a chi serve il diritto del lavoro

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CAPITOLO II
A CHI SERVE IL DIRITTO DEL LAVORO
SOMMARIO: SEZ. I. RAGION D’ESSERE SOCIO-ECONOMICA E FONDAMENTO COSTITUZIONALE DEL DIRITTO
DEL LAVORO. - 1. Il problema della ragion d’essere costituzionale del diritto del lavoro. — 2. Le fun-
zioni principali concretamente svolte dal diritto del lavoro in epoca moderna. A) La protezione dei lavoratori in attività contro i nuovi concorrenti, mediante restrizioni di accesso, imposizione di costi di
sostituzione e clausole di associazione sindacale obbligatoria. — 3. Segue. B) La correzione delle distorsioni monopsonistiche del mercato del lavoro mediante l’imposizione di standard minimi di trattamento e la promozione della coalizione tra i lavoratori. — 4. Segue. C) La correzione degli effetti
dell’asimmetria informativa sulla congiuntura e sull’andamento dell’azienda. — 5. Segue. D) La distribuzione migliore del rischio delle sopravvenienze fra imprenditore e lavoratore mediante la limitazione autoritativa della facoltà di recesso del datore di lavoro. — 6. Segue. E) L’interesse degli imprenditori «regolari» a limitare la concorrenza. — 7. Segue. F) La preferenza a priori per
l’eguaglianza: una possibile lettura rawlsiana del diritto del lavoro. - 8. Non coincidenza del lavoro
protetto dal titolo III della Costituzione con il lavoro subordinato. — 9. Effetti del diritto del lavoro coerenti ed effetti contrari ai principi costituzionali. — 10. Le tendenze attuali del nostro diritto del lavoro. - SEZ. II - DIVERSITÀ DI ISPIRAZIONE E DI CONTENUTI NORMATIVI FRA L’ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE DEL LAVORO E L’ORDINAMENTO COMUNITARIO EUROPEO. - 11. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro come risposta al monopsonio strutturale. - 12. Il diritto comunitario del lavoro come risposta al monopsonio dinamico. - 13. Disarmonia e armonizzazione fra i due ordinamenti.
SEZIONE I - RAGION D’ESSERE SOCIO-ECONOMICA
E FONDAMENTO COSTITUZIONALE DEL DIRITTO DEL LAVORO
1. – Il problema della ragion d’essere costituzionale del diritto del lavoro
La corrente di pensiero tradizionale e tuttora dominante è quella che identifica la ragion
d’essere della tutela costituzionale — e in particolare della limitazione dell’autonomia individuale
in cui essa si concreta — nell’inferiorità socio-economica che caratterizza la posizione del lavoratore nei confronti dell’imprenditore (1). Senonché, per un verso la disparità di mezzi economici a vantaggio dell’imprenditore non costituisce una caratteristica intrinsecamente propria del rapporto di
lavoro; e l’eventuale parità di condizione sociale tra datore e prestatore — come vedremo meglio in
seguito — non fa venir meno la ragion d’essere dell’intervento protettivo specifico a favore di
quest’ultimo. Per altro verso, la disparità di mezzi economici caratterizza anche numerosissimi altri
rapporti — tra i quali soprattutto quello per lo più intercorrente fra impresa e consumatori o utenti
dei suoi prodotti o servizi — senza che per questo la Costituzione imponga interventi protettivi specifici a favore della parte più debole, incidenti sul rapporto contrattuale: gli interventi di assistenza e
(1) Per l’individuazione delle origini giuslavoristiche e degli sviluppi della nozione del lavoratore come «contraente debole» v. L. CASTELVETRI, Il diritto del lavoro delle origini, Milano, 1994, partic. pp. 7-10 e ivi nota 6.
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sostegno del reddito in favore dei soggetti che versano in condizioni di povertà o di bisogno, disposti in attuazione del principio di solidarietà e promozione dell’uguaglianza sociale ex art. 3 Cost.,
non limitano l’autonomia individuale del consumatore nel suo rapporto con il venditore, così come
non limitano quella del prestatore nel suo rapporto con il datore di lavoro. La sussistenza di situazioni di rilevante disparità di mezzi economici e l’esigenza costituzionale di riduzione di tali disparità non spiega dunque la tutela del lavoro nella sua specificità, né spiega — in particolare — il fatto
che questa tutela si concreti in norme inderogabili concernenti il rapporto contrattuale fra lavoratore
e imprenditore.
Altra parte della dottrina ha ritenuto di individuare la ragion d’essere specifica dell’intervento protettivo nel fatto che il lavoratore subordinato sia tipicamente assoggettato dal contratto a
un penetrante e permanente potere direttivo e di controllo del creditore della prestazione (2). Ma
neppure questa spiegazione è appagante, innanzitutto perché l’intervento protettivo si esplica principalmente in una limitazione dell’autonomia privata individuale (determinazione inderogabile della
retribuzione minima, dell’orario massimo, della ripartizione fra le parti del rischio delle sopravvenienze, ecc.) nella fase della negoziazione delle condizioni contrattuali, cioè in una fase in
cui il lavoratore non è ancora assoggettato al potere direttivo e di controllo della controparte: se
quell’assoggettamento non preesiste alla stipulazione ma ne è un effetto, occorrerebbe spiegare che
cosa impedisca al lavoratore di tutelarsi per mezzo del contratto stesso, negoziandone adeguatamente il contenuto. La spiegazione proposta non è appagante, inoltre, perché — come vedremo meglio
in seguito — ciò che il contratto assoggetta al potere direttivo e di controllo del creditore è soltanto
la prestazione lavorativa, non la persona del lavoratore nelle altre sue multiformi manifestazioni e
prerogative: in particolare non è assoggettata ad alcuna forma di eterodirezione la sua attività cognitiva o volitiva; né lo è l’esercizio da parte sua dell’autonomia negoziale.
Altri autori individuano la causa dello squilibrio di potere contrattuale caratteristico del rapporto fra lavoratore e imprenditore, cui l’ordinamento dovrebbe porre rimedio con un adeguato apparato protettivo, in una sovrabbondanza cronica dell’offerta di lavoro rispetto alla domanda (3).
Questo argomento — pur dimostrando un’attenzione maggiore dei precedenti ai meccanismi eco(2) V. soprattutto R. SCOGNAMIGLIO, Diritto del lavoro, Napoli, 19974, partic. pp. 10-13; R. DE LUCA TAMAJO, La
norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, 1976, pp. 8-16 e 55; P. TOSI, F. LUNARDON, Subordinazione, voce in
Digesto IV, disc. priv., sez. comm., Torino, 1998, p. 256, dove si parla del diritto del lavoro come «diritto ‘‘correttore’’
dell’asimmetria conseguente alla introduzione dell’elemento della subordinazione nello schema formalmente paritario
del contratto».
(3) Così F. CARINCI, R. DE LUCA, P. TOSI, T. TREU, Diritto del lavoro. 2. Il rapporto di lavoro subordinato, Torino,
19984, dove la prima ragion d’essere dell’intervento protettivo viene indicata nel «tendenziale squilibrio del mercato del
lavoro, che, sia pure con andamenti fluttuanti, può considerarsi una costante delle società capitalistiche. Per una elementare legge economica, se l’offerta di un bene o di un servizio (nella specie: il lavoro) è superiore alla domanda, la forza
contrattuale di coloro che lo pongono sul mercato sarà sicuramente inferiore a quella dei potenziali acquirenti. La difficoltà di reperire una occupazione e quindi il dramma per l’eventuale perdita incidono in modo decisivo sulla dialettica
contrattuale delle parti e postulano inevitabili correttivi di tipo eteronomo» (p. 2).
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nomici che determinano il funzionamento del mercato del lavoro — è però ancora troppo impreciso:
in realtà gli scompensi fra domanda e offerta nel mercato del lavoro si verificano comunemente in
entrambi i sensi, e in modo assai vario da un settore all’altro, da un livello professionale all’altro, da
una congiuntura all’altra. La scienza economica, d’altra parte, insegna pacificamente che, in un
mercato concorrenziale, i prezzi minimi imposti per legge (nel nostro caso: i trattamenti minimi inderogabili a favore dei lavoratori) ben possono essere causa di una sovrabbondanza dell’offerta rispetto alla domanda più che rimedio contro di essa. Infine — come vedremo tra breve (§§ 4 e 5) —
la ragion d’essere dell’intervento protettivo non viene meno con il venir meno della sovrabbondanza dell’offerta di lavoro sulla domanda: non è dunque su quello squilibrio, o quanto meno non soltanto su quello squilibrio, che può fondarsi una giustificazione esauriente dell’intervento protettivo.
Per definire con precisione il campo di applicazione della tutela costituzionale e il suo contenuto precettivo occorre un’individuazione più precisa sia del disvalore socio-economico tipicamente connesso a un mercato del lavoro abbandonato a se stesso, che la Costituzione intende contrastare, sia dei meccanismi economico-sociali suscettibili di produrlo. A tal fine è necessario individuare le funzioni che il diritto del lavoro ha svolto di fatto, dalle sue origini a oggi, e confrontarle
con i principi costituzionali sopra menzionati, per discutere quali fra queste funzioni la Costituzione
abbia inteso imporre come essenzialmente proprie dell’ordinamento, quali rimangano come funzioni possibili ma non vincolate, quali infine eventualmente contrastino con i principi costituzionali.
2. - Le funzioni principali concretamente svolte dal diritto del lavoro in epoca moderna. A) La
protezione dei lavoratori in attività contro i nuovi concorrenti, mediante restrizioni di accesso,
imposizione di costi di sostituzione e clausole di associazione sindacale obbligatoria
La prima, in ordine di tempo, tra le funzioni effettivamente svolte dalla regolamentazione
eteronoma (4) dei rapporti contrattuali di lavoro in epoca moderna è consistita nella protezione di
coloro che esercitano una determinata attività contro il rischio di essere sostituiti da nuovi concorrenti. È questa la funzione svolta dai sistemi, variamente strutturati e regolati, delle corporazioni di
origine medioevale e degli ordini professionali, con i relativi meccanismi di controllo dei nuovi accessi, operanti soprattutto nel campo del lavoro artigiano e delle libere professioni. Ma può attribuirsi la stessa funzione anche ad alcuni sistemi di controllo dell’accesso a svariati mestieri nel
campo del lavoro dipendente, operanti mediante vincoli di preventivo svolgimento di periodi più o
meno lunghi di apprendistato, oppure di iscrizione ad associazioni di categoria (c.d. clausole di closed shop).
(4) Intendendosi per tale, in via di prima approssimazione, qualsiasi regolamentazione contenuta non nel contratto individuale di lavoro, ma in una fonte superindividuale, quale la legge o il contratto collettivo.
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È questa la funzione che è considerata come essenzialmente propria anche del diritto del lavoro contemporaneo dalle teorie economiche che spiegano il funzionamento del mercato del lavoro
in termini di conflitto fra insiders e outsiders (5). Alla base di queste teorie sta l’idea che gli insiders, cioè coloro che svolgono regolarmente una determinata attività lavorativa, forti della propria
capacità di costituirsi in gruppo organizzato e solidale, possano difendere la propria posizione nel
tessuto produttivo dalla concorrenza degli outsiders, ponendo sotto controllo gli accessi, imponendo
agli utilizzatori alti costi di sostituzione dei dipendenti e vietando ai nuovi concorrenti di neutralizzare quei costi con l’offerta di lavoro a prezzo inferiore a determinati standard. In questo ordine di
idee, il diritto del lavoro svolge appunto la funzione di mantenere alto il costo di sostituzione e/o lo
standard di trattamento minimo, in modo da impedire la concorrenza (così, ad esempio, in un mercato del lavoro concorrenziale l’imposizione mediante norma inderogabile di applicazione generale
di uno standard di trattamento minimo superiore al punto di equilibrio fra domanda e offerta, che
produca disoccupazione ed escluda permanentemente dal tessuto produttivo regolare una parte della
forza-lavoro, può essere considerata come un intervento rispondente esclusivamente all’interesse
degli occupati, in contrasto con quello dei disoccupati e degli irregolari).
Laddove l’effetto pratico dell’intervento protettivo consista di fatto esclusivamente nella
protezione degli insiders contro la concorrenza degli outsiders, quindi soltanto nel miglioramento
delle condizioni di lavoro e di vita dei primi al prezzo di una limitazione della possibilità di accesso
al lavoro dei secondi, l’intervento stesso si pone evidentemente, per questo secondo aspetto, in contrasto con i principi costituzionali che obbligano la Repubblica a operare per la rimozione degli ostacoli all’uguaglianza sostanziale tra i cittadini e per rendere effettivo il diritto al lavoro di tutti
(artt. 3 e 4). Un intervento di questo genere, dunque, non soltanto non può considerarsi come attuazione del dettato costituzionale, ma può persino porsi, per questo aspetto, in contrasto con esso.
3. - Segue. B) La correzione delle distorsioni monopsonistiche del mercato del lavoro mediante
l’imposizione di standard minimi di trattamento e la promozione della coalizione tra i lavoratori
Più strettamente e tipicamente legata alla vicenda socio-economica della rivoluzione industriale è un’altra possibile funzione — non necessariamente alternativa rispetto a quella testè menzionata — attribuita dalla letteratura economica alla norma che impone uno standard minimo inderogabile di trattamento del lavoratore: la funzione, cioè, di correggere una distorsione tipica del funzionamento del mercato del lavoro, derivante dalla sua struttura monopsonistica.
(5) Per una introduzione alle teorie economiche della contrapposizione tra insiders e outsiders v. soprattutto A. LINDBECK, D. SNOWER, The Insiders-Outsiders Theories, Cambridge, 1988; inoltre O. BLANCHARD, L. SUMMERS, Hysteresis and the European Unemployment Problem, in Nber Macroeconomics Annual 1986, Cambridge, 1986.
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RIQUADRO 1
Il monopsonio strutturale
Nel mercato monopsonistico, nel quale a un unico imprenditore che cerca manodopera si
contrappone l’offerta di una pluralità di aspiranti lavoratori non coordinati fra loro, questi ultimi
si trovano in una situazione analoga a quella dei consumatori nei confronti di un produttore monopolista: si trovano, cioè, in un mercato in cui i livelli di occupazione e le retribuzioni sono innaturalmente ridotti rispetto a quanto accadrebbe in situazione di concorrenza fra più imprenditori sul
lato della domanda di manodopera.
Mentre in un mercato di beni o di servizi la tutela della concorrenza giustifica l’intervento
statale volto a prevenire o sciogliere eventuali forme di monopolio per eliminare le distorsioni che
ne derivano, nel mercato del lavoro quel tipo di intervento per lo più non è possibile nel breve periodo; qui dunque lo Stato o la coalizione sindacale intervengono per imporre standard minimi inderogabili di trattamento, oppure per aumentare il potere contrattuale dei lavoratori favorendone
l’aggregazione sindacale ed eventualmente spingendosi ad assicurare l’inderogabilità dei trattamenti negoziati in sede collettiva. La teoria economica e l’osservazione empirica mostrano come
misure di questo genere possano produrre al tempo stesso l’effetto del miglioramento degli standard di trattamento e livelli occupazionali più elevati, con conseguente allargamento della base
produttiva e beneficio per l’intera collettività, oltre che riduzione dei fenomeni di povertà e disuguaglianza sociale.
Il modello del mercato monopsonistico è quello che corrisponde con maggiore precisione alla realtà del mercato del lavoro nella prima fase della rivoluzione industriale, sotto tutte le latitudini
e le longitudini. Questo spiega il carattere universale dello sviluppo, nel corso dell’ultimo secolo,
dell’intervento dello Stato volto a stabilire standard minimi inderogabili di trattamento dei lavoratori, diffusamente considerato come fattore indispensabile di progresso sociale (6); e spiega il sorgere,
addirittura, di una struttura sovranazionale, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, che da ottant’anni promuove il diffondersi e il consolidarsi delle protezioni giuslavoristiche su scala planetaria e costituisce oggi la più antica associazione esistente di Stati nazionali.
Certo è che lo sviluppo economico degli ultimi decenni, con il moltiplicarsi delle imprese, il
diversificarsi della domanda di manodopera nei settori secondario e terziario e il ridursi o annullarsi
della riserva di manodopera agricola sottooccupata, ha modificato profondamente la struttura del
mercato del lavoro, facendo sì che essa conservi una connotazione monopsonistica simile a quella
originaria soltanto in alcune limitate zone geografiche o in alcuni settori produttivi particolari. È potuto accadere, così, che sia venuta meno, in tutto o in parte, la ragion d’essere di interventi protettivi
originariamente finalizzati alla correzione di una distorsione monopsonistica del mercato; è potuto
accadere, ad esempio, che una legislazione di sostegno alla coalizione sindacale, originariamente
emanata per contrastare il potere monopsonistico imprenditoriale, si sia di fatto trasformata strada
(6) Al modello del monopsonio fa sostanzialmente riferimento, pur senza nominarlo, G. PERA (Diritto del lavoro, Padova, 19965, pp. 7-11) descrivendo incisivamente il contesto economico da cui il diritto del lavoro trae origine.
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facendo in sostegno a forme di mera autodifesa dei lavoratori occupati contro la concorrenza esterna.
Sarebbe, tuttavia, un errore pensare che la grande proliferazione delle imprese portata in
quasi tutti i settori dallo sviluppo economico abbia eliminato ogni distorsione monopsonistica nel
mercato del lavoro: essa ben può riprodursi anche in questo nuovo contesto, a causa di meccanismi
che sono oggetto di studio da parte degli economisti e che danno luogo a un fenomeno da questi indicato con il termine monopsonio dinamico.
RIQUADRO 2
Il monopsonio dinamico
Anche dove il mercato ora si caratterizza per la presenza di una pluralità di imprenditori in
concorrenza fra loro, quella distorsione nel rapporto contrattuale fra datore e prestatore di lavoro
può continuare a manifestarsi — e di fatto si manifesta diffusamente — innanzitutto a causa di una
marcata asimmetria informativa tra le parti: mentre l’imprenditore opera quotidianamente nel
mercato del lavoro, disponendo in esso di reti e canali di informazione relativamente efficienti, il
lavoratore, invece, dispone solitamente di reti e canali di informazione assai meno efficienti; e, affacciandosi al mercato soltanto a tratti nel corso della sua vita, ne ha scarsa esperienza. Una tipica
riduzione della possibilità effettiva di scelta del lavoratore deriva anche dalla sua ridotta mobilità
geografica, sovente accentuata dai suoi legami familiari. Accade inoltre che il fatto di lavorare per
un periodo considerevole di tempo in una sola azienda lo induca a conformare le proprie capacità
alle esigenze specifiche di quell’azienda, trovandosi poi nell’impossibilità di valorizzare allo stesso
modo la propria professionalità in aziende diverse: donde la riduzione o l’annullamento delle sue
possibilità effettive di scelta e il determinarsi di una situazione di sua «dipendenza economica»
dall’impresa a cui appartiene. Queste circostanze trasformano il mercato del lavoro (anche là dove
esso potrebbe assumere il carattere di un mercato concorrenziale dal lato della domanda, con i
conseguenti vantaggi per i lavoratori in termini di maggior potere contrattuale collettivo e individuale) in un mercato monopsonistico: un mercato, cioè, nel quale l’imprenditore, sottraendosi di
fatto alla competizione con i propri potenziali concorrenti, trae vantaggio dalla propria possibilità
di scelta e dall’impossibilità di scelta in cui si trova invece il lavoratore — soprattutto il più sprovveduto, per difetto di cultura o di esperienza —, sia in fase di negoziazione iniziale delle condizioni
di lavoro, sia in fase di svolgimento del rapporto. A questo fenomeno, indicato col termine monopsonio dinamico, fanno riferimento gli economisti per spiegare gli effetti non depressivi sui livelli
occupazionali degli interventi legislativi volti a imporre inderogabilmente livelli minimi di trattamento, anche in situazioni nelle quali non si manifesti un rilevante squilibrio quantitativo fra domanda e offerta.
Monopsonio strutturale e monopsonio dinamico costituiscono due connotazioni tipiche, e
per certi aspetti peculiari, del mercato del lavoro, in relazione alle quali si pone l’esigenza di una
protezione generale dei lavoratori, volta a evitare che il mercato, lasciato a se stesso, generi situazioni di rendita e di inefficienza, eccessi di disuguaglianza sociale, pericoli per la sicurezza e
l’integrità della persona, o addirittura fenomeni di asservimento personale. Tutto induce a pensare
che proprio a questa esigenza si sia principalmente riferito il nostro legislatore costituente, quando
ha posto tra i compiti essenziali della Repubblica quello della tutela del lavoro.
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Dovunque questa situazione tipica si manifesti, deve dunque ritenersi che operi l’obbligo
generale di intervento pubblico posto dall’art. 35 Cost.; intervento che dovrà logicamente privilegiare l’obbiettivo strategico dell’eliminazione delle cause del monopsonio: sviluppo pluralistico del
tessuto produttivo per uscire dalla situazione di monopsonio strutturale, sviluppo dei servizi di informazione, formazione e assistenza alla mobilità dei lavoratori per uscire dalla situazione di monopsonio dinamico. Ma finché tale obbiettivo non sia raggiunto, l’intervento pubblico dovrà tendere a
correggere le distorsioni che dal monopsonio derivano, promuovendo l’applicazione di standard
minimi di trattamento (art. 36) direttamente attraverso la legge, oppure mediante un efficace sostegno alla coalizione sindacale tra i lavoratori e alla negoziazione collettiva (art. 39), oppure ancora
con la coniugazione di misure dei due tipi.
La distorsione monopsonistica non colpisce il libero professionista, l’artigiano, né ovviamente il lavoratore che operi nello stesso tempo per una pluralità di clienti: essa colpisce invece tipicamente il lavoratore che, prestando la propria attività in modo continuativo e prevalente o esclusivo per un unico committente e non frequentando abitualmente il mercato del lavoro, è esposto al
rischio dell’impossibilità di scelta, per difetto di alternativa o per l’asimmetria informativa di cui si
è detto. Fattore rilevante del bisogno di protezione è dunque il carattere continuativo e prevalente o
esclusivo della prestazione svolta in favore di un unico utilizzatore; non sembra invece assumere alcuna rilevanza, su questo piano, l’assoggettamento o no della prestazione al potere direttivo del creditore, cioè il suo carattere subordinato o autonomo (a meno che non si voglia intendere come «subordinato» qualsiasi lavoratore che operi continuativamente ed esclusivamente per un unico committente: ciò che non pare correttamente sostenibile). Se dunque il principio di parità può essere assunto come canone ermeneutico per la determinazione del campo di applicazione delle tutele costituzionali, deve concludersi nel senso che l’intervento pubblico volto alla correzione delle distorsioni
monopsonistiche nel funzionamento del mercato del lavoro debba applicarsi a tutti i rapporti di collaborazione continuativa svolta in via prevalente o esclusiva per un solo committente, sia essa svolta in regime di subordinazione o di autonomia.
Viceversa, può ragionevolmente presumersi che la distorsione monopsonistica colpisca il lavoratore tanto meno gravemente quanto più elevato è il suo grado di professionalità e cultura o il
suo livello di retribuzione: chi dispone di maggiore professionalità, cultura o reddito ha anche maggiori capacità e mezzi per conoscere il mercato, quindi più ampia varietà di alternative effettive, con
il conseguente maggior potere contrattuale nei confronti della controparte, sia in fase di negoziazione iniziale, sia in costanza di rapporto. Donde — ancora per il principio fondamentale di parità —
una attenuazione del vincolo costituzionale dell’intervento protettivo per i lavoratori che versino
nella condizione ora indicata.
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4 - Segue. C) La correzione degli effetti dell’asimmetria informativa sulla congiuntura e
sull’andamento dell’azienda
L’asimmetria informativa sulla domanda e l’offerta esistenti nel mercato, di cui si è detto a
proposito del monopsonio dinamico, non è la sola che possa causare una distorsione rilevante nel
funzionamento del mercato del lavoro; tipica di questo mercato è anche l’asimmetria dell’informazione delle parti sulla congiuntura, sull’andamento effettivo dell’azienda, sulla sua posizione nel
mercato rispetto alle concorrenti e sulle prospettive a breve e medio termine: l’imprenditore, avendo
in mano la gestione dell’azienda, è informato in proposito assai meglio del lavoratore ed è quindi in
grado di spuntare, in sede di negoziazione individuale, livelli di trattamento commisurati alle ipotesi
più riduttive, che gli consentono di appropriarsi per intero o per la maggior parte del sovrappiù prodotto nella congiuntura favorevole (7).
Anche in riferimento a questo dato caratteristico del mercato del lavoro si pone l’esigenza di
un intervento riequilibratore dell’ordinamento, cui sembrano corrispondere puntualmente i principi
costituzionali tendenti a promuovere il potere di controllo dei lavoratori nell’impresa (artt. 3 e 46),
la coalizione sindacale e l’autonomia collettiva (art. 39). Le misure con le quali detti principi possono essere concretamente attuati sono quelle tendenti a favorire e sostenere la coalizione sindacale
dei lavoratori, particolarmente all’interno dei luoghi di lavoro, in alternativa o in coniugazione con
l’istituzione di diritti di informazione e controllo o addirittura di partecipazione diretta dei lavoratori
nell’impresa.
Anche per questo aspetto la posizione del lavoratore subordinato e la sua esigenza di protezione non sembrano distinguersi apprezzabilmente da quelle del collaboratore continuativo operante
in regime di autonomia.
5. - Segue. D) La distribuzione migliore del rischio delle sopravvenienze fra imprenditore e lavoratore mediante la limitazione autoritativa della facoltà di recesso del datore di lavoro
Il funzionamento efficiente del mercato del lavoro non è impedito soltanto dalle asimmetrie
informative di cui si è detto nei paragrafi precedenti, ma anche da un’altra asimmetria di segno opposto, che impedisce la distribuzione ottimale fra le parti del rischio circa gran parte delle sopravvenienze negative del rapporto. Su questa asimmetria si fonda un modello (proposto da P. AGHION,
B. HERMALIN, 1990) dal quale la scienza economica contemporeanea ha tratto un altro motivo razionale di intervento autoritativo per la regolamentazione dei rapporti di lavoro e in particolare per
(7) V. in proposito più ampiamente A. e P. ICHINO, A chi serve il diritto del lavoro, in RIDL, 1994, I, particolarmente
pp. 477-485.
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la limitazione della facoltà di recesso dell’imprenditore (v. in proposito il riquadro 3 che segue; torneremo su questo punto nella parte del corso dedicata alla materia dei licenziamenti: capitolo XI).
RIQUADRO 3
Una giustificazione economica della disciplina inderogabile limitativa dei licenziamenti:
il modello di AGHION e HERMALIN
L’imprenditore conosce molto imperfettamente le qualità personali del lavoratore che gli si
presenta per l’assunzione, nonché i corrispondenti rischi di impedimenti futuri (malattia, maternità,
incapacità di adattarsi alle nuove esigenze tecniche del lavoro, disimpegno personale (8), ecc.);
qualità e rischi che invece quest’ultimo conosce assai meglio.
In un mercato in cui le parti siano lasciate completamente libere nella negoziazione della
ripartizione tra loro del rischio delle sopravvenienze, il soggetto che conosce meglio il proprio rischio sarà sempre indotto a tacere sulla propria aspirazione alla sicurezza, per segnalarsi come
soggetto meno “rischioso” e rendersi così più appetibile per la controparte, anche a costo di rinunciare a qualsiasi forma di assicurazione contro le sopravvenienze negative (ovvero a qualsiasi
limitazione della facoltà di recesso del datore). In assenza di una tutela generale precostituita, il
lavoratore o la lavoratrice che chiedessero una garanzia per il caso di malattia, di gravidanza, di
incapacità di adattarsi alle sopravvenienze tecnologiche o di mercato, si segnalerebbero come più
esposti degli altri a questi rischi.
In un mercato lasciato a se stesso, pertanto, la domanda di sicurezza dei lavoratori resterebbe tendenzialmente inespressa; col risultato che tutto il rischio finirebbe coll’essere collocato
sulla parte che, in generale, è meno capace di sopportarlo, e l’impresa trarrebbe minor profitto
dalla propria capacità di produrre e offrire sicurezza (9). In altre parole, quell’“acquisto di sicurezza” da parte del lavoratore in cambio di un “premio assicurativo” pagato in termini di minor
retribuzione, che conviene a entrambe le parti, non può avvenire spontaneamente. Questo spiega
perché tutti gli ordinamenti statali intervengano in qualche misura – sia pure in forme e misure
molto diverse – a imporre inderogabilmente un contenuto assicurativo del rapporto di lavoro, attraverso la limitazione della facoltà di recesso unilaterale dei datori di lavoro. E dove, come negli
U.S.A., non vi provvede la legge, sono i giudici a “costruire” quella limitazione sulla base delle
“clausole generali” di correttezza e buona fede (v. in proposito A.B. KRÜGER, 1991, J.H. VERKERKE, 1998, e più recentemente D. AUTOR, 2003).
Quando la nostra Costituzione è stata elaborata, la sofisticata spiegazione testè proposta della ragion d’essere di una disciplina limitativa della facoltà di recesso del datore di lavoro era ancora
ben lontana dall’essere elaborata dalla scienza economica; e nel panorama internazionale le tecniche
di protezione dei lavoratori contro il licenziamento erano ancora assai poco sviluppate, limitandosi
per lo più gli ordinamenti nazionali all’istituzione di obblighi di preavviso (più raramente di indennizzo) a favore del lavoratore licenziato senza sua colpa, nonché al divieto di licenziamento del la-
(8) Gli economisti parlano, a quest’ultimo proposito, di moral hazard del creditore di lavoro.
(9) La prima formalizzazione di questa spiegazione della ragion d’essere dell’intervento autoritativo in materia di ripartizione del rischio contrattuale fra soggetti asimmetricamente informati sul rischio stesso è stata proposta da P. AGHION,
B. HERMALIN, 1990. Per una discussione in proposito in chiave di Law and Economics v. J.H. VERKERKE, 1998, (qui
riprodotto in appendice al capitolo XI).
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voratore malato (10). Questo spiega il silenzio totale della Carta in materia di protezione dei lavoratori contro il licenziamento.
Così stando le cose, la limitazione autoritativa della facoltà di recesso del datore di lavoro, di
per sé legittima sul piano costituzionale in quanto razionalmente riconducibile al principio generale
di tutela (art. 35) come una delle sue forme possibili di attuazione, non appare però univocamente
deducibile da quel principio. Ancor meno una sua necessità costituzionale sembra potersi dedurre
dal principio del «diritto al lavoro» di cui all’art. 4: questo infatti, secondo l’interpretazione più rigorosa e fedele all’intendimento del legislatore costituente, ha essenzialmente per oggetto l’accesso
al lavoro, non il mantenimento di un determinato posto di lavoro (11); e la letteratura economica insegna pacificamente che la stabilizzazione del posto di lavoro degli occupati, mentre per un verso
non produce di per sé aumento dei livelli occupazionali (essendo semmai più probabile che una misura siffatta produca su di essi, a parità di livelli retributivi, un effetto depressivo), ha sempre un effetto di allungamento dei periodi di attesa per i disoccupati, riducendosi la frequenza del loro interscambio con gli occupati.
La limitazione della facoltà di recesso del datore di lavoro non costituisce dunque una scelta
costituzionalmente obbligata per il legislatore ordinario, bensì soltanto una scelta legittima e opportuna, in quanto rispondente all’interesse generale alla migliore ripartizione fra datori e prestatori del
rischio delle sopravvenienze, nonché al principio di tutela della libertà e sicurezza del lavoratore
nell’impresa (artt. 35 e 41 Cost.) (12). Nel compiere questa scelta, tuttavia, il legislatore ordinario
non può esimersi dal tener conto anche dei suoi possibili effetti negativi sul piano della facilità di
accesso al lavoro da parte di chi ne è escluso: una protezione autoritativa contro il licenziamento
che rispondesse principalmente all’interesse degli occupati a difendersi dalla concorrenza dei disoc-
(10) Sono queste le uniche forme di limitazione della facoltà di recesso del datore di lavoro originariamente previste dal
nostro codice civile, in vigore quando la Costituzione è stata emanata: rispettivamente artt. 2110, 2118 e 2120.
(11) V. sul punto Corte cost. 9 giugno 1965 n. 45, RGL, 1965, II, p. 155 (con nota critica di U. NATOLI): «il diritto al
lavoro, riconosciuto a ogni cittadino, è da considerare quale fondamentale diritto di libertà della persona umana, che si
estrinseca nella scelta e nel modo di esercizio dell’attività lavorativa. A questa situazione giuridica del cittadino —
l’unica che trovi nella norma costituzionale in esame il suo inderogabile fondamento — fa riscontro, per quanto riguarda lo Stato, da una parte il divieto di creare o di lasciar sussistere nell’ordinamento norme che pongano o consentano di
porre limiti discriminatori a tale libertà ovvero che direttamente o indirettamente la rinneghino, dall’altra l’obbligo ... di
indirizzare l’attività di tutti i pubblici poteri, e dello stesso legislatore, alla creazione di condizioni economiche, sociali e
giuridiche che consentano l’impiego di tutti i cittadini idonei al lavoro. Da siffatta interpretazione deriva che l’art. 4 ...
non garantisce il diritto alla conservazione del lavoro». Nello stesso senso C. cost. 14 aprile 1969 n. 81, ivi, 1969, II,
p. 3 (cfr. anche, in precedenza, le sentenze della stessa Corte n. 3/1957, n. 30/1958, n. 2/1960, n. 3/1961, n. 105/1963).
In dottrina, in questo senso, v. soprattutto R. SCOGNAMIGLIO, Il lavoro nella Costituzione italiana, cit., pp. 45-50.
(12) Cfr. ancora C. cost. 9 giugno 1965 n. 45, citata nella nota precedente, dove si rileva come il principio generale della libera recedibilità dal rapporto a tempo indeterminato mal si concilii con la «peculiare natura del rapporto di lavoro»
e la particolare «posizione del lavoratore nell’impresa»: donde l’opportunità — ma non la necessità costituzionale — di
«una nuova disciplina verso la quale l’evoluzione legislativa viene sollecitata».
11
cupati e degli irregolari, invece, presterebbe il fianco a una censura di illegittimità per contrasto con
l’art. 4 Cost. (13).
Come ogni intervento legislativo istitutivo di una tutela per i lavoratori, peraltro, anche la
protezione contro il licenziamento soggiace al principio generale di parità, che vieta di trattare in
modo diverso situazioni strutturalmente identiche dal punto di vista dell’esigenza specifica di tutela
(14). Ogni limitazione del campo di applicazione della disciplina protettiva deve essere ragionevolmente giustificato. Anche a questo proposito assume rilievo, pertanto, il fatto che la minore capacità del lavoratore di sopportare il rischio delle sopravvenienze negative non sia affatto legata alla
circostanza dell’assoggettamento della prestazione a un potere direttivo e di controllo del creditore,
bensì alla circostanza per cui il reddito del lavoratore stesso dipenda per intero o per gran parte da
un unico rapporto. Se questo è vero, e se è vero che l’asimmetria informativa di cui si è detto sopra
si manifesta nel settore delle collaborazioni autonome continuative esattamente come in quello del
lavoro subordinato, se ne deve dedurre che l’interesse generale a una ripartizione inderogabile del
rischio circa le sopravvenienze del rapporto sussiste non soltanto in quest’ultimo settore, ma anche
in quello delle collaborazioni autonome continuative, in tutti i casi in cui il lavoratore svolga la propria attività prevalentemente per un unico committente.
Anche per questo aspetto, dunque, l’identità di struttura delle situazioni socio-economiche
generatrici dell’esigenza di tutela induce quanto meno a dubitare della legittimità costituzionale di
un ordinamento che escluda del tutto dalla protezione contro il licenziamento, prevista per i rapporti
di lavoro subordinato, i rapporti di collaborazione continuativa svolta in via prevalente o esclusiva
per un unico committente senza vincolo di subordinazione (come ha fatto l’ordinamento italiano fino all’entrata in vigore del decreto legislativo 10 settembre 2003 n. 276 e come questo stesso ordinamento fa tuttora in riferimento ai rapporti di collaborazione continuativa di cui siano titolari enti
pubblici).
6. - Segue. E) L’interesse degli imprenditori «regolari» a limitare la concorrenza
Un interesse di parte imprenditoriale a una regolamentazione eteronoma autoritativa dei rapporti di lavoro può configurarsi in funzione di limitazione della concorrenza fra imprese.
Vi sono alcune imprese che essendo, a differenza di altre, sottoposte a controllo pubblico o
sindacale più stringente, sono costrette all’applicazione di determinati standard di trattamento indipendentemente dal fatto che questi siano imposti da una fonte eteronoma come inderogabili erga
omnes: si pensi, ad esempio, alle imprese caratterizzate da un tasso più elevato di sindacalizzazione
(13) V. ancora il brano della sentenza della Corte costituzionale citato nella nota 10; inoltre sopra nel testo, § 2.
(14) Per una applicazione di tale principio in materia di disciplina dei licenziamenti, volta però a giustificare il trattamento legislativo diverso di situazioni strutturalmente diverse, v. C. cost. 14 aprile 1969 n. 81, cit. nella nota 10.
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dei dipendenti, o a quelle cui il rispetto di determinati standard di trattamento sia imposto da clausole di contratti di appalto stipulati con enti pubblici. Tutte queste imprese hanno interesse a impedire
che imprese concorrenti possano incrementare la propria competitività praticando ai propri dipendenti trattamenti deteriori. Si ripropone qui, in riferimento al lato della domanda di lavoro, un conflitto analogo a quello tra lavoratori insiders e outsiders di cui si è parlato sopra (§ 2): una parte degli imprenditori ha interesse a impedire il vantaggio concorrenziale di cui potrebbe godere un’altra
parte di essi praticando trattamenti inferiori rispetto a un determinato standard; e tale interesse può
essere soddisfatto mediante l’imposizione inderogabile erga omnes del rispetto di quello standard.
Viene qui direttamente in gioco un interesse — di cui sono portatori gli imprenditori costretti di fatto a praticare standard di trattamento più elevati — alla limitazione della concorrenza fra imprese,
interesse non protetto dal principio costituzionale di tutela della libertà di iniziativa economica, ma
al contrario potenzialmente con esso confliggente. L’esistenza di questo interesse può assumere rilievo per la spiegazione sul piano economico e sociologico del fenomeno dell’affermarsi di standard
minimi inderogabili di trattamento con efficacia erga omnes, ma non per la giustificazione sul piano
costituzionale di un intervento autoritativo in tal senso.
L’interesse in questione può evidentemente trovare tutela indiretta attraverso l’intervento autoritativo volto a generalizzare l’applicazione di un determinato standard minimo di trattamento dei
lavoratori; ma tale intervento — come si vedrà meglio tra breve (§ 9) — è costituzionalmente giustificato soltanto in quanto possa ragionevolmente considerarsi rispondente a un interesse oggettivo
comune ai lavoratori occupati regolari e a tutti gli altri (irregolari e disoccupati).
7. – Segue. F) La preferenza a priori per l’eguaglianza: una possibile lettura rawlsiana del diritto del lavoro
Alcuni istituti tradizionalmente propri del diritto del lavoro – e di quello italiano in particolare – sembrano creati al fine precipuo di produrre un effetto di eguaglianza fra i lavoratori, facendo
sì che la determinazione iniziale del trattamento in sede di negoziazione individuale prescinda il più
possibile dalla produttività effettiva del singolo e proteggendo, nei limiti del possibile, i più deboli
contro successive riduzioni, motivate dal manifestarsi di difetti di produttività, anche mediante la
limitazione della facoltà di recesso dell’imprenditore. In particolare, questi istituti fanno leva
sull’asimmetria informativa per cui il datore di lavoro al momento dell’assunzione conosce male le
capacità del lavoratore (cfr. § 5): essi tendono, per così dire, a coltivare quella asimmetria informativa, ostacolando tutto quanto può ridurla, nella fase della costituzione e stabilizzazione del rapporto
(con l’effetto che il trattamento contrattuale deve essere fissato ex ante, sulla base della produttività
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media attesa “di categoria”) e a impedire l’aggiustamento successivo. Svolgono di fatto, in maggiore o minore misura, questa funzione:
- la regola del collocamento al lavoro sulla base di “richiesta numerica” per categoria e qualifica, richiesta presentata dal datore di lavoro all’organizzazione sindacale (clausola di closed shop
nelle sue versioni più severe pre-entry e labour pool c. s.) oppure all’ufficio di collocamento pubblico, il quale procede all’avviamento sulla base di graduatorie basate soltanto sull’anzianità di iscrizione alla lista e dei carichi di famiglia: regola che in questa seconda versione è rimasta in vigore nel nostro Paese come norma generale (ancorché limitata da numerose eccezioni e di fatto larghissimamente disapplicata) (15) fino al 1991, ma tuttora si applica per il collocamento obbligatorio
dei disabili;
- la disciplina limitativa del patto di prova e in particolare la relativa limitazione temporale inderogabile;
- la disciplina limitativa del contratto a tempo determinato e del lavoro temporaneo tramite agenzia, che impedisce l’uso del rapporto a termine come un lungo periodo di prova;
- la disciplina limitativa dei licenziamenti, nella misura in cui impedisce al datore di lavoro di sostituire il lavoratore che si rivela in concreto meno produttivo o meno capace di adattarsi agli shock
tecnologici (v. § 5);
- i divieti di indagini del datore di lavoro sulle opinioni e la vita privata del lavoratore, sui suoi
precedenti penali, sulle sue malattie e il suo stato di salute (divieti oggi posti esplicitamente da numerosi ordinamenti nazionali e comunque desumibili indirettamente dalle norme antidiscriminatorie
poste da tutti gli ordinamenti, nazionali e internazionali: v. cap. VII);
- i meccanismi di progressione di carriera riferiti alla sola anzianità di servizio (promozione automatica), diffusamente previsti dalla contrattazione collettiva;
- i meccanismi di progressione retributiva automatica riferiti all’anzianità di servizio (scatti di
anzianità), questi pure diffusamente previsti dalla contrattazione collettiva;
- in generale, tutte le regole che privilegiano la seniority nella scelta dei lavoratori da sospendere
dal lavoro, collocare in mobilità o comunque licenziare (last in first out): sono le regole che hanno
la massima diffusione su scala mondiale;
- in qualche misura anche i divieti di discriminazione diretta e indiretta, soprattutto quando hanno
l’effetto di inibire la differenziazione dei trattamenti in riferimento a differenze di produttività (criteri di differenziazione di prima classe: v. in proposito capp. VI e VII).
L’opzione egualitaristica fondamentale che l’ordinamento garantisce con questo insieme di
norme inderogabili è la stessa che, nel linguaggio corrente, si esprime comunemente nella massima
(15) Rinvio in proposito al mio Il collocamento impossibile, Bari, 1982.
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secondo cui “il datore di lavoro non può scegliersi il lavoratore più forte, più intelligente, più bello e
più simpatico”, oppure in quella più colorita secondo cui “il padrone non può tastare i muscoli al lavoratore, non può guardargli in bocca per controllarne la dentatura, come si fa con un cavallo”. Il
disegno, ridotto all’essenziale ed estremizzato nella sua formulazione, è sostanzialmente quello tendente ad assicurare la massima possibile casualità della scelta del lavoratore, nell’ambito della “categoria professionale”, senza possibilità di successiva sua sostituzione con un lavoratore più produttivo.
Questa chiave di lettura del diritto del lavoro presenta alcune notevoli assonanze con la teoria della “preferenza a priori per l’eguaglianza” proposta da John RAWLS all’inizio degli anni ’70
(16). L’idea del filosofo statunitense (17) è che, in una situazione originaria nella quale gli individui, liberi e razionali, ignorino la propria posizione concreta (il “velo dell’ignoranza”), cioè non conoscano le dotazioni e posizioni sociali riservate a ciascuno di loro in un futuro incerto (la “lotteria
naturale”), ma ben conoscano la propria avversione al rischio di trovarsi tra i diseredati e gli esclusi
dal benessere, essi siano indotti - dal proprio interesse egoisticamente inteso, prima ancora che da
eventuali motivi etici - a scegliere di darsi contrattualmente un assetto sociale ispirato a un principio
di uguaglianza, che si concreta in regole di massima uniformità nella distribuzione dei diritti fondamentali e che consente eventuali disuguaglianze nella distribuzione di diritti e risorse soltanto
quando queste operino in favore di chi risulti in concreto svantaggiato, al fine di ridurne lo svantaggio. L’ordinamento fondato su tale principio si propone dunque di perseguire l’uguaglianza nonostante le diversità di dotazioni e di posizioni sociali destinate a determinarsi via via in concreto, anzi
contrastando tale diversità sul nascere oppure contrastandone gli effetti differenziatori sul piano della ricchezza e del benessere.
Il diritto del lavoro - attraverso gli istituti e le norme che abbiamo sopra considerato - tende
a far sì che le condizioni contrattuali siano negoziate, con effetti tendenzialmente stabili, in una situazione di ignoranza o forzata indifferenza circa le dotazioni e qualità dei singoli lavoratori, assai
simile a quella che RAWLS nel suo paradigma assume come “situazione originaria” caratterizzata
dal “velo dell’ignoranza”. L’assimilazione, per questo aspetto, del meccanismo fondato sull’insieme
di quegli istituti al paradigma rawlsiano consente di individuare una giustificazione razionale di
questa parte del diritto del lavoro, a sé stante e autonoma rispetto alle altre individuate nei paragrafi
precedenti: di considerare cioè come ragion d’essere del diritto del lavoro, almeno nella sua parte
(16) J. RAWLS, A Theory of Justice, 1971. Tr. it. a cura di S. Maffettone, Milano, Feltrinelli, 1982.
(17) “... noi non facciamo altro che riunire in una sola concezione un insieme di condizioni ... che, dopo opportuna riflessione, siamo pronti a riconoscere come ragionevoli. ... Un modo di guardare all’idea della posizione originaria è ...
quello di vederla come un artificio espositivo che riassume il significato di queste condizioni e ci aiuta a trarne le conseguenze” (op. cit. nella nota prec., p. 35 dell’edizione italiana).
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qui considerata, una preferenza a priori per l’uguaglianza, derivante a sua volta dall’avversione al
rischio che connota la generalità degli esseri umani quando si trovano sotto il “velo dell’ignoranza”
riguardo alla loro posizione sociale futura e alle dotazioni di cui disporranno.
È però necessario osservare, in proposito, come l’assimilazione del dispositivo giuslavoristico sopra evidenziato al paradigma rawlsiano sia possibile solo al prezzo di una estremizzazione di
questo paradigma, nonché della obliterazione di una parte assai rilevante della teoria della giustizia
proposta dal filosofo statunitense: è infatti parte integrante di quella teoria anche un “principio di
differenza” col quale egli giustifica una differenziazione dei trattamenti volta a consentire la valorizzazione della maggiore produttività dei più dotati, quando questa valorizzazione ridondi congruamente anche a vantaggio dei meno dotati (18).
Per altro verso, il principio di uguaglianza radicale che può vedersi sotteso al dispositivo
giuslavoristico qui in esame si pone in netto contrasto con il principio di parità di trattamento, questo pure fatto proprio dagli ordinamenti internazionali, dall’ordinamento comunitario e da tutti gli
ordinamenti nazionali moderni, principio che si compendia nell’espressione equal treatment for
work of comparable worth (torneremo ampiamente su questo principio nella seconda sezione del
cap. VI): mentre con il primo si persegue una uguaglianza tra le persone in quanto tali, indipendentemente dalla loro produttività, con il secondo si persegue – proprio al contrario - la precisa commisurazione del trattamento alla qualità e quantità della prestazione lavorativa. Il principio del pari
trattamento per prestazione di pari valore genera dunque disuguaglianza, ovvero un effetto opposto
a quello cui tende il dispositivo giuslavoristico esaminato all’inizio del paragrafo. E questa disuguaglianza – come consentita e anzi in certa misura perseguita nella generalità ordinamenti giuridici non è riconducibile al “principio di differenza” rawlsiano (v. nota 18), perché essa è consentita o
addirittura perseguita come valore in sé, indipendentemente dalla sua idoneità a produrre indirettamente effetti benefici per i soggetti più svantaggiati.
La realtà è che tutti gli ordinamenti giuslavoristici nazionali, a ben vedere, fanno propri entrambi i principi, pur tra loro contrastanti, postulando un contemperamento tra di essi. Ciascun ordinamento li coniuga in modo diverso, privilegiando in varia misura l’uno o l’altro, secondo scelte
(18) Il “principio di differenza”, è inteso da RAWLS come “un accordo per considerare la distribuzione delle doti naturali come un patrimonio comune e per suddividere i benefici di questa distribuzione, qualunque essa sia”. Egli precisa in
proposito che “Coloro che sono stati favoriti dalla natura, chiunque essi siano, possono trarre vantaggio dalla loro buona
sorte solo a patto che migliorino la situazione di coloro che ne sono rimasti esclusi. Coloro che sono naturalmente avvantaggiati non devono ottenere dei benefici solo perché sono più dotati, ma soltanto allo scopo di coprire i costi della
loro educazione e della loro formazione professionale e di usare il loro talento per favorire anche i meno fortunati. Nessuno merita né le sue maggiori capacità naturali né una migliore posizione di partenza nella società. Ma ciò non implica
che si devono eliminare queste distinzioni. Esiste un modo di considerarle. La struttura fondamentale può essere modificata in modo che questi fatti contingenti operino per il bene dei meno fortunati” (op. cit., pag. 98 dell’ed. italiana). Per
una ampia discussione in proposito v. C. ARNSPERGER, P. VAN PARIJS, Quanta diseguaglianza possiamo accettare?,
Bologna, il Mulino, 2003, e ivi particolarmente il cap. V, “variazioni sul tema di Rawls”, pp. 67-81.
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che hanno sovente nel tempo un andamento pendolare; ma la dialettica tra i due principi è sempre
presente e facilmente osservabile. Ed è facilmente riconducibile a quella dialettica il dibattito tra
“sinistra” e “destra” giuslavoristiche: la prima – sia essa ispirata a ideali di matrice marxista, cattolica, o di altro genere - schierata tradizionalmente in difesa dei meccanismi produttivi di una uguaglianza a priori e pertanto limitativi della concorrenza tra i lavoratori sul piano della maggiore produttività, la seconda schierata tradizionalmente in difesa della commisurazione del trattamento alla
quantità e qualità della prestazione, nonché delle prerogative del management in questo campo.
Gli argomenti a sostegno dell’applicazione più estesa dell’uno o dell’altro principio – quando il dibattito non si configura come confronto tra posizioni ideologiche preconcette, riducendosi a
un dialogo fra sordi - sono costituiti essenzialmente dalla valutazione dei costi e dei benefici che
ciascuna delle due opzioni comporta.
Tra i costi dell’uguaglianza radicale, perseguita attraverso il dispositivo giuslavoristico di
cui si è detto sopra, possono annoverarsi essenzialmente:
- una peggiore allocazione delle risorse umane, con la conseguente perdita di reddito non soltanto
per le imprese ma anche per la parte più produttiva dei lavoratori;
- inoltre l’assenza di incentivo al maggiore sforzo individuale nel lavoro, con i rischi che ne conseguono non soltanto sul piano dell’efficienza ma anche sul piano dell’equità (creazione di posizioni di rendita parassitaria).
Tra i costi della commisurazione del trattamento al valore della prestazione possono annoverarsi essenzialmente:
- innanzitutto le disuguaglianze che ne derivano, anche soltanto in conseguenza della diversità di
dotazione delle persone;
- inoltre la perdita di sicurezza per la parte sociale che – come si è visto (§ 5) – è più avversa al
rischio: il valore della prestazione individuale, infatti, non è costante nel tempo e non dipende soltanto dall’impegno personale, ma anche da circostanze che sfuggono al controllo del singolo lavoratore;
- infine, non ultimo per importanza, lo stress da esame a cui il lavoratore viene sottoposto tanto
più intensamente quanto più precisa e penetrante è la valutazione della sua prestazione; stress che
può, per altro verso, essere reso ancora più penoso dal carattere arbitrario, capriccioso o comunque
incontrollabile dei criteri ai quali la valutazione si ispira (vedremo a suo luogo – nella seconda sezione del cap. VI – perché nella maggior parte dei casi non sia possibile, o quanto meno non produca risultati soddisfacenti, la sostituzione di un giudice all’imprenditore nella veste di esaminatore).
Occorre peraltro osservare che le istituzioni giuslavoristiche sopra individuate come tipicamente volte a soddisfare la preferenza a priori per l’uguaglianza possono talvolta attivare meccani-
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smi di “vendetta del mercato”, con conseguenze paradossalmente opposte rispetto alla ratio fondamentale delle istituzioni stesse. Così, ad esempio, la disciplina limitativa dei licenziamenti genera,
insieme alla maggiore stabilità dei posti di lavoro che ricadono nel suo campo di applicazione, anche una maggiore difficoltà di accesso ai posti stessi da parte di precari, irregolari e disoccupati:
donde un effetto di compartimentazione del mercato del lavoro e di consolidamento di una disuguaglianza tra lavoratori che contrasta vistosamente con il valore egualitario perseguito
dall’ordinamento (v. in proposito cap. X). Si è inoltre accennato (cap. I, riquadri 2 e 3) e vedremo
più approfonditamente a suo luogo (cap. VII) come l’osservazione empirica mostri alcuni possibili
effetti paradossali della legislazione antidiscriminatoria: il divieto di differenziazione del trattamento in relazione a differenze di produttività della prestazione di determinati gruppi svantaggiati può
talora di fatto ritorcersi contro i gruppi stessi rendendo loro la vita più difficile nel mercato del lavoro. Anche la predeterminazione di standard di trattamento minimi riferiti alla produttività media attesa da una categoria di lavoratori può - laddove per qualche motivo venga meno o si riduca
l’asimmetria informativa circa la capacità produttiva attuale e potenziale di un singolo lavoratore
particolarmente inefficiente – costituire ostacolo grave all’inserimento di questo lavoratore, esponendolo al rischio dell’esclusione permanente dal tessuto produttivo.
Quello che è certo è che nei Paesi più sviluppati si assiste, nell’ultimo quindicennio, a una
tendenza generale al depotenziamento, più o meno marcato, delle istituzioni giuslavoristiche egualitaristiche, allargandosi in tal modo gli spazi per l’applicazione del principio della parità di trattamento a parità di prestazione.
[diagramma Ocse 1999]
Per ciò che riguarda, in particolare, l’ordinamento italiano, questa tendenza caratterizza
l’evoluzione del diritto del lavoro già da un quarto di secolo:
- dalla prima metà degli anni ’80 ha incominciato a essere gradualmente depotenziata la regola del
collocamento su richiesta numerica, fino alla sua abrogazione totale avvenuta nel 1991;
- dalla fine degli anni ’70 ha incominciato a essere gradualmente flessibilizzata la disciplina limitativa del contratto a termine; nel 2001 è stata emanata una riforma della materia fortemente liberalizzatrice, almeno negli intendimenti del legislatore (v. cap.X);
- dal 1997 è consentita la fornitura di lavoro temporaneo da parte di agenzie specializzate; dal
2003 questa è consentita in tutti i casi nei quali è consentita l’assunzione a termine; di fatto il lavoro
temporaneo tramite agenzia è largamente utilizzato in sostituzione del patto di prova (v. cap. V);
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- dall’inizio degli anni ’80 l’ordinamento ha previsto come forma normale di ingresso dei giovani
nel mercato del lavoro un rapporto di lavoro a termine, fosse esso denominato apprendistato, contratto di formazione e lavoro, oppure – con la riforma del 2003 – “contratto di inserimento”;
- il baricentro della contrattazione collettiva tende a spostarsi dal centro (contratto collettivo nazionale di settore) alla periferia, con lo sviluppo di una contrattazione aziendale volta a commisurare gli standard di trattamento dei lavoratori ai livelli effettivi di produttività; e l’ordinamento guarda
con favore a questa tendenza, offrendo dal 1993 uno sgravio contributivo – ancorché per ora entro
un limite ridotto – per la parte di retribuzione negoziata in riferimento alla produttività o alla redditività della singola azienda.
Il diritto del lavoro italiano vede dunque da tempo ridursi il suo orientamento al perseguimento dell’eguaglianza a priori; e questo fenomeno è forse più accentuato in Italia rispetto agli altri
Paesi europei perché quell’orientamento è stato fino ad epoca recente più marcato nel nostro ordinamento giuslavoristico rispetto agli altri. Va anche detto che in altri Paesi europei – e soprattutto in
quelli del Nord-Europa –, assai più che in Italia, il valore dell’uguaglianza in una accezione lato
sensu rawlsiana è stata perseguito, nella seconda metà del secolo XX, soprattutto con la costruzione
di sistemi assai efficienti di assistenza ai lavoratori nel mercato del lavoro, prima e più che di protezione nel rapporto di lavoro: sistemi capaci di neutralizzare efficacemente i difetti di dotazione di
cui soffre la parte più debole dei lavoratori, offrendo loro un sovrappiù di servizi di informazione,
ricerca intensiva e personalizzata delle possibilità di occupazione, orientamento e formazione professionale mirata, assistenza alla mobilità professionale e geografica. Cosicché gli “ultimi della coda”, a quelle latitudini, hanno sempre goduto di una condizione complessiva assai migliore di quella
dei loro omologhi italiani. Di fatto, l’uguaglianza che prescinde dalle differenze di dotazione e di
produttività individuale è stata realizzata lì assai più e meglio che da noi, con una strumentazione
diversa da quella con cui noi ci siamo proposti di perseguirla. Ed è quella probabilmente l’unica via
che si offre oggi anche a noi per rilanciare efficacemente un’opzione rawlsiana del nostro sistema,
ammesso che tale opzione sia ancora all’ordine del giorno.
8. - Non coincidenza del lavoro protetto dal titolo III della Costituzione con il lavoro subordinato
Le situazioni generatrici di un’esigenza di intervento protettivo eteronomo incidente sul rapporto di lavoro non sono, ovviamente, tutte riconducibili ai modelli schematicamente menzionati
nei paragrafi precedenti, che sono stati scelti soltanto come quelli più largamente rappresentativi
della realtà socio-economica nella quale i precetti della Costituzione repubblicana devono essere attuati. La schematica rassegna proposta serve tuttavia a mostrare come l’esigenza dell’intervento
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protettivo eteronomo si manifesti in un’area che si estende anche al di fuori dei confini del lavoro
subordinato, comprendendo tutte le situazioni in cui l’attività lavorativa è svolta in modo continuativo e prevalente o esclusivo per un unico committente, ancorché eventualmente senza assoggettamento pieno a un potere direttivo di quest’ultimo (19).
Se questo assoggettamento — che, come vedremo meglio a suo luogo (cap. IV), costituisce
l’elemento essenziale e caratterizzante del rapporto di lavoro subordinato nell’impresa, in contrapposizione a quello di lavoro autonomo — non assume rilievo discriminante nel determinarsi
dell’esigenza obbiettiva di protezione, il canone interpretativo fondato sul principio paritario impone di ritenere che l’assoggettamento stesso a un potere direttivo non assuma rilievo neppure per la
delimitazione del campo di applicazione della tutela costituzionale che a quell’esigenza risponde: la
subordinazione non costituisce dunque elemento necessario affinché quella tutela si attivi.
L’assoggettamento a un potere direttivo non sembra, peraltro, costituire neppure elemento
sufficiente, cioè elemento in presenza del quale il rapporto di lavoro possa senz’altro ritenersi incluso nell’area alla quale la protezione costituzionale si estende. Quello che nei modelli esaminati rileva come fattore determinante dell’esigenza dell’intervento protettivo è infatti il carattere continuativo e (prevalente o) esclusivo dell’attività svolta in favore di un determinato committente, cui corrispondono normalmente una minore frequentazione e conoscenza del mercato da parte del prestatore
(§ 3), una minore conoscenza da parte sua dell’andamento dell’impresa e della sua posizione nel
mercato (§ 4), un maggior rischio derivante per lui dalle sopravvenienze negative del rapporto e una
(19) V. in questo senso M. PERSIANI, Autonomia, subordinazione e coordinamento nei recenti modelli di collaborazione lavorativa, DL, 1998, I: «una lettura della Carta costituzionale che lasci da parte la pregiudiziale classista consente di
escludere l’esistenza di una direttiva di valore univoco riferita esclusivamente al lavoro subordinato e di affermare, invece, che nei presupposti costituzionali sono i ‘‘lavori’’ e, cioè, il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni, a concorrere al progresso materiale della società (art. 35, primo comma, e art. 4, secondo comma, Cost.)» (p. 204). Sostanzialmente nello stesso senso G. PROIA, Rapporto di lavoro e tipo (considerazioni critiche), Milano, 1997, partic. pp. 57-58, dove l’A. osserva come la limitazione del campo di applicazione del diritto del lavoro all’area della subordinazione produca una «sfasatura» tra la legislazione lavoristica ordinaria e il programma costituzionale, che evita il riferimento rigido e
immutabile a un qualsiasi tipo legale predeterminato; v. inoltre I. MARIMPIETRI, Lavoro e solidarietà sociale, Torino,
1999, dove si sottolinea l’estraneità dei «lavori socialmente utili» rispetto al tipo legale del lavoro subordinato, ma non
rispetto al disegno costituzionale di tutela del lavoro; e U. ROMAGNOLI, Il diritto del secolo. E poi?, Dir. merc. lav.,
1999, n. 2: «la Costituzione — che non conosce la dicotomia contratto di lavoro ‘‘subordinato’’/contratto di lavoro ‘‘autonomo’’ — non può nemmeno esprimere una aprioristica valutazione di favore o di sfavore nei confronti di forme giuridico-contrattuali. Come dire: mentre il codice civile ragiona in termini di tipologie contrattuali e di modalità tecnicogiuridiche di svolgimento del lavoro, la Costituzione si preoccupa soltanto di rimuovere situazioni soggettive di debolezza o inferiorità socio-economica comunque e dovunque si manifestino». Su questo punto, però, la giurisprudenza della Consulta non è del tutto coerente; mentre per un verso si registrano sentenze che hanno esteso alcune tutele costituzionali al di fuori dell’area del lavoro subordinato (così ad es. C. cost. 17 giugno 1975 n. 222, FI, 1975, I, c. 1669, in
materia di diritto di sciopero, e C. cost. 12 marzo 1999 n. 65, in materia di collocamento), in altre sentenze si afferma
invece la coincidenza del campo di applicazione delle tutele di cui al titolo III con l’area del lavoro subordinato: così C.
cost. 29 marzo 1993 n. 121, FI, 1993, I, c. 2432, dove si afferma che una violazione delle garanzie costituzionali «non è
... configurabile con riferimento a incarichi di lavoro autonomo, dato che il diritto al trattamento di fine rapporto e al
trattamento previdenziale è garantito dall’art. 36 solamente per il lavoratore subordinato»; inoltre C. cost. 21 aprile 1993
n. 181 (RIDL, 1994, II, p. 38, con nota di G.L. PINTO, Lavoratrici autonome e indennità giornaliera di maternità, e
RGL, 1993, II, p. 395, con nota di A. ANDREONI) dove la Corte nega l’estensione alle lavoratrici-madri autonome di una
tutela prevista dalla legge ordinaria soltanto per le subordinate, avendo in mente soltanto la figura della libera professionista o della esercente di piccola impresa individuale, non certo la figura della collaboratrice autonoma continuativa.
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maggiore incidenza del moral hazard per il committente (§ 5). Poiché quel carattere dell’attività
prestata e le sue menzionate normali conseguenze ricorrono, in varia misura, nella grande maggioranza dei rapporti di lavoro subordinato, ma non necessariamente in tutti, deve ammettersi la possibilità che le corrispondenti esigenze di un intervento protettivo eteronomo si manifestino con diversa intensità e talora non si manifestino affatto, pur in presenza del vincolo giuridico di subordinazione. Donde la legittimità costituzionale di una modulazione dell’intervento protettivo in relazione
ai differenti caratteri che i rapporti di lavoro subordinato possono assumere nei diversi settori o nelle diverse categorie professionali, e persino dell’esclusione dalla tutela, parziale o totale, di alcune
zone del lavoro subordinato.
9. - Effetti del diritto del lavoro coerenti ed effetti contrari ai principi costituzionali
Tra le diverse possibili politiche del lavoro, le sole che possono considerarsi senz’altro univocamente volte ad attuare i principi fondamentali di solidarietà sociale e di eguaglianza di cui agli
artt. 2 e 3 Cost. (cardini del sistema costituzionale), e in particolare ad assicurare a tutti i cittadini
pari dotazione di mezzi materiali e culturali e pari opportunità di accesso al lavoro, sono quelle tendenti ad accrescere la sicurezza e la capacità effettiva di scelta di ciascun individuo nel mercato del
lavoro: attivazione di servizi di informazione idonei a correggere le asimmetrie informative che caratterizzano questo mercato (§§ 3 e 4); di servizi di orientamento e formazione professionale capaci
di aprire concretamente ai lavoratori l’accesso all’occupazione nelle condizioni migliori; di servizi
di assistenza alla mobilità geografica idonei ad ampliare le possibilità di scelta del lavoratore, rafforzandone il potere negoziale effettivo nei confronti della controparte; interventi di sostegno del
reddito e assistenza intensiva nella ricerca di nuova occupazione per chi rimane senza lavoro per un
periodo rilevante. Sono queste, oltretutto, le misure che consentono interventi selettivi, mirati a neutralizzare il deficit di capacità di scelta di cui soffre la parte più debole dei lavoratori, riducendo le
disuguaglianze di dotazione iniziale fra di essi.
Lo stesso non può dirsi a priori delle altre possibili forme di intervento protettivo. È opinione molto diffusa, soprattutto in seno al movimento sindacale e negli ambienti politici progressisti,
quella che riconosce senz’altro la funzione di attuazione dei principi fondamentali di solidarietà ed
eguaglianza anche (e soprattutto) alle norme legislative o collettive che fissano standard minimi di
trattamento dei lavoratori e in particolare a quelle poste a tutela della stabilità del posto (20): con la
conseguenza che ogni innalzamento degli standard inderogabili dovrebbe considerarsi come un passo avanti nell’attuazione del programma costituzionale. Senonché l’ambiguità degli effetti di queste
norme impedisce di riconoscere loro senz’altro tale funzione: esse, come si è visto (§§ 2 e 3), reca(20) V. in questo senso, tra le altre, Cass. 15 dicembre 1997 n. 12665, DL, 1998, II, p. 212.
21
no un beneficio sicuro soltanto ai lavoratori occupati regolari, mentre per i lavoratori irregolari e i
disoccupati il bilancio complessivamente positivo dell’intervento è soltanto eventuale; dalle stesse
norme può infatti derivare per questi ultimi un peggioramento delle prospettive di accesso al lavoro
regolare, quando non — come accade nei casi limite — un’esclusione totale. Il nesso funzionale fra
le disposizioni che fissano standard minimi di trattamento e i principi fondamentali di solidarietà
sociale e uguaglianza non può dunque mai essere dato per certo a priori: esso dipende dal contesto
economico in cui quelle disposizioni si collocano, dal livello a cui gli standard minimi vengono stabiliti e dalle modalità concrete con cui esse operano di volta in volta.
L’imposizione di uno standard minimo di trattamento che abbia un effetto depressivo sui livelli occupazionali non è di per sé incostituzionale; ben può, infatti, prospettarsi un interesse condiviso dai lavoratori occupati regolari con gli irregolari e i disoccupati al mantenimento di uno standard minimo inderogabile di tutela anche quando esso renda in qualche misura più difficoltoso
l’accesso a un’occupazione regolare da parte di chi ne è attualmente escluso: può essere vantaggioso anche per quest’ultimo affrontare una qualche maggiore difficoltà nel reperimento di
un’occupazione regolare, nella prospettiva di accedervi poi in condizioni di maggiore reddito e/o
maggiore sicurezza. La questione di costituzionalità sorge però là dove, anche per effetto di circostanze diverse e indipendenti da quell’intervento, una parte rilevante dei disoccupati o irregolari sia
di fatto condannata a rimanere in permanenza in tale condizione, essendo composta da soggetti la
cui speranza di accedere in tempi ragionevoli al lavoro tutelato risulti essere in concreto esigua o
nulla: allora, infatti, l’imposizione dello standard minimo recherebbe di fatto sistematicamente vantaggio soltanto a una parte privilegiata della forza lavoro, derivandone soltanto danno per l’altra
parte. Dove il limite della condivisibilità fra insiders e outsiders dell’interesse a un determinato intervento protettivo sia stato sicuramente superato, in quanto non possa ragionevolmente negarsi che
una parte rilevante dei disoccupati e irregolari sia permanentemente esclusa dal godimento dei benefici dell’intervento stesso e ne subisca soltanto effetti pregiudizievoli, un siffatto intervento dovrebbe considerarsi precluso al legislatore ordinario a norma degli artt. 3 e 4 della Costituzione
(21).
Quale sia il limite entro il quale l’interesse soddisfatto dall’intervento protettivo può considerarsi condiviso da insiders e outsiders, e oltre il quale invece fra le due categorie non può che esservi un oggettivo contrasto di interessi, è per lo più difficile stabilire e può essere oggetto di opinioni contrastanti, condizionate anche dalle diverse possibili opzioni politiche retrostanti; donde, in
(21) «... quando la legittimità di una legge protettiva di certi interessi è subordinata a un requisito di misura, poiché nella misura si congiungono qualità e quantità, l’eccesso di misura — da verificare con il criterio della ragionevolezza —
trascorre nella qualità opposta, cioè nell’illegittimità» (L. MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996,
p. 139).
22
linea generale, l’impossibilità di dedurre dal dettato costituzionale una precisa « ricetta » di politica
del lavoro e la necessità di lasciare al legislatore ordinario, su questo terreno, un ampio spazio di discrezionalità, almeno fino a quando una limitazione di tale spazio non possa trovare fondamento in
un’evidenza empirica indiscutibile. Proprio il contrasto fra interessi costituzionalmente rilevanti su
questo terreno e l’opinabilità del bilanciamento ideale fra di essi impedisce, peraltro, di considerare
costituzionalmente irreversibile l’intervento protettivo deciso dal legislatore in un determinato momento: così, ad esempio, non può considerarsi costituzionalmente irreversibile la scelta compiuta
dal nostro legislatore nel 1966-1970, poi rafforzata nel 1990, di garanzia della stabilità del posto di
lavoro: se è vero, infatti, che essa può costituire attuazione del principio generale di tutela del lavoro, in quanto persegue una ripartizione razionale del rischio fra datore e prestatore, nonché attuazione del principio di tutela della libertà e dignità della persona nel luogo di lavoro, di cui all’art. 41
Cost., una flessibilizzazione della disciplina del licenziamento ben potrebbe ragionevolmente presentarsi e giustificarsi come funzionale a un incremento delle possibilità di occupazione regolare
per chi ne è oggi escluso, sia pure a spese di chi oggi ne gode, e quindi alla promozione di una parità sostanziale nel mercato del lavoro (22), in attuazione dell’art. 3, e del diritto di tutti i cittadini al
lavoro, di cui all’art. 4 (23).
Un discorso analogo vale in riferimento al sostegno dell’ordinamento alla coalizione sindacale e all’autonomia collettiva. Tale sostegno ben può iscriversi in un disegno costituzionale di
promozione dell’equità nei rapporti di lavoro, attraverso la correzione delle distorsioni di funzionamento caratteristiche del mercato del lavoro, e di promozione della partecipazione dei lavoratori
«all’organizzazione economica e sociale del paese» (art. 3), nonché al controllo e alla gestione delle
aziende (art. 46); ma neppur esso può essere indiscriminato, poiché anche l’attività sindacale, come
l’intervento protettivo statuale, può operare in concreto in funzione di un elevamento generale delle
condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori, oppure in funzione dell’autodifesa di un gruppo circoscritto contro la concorrenza esterna.
Deve in ogni caso essere privilegiata da parte dell’ordinamento — in una situazione che veda la compresenza di lavoratori occupati regolari e lavoratori collocati durevolmente in una posizione di irregolarità o di disoccupazione, con possibile contrasto di interessi fra i primi e i secondi
(22) Non si intende, con questa affermazione, fare acritico riferimento alla tesi — controversa nella letteratura economica attuale — secondo la quale la disciplina limitativa dei licenziamenti produce sempre un effetto depressivo sui livelli occupazionali, bensì richiamare la constatazione — pacificamente condivisa dalla scienza economica — del fatto
che quanto più elevato è il grado di stabilità degli occupati regolari, tanto minore è l’interscambio tra questi e i disoccupati o gli irregolari, con il conseguente «dualismo» del mercato del lavoro tipico dei sistemi caratterizzati da una forte
limitazione della facoltà di recesso dei datori di lavoro.
(23) Per la reversibilità della disciplina limitativa del recesso del datore di lavoro cfr. R. SCOGNAMIGLIO, Il lavoro nella
Costituzione italiana, cit., p. 63. In senso contrario, cioè nel senso dell’illegittimità costituzionale dell’ipotetica scelta
del legislatore ordinario di attenuare le limitazioni della facoltà di recesso del datore di lavoro, v. F. MANCINI, in Commentario della Costituzione, cit., sub art. 4, pp. 240-241. V. in proposito anche la nota 16.
23
— l’attività sindacale volta a promuovere interessi comuni alla generalità dei lavoratori, mentre non
deve godere di particolare sostegno (pur non potendo comunque essere vietata, stante il principio di
libertà sancito dall’art. 39) l’attività sindacale volta essenzialmente all’autodifesa dei lavoratori occupati regolari dalla concorrenza degli altri.
10. Le tendenze attuali del nostro diritto del lavoro. La riforma delle collaborazioni autonome
continuative del 2003
Le conclusioni proposte negli ultimi due paragrafi circa l’estensione e gli effetti della tutela
costituzionale del lavoro trovano una significativa corrispondenza nelle tendenze evolutive recenti
del nostro diritto del lavoro.
Per un verso, dopo quattro decenni durante i quali la dottrina aveva quasi unanimemente teorizzato la coincidenza pressoché perfetta dei confini del campo di applicazione del diritto del lavoro
con l’area del lavoro subordinato, nell’ultimo decennio è venuta progressivamente diffondendosi,
fino a diventare oggi largamente maggioritaria, la consapevolezza dell’impossibilità logica di escludere dalla tutela di cui agli artt. 35 e ss. Cost. i rapporti di collaborazione autonoma a carattere continuativo (24). Nella stessa direzione si sono mosse alcune iniziative legislative degli ultimi anni,
tendenti a una regolamentazione più o meno estesa del c.d. rapporto di lavoro «parasubordinato»,
culminate nell’assai incisiva riforma della materia contenuta negli artt. 61-69 del già citato d.lgs. n.
(24) L’idea che il diritto del lavoro debba «offrire un tetto» sia al lavoro subordinato sia a quello autonomo, entrambi
ricompresi nella categoria generale del contratto avente per oggetto il lavoro personale, venne sostenuta già cinquant’anni or sono da C. LEGA, Il diritto del lavoro e il lavoro autonomo, RDL, 1950, I, pp. 115-158. Questa voce dottrinale è rimasta a lungo isolata, orientandosi la dottrina nei tre decenni successivi a considerare il diritto del lavoro, inteso in senso stretto, come diritto del (solo) rapporto di lavoro subordinato: v. per tutti in tal senso G. MAZZONI, Manuale di diritto del lavoro, 6a ed. (v. anche, nello stesso senso, le cinque edizioni precedenti), Milano, 1988, vol. I, pp. 2326, e, in esplicito dissenso dalla tesi del LEGA, pp. 242-253. Ma già all’inizio degli anni ’80 incomincia ad affiorare in
dottrina la consapevolezza della correlazione essenziale fra esigenza di tutela e carattere continuativo della prestazione
personale di lavoro: in proposito G. FERRARO propone, nell’ambito di un discorso de iure condendo, la prospettiva di
«una definizione notevolmente allargata di prestazione di lavoro, prioritariamente attenta al profilo economicoproduttivo e funzionale dell’attività lavorativa, e quindi all’idoneità della stessa a soddisfare in maniera continuativa e
stabile le esigenze organizzative e produttive di una determinata struttura operativa» (Prospettive di revisione del libro
V del codice civile, DLRI, 1982, partic. p. 18). L’idea è stata poi ripresa da chi scrive, in un primo tempo ne Il tempo
della prestazione nel rapporto di lavoro, Milano, vol. II, 1985, pp. 455-461, con particolare riferimento alla necessità di
estensione alle collaborazioni personali coordinate e continuative del campo di applicazione della disciplina del tempo
di lavoro; poi, nell’ambito di una riflessione più ampia sui confini del campo di applicazione dell’intero diritto del lavoro, in Subordinazione e autonomia nel diritto del lavoro, Milano, 1989, pp. 233-294. Nella seconda metà degli anni ’90
si è poi assistito a una ricca fioritura di studi e proposte, de iure condito e de iure condendo, nella prospettiva di una estensione selettiva delle tutele, o di una redistribuzione delle stesse, dall’area del lavoro subordinato a quella del lavoro
autonomo e particolarmente delle collaborazioni coordinate e continuative: v. soprattutto gli scritti di G. ALLEVA e M.
D’ANTONA, Ridefinizione della fattispecie di contratto di lavoro, ne La disciplina del mercato del lavoro, a cura di G.
Ghezzi, Roma, Ediesse, 1996, pp. 187-199; P. ICHINO, Il lavoro e il mercato, Milano, 1996, pp. 54-80; M. PEDRAZZOLI,
Lavoro sans phrase e ordinamento dei lavori. Ipotesi sul lavoro autonomo, RIDL, 1998, I, pp. 49-104. Sul piano del diritto comunitario v. A. SUPIOT, Transformations du travail et devenir du droit du travail: une perspective européenne,
RIT, 1999, il quale, osservato che «la Communauté européenne n’est pas encore parvenue à s’entendre sur une définition unique de la notion de travailleur salarié» (p. 34), propone «la perspective ... d’un droit commun du travail, dont
certaines branches pourraient ... être adaptées à la diversité des situations de travail (travail subordonné au sens traditionnel; travail ‘‘parasubordonné’’, c’est-à-dire économiquement dépendant)» (p. 37).
24
276/2003 (v. in proposito il riquadro 4, dove viene anticipato un discorso che verrà sviluppato più
ampiamente negli ultimi due paragrafi del capitolo IV).
RIQUADRO 4
La riforma delle collaborazioni autonome continuative
Il decreto legislativo n. 276/2003, intervenendo in modo assai drastico su questa materia,
vieta a tutti i soggetti di diritto privato di ingaggiare personale con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa a tempo indeterminato – con le sole eccezioni dei collaboratori pensionati
o iscritti ad albi professionali -, ponendo come condizione per la validità di tale rapporto il suo collegamento a un “progetto” o “programma” delimitato nel tempo. Quando faccia difetto quel collegamento, e faccia quindi difetto una delimitazione temporale rigorosa del rapporto contrattuale, la
nuova legge (art. 69) dispone l’assoggettamento delle collaborazioni continuative “parasubordinate” alla disciplina generale del lavoro subordinato.
L’aumento di costo determinato dall’applicazione secca della disciplina del lavoro subordinato è - a seconda dei casi - pari o superiore a un terzo del totale e può raggiungere persino il
100%: non va considerato, infatti, soltanto l’aumento di due volte e mezzo del costo contributivo
previdenziale, ma anche l’insieme delle voci di retribuzione indiretta, il costo della retribuzione per
i periodi di malattia, i vincoli in materia di recesso dal rapporto (che costituiscono sostanzialmente
un onere assicurativo a carico del datore di lavoro), nonché infine il fatto che in molti casi i collaboratori autonomi sono stati fin qui retribuiti a livelli inferiori rispetto ai minimi collettivi di settore.
È certo apprezzabile e condivisibilissimo l’intendimento di superare il regime di apartheid
al quale erano stati condannati in precedenza numerosissimi collaboratori coordinati e continuativi
autonomi: tecnici informatici, redattori e correttori di bozze di case editrici, merchandisers e promoters, “letturisti” dei contatori della luce e del gas, telelavoratori, addetti a call centre, intervistatori, contabili, taxisti, pony express, infermieri, impiantisti, e molti altri ancora; cui si aggiungevano tutti i consulenti aziendali non iscritti a un albo professionale. Ma l’estensione secca e repentina
del vecchio diritto del lavoro nella sua interezza a questo insieme di rapporti rischia di produrre la
sparizione di un gran numero di posti di lavoro fin qui “regolari”, in tutti i casi – e sono la maggioranza - caratterizzati da una elevata elasticità della domanda. Un modo più realistico nel quale
quell’operazione potrebbe forse essere compiuta consiste in una redistribuzione delle tutele, cioè
nella ridefinizione di una rete di sicurezza universale, la cui applicazione sia suscettibile di essere
estesa con la necessaria gradualità a tutti i lavoratori sostanzialmente dipendenti, modellata secondo gli standard europei di bilanciamento tra esigenze di protezione universale del lavoro ed esigenze di flessibilità delle organizzazioni produttive.
Anche in altri campi del diritto civile e commerciale, del resto, va facendosi strada l’idea
della necessità di un intervento correttivo da parte dell’ordinamento statuale in tutte le situazioni
nelle quali si determini una situazione di «dipendenza economica» di un soggetto nei confronti di
un altro, in conseguenza della distorsione monopsonistica che si configura in un rapporto contrattuale dal quale il primo trae continuativamente l’intero proprio reddito o la parte prevalente di esso,
senza disporre di adeguate alternative nel mercato (25).
(25) V. soprattutto la legge 18 giugno 1998 n. 192 sulla «subfornitura nelle attività produttive», il cui art. 9 vieta
«l’abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice ... La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità
per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti». Sulla nozione di «dipendenza e-
25
Per altro verso, nell’ultimo decennio è andata sempre più diffondendosi e radicandosi nella
nostra cultura economico-politica, e in particolare in quella dei giuslavoristi, la consapevolezza del
fatto che le tutele inderogabili disposte dall’ordinamento comportano dei costi non soltanto per i datori di lavoro (aumento del costo del lavoro e delle rigidità organizzative) e per i consumatori o utenti (aumento dei prezzi o riduzione della qualità dei beni o servizi), ma anche per i lavoratori disoccupati o irregolari, i quali, già esclusi dal godimento dei benefici delle tutele stesse, ne sopportano le conseguenze negative in termini di riduzione della possibilità di competere nel mercato con i
lavoratori regolari e quindi di maggiore difficoltà di accesso al lavoro tutelato. Donde, sia sul piano
dello studio dello ius conditum, sia su quello dell’elaborazione delle nuove forme di intervento statuale in attuazione degli artt. 35 e ss. Cost., una maggiore attenzione agli effetti concreti delle norme
e in particolare all’impatto concretamente prodotto dalla disciplina inderogabile del rapporto di lavoro sui flussi di manodopera; e conseguentemente la tendenza a spostare il baricentro
dell’ordinamento protettivo dalla tutela del lavoratore nel suo rapporto contrattuale con il datore di
lavoro, alla sua tutela nel mercato. Se fino a ieri l’intervento protettivo si è concretato essenzialmente nella riduzione dell’autonomia negoziale individuale attraverso una regolazione eteronoma inderogabile del rapporto contrattuale, oggi esso tende a concretarsi piuttosto nell’incremento del potere
contrattuale effettivo del lavoratore, assicurandogli maggiori opportunità di informazione, di formazione professionale e di mobilità nel mercato; le politiche del lavoro tendono, così, ad avvalersi
dell’intervento amministrativo e dello sviluppo dei servizi nel mercato più che del diritto privato dei
contratti. In Francia si parla, a questo proposito, di passaggio dal droit du travail al droit de
l’emploi; più incisivamente, in Gran Bretagna e negli ambienti comunitari si indica come obbiettivo
essenziale della politica del lavoro non la sicurezza del posto di lavoro, ma la garanzia per il lavoratore della propria employability, ovvero appetibilità professionale nel mercato.
Quest’ultima tendenza, per ciò che riguarda il nostro ordinamento nazionale, è stata favorita
anche dal processo di sua integrazione nell’ordinamento comunitario, che, nato principalmente in
funzione di garanzia della concorrenza nel mercato europeo delle merci, dei servizi e dei capitali,
nell’ultimo ventennio — come vedremo meglio nella sezione che segue — ha reso progressivamente più incisivo il proprio intervento anche in materia sociale, sempre focalizzandolo sulle garanzie
di buon funzionamento del mercato del lavoro più che sulle garanzie inderogabili di standard minimi di trattamento nel rapporto tra datore e prestatore.
conomica» a cui questa legge fa riferimento v. R. Caso, Subfornitura industriale: analisi giuseconomica delle situazioni
di disparità di potere contrattuale, RCDP, 1998, pp. 243-297; ivi ulteriori riferimenti alla dottrina giuridica, economica
e «giuseconomica» in argomento. Per alcune considerazioni ulteriori a questo proposito v. i §§ 10 e 11 del capitoloV.
26
Il ministro del lavoro del primo Governo CLINTON, Robert REICH diceva, con un gioco di
parole intraducibile: “better to have routes instead of roots” (meglio avere a disposizione strade,
percorsi professionali, che mettere radici). Non si può, però, dare per scontato che la predisposizione del lavoratore alla mobilità sia senz’altro, in assoluto, un melius rispetto alla sua predisposizione a mettere radici in un posto possibilmente stabile. Nel mercato del lavoro del nuovo secolo
deve essere data al lavoratore la possibilità effettiva di scegliere, in ciascuna situazione concreta, il
tipo di rapporto che meglio corrisponde alle sue caratteristiche personali e professionali di versatilità o di specializzazione, di mobilità o difficoltà di spostamento, di propensione o avversione al
rischio; deve essergli assicurata, cioè, la possibilità effettiva di scegliere fra la sicurezza che è data
da un rapporto di lavoro stabile e la sicurezza che è data da una maggiore capacità di muoversi nel
mercato.
Per questo, compito dell’ordinamento è di garantire non soltanto la rete di sicurezza essenziale, estesa a tutti coloro che lavorano in condizioni di dipendenza economica, ma anche lo sviluppo nel mercato del lavoro di un sistema di servizi (e qui le imprese specializzate sono indispensabili) capace di rendere effettiva e più ampia possibile la possibilità di scelta dei lavoratori. E di
garantire un sovrappiù di servizi a quelli che più degli altri ne hanno bisogno, in quanto soffrono
rispetto agli altri di un difetto più accentuato di informazione, di capacità di inserimento, di mobilità professionale o geografica.
SEZIONE II - DIVERSITÀ DI ISPIRAZIONE E DI CONTENUTI NORMATIVI
FRA L’ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE DEL LAVORO E L’ORDINAMENTO COMUNITARIO EUROPEO
11. – L’Organizzazione Internazionale del Lavoro come risposta al monopsonio strutturale
Come si è detto sopra (§ 3), alla duplice possibile causa della distorsione monopsonistica
corrisponde una diversità di possibili interventi correttivi:
- in una situazione di monopsonio strutturale le misure più efficaci consistono nell’imposizione
inderogabile, mediante legge o contratto collettivo, di standard minimi di trattamento; questa, però,
è suscettibile di trasformarsi, in conseguenza dell’evoluzione della struttura del mercato del lavoro
e/o di un innalzamento eccessivo degli standard minimi, in una causa di diminuzione dei livelli occupazionali e in un ostacolo grave all’accesso al lavoro regolare per chi ne è escluso, con la conseguente “dualizzazione” del mercato del lavoro caratteristica di numerosi sistemi economici sviluppati;
- in una situazione di monopsonio dinamico, invece, le misure correttive più efficaci - oltre che
esenti dal rischio di produrre quell’effetto indesiderato - consistono nell’attivazione di servizi di in-
27
formazione, formazione professionale e assistenza alla mobilità nel mercato, capaci di incrementare
la possibilità di scelta del lavoratore (quella che negli ultimi anni ha preso a essere indicata col termine employability) e quindi il suo potere negoziale effettivo.
L’Organizzazione Internazionale del Lavoro è nata all’indomani della rivoluzione russa e
della conclusione del primo conflitto mondiale, in un contesto economico planetario che vedeva
prevalere ancora quasi ovunque condizioni di monopsonio strutturale nei mercati del lavoro, anche
là dove il processo di industrializzazione era più avanzato. Scopo dell’Organizzazione era la promozione di accordi tra il maggior numero possibile di Stati di ogni parte del mondo, che, impedendo una concorrenza internazionale fra le imprese fondata sul peggioramento delle condizioni del lavoro, favorissero il diffondersi universale di standard minimi di trattamento sempre più elevati: obbiettivo che è stato perseguito con la progressiva costruzione di un imponente sistema di convenzioni internazionali e di raccomandazioni, fondamentalmente ispirato alla logica della correzione
della distorsione monopsonistica mediante la regolamentazione eteronoma - di fonte legislativa o
collettiva - dei rapporti individuali di lavoro.
Il diritto del lavoro di cui l’O.I.L., fin dal suo nascere, ha promosso la diffusione su scala
planetaria è un ordinamento che privilegia un modello di rapporto individuale tendenzialmente stabile, con una retribuzione non inferiore a minimi fissati con effetto generale per legge o per contratto collettivo, con una precisa disciplina del tempo di lavoro e del riposo giornaliero, settimanale e
annuale, con una retribuzione non inferiore a determinati standard nazionali o regionali, con diritto
alla conservazione del posto e di una parte almeno della retribuzione in caso di malattia, infortunio
o maternità. Quando poi, negli ultimi decenni, le condizioni di monopsonio strutturale - pur sempre
dominanti in zone vastissime, dall’America meridionale all’Africa, all’Asia centro-meridionale sono andate invece progressivamente marginalizzandosi nei Paesi di più antica industrializzazione
europei, nord-americani e del Pacifico occidentale, l’O.I.L. si è trovata a dover difendere il proprio
grande sistema di standard minimi, concepito in funzione della protezione del lavoro nel mercato
originario e tuttora necessario in gran parte del Pianeta, ma per molti aspetti ormai inadatto nella
parte più sviluppata, dove i suoi effetti pratici possono subire la “mutazione genetica” di cui si è
detto.
Alle tensioni e sfasature tradizionali fra gli standard promossi dall’O.I.L. e quelli praticati
dai Paesi in via di sviluppo meno sensibili all’esigenza di protezione del lavoro, è venuta così aggiungendosi la tensione fra la filosofia complessivamente sottesa al sistema protettivo patrocinato
dall’O.I.L. e le politiche del lavoro di molti fra i Paesi più sviluppati, tendenti a spostare il baricentro del sistema dalla protezione del lavoratore in azienda, mediante la regolamentazione inderogabi-
28
le del rapporto contrattuale, alla sua protezione nel mercato, mirata a garantirgli la massima possibile libertà negoziale effettiva.
12. – Il diritto comunitario del lavoro come risposta al monopsonio dinamico
Diversa, per questo aspetto, è la vicenda di un’altra organizzazione internazionale a cui pure
l’Italia appartiene: la Comunità europea, che è stata fondata quasi quarant’anni più tardi rispetto
all’O.I.L., da un gruppo di nazioni tra le più sviluppate e ricche del mondo.
Anche l’atto costitutivo di questa organizzazione indica tra le sue finalità quella di “promuovere il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della manodopera che consenta la loro
parificazione nel progresso” (art. 117 del trattato di Roma, 1957); e anche questa organizzazione si
propone di impedire che la competizione fra le imprese nell’area di sua competenza si giochi in tutto o in parte sul terreno della riduzione degli standard di trattamento dei lavoratori. Ma nel mercato
del lavoro della Comunità europea il monopsonio strutturale costituisce un fenomeno sempre più
isolato e marginale.
Ne consegue che, mentre, per un verso, i policy makers comunitari tendono a individuare le
cause principali della debolezza contrattuale dei lavoratori soprattutto nei difetti di informazione,
formazione e mobilità che riducono le possibilità effettive di scelta di questi ultimi nel pur ricco
mercato del lavoro continentale, per altro verso è sempre più nitidamente avvertito - e studiato, sul
piano teorico come su quello empirico - il rischio che un eccesso nell’attivazione degli strumenti
tradizionali di protezione del lavoro finisca col pregiudicare la mobilità del lavoro necessaria e col
produrre effetti contrari all’obbiettivo della piena occupazione, o comunque di dualizzazione del
mercato.
É accaduto così che l’obbiettivo dell’armonizzazione “nel progresso” (cioè “verso l’alto”)
delle normative sociali proprie degli Stati membri, pur enunciato - come si è visto - fin dal trattato
istitutivo, sia stato di fatto perseguito quasi esclusivamente sul terreno del divieto di discriminazioni
fra uomini e donne e su quello dell’igiene e sicurezza del lavoro, registrandosi per il resto soltanto
negli ultimi anni l’avvio di un - meno ambizioso - processo di riavvicinamento delle discipline nazionali del rapporto di lavoro, che tuttavia non appare affatto univocamente orientato nel senso della
generalizzazione degli standard inderogabili più elevati. I campi nei quali invece la Comunità europea si è impegnata maggiormente fin dall’inizio della sua esistenza, per quel che riguarda la politica
del lavoro, sono stati: quello della garanzia formale della libera circolazione delle persone tra i Paesi
membri, con il suo ovvio corollario del divieto di discriminazione per motivi di nazionalità (artt. 48
e 49 del trattato istitutivo); quello della garanzia di effettività sostanziale della libertà di circolazione, perseguita con la promozione della mobilità geografica e professionale dei lavoratori per mezzo
29
del Fondo sociale europeo (artt. 123 - 125); quello della diffusione, intensificazione e miglioramento qualitativo dei servizi di formazione o riqualificazione professionale (art. 128), e in particolare di
quelli rivolti ai più giovani.
In questa politica del lavoro comunitaria è evidente l’intendimento prioritario di affrontare le
distorsioni tipiche del monopsonio dinamico, piuttosto che quelle tipiche del monopsonio strutturale; e di farlo intervenendo sulle loro cause più che sui loro effetti; di farlo, cioè, piuttosto che attraverso l’imposizione di una disciplina inderogabile dei rapporti contrattuali, preferibilmente attraverso la correzione dei difetti di informazione, formazione professionale e mobilità che limitano le
possibilità effettive di scelta del lavoratore, generano disoccupazione e pongono anche gli occupati
regolari in posizione di debolezza contrattuale nei confronti dell’imprenditore.
Rispetto alle sue origini, nell’ultimo quarto di secolo e particolarmente con l’Atto Unico Europeo del 28 febbraio 1986 e il trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 la politica del lavoro
dell’Unione Europea è venuta via via arricchendosi di nuovi contenuti, cui hanno corrisposto alcuni
interventi del legislatore comunitario volti alla regolamentazione autoritativa di altrettanti aspetti
inerenti alla costituzione e svolgimento del rapporto individuale - soprattutto in materia di parità di
trattamento e di sicurezza del lavoro - e alla sua cessazione. Ma della politica del lavoro comunitaria non è sostanzialmente cambiata l’ispirazione di fondo, cioè la sua finalizzazione alla correzione
delle distorsioni competitive piuttosto che alla limitazione dell’autonomia negoziale individuale in
funzione dell’imposizione di standard minimi di trattamento. E rimangono escluse dal suo campo di
intervento zone molto estese del diritto sindacale (ivi compresa la disciplina del diritto di sciopero)
e tutta la materia inerente alla determinazione dei minimi retributivi.
13. – Disarmonia e armonizzazione fra i due ordinamenti
Ne è derivata non soltanto una marcata diversità - per questo aspetto - di contenuti normativi
fra l’ordinamento comunitario europeo e quello dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ma
anche qualche attrito non del tutto marginale (26): mi riferisco a quanto è accaduto una prima volta
in materia di lavoro notturno femminile, dove la Corte di Giustizia comunitaria ha ritenuto che il
divieto disposto dagli ordinamenti statali in ottemperanza alla Convenzione O.I.L. n. 89/1948 violasse il principio di parità di trattamento fra uomini e donne (27); una seconda volta in materia di
(26) Sui possibili contrasti fra norme dell’ordinamento O.I.L. e norme dell’ordinamento comunitario v. anche il parere
19 marzo 1993 espresso dalla Corte di Giustizia su richiesta della Commissione in materia di rapporti fra la Comunità
europea e l’O.I.L., in FI, 1994, IV, c. 4, con nota di F. MARTINES. Su quel parere v. inoltre C. ASSANTI, Il ruolo delle
forze sociali nell’OIL nel quadro della costruzione giudiziaria delìl’Europa, in RGL, 1994, I, pp. 103-106.
(27) V. soprattutto Corte Giust. 25 luglio 1991, causa n. C-345/89 (Stoeckel), in FI, 1993, IV, c. 310, con nota di S.
ARBIA; Corte Giust. 13 marzo 1997, causa n. C-197-96 (Comm. C.E. - Rep. francese), in RIDL, 1997, II, 255 con nota
di M. COVI. Sull’intera vicenda v. M. ROCCELLA, Diritto comunitario, diritto internazionale, diritti interni. Ancora sul-
30
servizi privati per l’impiego, dove la Corte di Giustizia comunitaria ha ritenuto lesivo del principio
della libera concorrenza il regime di monopolio pubblico dei servizi di collocamento, previsto invece dalla Convenzione O.I.L. n. 96/1949 (28).
Una significativa disarmonia fra i due ordinamenti si osserva anche per quel che riguarda la
garanzia della libertà di associazione e di attività sindacale, che l’ O.I.L. annovera fra i propri principi fondamentali (convenzioni n. 87/1948 e n. 135/1970), mentre nell’ordinamento comunitario europeo essa è enunciata soltanto nella c.d. Carta dei diritti sociali fondamentali del 1989 (artt. 1113), cui non è riconosciuto dall’ordinamento stesso valore di norma giuridicamente vincolante (29):
onde agli organi dell’Unione sarebbe oggi precluso un intervento sanzionatorio contro lo Stato
membro nel quale la libertà sindacale venisse negata o comunque compressa.
Allo stesso modo, su questo terreno è preclusa tanto l’emanazione di direttive che impongano vincoli, quanto l’adozione di iniziative volte all’armonizzazione delle normative nazionali. Anche questa non casuale astensione dell’ordinamento comunitario si spiega con la considerazione
dell’ambiguità - particolarmente avvertibile e ineliminabile in un sistema economico maturo - del
ruolo dell’associazione sindacale, che può facilmente trascorrere dalla promozione di interessi generali, condivisi da occupati regolari (gli insiders) e disoccupati o irregolari (gli outsiders), alla protezione esclusiva dell’interesse dei primi contro quello dei secondi, con gli effetti di dualizzazione e
sclerosi del mercato del lavoro di cui si è detto sopra.
la questione del lavoro notturno femminile, nella raccolta dello stesso A., La Corte di giustizia e il diritto del lavoro,
Torino, Giappichelli, 1997, pp. 55-83.
(28) Corte Giust. 11 dicembre 1997, causa n. C-55/1996 (Job Centre II), che può leggersi, con i riferimenti al dibattito
dottrinale che l’ha preceduta, in RIDL, 1998, II, p. 22. Gli atti principali del procedimento possono leggersi in Lavoro
interinale e servizi per l’impiego, Milano, Giuffré, 1995, pp. 153-227, per quel che riguarda la sua prima fase, conclusasi con una sentenza interlocutoria della Corte (19 ottobre 1995, Job Centre I, in RIDL, 1996, II, p. 3); in RIDL, 1997,
III, pp. 167-184 per quel che riguarda la seconda fase. La sentenza Job Centre II del 1997 ribadisce e generalizza quanto già affermato - nel senso della ravvisabilità di un abuso di posizione dominante vietato dagli artt. 86 e 90 del Trattato
di Roma nell’imposizione da parte di uno Stato membro di un regime di monopolio pubblico dei servizi di collocamento, quando servizio pubblico non sia in grado di soddisfare compiutamente e adeguatamente la domanda di mercato dalla stessa Corte nella precedente sentenza Macrotron del 23 aprile 1991. Il contrasto con l’ordinamento comunitario
europeo è stato certamente uno dei motivi determinanti che hanno spinto l’O.I.L. ad operare per il superamento della
Conv. n. 96/1949: la Conferenza Internazionale del Lavoro, nel corso della sua 85a sessione, il 3 giugno 1997 ha approvato la nuova Convenzione n. 181/1997 sui servizi per l’impiego, che ha sostituito la precedente (una parte degli atti
preparatori di questa decisione può leggersi in Lavoro interinale e servizi per l’impiego, cit., pp. 29-151).
(29) La Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori è stata approvata il 9 dicembre 1989 a Strasburgo da undici Stati membri della Comunità Europea, ma non dalla Gran Bretagna: ciò che la priva di valore giuridico
nell’ambito dell’ordinamento europeo. Sugli intendimenti che hanno portato alla sua elaborazione e le relative tappe v.
N. CATALA, R. BONNET, Droit social européen, cit., pp. 119-120; AA.VV., A Manifesto for social Europe, Bruxelles,
Eur. Trade Union Institute, 1996, pp. 147-156. Sul difetto di valore giuridico vincolante della Carta nell’ordinamento
comunitario v. anche F. SCARPELLI, Diritto comunitario, diritto sindacale italiano e sistema di relazioni industriali:
principi e compatibilità, in DRI, 1993, n. 1, p. 163; W. WEDDERBURN, Comparazione e armonizzazione nel diritto del
lavoro, in DLRI, 1991, pp. 404 ss.; M. ROCCELLA, T. TREU, Diritto del lavoro della Comunità europea, Padova, Cedam,
1995, pp. 344-350.
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Per questo aspetto la differenza di contenuti fra il diritto del lavoro comunitario e quello
promosso dall’O.I.L. è la stessa che corre fra il diritto del lavoro comunitario e il diritto del lavoro
interno della maggior parte dei Paesi europei continentali, che ormai compie quasi ovunque il secolo di vita. Si è parlato, in proposito, di una “differenza di codice genetico” fra diritto del lavoro nazionale e “diritto sociale” comunitario: dove il primo è visto come il prodotto più rilevante della
democratizzazione dello Stato nazionale, “istituzione politica generale dei suoi cittadini”, mentre il
secondo è visto come il sotto-prodotto di una “istituzione giuridico-amministrativa particolare ...
legittimata democraticamente solo indirettamente ... munita di una forte costituzione economica (le
libertà del Trattato) ma di semplici frammenti di costituzione civile e sociale” (30). Questa lettura
della politica sociale dell’Unione Europea non considera l’ipotesi che il neonato diritto del lavoro
comunitario abbia occhi per vedere ambiguità e disfunzioni delle vecchie tecniche di tutela, che il
diritto del lavoro della prima generazione, più vecchio di almeno mezzo secolo, è assai meno capace di cogliere e valutare.
(30) M. D’ANTONA, Armonizzazione del diritto del lavoro e federalismo nell’Unione europea, in RTDPC, 1994, pp.
695-717; la citazione è tratta dalle pp. 704-705.
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