Card. Albert VANHOYE Cari amici In questo convegno organizzato

MESTRE, 28 MAGGIO 2011 —
ORE 10.00
Card. Albert VANHOYE
LA GIUSTIFICAZIONE PER MEZZO DELLA FEDE
SECONDO LA LETTERA AI GALATI
Cari amici
In
questo convegno organizzato dall’Ufficio per l’evangelizzazione e la
catechesi vi devo parlare della giustificazione per mezzo della fede secondo la Lettera ai
Galati, un tema che può sembrare troppo intellettuale e complicato, ma che, per
l’apostolo Paolo, era d’importanza fondamentale, anzi drammatica. Sapete che la
Lettera ai Galati è stata scritta da S. Paolo in un momento di grave crisi per le comunità
cristiane della provincia della Galazia. Lo si intuisce sin dall’indirizzo di questa lettera,
giacché S. Paolo, invece di presentare se stesso pacatamente come “apostolo di Gesù
Cristo per volontà di Dio” (2 Cor 1,1), prende subito un tono polemico, scrivendo:
“Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù
Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1). Un altro segno della drammaticità della situazione è il
fatto che, dopo il saluto iniziale, S. Paolo non ha cominciato la sua lettera come di solito
con un rendimento di grazie a Dio per i dono ricevuti dai fedeli, ma l’ha cominciato, al
contrario, con un’espressione di stupore di fronte alla posizione presa dai Galati. “Mi
meraviglio, scrive Paolo, mi meraviglio che così in fretta voi passiate a un altro
vangelo” (Gal 1,6). Qual era quest’altro vangelo? Era un vangelo che ignorava la
giustificazione per mezzo della fede in Cristo e proponeva invece la giustificazione per
mezzo dell’osservanza della Legge di Mosè. Paolo, con estremo vigore, si oppose a
questa gravissima deviazione. Per non meno di tre volte in una stessa frase egli respinse
le pretese della Legge e affermò il valore della fede. Scrisse: “sapendo che l’uomo non
viene giustificato per le opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede di Gesù
Cristo, anche noi abbiamo creduto in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede di
Cristo e non per le opere della Legge, poiché per le opere della Legge non verrà
giustificata alcuna carne,” cioè nessun uomo peccatore (Gal 2,16). Non era possibile
essere più tassativo.
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Una prospettiva nuova
Parlando così, S. Paolo prende un punto di vista nuovo per esprimere l’effetto
del mistero pasquale di Cristo: invece di parlare di salvezza, egli parla di
“giustificazione”. La catechesi primitiva annunziava la salvezza. Nel giorno di
Pentecoste, san Pietro esortava gli Ebrei a “salvarsi” (At 2,40). Parlando di Gesù, Pietro
proclamava: “In nessun altro c’è salvezza” (At 4,12); “Crediamo che per la grazia del
Signore Gesù siamo salvati” (At 15,11). San Paolo, invece, non parla mai, nella sua
Lettera ai Galati, né di salvezza, né di salvatore, né di essere salvati, ma parla
unicamente di “giustizia” (Gal 2,21; 3,6.21; 5,5) e di “essere giustificati” (Gal 2,16.17;
3,8.11.24; 5,4).
Perché si esprime così? Perché vuole discutere la funzione della Legge di Mosè
nella vita cristiana, in modo da poter definire gli obblighi dei cristiani venuti dal
paganesimo, in materia di osservanze religiose. Dovevano o non dovevano sottomettersi
alle prescrizioni della Legge, a cominciare con la circoncisione, per continuare poi con
le osservanze alimentari e l’astensione da ogni lavoro i giorni di sabato? C’erano
predicatori cristiani che ritenevano che tutte queste prescrizioni valevano per tutti i
cristiani. Avevano argomenti molto forti, in particolare per l’obbligo di farsi
circoncidere. Infatti, nel capitolo 17 del Libro della Genesi, Dio impone rigorosamente
quell’obbligo, dicendo ad Abramo: “Questa è la mia alleanza che dovete osservare […]:
sia circonciso tra voi ogni maschio. […] Il maschio non circonciso […] sia eliminato
dal suo popolo: ha violato la mia alleanza” (Gv 17,10.14). Con altrettanto rigore era
stata imposta da Dio l’osservanza del sabato. Il Libro dei Numeri riferisce un episodio
molto significativo in proposito. Un uomo era stato sorpreso a raccogliere legna in
giorno di sabato; fu arrestato e condotto a Mosè. “Il Signore disse a Mosè: Quell’uomo
deve essere messo a morte; tutta la comunità lo lapiderà fuori dell’accampamento.” E
così fu fatto (Nm 15,32-36).
La Legge di per sé, definisce ciò che è giusto. Quindi normalmente, per poter
essere riconosciuta giusta, una persona deve osservare la Legge, fare le opere prescritte
dalla Legge. Con una bella audacia, Paolo, nella Lettera ai Galati, prende posizione
contro la Legge, dichiarando che “l’uomo non è giustificato per le opere della Legge,
ma soltanto per mezzo della fede di Gesù Cristo”; “per le opere della Legge non verrà
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giustificata alcuna carne” (Gal 2,16). Con queste dichiarazioni, Paolo contraddice la
prospettiva abituale, secondo la quale l’uomo viene “giustificato”, cioè dichiarato giusto
da Dio, quando ha fatto le opere prescritte dalla Legge. Il giudizio di Dio, infatti, si fa
“secondo le opere”. Nel Salmo 61(62),13 il Salmista dice a Dio: “Secondo le sue opere
tu ripaghi ogni uomo”. Similmente il Libro dei Proverbi dichiara che Dio “renderà a
ciascuno secondo le sue opere” (Pro 24,12). San Paolo conosceva benissimo questa
dottrina. La fa sua nella Lettera ai Romani, quando parla “del giusto giudizio di Dio, che
renderà a ciascuno secondo le sue opere” (Rm 2,5-6). Chi vuole essere “dichiarato
giusto davanti a Dio” deve quindi osservare la Legge promulgata da Dio, deve fare “le
opere della Legge”.
Punto di partenza: tutti sono peccatori
Come mai, allora, può San Paolo dichiarare che le opere della Legge non
servono alla giustificazione della persona? Per capirlo, occorre rendersi conto che San
Paolo ha approfondito la questione della giustificazione, partendo dalla situazione degli
uomini, che sono tutti peccatori. Lo dice e lo ribadisce l’Antico Testamento.
Due salmi dichiarano: “Dio dal cielo si china sui figli dell’uomo
Per vedere se c’è un uomo saggio, uno che cerchi Dio.”
La risposta è:
“Sono tutti traviati, tutti corrotti;
non c’è chi agisca bene, neppure uno” (Sal 14,2-3; 53,3-4).
L’orante del Miserere precisa che l’uomo nasce peccatore, non è mai stato senza colpa.
L’orante lo riconosce dicendo: “Ecco nella colpa io sono nato; nel peccato mi ha
concepito mia madre” (Sal 51,7).
Questa situazione complica molto il problema della giustificazione. Infatti, se il
punto di partenza, per gli uomini, fosse una situazione d’innocenza, basterebbe che essi
adempissero le opere della Legge, il che manterrebbe e confermerebbe la loro situazione
d’innocenza; allora, alla fine, Dio li potrebbe “giustificare”, cioè li potrebbe dichiarare
giusti e accoglierli nel suo cielo.
Invece, un peccatore non può essere dichiarato giusto; egli ha anzitutto bisogno
di essere reso giusto. Troviamo qui un altro significato possibile del verbo “giustificare”
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e del nome “giustificazione” presi non più nel senso dichiarativo, “dichiarare che un
uomo è giusto”, ma in un senso costitutivo, “rendere giusto un uomo”.
Si pone allora una domanda: È forse capace la Legge di “giustificare” in questo
secondo senso, cioè di rendere l’innocenza a un peccatore? La risposta, evidentemente,
è negativa. La Legge non ha alcuna capacità di rendere pura una coscienza macchiata
dal peccato. La Legge può soltanto mettere in rilievo la colpevolezza del peccatore e
condannarlo. Anzi, quando una persona è malvagia, il solo risultato della Legge è quello
di suscitare la voglia della trasgressione. Lo dice san Paolo nella Lettera ai Romani,
dove scrive: “Io non ho conosciuto il peccato se non mediante la Legge. Infatti non
avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: Non avere
concupiscenza. Ma, presa l’occasione, il peccato scatenò in me, mediante il
comandamento, ogni sorta di concupiscenze” (Rm 7,7-8). San Paolo conclude: “La
Legge sopravvenne perché abbondasse la caduta” (Rm 5,20).
Fare “le opere della Legge” è certamente una cosa positiva, che manifesta un
atteggiamento lodevole di docilità a Dio, ma san Paolo osserva che questo non basta per
portare rimedio al male profondo dell’uomo peccatore, il quale è radicalmente incapace
di rendersi giusto lui stesso. Per l’uomo peccatore, fare le opere della Legge è
inevitabilmente un’occasione per insuperbirsi. Lo vediamo molto bene nei vangeli a
proposito dei farisei, che osservavano accuratamente tutti i precetti della Legge e
apparivano “giusti all’esterno,” ma “dentro” erano “pieni d’ipocrisia e d’iniquità” (Mt
23,28). L’ha detto a loro Gesù.
Tre cambiamenti sorprendenti
San Paolo può quindi dichiarare che “l’uomo non viene giustificato per le opere
della Legge” (Gal 2,16). Notiamo che, nel suo modo di presentare il problema della
giustificazione, l’apostolo ha effettuato tre cambiamenti sorprendenti. Nella prospettiva
tradizionale, si ricercava una giustificazione 1) dichiarativa, 2) finale, 3) basata sulle
opere della Legge. Cioè: durante la loro vita, gli Ebrei religiosi si sforzavano di
osservare la Legge di Mosè, nella speranza di essere dichiarati giusti da Dio nel giudizio
finale. San Paolo, invece, ha dimostrato che abbiamo tutti bisogno di una giustificazione
1) non dichiarativa ma costitutiva, 2) non finale, ma iniziale, 3) non basata sulle opere
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della Legge, ma su un dono gratuito di Dio. Cioè: abbiamo tutti bisogno di essere resi
giusti gratuitamente da Dio, per poter incominciare una vita nuova di unione filiale a
Dio. Precisiamo subito che si tratta di un dono di Dio che è gratuito per noi, ma che è
costato caro a Dio. San Paolo, infatti, ci dice che Dio “non ha risparmiato il proprio
Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi” (Rm 8,32) e Cristo ha accolto perfettamente in
se stesso il disegno generoso di suo Padre, “consegnandosi” alla sua Passione e alla
morte per noi (Gal 2,20; Ef 5,2.25). La nostra giustificazione iniziale è costato questo
immenso prezzo.
È quanto mai chiaro che la dottrina di san Paolo è stata fondata sulla
meditazione della Passione di Gesù. Se Gesù ha tanto sofferto ed “è morto per i nostri
peccati” (1 Cor 15,3), questo vuol dire che eravamo tutti profondamente macchiati dal
peccato e incapaci di renderci giusti. Partendo da questa convinzione, san Paolo ha
analizzato le implicazioni dell’atto di adesione alla fede in Cristo. Si è interessato di
questo momento preciso. Egli ha visto che si trattava, in quel momento, di una scelta
fondamentale tra due atteggiamenti religiosi opposti, uno che consiste nel presentarsi a
Dio con le proprie opere conformi alla Legge, per essere “dichiarati giusti”, l’altro che
consiste invece nell’accogliere l’opera di Dio effettuata nella Passione e la risurrezione
di Cristo ed essere così “resi giusti”. Il primo è un atteggiamento orgoglioso di auto
giustificazione; il secondo è un atteggiamento umile di rinuncia all’autogiustificazione
per aprirsi nella fede a un dono divino che comunica gratuitamente la giustificazione.
Credere in Cristo, accoglierlo come colui che “ha dato se stesso per i nostri peccati”
(Gal 1,4) significa riconoscere di essere un peccatore, incapace di rendersi giusto, e
accettare l’opera di redenzione attuata da Cristo. Invece, pretendere di giustificare se
stesso significa dichiarare di non aver bisogno di Cristo per presentarsi davanti a Dio
(cf. Gal 2,21; 5,4). Ma tale pretesa è priva di fondamento, mera illusione.
L’autogiustificazione è un vicolo cieco. Lo diceva già il salmista, rivolgendosi a Dio in
questi termini: “Non chiamare in giudizio il tuo servo: nessun vivente sarà trovato
giusto davanti a te” (letteralmente: “sarà giustificato davanti a te”, Sal 143,2).
San Paolo ricorre a questo testo del Salmo nella Lettera ai Galati per appoggiare
la sua posizione (Gal 2,16) e vi ricorre di nuovo nella Lettera ai Romani (Rm 3,20). In
entrambe le volte egli modifica un dettaglio nella formula del salmo; invece di dire:
“Non sarà giustificato alcun vivente”, Paolo dice letteralmente: “Non sarà giustificata
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alcuna carne, alcun essere carnale”. Naturalmente, le traduzioni non rendono
fedelmente il testo, perché è crudo. La traduzione della CEI nella Lettera ai Galati
mette: “non verrà mai giustificato nessuno” (Gal 2,16) e nella Lettera ai Romani essa
ristabilisce il testo del salmo: “nessun vivente sarà giustificato” (Rm 3,20). La modifica,
però, non manca d’importanza; essa dimostra che san Paolo ha rifiutato di considerare
l’uomo peccatore un vero “vivente”, essendo il peccato morte dell'anima e rifiuto della
vita spirituale. L’uomo peccatore ha assolutamente bisogno di ricevere da Cristo la vera
vita e la vera giustizia.
Esclusione delle opere?
È importante capire bene che san Paolo non parla della giustificazione finale, ma
di una giustificazione iniziale, situata cioè all’inizio della vita cristiana, di cui essa
costituisce la base. Per questa giustificazione iniziale, le opere della Legge sono
completamente inutili e a fortiori le altre opere. Infatti, di per sé le opere della Legge
sarebbero le più qualificate per procurare la giustificazione. Se vengono escluse,
qualsiasi altro genere di opere viene escluso. Per questa ragione, la Lettera agli Efesini
non dice più “le opere della Legge”, ma dice semplicemente “le opere”; in essa
l’apostolo dichiara: “Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da
voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene” (Ef 2,9).
L’esclusione totale delle opere per la giustificazione iniziale non significa che le
opere non avessero poi nessuna funzione nella vita cristiana. Talvolta questa idea viene
attribuita a san Paolo, in particolare dai protestanti. È però un errore completo. Se
avesse propagato questa idea, san Paolo si sarebbe messo in contraddizione flagrante
con l’insegnamento di Gesù stesso, che ha detto: “Chiunque ascolta queste mie parole e
non le mette in pratica sarà simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla
sabbia” (Mt 7,26); la sua rovina sarà grande (cf. Mt 7,27). In realtà, san Paolo spinge
sempre i cristiani all’azione. Lo fa anche nella Lettera ai Galati. Vi afferma che “ciò che
vale è la fede che opera per mezzo dell’amore” (Gal 5,6). San Paolo esorta poi i
cristiani dicendo: “Non stanchiamoci di fare il bene […] Poiché ne abbiamo
l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede” (Gal
6,9.10).
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Parlando così, san Paolo può sembrare contraddire la sua dottrina nella
giustificazione per mezzo della fede senza le opere della Legge, ma in realtà non la
contraddice affatto, perché non mette le opere alla base della vita cristiana; al contrario,
egli mette la fede alla base delle opere: “ciò che vale è la fede che opera”. San Paolo
vuole che le nostre opere siano opere della fede. Possono corrispondere esternamente a
quanto prescrive la Legge, ma internamente non sono un prodotto della Legge, sono un
prodotto della fede, un prodotto della grazia. Da questo punto di vista, possiamo dire
che san Paolo esclude completamente dalla vita cristiana le opere della Legge, perché
tutto nella vita cristiana deve essere basato sulla fede.
Tra Paolo e Giacomo: contrasto o accordo?
Queste nostre riflessioni ci consentono di risolvere adesso un problema difficile,
quello del rapporto tra la dottrina di Giacomo con la dottrina di Paolo. A prima vista, il
rapporto sembra che sia di contrasto. Nella sua Lettera, infatti, Giacomo dichiara:
“L’uomo è giustificato in base a opere e non in base soltanto alla fede” (Gc 2,24),
mentre Paolo dichiara: “L’uomo è giustificato per la fede senza le opere della Legge”
(Rm 3,28; cf. Gal 2,16). Giacomo sembra contraddire Paolo. In realtà, la contraddizione
è soltanto apparente, perché Giacomo non parla della stessa giustificazione né delle
stesse opere. Mentre Paolo parla – l’abbiamo visto – della giustificazione iniziale,
Giacomo parla di quella finale. Poi, mentre Paolo parla delle opere della Legge,
Giacomo parla delle opere della fede. Paolo esclude le opere della Legge per la
giustificazione iniziale; Giacomo esige le opere della fede per la giustificazione finale.
Giacomo dice che la fede deve produrre opere, altrimenti essa “è morta” (Gc 2,17.26),
inesistente. A chi pretendesse di avere la fede senza le opere, Giacomo ribatte:
“Mostrami la tua fede senza le opere e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede” (Gc
2,18). Questa frase dimostra chiaramente che Giacomo sta parlando di opere prodotte
dalla fede, le quali quindi manifestano la fede.
Su questo punto, Paolo è pienamente d’accordo con Giacomo. Ricordiamoci che,
proprio nella Lettera ai Galati, Paolo dichiara: “Ciò che vale è la fede che opera per
mezzo dell’amore” (Gal 5,6). Quando è autentica, la fede produce opere di amore.
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È dunque erroneo contrapporre Giacomo a Paolo sul tema della giustificazione.
Una interpretazione precisa del testo di Giacomo e un raffronto con l’insieme della
dottrina di Paolo hanno per risultato quello di dimostrare che non c’è contraddizione tra
di loro. Tutti e due mettono la fede in Cristo alla base della vita cristiana, tutti e due
esigono che la fede produca opere.
La dimostrazione di san Paolo
Dopo aver affermato energicamente in Gal 2,16 la sua tesi della giustificazione
per mezzo della fede, san Paolo si applica a dimostrare questa tesi. La sua dimostrazione
è molto forte, perché si basa sulla perfetta convergenza di tre sorte di argomenti: un
argomento di fatto storico, un argomento di esperienza personale e un argomento di
Sacra Scrittura. Facciamo questa constatazione sin dall’inizio della dimostrazione, cioè
sin dall’inizio del capitolo terzo. Nel primo versetto, Paolo ricorda il fatto storico della
crocifissione di Gesù Cristo; nei versetti 2 a 5, Paolo ricorda l’esperienza fatta dai Galati
nella loro conversione alla fede in Cristo; poi nel v. 6, Paolo cita un testo della Sacra
Scrittura sulla fede di Abramo che gli ottenne di essere giustificato.
Un evento decisivo: la morte di Gesù
Nel primo versetto, Paolo interpella i Galati dicendo: “O stolti Galati, chi vi ha
ammaliati, voi agli occhi dei quali Gesù Cristo fu rappresentato crocifisso?” (Gal 3,1).
L’interpellanza è dura, anzi offensiva. Anziché dire “fratelli” oppure “carissimi”, Paolo
adopera l’appellativo regionale “Galati” e lo fa precedere da un qualificativo che è un
insulto: “stolti”. Per Paolo, l’atteggiamento preso dai Galati, che cercano di essere
giustificati per mezzo delle opere della Legge, è una completa stoltezza, perché non è
coerente con un fatto che conoscono molto bene, la morte di Gesù sulla croce. Perché
non è coerente con questo fatto? Perché la morte di Gesù è un atto di amore estremo
compiuto per noi da una persona che è il Figlio di Dio, un atto che non può non avere
un valore immenso per la nostra giustificazione; cercare di essere giustificati per mezzo
delle opere della Legge vuol dire negare il valore di questo atto di amore estremo del
Figlio di Dio, Paolo l’ha appena detto nella frase precedente dichiarando che “se la
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giustizia viene per mezzo della Legge, allora Cristo è morto invano” (Gal 2,21). Paolo
rifiuta con orrore questa posizione e proclama: “La vita che vivo adesso nella carne, la
vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me”
(Gal 2,20).
Una esperienza illuminante: il dono dello Spirito
Dopo aver interpellato i Galati e ricordato loro il fatto storico della morte di
Cristo per i nostri peccati, Paolo fa appello alla loro esperienza personale dicendo:
“Questo solo desidero apprendere da voi: È forse in base alle opere della Legge che
avete ricevuto lo Spirito [Santo] o non è piuttosto in base a un ascolto di fede?” A
questa domanda dell’apostolo i Galati erano costretti a rispondere: “Abbiamo ricevuto
lo Spirito in virtù di un ascolto di fede e non in virtù di opere di Legge.” Infatti la Legge
di Mosè, non la conoscevano nemmeno, essendo allora pagani, e Paolo non l’aveva
insegnata loro. Quindi non avevano compiuto le opere prescritte dalla Legge; avevano
dovuto soltanto ascoltare con fede l’annuncio del mistero di Cristo, crocifisso e risorto
per la salvezza del mondo. Con la sua solita audacia, Paolo porta così i Galati a
riconoscere che, nel caso considerato, si trovava contraddetta una regola tradizionale,
quella che afferma: “Non basta l’ascoltare, è necessario il fare”. Gesù esprime questa
regola nella conclusione del suo Discorso della Montagna (Mt 7,24-27). Valida
generalmente, la regola perde la sua validità, quando si tratta della prima tappa della vita
cristiana. Per questa prima tappa, fondamentale, l’atteggiamento richiesto è quello
puramente ricettivo. Lo Spirito Santo è un dono divino, non è il risultato di un’attività
umana. Una volta ricevuto lo Spirito, diventa però possibile, con il suo aiuto potente,
un’attività fondata sulla fede, ed è proprio doverosa, l’abbiamo visto. Però non è così
nella prima tappa.
Un argomento di Scrittura (Gn 15,6)
All’argomento preso dall’esperienza personale dei Galati, Paolo fa seguire un
argomento preso dalla Sacra Scrittura, una frase del libro della Genesi che afferma:
Abramo “credette a Dio e questo gli fu accreditato a giustizia” (Gal 3,6; Gn 15,6).
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L’esperienza dei Galati, che hanno ricevuto lo Spirito Santo in virtù di un ascolto di
fede, corrisponde a quanto dice la Scrittura a proposito di Abramo. In effetti, nel suo
capitolo 15, il Libro della Genesi racconta che Abramo si lamentava perché non aveva
figli. Dio allora «lo condusse fuori e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci
a contarle”; e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”. Egli credette al Signore, che
glielo accreditò come giustizia» (Gn 15,5-6)
La citazione della frase di Gn 15,6 in Gal 3,6 costituisce l’argomento di Scrittura
destinato a provare che la base della vita cristiana non è l’osservanza della Legge, ma
l’ascolto di fede. Il caso di Abramo corrisponde effettivamente alla problematica
definita da san Paolo. Secondo il racconto di Gn 15, in quella circostanza Dio non aveva
comandato niente ad Abramo; gli aveva soltanto fatto una promessa inverosimile, quella
di una discendenza numerosa come le stelle del cielo. Per Abramo, non si trattava
quindi di fare o di non fare qualcosa. Si trattava soltanto di aver fede nella parola di Dio
o di rimanere scettico. Abramo credette a Dio. Similmente per i Galati: al momento
della loro conversione, non si era trattato di osservare la Legge, ma soltanto di credere
all’annuncio del vangelo.
Si pone allora una domanda: che rapporto c’è tra la “giustizia” accreditata ad
Abramo e la giustificazione dei cristiani? Per rendersene conto, occorre ricordarsi che,
nella tradizione biblica, l’idea di giustizia non è un’idea astratta di conformità a una
norma, ma un’idea di relazione tra le persone. È giusto davanti a Dio colui che si trova
in una situazione che gli rende possibile una relazione armoniosa con Dio. Quindi la
frase di Gn 15,6 vuol dire che Dio ha considerato l’atteggiamento di fede di Abramo un
atteggiamento che mette il patriarca in accordo con Lui. L’interpretazione di Paolo si
imposta esattamente in questa prospettiva fermamente definita nell’Antico Testamento.
Paolo certamente approfondisce questo tema in maniera nuova quando parla
della giustificazione dei cristiani per mezzo della sola fede. L’approfondisce alla luce
del mistero pasquale di Cristo e quindi va al di là del testo di Gn 15,6, specialmente
quando pone chiaramente il dilemma tra ascolto di fede e opere della Legge. Agli Ebrei
non veniva minimamente in mente che Gn 15,6 fosse una contrapposizione tra fede e
Legge.
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La fede in Cristo fa diventare figli di Abramo
Appena citata la frase della Genesi, Paolo subito ne trae una conclusione,
dicendo ai Galati: “Riconoscete dunque che coloro che vengono dalla fede, quelli sono
figli di Abramo” (Gal 3,7). La prima parte di questa frase continua il tema della fede.
Designa una categoria di persone che traggono “dalla fede” l’origine del loro essere.
Questa categoria viene implicitamente contrapposta a un’altra, che sarà nominata più
avanti, cioè “tutti quelli che vengono dalle opere della Legge” (Gal 3,10). La seconda
parte della frase introduce, invece, un tema nuovo, quello della filiazione nei riguardi di
Abramo. Questo tema tornerà più avanti con un’altra espressione, “discendenza” invece
di “figli” (Gal 3,16.19.29). Soltanto allora sarà possibile capire il motivo che ha spinto
Paolo a prendere questo tema. Riveliamolo subito: la questione di fondo era quella
dell'eredità di Abramo. Possiamo intuire che era un tema degli avversari di san Paolo, i
cosiddetti “giudaizzanti”. Le promesse di Dio, nell’Antico Testamento, sono per
Abramo e i suoi discendenti. I beni promessi verranno dati a loro e a nessun altro. Il
punto decisivo era quindi quello di entrare nella famiglia di Abramo per essere suoi
eredi. Orbene, secondo il Libro della Genesi (Gn 17,13-14) il mezzo indispensabile per
entrarvi era la circoncisione, la quale porta poi con sé l’obbligo di osservare tutta quanta
la Legge di Mosè. La posizione dei giudaizzanti sembrava quindi molto forte. Paolo ha
fretta di combatterla e perciò afferma subito che è la fede a rendere figli di Abramo,
piuttosto che la circoncisione e le opere prescritte dalla Legge di Mosè.
In ambito biblico, il concetto di filiazione è molto malleabile. A questo punto del
discorso, si può pensare a una filiazione per imitazione. Abramo “credette”; chi crede
rassomiglia ad Abramo e può essere considerato spiritualmente figlio di Abramo. I libri
sapienziali usano il titolo “figlio” per designare il discepolo di un maestro (Pro 1,10;
2,1; 3,1; ecc.). Nella sua Lettera ai Romani, san Paolo insisterà molto sulla paternità
spirituale di Abramo nei confronti dei credenti (Rm 4,11-12.16-18).
Resta però la domanda se un legame di filiazione spirituale possa bastare per
dare accesso all’eredità di Abramo. I giudaizzanti sostenevano che non bastasse. Perciò
più avanti, san Paolo tornerà su questo punto in maniera molto originale. Osserverà che,
in fin dei conti, c’è un solo discendente di Abramo “per il quale è stata fatta la
promessa,” un solo erede, (Gal 3,19), ed è Cristo.
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Però questo erede unico è, nel contempo, innumerevole come le stelle, perché
Cristo accoglie nel suo corpo tutti i credenti. Ai Galati san Paolo scrive: “Quanti siete
stati battezzati [per essere uniti] a Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è giudeo né
greco, non c’è schiavo né uomo libero, non c’è maschio e femmina; tutti voi infatti
siete uno in Cristo Gesù. E se voi siete di Cristo, allora siete discendenza di Abramo,
eredi secondo la promessa” (Gal 3,28-29). Così le obiezioni dei giudaizzanti sono
completamente respinte e la dottrina paolina della giustificazione per mezzo della fede
riceve complementi illuminanti. La fede rende giusti i credenti perché li fa diventare
membra del corpo di Cristo.
In Abramo la benedizione per tutte le nazioni
Dopo aver citato il passo di Gn 15,6, dove si vede che Abramo fu giustificato per
mezzo della fede, san Paolo cita un altro passo del Libro della Genesi, nel quale Dio
dice ad Abramo: “Ti benedirò…diventerai una benedizione… in te saranno benedette
tutte le famiglie della terra” (Gn 12,2-3). In Gal 3,8, san Paolo cita questa ultima frase
che predice che tutte le nazioni avranno una partecipazione della benedizione data da
Dio ad Abramo. Questa predizione divina si trova più volte nella storia di Abramo, con
piccole variazioni, prima all’inizio della sua storia (Gn 12,3), poi nell’importante
episodio delle Querce di Mamre (Gn 18,18), poi dopo il sacrificio di Abramo (Gn
22,18) e infine in una parola di Dio a Isacco (Gn 26,4). Si tratta dunque di un tema
molto importante della storia della salvezza. Poiché, secondo san Paolo, la benedizione
data da Dio ad Abramo è stata anzitutto la sua giustificazione per mezzo della fede, la
predizione divina annunziava che questa giustificazione sarebbe stata offerta a tutte le
nazioni e non soltanto al popolo di Israele. San Paolo dice: «E la Scrittura, prevedendo
che Dio avrebbe giustificato i pagani per la fede, preannunziò ad Abramo: “In te
saranno benedette tutte le nazioni. Di conseguenza, quelli che vengono dalla fede sono
benedetti con Abramo, uomo di fede” (Gal 3,8-9).
È chiaro che la dottrina della giustificazione per la fede senza le opere della
Legge era di estrema importanza per l’apostolato nelle nazioni pagane. Consentiva,
infatti, che i pagani convertiti rimanessero nel loro mondo per tutto ciò che era
compatibile con la fede cristiana. I giudaizzanti, invece, esigevano che i pagani
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convertiti uscissero dal loro mondo e si rinchiudessero nel ghetto ebraico con la pratica
rigorosa delle osservanze ebraiche. San Paolo aveva capito che Dio non voleva questo.
Con il suo mistero pasquale, Cristo ha ottenuto per tutti una vera libertà. Perciò san
Paolo diceva in tutte le comunità cristiane che ciascuno deve rimanere nel suo mondo ed
accogliervi la grazia di Dio. Ai Corinzi san Paolo scrive: “Ciascuno, come il Signore gli
ha assegnato, continui a vivere come era quando Dio lo ha chiamato, così dispongo in
tutte le Chiese […] Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui
era quando è stato chiamato [alla fede]” (1 Cor 7,17.24). Questo è un aspetto
fondamentale, secondo san Paolo, della libertà cristiana, “la nostra libertà”, dice, “che
abbiamo in Cristo Gesù” (Gal 2,4). La dottrina della giustificazione iniziale per mezzo
della fede costituisce la base della libertà cristiana nei confronti della Legge di Mosè.
La maledizione della Legge
San Paolo è molto severo contro questa Legge. Nei versetti 9 e 10 del cap. 3, egli
esprime un forte contrasto tra “quelli che vengono dalla fede” e “quelli che vengono
dalle opere della Legge”; dice: “Quelli che vengono dalla fede sono benedetti con
Abramo, uomo di fede,” mentre “quelli che vengono dalle opere della Legge stanno
sotto una maledizione, poiché sta scritto: Maledetto chiunque non rimane [fedele] a tutte
le cose scritte nel libro della Legge per metterle in pratica” (Gal 3,9-10).
Vanno notate alcune sfumature del testo. Paolo non dice: “Quelli che osservano
la Legge sono maledetti”, il che contraddirebbe direttamente l’Antico Testamento, il
quale promette ampie benedizioni a chi osserva la Legge (cf. Dt 28,1-14), ma Paolo dice
letteralmente: “Tutti quanti sono da opere di Legge sono sotto una maledizione”. La
differenza è considerevole. Paolo si interessa della base adottata per dare valore alla
propria esistenza. “Quelli che sono da opere di Legge” ritengono che il valore della loro
esistenza davanti a Dio provenga dalla conformità delle loro opere alle prescrizioni della
Legge.
D’altra parte, Paolo si guarda dal dire che questi seguaci della Legge sono tutti
maledetti, dice che “sono sotto una maledizione”, cioè si trovano sotto una minaccia di
maledizione, affermazione più sfumata. Per provare questo punto, l’apostolo cita una
frase del Deuteronomio (Dt 27,26). La scelta è eccellente, perché questa frase è la
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conclusione di una serie di non meno di dodici maledizioni. Il testo greco citato da san
Paolo contiene due espressioni di totalità che rendono ancora più terribile la minaccia:
“Maledetto chiunque non rimane [fedele] a tutte le cose scritte nel libro della Legge”. Il
pericolo di maledizione appare gravissimo, anzi, praticamente inevitabile. Infatti, per
scappare alla maledizione, bisogna essersi mantenuti sempre fedeli a tutte le
numerosissime prescrizioni della Legge. La Lettera di Giacomo afferma in proposito:
“Chiunque osservi tutta la Legge, ma la trasgredisca anche in un punto solo, diventa
colpevole di tutto” (Gc 2,10). Mantenersi continuamente fedele all’osservanza perfetta
di tutto sembra umanamente impossibile. L’argomento dunque è forte.
Tornando al tema della giustificazione, san Paolo fa notare l’incompatibilità che
esiste tra il sistema della Legge basato sulle opere e la giustificazione per mezzo della
fede (Gal 3,11-12).
Come Cristo ha abolito la maledizione della Legge
Poi san Paolo ci spiega in che modo Cristo ci abbia liberato dalla maledizione
della Legge, che incombeva su tutti noi. La sua frase esprime il mistero della
redenzione, base della nostra giustificazione, dicendo: «Cristo ci ha riscattati dalla
maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto:
“È maledetto chiunque è appeso al legno”, perché in Cristo Gesù la benedizione di
Abramo passasse ai pagani e noi, mediante la fede ricevessimo la promessa dello
Spirito” (Gal 3,13-14). Questa frase è lunga e sovraccarica, perché san Paolo vi ha
voluto inserire una prova di Scrittura, presa dal Deuteronomio (Dt 21,23).
L’affermazione è paradossale, perché il mezzo adoperato per liberare dalla maledizione
consiste nel “diventare maledizione”. Normalmente, uno che diventa maledizione
propaga la maledizione, la comunica ad altri. Come mai avviene che, diventando egli
stesso maledizione, Cristo ci abbia al contrario liberato dalla maledizione? Per capirlo è
necessario un esame approfondito del testo.
Il passo della Scrittura presentato per dimostrare che Cristo “è diventato
maledizione” è una frase di Dt 21,23 che riguarda i criminali messi a morte e poi appesi
a un palo per essere esposti alla vista di tutti, in modo da produrre un forte effetto di
dissuasione su chi fosse tentato di commettere un crimine simile. Il caso considerato
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non è esattamente quello di una crocifissione, giacché gli Ebrei non infliggevano questo
genere di supplizio, ma la situazione finale in caso di crocifissione era la stessa, quella
di un cadavere “appeso al legno”. Il testo ebraico recita: “Maledizione di Dio un
appeso”. La traduzione greca, invece, dice: “Maledetto da Dio chiunque viene appeso al
legno”. San Paolo segue prima il testo ebraico, dicendo che Cristo è diventato
“maledizione”; egli poi cita la traduzione greca.
Però, nei due casi, possiamo notare una omissione significativa: san Paolo ha
omesso il complemento che parla di Dio. Nel primo caso, egli ha evitato di dire che
Cristo sia diventato “maledizione di Dio”, ha detto soltanto “maledizione”. Similmente
nel secondo caso, non ha detto “maledetto da Dio”, ma ha messo semplicemente
“maledetto”; inoltre, per dire “maledetto” egli ha sostituito il participio greco con una
espressione più vaga, un aggettivo verbale.
Il testo di Paolo suggerisce quindi una distinzione tra “maledizione della Legge”
e “maledizione di Dio”. Cristo si è trovato in una situazione di maledizione legale, la
situazione che di per sé tocca a un uomo colpevole dei crimini più gravi. Però il
rapporto personale di Cristo con Dio non si lascia definire con l’espressione
“maledizione di Dio”, perché, nel caso di Cristo, mancava l’elemento di colpevolezza
personale che attira la maledizione divina. Esternamente, Cristo era “maledizione”, era
un maledetto appeso al legno della croce, ma al livello più profondo era più che mai il
Figlio unito al Padre nell’obbedienza e nell’amore, che dava “se stesso per i nostri
peccati […] secondo la volontà di Dio, nostro Padre”, Paolo ha ricordato questo sin
dall’inizio della sua Lettera (Gal 1,4).
La maledizione che subiva, la subiva al posto e in favore di altre persone; è
“diventato maledizione per noi”, san Paolo ha cura di precisarlo; e questo cambia tutto,
perché questo mette nell’evento orrendo della crocifissione, tutta la forza rinnovatrice
dell'amore che viene da Dio. Alla fine del cap. 2, applicando a se stesso il mistero di
Cristo, san Paolo ha proclamato: “il Figlio di Dio mi ha amato e ha consegnato se stesso
per me” (Gal 2,20).
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Finalità raggiunte
In Gal 3,14 la frase di Paolo viene completata da due proposizioni finali che
esprimono lo scopo raggiunto da Cristo con questo atto stupendo di amore. La prima
proposizione dice che Cristo ottenne così che in lui “la benedizione di Abramo passasse
alle nazioni” cioè alle popolazioni pagane. Questo è il compimento della predizione
fatta da Dio ad Abramo e ricordata poco innanzi da Paolo: “In te saranno benedette tutte
le nazioni” (Gal 3,8; Gn 12,3). Secondo Paolo, l’abbiamo visto, questa “benedizione di
Abramo” consiste anzitutto nella giustificazione dei credenti per mezzo della fede senza
le opere della Legge, giacché “Abramo credette al Signore, che glielo accreditò come
giustizia” (Gn 15,6) senza esigere alcuna opera. Questa giustificazione per mezzo della
fede viene ormai offerta a tutti, e specialmente alla gente delle nazioni pagane, senza
obbligarla a osservare le usanze degli Ebrei.
San Paolo aggiunge una seconda finalità raggiunta da Cristo, la quale va al di là
della giustificazione, perché consiste nel dono dello Spirito Santo. I credenti, infatti, non
sono soltanto resi giusti per mezzo della fede, ma sono anche resi santi grazie al dono
dello Spirito Santo, promesso in alcune profezie dell’Antico Testamento, in particolare
in quella di Ezechiele, la quale, dopo aver promesso una purificazione, che corrisponde
alla giustificazione, promette il dono dello Spirito Santo. Dio promette prima la
purificazione, dicendo: “Vi aspergerò
con acqua pura e sarete purificati; io vi
purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli”. Dio annunzia poi il dono
dello Spirito, dicendo: “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito
nuovo; toglierò dalla vostra carne il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il
mio Spirito dentro di voi” (Ez 36,25-27). Ezechiele non spiega con che mezzo Dio
doveva attuare queste splendide promesse. Lo spiega il Nuovo Testamento; lo spiega
Paolo: è stato necessario che Cristo accettasse con amore di “diventare per noi
maledizione”!
L’implicazione di quanto dice Paolo è che le finalità positive non potevano
essere raggiunte senza che fosse tolta di mezzo “la maledizione della Legge”. Ciò
dimostra che la Legge non era un’imposizione arbitraria, che si sarebbe potuta
semplicemente ignorare per cercare altrove una via di salvezza. La Legge non faceva
altro che rivelare la situazione reale degli uomini. Rivelava che c’era un ostacolo
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all’attuazione della benedizione promessa. Per salvare gli uomini, era dunque necessario
che Cristo si mettesse nella loro situazione e tracciasse una via di uscita. Lo fece,
pagando di persona.
Conclusione
In ciò che segue nella Lettera ai Galati, la prospettiva cambia. Fino a questo
momento, san Paolo ha preso un punto di vista generale; egli ha presentato due principi
possibili su cui costruire la propria vita, la fede e la Legge, e ha mostrato la loro
opposizione. Chi sceglie l’uno, esclude l’altro. L’unico principio valido è la fede, perché
la Legge non può rendere giusto il peccatore, lo può soltanto condannare e punire. La
fede, invece, unisce a Cristo, che è morto per i nostri peccati ed è quindi capace di
liberarcene, rendendoci giusti.
Nei passi successivi, l’apostolo completa la sua dimostrazione, prendendo una
prospettiva più concreta; considera, cioè, le diverse tappe della storia della salvezza, il
che gli consente di manifestare il primato della fede e di ridimensionare l’importanza
della Legge. La fede di Abramo è venuta parecchi secoli prima dell’istituzione della
Legge e similmente la promessa della benedizione per tutte le nazioni grazie a questa
fede. Venuta molto dopo, la Legge non può condizionare l’attuazione della promessa.
La funzione della Legge è stata secondaria e provvisoria. San Paolo insiste quindi sulla
libertà dei cristiani nei confronti della Legge; egli però precisa alla fine che questa
libertà non va confusa con il libertinaggio che si permette tutto. È libertà di vivere
pienamente nella fede in Cristo e nell’amore che viene da Dio. “Ciò che vale, dice
Paolo, è la fede che produce opere di amore” (Gal 5,6).
Albert Card. Vanhoye S.J.