando ciò la
disaggregazione ed aggregazione delle realtà elementari. Il pane infatti contiene semi,
omeomerie per Aristotele, visibili solo alla mente, non allo sguardo. Le particelle
sono infinite e sono in tutto: variano per qualità ed è la qualità che fa distinguere le
cose. Non importa di per sé la grandezza o piccolezza, essendo qualità infinite,
presenti più in una cosa che altrove.
Va tenuto presente come in questo modo si salvi sia il principio di molteplicità delle
cose che la critica al passaggio dal non essere all'essere, che viene negato dalle realtà
elementari.
Anassagora fu chiamato Intelletto e Fisicissimo per la sua visione cosmologica: la
Mente infinita (noùs), distinta, più pura e sottile tra le cose, che conosce tutto e ha
massima forza, ha in origine separato con un vortice tutti i semi che erano una
mescolanza caotica (mìgma) che perciò non consentiva distinzione e particolarità tra
le cose, portando all'esterno l'etere con ciò che è caldo, rado, luminoso, secco e
all'interno l'aria con nuvole, acqua, terra, in modo che in ogni punto dell'universo le
qualità siano tutte presenti (tutto in tutto). Gli astri sono masse incandescenti, sostiene
Anassagora, pare in seguito alla visione di una pioggia di meteoriti. Questa visione
cosmologica è importante perché voluta, espressione cioè di un'ottica finalistica. Ciò è
valutato positivamente da Platone ed Aristotele anche se la Mente é utilizzata solo
come tappabuchi, quando mancano altre spiegazioni per i fenomeni naturali,
cosmologici.
Per Anassagora le sensazioni nascono dall'azione, tanto più violenta quanto intensa,
degli elementi contrari (diversamente da Empedocle per cui sono frutto dell'incontro
di elementi simili): il freddo sul caldo, l'amaro sul dolce.
L'esperienza, l'arte servono invece a vedere l'invisibile. Plutarco racconta a tal
proposito che Pericle di fronte ad un montone con un corno solo lo avesse interpretato
come un presagio favorevole ed Anassagora allora abbia spaccato il cranio del
montone per mostrarne la deformazione cerebrale all'origine di quella singolarità.
Questo aneddoto mostra come Anassagora in opposizione ai costumi ed alle idee della
sua epoca si mostrasse come un uomo razionalista e laico. Egli riteneva l'uomo
l'animale più intelligente per la sua capacità di usare le mani per raggiungere il
progresso tecnico e la conoscenza. D'altronde la vita era meritevole d'essere vissuta
per l'osservazione del cielo e dell'ordine universale.
Archelao, che la tradizione vuole maestro di Socrate, abbiamo scritto che fu suo
discepolo; sostenne che anche la Mente fosse un miscuglio di esseri viventi e che
caldo e freddo fossero cause efficienti e non effetti del vortice.
Diogene di Apollonia (Creta), scrisse Sulla natura e Contro i Sofisti. Per lui l'aria,
divina, onnipresente, onnipotente, avente un'intelligenza creativa ed ordinatrice è
all'origine di tutte le forme delle cose (non delle cose, altrimenti ci sarebbe il
passaggio dal non essere all'essere) che si formano per condensazione, rarefazione,
cambiamento di stato.
La scuola pitagorica
La seconda generazione della scuola, diversamente dalla prima, si diffonde in tutta la
Grecia e i filosofi più importanti sono Filolao ed Archita.
I principi pitagorici portano a ritenere, almeno per quanto ne sappiamo, che i numeri
siano i principi di tutte le cose, l'arkè: dai frammenti risulta che essi sono la sostanza
delle cose (le cose sono numeri), elementi delle cose (le cose hanno un numero), i
primi possono esistere senza i secondi e non viceversa.
Probabilmente questa importanza del numero traeva la sua origine dall'interesse dato
nella comunità alla musica, interesse che poi si è concentrato sull'aritmetica e la
geometria allorchè si è scoperto un rapporto numerico tra i suoni (prova ne è la
scoperta dell'ottava).
Mentre i filosofi antecedenti cercavano la sostanza corporea dell' ordine del mondo,
per Pitagora il numero è l'ordine, la misura del mondo.
Sebbene non sappiamo se tutti i frammenti sui numeri attribuiti a Filolao siano
autentici, da essi risulta che il limite e l'illimitato, il determinato e l'indeterminato
corrispondono ai numeri dispari e pari; il numero è legge del cosmo e fondamento dei
rapporti (dei toni musicali, dei corpi celesti, ecc.). I numeri hanno un significato
preciso: l'1 è l'intelligenza, 2 l'opinione, il quadrato di 2 e 3 (4 e 9) la giustizia (il
prodotto di eguali), il 5 matrimonio (somma del primo dispari e del primo pari), il 7
l'opportunità, il 10 è il numero perfetto, per cui si giura: somma dell' unità, del primo
pari, del primo dispari e del primo quadrato. L'unità è detta parimpari perché genera
pari
con
un
numero
dispari
e
dispari
con
un
pari.
Raffigurazione geometrica del tetràktis:
X
XX
XXX
XXXX
Il numero tra l'altro viene costantemente identificato con figure geometriche, perciò vi
è una concezione dello spazio diviso in unità. Figure e numeri infatti venivano
rappresentati da sassolini, da cui calculus che significa pietruzza, cioè da unità
discrete (distinte), punti. Secondo questa identificazione aritmetica-geometria l'uno è
il
punto,
due la linea,
tre la
superficie,
quattro il
solido.
Il caltaclisma viene proprio creato dalla diagonale del quadrato. Il teorema attribuito a
Pitagora dice che la radice della somma dei quadrati costruiti sui cateti (lati corti) di
un triangolo rettangolo equivale al quadrato costruito sull'ipotenusa (lato lungo):
facendo la radice, noi sappiamo la lunghezza dell'ipotenusa ma quando il triangolo è
isoscele (due lati uguali), la lunghezza dell'ipotenusa è sempre un numero non intero.
Poiché un quadrato lo possiamo immaginare come due triangoli rettangoli isosceli
attaccati, possiamo concludere che la diagonale di un quadrato è un numero
irrazionale (non intero), cioè inesprimibile. Deriva da ciò una separazione tra la
matematica che analizza il discreto numerico e la geometria che analizza il continuo
spaziale.
Archita sotto il profilo musicale, negli accordi musicali trovò una media matematica
(quando il secondo supera il primo di un rapporto identico a quello con cui il terzo
supera il secondo 2-4-6), geometrica (il primo sta al secondo nel rapporto del secondo
col terzo 3-9-81), subcontraria od armonica (il primo supera il secondo di una parte
uguale a quella per cui il secondo supera il terzo 12-8-6). Ritenne che il numero
creasse una concordia e parità che eliminasse discordia e sopraffazione e che fosse la
prova del destino che avrebbe avuto anche il piano sociale.
Sul piano cosmologico v'era una trasposizione di questi principi: ogni astro sarebbe il
luogo di un determinato numero e i dieci (!) corpi celesti ruoterebbero intorno ad un
fuoco, detto madre di tutti gli dei, Hestìa. Verso l'esterno troveremmo l'antiterra, la
terra (al rango di un pianeta qualunque), la luna, il sole, i cinque pianeti, il cielo delle
stelle fisse. Le stelle fisse sono appunto fissate alla sfera avvolgente di fuoco esterna.
L' antiterra tra fuoco centrale e terra è specchiata da sole e luna ed origina l'eclissi. La
cosmologia pitagorica non a caso fu uno dei punti di riferimento per Copernico.
Tutt'uno cosmologia e misticismo: i moti dei corpi celesti, perfetti ed armoniosi,
produrrebbero un suono (armonia delle sfere) non percepibile dall'uomo ma l'anima
dell'uomo consisterebbe comunque di quell'armonia musicale e sarebbe immortale
nella sua somiglianza agli astri.
La distinzione tra acusmatici e matematici potrebbe spiegare la divergenza sul piano
religioso tra due dottrine religiose pitagoriche: quella della metempsicosi e quindi
della purificazione dell'anima dallo stato di carcere corporeo e quella dell'anima come
armonia
degli
elementi
corporei
che
si
dissolve
colla
morte.
Perciò la musica e retorica hanno nel pitagorismo una funzione psicagogica (guida
delle anime). I pitagorici sono considerati i primi ad affermare la superiorità della vita
contemplativa su quella pratica.
Democrito e la scuola atomistica
Leucippo di Mileto è ritenuto il fondatore della scuola atomista. E' dubbia persino la
sua esistenza che sarebbe avvenuta nel V secolo a.C. (Epicuro si mostra scettico),.
Egli si spostò ad Elea e ad Abdera, dove suo discepolo fu Democrito. Le due opere
attribuitegli sono La grande cosmologia e Dell'intelletto. Opere con lo stesso nome
sono attribuite anche a Democrito; è probabile che si tratti di due opere di Leucippo in
cui è confluito l'insegnamento di Democrito e che per questo si consideri tutta la
dottrina di Democrito. Sappiamo da Diogene Laerzio che Leucippo riteneva la luna il
corpo
più
vicino
e
il
sole
il
più
lontano
rispetto
alla
terra.
Democrito di Abdera pare visse dal 460 al 370 a.C. e viaggiò in Persia, India, Egitto
ed Etiopia. Ricordato negli aneddoti come scienziato distratto ma esperto in molte
discipline, il suo stile è ricordato da Cicerone per la bellezza poetica simile a Platone
e per la limpidezza. Abbiamo parecchi titoli di opere, più di duecento frammenti e
parecchie testimonianze ma è ovviamente difficile accertarne sempre l'autenticità. La
fisica sarebbe esposta nel Mikròs diàkosmos, Piccola cosmologia, distinta dalla
Grande cosmologia del maestro.
Secondo Democrito la realtà è costituita da enti indivisibili, eterni, immutabili, infiniti
ed inalterabili, definiti atomi. In realtà il termine àtomos idéa non compare nei
frammenti che abbiamo di Democrito ma solo nelle fonti indirette: invece risultano i
temini tò dèn (qualcosa), tò òn (l'ente), tò nastòn (il denso). Il motivo della loro
indivisibilità (secondo la critica di Zenone infinita) è secondo Democrito fisica. Gli
atomi rappresentano secondo la chiave di lettura eleatica l'essere, differenziandosi da
esso per l'assenza di qualità, per la pluralità infinita e per il movimento. Difatti essi si
muovono nel vuoto (tò kenòn) che, è definito non essere ma che ovviamente non è
irreale. Esso
è prodotto dal
movimento spontaneo
di
queste particelle.
Gli atomi, dicevamo, non presentano alcuna differenza qualitativa tra di essi. Sono
diversi solo nella misura o forma, contatto reciproco o ordine, nella direzione o
posizione.
Questi atomi, in parte lisci, in parte rugosi, in parte curvi, si uniscono e separano
costituendo tutto ciò che esiste in maniera non casuale: nel vuoto si crea un vortice
che raggruppa atomi di figura e grandezza simile, i grandi al centro, i piccoli in
periferia. Viene creato così il nostro e altri infiniti mondi e alla disgregazione di uno
di questi ne sorge un altro.
La visione della realtà di Democrito prevede una ferrea legge meccanicistica senza
finalità e sostiene la distinzione tra cio che è reale e ciò che è pensabile.
Le qualità che noi vediamo nelle cose sono effetto dell'incontro delle particolarità
degli atomi coi nostri sensi, diversi da individuo a individuo e per convenzione ed
opinione noi nominiamo il dolce, il caldo, il colorato, poiché come abbiamo visto gli
atomi non differiscono per qualità.
L'anima dell' uomo è formata da atomi sottilissimi, mobilissimi, rotondi e lisci diffusi
in tutto il corpo. La conoscenza razionale è diversa solo quantitativamente da quella
sensibile ed è sita nel cervello.
Dai corpi ha origine un effluvio che tra fonte e destinatario crea un immagine
(èidolon), che giunge all'organo di senso. Questa intermediazione induce a
differenziare la conoscenza sensibile da quella razionale, che arriva dove non giunge
la prima, mostrando una posizione scettica nel pensiero di Democrito.
Tra gli altri spunti interessanti degli studi democritei per la filosofia, la sua tesi
sull'origine convenzionale del linguaggio (e non naturale) e sulla origine della società:
gli uomini senza legge ed allo stato ferino spinti dal bisogno e dalla paura si riunirono
in società imparando a comunicare e ponendosi delle regole. In seguito scoprirono il
fuoco e progredirono sempre più apprendendo ed inventando nelle tecniche ed arti.
Non esistono doni divini. Questa storia dell'uomo ha anche fini etici ( trovare una sola
spiegazione causale è più importante che diventare padrone dell'impero persiano).
La sua etica individualistica ritiene centrale la felicità che è una disposizione
favorevole dell'animo (eythymìe) intesa come misura e vittoria sulle passioni (subire
ingiustizia rende meno infelici del commetterla, bisogna non fare il male perché
doveroso e non per paura, bisogna curare più l'anima del corpo perché la prima può
migliorare la seconda e non viceversa). Nulla è preferibile ad un buon governo, ed
intende la democrazia. Lo sforzo per la ricerca scientifica lo induce a condannare il
matrimonio
e
la
genitorialità
che
distolgono
l'uomo
dalla
ricerca.
Da Democrito nasce secondo alcuni studiosi la ricerca scientifica come distinta da
quella filosofica, perché si reputa assente qualsiasi finalità e qualsiasi origine (divina
o mitologica o antropologica) e si ricercano spiegazioni meccanicistiche della realtà.
Prova è data dall' assenza di relazione tra l'etica e la fisica democritea.
UNITA’ 1
PARTE 4
SOCRATE
Socrate nacque nel 470 / 469 a.c. da Sofronisco , scultore , e Fenarete , levatrice .
Dapprima esercitò forse il mestiere del padre , ma successivamente l'abbandonò per
dedicarsi esclusivamente all'indagine filosofica . Non di rado dovette quindi ricorrere
all'aiuto economico di amici . Sposò Santippe , che una certa tradizione tende a
presentare come donna bisbetica e insopportabile : si è arrivati a pensare che Socrate
stesse sempre in piazza non tanto per filosofare quanto piuttosto per stare lontano da
Santippe e dalle sue ramanzine continue : pare che Socrate sia riuscito a far ragionare
tutti tranne Santippe . Da lei ebbe tre figli . Socrate non lasciò mai Atene se non per
brevi spedizioni militari : partecipò infatti nel 432 alla spedizione contro Potidea ,
traendo in salvo Alcibiade ferito , e nel 424 combattè a Delio a fianco di Lachete
durante la ritirata degli Ateniesi di fronte ai Beoti . Successivamente nel 421 combattè
ad Anfipoli . Nel 406 in conformità al principio della rotazione delle cariche , fece
parte dei pritani , ossia del gruppo del Consiglio al quale spettava decidere quali
problemi sottoporre all'Assemblea e si oppose alla proposta illegale di processare tutti
insieme i generali vincitori nello scontro navale avvenuto al largo Arginuse , perchè
non avevano raccolto i naufraghi . Con questa presa di posizione egli si poneva in
contrasto con i democratici , ma nel 404 , passato il potere in mano all'oligarchia
capeggiata dai Trenta , rifiutò di obbedire all'ordine di arrestare un loro avversario ,
Leone di Salamina . Nel 403 la democrazia restaurata , pur concedendo un'amnistia ,
continuò a ravvisare in Socrate una figura ostile al nuovo ordine , anche per i rapporti
da lui intrattenuti in passato con figure come Alcibiade e Crizia . Nel 399 fu
presentato da Meleto un atto di accusa contro Socrate , ma tra i suoi accusatori erano
anche Licone e soprattutto Anito , uno dei personaggi più influenti della democrazia
restaurata . L'atto di accusa è il seguente : " Socrate è colpevole di essersi rifiutato di
riconoscere gli dei riconosciuti dalla città e di avere introdotto altre nuove divinità .
Inoltre è colpevole di avere corrotto i giovani . Si richiede la pena di morte " . Gli
accusatori contavano probabilmente in un esilio volontario da parte di Socrate ,
com'era avvenuto in passato per Protagora o Anassagora , ma egli non abbandonò la
città e si sottopose al processo . A maggioranza i giudici votarono per la condanna a
morte la quale fu eseguita in carcere mediante la somministrazione di cicuta .
Possiamo inserire Socrate nell'era sofistica (sebbene lui si schierò contro i sofisti)
perchè come i sofisti si interessò di problemi etici ed antropologici , mettendo da parte
la ricerca del principio e della cosmogonia . Socrate non scrisse mai nulla e così per
ricostruire il suo pensiero dobbiamo ricorrere ad altri autori .
Le fonti principali sulla vita di Socrate sono quattro:
1) Platone
2)Senofonte
3)Aristotele
4)Aristofane
. 1) Platone è senz'altro la fonte più attendibile : egli fu discepolo diretto di Socrate e
con lui condivise sempre l'idea della filosofia come ricerca continua . Senofonte è la
fonte più banale e meno interessante : il Socrate degli scritti di Senofonte è un
cittadino ligio alla tradizione , il vero interprete dei valori correnti , il saggio che mira
al bene dei suoi concittadini ed è ossequioso verso la città e le sue divinità . Va subito
precisato che Senofonte era un grande generale , coraggioso e valoroso , ma non era
certo un'aquila : i suoi scritti stessi non sono certo esempi eclatanti della letteratura
greca : sono ridondanti e ripetitivi . Senofonte fece anche campagne militari con
Socrate e nei suoi scritti ne esalta il valore dicendo che non stava mai fermo , era
sempre in azione , non soffriva niente (camminava addirittura a piedi nud sul
ghiaccio) . A Senofonte della filosofia non gliene importava nulla e con Socrate , di
cui era grande amico , non trattava mai argomenti filosofici , ma solo militari : questo
ci consente di capire che Socrate modulava il discorso a seconda del personaggio che
aveva di fronte : con un filosofo parlava di filosofia , con un generale di guerra .
3) La testimonianza di Aristotele è stata a lungo ritenuta la più attendibile perchè
Socrate non viene caricato di significati simbolici : Aristotele ce ne parla in modo
oggettivo . Tuttavia la testimonianza aristotelica ha dei limiti : in primis , è la meno "
artistica " delle 4 ed è l'unica di un non-contemporaneo . Va poi detto che in
Aristotele Socrate ci viene presentato quasi come un " robot " : la filosofia socratica
viene presentata come un susseguirsi di ragionamenti e non viene dato spazio al
filosofare in pubblico , al dialogo aperto .
4) Aristofane è il personaggio più vicino a Socrate come età : ci presenta un Socrate
relativamente giovane (circa 40 anni) . Va ricordato che Aristofane era un
commediografo e ne risulta che l'immagine che lui ci dà di Socrate è fortemente
impregnata di tratti sarcastici . Ne " Le nuvole " ce lo presenta come un sofista
studioso della natura (il contrario di ciò che era in realtà) , con la testa fra le nuvole .
Insomma Aristofane è l'unico a darci di Socrate un'immagine fortemente negativa
(non a caso Aristofane era stato uno dei primi accusatori di Socrate) . In realtà non
dobbiamo pensare che Aristofane volesse gettar discredito su Socrate o lo prendesse
in giro per cattiveria : in fondo lui faceva solo il suo lavoro di commediografo , che
consisteva nel far ridere . In realtà con la figura di Socrate vuole prendere in giro non
Socrate , ma l'intera categoria dei filosofi . La testimonianza di Platone resta la
migliore e le altre tre vanno sfruttate come appoggio . Platone lo conosceva davvero
bene ed era lui stesso un gran filosofo : il grosso limite è che trattandosi di un filosofo
, Platone avrebbe potuto rimaneggiare i discorsi di Socrate , ed è proprio quel che fa
man mano che invecchia . " L'apologia " , per fortuna , resta un dialogo giovanile nel
quale Platone descrive il processo che decretò la condanna a morte di Socrate . E'
proprio in questo dialogo che emerge fortemente la differenza tra Socrate ed i sofisti :
i sofisti pronunciavano discorsi raffinati ed eleganti , ma totalmente privi di verità :
per loro l'importante era parlar bene , avere un buon effetto sulle orecchie degli
ascoltatori . Per Socrate invece quel che più conta è la verità : lui si proclama incapace
di controbattere a discorsi così eleganti e ben formulati (ma falsi) . Socrate , pur non
tenendo un'orazione raffinata , dice il vero : la critica ai sofisti verrà poi ripresa da
Platone stesso .
I sofisti puntavano a stupire l'ascoltatore , dal momento che erano convinti che la
verità non esistesse (soprattutto Gorgia . Socrate per difendersi in tribunale non
pronuncia un discorso (come i sofisti) , ma imposta un dialogo botta e risposta : è
proprio dal discorso che viene a galla la verità (Platone dirà che il discorso tra due o
più individui è come lo scontro tra due pietre dal quale nasce la fiamma della
conoscenza) . Lo stile oratorio di Socrate è scarno , secco e quasi familiare , modulato
a seconda dell'interlocutore . Il punto di partenza del discorso socratico è la cosiddetta
" ironia socratica " , ossia la totale autodiminuzione , " io non so , tu sai " . Così inizia
anche " L'apologia" : si pone la domanda "che cosa è x ?" e l'interlocutore cade nel
tranello e risponde , sentendosi superiore a Socrate . Socrate , come abbiamo detto
parlando di Senofonte , parla di argomenti noti all'interlocutore : se ad esempio parla
con un generale gli chiederà " che cosa è il coraggio ? " . Quello risponderà , per
esempio , dicendo che il coraggio è il non indietreggiare mai . Allora Socrate
interverrà dicendo che quello non è coraggio , bensì pazzia . La critica diventa stimolo
per l'interlocutore a fornire una seconda risposta meglio articolata : il gioco può
andare avanti a lungo e spesso rimane aperto . Questo metodo viene detto " maieutico
" : Socrate diceva di fare lo stesso lavoro della madre , la quale era ostetrica : lei
faceva partorire le donne , lui le anime . Come le ostetriche valutano se il neonato è "
buono " , così Socrate valuta se le idee , le definizioni sono buone . Non tutti gli
interlocutori erano intelligenti e riconoscevano i propri errori : spesso preferivano
evitare Socrate . Da un interlocutore Socrate fu anche denominato " torpedine " in
quanto l'incontro con Socrate risulta scioccante perchè ribalta le concezioni di chi era
convinto di sapere e dimostrava che in realtà non sapeva . Socrate stesso si
paragonava ad un moscone che stimola il cavallo : lui stimolava gli uomini a
ragionare . Socrate con il processo dell'autodiminuzione afferma di non sapere nulla ,
mentre sostiene che i sofisti sappiano tutto : dice che forse l'educazione che
impartisce lui è inutile rispetto a quella sofistica , ma senz'altro è più importante . Le
calunnie nei confronti di Socrate hanno avuto inizio quando lui si definiva sapiente in
quanto l'oracolo di Delfi gli aveva detto che era il più sapiente tra gli uomini . Lui era
rimasto sconvolto da tale affermazione e non riusciva a crederci : allora cominciò a
girare per Atene per vedere se trovava persone effettivamente più sapienti di lui .
Dunque si recò da coloro che si ritenevano sapienti : politici , poeti , artigiani .
Socrate si accorse che tutte e tre le categorie erano convinte di sapere , ma in realtà
non sapevano niente : i politici erano i peggiori di tutti non in quanto politici (Socrate
stesso , se vogliamo , era un politico perchè svolgeva la sua attività in pubblico) ma in
quanto non capaci di insegnare il loro sapere : un vero sapiente deve spiegare ciò che
sa : anche i politici migliori (Pericle) non sanno trasmettere il loro sapere . Lo stesso
era per i poeti , che a partire da Omero erano considerati sapienti ed educatori :
Socrate li biasima sia perchè dicono assurdità , sia perchè il loro non è un sapere , ma
una forma di " follia ispirata " : era la divinità che parlava per bocca loro . I meno
peggio risultarono essere gli artigiani , che almeno sapevano fare diverse cose di
utilità pubblica : la loro è una " tecnè " , ossia una sapienza pratica . Però anche gli
artigiani avevano i loro difetti : erano sì competenti nel loro settore , ma peccavano di
presunzione perchè erano convinti che la loro conoscenza fosse universale ed
illimitata , anzichè limitata . Inoltre essi agivano senza pensare e ponderare . Socrate
arrivò alla conclusione che l'oracolo di Delfi aveva ragione : lui stesso è il più
sapiente , pur sapendo di non sapere . Il suo non va interpretato come atteggiamento
di rinuncia alla ricerca della verità , ma come segno di modestia intellettuale : è
proprio il fatto di essere consapevoli della propria conoscenza che spinge l'uomo a
sforzarsi di raggiungere la conoscenza ; se si è convinti di sapere già tutto non ci si
sforzerà di migliorare .
Tra le varie accuse che vengono mosse a Socrate c'è anche quella di corrompere i
giovani nella piazza rendendoli peggiori : lui ribatte a questa accusa dicendo che non
avrebbe motivo di fare ciò . Infatti se corrompesse i giovani finirebbe per vivere in
una città di giovani corrotti , il che si ritorcerebbe contro lui stesso . Va senz'altro
ricordato il cosiddetto " intellettualismo etico " di Socrate : secondo lui nessuno può
compiere il male sapendo effettivamente di compierlo : nessuno potrebbe mai fare del
male volontariamente . Un rapinatore rapina non pensando di fare del male , ma di
fare del bene : è un errore intellettuale ritenere bene ciò che è male . E' un
atteggiamento tipicamente cristiano-cattolico che si possa scegliere tra bene e male
indistintamente . Dunque Socrate introducendo l'intellettualismo etico dimostra di
aver agito per il bene della sua città . E' Socrate che ha scoperto il concetto moderno
di anima ( yuch ) : in precedenza significava " soffio vitale " , ciò che fa vivere le cose
; il termine yuch assunse poi il significato di " immagine nell'Ade " , un'esistenza
depotenziata . Per gli Orfici significava " demone " . A partire da Socrate fino al
giorno d'oggi l'anima è diventata il nostro io : ci identifichiamo con l'anima . Secondo
Socrate possiamo dividere i beni ed i mali in tre categorie
a) dell'anima
b) del corpo
c) dell'esterno .
Il corpo è lo strumento nonchè la prigione dell'anima . Il denaro , per esempio , è un
bene esterno . In alcuni frangenti sembra che Socrate (e anche Platone ) rifiuti i beni
materiali e del corpo , scegliendo quelli dell'anima ; in altre occasioni pare che
possano essere accettati entrambe . Socrate , per esempio , pare che non disprezzasse
il vino . Quest'ambiguità tra beni del corpo e beni dell'anima può essere spiegata
affermando che i beni son tutti beni finchè non entrano in conflitto con altri : la
ricerca del piacere fisico diventa un male quando la si antepone alla ricerca di quello
intellettuale . Questo non vale solo per i beni , ma anche per il rapporto tra anima e
corpo : il corpo per Socrate e Platone non va disprezzato , anzi va apprezzato perchè
serve all'anima . Per il Cristianesimo la ricchezza è un male , per Socrate e Platone è
un bene finchè non entra in conflitto con gli altri beni . Interessante è il concetto
socratico di ingiustizia : essa non danneggia chi la subisce , ma chi la commette . La
giustizia infatti dà un senso di piacere interiore e chi è ingiusto perde questo piacere ,
mentre chi subisce l'ingiustizia continua a provarlo .
Questo vale anche per Platone . Tra le cose che Socrate dice di non sapere vi è la
conoscenza dell'aldilà , di cosa c'è dopo la morte ( Platone dirà di essere in grado di
dimostrare l'esistenza di un aldilà) . Per lui non è che se si vive una vita giusta si sarà
premiati : si è già appagati dal vivere giustamente , la felicità che si prova perchè si è
giusti è già una sorta di premio : Socrate dice che magari potrebbe esserci una vita
ultraterrena , ma lui non lo sa . Tra le varie accuse rivolte c'era anche quella di
ateismo e di empietà : Socrate infatti credeva nei demoni , che lui proclamava " figli
delle divinità " . Lui dimostra che è un'accusa sbagliata dicendo che se crede nei
demoni che sono figli delle divinità , è ovvio che creda anche nelle divinità : perchè ci
sia il figlio (demone) , ci devono anche essere il padre e la madre (le altre divinità) .
Ma che cosa era questo demone ? Abbiamo due testimonianze divergenti : per Platone
era una sorta di angelo custode - coscienza personale che interveniva ogni qual volta
Socrate stesse per sbagliare : si tratterebbe di una sorta di " aiuto privilegiato " che
non tutti hanno : solo le persone per bene . E' un dono divino per i buoni . E' come se
la divinità partecipasse alla vita umana . Per Senofonte invece il demone è un'entità
che lo spinge ad agire in determinati modi : Senofonte intende ancorare fortemente
Socrate alla credenza in un ordine divino e in un intervento divino nella vita umana .
Per Socrate l'importante non è vivere , ma vivere bene : quando la nostra anima è sana
, giusta , allora anche noi stiamo bene . Sempre Senofonte nei " Detti memorabili "
riassume la prova dell'esistenza di Dio formulata da Socrate in questi termini : ciò che
non è opera del caso postula una causa intelligente , con particolare riguardo al corpo
umano che ha una struttura organizzata non casuale . Per questa sua origine l'uomo è
ritenuto superiore a tutti gli altri animali ed è oggetto dell'interesse di Dio , come si
deduce anche dalla possibilità di conoscere i suoi progetti sull'uomo ricorrendo all'arte
della divinazione . Va notato che il Dio socratico ( inteso come intelligenza
finalizzatrice ) è una sorta di elevazione a entità assoluta della psychè umana . Molti
hanno notato che gli accusatori non volevano in realtà condannarlo a morte , ma
semplicemente zittirlo . Ma Socrate non può accettare di essere zittito : il suo destino
è andare in giro a colloquiare con la gente . Vivere bene per Socrate significa svolgere
quest'attività e non rifiutare di essere colpevole significava non far perdere significato
alla sua vita . Dal momento che era già vecchio e gli restavano pochi anni di vita ,
tanto valeva farla finita lì , ma non rinunciare ai suoi ideali . Mentre la ricerca di
Platone si spingerà in un'altra dimensione , quella di Socrate rimane saldamente
ancorata al mondo terreno : la sua mIssione è far capire ai cittadini ciò che fanno . In
Socrate vi è poi un rifiuto della politica (che peraltro troveremo anche in Platone ) : fa
infatti notare che lui stesso aveva avuto parecchi problemi con la politica : prima
contro di lui si erano scagliati gli oligarchici , ed ora i democratici (nell'accusa ai
danni di Socrate si possono scorgere istanze politiche : lui era un aristocratico e i
democratici volevano punirlo ) . Pur avendo problemi con la politica , Socrate non
dice che vada abolita . Prima dell'esecuzione della pena capitale , a Socrate era stata
presentata la possibilità di evadere dal carcere , ma lui si era rifiutato : in lui infatti vi
era il massimo rispetto per la legge , che non si deve infrangere in nessun caso . La
legge può essee criticata , ma non infranta : di fronte ad una legge ingiusta non
bisogna infrangerla , ma bisogna battersi per farla cambiare . Socrate afferma che
sarebbe stato suo dovere far cambiare la legge e che non essendoci riuscito è giusto
che lui muoia . Gli Ateniesi son convinti di essersi liberati di Socrate avendolo
eliminato fisicamente , ma in realtà per liberarsene completamente avrebbero dovuto "
ucciderlo filosoficamente " , batterlo a parole . In realtà volevano farlo tacere , ma han
sortito l'effetto opposto : Platone infatti , che era intenzionato a dedicarsi alla vita
politica , resterà sconvolto per condanna del maestro e si dedicherà alla filosofia . In
Socrate vi è una vaga idea di provvidenza divina , ma non collettiva , bensì
individuale : la divinità aiuta solo i migliori . Celeberrima è la conclusione dell'
Apologia , in cui Socrate si rivolge ai suoi discepoli prima di essere giustiziato : " Ma
ormai è ora di partire : io verso la morte , voi verso la vita . Chi di noi cammini a una
meta superiore è oscuro a chiunque : non al mio dio ." Nel " Simposio " di
PlatonePlatone Alcibiade afferma che Socrate non assomiglia a nessuno degli uomini
del passato e del presente : è una figura nuova . Non si interessa di politica , ma non la
disprezza , non rifiuta i festini , ma non vi si identifica ( nel " Simposio " tutti i
convitati si addormentano , Socrate no ) . Soffermiamoci ora maggiormente sulla
tecnica discorsiva di Socrate : la confutazione è la tecnica che dimostra l'inconsistenza
del sapere dei propri interlocutori . Ma per arrivare a questo risultato bisogna partire
dal metodo delle domande e delle risposte . " Che cosa è la giustizia ? " può essere il
punto di partenza per il dibattito : porre questa o qualsiasi altra domanda del genere
significa richiedere la definizione delle cose in questione , che però deve essere valida
per tutti i casi particolari . In questo senso la ricerca di Socrate è stata interpretata da
Aristotele come ricerca dell'universale , nell'ambito dei concetti e dei problemi morali
. Gli interlocutori di Socrate si dimostrano incapaci di rispondere correttamente alla
domanda sia perchè sottovalutano Socrate (che dice di essere inferiore) sia perchè
rispondono citando casi particolari , anzichè la definizione universale . Abbiamo già
citato il caso della domanda " Che cosa è il coraggio ? " : rispondere " non
inditreggiare mai " è sbagliato , così come dire " assalire il nemico " : si può essere
coraggiosi anche nell'affrontare una malattia o un'interrogazione : una definizione
corretta deve coprire tutti i casi possibili . Nella sua funzione negativa il metodo delle
domande e risposte si caratterizza come confutazione , ossia dimostrazione della
falsità o contradditorietà delle risposte date dall'interlocutore . Gli effetti prodotti
dall'esercizio di questo metodo sono paragonati a quelli della torpedine marina , che
intorpidisce coloro che tocca . Di fronte alla confutazione si può reagire rifiutandola ,
come fanno vari interlocutori di Socrate . Ma , se la si accetta , essa può liberare dalle
false opinioni che si hanno sui vari argomenti e agire dunque come una forma di
purificazione . La situazione , che risulta dalla confutazione , è detta aporia , ossia
letteralmente situazione senza vie di uscita . Essa consiste nel rendersi conto che i
tentativi sin qui percorsi di rispondere a un determinato problema , hanno condotto a
un vicolo cieco . Ma in questa nuova situazione , liberi dal falso sapere e soprattutto
dalla presunzione di sapere , ci si può accingere alla ricerca del vero sapere , tentando
nuove stade che possano condurre ad esso . In questo nuovo orientamento il metodo
delle domande e risposte può assolvere una funzione positiva . Essa è paragonata alla
funzione svolta dalla maieutica , capace di far partorire ad ognuno , mediante
domande opportunamente indirizzate , la verità , di cui ciascuno è gravido . Socrate si
ostina incessantemente a far convergere i propri interlocutori nell'ammissione di un
punto fondamentale : per saper agire bene , cioè virtuosamente , in un determinato
ambito , occorre possedere il sapere che renda capaci di ciò . A questo risultato egli
perviene mediante l'analogia con le tecniche : il buon artigiano che sa svolgere bene la
propria attività possiede un sapere capace di guidarlo a questo risultato . La stessa
cosa deve valere in ambito etico-politico : questo è il nocciolo della famosa tesi
secondo cui la virtù è scienza . Questa tesi conduce ad alcune conseguenze . In primo
luogo , chi conosce che cosa è bene e quindi anche che cosa è buono per lui non può
non farlo . Il bene è dotato di un potere incontrastabile di attrazione . Ciò non
significa che Socrate disconosca l'importanza delle passioni e delle emozioni nella
vita umana , ma soltanto che in ogni ambito della vita umana l'unico strumento capace
di orientare verso il comportamento corretto è ravvisato nel sapere . La posizione
etica di Socrate non va confusa con forme di rigorismo ascetico . Essa è invece
definibile come una forma di eudemonismo , perchè pone come obiettivo
fondamentale il perseguimento della felicità (in Greco eudaimonia ) . E' il sapere che
è in grado di effettuare un corretto calcolo degli stessi piaceri , misurando le
conseguenze piacevoli o dolorose che essi possono arrecare . Questo è il sapere , di
cui Socrate dichiara di non essere in possesso , ma proprio per questo è il sapere che
egli persegue . Non ha senso allora distinguere le varie virtù nettamente le une dalle
altre : la virtù è una , come uno solo è il sapere in cui esse si compendiano : sapere
che cosa è bene e che cosa è male .
UNITA’ 2
PARTE 1
PATRISTICA
In Europa la diffusione del Cristianesimo all'interno dell'impero romano segnò la fine
della filosofia ellenistica e l'inizio della Patristica, dalla quale si svilupperà la filosofia
medievale.
La Patristica, cioè il pensiero dei antichi padri della Chiesa, rappresentò il primo
tentativo di fusione fra la tradizione ebraica e la filosofia greca, di cui costoro
cercarono di assimilare profondamente il senso del logos, concetto chiave della
filosofia greca, in particolare di quella stoica e neoplatonica: logos significava la
ragione e il fondamento universale del mondo, in virtù del quale la realtà terrena
veniva ricondotta ad un principio intellettivo ideale, in cui risiederebbe la vera
dimensione dell'essere. Soprattutto in Plotino, l'ultimo dei grandi filosofi greci, si
avvertiva il tema della trascendenza dell'Idea platonica, da lui concepita come la forza
spirituale che plasma gli organismi viventi secondo un progetto prestabilito.
Se i primi cristiani accolsero con accenti diversi la filosofia pagana, senza identificare
automaticamente i suoi sistemi di pensiero con il messaggio evangelico, e anzi con
una certa coscienza critica che in Tertulliano si tramuta in aperta diffidenza, Giustino
fu invece tra i primi a identificare il Cristo incarnato con il logos dei greci, termine
che egli trovava adoperato nel prologo di Giovanni.
A ogni modo, almeno fino al 200, la patristica si dedicò essenzialmente alla difesa del
cristianesimo contro i suoi avversari. Tra costoro vi erano i cosiddetti "padri
Apologisti". Solo in seguito cominciarono invece a sorgere i primi grandi sistemi di
filosofia. Un importante contributo in tal senso venne da Clemente Alessandrino;
come Giustino, anche Clemente arrivò a sostenere che Dio aveva dato la filosofia ai
Greci «come un Testamento loro proprio» (Strom. 6,8,67,1). Per lui la tradizione
filosofica greca, quasi al pari della Legge mosaica per gli Ebrei, è ambito di
"rivelazione": sono due rivoli che in definitiva vanno verso lo stesso Logos.
Il maggiore esponente della Patristica fu quindi Agostino di Ippona: questi divenne un
vescovo neoplatonico, e conciliò la filosofia greca con la fede cristiana riprendendo
da Plotino il tema delle tre nature o ipostasi divine (Uno, Intelletto e Anima) e
identificandole con le tre Persone della Trinità cristiana (Padre, Figlio e Spirito
Santo), ma concependo il loro rapporto di processione non più in senso degradante,
ma in un'ottica di parità-consustanzialità. Secondo Agostino ci sono dei limiti oltre i
quali la ragione non può andare, ma se Dio illuminerà la nostra anima con la fede
riuscirà placare la nostra sete di conoscenza. Agostino riprese da Plotino anche la
concezione del male come semplice "assenza" di Dio: esso è dovuto perciò alla
disobbedienza umana. A causa del peccato originale nessun uomo è degno della
salvezza, ma Dio può scegliere in anticipo chi salvare; ciò non toglie che noi
possediamo comunque un libero arbitrio.
Con Agostino emerse tuttavia, su questo punto, una differenza peculiare della
filosofia cristiana rispetto a quella greca, nella quale era certamente presente l'idea
della contrapposizione tra bene e male, ma era assente la nozione del peccato, per cui
non c'era una visione lineare della storia come percorso di riscatto verso la salvezza.
Agostino invece ebbe presente come la lotta tra bene e male si svolge soprattutto nella
storia. Ciò comportò anche una riabilitazione della dimensione terrena rispetto al
giudizio negativo che ne aveva dato il platonismo. Ora anche il mondo e gli enti
corporei hanno un loro valore e significato, in quanto frutti dell'amore di Dio. Si tratta
di un Dio vivo e Personale che sceglie volontariamente di entrare nella storia umana.
All'amore ascensivo tipico dell'eros greco, Agostino affiancò pertanto l'amore
discensivo di Dio per le sue creature, proprio dell'agape cristiano.
La valorizzazione della storia e dell'esistenza terrena portò nel V secolo ad una novità
rispetto ai modelli orientali incentrati sull'esperienza mistica, e cioè alla nascita
dell'attività monastica istituita da Benedetto da Norcia, autore della celebre regola
«prega e lavora»: il lavoro manuale divenne un elemento importante nel percorso di
salvezza del cristiano. Accanto alla vita spirituale c'è pure la vita quotidiana: si
affaccia per la prima volta l'idea del progresso, di un'evoluzione universale a cui
ognuno è chiamato a contribuire, e che sarà un elemento centrale di tutta la filosofia
medievale.
L'opera dei benedettini risultò tanto più importante anche per le ore dedicate allo
studio: il loro lavoro di copiatura di testi antichi, non solo religiosi, ma anche
scientifici e letterari, salvò infatti numerose opere dell'età greca e romana che
poterono così attraversare i secoli e giungere all'età moderna. Il sapere allora diffuso
dai monasteri e dalle abbazie poté inoltre facilmente ottenere il monopolio
sull'insegnamento anche a seguito della definitiva chiusura dell'Accademia di Atene
nel 529 ad opera di Giustiniano dopo vari periodi di alterne interruzioni della sua
attività.
Dal V al VIII secolo vi fu quindi l'ultimo sviluppo della Patristica, con la
rielaborazione delle dottrine già formulate, e in parte anche con riflessioni originali
(soprattutto Boezio, e in età carolingia Giovanni Scoto Eriugena).
UNITA’ 2
PARTE 2
SCOLASTICA
A partire dall'anno Mille è particolarmente significativa la nascita della filosofia
scolastica, così chiamata dall'istituzione delle scholae, ossia di un sistema scolasticoeducativo diffuso in tutta Europa, e che garantiva una sostanziale uniformità di
insegnamento. Le origini della scolastica si possono rintracciare già in Carlo Magno,
il quale, dando avvio alla "rinascita carolingia" aveva fondato ad Aquisgrana intorno
al 794 la Schola palatina, per favorire l'istruzione delle genti e la diffusione del sapere
servendosi dei monaci benedettini. Gli insegnamenti erano divisi in due rami:
•
•
l'arte del trivio;
l'arte del quadrivio.
Con l'Admonitio Generalis Carlo Magno aveva quindi cercato di formare un metodo
di studio che fosse praticato in tutto il Sacro Romano Impero. Gradatamente si
sviluppò così un tipo di insegnamento detto scolastico, che prenderà sempre più a
distinguersi dall'ambiente monastico in cui era nato, andando a stabilire le proprie
sedi nelle scuole annesse alle cattedrali a partire dal XII secolo, o nelle Università
come quelle di Bologna e Parigi.
Padre della Scolastica è comunque considerato l'abate benedettino Anselmo d'Aosta,
poi divenuto arcivescovo di Canterbury, che cercò una convergenza tra fede e ragione
nel solco della tradizione platonica e agostiniana. Le sue due opere principali vertono
sull'argomento ontologico dell'esistenza di Dio, che nel Monologion viene da lui
trattato a posteriori partendo dalla considerazione che, se qualcosa esiste, occorre
ammettere un Essere supremo come principio della catena ontologica che lo rende
possibile. Nel Proslogion, invece, Anselmo espone una prova a priori, in base alla
quale Dio è l'Ente massimo di cui non si può pensare nulla di più grande; chi nega che
a questo concetto dell'intelletto corrisponda una realtà, necessariamente si
contraddice, perché allora si potrebbe pensare che l'Ente massimo sia minore di
qualcosa ancora più grande che abbia anche l'esistenza.
L'evoluzione dei centri urbani, intanto, favorita da una concezione del lavoro rivolta
alla costruzione del benessere comune e incentrata sull'opera della collettività, aveva
portato alla Rinascita dell'anno Mille e poi a quella del XII secolo, nei quali si ebbero
nuovi fermenti religiosi miranti a rinnovare la Chiesa. Dopo la Congregazione dei
monaci Cluniacensi sviluppatasi intorno all'anno Mille, nacquero agli inizi del
Duecento due nuovi movimenti, uno fondato dallo spagnolo Domenico di Guzman, la
cui predicazione di basava sull'efficacia degli argomenti e la forza della persuasione,
l'altro da Francesco d'Assisi, che mirava invece a convertire tramite un esempio di
vita umile, semplice, e in armonia con la natura. Questi movimenti si diffusero
soprattutto nelle città e a contatto con le loro scuole che erano divenute i nuovi centri
della cultura medievale.
Furono ad esempio due frati domenicani, Alberto Magno e il suo discepolo Tommaso
d'Aquino, a dare un notevole contributo allo sviluppo della Scolastica. Autore di un
imponente commento alla Metafisica di Aristotele, Alberto Magno fu tra i primi a
recepire l'influsso dell'aristotelismo arabo all'interno del Cristianesimo,
ridimensionando il ruolo che l'agostinismo aveva avuto fino allora, e provocando
accese dispute quando alcuni concetti di derivazione averroistica (come la negazione
dell'immortalità dell'anima o dell'origine creazionistica del mondo) sembravano porsi
in contrasto con l'ortodossia cristiana. Egli distinse pertanto l'ambito della fede, di cui
si occupa la teologia, da quello della scienza, in cui opera la ragione, pur cercando
sempre un punto di incontro tra questi due campi.
Anche Tommaso, di fronte all'avanzare dell'aristotelismo arabo che sembrava voler
mettere in discussione i capisaldi della fede cristiana, mostrò che quest'ultima non
aveva nulla da temere, perché le verità della ragione non possono essere in contrasto
con quelle della Rivelazione, essendo entrambe emanazione dello stesso Dio.
Secondo Tommaso non c'è contraddizione tra fede e ragione, per cui spesso la
filosofia può giungere alle stesse verità contenute nella Bibbia; per esempio, si può
arrivare a conoscere l'esistenza di Dio sia attraverso la fede, sia attraverso la ragione e
l'osservazione basata sui sensi. Come il suo maestro, anche Tommaso cercò di
conciliare la rivelazione cristiana con la dottrina di Aristotele, il quale, partendo dallo
studio della natura, dell'intelletto e della logica, aveva sviluppato delle conoscenze
sempre valide e universali, facilmente assimilabili dalla teologia cristiana, dal
momento che la verità oggettiva, come del resto insegnava lo stesso filosofo greco, è
tale proprio in quanto rimane sempre uguale in ogni epoca e luogo. Così era ad
esempio nelle scienze naturali, per le quali esisteva un perenne passaggio dalla
potenza all'atto che strutturava gerarchicamente il mondo secondo una scala
ascendente che va dalle piante agli animali, e da questi agli uomini, fino agli angeli e
a Dio, che in quanto motore immobile dell'universo è responsabile di tutti i processi
naturali. Le intelligenze angeliche hanno una conoscenza intuitiva e superiore, che
permette loro di sapere immediatamente ciò a cui noi invece dobbiamo arrivare
tramite l'esercizio della ragione.
L'opera fondamentale di Tommaso d'Aquino, la Summa Theologiae, fu da lui
concepita alla stegua del processo di edificazione delle grandi cattedrali europee:
come la teologia ha lo scopo di rendere trasparenti alla ragione i fondamenti della
fede, così l'architettura, in particolare quella delle chiese romaniche del Duecento,
diventò lo strumento collettivo per l'educazione del popolo e della sua partecipazione
alla Verità rivelata.
Mentre San Tommaso contribuiva così alla rinascita e alla diffusione
dell'aristotelismo in Europa, il suo contemporaneo San Bonaventura fu invece il
maggiore esponente della corrente neoplatonica. Nella riflessione di Bonaventura,
speculare sotto certi aspetti a quella di Tommaso, non si trovano monumentali
architetture razionali, bensì il prevalere di un sentimento mistico ispirato alla
religiosità di San Francesco d'Assisi.
La disputa sugli universali
Fu inoltre nel Medioevo che prese piede la cosiddetta disputa sugli universali, che
attraversò i secoli iniziando da Porfirio (300 ca.) fino a Guglielmo d'Ockham (1300) e
oltre. La questione dibattuta all'interno della scolastica riguardava la natura
dell'universale, ossia del predicato che viene assegnato a una molteplicità di enti.
Quando ad esempio si afferma: tutti "gli esseri sono mortali", si attribuisce una
caratteristica generale (un quid) a delle realtà concrete e particolari. Qual è allora la
natura di questo quid?
A seconda delle risposte, gli universalia possono essere:
•
•
•
ante rem, cioè esistono prima della realtà, nella mente di Dio;
in re , gli universali sono all'interno della realtà stessa, come essenza reale;
post rem gli universali sono un prodotto reale della nostra mente che svolge
quindi una funzione autonoma nella elaborazione dei concetti che non dipende
dalla realtà.
Su questi punti si divisero i realisti, i cui maggiori esponenti furono Anselmo d'Aosta,
Guglielmo di Champeaux, Tommaso d'Aquino e Duns Scoto.
Ai realisti, che affermavano l'esistenza oggettiva e autonoma dell'universale si
contrapposero anche i nominalisti, i quali invece negavano qualsiasi realtà
all'universale che per essi è un semplice nome, flatus vocis. Tra costoro vi furono
Roscellino, Pietro Abelardo (che però può essere fatto rientrare nella soluzione
originale del concettualismo), e in seguito Guglielmo d'Ockham.
Gli ultimi sviluppi della scolastica
Filosoficamente, il medioevo si caratterizza per una grande fiducia nella ragione
umana, ossia nella capacità di poter indagare i misteri della fede, in virtù del fatto che
Dio nei Vangeli si presenta come Logos (cioè Principio Logico).
La crisi di questa fiducia iniziò a partire dal Trecento, quando Duns Scoto affermò
che esiste un limite che non può essere esplorato dalla filosofia, e oltre il quale la
ragione non può andare. Scoto fu un assertore della dottrina del volontarismo,
secondo cui Dio sarebbe animato da una volontà incomprensibile e arbitraria, del tutto
slegata da criteri razionali che ne limiterebbero la libertà d'azione. Questa posizione
ebbe come conseguenza un crescente fideismo, ossia una fiducia cieca in Dio, non
motivata da argomenti.
Al fideismo aderì soprattutto Guglielmo di Ockham, esponente del già ricordato
nominalismo, che giunse a negare alla Chiesa il ruolo di mediazione tra Dio e gli
uomini. Basandosi su una concezione riduzionista del sapere (all'origine del suo
famoso rasoio), egli criticò i concetti di causa e di sostanza, da lui giudicati
metafisici, in favore di un approccio empirico alla conoscenza.
In Germania, intanto, Meister Eckhart poneva le basi della mistica speculativa
tedesca, accentuando per parte sua il carattere misterioso e imperscrutabile di Dio,
elaborando una teologia negativa radicalmente apofatica.
La frattura tra la dimensione terrena e quella celeste-spirituale, che nel Trecento portò
a un tale crescente fideismo, fu espressa dal Gotico nella sua forma estrema.
UNITA’ 2
PARTE 3
IL PENSIERO ARABO E EBRAICO
Mentre in Europa si diffondeva il platonismo, durante tutto il Medioevo gli arabi
avevano mantenuto viva la tradizione filosofica facente capo ad Aristotele, con
commenti e traduzioni del filosofo greco, e sviluppando interessi per le scienze
naturali. Si trattava di un aristotelismo penetrato in Medio Oriente attraverso
l'interpretazione che ne aveva dato in epoca ellenistica Alessandro di Afrodisia,
mescolato con motivi giudaici, cristiani, e soprattutto neoplatonici. In questo
sincretismo di culture, favorito dall'espansione araba verso l'Occidente, fiorirono
nuovi centri come Bagdad, Granata, Cordova, e Palermo.
Tra le figure più importanti dell'ambito islamico, che cercarono di conciliare
l'adesione al Corano con le esigenze della ragione, vi furono Al-Kindi, Al-Farabi, Ibn
Bajjah, Avicenna, e Averroè. Avicenna in particolare fu anche medico, autore di un
Canone della medicina e del Libro della Guarigione, nei quali si proponeva di far
guarire l'anima dall'ignoranza. Influenzato da Plotino, sostenne che il mondo non è
creato nel tempo, ma originato per emanazione dall'Uno, secondo un processo di
concause che vede Dio generare indirettamente i livelli astrali inferiori, l'ultimo dei
quali è l'aristotelico Intelletto Attivo, da lui associato alla Luna. Pur essendone
partecipi, i singoli uomini possiedono soltanto un intelletto potenziale.
Averroé invece presuppone che il mondo esista per l'azione diretta di Dio, ma sempre
in un contesto fuori dal tempo. Sostenne in forma neoplatonica e con un certo
panteismo una corrispondenza tra le Sfere Celesti e la Terra, ma a differenza di
Avicenna separò anche l'Intelletto passivo dalle singole anime umane: per lui l'attività
intellettiva, sia agente che potenziale, è unica e identica in tutti gli uomini, e non
coincide con nessuno di essi. Sottoponendo a critica tutta la conoscenza, sottolineò
come la percezione sensibile abbia bisogno dell'Intelletto Agente per elevarsi
all'astrazione, senza il quale essa produce saperi variabili da uomo a uomo. In
soccorso deve quindi giungere la religione, che si affianca alla ricerca filosofica
riservata invece a pochi. La doppia verità, concetto attribuito erroneamente a lui, è in
realtà una semplificazione della sua dottrina, che anzi ebbe presente come le verità di
fede e di ragione debbano costituire un'unica sola verità, conoscibile dai più semplici
tramite la rivelazione e i sentimenti, e dai filosofi cui spetta invece il compito di
riflettere scientificamente sui dogmi religiosi presenti in forma allegorica nel Corano.
Tra le numerose opere di Averroé, che spaziano nei campi più svariati, la più
imponente fu il Commentario alle opere di Aristotele, che lo rese noto nell'Europa
cristiana.
In ambito ebraico, invece, si era avuto già con Filone di Alessandria (I secolo d.C.) un
primo tentativo di conciliare la Legge mosaica con la filosofia platonica, tentativo
tuttavia che aveva avuto maggior seguito presso i primi cristiani. Sarà con Avicebron,
e poi con Mosè Maimonide, che si ha un effettivo confronto tra la fede ebraica e il
retaggio culturale greco. Maimonide incentrò la sua riflessione su alcuni princìpi
fermi riguardanti l'esistenza di Dio e la sua immortalità. Egli si servì
dell'aristotelismo, influenzato anche nel suo caso da numerosi concetti neoplatonici,
per conciliare la fede nella Torah e nel Talmud con forme razionali di speculazione
filosofica, sostenendo la trascendenza di Dio, la libera volontà umana e divina, e
l'origine creazionistica del mondo, ma negando come Averroé l'immortalità
dell'anima individuale.
UNITA’ 3
PARTE 1
LA RIVOLUZIONE CULTURALE TRA UMANESIMO E
RINASCIMENTO
L’umanesimo
Umanesimo indica un processo di rinnovamento culturale che cominciò a
manifestarsi in Italia sul finire del ’300 e che irradiò nei paesi dell’Europa occidentale
e orientale. La cultura classica divenne modello di vita, come strumento per realizzare
una vita migliore e riscoprire la dignità dell’uomo. Francesco Petrarca fu l’iniziatore
dell’umanesimo, si andò alla riscoperta di autori antichi, furono letti e riletti i classici
che circolavano in rare copie manoscritte, si registrò la conoscenza della lingua e
della letteratura greca antica. Rinacque la filologia la scienza che consente di restituire
testi il più possibile vicini agli originari, il fondatore fu Lorenzo Valla. La dignità
dell’uomo è il tema principale. L’immagine umanistica si fondava sulla laicizzazione,
cioè il ripudio di qualsiasi forma di religiosità e l'affermazione dell’autosufficienza
delle attività umane.
Il Rinascimento
Fioritura delle arti e del pensiero che si accompagno all’Umanesimo. Questo
nacque, particolarmente, a Firenze. I fattori che possono aver favorito il rinascimento
nelle città italiane sono:
- l'urbanizzazione centro/settentrionale (=maggior autonomia) che era tra le più alte
d'Europa;
- per l'alta concentrazione di artigiani;
- per il maggior studio sul diritto Romano che portava alla conoscenza del mondo
antico;
- per le biblioteche contenenti molti manoscritti più di ogni altra biblioteca europea.
La fioritura dell’Umanesimo e del Rinascimento coincise con il periodo di crisi
politica ed economica, questo portò molti poeti a un pensiero negativo:
- Niccolò Machiavelli: - gli uomini in politica sono guidati dal proprio interesse
- il principe, secondo lui, è la persona più adatta per assicurare
un miglior
svolgimento della vita (lo si nota nel suo libro Il principe)
- Francesco Guicciardini: per lui gli uomini sono inevitabilmente preda del male e i
loro comportamenti sono dominati da motivazioni irragionevoli.
Per quanto riguarda le scienze naturali abbiamo Niccolò Copernico disse che era la
terra a girare intorno al sole e non il contrario. L’élite creativa gruppo di artisti,
letterati, umanisti, scienziati.
La rivoluzione delle comunicazioni
Con il Rinascimento , oltre la rivoluzione culturale si arrivò alla rivoluzione delle
comunicazioni con
l’invenzione della stampa a caratteri mobili nel ‘400 da Johann Gutenberg portò:
- dal libro manoscritto a quello stampato;
- aumentò numero libri in circolazione
- diminuzione del costo di produzione;
- si allargarono gli orizzonti culturali degli studiosi
- nascono le stamperie;
- standardizzazione cioè effetto determinato dall’esistenza di copie tutte identiche di
uno stesso libro
- rafforzamento mentalità sistematica (maggior uso dell’alfabeto)
- nacque il bisogno di rediger bibliografie, raccolte di titoli pertinenti a un determinato
ambito disciplinare
UNITA’ 2
PARTE 3
LA RIVOLUZIONE ASTRONOMICA
La rivoluzione astronomica con cui prende avvio la Rivoluzione scientifica
rappresenta uno degli avvenimenti culturali più importanti della storia dell'Occidente,
che hanno maggiormente contribuito al passaggio dall'antico.medioevale all'età
moderna. Generalmente si crede che tale rivoluzione sia dovuta in sostanza a
Copernico. In realtà, Copernico ha solo dato inizio ad un processo di pensiero che ha
coinvolto al tempo stesso astrologia, filosofia e teologia. Anzi quella che
comunemente continua a chiamarsi la visione copernicana dell'universo, è il prodotto
di intuizioni e deduzioni teoriche che risalgono soprattutto a Giordano Bruno. Di
conseguenza l'intricato processo che forma la rivoluzione astronomica non è solo un
fatto astronomico e scientifico, ma anche un avvenimento filosofico, poichè i suoi due
autori principali (Copernico e Bruno) hanno fatto cambiare completamente la visione
del mondo, segnando profondamente la cultura moderna.
La cosmologia greco-medioevale concepiva l'universo come sostanzialmente unico,
chiuso, finito, fatto di sfere concentriche, geocentrico e diviso in due parti
qualitativamente distinte. L'universo degli antichi era unico in quanto pensato come il
solo universo esistente, in virtù della teoria dei luoghi naturali, secondo cui ogni
materia possibile deve trovarsi concentrata in un determinato posto; e chiuso poichè
immaginato come una sfera limitata dal cielo e dalle stelle fisse oltre il quale non c'era
niente. Tale universo era fatto di sfere concentriche, intese non come puri tracciati
matematici, ma come qualcosa di solido e reale su cui erano incastonate le stelle e i
pianeti. Si avevano così oltre alla sfera delle stelle fisse anche i cieli di Saturno,
Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole e Luna. Al di sotto di quest'ultima stava la zona
dei quattro elementi, con la terra immobile al centro di tutto. Il mondo aristotelicotolemaico, era inoltre pensato come qualitativamente differenziato in due zone
cosmiche ben distinte: una perfetta e l'altra imperfetta. La prima era quella dei cieli e
del mondo sopralunare, formato da un elemento divino, l'etere, e il cui movimento era
di tipo circolare e uniforme. La seconda zona era quella del cosiddetto mondo
sublunare formato dai quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco) aventi ognuno un
suo luogo naturale e dotati di un moto rettilineo che ha un inizio e una fine. Questa
visione astronomica appariva conforme alla mentalità metafisica prevalente, portata a
concepire il mondo come organismo gerarchico e finalisticamente ordinato e disposto.
La teologia patristica e scolastica aveva poi ulteriormente cristianizzato e sacralizzato
questa cosmologia intrecciandola con le dottrine della creazione, dell'incarnazione e
della redenzione che ben si conciliavano con la centralità spaziale riconosciuta alla
terra.