Storia della Pedagogia Raccolta di testi “classici” Indice Platone, p. 2 Aristotele, p. 9 Plutarco, p. 17 Isocrate, p. 24 Cicerone, p. 26 Seneca, p. 30 Quintiliano, p. 36 I Vangeli – Agostino d'Ippona, p. 43 Guarino, p. 48 Vittorino da Feltre, p. 50 L. B. Alberti, p. 53 Erasmo da Rotterdam, p. 58 J. A. Komensky, p. 62 J. Locke, p. 67 J.J. Rousseau, p. 70 F. Froebel, p. 80 J. H. Pestalozzi, p. 84 J. F. Herbart, p. 87 E. Durkheim, p. 90 A. Rosmini, p. 96 Neoidealismo italiano, p.100 M. Montessori, p. 106 Dall'attivismo alle scienze dell'educazione, p. 113. Platone Ebbene, diss'io, mio caro Glaucone1, questa immagine bisogna applicarla tutta a ciò che si è detto dianzi: il mondo visibile somiglia a quel carcere e la luce di quel fuoco alla potenza del sole; e se supponi che la salita verso l'alto e la contemplazione delle cose di lassù rappresentino l'ascesa dell'anima al mondo intelligibile, non t'ingannerai sulla mia opinione, perché è questa appunto che tu desideri di conoscere. Il dio sa se sono nel vero; ma io credo che sia così: che nel mondo intelligibile l'idea del bene sia la più alta e la più difficile a scorgersi, ma che, quando si sia scorta, bisogna concludere che essa è per tutti la causa d'ogni cosa buona e bella; poiché nel mondo visibile ha generato la luce e il signore di questa, e nel mondo intelligibile, dov'essa egualmente signoreggia, ha prodotto la verità e l'intelligenza; e che questa idea è quella che deve conoscere chi voglia condursi saggiamente nella vita privata e nella pubblica. Sono, disse, anch'io del tuo parere, a quanto posso giudicare. Orsù, continuai, sii del mio parere anche in questo, e non meravigliarti che coloro, i quali sono saliti a tanta altezza, non vogliano più occuparsi delle faccende umane; ma che, invece, nella loro anima, aspirino senza posa a vivere lassù; giacché questo, credo, è perfettamente naturale, se, a sua volta, la realtà deve rispondere all'immagine che ne ho tracciata. Perfettamente naturale, disse. E che?, Soggiunsi; ti pare poi strano che uno, discendendo da questa divina contemplazione alle miserie terrene, faccia una magra figura e sembri oltremodo ridicolo, se, mentre ha tuttora la vista abbagliata e prima d'assuefarsi abbastanza alle tenebre che lo circondano, si trovi costretto a contendere nei tribunali o altrove intorno alle ombre del giusto o ai simulacri che le ombre proiettano e a disputare intorno alle interpretazioni che di codeste cose danno quelli che non hanno mai veduto la giustizia in sè? Anche in ciò, disse, non c'è nulla di strano. Però, ripresi, se uno avesse giudizio ricorderebbe che il turbamento nella vista può esser duplice e per una duplice causa, per il passaggio, cioè, dalla luce alle tenebre e per il passaggio dalle tenebre alla luce; e pensando che questi medesimi effetti si producono anche nell'anima, quando ne vedesse alcuna turbata e incapace di discernere qualche cosa, non riderebbe stoltamente, ma cercherebbe di esaminare se stessa, perché venuta da una vita più luminosa, per effetto della insolita novità, si è rabbuiata, o se, perché passata da una maggiore ignoranza ad una luce maggiore, è stata sopraffatta da un più splendido sfolgorio; e perciò appunto l'una la stimerebbe felice della sorte e della vita che le sono toccate, e dall'altra sentirebbe compassione; e se pure di questa volesse ridere, il suo riso sarebbe meno ridicolo di quello di cui rideva per l'anima discesa dall'alto e dalla luce. Ciò che dici, osservò, è perfettamente ragionevole. Or dunque, ripresi, se tutto ciò è vero, dobbiamo concluderne quanto segue: che l'educazione non è tale quale certuni pretendono che sia. Questi, credo, affermano, che quand'anche in un'anima non ci sia la conoscenza, essi possono mettervela, come si metterebbe la vista in occhi ciechi. Difatti lo affermano, disse. Mentre invece, diss'io, il nostro ragionamento ci significa che nell'anima di ognuno di noi c'è la facoltà di apprendere e l'organo mediante il quale ciascuno apprende; e che, come un occhio che non sia capace di volgersi dalla oscurità alla luce, se non con tutto il corpo; così quest'organo dell'anima dev'essere stornato con tutta l'anima da ciò che è divenire, fino a che non si renda capace di contemplare l'essere e contemplarlo nella sua parte più luminosa che è, come affermiamo noi, il bene. O non ti pare? Ma sì. L'educazione, dunque, diss'io, è l'arte di produrre questo rivolgimento, e produrlo nel modo più facile e più proficuo, non quella di mettere nell'uomo la facoltà visiva, ma di procurare a chi già possiede la vista, ma è volto male e non guarda dove dovrebbe, la possibilità di questa conversione. Difatti così pare, disse. Ora si può ammettere che per altre qualità, che si dicono proprie dell'anima, avvenga suppergiù ciò che si verifica per quelle del corpo: che in realtà, pur non essendoci prima, possanno introdurvisi 1 È l'interlocutore principale di Socrate nel dialogo. con l'abitudine e con l'esercizio. Ma la virtù dell'intendere è, mi pare, qualche cosa che, a preferenza d'ogni altra, partecipa del divino; essa non perde mai il suo potere, ma secondo che s'indirizza in un senso o in un altro, diventa utile e giovevole o, viceversa, inutile e dannosa. O non hai forse ancora avvertito, a proposito di quelli che son detti malvagi, ma abili, con quanta penetrazione la loro povera anima veda e con quanto acume discerna le cose a cui si volge, come quella che non ha debole la vista, ma è costretta di servire alla loro malizia; cosicché, quanto più nettamente vede, tanto maggiore è il male che opera? Precisamente, rispose. Or dunque, diss'io, se l'anima dotata d'un tal potere fosse sin dalla fanciullezza liberata e ripulita intorno intorno di quelle parti che, congeneri al divenire, connaturandosi con essa per eccesso di cibo, di piaceri e di ghiottonerie, le formano in giro quasi delle concrezioni plumbee che ne traggono in giù la vista; se, ripeto, liberata di questo peso, fosse volta al vero, anche l'anima di questi medesimi uomini vedrebbe la verità con altrettanta nettezza con quanta vede ora le cose a cui è volta. È probabile, disse. E che?, soggiunsi, non è probabile, anzi necessario, dopo le cose dette, che né quelli che sono incolti e ignari del vero potrebbero mai sovrintendere, come si deve, ad una città, né quelli che siano lasciati trascorrere unicamente negli studi tutta la loro esistenza, gli uni, perché non hanno un ideale nella vita, al quale mirando possano agire sempre come dovrebbero e da privati e da cittadini; gli altri, perché non vi si sobbarcheranno volentieri, dacché stimano d'essere trasmigrati tuttora vivi nelle isole dei beati? È vero, rispose. Ora spetta a noi, fondatori della repubblica, di costringere le nature meglio dotate ad elevarsi a quella disciplina, che nel discorso precedente abbiamo definita la più alta, e vedere il bene e ascendere quella difficile via; e poiché, ascesi, abbiano visto sufficientemente il bene, non permettere ad essi ciò che ora si permette loro. E che è questo? Il rimanervi, diss'io, e non volerne ridiscendere presso quegli incatenati, nè partecipare alle fatiche e alle dignità i laggù, poco o molto che sia il conto che se ne debba fare. Sicché, disse, li tratteremo ingiustamente e li obbligheremo a vivere peggio, quando potrebbero meglio. Ti sei di nuovo dimenticato, mio caro, diss'io, che alla legge non interessa questo: che una sola classe nella città prosperi a scapito d'ogni altra, ma si ingegna di assicurare il benessere a tutto quanto lo Stato, mettendo d'accordo i cittadini mediante la persuasione e la forza, e facendo in guisa che scambievolmente si procurino quei vantaggi, di cui ciascuno di loro è capace d'avvantaggiare il comune; e che, se forma di così fatti cittadini, non lo fa per lasciarli liberi di volgersi ove a ciascuno piaccia, ma per valersene a rinsaldare la compagnia dello Stato. È vero, disse; difatti lo avevo dimenticato. Rifletti, dunque, Glaucone, che non faremo neanche torto a quelli che tra noi diverranno filosofi, ma addurremo loro dei giusti motivi per costringerli ad aver cura degli altri e custodirli. Giacché diremo loro che quelli, i quali nelle altre città divengono filosofi, è ragionevole che non si mescolino alle beghe della vita politica, dacché essi si formano di loro iniziativa e malgrado il governo di ciascuna città; onde è giusto che chi è venuto su di per se stesso, e non è a nessuno in debito del proprio nutrimento, non sia neppur sollecito di pagarne il prezzo a nessuno; ma voi altri, invece, noi v'abbiamo formati nell'interesse vostro e dello Stato, per essere, come negli sciami delle api, condottieri e re, e v'abbiamo educati meglio di quelli e più compiutamente, e resi più capaci d'occuparvi Aad un tempo così di filosofia come di politica. Ciascuno di voi dunque deve a sua volta discendere nella dimora comune e assuefarcisi a contemplare gli oggetti nelle tenebre; perché assuefacendovi a questo, vedrete assai meglio che quelli di laggù, e riconoscerete ciascuna immagine, quale sia e di che, per aver visto i veri esemplari della bellezza, della giustizia e del bene. E così noi e voi costituiremo e governeremo la città vigilando e non sognando, come avviene ora nella maggior parte delle città, per colpa di costoro che combattono tra loro per delle ombre e si contendono accanitamente il potere come se fosse un gran bene. Ma la verità, se io non erro, è questa: che quello Stato, nel quale coloro che son chiamati a reggerlo sono men d'ogni altro premurosi d'assumervi il potere; questo è necessariamente meglio governato e più tranquillo, mentre accade il contrario in quegli stati i cui governanti facciano il contrario. Proprio così, disse. Ebbene, credi tu che i nostri alunni, udendo queste ragioni, ci disobbediranno e si rifiuteranno di collaborare al governo ciascuno a sua volta, pur vivendo tra loro la maggior parte del tempo nella pura contemplazione del bene? Impossibile, rispose, giacché essi sono giusti e noi non prescriviamo loro se non delle cose giuste; ma è indiscutibile che ciascuno di loro si sobbarcherà al potere unicamente come ad un dovere imprescindibile, al contrario di ciò che avviene per i governanti odierni in ogni città. Così è difatti, diss'io, amico mio: se troverai per coloro che sono destinati a governare una condizione di vita migliore di questa, è possibile che la città ti sia ben governata; perché solo in questa governeranno quelli che davvero son ricchi, non di oro, ma di ciò di cui deve esser ricco l'uomo che aspira alla felicità, voglio dire di virtù e di saviezza; mentre non è invece possibile, se degli straccioni e degli affamati di beni individuali s'impadroniscono delle magistrature, stimando di dover carpire da queste il proprio benessere. Giacché, divenendo il potere oggetto di contesa, questa guerra domestica ed intestina sarà la rovina loro e dell'intera città. Verissimo, disse. Or dunque, seguitai, puoi indicarmi qualche altra condizione di vita che disprezzi le cariche politiche, all'infuori di quella del vero filosofo? No, per Zeus, rispose. Ma allora bisogna che non vadano al potere quelli che lo amano appassionatamente; in caso contrario, non mancheranno dei rivali per contrastarglielo. E come no? Chi sono dunque coloro che obbligherai a farsi custodi della città, se non quelli che sono i più sapienti circa il modo di governare uno Stato e conoscono altri onori e una vita preferibile alla vita politica? Non altri, certamente. Vuoi dunque che ora esaminiamo per prima cosa questo: in che modo si formino codesti caratteri e per qual via si possa innalzarli alla luce, come di alcuni si dice che dall'Ade fossero stati assunti tra gli dei? E come non volerlo?, disse. E in ciò, a quanto pare, non si tratta del capovolgimento d'una piastrella, ma del rivolgimento dell'anima da un giorno tenebroso al giorno vero, ad un'ascesa, cioè, verso l'essere, che è, come lo definiamo, il compito della vera filosofia. Senza dubbio. Ti resta dunque, diss'io, da vedere a chi imporremo l'apprendimento di queste scienze e in che modo. Evidentemente, disse. Ebbene, ti ricordi quali siano i governanti che abbiamo scelti in una prima scelta? E come no?, rispose. Pensa dunque che sotto ogni altro riguardo bisogna scegliere quelle nature di uomini che dicevamo: che, cioè, si dovessero preferire i più saldi, i più coraggiosi e, possibilmente, i più belli. Senonché occorre per giunta cercarli non solo d'indole generosa e virile, ma dotati ancora di disposizioni naturali rispondenti all'educazione che ci proponiamo di dar loro. E quali sono, a parer tuo, codeste disposizioni? Bisogna, mio caro, replicai, che abbiano acume per siffatti studi e facilità di apprendere; perché in effetti gli animi si avviliscono ben più nelle difficoltà delle scienze che nelle fatiche del corpo; poiché quel travaglio è proprio dell'anima e non è punto risentito dal corpo. È vero, disse. E bisogna altresì che abbiano memoria tenace, instancabilità nella fatica e trasporto per il lavoro, sotto qualunque forma. O come credi tu che un uomo voglia sobbarcarsi ad un lavoro materiale e ad un tempo persistere sino alla fine nello studio e nella meditazione d'insegnamenti così difficili? Non vorrà certo, rispose, ove non sia d'una tempra eccellente. L'errore odierno, dunque, e il presente discredito della filosofia è nato, come anche prima dicevo, da questo: che di lei non si occupano se non persone indegne; laddove se ne dovrebbero occupare soltanto degli uomini ben nati, e non già degli spiriti bastardi. E come?, domandò. In primo luogo, ripresi, chi dovrà occuparsene, non dev'essere zoppo nell'amore della fatica, cioè mezzo laborioso e mezzo infingardo. Ora questo avviene quando uno ami la ginnastica, la caccia e tutti gli esercizi fisici, e non ami la scienza, la conversazione e le ricerche, anzi abbia una decisa avversione per tutta questa sorta di lavoro. Ma zoppo non è meno colui nel quale l'amore per la fatica abbia preso la direzione affatto contraria. Niente di più vero, disse. Cosicché, diss'io, anche rispetto alla verità per la stessa ragione noi riterremo monca quell'anima che, mentre odia la menzogna volontaria e non la tollera e si duole oltremodo se gli altri mentiscono; sopporti poi facilmente la menzogna involontaria, e, convinta d'ignoranza, non se ne addolori, ma si ravvoltoli nell'ignoranza come un porco nel brago? Proprio, così, disse. E rispetto alla temperanza, diss'io, al coraggio, alla grandezza d'animo e alle altre forme della virtù, non bisogna esser meno accorti nel distinguere lo spirito bastardo dall'uomo ben nato. Poiché quando alcuni, individui o città non importa, non sappiano distingere all'occorrenza, sia che abbiano bisogno d'amici sia che di governanti, senza avvedersene si affideranno a spiriti zoppi e bastardi. Purtroppo è così, disse. Perciò, diss'io, noi dobbiamo star bene in guardia contro tutti questi pericoli; ché, se porteremo ed educheremo ad una disciplina così difficile e a così difficili esercizi degli uomini perfettamente sani di corpo e di mente, la giustizia stessa non potrà rimproverarci, e noi salveremo la città e la costituzione; ma se adduciamo a siffatti studi degli uomini di altra tempra, noi faremo esattamente il contrario, e copriremo la filosofia d'un ridicolo anche maggiore. E sarebbe davvero vergognoso, disse. Senza dubbio, ripresi. Senonché, pare che io stesso anche in questo momento mi esponga in qualche modo al ridicolo. E perché, chiese. Perché dimenticavo, diss'io, che questo non è che un gioco, e parlavo con una vivacità eccessiva. Giacché, mentre parlavo, ho guardato alla filosofia; e, vedutala indegnamente vituperata, mi son sentito offeso, e, montato in collera, ho reagito più aspramente del necessario contro quelli che ne sono causa. Ma no, per Zeus, disse, per quel che m'è parso a udirti. Non però, replicai, per quel che ne pare a me che ho parlato. Comunque, non dimentichiamo che nella prima scelta noi sceglievamo dei vecchi, e qui invece non c'è posto per loro; giacché non isogna prestar fede a Solone che un uomo invecchiando possa imparare molte cose; per un vecchio sarebbe più facile d'imparare a correre. Sono i giovani quelli che possono sopportare delle fatiche grandi e molteplici. Certo, rispose. Sono dunque i fanciulli quelli ai quali bisogna proporre lo studio dell'aritmetica, della geometria e delle altre scienze che servono di preparazione alla dialettica, senza però dare a quest'insegnamento la forma di costrizione. E perché? Perché, dissi, nessuna scienza l'uomo libero deve imparare da schiavo. Difatti le fatiche del corpo, quand'anche imposte per forza, non nuocciono al corpo; ma nell'anima nessuna disciplina imposta con la forza vi rimande durevolmente. È vero, disse. E però, ripresi, mio eccellente amico, farai in modo che per i ragazzi lo studio non sia una forma di costrizione, ma un diletto, affinché tu possa scorgere anche meglio a che sia ciascuno naturalmente inclinato. Quello che dici, osservò, è molto ragionevole. E ti ricordi, diss'io, che noi dicevamo come anche in guerra i fanciulli vi si dovessero condurre a cavallo, quali spettatori; e quando si potesse senza pericolo, avvicinarli alla mischia e far loro gustare il sangue, come si fa coi cuccioli? Me ne ricordo, rispose. E chi, diss'io, in tutti questi travagli e studi e pericoli appaia sempre il più solerte, bisogna porlo in un gruppo speciale. E a quale età?, disse. Quando, ripresi, siano liberi dai necessari esercizi ginnastici; giacché in questo periodo, che può durare due o tre anni, è impossibile che facciano altro, visto che la fatica e il sonno sono nemici dello studio. E questa è anche una prova, e non la mneo importante, per discernere quale ciascuno si dimostri negli esercizi fisici. E come no?, disse. Dopo questo periodo, continuai, a cominciare dall'età di vent'anni, i prescelti conseguiranno onori maggiori degli altri, e quelle discpline che confusamente avevano apprese da fanciulli, bisognerà presentarle ad essi in una coordinazione che permetta loro di vedere le affinità reciproche delle scienze e la loro natura dell'essere. È vero, disse; soltanto l'insegnamento dato così può porre salde radici in quelli a cui si è impartito. Ed è anche, ripresi, la miglior prova per saggiare se una natura è dialettica o no; giacché chi è capace di cogliere le cose nel loro insieme è dialettico; chi no, no. D'accordo, disse. Sicché, diss'io, considerando tutte queste cose, quelli che tra loro siano soprattutto di questa tempra, saldi negli studi, sladi nella guerra e negli altri cimenti imposti dalla legge; costoro, quando abbiano oltrepassato i trent'anni, li presceglierai tra i prescelti, li eleverai a più grandi onori e, mettendoli alla prova con la dialettica, esaminerai chi rinunziando a valersi degli occhi e d'ogni altro senso, possa elevarsi all'essere in sè e alla verità; ed è qui, amico mio, che occorrono le maggiori precauzioni. E perché?, chiese. E non rifletti, risposi, al male che ora si verifica nel campo della dialettica, e quanto un tal male sia grande? Ma qual è questo male?, domandò. Il disordine, risposi, di cui è divenuto pieno quel campo. Purtroppo!, disse. Ebbene, credi tu, ripresi, che ci si debba meravigliare di quanto accade a questi nuovi dialettici, e non sei propenso a perdonarli? E perché?, disse. Se, diss'io, per esempio, un fanciullo fosse allevato in mezzo a grandi ricchezze, in una famiglia numerosa e nobile, tra molti adulatori, e, fattosi uomo, s'avvedesse di non essere figlio di quelli che si pretendevano suoi genitori, e i suoi genitori veri non riuscisse a trovarli; puoi tu indovinare quali sarebbero i suoi sentimenti verso gli adulatori e verso i pretesi parenti, così quando non sapeva ancora nulla della sua supposizione, come dopo che venne a saperlo? O vuoi sentire quel che ne immagino io? Voglio sentirlo, rispose. Io, dunque, dissi, immagino che egli avrebbe maggior rispetto per il padre e la madre e gli altri che ritiene suoi parenti, piuttosto che per gli adulatori; soffrirebbe di vederli in bisogno, cercherebbe di non commettere o dire qualcosa sconveniente contro di loro, e nelle cose più importanti disobbedirebbe loro meno che agli adulatori, durante il tempo nel quale ignorasse la verità. È più che probabile, disse. Ma non appena sapesse la verità, immagino al contrario che non sentirebbe più per loro lo stesso rispetto, non ne avrebbe più la stessa cura; mentre crescerebbero le sue attenzioni per gli adulatori, obbedirebbe a questi ben più di prima, vivrebbe subito a modo loro, si unirebbe con loro pubblicamente, e di quel padre e di quei supposti parenti, salvo che non fosse d'animo eccellente, non si curerebbe né punto, né poco. Tu dici, osservò, proprio quel che avverrebbe. Ma in che mai questo paragone si applica a quelgi altri, ai cultori della dialettica? In questo: noi, credo, fin da bambini abbiamo certi principi sul giusto e sull'onesto, e in questi principi siamo educati come da genitori, seguendoli e rispettandoli. Così è. Ci sono però anche altre consuetudini di vita, contrarie a quei principi e seducenti, che adulano la nostra anima e la conquistano, ma che non persuadono quanti non manchino di saggezza; e questi rispettano quei principi nei quali furono educati ed obbediscono ad essi. È vero. E che?, diss'io. Quando ad un uomo così disposto si presenti la domanda: che cosa è l'onesto? E, poiché egli risponde ciò che ha udito dal legislatore, si veda redarguito dal ragionamento; e, dopo d'essere stato più volte e in più modi redarguito, cada nell'opinione che quel che ha risposto non è punto più onesto che disonesto, e altrettanto gli avvenga circa il giusto, il bene e i principi che aveva soprattutto in onore; dopo ciò, quale rispetto o quale obbedienza credi tu che egli possa ancora avere per quei principi? Necessariamente, disse, non li rispetterà più allo stesso modo, né obbedirà loro. Allorché, dunque, ripresi, egli non li giudicherà più né rispettabili, né appropriati a sè come per l'innanzi, e non troverà quali siano i veri, potrà forse volgersi ad un altro tenore di vita, o è verosimile che si abbandoni a quello che aduli le sue tendenze? Non potrà fare altrimenti, disse. E diverrà perciò, credo, ribelle alle leggi da sottomesso che era. Per forza. È dunque naturale, dissi, che questo capiti a quanti così si occupino della dialettica e che perciò, come testé dicevo, questi meritino molta indulgenza. E compassione anche, soggiunse. Affinché dunque tu non debba sentire questa compassione per uomini di trent'anni, devi essere molto cauto, prima di metterli allo studio della dialettica. Certamente, disse. Ebbene, non è già una prima ed eccellente precauzione questa: che non ne gustino, mentre sono tuttora giovani? Giacché, penso, non ti sarà sfuggito che i giovanetti, non appena gustino dei ragionamenti, ne abusano come d'un gioco; imitando quelli che redarguiscono, redarguiscono a loro volta gli altri, e godono, come dei cuccioli, a lacerare e sbranare col ragionamento chiunque capiti loro tra i piedi. E come!, disse. Cosicché, quando abbiano redarguito molti e da molti siano stati redarguiti, di colpo e subito precipitano nel non credere in nessuna delle cose in cui prima credevano; e per questo non solo essi, ma tutto ciò che sa di filosofia cade in discredito presso la generalità. Verissimo, disse. Chi invece, ripresi, è alquanto innanzi negli anni on si lascerà vincere da questa mania, e imiterà invece chi vuol valersi della dialettica per investigare il vero, piuttosto che chi, servendosene come d'un gioco, si diverta solo a contraddire; e, mostrandosi egli stesso più misurato, farà sì che tutta quanta la professione di filosofo acquisti pregio e non cada in discredito. Giustissimo, disse. E perciò, appunto, in vista di una simile cautela, si è detto quel che prima si è detto: che coloro i quali si destinano allo studio della dialettica, dovessero essere nature moderate e salde e che, al contrario di ciò che si verifica ora, non vi si lasciasse accostare il primo venuto, ancorché non vi sia per nulla disposto. Proprio così, disse. E per chi si applica allo studio della dialettica intensamente e assiduamente, senza occuparsi d'altro, come contrapposto agli esercizi fisici, non basterà forse il doppio del tempo richiesto per questi? Vuodi, domandò, o sei o quattro anni? Via, ripresi, mettine cinque. Perché dopo questo periodo dovrai farli scendere di nuovo in quella caverna e costringerli a rendersi padroni delle arti della guerra e di tutti gli uffici propri ai giovani, affinché quanto ad esperienza non la cedano a nessuno; e per di più anche in questi devono essere messi a prova per constatare se rimangono saldi, tirati come sono in ogni senso, o se finiscono per cedere. E quanto tempo, diss'egli, assegni a queste prove? Quindici anni, risposi. E di quelli che abbiano raggiunto i cinquant'anni, quanti siano sopravvissuti e si siano distinti in ogni modo e in ogni cosa, così nelle fatiche come nelle scienze, bisogna condurli subito verso il compimento della loro educazione e costringerli a rivolgere la virtù visiva dell'anima alla contemplazione di quello che ministra a tutti la luce; sicché, vedendo il bene in sè, e usandone come di un modello, spendano il resto della vita nel render migliori lo Stato, i privati e se stessi, ciascuno a sua volta impiegando la maggior parte del tempo nello studio della filosofia; e, quando giunga la loro volta, sobbarcandosi alle fatiche civili, assumendo successivamente il potere per il meglio della città, ed esercitandolo, non come qualche cosa di bello, ma come qualche cosa di necessario; e così, educando altri sempre simili a sè, e lasciandoli in vece propria a custodi della città, se ne vadano ad abitare nell'isola dei beati. Lo Stato poi consacrerà loro monumenti e sacrifici a pubbliche spese, come a demoni, se anche la Pitia vi consentirà, o se no, come ad uomini felici e divini. Tu, disse, Socrate, come un abile artista ci hai scolpito dei reggitori d'un insuperabile bellezza. Ed anche delle reggitrici, Glaucone, diss'io; giacché non credere che io abbia detto ciò che ho detto, riferendomi agli uomini piuttosto che alle donne, quante tra loro siano per natura idonee al governo. E giustamente, disse, se le donne dovranno avere in tutto le stesse mansioni degli uomini, come si è visto. E che?, ripresi; concedete coi che intorno alla città e alla sua costituzione noi non abbiamo manifestato dei sogni, ma delle cose, quantunque difficili, non sono irrealizzabili, a patto però che si segua la via indicata da noi e si mettano a capo della città dei veri filosofi, uno o più non cambia, che sprezzino quelli che ora si tengono per onori, stimandoli indegni di un uomo libero e dstituiti di qualsiasi valore, ma pregiando in sommo grado la rettitudine e gli onori che ne derivano; e, guardando alla giustizia, come a ciò che v'è di più importante e di più necessario, e servendola e facendola fiorire, si consacrino all'ordinamento della propria città? E come?, disse. Quanti, diss'io, tra i cittadini abbiano superato dieci anni, li manderanno tutti nei campi, e i più piccini, dopo di averli sottratti alle abitudini presenti, che son poi quelle dei genitori, li educheranno nei propri costumi e secondo quelle leggi che abbiamo partitamente esposte. O non ti pare questa la via più sollecita e più facile, per stabilire la costituzione che abbiamo disegnata, in una città che sarà essa stessa più felice e gioverà immensamente al popolo in cui nasca? Certo, rispose; ed io penso, Socrate, che tu abbia bene esposto come potrebbe nascere, se mai dovesse nascere. E così, diss'io, non s'è parlato abbastanza e di codesta città e dell'uomo che le somiglia? Perché anche di costui è, credo, chiaro quale diciamo che debba essere. Chiaro, certo; e, per rispondere alla tua domanda, dirò che l'argomento mi sembra esaurito. E sta bene; su questo dunque noi siamo ora d'accordo: che in una città ordinata nel miglior modo possibile debbano essere comuni le donne, i figli e, oltre tutta l'educazione, anche gli uffici in guerra e in pace, e il potere regale debba esservi esercitato da coloro che siano divenuti eccellenti negli studi filosofici, come in quelli concernenti la guerra. (Platone, La Repubblica, l. VII). Aristotele Chi vuol fare una ricerca conveniente sulla costituzione migliore deve precisare dapprima qual è il modo di vita più desiderabile. Se questo rimane sconosciuto, di necessità rimane sconosciuta anche la costituzione migliore, perché è naturale che stiano nel modo migliore quelli che nelle loro reali condizioni si governano nel modo migliore, sempre che non capiti qualcosa di imprevisto. Per ciò bisogna dapprima accordarsi su questo: qual è il modo di vita più desiderabile per tutti, diciamo così, poi, se è lo stesso per la comunità e per gli individui presi singolarmente o diverso. Pensando, dunque, d'aver parlato a sufficienza anche negli scritti essoterici sulla forma di vita migliore, dobbiamo servircene adesso. In verità, riportandoci a una sola distinzione dei beni, dal momento che ce ne sono tre specie, quelli esterni, quelli del corpo e quelli dell'anima, nessuno può dubitare che chi è beato li deve possedere tutti quanti: e infatti nessuno direbbe beato chi non ha neppure un po' di coraggio, né di temperanza, né di giustizia, né di prudenza, ma sta in apprensione per le mosche ronzanti, non indietreggia di fronte a nessuna delle azioni peggiori, se ha brama di mangiare o di bere, tradisce per un quarto d'obolo gli amici più cari e parimenti è così insensato e sviato nell'intelletto come un bambino o un folle. Ma queste cose, quando si dicono, le accetterebbero tutti, mentre poi discordano riguardo alla quantità che desiderano di ogni bene e alla loro relativa superiorità. Così di virtù ritengono sufficiente averene una quantità qualsiasi, di ricchezze, invece, di beni, di potenza, di fama e di tutte le altre cose simili cercano un accrescimento illimitato. Noi diremo a costoro che su tale questione è facile arrivare a una convinzione, fondandosi sulla prova dei fatti, giacché si vede che gli uomini acquistano e mantengono non le virtù coi beni esterni ma questi con quelle, e che la vita felice, consista nel godere o nella virtù o in entrambi, compete maggiormente a quelli che curano in sommo grado il carattere e l'intelletto e hanno un possesso modesto di beni esterni anziché a coloro che possiedono di questi più di quanto non esiga il bisogno e mancano in quelli. Non solo, ma anche a chi lo considera alla luce della ragione, il problema diventa ben comprensibile. I beni esterni hanno un limite, come uno strumento, e ogni cosa utile serve a una cosa determinata: ora una sovrabbondanza di questi necessariamente danneggia o non comporta utilità alcune a chi li possiede, mentre ciascun bene dell'anima, quanto più è in sovrabbondanza, tanto più è utile, se si deve attribuire a tali beni non solo la bellezza, ma anche l'utilità. Diremo insomma, com'è chiaro, che la disposizione migliore di ciascuna cosa, quando si mettono a confronto le une con le altre, è in rapporto alla superiorità che hanno le cose, alle quali diciamo che quelle disposizioni appartengono. Quindi se l'anima, e assolutamente e rispetto a noi, ha più valore degli averi e del corpo, di necessità la disposizione migliore di ciascuna di queste cose sta nello stesso rapporto che le cose stesse. Inoltre in vista dell'anima queste cose sono naturalmente desiderabili e tutte le persone assennate le devono desiderare, e non invece l'anima in vista di quelle. Si ammetta dunque di comune accordo che a ognuno tocca tanta felicità quanta virtù, prudenza e attività informata a prudenza e virtù: e ci appelliamo alla testimonianza di dio il quale è felice e beato, ma non per qualche bene esterno, bensì per se stesso e per avere una determinata natura – ed è per questo che necessariamente la buona fortuna è diversa dalla felicità (ché dei beni esterni all'anima causa è il caso e la fortuna, mentre nessuno è giusto o temperante per caso o in forza del caso), viene di seguito, e in base agli stessi ragionamenti, che lo stato migliore è felice e sta bene: ma è impossibile che stiano bene quelli che non compiono belle azioni; ora nessuna bella azione si dà né di uomo né di stato senza virtù e prudenza; d'altronde il coraggio, la giustizia, la prudenza e la saggezza d'uno stato hanno la stessa forza e la stessa natura di quelle che deve avere un uomo per essere detto valoroso e giusto e prudente e saggio. Queste cose dunque, entro tali limiti, siano il proemio al ragionamento, in realtà non è possibile non toccarle né si possono considerare tutti gli argomenti come si conviene perché sono materia d'un'altra trattazione. Basti ora stabilire questo, che la vita migliore per ciascuno, da un punto di vista individuale, e per gli stati, da un punto di vista collettivo, è quella vissuta con la virtù, provvista di mezzi adatti a compiere azioni virtuose. A quanti poi muovono obiezioni, tralasciandoli per ora durante questa ricerca, s'ha da prenderli in considerazione più avanti, se qualcuno per caso non rimane persuaso da quel che si dice. Resta da dire se bisogna ammettere che la felicità di ciascun uomo nella sua singolarità e dello stato sia la stessa o non la stessa. Ma è chiaro anche questo: tutti dovrebbero convenire che è la stessa. In effetti quanti a proposito del singolo fanno consistere la vita felice nelle ricchezze, costoro ritengono beato uno stato nella sua totalità se è ricco; quanti pregiano sopra ogni cosa la vita tirannica, costoro dovranno ammettere che lo stato più felice è quello che ha il più grande dominio; chi approva un individuo per la virtù, dirà che più felice è lo stato che è più morale. Ma ecco due problemi che hanno bisogno di esame: uno, se è preferibile la vita che comporta la partecipazione attiva allo stato e alle cariche pubbliche o piuttosto quella che si estrania e si ritira da tale partecipazione attiva, l'altro quale costituzione e quale disposizione si deve ritenere migliore per uno stato, sia che tutti intendano partecipare alla vita politica, o, se alcuni no, i più sì. Ora poiché questo problema rientra nella speculazione e nella dottrina politica e non l'altro che prende in esame ciò che è desiderabile per l'individuo, e poiché noi ci siamo accinti sul momento a un'indagine politica, il primo problema dovrebbe essere accessorio, il secondo, invece, materia di questa ricerca. Che la costituzione migliore sia di necessità quell'ordinamento sotto il quale ognuno può stare nel modo migliore e vivere in modo beato, è evidente: si discute, invece, anche da parte di quanti ammettono che desiderabile soprattutto è la vita vissuta con virtù, se è desiderabile la vita politica e attiva o piuttosto quella sciolta da ogni cosa esterna, come ad esempio una qualche forma di vita contemplativa che alcuni dicono essere l'unica propria del filosofo. Perché sono questi, più o meno, i due generi di vita che sembra abbiano scelto gli uomini più ambiziosi di virtù, sia tra gli antichi sia tra i moderni, voglio dire quello della politica e quello della filosofia. E non conta poco sapere in quale dei due stia il vero, perché di necessità chi è assennato dispone le sue cose verso il fine migliore, sia ciascun uomo in particolare, sia collettivamente lo stato. Alcuni ritengono che il governo sugli altri, esercitato in maniera dispotica, somporta un'ingiustizia suprema, in maniera conveniente a cittadini, invece, non implica ingiustizia, ma reca impedimento al benessere personale. Altri si trovano a ragionare quasi dal punto di vista opposto a questi, che cioè la vita attiva e politica è l'unica adatta all'uomo, poiché ogni virtù può essere praticata da chi vive vita privata non meno che da quanti si danno agli affari pubblici e alla politica. Alcuni, dunque, pensano così mentre altri dicono che la forma di costituzione despotica e tirannica sia l'unica beata: anzi presso alcuni popoli il fine delle leggi e della costituzione è proprio questo, esercitare un governo dispotico sugli altri. Perciò sebbene la maggior parte delle prescrizioni legali in vigore presso la maggior parte degli stati si trovi, diciamo così, in condizione caotica, tuttavia se mai c'è un fine al quale le leggi tendono, questo è in tutte il predominio: per esempio a Sparta e a Creta l'educazione e l'intero corpo delle leggi è ordinato, più o meno, in vista della guerra: così pure tra tutti i popoli non ellenici che sono in grado di espandersi, è in grande onore la potenza militare, per esempio tra gli Sciti, i Persiani, i Traci, i Celti. [...] Eppure a chi voglia riflettere potrebbe forse sembrare davvero strano che compito dell'uomo di stato sia poter esaminare i mezzi per dominare e tiranneggiare gli altri, volenti o non volenti. Come potrebbe essere degno di un uomo di stato o d'un legislatore ciò che non è legale? E non è legale dominare, non solo secondo giustizia, ma anche contro giustizia; e si può esercitare la forza anche ingiustamente. [...] Quanto a coloro i quali ammettono che la vita di virtù è la più desiderabile, ma dissentono sul modo di realizzarla, noi dobbiamo dire a entrambi (in effetti, gli uni disapprovano l'accesso alle cariche dello stato, pensando che la vita dell'uomo libero è differente da quella dell'uomo di stato ed è la più desiderabile di tutte, gli altri, invece, ritengono che è questa la migliore: è impossibile, in realtà, che stia bene chi non fa niente, e, d'altra parte, lo star bene e la felicità sono lo stesso) che entrambi affermano qualcosa a ragione, qualcosa non a ragione: i primi che la vita dell'uomo libero è superiore a quella del padrone. Ciò è vero perché non c'è niente di elevato nell'usare uno schiavo in quanto schiavo: e dar ordini riguardanti le cose necessarie alla vita non ha niente di bello. Però, ritenere che ogni sorta di governo sia simile a quello del padrone non è esatto, perché l'autorità esercitata sui liberi differisce da quella sugli schiavi non meno che la natura dell'uomo libero dalla natura dello schiavo. [...] Ma esaltare l'inazione più che l'azione non risponde a verità perché la felicità è attività e le azioni degli uomini giusti e temperanti riescono a molti e nobili risultati. Sulla base di tali distinzioni si potrebbe forse supporre che il potere supremo sia la cosa migliore di tutte, perché in tal modo si avrebbe la possibilità di compiere moltissime e nobilissime azioni. Di conseguenza chi fosse in grado di dominare non dovrebbe cedere il suo dominio ad altri, ma piuttosto toglierlo a costoro, senza nessun riguardo né di padre verso i figli, né di figli verso il padre, né insomma di amico verso l'amico, senza preoccuparsi di niente di fronte ad esso, poiché il meglio è ciò che più si desidera e lo star bene è il meglio. Ora questo lo direbbero forse a ragione se agli usurpatori e ai violenti toccasse quel che di più desiderabile esiste; ma forse non è possibile che ciò s'avveri e quindi si fondano su una supposizione falsa. Perché non è possibile che siano nobili le azioni di chi non abbia tanta superiorità quanta è quella dell'uomo rispetto alla donna, o del padre rispetto ai figli, o del padrone rispetto ai servi: quindi il trasgressore non potrà mai più in seguito riparare nella stessa misura il fallo che ha commesso trasgredendo la virtù. Uomini uguali devono avere a turno quel che è nobile e giusto, perché questo risponde a un criterio di parità e di uguaglianza, mentre è contro natura che uomini pari abbiano ciò che non è pari e uomini uguali quel che non è uguale: e niente di quel che è contro natura è bello. Pertanto se c'è qualcuno superiore per virtù e per capacità pratica nelle azioni più importanti, è bello seguirlo e giusto obbedirgli. Bisogna che comunque costui abbia non solo la virtù ma anche la capacità che lo renda bravo nell'azione. Ma se queste cose sono dette a ragione e la felicità deve definirsi star bene, ottima vita sarebbe allora quella attiva e collettivamente per l'intero stato e per ciascun uomo singolarmente. Però la vita attiva non è necessario che sia tale in rapporto agli altri, come pensano alcuni, né solo pratici sono quei pensieri che dall'agire sono realizzati in vista di risultati concreti, ma piuttosto quei ragionamenti e quei pensieri che hanno in se stessi il fine e sono realizzati per se stessi; in realtà lo star bene è fine e perciò una certa forma di attività. Soprattutto poi diciamo che agiscono in senso proprio, anche nel caso di azioni esterne, quelli che dirigono l'agire coi pensieri. Pure gli stati che vivono in se stessi e preferiscono tal genere di vita, non è necessario che siano inattivi, perché è possibile che l'azione si abbia in rapporto alle diverse parti dello stato, giacché tali parti hanno molte relazioni tra loro. Allo stesso modo questo può capitare in rapporto a un qualsiasi individuo perché allora dio e l'universo intero difficilmente starebbero bene dal momento che non hanno attività esterne oltre quelle che sono proprie di loro. È pertanto chiaro che la stessa vita di necessità sia la migliore e per ciascuno degli uomini e, collettivamente, per gli stati e per gli uomini. [...] Che tutti desiderino il vivere bene e la felicità, è evidente: ma taluni hanno la possibilità di ottenerli, altri no, sia per circostanze fortuite o naturali [...] altri, poi, pur avendone la possibilità, non cercano già in partenza come si deve la felicità. Ora poiché l'oggetto che ci proponiamo è di scoprire la costituzione migliore, quella cioè sotto la quale uno stato può essere governato nel modo migliore, e poiché uno stato sarà governato nel modo migliore sotto la costituzione che gli garantisce di essere felice al massimo, è chiaro che non ci deve sfuggire che co'è la felicità. Noi diciamo [...] che è perfetta attività e pratica di virtù, e non condizionatamente, ma assolutamente. Quando dico condizionatamente mi riferisco alle cose necessarie, quando dico assolutamente intendo nobilmente. [...] L'uomo virtuoso userà nobilmente senza dubbio e della povertà e della malattia e degli altri colpi della cattiva sorte, ma la beatitudine consiste nei loro opposti (e anche questo è stato definito secondo gli argomenti dell'etica, che cioè l'uomo buono è colui per il quale, a causa della virtù, beni sono i beni assoluti; è chiaro, quindi, che anche l'uso deve essere, esso pure, virutoso ebuono assolutamente) e per questo gli uomini ritengono che i beni esterni siano causa della felicità, come se di un citareggiare brillante e bello ritenessero causa lo strumento più che l'arte del citaredo. [...] Ora gli uomini diventano buoni e virtuosi col concorso di tre fattori e questi tre fattori sono la natura, l'abitudine, la ragione. In primo luogo bisogna avere la natura qual è quella dell'uomo e non di uno degli altri animali, poi bisogna avere una certa qualità nel corpo e nell'anima. Ma con certe qualità non giova affatto nascerci, perché le abitudini le fanno mutare e in effetti talune qualità, che per natura tnedono in entrambe le direzioni, sotto la spinta dell'abitudine vanno verso il peggio o verso il meglio. Ora gli altri animali vivono essenzialmente guidati da natura, taluni, ma entro limiti ristretti, anche dall'abitudine, e l'uomo pure dalla ragione perché egli solo possiede la ragione: di conseguenza in lui questi tre fattori devono consonare l'uno con l'altro. Spesso gli uomini agiscono contro le abitudini e la natura proprio in forza della ragione, se sono convinti che sia preferibile agire diversamente. Abbiamo precisato in precedenza quale dev'essere la natura di coloro che vogliono riuscire maneggevoli al legislatore; il resto è ormai opera d'educazione, e, in effetti, essi apprendono talune cose mediante l'abitudine, altre mediante precetti orali. [...] Si distinguono due parti dell'anima: l'una possiede per se stessa la ragione, l'altra non la possiede per se stessa, ma è in grado di obbedire alla ragione; ad esse noi diciamo che appartengono le virtù in rapporto a cui l'uomo è detto in qualche modo buono. Ma in quale di queste due risieda maggiormente il fine, non è incerto come devono rispondere quanti le distinguono nel modo che diciamo noi. L'inferiore, infatti, esiste sempre in vista del superiore e questo è in egual modo evidente e nei prodotti artificiali e in quelli naturali – e superiore è la parte che ha la ragione. Ora la ragione è distinta in due secondo il nostro comune schema di divisione; c'è una ragione pratica e una teoretica: è chiaro, quindi, che pure questa parte sia divisa necessariamente nella stessa guisa. Anche le attività dell'anima diremo che stanno in relazione analoga e che quelle della parte superiore per natura devono essere preferibili per quanti sono in grado di raggiungere o tutte le attività dell'anima o due: in effetti, la cosa sopra tutte preferibile per ciascuno è sempre ciò che rappresenta il termine più alto da raggiungersi. Ora la vita tutta si divide in attività e ozio, in guerra e pace, e delle azioni talune sono necessarie e utili, altre belle. A loro riguardo si deve fare la stessa distinzione che s'è fatta per le parti dell'anima e per le loro attività: la guerra dev'essere in vista della pace, l'attività in vista dell'ozio, le cose necessarie e utili in vista di quelle belle. L'uomo di stato deve legiferare badando a tutto questo, sia per quanto riguarda le parti dell'anima che le loro azioni, e specialmente ai beni più grandi e ai fini. Nello stesso modo agirà riguardo ai moti di vita e alla scelta della condotta: bisogna sì poter svolgere un'attività e combattere, ma molto più starsene in pace e in ozio e così fare le cose necessarie e utili, ma molto più quelle belle. Di conseguenza, guardando a questi scopi, si devono educare gli uomini e quando sono ancora ragazzi e poi nelle altre età, quante han bisogno di educazione. [...] Ora poiché si vede che gli uomini hanno lo stesso fine sia collettivamente sia individualmente e poiché la stessa meta appartiene di necessità all'uomo migliore e alla colstituzione migliore, dovranno esserci ovviamente virtù che promuovono l'ozio, perché, come s'è detto spesso, la pace è il fine della guerra, l'ozio dell'attività. E le virtù utili all'ozio e alla ricreazione son quelle che operano durante l'ozio e durante l'attività. Infatti ci devono essere molte cose necessarie perché si possa stare in ozio: per questo motivo è bene che lo stato sia temperante, valoroso e forte, perché, come vuole il proverbio, non c'è ozio per gli schiavi e quelli che non riescono ad affrontare il pericolo con valore sono schiavi degli aggressori. Ci vuole dunque coraggio e forza per l'attività, amore di sapienza per l'ozio, temperanza e giustizia in entrambe le condizioni, soprattutto quando si è in pace e in ozio; in effetti la guerra costringe gli uomini a essere giusti e temperanti, mentre il godimento della prosperità e lo stare in ozio accompagnato da pace li fanno piuttosto insolenti. Perciò molta giustizia e molta temperanza devono avere coloro che agli occhi degli altri stanno ottimamente e godono di tutti i beni della fortuna, come quelli che, al dire dei poeti, vivono nelle isole dei beati; costoro, anzi, avranno estremamente bisogno di amor di sapienza, di temperanza, di giustizia, quanto più vivono in ozio, in mezzo all'abbondanza di siffatti beni. Dunque lo stato che vuole essere felice e retto deve avere queste virtù, è chiaro: in effetti, se è brutto non poter usare dei beni, ancora più lo è non poterli usare in tempo di ozio, ma in attività e in guerra mostrarsi bravi, in tempo di pace e di ozio d'animo servile [...]. Abbiamo già in antecedenza stabilito che si richiede natura, abitudine e ragione; [...] rimane da studiare se nell'opera educativa si deve cominciare con la ragione o con le abitudini. Queste devono essere armonizzate tra loro nell'armonia più piena perché la ragione può fallire nel determinare il fine migliore e ugualmente essere trascinata dalle abitudini. Comunque è evidente in primo luogo che, come in ogni altra cosa, la generazione procede da un principio e che il fine raggiunto da un principio è inizio di un altro fine; ora, la ragione e il pensiero sono per noi il fine della natura, sicché verso essi bisogna orientare la formazione e l'esercizio delle abitudini. Inoltre, come l'anima ed il corpo sono due, così vediamo che l'anima ha due parti, l'una irrazionale, l'altra fornita di ragione e che i loro stati sono due di numero: l'uno è l'appetito, l'altro l'intelletto. Ora, come il corpo precede nella generazione l'anima, così la parte irrazionale quella fornita di ragione. E pure questo è chiaro: impulso e volontà e anche desiderio si trovano nei bambini subito appena nati, ma il ragionamento e l'intelletto appaiono per natura quando sono già cresciuti. Per questo è necessario prima di tutto che la cura del corpo preceda quella dell'anima e che poi venga quella degli appetiti, e la cura degli appetiti va fatta in funzione dell'intelletto, quella del corpo in funzione dell'anima. Se, dunque, spetta al legislatore cercare fin dall'inizio che il fisico dei fanciulli allevati raggiunga le condizioni migliori, deve in primo luogo prestare attenzione al congiungimento dei sessi, quando cioè e quali persone conviene che abbiano tra loro rapporti matrimoniali. [...] Le donne incinte devono prendersi cura del corpo, senza darsi all'inerzia né attenersi a una dieta scarsa: e questo il legislatore lo può facilmente ottenere ordinando di fare ogni giorno una passeggiata come atto di culto verso le dee che hanno avuto in sorte di presiedere alla nascita. Ma lo spirito conviene che, al contrario del corpo, se ne rimanga in completa rilassatezza, perché i bambini sono evidentemente influenzati dalla madre che li porta, come le piante dalla terra. Quanto all'esposizione e all'allevamento dei piccoli nati sia legge di non allevare nessun bimbo deforme, mentre le disposizioni consacrate dal costume impongono di non esporne nessuno, a causa dell'eccessivo numero dei figli: si deve fissare un limite alla procreazione e se alcune coppie sono feconde oltre tale limite, bisogna procurare l'aborto, prima che nel feto siano sviluppate la sensibilità e la vita[...]. Nati i fanciulli, si deve ritenere che ha grande importanza per la vigoria del corpo il particolare modo di nutrizione. Dall'esame condotto sugli altri animali e sui popoli che si preoccupano di promuovere un fisico guerriero, appare che è quanto mai congeniale al corpo l'alimentazione ricca di latte e con poco vino, per le malattie che procura. Giova pure che si compiano tutti quei movimenti che sono possibili con creature tanto piccine. E perché le loro membra, tenere come sono, non subiscano distorsioni, alcuni popoli ricorrono anche adesso a certi apparecchi meccanici che mantengono corpi così delicati in posizione rigida. Giova abituarli subito fin da piccoli al freddo: questo è quanto mai utile e per la salute e per imprese di guerra. Per ciò presso molti popoli barbari si usa da taluni immergere i neonati in un fiume gelato, da altri, per esempio i Celti, avvolgerli in pochi panni. Perché con qualsiasi mezzo si possono abituare, è meglio abituarli subito, fin da principio, ma abituarli gradatamente; e poi la costituzione del bambino, per il calore naturale, è ben disposta a tollerare il freddo. Ne l primo periodo di vita conviene usare un trattamento di tal genere o uno simile a questo: in quello successivo, fino ai cinque anni, in cui non è ancora opportuno indirizzarli verso lo studio o le fatiche del lavoro per non pregiudicarne la crescita, si richiede quel tanto di attività per cui evitino l'inerzia del corpo – e ciò si deve ottenere con vari mezzi, pure col gioco. Ma anche i giochi non devono essere volgari né faticosi né rilassati. Quanto al genere di discorsi e di favole che devono ascoltare i ragazzi di tale età, stia a cuore ai magistrati che chiamano "pedonomi". In realtà tutte queste cose devono preparare la via alla loro successiva attività e quindi i giochi devono essere per la maggior parte imitazioni delle loro successive occupazioni. C'è chi [Platone] vieta nelle leggi i gridi e i pianti dei fanciulli: questa proibizione è un errore, perché giovano allo sviluppo, in quanto sono, in certo senso, ginnastica per il corpo – e, infatti, la ritenzione del fiato da forza a chi fatica, ed è questo che accade ai bambini quando gridano. Spetta pure ai pedonomi sorvegliare la loro ricreazione e badare in particolare che rimangano il meno possibile cogli schiavi. Bimbi di quest'età, e fino a sette anni, sono di necessità allevati in casa; è ben ragionevole, quindi, che essendo così piccini, apprendano le volgarità da quanto sentono e vedono. Insomma il turpiloquio, più di tutto, il legislatore deve bandirlo dallo stato (perchè dal dire sconsideratamente qualsiasi sconcezza si passa ben presto al farle) e soprattutto dai giovani, onde non dicano né ascoltino niente di tal sorta: e se c'è chi apertamente dice o fa taluna di queste cose proibite, se è libero e non ha ancora privilegio di sedere ai sissizi, deve colpirlo con punizioni disonorevoli e con pene corporali, se poi ha passato quest'età, con punizioni non degne di un libero, per il suo atteggiamento da schiavo. E poiché bandiamo ogni discorso di tal genere, è chiaro che proibiamo pure di vedere quadri e rappresentazioni indecenti. Curino dunque i magistrati che non ci sia nulla, né statua né pittura, rappresentante siffatte azioni, se non nei templi di certe divinità a cui la legge permette anche la scurrilità [...]. Passati i cinque anni, per i due seguenti fino ai sette, bisogna che ormai assistano come spettatori agli insegnamenti che dovranno apprendere. Ci sono due periodi in rapporto ai quali è necessario dividere l'educazione: dai sette anni alla pubertà e poi dalla pubertà ai ventuno anni. Quelli che dibidono l'età per settenni generalmente non dicono male: in realtà bisogna seguire la divisione della natura, perché ogni arte e educazione intende supplire le manchevolezze della natura. Bisogna quindi esaminare in primo luogo se si deve stabilire un regolamente nell'educazione dei ragazzi, poi, se è vantaggioso che la cura di loro sia pubblica o privata (come si fa ancor oggi in moltissimi stati), in terzo luogo di che tipo dev'essere. [...] Che dunque il legislatore debba preoccuparsi soprattutto dell'educazione dei giovani nessuno può dubitarne: in realtà è questo che, negletto in uno stato, rovina la costituzione. Bisogna che l'educazione si adatti a ciascuna costituzione, perché il costume proprio di ciascuna suole difendere la costituzione stessa e la pone in essere già in origine, ad esempio il costume democratico la democrazia, quello oligarchico l'oligarchia e sempre il costume migliore promuove la costituzione migliore. Inoltre per ogni attività ed arte ci sono delle nozioni che bisogna in antecedenza imparare o rendere abituali in vista delle operazioni di ciascuna di esse; è chiaro di conseguenza, che questo vale anche per le azioni della virtù. E poiché lo stato nella sua totalità ha un unico fine, è evidente di necessità che anche l'educazione è unica e ugula e per tutti, che la cura di essa è pubblica e non privata, come adesso fa ognuno prendendosi cura in privato dei propri figli e impartendo loro l'insegnamento che gli piace. Delle cose comuni comune dev'essere anche l'esercizio. Nello stesso tempo nessuno tra i cittadini deve ritenere di appartenere a se stesso, ma tutti allo stato, perché ciascuno è parte dello stato e la cura di ciascuna parte deve naturalmente tener conto della cura del tutto. A questo proposito si potrebbero lodare gli Spartani: essi, infatti, prestano il più grande interesse all'educazione dei ragazzi e la perseguono in comune. È evidente, dunque, che dev'esserci una legislazione sull'educazione e che questa deve perseguirsi in comune: ma quale sia l'educazione e come la si debba impartire non deve restare nascosto. Adesso si discute sulle materie d'insegnamento: in realtà non tutti ritengono che i giovani devono imparare le stesse cose sia in vista della virtù sia in vista della vita migliore e neppure è chiaro se conviene aver di mira l'intelligenza o piuttosto il carattere morale. Se poi partiamo dall'educazione che ci sta davanti le nostre osservazioni si fanno perplesse e non è evidente se ci si deve esercitare in ciò che è utile alla vita o che promuove la virtù o in materie fuori dell'ordinario (ciascuna di queste vedute ha trovato qualche difensore). Neppure riguardo a ciò che conduce alla virtù c'è concordia (perché tutti onorano senz'altro la virtù, ma non la stessa, sicchè è logico che differiscano anche riguardo al modo di esercitarsi in essa). Ora non c'è dubbio che il giovane deve apprendere tra le materie utili quelle indispensabili, non tutte, però, è chiero, essendo distinte le opere liberali da quelle illiberali, e quindi deve coltivare quante tra le utili non faranno ignobile chi le coltiva. Si devono ritenere ignobili tutte le opere, i mestieri, gli insegnamenti che rendono inadatti alle opere e alle azioni della virtù il corpo o l'anima o l'intelligenza degli uomini liberi. Perciò i mestieri che per loro natura rovinano la condizione del corpo li chiamiamo ignobili, come pure i lavori a mercede, perché tolgono alla mente l'zio e la fanno gretta. Riguardo alle scienze liberali, poi, interessarsi di qualcuna entro certi limiti non è indegno d'un libero, ma l'occuparsene troppo, fino all'eccesso, comporta i danni ricordati. Grande importanza riveste pure il fine per cui uno agisce o impara: l'agire in vista di se stesso o degli amici o per amore della virtù non è illiberale, ma chi fa queste stesse cose per gli altri spesso sembrerà che agisca in maniera mercenaria e servile. Gli studi comunemente riconosciuti, come si è già detto, tendono nei due sensi. Quattro sono all'incirca le materie con cui si suole impartire l'educazione, la grammatica, la ginnastica, la musica e quarta, secondo alcuni, il disegno: grammatica e disegno si insegnano perché sono utili alla vita e di vasto impiego: la ginnastica in quanto concorre a sviluppare il coraggio: ma sulla musica potrebbe già sorgere qualche dubbio. Adesso, è certo in vista del piacere che i più vi si dedicano, ma dapprincipio l'inclusero nell'educazione perché la natura stessa cerca, s'è già detto più volte, non solo di poter operare come si deve, ma anche di stare in ozio nobilmente: perché è questo il principio unico di ogni azione, ripetiamolo anche a questo proposito. E se entrambe le cose sono necessarie, ed è preferibile l'ozio all'azione, anzi ne è il fine, bisogna cercare di stare in ozio facendo quel che si deve. Non certo giocando, ché allora di necessità il fine della vita sarebbe per noi il gioco: ma se questo è impossibile e si deve piuttosto ricorrere al gioco durante l'attività (perché chi lavora ha bisogno di riposo e il gioco è proprio in vista del riposo, mentre l'attività va di pari passo con la fatica e la tensione) ne segue che bisogna introdurre i giochi badando bene all'opportunità del loro impiego, perché l'introduciamo a scopo di medicina. In effetti un siffatto movimento del'anima è rilassamento e, mediante il piacere, riposo. Ma lo stare in ozio par che contenga da sè il piacere, la felicità, uno stato di vita beato. E ciò appartiene non a quelli che operano, bensì a quelli che stanno in ozio, perché chi è in attività lo è proprio perché vuol raggiungere un qualche fine che attualmente non possiede, mentre la felicità è fine e tutti la ritengono accompagnata non dal dolore ma dal piacere. Ora questo piacere non lo concepiscono nello stesso modo, ma ciascuno secondo il suo punto di vista e la sua disposizione: i migliori, comunque, cercano il piacere migliore e che deriva dalle fonti più belle. Di conseguenza è chiaro che bisogna imparare ed essere educati in talune cose in vista dell'ozio che c'è nello svago nobile, e che queste discipline e queste nozioni sono in funzione di se stesse, emntre quelle che servono alla attività pratica vanno riguardate come necessarie e in funzione di altro. Per ciò gli antenati inclusero la musica nell'educazione, non in quanto necessaria (perché non ha niente di necessario) né in quanto utile (come la grammatica lo è per gli affari e per reggere la casa e per acquistare il sapere e per molte attività della vita civile e pare che anche il disegno sia utile per dare un giudizio più preciso sulle opere degli artigiani) né al modo della ginnastica, in vista della salute e dell'ardore in battaglia (perché nessuno di questi due risultati vediamo prodotti dalla musica): rimane dunque ch'essa serve a ottenere lo svago nobile che c'è nell'ozio e per questo pare che l'abbiano introdotta. In realtà essi le danno un posto in quella forma di ricreazione che ritengono propria degli uomini liberi. Per questa ragione Omero ha poetato così: "Ma lui soltanto si deve chiamare al festoso banchetto", quindi, dopo aver nominato alcuni altri dice: "Essi chiaman l'aedo che tutti quanti rallegri". E altrove Odisseo dice che la ricreazione migliore è quando, tra la gioia di tutti, "i banchettanti in casa l'aedo ascoltano, assisi / l'un presso l'altro". È chiaro perciò che esiste una forma di educazione nella quale bisogna educare i figli non perché utile, né perché necessaria, ma perché liberale e bella: se poi è unica o di più specie e in questo caso, quali sono e come, si deve dire in seguito. Per ora solo di tanto ci siamo spinti avanti nella questione perché abbiamo anche da parte degli antichi una conferma, derivata proprio dagli insegnamenti comunemente riconosciuti: ed è la musica che lo dimostra. È pure chiaro che talune delle materie utili non devono essere insegnate ai ragazzi solo per l'utile, come ad esempio lo studio della grammatica, ma anche perché per loro mezzo si possono apprendere molte altre conoscenze: allo stesso modo impareranno il disegno non per evitare errori nelle loro compere private e quindi non per non essere ingannati nella compera o nella vendita delle cose, bensì piuttosto perché rende osservatori della bellezza del corpo. Cercare da ogni parte l'utile non s'addice affatto a uomini magnanimi e liberi. E poiché è evidente che bisogna educare i ragazzi con le abitudini prima che con la ragione, e nel corpo prima che nella mente, è chiaro da ciò che si devono affidare i fanciulli agli esercizi ginnastici e pedotribici, perchè di questi gli uni conferiscono una certa qualità alla costituzione del corpo, gli altri insegnano gli esercizi. [...] Vediamo che né tra gli animali né tra i popoli il coraggio si accompagna ai più selvaggi, ma piuttosto a quelli che hanno temperamento relativamente mite e leonino. [...] Di conseguenza la nobiltà, non la bestialità, deve avere il primo posto, perché né il lupo, né alcun'altra bestia feroce si esporrebbe a un pericolo veramente bello, ma piuttosto l'uomo generoso. Quelli perciò che spingono eccessivamente i figli in tali esercizi, rendendoli ignoranti delle cose necessarie, ne fanno in realtà degli ignobili, giacché li rendono utili a una sola funzione della vita dello stato, e in questa [...] in maniera inferiore agli altri. Che si debba dunque usare la ginnastica e in che modo si debba usare è ammesso concordemente: fino alla pubertà, quindi, bisogna allenarli con esercitazioni più leggere, evitando la nutrizione forzata e le fatiche violente, perché non siano d'impedimento allo sviluppo. [Intorno alla musica] la prima ricerca è se non dobbiamo o dobbiamo includerla nell'educazione e qual è il suo valore tra i tre sui quali si sono mossi dubbi, se cioè vale come educazione o come divertimento o come ricreazione intellettuale. È ragionevole riportarla a tutt'e tre e in verità pare che ne partecipi davvero. Infatti il divertimento è in vista del riposo e il riposo è di necessità piacevole (perché è una medicina delle sofferenze procurate dalle fatiche); la ricreazione intellettuale per ammissione concorde di tutti deve avere non soltanto nobiltà ma anche piacere (perché l'essere felici deriva proprio da questi due elementi) e la musica diciamo tutti che è delle cose più piacevoli, sia sola sia accompagnata dal canto [...]; di conseguenza, anche per tale causa si potrebbe supporre che i giovani devono apprenderla. Infatti tutti i piaceri innocenti non solo sono convenienti al fine, ma anche al riposo e poiché raramente capita agli uomini di raggiungere il fine, mentre spesso si riposano e si danno ai divertimenti non tanto in vista d'un ulteriore oggetto, ma solo per il piacere, sarebbe utile trovare riposo nei diletti che dalla musica derivano. È però capitato agli uomimi di farsi dei divertimenti un fine: in realtà pure il fine contiene forse un piacere, anche se non uno qualsiasi, e cercando questo prendono l'altro come se fosse questo, perché ha una certa eguaglianza col fine delle azioni. E infatti il fine non è desiderabile in vista di qualcosa che ne risulterà, e i piaceri di tal sorta non lo sono in vista di qualcosa che ne risulterà, bensì di cose accadute, quali le fatiche e la sofferenza. E si potrebbe a ragione supporre che è questa la causa per cui gli uomini cercano di procurarsi la felicità mediante tali piaceri: quanto al darsi alla musica, non si può spiegare solo con questa ragione, ma anche perché, come pare, è utile al riposo. [...] ma poiché accade che la musica sia delle cose piacevoli, e la virtù concerne il godere, l'amare e l'odiare in maniera giusta, è chiaro che a niente bisogna tanto interessarsi e abituarsi quanto al giudicare in maniera giusta e al godere di caratteri virtuosi e di nobili azioni: in realtà nei ritmi e nei canti vi sono rappresentazioni, quanto mai vicine alla realtà, d'ira e di mitezza, e anche di coraggio e di temperanza e di tutti i loro opposti e delle altre qualità morali (e questo è provato dall'esperienza, ché quando li ascoltiamo, data la loro natura, sentiamo una trasformazione nell'anima; l'abitudine, poi, di addolorarsi o di gioire di fronte alle rappresentazioni è un po' come il comportarsi allo stesso modo nella realtà (ad esempio se uno si rallegra guardando l'immagine di un altro non per altro motivo che per l'aspetto, è necessario che pure la vista di colui del quale guarda l'immagine gli riesca piacevole). [...] Da tali considerazioni è chiaro che la musica può esercitare un qualche influsso sul carattere dell'anima e se può far questo, è chiaro che bisogna accostarle i giovani ed educarli in essa. L'insegnamento della musica è adatto a una natura giovanile: i giovani, infatti, per la loro età, non accettano di buon grado niente se non è in qualche modo addolcito, e la musica per sua natura serve come condimento. E par che ci sia una certa parentela tra modi musicali e ritmi, sicché molti sapienti dicono che l'anima è armonia, altri che contiene armonia. (Aristotele, Politica) Plutarco Che si potrebbe dire sull'educazione dei ragazzi liberi e sui metodi per farne persone serie e perbene? Vediamo un po'! In generale, anche per la virtù si devono ribadire i concetti che abitualmente enunciamo a proposito delle arti e delle scienze, e cioè che per pervenire a una condotta impeccabile si richiede il concorso di tre fattori: natura, parola e abitudine. Per parola intendo l'istruzione, per abitudine l'esercizio. Le basi sono offerte dalla natura, i progressi dall'istruzione, le acquisizioni dall'applicazione, la perfetta riuscita dalla concomitanza di tutte queste condizioni. Se ne viene a mancare una, la virtù risulta inevitabilmente zoppa da quella parte: la natura senza l'istruzione è cieca, l'istruzione senza la natura è insufficiente, e l'esercizio, se difettano le altre due, è inconcludente. In agricoltura è indispensabile che ci siano anzitutto un terreno buono, poi un coltivatore esperto e infine sementi di qualità: così al terreno si possono paragonare le doti naturali, all'agricoltore il maestro, alle sementi i consigli e i precetti. Tutte queste condizioni, posso affermarlo decisamente, si incontrarono e cospirarono per dar vita alle anime, universalmente celebrate, di Pitagora, Socrate, Platone e di quanti hanno conseguito una gloria che non tramonterà mai. Segno dunque di felicità e di predilezione celeste è ricevere da un Dio tutti questi doni. Se qualcuno invece pensa che chi è scarsamente dotato, nonostante un'istruzione e un'applicazione correttamente indirizzate alla virtù, non possa compensare, nei limiti del possibile, la propria naturale pochezza, sappia che si sta sbagliando di molto, anzi del tutto. Se l'indolenza guasta le buone qualità naturali, l'insegnamento ne corregge i difetti; le mete facili sfuggono ai negligenti, ma con l'impegno si conquistano quelle difficili. Si può comprendere quanto efficaci e determinanti siano impegno e fatica osservando molti fenomeni. Le gocce d'acqua incavano le pietre; il ferro e il bronzo si consumano al continuo contatto delle mani; le ruote dei carri, una volta curvate dal tornio, non potrebbero mai, in nessun caso, riacquistare la forma rettilinea d'un tempo; è impossibile raddrizzare i bastoni ricurvi degli attori, ma ciò che è contro natura diventa con la fatica migliore di ciò che è secondo natura. Sono forse questi i soli esempi che dimostrano l'efficacia del l'impegno? No, ce ne sono infiniti altri. Un terreno è di per sé fertile, ma se lo si trascura isterilisce e anzi, quanto migliore è per natura, tanto più incuria ed abbandono lo traggono a rovina. Un altro, invece, è duro e accidentato più del dovuto, ma se lo si coltiva produce subito messi rigogliose. Quali piante, se poco curate, non crescono storte e non diventano infruttifere, mentre con un'adeguata coltivazione danno frutti e riescono a portarli a maturazione? Quale robusta costituzione non s'infiacchisce e consuma per trascuratezza, mollezza e cattiva condizione fisica? Quale natura fiacca non ha compiuto, invece, decisi progressi in robustezza, sottoponendosi a duri e faticosi allenamenti? Quali cavalli, ricevuto un buon addestramento, non sono divenuti docili ai loro cavalieri? E quali invece, per esserne rimasti privi, non sono risultati ingovernabili e ombrosi? E che senso ha stupirsi del resto quando vediamo molte tra le bestie più feroci diventare addomesticate e mansuete grazie alle fatiche? Bene rispose quel Tessalo a chi gli domandava quali fossero i Tessali più miti: «Quelli che smettono di guerreggiare». Ma che bisogno c'è di lunghi discorsi? Il carattere è un'abitudine consolidata in un lungo arco di tempo e chi definisse abituali le qualità del carattere non darebbe certo l'impressione di dire una cosa stonata. Citerò ancora un solo esempio su questo punto, evitando di dilungarmi sull'argomento. Licurgo, il legislatore degli Spartani, prese due cuccioli nati dagli stessi genitori e li allevò in modo completamente diverso, facendo diventare l'uno ingordo ed inetto, l'altro abile nel fiutare le tracce e nel cacciare. Poi, un giorno che gli Spartani erano riuniti in assemblea: «Grande importanza - disse - Spartani, per generare la virtù, rivestono le abitudini, i principi educativi, gli insegnamenti e gli orientamenti di vita, e ve lo dimostrerò subito con assoluta chiarezza». Fatti venire i cuccioli, pose loro davanti una ciotola piena di cibo e una lepre, e li lasciò liberi: subito il primo si avventò sulla lepre, l'altro invece si lanciò sulla ciotola. Gli Spartani non riuscivano ancora a capire dove volesse arrivare e a che scopo esibisse quei cuccioli: «Questi due - proseguì allora Licurgo - sono nati dagli stessi genitori, ma sono stati allevati in modo diverso: così uno è diventato ingordo, l'altro invece adatto alla caccia». E sulle abitudini e i modelli di vita bastino queste considerazioni. In stretta connessione con il tema precedente si potrebbe trattare ora dell'allevamento. Le madri, a mio avviso, devono nutrire personalmente i figli e porgere loro il seno, perché li alleveranno con affettuosità e premura maggiori, quasi li amassero da dentro e, come usa dire, «dalle unghie». L'affetto di balie e nutrici, invece, è insincero e fittizio, perché è pur sempre un amore mercenario. Anche la natura indica chiaramente che spetta alle madri allattare e allevare personalmente le loro creature: per questo assicura ad ogni essere che partorisce il nutrimento del latte e con previdente saggezza ha dotato le donne di due mammelle, perché se danno alla luce dei gemelli abbiano duplice la fonte del nutrimento. Ma prescindendo da tutto ciò, le madri diventerebbero più tenere e più affettuose con i figli, e non senza ragione, per Zeus!, perché il crescere assieme è come una chiave che tende la corda dell'amore. Anche gli animali, se vengono separati da quelli con cui sono allevati, mostrano chia ramente di sentirne la mancanza. Prima di tutto, si deve dunque cercare, come ho detto, che le madri allevino personalmente i figli, ma se ne fossero impedite da uno stato di debolezza (può verificarsi anche questo) o dal voler avere subito altri bambini, si eviti almeno di scegliere come balie e nutrici le prime venute, e si selezionino invece quelle che danno le migliori garanzie. E in primo luogo è fondamentale che siano greche di costumi, perché se è indispensabile plasmare fin dalla nascita le membra dei figli in modo che si sviluppino diritte e regolari, si deve analogamente modellarne fin dal primo momento il carattere. La giovinezza è qualcosa di duttile e molle, e nelle menti ancora tenere gli insegnamenti si imprimono a fondo, mentre tutto ciò che è duro è difficile da ammorbidire. Come i sigilli si imprimono nella molle cera, così le nozioni lasciano la loro impronta nelle menti dei bambini. In sintonia mi sembra la raccomandazione, rivolta dal divino Platone alle balie, di non raccontare ai bimbi neppure delle fiabe a caso, perché le loro menti non abbiano a riempirsi, fin dai primi anni, di stoltezza e di corruzione. Anche il poeta Focilide mi sembra che dia un buon consiglio quando dice: Già ai bambini si devono insegnare le buone azioni. Vale la pena in questo senso di non sottovalutare neppure quest'altra precauzione, e cioè di cercare che gli schiavetti destinati a servire i padroncini e a crescere assieme a loro abbiano anzitutto un'indole seria e poi che siano greci e si esprimano correttamente, perché frequentando barbari o persone di cattivi costumi non finiscano contagiati dalla loro meschinità. Calza a proposito quello che dicono gli amanti dei proverbi: «Chi va con lo zoppo impara a zoppicare». Quando poi avranno l'età di essere sottoposti ai pedagoghi, si dovrà procedere con molta attenzione alla loro scelta, per evitare che i genitori, inavvertitamente, affidino i figli a schiavi barbari o buoni a nulla. Molta gente oggi si comporta in modo davvero ridicolo: gli schiavi di valore li impiegano come agricoltori, nocchieri, mercanti, amministratori o usurai, ma se incappano in un servo ubriacone ed ingordo, inutilizzabile per qualunque altra mansione, è proprio a costui che portano e sottopongono i figli. Il perfetto pedagogo, invece, deve possedere doti paragonabili a quelle di Fenice, il pedagogo di Achille. Passo ora a trattare il punto più importante ed essenziale tra quelli menzionati finora: per i figli si devono cercare maestri inappuntabili per condotta di vita, irreprensibili sotto il profilo morale ed eccellenti sul piano dell'esperienza, perché una formazione corretta è fonte e radice di perfezione morale. Come gli agricoltori sostengono le piante con dei paletti, così i bravi maestri puntellano i giovani con idonei precetti e consigli, perché il loro carattere germogli diritto. [...] Insomma, esiste cosa più assurda dell'abituare i bambini a prendere il cibo con la destra e di sgridarli se allungano la sinistra, e non preoccuparsi poi minimamente di far ascoltare loro «destri» e legittimi insegnamenti? Che succede poi a questi meravigliosi padri, una volta che abbiano male allevato e male educato i propri figli? Ve lo dirò io. Il tempo di essere registrati tra gli adulti e subito quelli se ne infischieranno di condurre una vita sana e ordinata e andranno a tuffarsi nei piaceri sregolati e servili. Allora, quando ormai non servirà più a nulla, quei padri si pentiranno di aver tradito l'educazione dei figli e si strazieranno nel vederne la mala condotta: c'è chi si circonda di adulatori e di parassiti, gente infima e detestabile, autentici sovvertitori e corruttori della gioventù; chi riscatta cortigiane e prostitute altezzose e di gran costo; chi dissipa una fortuna nelle crapule; chi va ad incagliarsi nel gioco dei dadi o nei bagordi, e chi infine mette mano ai vizi più dissoluti, come adultèri o baccanali, pagando con la morte un solo piacere. Se avessero frequentato invece la compagnia di un filosofo, forse non si sarebbero lasciati facilmente trascinare in comportamenti del genere e avrebbero perlomeno appreso la raccomandazione di Diogene, che con parole crude nella forma, ma veritiere nella sostanza, ammonisce dicendo: «Entra in un bordello, ragazzo mio, e imparerai che non c'è nessuna differenza fra le cose gratuite e quelle che costano molto denaro!». Riassumendo, io ribadisco (e probabilmente avrò l'aria di uno che dà oracoli più che consigli) che in questo campo il punto unico, primo, centrale e ultimo, è costituito da un'educazione seria e un'istruzione corretta, e sostengo che il concorso di questi due fattori è efficace per acquisire la virtù e la felicità. Gli altri non sono che beni umani, insignificanti e indegni di considerazione. La nobiltà è una bella cosa, ma è un bene proprio degli antenati; la ricchezza è preziosa, ma appartiene alla sorte, che spesso la toglie a chi ce l'ha e la dona a chi non lo sperava. Una grande fortuna è il bersaglio preferito di chi tende l'arco sui borsellini altrui, servi disonesti e delatori, e quel che è peggio, la possiedono anche gli uomini più scellerati. La gloria è meravigliosa, ma instabile; la bellezza ambita, ma caduca; la salute preziosa, ma fragile. La forza fisica è invidiabile, ma comoda preda della malattia e della vecchiaia, e in generale, se uno va orgoglioso della sua robustezza, si renda conto che l'idea è sbagliata: che rapporto può mai esserci tra la forza di un uomo e la potenza degli altri animali? Di un elefante, ad esempio, di un toro o di un leone? L'educazione è l'unico nostro bene immortale e divino. Nella natura umana due sono in assoluto gli elementi più importanti: intelletto e parola. L'intelletto è signore della parola e la parola è al servizio dell'intelletto: è inespugnabile dalla sorte, inattaccabile dalla calunnia, indenne dalla malattia, al riparo dai guasti della vecchiaia, perché solo l'intelletto invecchiando ringiovanisce e il tempo, che porta via ogni altra cosa, alla vecchiaia aggiunge invece la saggezza. La guerra, che come un torrente impetuoso tutto travolge e tutto trascina, solo l'educazione non riesce a predare. Memorabile mi sembra la risposta data dal filosofo Stilpone di Megara a Demetrio, che aveva preso e raso al suolo la sua città: quando chiese a Stilpone se avesse perduto qualcosa di suo: «No di certo! - si sentì rispondere - La guerra non depreda la virtù». In pieno accordo e sintonia con questa appare anche la replica di Socrate a Gorgia, che gli aveva domandato, se ben ricordo, che opinione avesse del Gran Re e se lo considerava felice: «Non ho idea - fu la sua risposta - di come stia quanto a virtù ed educazione», lasciando intendere che qui risiede la felicità e non nei beni di fortuna. Ma come consiglio di non considerare niente più importante dell'educazione dei figli, così pure ribadisco la necessità di attenersi a quella pura e sana, e di tenere i figli il più lontano possibile dal ricercare con manierati discorsi il pubblico consenso: piacere alle masse è dispiacere ai saggi! Anche Euripide conferma le mie parole quando dice: Non ho grazia nel parlare a una folla, tra pochi, e coetanei, sono più bravo. Chi fra i saggi non vale, più ispirato è per la folla. [...] Si deve dunque consentire a un ragazzo libero di ascoltare e conoscere anche tutte le altre discipline, che formano la cosiddetta educazione di base: queste, comunque, le dovrà apprendere di corsa, limitandosi, per così dire, a un assaggio (raggiungere la perfezione in ogni campo è impossibile), e assegnando invece un ruolo preminente alla filosofia. Posso esemplificare la mia idea con un'immagine: è bello, viaggiando per mare, scendere a visitare molte città, ma utile è andare a risiedere in quella migliore. Argutamente anche il filosofo Bione osservava che come i pretendenti, non riuscendo ad entrare in intimità con Penelope, se la facevano con le sue ancelle, così pure chi non è in grado di raggiungere la filosofia inaridisce nello studio delle altre discipline, che al confronto non valgono nulla. Perciò la filosofia deve costituire il coronamento dell'intero processo educativo. Per la cura del corpo gli uomini hanno escogitato due scienze, la medicina e la ginnastica, che assicurano rispettivamente la salute e la vigoria. Il solo rimedio alle malattie e alle passioni dell'anima è dato, invece, dalla filosofia. Per essa e con essa è possibile capire in che cosa consistano il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, quello che, in breve, si deve ricercare o evitare: come ci si debba comportare con gli Dei, con i genitori, con gli anziani, con le leggi, con le autorità, con i figli, con i servi, e cioè che bisogna venerare gli Dei, onorare i genitori, rispettare gli anziani, obbedire alle leggi, sottostare alle autorità, amare gli amici, essere temperanti con le mogli, affettuosi con i figli, non troppo rigidi con i servi e, quel che più conta, non abbandonarsi ad eccessi di gioia nei momenti felici e non abbattersi troppo in quelli tristi, non essere sfrenati nei piaceri e passionali e bestiali negli stati d'ira. Tra tutti i beni elargiti dalla filosofia questi sono, a mio avviso, i più importanti, perché è da uomo comportarsi nobilmente nella buona fortuna, da persona controllata non suscitare invidie, da saggio vincere con i ragionamenti le lusinghe del piacere, da uomo non comune dominare l'ira. Perfetti sono, a mio giudizio, gli uomini capaci di coniugare l'abilità politica con la filosofia, perché secondo me riescono a centrare i due beni più grandi: una vita dedicata alla pubblica utilità nel fare politica e un'esistenza calma e serena nell'occuparsi di filosofia. Tre sono i modelli di vita possibili: l'attivo, lo speculativo e il gaudente. Quest'ultimo, che s'abbandona e si fa schiavo dei piaceri, è animalesco e meschino; quello attivo, se non è assistito dalla filosofia, è goffo e stonato; quello speculativo, se fallisce sul piano pratico, inutile. Si deve cercare dunque, con il massimo impegno, di occuparsi degli affari pubblici e dedicarsi alla filosofia per quanto le circostanze consentano. Cosi fecero politica Pericle, così Archita di Taranto, così, infine, Dione di Siracusa ed Epaminonda di Tebe, che furono entrambi in familiarità con Platones. E sulla formazione culturale non vedo la necessità di dilungarmi ulteriormente: alle affermazioni precedenti potrei solo aggiungere che è utile, o meglio essenziale, non sottovalutare neppure l'acquisto delle opere del passato e farne anzi provvista, alla maniera degli agricoltori... [brave lacuna nel testo]. Allo stesso modo la consultazione dei libri è uno strumento di educazione e consente di attingere il sapere direttamente alla fonte. D'altra parte non è giusto nemmeno trascurare l'attività fisica, ma si devono mandare i ragazzi dal maestro di ginnastica perché pratichino esercizi idonei al conseguimento di un corpo armonioso e robusto insieme: pietra fondamentale di una bella vecchiaia è la buona complessione acquisita nella fanciullezza. Quando il tempo è bello si devono predisporre le difese contro quello cattivo: così nella giovinezza conviene mettere in serbo la disciplina e la temperanza come viatico per la vecchiaia. Lo sforzo fisico, però, deve essere regolato in modo che i ragazzi non ne escano stremati e non siano più in grado di sostenere l'impegno richiesto dallo studio. Sonno e stanchezza sono per Platone nemici dell'apprendimento. Perché dico questo? Perché sono ansioso di toccare il punto più importante di tutto questo discorso: bisogna addestrare i ragazzi in vista delle fatiche militari, allenandoli nel lancio dei giavellotti, nel tiro con l'arco e nella caccia, perché in battaglia «i beni dei vinti sono premi offerti ai vincitori». In guerra non c'è posto per un fisico allevato nell'ombra e un soldato smilzo, ma avvezzo alle fatiche militari, travolge falangi di atleti inadatti alla guerra. «Ma come? - mi si potrebbe obiettare - Hai promesso di dare precetti sull'educazione dei ragazzi liberi, ma poi trascuri in modo palese quella dei poveri e dei popolani, e sei d'accordo nell'indirizzare i tuoi consigli solo ai ricchi?». A un simile rilievo non è difficile rispondere: vorrei tanto che questa educazione fosse utile a tutti, indistintamente, ma se qualcuno non dispone di risorse adeguate e non potrà avvalersi dei miei precetti, incolpi la sorte e non chi dà questi consigli. Cerchino anche i poveri, con tutte le loro forze, di assicurare ai propri ragazzi l'educazione migliore, o perlomeno quella che è alla loro portata. Ho aggiunto questo inciso al carico del discorso, per potermi riallacciare di seguito agli altri fattori che contribuiscono alla corretta educazione dei giovani. Sostengo anche questo, che bisogna guidare i ragazzi a comportarsi bene ricorrendo a consigli e parole, e non, per Zeus!, a percosse o maltrattamenti. Questi metodi sembrano forse più adatti a schiavi che a uomini liberi, perché inducono torpore e raccapriccio di fronte alle fatiche, in parte per il dolore delle percosse, in parte anche per l'umiliazione che ne deriva. Elogi e rimproveri sono più utili, per i giovani di condizione libera, di qualsiasi maltrattamento, perché i primi spronano al bene, i secondi distolgono dal male. Bisogna saper alternare e variare punizioni ed elogi: punirli e svergognarli in caso di errore, ma poi riconfortarli con gli elogi, imitando le nutrici, che prima lasciano frignare i piccoli e poi li consolano porgendo loro il seno. Ma non si deve neppure esaltarli e gonfiarli a forza di encomi, perché se si eccede nelle lodi diventano fatui e si adagiano. Ho già visto alcuni padri per i quali il troppo amore divenne causa di disamore. Che intendo dire, tanto per rendere più chiaro il mio discorso con un esempio? Smaniando dalla voglia di veder primeggiare più in fretta i loro ragazzi in ogni campo, li caricano di fatiche sproporzionate, col risultato che non riescono a reggerle e finiscono per crollare, e in ogni caso, oppressi dai patimenti, non accolgono docilmente l'insegnamento. Le piante si sviluppano con la giusta quantità d'acqua, ma se si esagera soffocano: così anche la mente «con giuste fatiche s'accresce, ma da quelle eccessive finisce sommersa». Bisogna dare dunque ai ragazzi la possibilità di riprender fiato dalle continue fatiche, riflettendo come tutta la nostra vita sia divisa fra riposo ed impegno. Per questo furono inventate non solo la veglia ma anche il sonno, e così la guerra e la pace, il tempo brutto e quello bello, le attività lavorative e le feste. Per dirla in breve, il riposo è il condimento delle fatiche. Si può constatare come questo non riguardi solo gli esseri viventi, ma anche le cose inanimate, visto che allentiamo archi e lire per poterli poi tendere di nuovo. In generale, il corpo è preservato dal senso di vuoto e di pieno, la mente dal riposo e dalla fatica. È giusto biasimare certi padri, che affidano i figli a pedagoghi e maestri ma poi non si premurano affatto di osservare o di ascoltare di persona come li istruiscono, venendo così meno in modo gravissimo ai propri doveri. Dovrebbero invece controllare periodicamente i loro ragazzi, a pochi giorni di distanza, evitando di riporre le proprie speranze nella disposizione d'animo di un salariato; gli stessi maestri, poi, si prenderanno più cura degli allievi, se saranno chiamati di volta in volta a renderne conto. Arguto, al riguardo, è il detto dello staffiere: «Niente ingrassa il cavallo quanto l'occhio del re». Più di ogni altra cosa, poi, si deve allenare la memoria dei ragazzi e irrobustirla con l'abitudine, perché essa è, per così dire, il magazzino del sapere. Per questo si favoleggiò che madre delle Muse fosse Mnemòsine, lasciando allusivamente intendere che nulla genera e nutre quanto la memoria. Essa va esercitata sempre, con i ragazzi che ne siano naturalmente ben dotati, e con quelli, al contrario, che ne abbiano poca, perché nel primo caso rafforzeremo la ricchezza delle doti naturali, nel secondo ne colmeremo le carenze: così i primi saranno migliori de gli altri, i secondi di se stessi. Bene ha detto Esiodo: Se anche poco volessi tu aggiungere al poco, e lo facessi spesso, in fretta potrebbe esser molto. Nemmeno questo concetto sfugga dunque ai padri, e cioè che l'aspetto mnemonico dello studio svolge un ruolo non certo secondario non solo in vista dell'educazione, ma anche della condotta di vita, perché il ricordo delle azioni passate diventa modello di saggezza per quelle future. Bisogna inoltre tenere lontani i figli dal turpiloquio, perché, come dice Democrito, «la parola è l'ombra dell'azione». Si deve poi fare in modo che siano affabili e socievoli, perché i caratteri arroganti sono giustamente malvisti: così i ragazzi potrebbero evitare l'odio dei compagni, se nel discutere non si mostreranno assolutamente irremovibili; non solo vincere è bello, lo è anche saper accettare una sconfitta, quando la vittoria può risultare dannosa. Esiste in effetti anche la «vittoria cadmea», e in proposito mi è testimone il saggio Euripide, che dice: Fra due che parlano, se uno s'adira, più saggio è colui che non ribatte. Dobbiamo ora parlare di altri precetti, che i giovani devono seguire non meno di quelli enunciati finora, e anzi di più: praticare un sobrio tenore di vita, frenare la lingua, dominare l'ira, tenere controllate le mani. Si osservi l'importanza di ciascuno: la si comprenderà meglio con qualche esempio. Per cominciare dall'ultimo, dirò che alcuni, per aver posto le mani su guadagni illeciti, buttarono via la vita vissuta sino a quel momento: come lo spartano Gilippo, che per aver aperto di nascosto i sacchetti pieni di denaro, fu bandito e scacciato da Sparta. Il controllo dell'ira, a sua volta, è proprio di un uomo saggio. Socrate era stato preso a calci da un ragazzotto inso lente e laido; vedendo che le persone intorno a lui erano indignate e fremevano dalla voglia di dargli addosso: «E se a scalciarmi fosse stato un asino - esclamò - avreste ritenuto giusto ricambiarne i calci?». Quel tale, comunque, non se la passò affatto liscia: sentendosi schernire da tutti e apostrofare col nomignolo di «tiracalci», finì per impiccarsi. Quando Aristofane, rappresentando le Nuvole, lo copriva di insolenze di ogni tipo, uno spettatore gli chiese: «Ma tu, Socrate, non ti sdegni di essere svillaneggiato a questo modo?». «No di certo, per Zeus! - fu la sua risposta - Si scherza su di me a teatro come si farebbe in un gran convito». Affini e degne di far coppia con queste appariranno le reazioni di Archita di Taranto e di Platone. Il primo, di ritorno da una guerra (ricopriva in quel momento l'incarico di stratego), trovò incolti i suoi campi; chiamato il fattore: «Urleresti di dolore gli disse - se io non fossi troppo in collera». Platone, adiratosi con uno schiavo ingordo e laido, mandò a chiamare Speusippo, il figlio di sua sorella, e: «Pensa tu a battere costui! - gli disse allontanandosi - Io sono troppo arrabbiato». Mi si potrebbe obiettare che questi sono comportamenti difficili e duri da imitare. Lo so anch'io, ma per quanto è possibile bisogna almeno tentare di servirci di simili esempi e sottrarre quanto più è possibile a una collera sfrenata e furiosa: in nessun campo, d'altra parte, possiamo contendere con la bravura e la perfezione morale di quei grandi! Ciò nonostante, quasi fossimo sacri interpreti della loro divinità e portafiaccole della loro sapienza, dobbiamo sforzarci, per quanto sta in noi, di imitarne i comportamenti e carpirne qualcosa. Quanto poi al tenere a freno la lingua (che, in base al mio proponimento, è l'ultimo punto che mi rimane da trattare), se si pensa che abbia scarso rilievo e importanza, si è molto lontani dal vero: un tempestivo silenzio è cosa saggia e vale più di qualunque discorso! Per questo, mi sembra, gli antichi istituirono i riti di iniziazione, perché abituati in quei frangenti a mantenere il silenzio, potessimo poi trasferire il timore suscitato dagli Dei alla fedeltà nel custodire i segreti degli uomini. Di fatto, nessuno s'è mai pentito di aver taciuto; moltissimi, invece, di aver parlato. È facile dire ciò che si è taciuto, ma riafferrare quel che si è detto è impossibile. So per sentito dire che un'infinità di persone è piombata nelle più gravi sventure per non aver saputo tenere a freno la lingua. [...] Quanto a me, dato che finora ho parlato della disciplina e della compostezza dei ragazzi, passerò adesso a trattare anche dell'età adolescenziale, facendo una brevissima premessa. In più occasioni ho avuto modo di biasimare i responsabili dell'introduzione di cattive abitudini, quelli cioè che sottopongono i bambini al controllo di pedagoghi e maestri ma poi lasciano pascolare liberamente l'impulsività degli adolescenti, mentre al contrario è con questi ultimi, più che con i bambini, che c'è bisogno di cautela e vigilanza. Chi non sa che le mancanze dei bambini sono lievi e perfettamente sanabili, e si riducono probabilmente a noncuranza verso il pedagogo o a qualche sotterfugio e disobbedienza nei riguardi del maestro, mentre le colpe della prima giovinezza sono spesso aberranti e funeste: eccessi di gola, furti di denaro paterno, dadi, gozzoviglie, sbornie, amoreggiamenti con fanciulle e seduzione di donne sposate? Non c'è dubbio che l'impulsività di costoro debba essere imbrigliata e tenuta sotto stretto controllo. L'età in fiore è sregolata nei piaceri, scalpitante e bisognosa di freno, tanto che, se non la si blocca con decisione, si finisce inavvertitamente per consentire alla sua sventatezza di degenerare in comportamenti ingiusti. Un padre coscienzioso deve dunque stare in guardia e vigilare soprattutto in questa fase delicata, ed indirizzare gli adolescenti alla temperanza ricorrendo ad insegnamenti, minacce, preghiere, consigli, promesse, ed additando l'esempio di quanti per amore dei piaceri finirono male o seppero al contrario procurarsi elogi e buona reputazione grazie al loro autocontrollo. Due sono, per così dire, le vie maestre della virtù: speranza d'onore e timore di punizioni. La prima rende i giovani più ardenti verso i comportamenti più belli, la seconda li fa più esitanti verso le azioni cattive. In generale, poi, è opportuno tenere lontano i ragazzi dal frequentare i cattivi soggetti, perché dai loro vizi riportano sempre qualcosa. La stessa raccomandazione faceva anche Pitagora, servendosi di espressioni enigmatiche, che io voglio ora citare e spiegare, dato che anch'esse influiscono non poco sull'acquisizione della virtù. Ad esempio: «Non gustare melanuri», cioè non intrattenersi con persone «nere» di malvagità; «Non far tracollare la bilancia», che indica la necessi tà di tenere in grandissimo conto la giustizia e non trasgredirla; «Non sedere sulla chènice», cioè fuggire l'ozio e provvedere a procurarci il sostentamento quotidiano; «Non porgere a chiunque la destra», invece di dire: «Nel fare accordi ci vuole cautela»; «Non portare un anello stretto», e cioè la vita va vissuta in libertà e senza contrarre legami; «Non attizzare il fuoco col ferro», invece di dire: «Non irritare chi è adirato», perché non sarebbe conveniente, ma è meglio assecondare chi è in preda all'ira; «Non mangiare il cuore», ossia non far male all'anima logorandola di ansie; «Astenersi dalle fave», cioè non bisogna darsi alla politica, perché anticamente era con le fave che si facevano le votazioni con cui si poneva fine alle magistrature; «Non mettere il cibo nell'orinale»: significa che non si dovrebbe riporre un discorso valido in un'anima malvagia, perché la parola è nutrimento del pensiero, ma la malvagità degli uomini la rende impura; «Giunto ai confini non volgerti indietro», cioè quando si è in punto di morte e si vede ormai vicino il termine della vita, accettare di buon grado e non smarrirsi d'animo. [...] Queste riflessioni, dunque, si ispirano al bene e all'utile, queste altre, che sto per esporre, al senso d'umanità. Io non ritengo opportuno che i padri siano eccessi vamente rigidi e intransigenti, ma al contrario penso che in più d'una occasione debbano essere disposti a perdonare i falli più leggeri, ricordando che sono stati giovani anche loro. Temprando con succhi dolci le medicine amare, i medici hanno fatto di ciò che è piacevole una via d'accesso all'utile: così i padri devono attenuare l'asprezza dei rimproveri con la dolcezza e ora distendere e allentare la briglie ai desideri dei figli e ora invece tirarle, e soprattutto sopportarne gli errori senza perdere il buonumore, e se non ci riescono, dopo lo scatto d'ira, disinfiammarsi in fretta. Un padre deve dare immediato sfogo alla collera piuttosto che covarla a lungo dentro di sé, perché un atteggiamento rancoroso e mal disposto alla conciliazione è indizio non lieve di mancanza d'amore verso i figli. È bene anche, nei riguardi di talune loro mancanze, far finta di non esserne neppure a conoscenza, e trasferire su quegli episodi la debolezza di vista e di udito tipica della vecchiaia, sì da non vedere pur vedendo e da non sentire pur sentendo certe loro bravate. Tolleriamo le mancanze degli amici: che c'è di strano se facciamo lo stesso con i figli? In più occasioni abbiamo evitato di rimproverare l'ubriachezza a schiavi intontiti dal vino. Una volta sei stato stretto? Ora largheggia! Un'altra volta ti sei arrabbiato? Ora perdona! È ricorso a un servo per ingannarti? Frena la collera! Ti ha sottratto dalla campagna una coppia di animali o è ritornato coll'alito che ri sentiva della sbornia del giorno prima? Fa' finta di niente! È tutto un profumo? Non dire niente! Così si doma la gioventù, quando scalpita come un puledro. [...] Per una corretta educazione dei figli si devono dunque impiegare tutti i mezzi opportuni, prendendo a modello Euridice che, pur essendo illirica e tre volte barbara, si mise a studiare in età avanzata per seguire i figli nello studio. E l'amore che portò loro è ben espresso dall'epigramma da lei dedicato alle Muse: Euridice di Irra consacrò questa offerta alle Muse, colto nell'anima il desiderio di sapere. Già madre di figli fiorenti, si sforzò d'imparare le lettere, che serbano delle parole il ricordo. Concludendo, riuscire a far proprie tutte le raccomandazioni qui esposte è forse solo una speranza, ma aspirare a concretarne la maggior parte, anche se richiede fortuna e grande impegno, è pur sempre una meta raggiungibile per chi ha natura di uomo. Plutarco, Dell'educazione) Isocrate Se tutti coloro che si dedicano all’educazione volessero essere sinceri e non promettessero più di quanto possono guadagnare, non incorrerebbero nelle critiche della gente; ora, invece, coloro che osano troppo inconsideratamente vantarsi, hanno fatto sì che meglio sembrino deliberare quelli che preferiscono non occuparsi di nulla, di quelli che dedicano il loro tempo al sapere. Chi, infatti, non proverebbe antipatia e disprezzo, in primo luogo, verso coloro che consumano il loro tempo in discussioni inconcludenti, i quali si danno l’aria di ricercare la verità, ma subito, fin dagli inizi del programma, cominciano a mentire? Infatti, credo che a tutti sia chiaro che non è nelle nostre facoltà naturali prevedere il futuro ma tanto siamo lontani da tale capacità intellettiva, che Omero, il quale ha conseguito grandissima fama in quanto a saggezza, ci presenta anche gli dèi, talvolta, nell’atto di deliberare sull’avvenire; e non perché conoscesse il loro pensiero, ma perché voleva dimostrarci che questa è una delle cose impossibili agli uomini. Costoro sono giunti a tal punto di impudenza, che tentano convincere i giovani che, se li frequenteranno, sapranno ciò che si deve fare, e in virtù di questa scienza saranno felici. E pur facendosi maestri e arbitri di siffatti beni, non si vergognano di chiedere in cambio tre o quattro mine soltanto. Ma, se vendessero qualcun altro dei loro beni a una minima parte del loro valore, non pretenderebbero di essere saggi; quando invece valutano così poco l’intera virtù e felicità, come se fossero intelligenti, credono giusto diventare maestri degli altri. E affermano che non hanno bisogno di averi, chiamando la ricchezza un pugno di argento e di oro; ma poi, in cerca di un piccolo guadagno, per poco non promettono ai discepoli di renderli immortali. Ma questa è davvero la cosa più ridicola: che a quelli, dai quali devono avere un compenso per le lezioni, negano fiducia, pur essendo in procinto di trasmettere loro la rettitudine; e proprio da quelli di cui mai sono stati maestri, si fanno garantire quanto devono ricevere dai loro discepoli, bene consigliandosi, in verità, per la propria sicurezza, ma comportandosi in pratica in modo contrario al loro programma. Certo, non è disdicevole che chi si dedica a qualche altro insegnamento, curi il proprio interesse. Niente infatti impedisce che chi abbia acquistato abilità in altri campi, violi i patti convenuti; ma, come non è illogico che quelli che inculcano la virtù e la saggezza, non abbiano fiducia soprattutto nei loro discepoli? Non infatti di certo, questi, se nei riguardi degli altri sono ottimi e giusti, saranno scorretti verso quelli, ad opera dei quali sono così diventati. Qualora dunque qualche profano, avendo considerato tutto questo, si accorga che coloro che insegnano la sapienza e trasmettono la felicità hanno essi stessi bisogno di molte cose e si fanno pagare piccole somme dai loro discepoli, e mentre vanno a caccia delle contraddizioni nelle parole non le scorgono nelle azioni, e ancora, pur vantandosi di conoscere le cose future, circa le presenti non sono capaci né di dire né di consigliare alcunché di conveniente, ma che sono più coerenti e più riescono quelli che seguono l’opinione di quelli che si vantano di possedere la scienza, bene a ragione, credo, disprezzino e giudichino ciarlataneria e meschinità questo genere di discussioni, e non educazione dell’anima. Non è giusto però criticare soltanto costoro, bensì anche quelli che promettono di insegnare l’eloquenza pubblica. Essi, infatti non si danno pensiero della verità e pensano che l’abilità sia questa, se cioè attirano quanti più possono con una modesta richiesta di denaro e con grandi promesse, e se possono ottenere da loro un qualche guadagno. Sono così insensati essi stessi e pensano che lo siano anche gli altri, che pur scrivendo discorsi in modo peggiore di quelli che alcuni inesperti improvvisano, ciò nonostante assicurano che renderanno chi li frequenta oratore sì abile, che non gli sfuggirà nessuno aspetto possibile delle questioni. [...] Ecco la prova più evidente della diversità fra le due cose: non è possibile che i discorsi siano belli, se non si accordino alle circostanze, non siano aderenti al soggetto, non abbiano originalità; le lettere, invece, non abbisognano di nessuna di queste norme. Cosicché coloro i quali si servono di simili esempi, sarebbe molto più giusto pagassero piuttosto che ricevere denaro, poiché, pur avendo essi stessi bisogno di molto studio, vogliono educare gli altri. Se io devo non solo muovere accuse agli altri, ma anche manifestare il mio pensiero, ebbene, penso che tutte le persone assennate siano d’accordo con me nel dire che molti di quelli che si sono dedicati alla filosofia continuano a essere degli sprovveduti; alcuni altri invece, che non hanno mai frequentato alcun sofista, sono diventati capaci nel dire e nel trattare i pubblici affari. Infatti la capacità oratoria e la capacità di agire in ogni campo si trovano in chi ne è per natura dotato e in chi si sia esercitato con le esperienza. Ma è l’educazione che fa tali individui più abili e ricchi di risorse per le ricerche; infatti insegna loro a cogliere con più prontezza quegli elementi che ora trovano alla cieca; ma non potrebbe rendere polemista valente o compositore di discorsi chi è meno dotato per natura;potrebbe tuttavia renderlo migliore di quello che è e far sì che sia più accorto riguardo a molte cose. Poiché sono giunto a questo punto, voglio parlare in modo ancora più chiaro su questo argomento. Io dico, infatti, che non è tra le cose molto difficili acquistare la conoscenza dei procedimenti retorici, coi quali pronunciamo e componiamo tutti i discorsi, qualora uno si affidi non a chi facilmente promette, ma a chi è esperto della materia; però scegliere tra questi procedimenti quelli che convengono a ciascun argomento, collegarli l’uno con l’altro, ordinarli convenientemente e, ancora, non sbagliarsi sul momento di usarli, variare con con riflessioni in modo adatto, il complesso del discorso ed esprimersi con armoniose e musicali espressioni, il tutto questo richiede molta cura, ed è proprio di uno spirito vigoroso e sagace; ed è necessario che il discepolo, oltre a possedere una natura adatta apprenda i procedimenti retorici e si eserciti nel loro uso, e che il maestro sia in grado di esporli così accuratamente, da non tralasciare nulla di ciò che si può insegnare; riguardo al resto, poi, offra sé stesso ad esempio, in modo che sia subito evidente che quelli su cui ha lasciato un’impronta e sono in grado di imitarlo, si esprimono con un linguaggio più fiorito ed elegante degli altri. Qualora si siano verificate tutte queste circostanze, chi si dedica all’oratoria raggiungerà la perfezione; ma se qualcuna delle suddette condizioni viene a mancare, necessariamente, sotto questo riguardo, i discepoli si trovano in difetto. Senza dubbio quei sofisti che sono venuti su da poco, e di recente si sono lasciati andare a millanterie, anche se ora passano ogni limite, tutti, so bene, ripiegheranno su questi principi. Mi resta da parlare di quelli vissuti prima di me, che osarono scrivere i cosiddetti trattati di retorica; non bisogna lasciarli senza critiche. Essi promisero di insegnare a discutere le cause in tribunale, avendo scelto la più sgradita tra le espressioni,che avrebbe dovuto usare chi ha in odio l’eloquenza, e non chi è maestro di tale metodo di educazione: tanto più potendo l’arte oratoria giovare, per quanto è insegnabile, al genere giudiziario non più che a tutti gli altri. Tanto sono stati peggiori di quelli che si ingolfano in vane contese verbali, in quanto questi, pure esponendo così futili opinioni, alle quali se uno si attenesse nella pratica, subito si troverebbe nei guai, ciò nonostante promettono, a questo proposito, la virtù e la saggezza; quelli invece, invitando all’oratoria pubblica, messi da parte gli altri vantaggi presenti in questo genere di discorsi, si sono prestati a esser maestri di intrigo e di cupidigia. (Isocrate, Contro i sofisti) Cicerone [...] Pur sussistendo nell'ambito filosofico molti serii ed utili problemi approfonditi dalla larga disamina dei filosofi, tuttavia sembra avere la più larga applicazione quanto essi tramandarono ed insegnarono sui doveri. Nessun aspetto della vita, negli argomenti pubblici o privati, forensi o domestici, sia che tu affronti una situazione da solo, sia che contragga un impegno con altri, può sottrarsi ad una responsabilità etica, e nell'adeguarvisi consiste appunto tutta la probità di una vita, nel trascurarla, la disonestà. Questo è problema comune a tutti i filosofi; chi infatti oserebbe chiamarsi filosofo senza dare alcun insegnamento relativo al dovere? Ma vi sono delle dottrine che capovolgono ogni concetto di dovere proponendo determinate discriminanti del bene e del male. Chi infatti stabilì il bene ultimo come alcunché che avesse nulla in comune con la virtù, e questo bene rapporta al vantaggio, non all'onestà, costui, se volesse essere coerente, e se non è ispirato talvolta dalla bontà naturale, non potrebbe praticare né l'amicizia, né la giustizia, né la liberalità; ma per contro costui non può affatto essere forte giudicando massimo male il dolore, né temperante, stabilendo il piacere come massimo bene. Pur essendo ciò così evidente, che non v'è neppur bisogno di discuterne, tuttavia ne abbiamo trattato altrove. Queste dottrine pertanto se volessero salvare la coerenza non potrebbero far parole del dovere, né alcuno può impartire insegnamenti saldi, stabili, fondati sulla natura, intorno al dovere se non coloro che affermino che l'onestà è in primo luogo da perseguire di per se stessa. La missione di tale insegnamento è dunque propria degli Stoici, degli Accademici, dei Peripatetici, dal momento che già abbiamo disapprovata la concezione di Aristone, di Pirrone, di Erillo 1; i quali però avrebbero il diritto di discutere sul dovere, se avessero lasciato una qualche distinzione degli oggetti che permettesse di accedere alla scoperta del concetto di dovere. Ora dunque, ed in questo problema, seguiremo soprattutto gli Stoici, non già come traduttori, ma, com'è nostro costume, attingendo dalla loro sorgente a nostro giudizio quanto e nel modo in cui ci sembrerà opportuno. E dal momento che tutta la discussione riguarderà il dovere, è opportuno definire in precedenza che cosa esso dovere sia; il che mi stupisco che sia stato tralasciato da Panezio: infatti ogni trattazione che venga razionalmente intrapresa intorno a qualche argomento, deve partire da una definizione al fine dell'intelligenza dell'oggetto della discussione stessa. Il complesso della dottrina riguardante il dovere abbraccia due parti: la prima spettante il sommo bene, la seconda consistente nelle norme pratiche, cui si deve adeguare la pratica della vita in tutti i suoi aspetti. Esempi della prima potrebbero essere questi: se tutti i doveri siano assoluti, se qualcuno di essi sia più importante di un altro, e quanto rientra nello stesso genere di quesiti. I doveri poi, di cui si danno delle norme, pur riguardando anch'essi il bene sommo, tuttavia ne hanno meno l'apparenza, perché sembrano interessare piuttosto la condotta della vita comune; e di ciò si tratterà in questi libri. Ma vi è pure un'altra divisione dei doveri: vi è infatti il dovere cosiddetto relativo e quello assoluto. Dovere assoluto potremmo chiamare il "retto", poiché i Greci lo denominano "katórthoma", e l'altro comune "kathékon". La loro definizione è tale che il retto è definito appunto come dovere assoluto; e chiamano dovere relativo quello di cui si possa dare una giustificazione approvabile. Secondo Panezio2 pertanto tre sono i casi di una decisione: il primo cioè si verifica quando si dubita se sia lecito o illecito a farsi ciò di cui si deve decidere; ed in siffatta considerazione spesso l'animo è diviso fra opposti giudizi. Il secondo caso è presentato dalla preoccupazione e dall'esigenza della convenienza o meno della decisione (decisione che in tutti i casi ricade nel calcolo dell'utilità) in vista della comodità della vita e della piecevolezza, delle ricchezze, dell'abbondanza delle risorse, del prestigio, utili a giovare a se stesso ed ai suoi. Il terzo genere di dubbio è dato dal conflitto fra il lecito e ciò che sembra vantaggioso; ed accadendo che l'utilità sembri trascinare a sè, e d'altra parte anche l'onestà invitare a se stessa, ne viene all'animo un'incertezza di decisione ed una duplice esigenza di giudizio. Sebbene sia gravissimo difetto tralasciare alcunché in una partizione, due momenti sono stati lasciati da parte in questa divisione, infatti non si è soliti decidere soltanto fra il 1 Di questi filosofi si conosce ben poco, per lo più tramite testimonianze indirette e secondarie, come la stessa di Cicerone. 2 Uno dei maggiori esponenti dello stoicismo. lecito e l'illecito, ma anche su un oggetto più legittimo di fronte a due leciti, e parimenti sul più utile fra due utili; si conclude così che si deve distinguere in cinque parti quell'analisi che Panezio considerò triplice soltanto. Si dovrebbe quindi prima trattare del lecito, ma sotto due aspetti, ed in egual modo dell'utile, ed in seguito del loro confronto. Anzitutto ogni specie animale, al fine di conservare se stessa, la propria vita ed il proprio corpo, per natura evita quanto sembri nocivo, ed appetisce e si procaccia tutto quanto è necessario alla vita, come il pasto, il ricovero, ed il resto dello stesso genere. È del pari comune a tutti gli esseri animati l'istinto sessuale al fine della procreazione, ed una certa qual cura delle loro creature. Corre però soprattutto questa differenza fra l'uomo ed i bruti, che questi si adeguano solo in quanto sono mossi dalla sensazione e soltanto a quello che è presente ed immediato, scarsamente avvertendo il passato ed il futuro, mentre l'uomo, in quanto partecipe della ragione, onde scorge le connessioni, vede le cause immediate e, per così dire, gli antecedenti, pone delle analogie, collega e stringe al presente il futuro, agevolmente coglie tutto il corso della vita ed appresta quanto necessita a trascorrerla. La medesima natura, con la forza del ragionamento, unisce uomo con uomo per la comunanza del linguaggio e della vita, ed in primo luogo vi instilla un singolare amore per i figli, e spinge l'uomo a voler che vi siano incontri e radunanze di uomini ed afrequentarle, e perciò si studi di procacciare quanto occorre alla vita ed al sostentamento non soltanto per sè, ma per la moglie, i figli, e quanti altri tiene cari e deve proteggere; esigenza questa che stimola i sentimenti e li rende più efficaci nella pratica delle cose. Soprattutto è caratteristica dell'uomo l'assidua ricerca del vero. Così, allorché siamo liberi da occupazioni e preoccupazioni inevitabili, allora bramiamo vedere, udire, apprendere alcunché, e riteniamo necessaria ad una vita felice la conoscenza di misteri o di meraviglie; dal che si arguisce che specialmente adatta alla natura umana è la verità, semplice e schietta. A tale desiderio di vedere la verità si aggiunge un cotal desiderio di primeggiare, sicché un animo bennato non vorrebbe obbedire a nessuno, se non a chi ammaestri od insegni o comandi secondo un diritto ed una legge in vista di un utile; da ciò nasce la magnanimità ed il dispregio delle cose terrene. Non è piccolo pregio della natura e della ragione che questo, unico tra gli esseri animati, avverta che cosa sia l'ordine, il conveniente, la moderazione nelle azioni e nelle parole. Nessun altro essere sente la bellezza, la venustà, la concordanza delle singole parti delle stesse percezioni sensibili; la ragione naturale poi, trasportando per analogia queste proprietà dai sensi allo spirito, ritiene che ancor di più si debbano conservare bellezza, coerenza, ordine nei pensieri e nelle azioni, e si guarda dal commettere alcunché di sconveniente e di vergognoso, e del pari dal pensare o agire in alcunché capricciosamente, in tutti i suoi giudizi ed in tutte le sue azioni. Di questi elementi consta ed è composta quell'onestà di cui facciamo ricerca, la quale anche se non è pubblicamente riconosciuta, è pur sempre quell'onestà che potremmo veramente dire che è per sua natura lodevole, ancorché nessuno la lodi. Tu vedi, Marco3, l'aspetto stesso e, per così dire, il volto dell'onestà che, come dice Platone, "se si vedesse con gli occhi susciterebbe un meraviglioso amore". Ma quanto è compreso nella categoria dell'onesto, si fonda su qualcuno di questi quattro elementi: o riguarda l'intuizione e lo studio della verità; o il mantenimento dell'umana società, la giustizia distributiva e la lealtà degli impegni; o la magnanimità e la forza d'animo di uno spirito eccelso ed invitto; o l'ordine e la misura di quanto si fa e si dice, nel che consisotono la moderazione e la temperanza. Questi quattro elementi, sebbene connessi ed impliciti l'uno nell'altro, dànno luogo singolarmente a determinati generi di doveri, come nel primo che abbiamo menzionato, ed in cui poniamo la sapienza e la prudenza, consiste la ricerca e la scoperta della verità, e questo è il compito specifico di questa virtù. Chi infatti più acutamente scorge quello che vi è di più vero in ciascuna cosa, e chi più sottilmente e prontamente può vederne e spiegarne la ragione, questi è di solito considerato il più prudente ed il più sapiente. Pertanto il sostrato di essa virtù, ed in certo senso la materia da maneggiare e di cui occuparsi, è rappresentata dalla verità. Le rimanenti tre virtù presentano l'esigenza di procacciare e conservare 3 È l'interlocutore fittizio di Cicerone nel dialogo. In realtà, diversamente da quanto accade nei dialoghi platonici, i personaggi dei dialoghi ciceroniani, e di altri imitatori di Platone nell'antichità, sono scarsamente definiti ed il dialogo stesso appare solo abbozzato; risulta essere in gran parte piuttosto un monologo, in cui gli interventi dei vari interlocutori hanno lo scopo di rendere più piacevole la lettura. quanto occorre alla vita pratica, al fine di assicurare la società e l'unione degli uomini, ed affinché l'eccellenza e la grandezza d'animo abbiano a risplendere sia nell'aumentare le proprie facoltà e nel procurare vantaggi a sé ed ai suoi, sia molto di più appunto nel disprezzo di queste stesse cose. Egualmente l'ordine, la coerenza, la moderazione e le altre virtù analoghe, sono comprese in quella categoria che implica una certa attività pratica, e non soltanto intellettuale; adibendo dunque moderazione ed ordine in quelle attività pratiche della vita conserveremo l'onestà e la convenienza. Delle quattro categorie in cui dividemmo le caratteristiche e l'essenza dell'onesto, quella che riguarda la conoscenza della verità, cioè la prima, è quella che investe più direttamente la natura umana: tutti siamo attratti e spinti al desiderio della conoscenza e della scienza, nella quale stimiamo bello l'eccellere, brutto e male il mancare, l'errare, l'ignorare, l'ingannarsi. In questa virtù naturale dell'onestà dobbiamo evitare due difetti, l'uno di non considerare l'ignoto come conosciuto e non darvi temerariamente il nostro assenso; e chi vorrà sfuggire a tale difetto (e tutti devono volerlo) adibirà tempo e diligenza nel considerare le cose. Il secondo difetto consiste nel fatto che taluni mettono troppo impegno e lavoro in oggetti oscuri e difficili, e per di più non necessari. Evitate queste manchevolezze, si loderà a buon diritto ogni cura ed attività posta in oggetti onesti e degni di conoscenza. [...] Tutto il pregio della virtù sta infatti nell'azione pratica, dalla quale tuttavia è concessa spesso una vacanza, dandosi molte occasioni di ritornare agli studi; e il fervore intellettuale che mai non posa può trattenerci nelle occupazioni speculative anche senza nostro deliberato proposito. Ogni pensiero, ogni impulso dello spirito verterà o su decisioni riguardanti oggetti onesti interessanti l'onestà e felicità della vita, oppure sugli studi scientifici e teorici. Questo quanto dovevamo dire sulla prima sorgente del dovere. Fra i restanti tre aspetti dell'onesto un larghissimo campo interessa quello onde è tenuta connessa l'umana società e quasi la comunanza stessa della vita; due ne sono le specie: la giustizia, in cui brilla nel suo massimo splendore la virtù, e che dà il suo nome ai buoni, e quindi la beneficenza, ad essa connessa, che potremmo anche chiamare benevolenza o generosità. Primo ufficio della giustizia è che nessuno rechi danno ad altri se non provocato da offesa, e, secondariamente, che ci si serva dei beni comuni come comuni, e come propri soltanto dei privati. Nulla è però già naturalmente privata proprietà, ma o per diritto di antico possesso, come quanti pervennero un tempo in territori liberi da abitanti, o per diritto di vittoria, come quando ci s'impadronisce per guerra, o per legge, contratto, convenzione o sorteggio; dal che deriva che il territorio arpinate è detto degli Arpinati4, il tuscolano dei Tuscolani; ed analoga è la distinzione delle proprietà private. Per questo, poiché ciascuna cosa che era stata per natura di proprietà comune diventa proprietà di singoli, ciascuno si tenga ciò che gli è toccato; e se qualcuno ne vorrà per sè, violerà la norma sociale umana. Ma poiché siamo nati non soltanto per noi, come egregiamente scrisse Platone, e la patria rivendica a sè parte della nostra esistenza, parte ne rivendicano gli amici; e, secondo la teoria stoica, tutto quanto vede la luce in terra è creato per l'umana utilità, e quindi gli uomini vengono al mondo in servizio degli uomini stessi, affinché possano recarsi reciproco giovamento: in questo dobbiamo seguire la guida della natura, mettere a disposizione del comune i vantaggi con la reciprocità del dovere, dando e ricevendo, stringere la società degli uomini fra di loro, con le arti, le prestazioni, le risorse a nostra disposizione. La sincerità, cioè la fedeltà e la veracità nei confronti delle promesse e dei patti, è il fondamento della giustizia. E sebbene tal cosa possa suonare forse troppo dura a taluno, imitiamo perciò gli Stoici, che ricercano con passione l'etimologia delle parole, e riteniamo ancor noi che ciò che si chiama "fede" deriva da "farsi". Due sono però le specie di ingiustizia, l'una di chi reca offesa l'altra propria di chi non respinge l'offesa, ove sia possibile, da coloro che ne sono colpiti. Chi infatti assale qualcuno a torto, mosso da ira o da qualche altra passione, ha l'apparenza quasi di metter le mani addosso ad un compagno; e chi, potentodolo, non lo difende e si oppone all'offesa, è altrettanto colpevole che se abbandonasse i genitori, o gli altri, o la patria. Quelle offese poi che vengono recate deliberatamente a scopo di nuocere, spesso traggono origine da un timore, pensandosi colui, che medita di nuocere ad altri, di ricevere egli stesso danno ove non offenda. La stragrande maggioranza poi muovono all'offesa onde conseguire l'oggetto dei loro desideri; nella qual colpa ha grandissima parte l'avidità. 4 Arpino e Tuscolo sono i luoghi originari di Cicerone stesso. Si aspira infatti alla ricchezza sia per le pratiche necessità della vita, sia per poter godere dei piaceri. In quelli poi che hanno animo più generoso il desiderio di danaro mira alla potenza ed alla possibilità di legare a sè degli uomini. Così, non è gran tempo, M. Crasso diceva che, per chi volesse conseguire il principato politico, nessun capitale bastava senza poter mantenere un esercito col suo reddito. Fanno piacere anche la lussuosa magnificenza ed un tenor di vita raffinato e senza restrizioni, donde deriva che il desiderio di danaro sia inesauribile. Non già che si debba biasimare l'incremento del patrimonio perseguito senza alcun danno di terzi, ma bisognerà sempre evitare di fare dei torti. Succede poi ai più soprattutto di dimenticarsi della giustizia una volta invischiati nell'ambizione del potere, della carriera, della glora. Quello che sta scritto in Ennio 5: "nessuna sacrosanta alleanza / nessuna lealtà è nel regno" ha ben più larga applicazione. Tutto ciò infatti che è di tal guisa, per cui non vi si possa eccellere in molti, provoca generalmente così grande concorrenza, che è ben difficile conservare la sacrosanta alleanza. Questo dimostrò pur ora l'audacia di Giulio Cesare che, per quel principato, di cui era andato fantasticando per insano errore, sconvolse tutte le leggi divene ed umane. In tal genere di passioni è spiacevole che l'ambizione dell'onore, della potenza, del predominio, della gloria alligni per lo più negli animi più nobili e splendidi: onde ancor più bisognerà guardarsi dal cadere in colpa di tale specie. Ma in ogni ingiustizia corre molta differenza se il torto è commesso per una passione, generalmente breve ed occasionale, oppure deliberatamente e per calcolo. Quanto accade infatti per una qualche commozione improvvisa è meno grave di quel che si commette meditatamente e dopo accurata preparazione. E questo basta per quanto riguarda il recar offesa. Molte sono solitamente le ragioni per cui si tralascia la difesa e si tradisce il dovere; non ci si vuol accollare inimicizie, brighe o spese, ovvero per negligenza, pigrizia, inerzia, o ancora si è impediti dai propri interessi ed occupazioni in maniera tale da non preoccuparsi che vengano abbandonati quelli che si dovrebbe proteggere. Ci sarebbe da pensare che non sia sufficiente quanto si dice in Platone a proposito dei filosofi, che sono giusti soltanto perché si occupano delle ricerca del vero, e perché tengono in dispregio ciò appunto che il volgo brama intensamente e per cui suole scannarsi a vicenda. Certamente essi perseguono il primo fine, di non nuovcere ad alcuno, recandogli offesa; cadono però nel secondo, abbandonando la difesa di chi debbono proteggere, impediti dal desiderio della scienza. Così egli ritiene che costoro nemmeno si dovrebbero dedicare alla politica, se non costretti. Sarebbe però stato più giusto se vi si dedicasserro volontariamente, poiché la rettitudine è virtuosa soltanto a condizione di essere volontaria. Vi sono inoltre di quelli che dicono, o per preoccupazioni patrimoniali o per una sorta di misantropia, di badare agli affari loro e di non far del male a nessuno. Anche costoro, pur esenti da un genere di ingiustizia, cadono nel secondo: trascurano la vita associata, senza contribuirvi con alcun interesse, con alcuna attività, con alcuna capacità. Premesse le due sorte di ingiustizia, aggiunte le cause di ambedue, e definite precedentemente le circostanze su cui si fonda la giustizia, è facile giudicare del dovere in ciascun caso, salvo ci faccia velo un eccessivo egoismo; ché è difficile preoccuparsi dell'interesse altrui. Certamente il Cremete di Terenzio "nulla che sia dell'uomo considera a sè estraneo"; eppure, per il fatto stesso di percepire e sentire maggiormente le nostre gioie o i nostri dolori che non gli altrui, i quali scorgiamo quasi in una lontana prospettiva, diverso è il criterio di giudizio su di quelli e su di noi. Per questo bene insegnano coloro che impongono di astenersi dall'agire nel dubbio se si tratti di atto giusto o ingiusto. La rettitudine infatti splende di per se stessa, il dubbio denuncia l'intenzione di offendere. 5 Uno dei primi e maggiori poeti latini. Seneca Lettera 1 – L'uso del tempo Fa' così, caro Lucilio: renditi veramente padrone di te e custodisci con ogni cura quel tempo che finora ti era portato via, o ti sfuggiva. Persuaditi che le cose stanno come io ti scrivo: alcune ore ci vengono sottratte da vane occupazioni, altre ci scappano quasi di mano; ma la perdita per noi più vergognosa è quella che avviene per nostra negligenza. Se badi bene, una gran parte della vita ci sfugge nel fare il male, la maggior parte nel non fare nulla, tutta quanta nel fare altro da quello che dovremmo. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo e alla sua giornata, e che si renda conto com'egli muoia giorno per giorno? In questo c'inganniamo, nel vedere la morte avanti a noi, come un avvenimento futuro, mentre gran parte di essa è già alle nostre spalle. Ogni ora del nostro passato appartiene al dominio della morte. Dunque, caro Lucilio, fa' ciò che mi scrivi; fa' tesoro di tutto il tempo che hai. Sarai meno schiavo del domani, se ti sarai reso padrone dell'oggi. Mentre rinviamo i nostri impegni, la vita passa. Tutto, o Lucilio, dipende dagli altri; solo il tempo è nostro. Abbiamo avuto dalla natura il possesso di questo solo bene sommamente fuggevole, ma ce lo lasciamo togliere dal primo venuto. E l'uomo è tanto stolto che, quando acquista beni di nessun valore, e in ogni caso compensabili, accetta che gli vengano messi in conto; ma nessuno, che abbia cagionato perdita di tempo agli altri, pensa di essere debitore di qualcosa, mentre è questo l'unico bene che l'uomo non può restituire, neppure con tutta la sua buona volontà. Mi domanderai forse come mi comporti io che ti dò questi consigli. Te lo dirò francamente: il mio caso è quello di un uomo che spende con liberalità, ma tiene in ordine la sua amministrazione; anch'io tengo i conti esatti della spesa. Non posso dire che nulla vada perduto, ma sono in grado di dire quanto tempo perdo, perché e come lo perdo; posso cioè spiegare i motivi della mia povertà. Capita anche a me, come alla maggior parte della gente caduta in miseria senza sua colpa: tutti sono disposti a scusare, ma nessuno viene in aiuto. E che dunque? Per me non è povero del tutto colui che, per quanto poco gli resti, se lo fa bastare. Ma tu, fin d'ora, serba gelosamente tutto quello che possiedi; e avrai cominciato a buon punto, poiché – ci ammoniscono i nostri vecchi – è troppo tardi per risparmiare il vino, quando si è giunti alla feccia. Nel fondo del vaso resta non solo la parte più scarsa, ma anche la peggiore. Addio. Lettera 2 – La lettura che giova quello che mi scrivi, come quello che sento dire, mi fa bene sperare di te. Tu non vai qua e là, né ti agiti cambiando continuamente luogo. Quest'irrequietezza è propria di uno spirito malato; ed io considero come primo indizio di un animo equilibrato il sapere restar fermo e raccolto in se stesso. Bada inoltre che, in codesta lettura di molti autori e di libri di ogni genere, tu non vada vagando dall'uno all'altro. Devi acquistare dimestichezza con autori scelti e nutrirti di essi, se vuoi trarne qualcosa che rimanga stabilmente nell'animo. Chi vuol essere da per tutto, non sta in nessun luogo. Chi passa la vita in un continuo vagabondaggio, troverà molti ospiti, ma nessun vero amico. Così è necessario che capiti a chi non si applica con assiduità allo studio di nessun autore ma tutti li scorre in fretta. Non giova, né si assimila, il cibo rigettato appena preso. Niente impedisce tanto la guarigione quanto il cambiare spesso i rimedi. Non arriva a cicatrizzarsi la ferita, se si provano varie medicature. Non cresce vigoroso l'albero che è spesso trapiantato. Nessuna cosa, per quanto utile, reca giovamento in un fuggevole contatto. Troppi libri producono dissipazione: perciò, se non ti è possibile leggere tutti i libri che potresti avere, basta che tu abbia i libri che puoi leggere. Ma, tu dici, a me piace sfogliare ora questo volume, ora quello. Assaggiare qua e là è proprio di uno stomaco viziato e troppi cibi diversi non nutrono, ma rovinano l'organismo. Perciò leggi sempre i migliori autori e, se talvolta vuoi passare ad altri, torna poi ai primi. Cerca ogni giorno nella lettura un aiuto per sopportare la povertà e per affrontare la morte e tutte le altre sventure umane. Dopo aver letto molto, scegli un pensiero che tu possa assimilare in quel giorno. Anch'io faccio così: del molto che leggo, prendo sempre qualcosa. Questa, ad esempio, è la massima di oggi, che ho trovato in Epicuro (ho, infatti, l'abitudine di passare in campo altrui, ma come esploratore, non come disertore): "E' una bella cosa, egli dice, la povertà accettata con animo lieto". Ma, se è bene accolta, non è più povertà. È povero non chi possiede poco, ma chi brama avere di più. Che conta quanto uno abbia nella cassaforte o nei granai, quanti armenti abbia al pascolo o quanto gli rendano i crediti, se pensa sempre alla ricchezza altrui e fa calcoli, non su quello che possiede, ma su quello che vorrebbe acquistare? Mi chiedi quale sia il giusto limite della ricchezza. Avere innanzitutto l'indispensabile, poi ciò che basta. Addio. Lettera 3 – La vera amicizia Mi scrivi di aver consegnato delle lettere per me ad un amico; ma poi mi avverti di non metterlo a parte di tutto ciò che ti riguarda, poiché neppure tu sei solito farlo. Così nella stessa lettera affermi e neghi che egli ti è amico. Se hai usato quel vocabolo specifico con un significato generico e hai chiamato amico quel tale, come noi chiamiamo "onorevoli" i candidati alle cariche pubbliche, o come salutiamo con la parola "signori" le persone che incontriamo, se non ci viene in mente il nome, passi pure. Ma se stimi amico uno, e poi non hai in lui la stessa fiducia che hai in te stesso, commetti un grave errore e ignori il valore della vera amicizia. Prendi ogni decisione d'accordo con l'amico, ma prima sii ben sicuro di lui. Prima devi giudicarlo, ma, una volta che hai stretto l'amicizia, devi fidarti pienamente di lui. Applicano a rovescio i doveri dell'amicizia quelli che, contro l'insegnamento di Teofrasto6, si fanno giudici di uno, dopo avergli concesso il loro affetto; poi, quando l'hanno giudicato, rompono l'amicizia. Rifletti a lungo se devi accettare qualcuno fra i tuoi amici, ma, presa la decisione, accoglilo di tutto cuore; e, quando parli con lui, sii schietto come con te stesso. La tua vita sia così sincera che tu possa confidare anche al tuo nemico tutto quello che ti passa per la mente. Ma poiché ci sono fatti che si usa tenere nascosti, è l'amico che devi mettere a parte di tutti i tuoi pensieri e di tutte le tue preoccupazioni. Credi alla sua fedeltà: te lo renderai fedele. Alcuni, infatti, con la loro continua paura di essere traditi, invitano al tradimento; essi, con il loro atteggiamento sospettoso, creano quasi una giustificazione al peccato. Perché non dovrei dire tutto quello che penso in presenza dell'amico? Perché davanti a lui non dovrei sentirmi a mio agio, come quando sono solo? C'è chi suole narrare al primo che incontra ciò che si può confidare solo all'amico, e riversa in qualunque orecchio il peso dei suoi affanni. C'è chi, al contrario, ha paura che anche la persona più cara venga a conoscenza dei suoi segreti e li soffoca nel suo intimo, per tenerli nascosti, se fosse possibile, anche a se stesso. Bisogna evitare l'uno e l'altro eccesso: è male sia il fidarsi di tutti, sia di nessuno; ma direi che il primo difetto è più onesto, il secondo più sicuro. Sono ugualmente da biasimare e quelli che sono sempre inquieti e quelli che sempre rimangono apatici. Infatti il continuo agitarsi di una vita tumultuosa non è sana operosità, ma irrequietezza di una mente esaltata; e il considerare molesta ogni attività non è vera quiete, ma sintomo di inettitudine. Tu terrai, dunque, bene in mente questo pensiero: "V'è chi vive così chiuso nel suo guscio, da vedere un oscuro pericolo in tutto ciò che sta alla luce del sole". Occorre saper conciliare le due condizioni di vita: l'uomo che vive nella quiete sia più operoso, e l'uomo d'azione trovi il tempo per riposare. Tu segui l'esempio che ti dà madre natura: essa ha fatto sia il giorno che la notte. Addio. Lettera 4 – Il saggio non teme la morte Continua come hai cominciato, anzi affretta il passo, perché tu possa godere più a lungo di un animo ben educato e corretto. Proverai anche piacere nell'atto di correggere ed educare il tuo spirito, ma quando lo potrai contemplare limpido e puro di ogni macchia, ben altra sarà la tua gioia. Tu certo ricordi che soddisfazione hai provato il giorno in cui, deposto l'abito di fanciullo, hai indossato la toga virile e sei stato condotto nel foro: ora aspettane una maggiore quando avrai deposto anche l'animo di fanciullo e la filosofia ti avrà fatto acquistare la piena maturità spirituale. Fino a questo momento rimane non la puerizia, ma, ciò che è più grave, la puerilità: e in questo è peggiore la nostra condizione, che abbiamo l'autorità dei vecchi e i difetti dei fanciulli, anzi degli infanti. I fanciulli si spaventano per cose di poco conto, gl'infanti per vane parvenze; noi abbiamo paura delle une e delle altre. Continua nei tuoi progressi e capirai che sono meno da temere proprio quelle cose che fanno più paura. Nessun male è grande quando è definitivo. La morte viene verso di te: sarebbe da temersi se potesse rimanere con te: per necessità, o non è ancora venuta, o quando è venuta, 6 Di formazione peripatetica, successore di Aristotele nella guida del Liceo, fu autore di una celebre "psicologia", contenuta nell'opera I caratteri. passa oltre. "È difficile, tu dici, abituare la nostra mente al dispresso della vita". E non vedi per quali frivoli motivi essa viene disprezzata? C'è chi s'impicca davanti alla porta dell'amica; un servo si getta dal tetto per non sentire i rimbrotti del padrone; un altro si caccia un pugnale nel petto per non tornare a quel lavoro servile da cui era fuggito. Non pensi tu che un animo coraggioso possa giungere a quel disprezzo della vita che è spesso effetto di soverchia paura? Non può godere una vita tranquilla chi pensa troppo a prolungarla e annovera fra i grandi beni il vivere a lungo. Tu, invece, sii sempre pronto a lasciare con animo sereno questa vita, a cui tanti si attaccano, come chi è travolto da un vorticoso torrente tenta di aggrapparsi ad ogni arbusto. Gli uomini, in maggioranza, ondeggiano tra il timore della morte e i tormenti della vita; non hanno il coraggio di vivere, né sanno morire. Se vuoi rendere gioiosa la tua vita, lascia ogni preoccupazione per essa. Nessun bene giova a chi lo possiede, se il suo animo non è pronto a perderlo; ed è più facile accettarne la perdita se, una volta, perduto, non può essere rimpianto. Perciò prepara virilmente il tuo spirito a quanto può capitare anche ai più potenti. Un fanciullo ed un eunuco decisero la morte di Pompeo; quella di Crasso fu decisa dai crudeli e barbari Parti; Caligola diede ordine che Lepido porgesse il collo al tribuno Destro, ed egli stesso dovette porgerlo a Cherea. Nessun uomo salì tanto in alto, da sottrarsi alla minaccia di tutto quel male che la sorte gli aveva permesso di fare agli altri. Non fidarti della presente tranquillità: il mare si scolvolge in un attimo e le barche nello stesso giorno vengono sommerse proprio là dove vagavano per diporto. Pensa che un assassino o un nemico può piantarti un pugnale nella gola; e quando non c'è un potente, c'è sempre uno schiavo che ha facoltà di vita o di morte su di te. Intendo dire: chiunque è disposto a mettere a rischio la sua vita è padrone della tua. Rammenta gli esempi di coloro che furono vittime di delitti domestici, compiuti con agguati e con violenza aperta: troverai che i caduti per odio di schiavi non sono meno numerosi di quelli che incorsero nell'ira del re. Che t'importa, dunque, quanto sia potente l'uomo che temi, se c'è sempre qualcuno che può farti ciò che temi? Se per caso cadrai nelle mani dei nemici, il vincitore ti farà condurre là appunto, dove sei già avviato. Perché dunque inganni te stesso e solo in tale momento supremo comprendi per la prima volta quel destino a cui da tempo eri soggetto? Dal momento in cui sei nato, tu sei avviato alla morte. Dobbiamo avere sempre in mente tali pensieri, se vogliamo aspettare sereni quest'ultima ora, la cui paura ci rende inquiete tutte le altre. E, per concludere, eccoti la massima che ho scelto per oggi, presa, anch'essa, dai giardini altrui: "È una grande ricchezza una povertà ordinata secondo la legge della natura". E sai quali limiti a noi stabilisca la legge di natura? Non soffrire la fame, né la sete, né il freddo. Per tenere lontane la fame e la sete, non è necessario sedersi alle soglie dei potenti e sopportarne il contegno sprezzante, o la falsa e umiliante cortesia; non occorre solcare i mari o seguire spedizioni militari. Quello che la natura esige possiamo procurarcelo facilmente. Eppure ci affanniamo per il superfluo: per il superfluo ci logoriamo le vesti, diventiamo vecchi negli accampamenti, ci avventuriamo in terre straniere; mentre ciò che basta ci è a portata di mano. Chi va d'accordo con la povertà è ricco. Addio. Lettera 5 – Invito alla semplicità Tu, tralasciando ogni altra preoccupazione, attendi costantemente solo a renderti ogni giorno migliore; ed io ti lodo e me ne rallegro, e non solamente ti esorto, ma ti prego di perseverare. Tuttavia bada a non essere troppo stravagante nella foggia del vestire o nel modo di vivere, come fanno coloro che bramano, non di progredire spiritualmente, ma di farsi notare. Evita gli abiti rozzi, i capelli lunghi, la barba arruffata, l'odio dichiarato all'argenteria, il giaciglio posto per terra e, in genere, gli atteggiamenti di chi, per false vie, cerca di distinguersi. Il nome di filosofia, anche se usato con moderazione, è già abbastanza odioso: che avverrà se cominceremo ad estraniarci dalle comuni usanze? Nel nostro intimo tutto sia diverso dagli altri, ma nell'aspetto esteriore dobbiamo adattarci ai gusti della gente. Le vesti non siano splendenti, ma neppure sporche. Non cerchiamo vasi d'argento con cesellature d'oro massiccio, ma neppure dobbiamo considerare segno di frugalità la mancanza di ogni oggetto prezioso. Preoccupiamoci che la nostra vita sia, non contraria, ma migliore di quella del volgo; altrimenti respingeremo e terremo lontani da noi quelli che vogliamo correggere. E otterremo anche questo risultato, che non vorranno imitare nulla di noi, dato che temono di voler imitare tutto. La filosofia, partendo dal senso comune, promette socievolezza e cordialità umana: se assumeremo modi stravaganti, non potremo realizzare questi propositi. Badiamo piuttosto che gli atteggiamenti attraverso i quali vogliamo ottenere ammirazione, non siano ridicoli e odiosi. Noi ci proponiamo di vivere secondo natura; ed è contro natura torturare il proprio corpo, odiare una normale pulizia, desiderare il sudiciume e nutrirsi di cibi non solo vili, ma disgustosi e ripugnanti. Come è indizio di mollezza cercare vivande delicate, così è irragionevole rifiutare quelle usuali, procurabili a poco prezzo. La filosofia esige frugalità, non sofferenza, e ci può essere una frugalità non priva di decoro. Ecco le regole di condotta che preferisco: la nostra vita sia ordinata secondo costumi onesti e accettati da tutti; tutti la ammirino, ma siano anche in grado di riconoscerne i pregi. E allora, mi dirai, ci comporteremo come gli altri? Non ci sarà nessuna differenza fra noi e loro? Risponderò: anzi, grandissima. Chi ci osserverà meglio, comprenderà che noi siamo ben diversi dal volgo; ed entrando nella nostra casa, dovrà ammirare noi, e non la suppellettile. È grande colui che usa vasi d'argilla come se fossero d'argento, ma non è da meno chi usa vasi d'argento come se fossero d'argilla. Un animo debole non sa sopportare la ricchezza. Ma, per farti partecipe anche del mio piccolo guadagno di oggi, ti dirò che presso il nostro Ecatone ho letto che il sopprimere i desideri è anche un utile rimedio contro la paura. "Non avrai più paura, egli dice, se avrai cessato di sperare". Obietterai: come possono stare insieme due sentimenti così diversi? Eppure è così, caro Lucilio: sono strettamente congiunti, anche se sembrano fra loro in contrasto. Come la stessa catena unisce il prigioniero e la guardia, così codesti sentimenti tanto dissimili vanno insieme: la paura tiene dietro alla speranza. Né ciò mi meraviglia: l'una e l'altra tengono l'animo sospeso l'una e l'altra lo rendono ansioso nell'attesa del futuro. L'una e l'altra scaturiscono dal fatto che non ci adattiamo al presente, ma proiettiamo i nostri pensieri nel futuro. Perciò la facoltà di prevedere l'avvenire, che è una delle più nobili doti dell'uomo, si rivolge in suo danno. Le bestie fuggono i pericoli che vedono, ma, una volta che li hanno evitati, stanno tranquille. Noi siamo in ansia sia per il futuro che per il passato. Molte nostre qualità possono nuocerci: la memoria infatti ci rinnova il tormento della passata paura e ce lo anticipa la nostra attitudine a prevedere il futuro. Nessuno è infelice solo per il presente. Addio. Lettera 6 – Il valore dei buoni esempi nel perfezionamento spirituale Mi accorgo, caro Lucilio, che non solo mi vengo correggendo, ma mi sto anche trasformando. Non che io creda o voglia far credere che in me non resti nulla da mutare. Perché non dovrei avere molti impulsi e sentimenti che debbono essere dominati, franeti o stimolati? Ma anche il vedere i difetti prima ignorati è indizio di un animo che ha fatto progressi. Ci si rallegra con certi malati, quando sono divenuti coscienti della loro malattia. Avrei perciò desiderio di renderti partecipe di questo mio improvviso mutamento: allora comincerei ad avere maggiore fiducia nella nostra amicizia, quella vera amicizia che né speranze, né timori, né alcuna preoccupazione del proprio interesse riescono a spezzare; quell'amicizia che non cessa con la morte e per la quale gli uomini sono disposti a morire. Potrei citarti molti ai quali non mancarono gli amici, ma mancò l'amicizia: ciò non può accadere quando gli animi sono uniti da un concorde desiderio di bene. E questo non è forse possibile? Sanno infatti di avere tutto in comune, e soprattutto le sventure. Non puoi immaginarti quali progressi spirituali io veda in me ogni giorno che passa. Comunica, mi dirai, anche a me codesti rimedi che hai sperimentato così efficaci. E in verità desidero trasforndere tutto me stesso in te, e godo d'imparare qualcosa, appunto per insegnarla. Né infatti potrebbe recarmi diletto alcuna cosa, per quanto eccellente e utile, se dovessi saperla per me solo. Se mi fosse concessa la saggezza, a patto di tenerla nascosta in me, senza comunicarla ad altri, la rifiuterei: nessun bene ci dà gioia, senza un compagno. Perciò ti manderò questi libri, e perché tu non faccia molta fatica a ricercare qua e là i brani più utili, apporrò dei segni, per metterti subito sott'occhio quei passi che destano in me diletto e ammirazione. Tuttavia ti recherà maggior giovamento il poter vivere e conversare insieme, che un discorso scritto: è bene che tu venga qui, anzitutto perché gli uomini credono più agli occhi che agli orecchi, poi perché i progressi ottenuti per mezzo degli ammaestramenti sono lenti, quelli invece che si ottengono con gli esempi sono più immediati ed efficaci. Cleante non avrebbe espresso compiutamente il pensiero di Zenone se si fosse limitato ad udirne le lezioni; egli entrò nella vita del maestro, ne esaminò tutti gli aspetti più segreti, osservò se viveva in conformità della sua dottrina. Platone e Aristotele e tutta la schiera dei filosofi che avrebbero poi seguito vie diverse, trassero più vantaggio dall'esempio di vita che dalle parole di Socrate. [...]. E non ti faccio venire solo perché tu ne tagga profitto, ma perché tu possa essere di giovamento a me; ci daremo l'un l'altro un grandissimo aiuto. Intanto, poiché ti debbo il mio piccolo tributo giornaliero, ti dirò che cosa oggi mi è piaciuto in Ecatone. "Mi chiedi, egli scrive, quale è stato il mio progresso? Ho cominciato ad essere amico di me stesso". Grande è stato il suo progresso: non rimarrà più solo. Sappi che tutti possono avere quest'amico. Addio. Lettera 8 – I veri beni dell'uomo Tu, dici, mi inviti a star lontano dalla folla e a vivere appartato, pago della mia coscienza? E allora che significato hanno quegl'insegnamenti stoici che comandano di essere operosi fino alla morte? E che? Ti consiglio forse l'inerzia? Proprio per giovare a un più gran numero di uomini, io mi sono ritirato in me stesso chiudendo le porte agli altri. Nessun giorno mi va perduto nell'ozio e riserbo allo studio anche parte della notte; non mi abbandono al sonno, ma ad esso soggiaccio, e tengo fissi al lavoro gli occhi che si chiudono, stanchi per la veglia. Mi sono ritirato non solo dagli uomini, ma anche dagli affari e anzitutto dai miei affari: lavoro per i posteri; scrivo cose che possano essere utili a loro. Affido ai miei scritti consigli salutari, come ricette di medicamenti utili; e ne ho prima provato l'efficacia sulle mie piaghe, che, se non sono del tutto guarite, hanno cessato almeno di estendersi. Insegno agli altri la giusta via che ho conosciuto tardi, dopo un faticoso errare. Vado gridando: evitate i beni che piacciono al volgo e sono dono del caso. Arrestatevi pieni di sospetto e di timore davanti ad ogni bene largito dal caso. Anche le fiere e i pesci si lasciano prendere, attratti dall'esca. Quelli che credete doni della fortuna, sono, in realtà, ingannevoli lusinghe. Chi di voi vorrà vivere al sicuro, eviti quanto più può codesti dono spalmati di vischio, dai quali noi, infelici, siamo ingannati anche in questo: crediamo di prenderli e ne restiamo presi. Questa via conduce giù al precipizio: questa via esteriormente fortunata si conclude in una caduta. Poi, quando la prosperità comincia a spingerci fuori strada, non è più possibile resisterle: o si va dritto o si affonda. La fortuna non ci fa solo deviare, ma ci travolge e ci annienta. Seguite perciò la sana e salutare regola di vita di concedere al corpo tanto quanto basta per mantenerlo in buona salute. Bisogna trattarlo piuttosto duramente perché non si ribelli all'anima: si mangi e si beva solo per sfamarsi e dissetarsi, le vesti servano solo per non sentir freddo e la casa per ripararsi dalle intemperie. Se questa poi è costruita con zolle o con marmi stranieri di vari colori, non ha importanza. Sappiate che gli uomini possono essere coperti ugualmente bene da un tetto di paglia, come da un soffitto dorato. Disprezzate tutto ciò che richiede un lavoro superfluo di fregi o di altri abbellimenti. Pensate che non c'è niente di mirabile, eccetto l'anima; e se essa è grande, null'altro può esservi di grande. Se parlo così a me e ai posteri, non ti sembra che io sia più utile all'umanità che se mi recassi nel foro a difendere qualcuno, o ad apporre il mio sigillo sui testamenti, o a sostenere con ogni impegno un candidato al senato? Credimi, le attività più importanti le compiono quelli che sembrano non far niente: essi si occupano ad un tempo delle cose umane e divine. Ma debbo ormai concludere e pagare, come ho fatto fin dall'inizio, il mio tributo anche per questa lettera. Non pagherò di mia borsa: attingo ancora ad Epicuro, di cui oggi ho letto questo pensiero: "Se vuoi avere la vera libertà, devi farti servo della filosofia". Chi a lei si affida completamente, non vede la propria libertà rinviata neppure di un giorno: è subito affrancato, poiché questo stesso servire la filosofia è libertà. Forse mi chiederai perché trascrivo tanti bei detti da Epicuro, anziché dai nostri filosofi stoici. Ma credi proprio che questi pensieri siano solo di Epicuro e non di dominio pubblico? In quante opere di poeti si trovano massime che hanno già detto o che dovrebbero dire i filosofi! Per non parlare dei tragici, né delle nostre commedie togate – hanno anch'esse una certa gravità che le pone tra la tragedia e la commedia palliata – quanti eloquentissimi veri si trovano nei mimi! Quante sentenze di Publilio sono degne di stare non in un mimo, ma in una tragedia! Di lui trascriverò un solo verso che si riferisce alla filosofia e, in particolare, all'argomento or ora trattato. Afferma che non dobbiamo considerare nostri i beni concessi dal caso: "Tutto ciò che ci accade secondo il nostro desiderio, non ci appartiene". Ricordo che questo concetto è stato espresso anche meglio e più concisamente da te: "Non è tuo ciò che la sorte ha fatto tuo". Nè voglio omettere quel tuo verso ancora più bello: "Un bene che può essere dato, può anche essere tolto". Questo non servirà a soddisfazione del mio debito: è roba tua, che torna a te. Addio. Lettera 9 – Il saggio sente profondamente gli affetti umani [...] Il saggio, anche se basta a se stesso, vuole tuttavia avere un amico, se non altro per esercitare l'amicizia, perché una virtù così bella non sia trascurata. E non al fine, a cui mira Epicuro [...], cioè "perché uno abbia chi lo assista nelle malattie o gli venga in aiuto se è prigioniero o bisognoso", ma, al contrario, perché uno abbia qualcuno da assistere se è malato, o da riscattare, se è stato fatto prigioniero dal nemico. Chi pensa solo a sè e a questo scopo stringe amicizia è in grave errore. Come fu l'inizio, tale sarà la fine: si è fatto un amico che lo soccorresse nella prigionia, ma questi lo abbandonerà al primo rumore di catene. Sono queste le amicizie dette comunemente di circostanza: le amicizie fatte per opportunismo saranno gradite finché saranno utili. Una folla di amici ti circonda nella buona fortuna; ma, se cadi in disgrazia, rimani solo, poiché tutti son fuggiti nell'ora della prova. Così vediamo tanti esempi di uomini scellerati che per paura abbandonano l'amico, di altri che per paura lo tradiscono. Necessariamente l'amicizia finisce come è cominciata. Chi ha stretto un rapporto di amicizia per interesse, lo romperà per lo stesso motivo: farà il suo interesse anche contro l'amicizia, se in essa vede solo l'aspetto utilitario. A qual fine ti fai un amico? Per avere una persona per cui io possa morire, che io possa seguire nell'esilio e salvare dalla morte, a prezzo di qualunque sacrificio. Invece codesta che tu mi descrivi non è amicizia, ma un affare che mira solo all'utile da conseguire. Certo qualcosa di simile all'amicizia è nell'amore, che si potrebbe chiamare una folle amicizia. È mai possibile amare per averne un guadagno, per ambizione o per la gloria? L'amore, per sua natura, trascurando tutti gli altri interessi, accende nei cuori una brama di bellezza e, ad un tempo, la speranza di un vicendevole affetto. Forse che una biasimevole passione può sorgere da un motivo più nobile? Ora non si tratta, mi dirai, di vedere se si debba cercare l'amicizia per se stessa. Anzi, proprio questo deve essere dimostrato. Se, infatti, bisogna cercare l'amicizia per sè, senza secondi fini, può tendere ad essa chi basta a se stesso. E come la cercherà? Come la cosa più bella, non per desiderio di ricchezza, né per timore di mutamenti di fortuna. Toglie all'amicizia ogni dignità chi la ricerca per conseguire vantaggi materiali. Il saggio basta a se stesso. Ma, o Lucilio, i più intendono male questa espressione e tengono il saggio lontano da ogni attività, imprigionandolo dentro la sua pelle. Bisogna dunque spiegare il significato e l'estensione di queste parole: il saggio basta a se stesso per vivere felice, non per vivere. Per vivere, infatti, ha bisogno di molte cose; per la felicità solo di un animo retto, coraggioso e noncurante della fortuna. [...] Il saggio ha bisogno delle mani, degli occhi e di molte altre cose necessarie alla vita di ogni giorno, ma di nessuna soffre la mancanza: infatti soffrire la privazione di qualcosa implica una necessità, mentre per il saggio niente costituisce una necessità assoluta. Quantunque egli basti a se stesso, ha bisogno di amici, e desidera averne il maggior numero possibile. Tuttavia non li cerca per vivere felice; anche senza amici, egli è felice. La felicità, sommo bene, non cerca fuori di sè i mezzi per realizzarsi: è cosa intima, che sboccia da se stessa. Comincia a essere in balìa della fortuna se va a cercare anche una parte di sè fuori della propria interiorità. [...] Il saggio si raccoglie in sè, vive in compagnia di se stesso. Purché gli sia consentito di regolare le sue cose a suo arbitrio, basta a se stesso e prende moglie; basta a se stesso e educa dei figli; basta a se stesso e tuttavia rinunzierebbe alla vita se fosse costretto a stare isolato da tutti. Nessun motivo d'interesse lo spinge all'micizia, ma un impulso naturale; come per altri beni spirituali, anche per l'amicizia sentiamo un'attrazione istintiva. Come si odia la solitudine e si desidera la compagnia, come l'istinto naturale avvicina l'uomo all'uomo, così un intimo stimolo ci fa desiderare gli amici. Tuttavia il saggio, anche se ha un grande affetto per gli amici e li ama come e più di se stesso, porrà sempre dentro di sè il termine di ogni bene [...]. Quintiliano Dunque, dopo la nascita di un figlio, il padre concepisca in merito a lui le migliori speranze: così lo seguirà più attentamente fin dagli inizi. Falsa è infatti l'idea secondo cui la capacità di comprendere le cose che si trasmettono sarebbe un dono riservato a pochi, mentre i più perderebbero tempo e fatica per via della loro lentezza intellettuale. Al contrario infatti si possono trovare molti individui portati alla ricerca e rapidi nell'apprendere, poiché questo per l'uomo è un fatto naturale; e come i volatili nascono per il volo, i cavalli per la corsa e le belve nascono inclini alla ferocia, così a noi appartengono l'attività e la sollecitudine della mente, per cui si ritiene che l'anima abbia una scaturigine divina. Gli uomini ottusi e quelli non facilmente addomesticabili invece non vengono generati secondo natura più di quanto lo siano i corpi mostruosi e defomri, ma va detto che essi sono sempre stati assai pochi: probante potrebbe essere il fatto che nei bambini risplende la speranza di grandi cose, e che, quando questa con l'età si spegne, non si può dire che sia venuta meno la natura, bensì l'opera di affinamento delle capacità. "Tuttavia non siamo tutti uguali quanto a capacità intellettuali". Lo riconosco, ma questo agirà in misura maggiore o minore: non c'è nessuno che non abbia ottenuto nulla con l'applicazione. Chi avrà fatto questa considerazione, non appena diventerà genitore, si prodighi il più possibile per esaudire la speranza di crescere un futuro oratore. Innanzitutto le nutrici non abbiano un linguaggio scorretto: Crisippo, nei limiti del possibile, si augurava che fossero persone colte, o almeno, per quanto concesso dalle circostanze, voleva che si scegliessero le migliori. E se la priorità nel criterio di scelta va data alla loro moralità, tuttavia è importante anche che parlino in modo corretto. Sono loro quelle che il bambino ascolterà per prime, sono le loro parole quelle che cercherà di ripetere imitandole. E per natura noi siamo attaccatissimi alle abitudini che prendiamo quando nei nostri animi non vi è ancora alcuna impronta: così come perdura il sapore di cui si impregnano le cose nuove e come non possono essere cancellati i colori delle lane con cui sia stato trasformato un semplice bianco originario. E tutti questi insegnamenti tanto più saldamente si imprimono quanto più sono negativi. Il bene infatti si converte facilmente in male: ma quando mai è capitato di trasformare i vizi in qualcosa di buono? Pertanto non si abitui, nemmeno da bambino, a un modo di parlare che poi andrebbe dimenticato. Auspicherei che nei genitori ci fosse il maggior livello possibile di cultura. E non mi riferisco soltanto ai padri: sappiamo infatti che un contributo significativo all'eloquenza dei Gracchi fu dato dalla madre Cornelia, il cui eloquio forbitissimo è stato trasmesso anche ai posteri grazie alle sue lettere. E si dice che Lelia, la figlia di Caio, abbia fatto rivivere l'eleganza paterna nel parlare; il discorso tenuto davanti ai triumviri da Ortensia, figlia di Quinto, si legge ancora, e non solo per una forma di ossequio al suo sesso. E non trascurino l'educazione dei figli coloro che non hanno a loro volta avuto modo di studiare: anzi, proprio per questo siano più attenti a tutto il resto. In merito ai ragazzi insieme ai quali sarà istruito il giovane che è oggetto delle nostre speranze, valga ciò che si è detto a proposito delle nutrici. Quanto ai pedagoghi, auspicherei, in più, o che fossero particolarmente colti – e questa è la cosa che dovrebbe importare maggiormente – oppure che fossero consapevoli di non esserlo. Non c'è nulla di più pericoloso di coloro che, avendo compiuto qualche progresso al di là dei primi rudimenti dell'alfabeto, si siano falsamente persuasi di essere sapienti. Infatti si irritano quando devono lasciare il posto ad altri che siano incaricati di insegnare e, come per una sorta di diritto potestativo per cui questo genere di persone diventa tronfio, perseverano nel trasmettere la loro ignoranza con fare tirannico e a volte anche con accanimento. Né minore è il danno che arrecano da un punto di vista morale, se è vero che – come racconta Diogene di Babilonia – il pedagogo di Alessandro, Leonida, gli impresse alcuni vizi che poi, per colpa di quell'educazione ricevuta da bambino, lo accompagnarono anche una volta cresciuto e divenuto ormai sommo sovrano. [...] Alcuni hanno ritenuto che non fosse opportuno per i ragazzi cominciare l'istruzione prima dei sette anni, poiché la giovane età non li metterebbe in condizione di comprendere il senso delle varie discipline e di sopportare la fatica. Molti che vennero prima di Aristofane grammatico dicono che questa fosse l'opinione di Esiodo (infatti Aristofane per primo disse che non erano attribuibili a questo poeta le ypothekai, il libro in cui si trova tale affermazione); ma anche altri autori, tra cui Eratostene, diedero lo stesso consiglio. Migliore è però la posizione di quelli che non vogliono perdere scioccamente il proprio tempo, come suggerisce Crisippo. Quest'ultimo, infatti, pur avendo dato uno spazio di tre anni all'opera delle nutrici, ritiene tuttavia che la mente dei bambini debba già essere formata da queste con i migliori insegnamenti possibili. Perché allora un'età in grado di percepire l'insegnamento morale non dovrebbe essere in grado di cogliere quello culturale? So bene che in tutto quest'arco di tempo di cui sto parlando si riesce a fare a malapena quello che poi si può fare in un solo anno, ma nondimeno quelli che non sono d'accordo, sostenendo questa tesi, mi sembrano aver mostrato indulgenza verso gli insegnanti più che verso gli allievi. Del resto che cosa potranno fare di più proficuo a partire dal momento in cui sono stati in grado di parlare (posto che è indispensabile che qualcosa facciano)? O perché disdegnamo il profitto, per quanto minimo sia, che si può trarre fino all'età di sette anni? Infatti è evidente che, per quanto possa essere limitato il vantaggio procurato dalla più tenera età, il ragazzo poi se ne servirà per fare progressi maggiori in un anno successivo in cui avrebbe imparato di meno. Questo vantaggio, trasmesso anno dopo anno, serve nel complesso dell'istruzione, e il tempo guadagnato nell'infanzia è una sorta di investimento per gli anni giovanili. Lo stesso consiglio valga anche per gli anni successivi, in modo che non si finisca per imparare in ritardo ciò che si deve. Non perdiamo subito gli anni giovanili, soprattutto perché i rudimenti del sapere si apprendono grazie alle capacità mnemoniche che non solo nei bambini sono già presenti, ma sono anche particolarmente sviluppate. Non sono però così inesperto delle varie età da pensare che si debba stare addosso fin da subito ai bimbi più piccoli ed esigere da loro una vera e propria attività. Inizialmente infatti converrà preoccuparsi che l'alunno, che ancora non è in grado di apprezzarli, non abbia in antipatia gli studi e che non tema di sentire anche dopo gli anni del primo approccio una sensazione sgradevole già provata. Lo studio sia un gioco, e il bambino venga invitato e lodato enon sia mai soddisfatto se non ha fatto niente; talvolta, se oppone un rifiuto, si insegni qualcosa a un altro con il quale si scateni un po' di competizione, così intanto cominci a gareggiare e più spesso a pensare a vincere: sia stimolato anche con premi, che a quell'età rappresentano una grande attrattiva. Pur essendoci impegnati a educare l'oratore, in realtà insegnamo piccole cose: il fatto è che anche gli studi hanno la loro infanzia, e come la formazione dei corpi più prestanti inizia dal latte e dalla culla, così chi è destinato ad essere coltissimo ha emesso anche lui, a suo tempo, il suo primo vagito e ha provato a parlare la prima volta con qualche difficoltà e ha avuto esitazioni sulle lettere dell'alfabeto. E se imparare una cosa non basta, non per questo bisogna pensare che non sia necessario. Se nessuno rimprovera il padre che ritenga che queste cose non siano trascurabili nell'educazione del figlio, perché si dovrebbe poi censurare chi espone pubblicamente ciò che giustamente farebbe a casa sua? E a maggior ragione, poiché i bambini apprendono le cose semplici anche più facilmente; e poi come il corpo non può imparare determinati movimenti di flessibilità delle membra se non quando è giovane, così è la robustezza che rende anche gli animi più temprati di fronte a numerose evenienze. Avrebbe forse voluto Filippo re dei Macedoni che i primi rudimenti dell'istruzione fossero impartiti a suo figlio Alessandro da Aristotele, il più grande filosofo dell'epoca, o avrebbe forse questi mai accettato l'incarico se non fosse stato convinto del fatto che le basi dell'educazione vengono date dagli insegnanti migliori e che sono essenziali per arrivare alla meta? Facciamo finta per un momento che ci venga messo in braccio ed affidato Alessandro, bimbo meritevole di particolare attenzione (anche se per ognuno il proprio figlio è tale): avrei forse qualche remora nell'illustrare, anche solo a proposito dei primissimi elementi della formazione, un insegnamento per brevi sintesi? Non mi piace assolutamente infatti quel sistema, che pure vedo adottato da tanti, di insegnare ai bambini i nomi delle lettere dell'alfabeto e la loro posizione prima della loro forma. Questo è di ostacolo all'apprendimento delle lettere stesse, perché i bambini non prestano subito attenzione ai contorni di queste, ma seguono il ricordo di quello che hanno visto. Per questo motivo gli insegnanti, anche quando sembra loro di avere impresso sufficientemente le lettere nelle menti dei bambini nel modo corretto in cui si è soliti scriverle la prima volta, le rigirano e le mischiano variamente finché quelli che le deovno imparare le riconoscano per la loro forma e non per la loro sequenza. Perciò, come si fa con le persone, impareranno a distinguerne al meglio sia l'aspetto esterno che i nomi. Ciò che rappresenta un ostacolo per l'apprendimento delle lettere dell'alfabeto non costituisce invece un intralcio per quello delle sillabe. Non escludo poi il mezzo famoso per stimolare la voglia di apprendere dei bambini che consiste nel dar loro anche delle lettere dell'alfabeto in avorio, o qualsiasi altro materiale si riesca a trovare, con cui alla loro età possano divertirsi e che sia piacevole da toccare, guardare e nominare. Quando poi il bambino comincerà a tracciarne i contorni, non sarà inutile scolpire le lettere nel migliore modo possibile su una tavoletta, in modo tale che lo stilo sia in un certo senso guidato attraverso quei solchi. Il bambino infatti da una parte eviterà di sbagliare (rimarrà tra i due margini e non potrà uscire da quanto sia già stato segnato), e dall'altra, seguendo più frequentemente e più in fretta tracce precise, rafforzerà le articolazioni della mano e non avrà bisogno del supporto di qualcuno che gliela regga con la sua messa sopra. La cura della calligrafia e della velocità nello scrivere non è un aspetto di scarsa importanza, e tuttavia di solito è quasi trascurato anche dai bravi insegnanti. Infatti anche se la scrittura in sè è fondamentale nel corso dell'istruzione e con essa soltanto si compiono progressi significativi e radicati su solide basi, la penna troppo lenta frena il pensiero e la scrittura rozza e confusa non è intelligibile: ne consegue una seconda fatica, quella di dettare le cose che vanno trascritte. Perciò sempre e in qualsiasi circostanza, ma a maggior ragione nelle lettere personali e familiari, sarà opportuno non aver tralasciato neanche questo aspetto. Per prima cosa il futuro oratore, destinato a vivere in mezzo a tanta gente e sotto i riflettori della vita pubblica, si abitui fin dalla più tenera età a non temere gli uomini e a non scolorire in quel tipo di vita solitaria e, per così dire, all'ombra. Bisogna esercitare e tenere sempre pronta la mente, che viceversa nelle forme appartate di quel genere di vita langue e diventa come opaca oppure, al contrario, si esalta in una vuota sicurezza: è inevitabile infatti che chi non si confronta con nessuno finisca con l'avere un'opinione eccessiva di sè. Poi però quando devono essere mostrati i risultati degli studi, ha la vista annebbiata in pieno sole e incespica in tutto ciò che trova di nuovo, come chi ha imparato a fare da solo ciò che invece andrebbe fatto insieme a molti. Tralascio di parlare delle amicizie che durano solidissime fino alla vecchiaia permeate da una sorta di vincolo religioso: il valore sacrale dell'iniziazione religiosa non è infatti maggiore di quello agli studi. Dove imparerà l'alunno quello che si chiama senso comune se si sarà precluso quella trama di relazioni che non è naturale soltanto per gli uomini, ma anche per gli esseri privi della facoltà di parlare? Aggiungi il fatto che a casa si possono imparare soltanto le cose che vengono insegnate agli individui singolarmente, mentre a scuola si possono imparare anche quelle che vengono insegnate ad altri. Ogni giorno il ragazzo sentirà approvare molte cose, molte ne sentirà correggere, torneranno utili i rimproveri agli ozi di qualcuno, così come utile tornerà l'elogio dell'impegno; con le lodi si stimolerà il suo spirito di emulazione, egli considererà una vergogna essere inferiore a un coetaneo, una gloria aver superato quelli più anziani di lui. Tutto questo infiamma gli spiriti e, pur ammettendo che l'ambizione di per sè sia negativa sotto il profilo etico, tuttavia è spesso alla base delle virtù. So che i miei insegnanti avevano conservato un'abitudine non priva di utilità: essi, dopo aver suddiviso i ragazzi nelle classi, stabilivano l'ordine di recitazione secondo le capacità, in modo tale che parlavano prima quelli che più sembravano distinguersi quanto a profitto: i giudizi di ciò venivano esposti pubblicamente. E questo per noi costituiva un magnifico premio, ma la cosa più bella era essere il primo della classe. E la decisione non era una e definitiva: ogni trenta giorni a chi aveva perso veniva data la possibilità di riscattarsi. Così da una parte il vincitore non si rilassava sulla sua vittoria, e dall'altra la mortificazione spingeva chi era stato sconfitto a rifarsi dell'onta subita. Per quanto possa personalmente ricordare, oserei dire che questo ci stimolava più acutamente allo studio dell'eloquenza di quanto non riuscissero a fare l'esortazione degli insegnanti, la sorveglianza dei pedagoghi, le ambizioni dei genitori. Ma come negli studi letterari lo spirito di emulazione alimenta profitti più solidi, così ai principianti e agli alunni ancora giovani l'imitazione dei compagni piace maggiormente che non quella degli insegnanti per il semplice fatto che è più facile. A malapena infatti i rudimenti dell'apprendimento oseranno spingersi fino alla speranza di tracciare un quadro dell'eloquenza che ritengono perfetta: gli studi successivi abbracceranno una materia più ampia, così come le viti intrecciate agli alberi, attaccandosi prima ai rami che stanno più in basso, arrivano poi in cima. E questo è a tal punto vero, che il compito precipuo dell'insegnante – se anteporrà l'utilità alle ambizioni – non è quello di caricare subito di lavoro le deboli spalle degli alunni, visto che ha a che fare con intelletti ancora da formare, ma è quello di calibrare le proprie forze e di adgeuarsi al livello di comprensione dell'allievo. Infatti come i piccoli recipienti con una bocca stretta lasciano traboccare una quantità eccessiva di liquido che vi venga immesso a cascata ma si riempiono se lo si versa a poco a poco o lo si instilla goccia a goccia, così bisogna vedere quanto possano contenere gli animi dei ragazzi: poiché argomenti sproporzionati alle capacità dell'intelletto non penetreranno le menti, proprio come se queste fossero poco aperte a percepire. È utile pertanto che l'allievo abbia qualcuno che inizialmente voglia imitare e poi superare: così a poco a poco si potrà sperare in passi avanti. A ciò aggiungo che anche gli insegnanti alla presenza di alunni singoli non possono avere lo stesso atteggiamento e lo stesso spirito da cui sono ispirati di fronte a una folla di ascoltatori. Infatti una parte significativa dell'eloquenza si basa sull'emotività. È necessario che l'animo sia coinvolto, che concepisca le immagini delle cose e che in un certo senso si trasformi a seconda della natura degli argomenti di cui si parla. Inoltre tanto più esso è sensibile ed elevato, tanto più grandi sono gli "strumenti" con cui viene mosso: per questo si gonfia con la lode, si fa trascinare dall'impeto e gode nel fare qualcosa di importante. Vi è come un silenzioso disdegno ad abbassarsi a far sentire a un solo ascoltatore la forza di un eloquio conquistata a prezzo di ingenti fatiche: ci si vergogna a farsi trasportare al di là di un registro oratorio che non sia quello ordinario. E ci si figuri una persona nell'atto di chi declama o di chi prega, il suo procedere, il suo modo di calcare i toni della voce, e ancora, l'agitarsi del suo animo e del suo corpo, il sudore, e, per non dire altro, i segni della fatica, tutto davanti a un solo ascoltatore: non sembrerebbe la sua una condizione simile alla follia? Non esisterebbe l'eloquenza tra le attività dell'uomo, se noi parlassimo soltanto con una sola persona. Una volta che gli sia stato affidato il bambino, l'esperto di eloquenza cercherà per prima cosa di capirne le capacità e l'indole. Nei piccoli la memoria è una spia significativa dell'intelligenza: la duplice caratteristica dell'intelligenza consiste nel percepire con facilità e nel tenere a mente in modo fedele. La spia successiva è la capacità di imitare: anch'essa infatti è tipica di una natura che non ha difficoltà ad apprendere, purché tuttavia riproduca quello che impara e non, mettiamo il caso, l'atteggiamento o il modo di camminare o qualcosa di peggio che si faccia notare. Non mi lascerà sperare in una buona indole colui che per questa passione dell'imitazione cercherà di suscitare il riso. Il ragazzo veramente dotato infatti sarà per prima cosa anche serio, e d'altro canto non sarei propenso a ritenere una cosa peggiore essere d'intelligenza lenta piuttosto che maliziosa. Il ragazzo serio sarà comunque assai diverso da quello fiacco e trascurato. Questo mio alunno ideale assimilerà senza difficoltà gli insegnamenti che gli verranno impartiti, alcune volte rivolgerà delle domande, ma in ogni caso seguirà le spiegazioni e non le precorrerà. È facile che quell'intelligenza che si suole definire precoce non arrivi mai a frutto. Essi sono quelli che fanno agevolmente piccole cose e, spinti dall'audacia, mettono subito in mostra qualsiasi cosa di cui siano capaci, ma alla fine sono in grado di compiere solo ciò che è strettamente alla loro portata: congiungono le parole e le pronunciano senza alcun timore, senza lasciarsi trattenere da nessuna vergogna. Non primeggiano particolarmente, ma primeggiano presto: alla base non c'è una capacità autentica, né una capacità che poggi su radici profonde, come quelle sementi che, essendo state sparse sulla sola sommità del suolo, producono frutti un po' troppo velocemente e, pur assomigliando alle spighe, biondeggiano vuote come semplici erbe prima della mietitura. Tutte queste cose, se commisurate all'età, fanno piacere, ma poi i progressi subiscono una battuta d'arresto, e l'ammirazione comincia a diminuire. Una volta che abbia notato questi fatti, l'insegnante guardi poi in che modo vada trattato l'animo dei discenti. Alcuni sono pigri, se non si sta loro col fiato sul collo, alcuni non tollerano gli eccessi di autorità, alcuni sono bloccati dalla paura, altri ne sono limitati, la continuità serve a plasmarne alcuni, in altri serve di più lo slancio passionale. Vorrei che mi venisse affidato un ragazzo che lasci stimolare dalla lode, a cui la gloria serva da sprone, che pianga per le sconfitte. Questi andrà cresciuto con l'ambizione, il rimprovero lo pungerà, l'onore lo ecciterà, in lui non avrò mai paura di vedere la pigrizia. In ogni caso a tutti bisogna concedere un po' di svago, non soltanto perché non c'è nulla che sia in grado di sopportare una fatica senza interruzioni (e anche gli esseri privi di sensibilità e di anima per poter conservare la propria energia si rigenerano alternando periodi di riposo), ma perché l'amore per lo studio si fonda sulla volontà, che non può essere indotta con la forza. Perciò, una volta che si siano riposati e rinvigoriti, si dedicano all'apprendimento con maggiore apporto di forze e con uno spirito più pronto che genralmente rifiuta le coercizioni. Non può darmi fastidio il gioco nei ragazzi (che anzi è un segno di vivavictà), né potrei sperare che il ragazzo triste e sempre un po' abbattuto riveli una mente brillante negli studi, quando si mostra inerte anche in questa forma di irruenza che, a questa età, è del tutto naturale. Tuttavia gli svaghi devono avere un limite: non ingenerino cioè odio nei confronti degli studi qualora vengano negati né, al contrario, diano luogo all'abitudine all'ozio qualora siano troppi. Vi sono anche alcuni giochi non inutili per affinare le menti dei ragazzi: ad esempio quelli in cui i giocatori vengono messi a confronto e vengono spinti a gareggiare rispondendo a piccoli quesiti di ogni genere. Anche le abitudini si scoprono più facilmente durante il gioco, purché nessuna età sembri ancora tanto poco formata da non imparare subito cosa sia bene e cosa sia male; il momento di formarla è proprio quello, quando non è ancora capace di fingere ed è assai arrendevole nei confronti di chi impartisce gli insegnamenti: si fa prima a spezzare che a correggere i vizi malamente incalliti. Pertanto il ragazzo va ripreso subito, perché non agisca in modo troppo smanioso, né in modo scorretto, né rivelando incapacità di dominarsi, e va sempre tenuto a mente il celebre verso virgiliano che così recita: "grande importanza ha il sapersi abituare fin da piccoli". Anche se si usa, e anche se Crisippo non lo critica, non mi piace affatto che i discenti subiscano punizioni di tipo corporale, per prima cosa perché è indecoroso, indegno di un uomo libero e per di più in contraddizione col diritto (la cosa invece ha un senso se si parla di persone di età diversa); secondariamente perché, se uno ha un'indole così rude da non riuscire a essere migliorata a furia di semplici rimproveri verbali, non si piegherà neanche sotto i colpi di frusta come i peggiori fra gli schiavi; infine poiché non ci sarà neanche bisogno di questo genere di punizioni se chi si fa carico di sorvegliare gli studi garantirà sempre la sua presenza costante. Ai nostri tempi sembra opportuno, oserei dire per la trascuratezza dei pedagoghi, che i ragazzi siano corretti in modo tale da non essere obbligati a fare ciò che è giusto, ma da essere puniti per non averlo fatto. E poi una volta che si sia costretto un bambino con le percosse, che cosa si farà a un ragazzo con cui non si può usare questa forma di intimidazione e al quale vanno insegnate cose più difficili? Aggiungi che a coloro che le prendono sono capitate spesso, per il dolore o per la paura, cose orribili a dirsi e destinate a essere motivo di vergogna: questa paura abbatte e deprime lo spirito e spinge a rifuggire e a odiare persino la vita stessa. Del resto se troppo poca è stata l'attenzione nella scelta delle consuetudini di chi dovrebbe sorvegliare gli studi e dei precettori, è una vergogna dire quali siano le cose riprovevoli per le quali questi uomini scellerati abusino di tale "diritto" all'uso della violenza fisica, e quali occasioni offra non di rado anche ad altri la paura di questi poveri ragazzi. Ma non mi soffermerò su questo argomento: è anche troppo ciò che si sottintende. Basta pertanto quanto è stato detto: a nessuno deve essere concesso avere un raggio d'azione troppo ampio nei confronti di un'età indifesa e ancora esposta alle vessazioni. Di solito ci si chiede se tutte queste cose, che pure si devono imparare, possano essere trasmesse e apprese nello stesso tempo. Alcuni dicono di no, perché la mente verrebbe confusa e affaticata per via delle numerose materie che tendono in direzioni diverse e per le quali né le capacità intellettuali, né quelle fisiche e neppure il tempo che si ha a disposizione nell'arco di una giornata sarebbero sufficienti, e, se un'età più forte sarebbe in grado di sopportare benissimo questo sforzo, non è opportuno sovraccaricare di fatica gli anni dell'infanzia. Ma costoro non arrivano a vedere di cosa sia capace la natura della mente umana, che è così pronta e scattante, così in grado di volgere – oserei dire – il suo sguardo in ogni direzione, da non essere neppure capace di fare soltanto una cosa, ma di dedicarsi a più attività, e non solo nell'arco di una stessa giornata, ma addirittura nello spazio di un medesimo istante. I suonatori di cetra non badano forse nello stesso tempo alla memoria, al suono della voce e alle diverse modulazioni, mentre con la destra scivolano su alcune corde, con la sinistra ne pizzicano altre, le trattengono, le lasciano andare, e il piede, neanche questo inoperoso, batte il tempo: tutto ciò non avviene forse simultaneamente? E allora? Quando noi siamo stretti dalla necessità improvvisa di tenere un discorso, non diciamo forse alcune cose, e pensiamo a quelle successive, mentre al tempo stesso studiamo la ricerca degli argomenti, la scelta delle parole, la composizione delle frasi, i gesti, la pronuncia, la mimica facciale, i movimenti? E se tutte queste attività così differenti si possono compiere contemporaneamente come sotto la spinta di uno sforzo unico, perché non possiamo suddividere le ore impegnati su più fronti? Poiché è proprio la differenziazione delle occupazioni a ritemprare e a dare nuovo vigore alle menti, mentre sarebbe assai più difficile insistere in un'unica fatica. Pertanto ci si riposi dall'esercizio di scrittura con quello di lettura, e la noia della lettura venga sollevata con un avvicendamento; anche se ci siamo dedicati a un gran numero di attività, tuttavia siamo in un certo senso freschi di forze per ciò che incominciamo. Chi riesce a non stancarsi, se sopporta per tutto un giorno un solo insegnante di una qualsiasi materia? Con i cambiamenti ci si riprende, come avviene con il cibo, che se è vario fa star meglio lo stomaco e se cambia spesso lo alimenta evitando sensi di nausea. Oppure siano costoro a dirmi quale sia un diverso modo di apprendere. Ci dedicheremo soltanto all'insegnante di grammatica, poi soltanto a quello di matematica, dimenticando nel frattempo ciò che abbiamo imparato? Per passare poi all'insegnante di musica, e dimenticare quanto appreso prima? E quando studieremo il latino, non ci occuperemo del greco? E, per finire, non faremo alcuna cosa che non sia l'ultima in ordine di tempo? Perché non invitiamo anche i contadini a fare lo stesso, a non coltivare contemporaneamente i campi, i vigneti, gli olivi e gli alberi, a non dedicare i loro sforzi ai prati, al bestiame, agli orti, agli alveari e agli uccelli? Perché noi stessi ogni giorno ci occupiamo un po' delle faccende del foro, un po' diamo retta agli amici, un po' badiamo ai problemi di casa, un po' alla cura del corpo, e riserviamo qualche ritaglio del nostro tempo anche ai piaceri? Una qualunque di queste attività, se la svolgessimo da sola, senza interruzioni, ci stancherebbe: per questo è più facile fare molte cose piuttosto che farle per lungo tempo. Inoltre non bisogna affatto temere che i ragazzi sopportino con difficoltà la fatica degli studi: non c'è infatti nessuna età che si stanchi di meno. Forse sembrerà sorprendente, ma lo si osservi con esperimenti pratici: le menti sono infatti più malleabili, prima di perdere in sensibilità. Ciò appare evidente grazie a questa prova: entro due anni da quando sono stati in grado di comporre correttamente le parole, i ragazzi le pronunciano da soli quasi tutte per quanti anni invece i nostri schiavi novelli lottanto contro il latino! Qualora si incominci a impartire insegnamenti letterari a qualcuno già adulto, si capisce chiaramente che non è senza motivo che vengono definiti paidomatheis [istruiti fin dall'infanzia] quelli che riescono al meglio nel loro campo. Inoltre i bambini hanno un'indole che è più resistente alle fatiche rispetto a quella dei giovani. È evidente che come ai corpi dei bimbi non provocano gravi danni né le cadute, che spesso li vedono in terra, né lo strisciare delle mani e delle ginocchia, né – dopo poco tempo – il gioco senza sosta e le corse da mattina a sera, poiché sono leggeri e non si affaticano di per sè, così credo che allo stesso modo le menti non si affatichino poiché si muovono con uno sforzo minore e non si dedicano agli studi per una spinta propria, ma si lasciano formare. Inoltre, secondo un altro aspetto piacevole di quell'età, essi seguono gli insegnanti in modo più semplice e non stanno a misurare ciò che hanno già fatto: a loro manca ancora un criterio per misurare la fatica. In più, come abbiamo più volte avuto modo di constatare, l'affaticamento fisico fa meno impressione di quello intellettuale. Ma non avranno mai un po' più di tempo, poiché a questa età ogni progresso risiede nell'ascolto. Quando il ragazzo comincerà a scrivere, quando creerà e comporrà qualcosa in prima persona, allora non avrà tempo o nonavrà voglia di iniziare questi studi. Perciò, dal momento che il maestro di grammatica non può e non deve occupare tutta la sua giornata, per non tediare il giovane e allontanarlo dallo studio, a quali materie potremo allora dedicare questi "scampoli" di tempo? Non vorrei infatti che il ragazzo si esaurisse in queste attività: non canti, non faccia l'accompagnamento musicale delle canzoni insieme ai musici e non entri nel dettaglio delle questioni geometriche. Non voglio che sia un attore per quanto concerne la pronuncia, né un ballerino per quanto riguarda il movimento: ma anche se pretendessi tutto questo, il tempo basterebbe comunque; lunga è infatti l'età in cui si studia, e non mi riferisco ai ragazzi lenti nell'apprendere. E infine, perché Platone si distinse in tutti questi ambiti del sapere che ritengo vadano conosciuti dal futuro oratore? Egli, non appagato dalla cultura che poteva fornirgli Atene né da quella della scuola pitagorica per la quale si era spinto in Italia, si recò anche presso i sacerdoti egizi e ne studiò a fondo gli arcani misteri. Con la scusa della difficoltà noi mascheriamo la nostra pigrizia; infatti non amiamo il nostro lavoro e non ricerchiamo l'eloquenza perché abbia un contenuto etico e sia la migliore delle attività, ma ci accostiamo a essa per farne un uso meschino e per il vil guadagno. Parlino pure in molti nel foro senza questo bagaglio culturale e si arricchiscano, purché un qualsiasi commerciante di una merce suqallida sia più ricco e un banditore debba di più alla sua voce. E neanche vorrei avere un lettore che calcolasse quanto fruttano le attività intellettuali. Invece chi avrà concepito l'immagine stessa dell'eloquenza con una sorta di ispirazione "divina" e chi guarderà l'oratoria (per usare le parole di un celebre autore di tragedie) come "la regina delle attività" e ne ricercherà il frutto perpetuo, non soggetto alla mutevolezza della sorte, non nel guadagno degli avvocati, ma nel proprio animo, nella contemplazione e nella conoscenza, e si convincerà facilmente a investire in lezioni con l'insegnante di geometria o quello di musica il tempo che viceversa consumerebbe negli spettacoli, al campo Marzio, giocando a dadi, perdendosi in chiacchiere oziose, per non parlare poi del sonno e dei pranzi che vanno per le lunghe: quanto è più grande il piacere che ne trarrà rispetto a quello che deriva da quei divertimenti un po' rozzi! Infatti la provvidenza ha dato agli uomini questo dono: la possibilità di trarre maggior godimento dalle cose nobili. I Vangeli Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi. Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli. Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli. Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna. Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo! Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio. Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno. Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste. State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. E quando pregate, non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male. Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe. E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà. Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore. La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra! Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”. Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena. Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi. Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? O come dirai al tuo fratello: “Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio”, mentre nel tuo occhio c’è la trave? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello. Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi. Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede, riceve, e chi cerca, trova, e a chi bussa, sarà aperto. Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi, dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono! Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti. Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano! Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci! Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dagli spini, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li riconoscerete. Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti mi diranno: “Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demoni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?”. Ma allora io dichiarerò loro: “Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!”. Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande». Quando Gesù ebbe terminato questi discorsi, le folle erano stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi. Dal Vangelo secondo Matteo, capp. 5-7. Agostino Dio, Dio mio, quali inganni soffrii allora, quando, fanciullo, mi veniva indicata come norma di vita retta l’ubbidienza a chi voleva rendermi prospero nel mondo ed eminente nelle arti retoriche, provveditrici di onori e ricchezze false tra gli uomini! Fui affidato alla scuola per impararvi le lettere, di cui ignoravo i vantaggi; eppure erano botte, se ero pigro a studiarle. Era un sistema raccomandato dai grandi, e molti fanciulli prima di noi, seguendo quella vita, avevano aperte le vie penose ove eravamo costretti a passare, moltiplicando la fatica e la sofferenza dei figli di Adamo. Vi trovammo per altro, Signore, alcuni uomini che ti pregavano, e da loro venimmo a conoscere, per il poco che potevamo intenderti, la tua esistenza, quale di un essere grande, che può darci ascolto e soccorso anche senza manifestarsi ai nostri sensi. Così, fanciullo, incominciai a pregarti, soccorso e rifugio mio. Scioglievo per invocarti i nodi della mia lingua, ti pregavo, piccoletto ma con non piccolo affetto, che tu mi evitassi le botte del maestro; e se non mi esaudivi, non certo, riguardo a me, per un fine stolto, gli adulti e persino i miei genitori, i quali non volevano che mi toccasse alcun male, ridevano dei colpi che ricevevo e che costituivano allora per me una sofferenza ingente e grave. Esiste, Signore, un cuore così grande, unito a te da straordinario amore, esiste, dico, un uomo, poiché a tanto si può anche giungere per una sorta di follia; esiste dunque alcuno, che, per essere unito devotamente a te, provi un’emozione così intensa, da fare poco conto di cavalletti e unghioni e altri simili strumenti di tortura, che in ogni parte della terra la gente atterrita ti scongiura di poter evitare; eppure nutra dell’amore verso questi altri, che ne provano un aspro terrore? Non altrimenti i nostri genitori ridevano dei castighi inflitti a noi fanciulli dai maestri. Noi infatti non li temevamo meno delle torture, né meno t’imploravamo di risparmiarceli; eppure mancavamo o nello scrivere o nel leggere o nello studiare meno di quanto si esigeva da noi. Non che mi difettasse, Signore, la memoria o l’intelligenza: tu me ne volesti dotare a sufficienza per quell’età; ma mi piaceva il gioco e ne ero punito da chi, a buon conto, non giocava meno di me. Senonché i giochi degli adulti sono chiamati affari, mentre quelli dei fanciulli, per quanto simili, sono puniti dagli adulti. E alla fine non c’è pietà per i fanciulli, o per gli altri, o per entrambi. Un giudice onesto potrebbe approvare le botte che mi si davano, poiché, se da fanciullo giocavo alla palla, il gioco m’impediva di apprendere rapidamente le lettere, grazie a cui da grande avrei eseguito più tristi giochi. Ma proprio chi mi dava le botte, agiva diversamente? Se un collega d’insegnamento lo superava in qualche futile discussione, si rodeva dalla bile e dall’invidia più di me, quando rimanevo sconfitto dal mio compagno di gioco in una partita alla palla. Proprio nella fanciullezza, che suscitava al mio riguardo apprensioni minori dell’adolescenza, non amavo lo studio e odiavo di esservi costretto. Vi ero però costretto, e per il mio bene, ma io non compivo del bene, perché non avrei studiato senza costrizione, e chi agisce suo malgrado non compie del bene, per quanto sia bene quello che compie. Neppure coloro che mi costringevano compivano del bene, ma il bene mi veniva da te, Dio mio. Essi non vedevano altro scopo, cui potessi rivolgere quanto mi costringevano a imparare, se non l’appagamento delle brame inappagabili di una miseria che sembra ricchezza e di una infamia che sembra gloria. Ma tu, che conosci il numero dei nostri capelli, sfruttavi a mio vantaggio l’errore di tutti coloro che insistevano per farmi studiare, come sfruttavi anche il mio, che non volevo studiare, per impormi un castigo di cui non era immeritevole quel così piccolo fanciullo e così grande peccatore. Così mi procuravi del bene non da chi compiva del bene, e del mio stesso peccato mi ripagavi equamente. Hai stabilito infatti, e avviene, che ogni anima disordinata sia castigo a se stessa. Quale fosse poi la ragione per cui odiavo il greco che mi veniva insegnato da fanciullo, non lo so esattamente nemmeno ora. Invece mi ero appassionato al latino, non già quello insegnato dai maestri dei primi corsi, ma dagli altri, i cosiddetti maestri di grammatica. Le prime nozioni, con cui s’impara a leggere, a scrivere e a computare, mi procuravano noia e pena non minori di quelle che mi procurò in ogni sua parte il greco; ma non era anche questa una conseguenza del peccato e della vanità della vita, per cui ero carne e un soffio passeggero, che non torna? Quei primi studi, che via via mi mettevano, come mi misero e mi mettono tuttora in grado di leggere se trovo uno scritto, e di scrivere io stesso se voglio scrivere, erano migliori, perché più sicuri, degli altri, ove mi si costringeva a mandare a memoria gli errori di un certo Enea dimenticando i miei propri errori, e a gemere su Didone, morta suicida per amore, mentre io mi lasciavo morire tra queste fole senza di te, Dio, vita mia, ad occhi asciutti, miserrimo. C’è in verità cosa più misera di un misero che non commisera se stesso e piange la morte di Didone, che avveniva per amore di Enea, mentre non piange sulla morte propria, che avveniva per non amare te, Dio e lume del mio cuore, pane della mia anima, virtù fecondatrice della mia intelligenza, grembo del mio pensiero? Io non amavo te, trescavo lontano da te, e alle mie tresche si applaudiva da ogni parte: “Bravo, bravo”. L’amicizia verso questo mondo è davvero un trescare lontano da te, cui si applaude: “Bravo, bravo”, cosicché si ha vergogna a non essere come gli altri. Ebbene, io non piangevo per questo, e piangevo per Didone morta cercando col ferro il giorno estremo; anch’io cercavo le cose estreme della tua creazione, dopo aver abbandonato te, terra che si piegava verso terra; e se qualcuno mi proibiva quelle letture, mi affliggevo di non poter leggere ciò che mi affliggeva. Tali deliri si apprezzano come studi più nobili e fruttuosi di quelli che mi insegnarono a leggere e scrivere. Ma ora nell’anima mia gridi il mio Dio, la tua verità mi dica che non è così. È certamente migliore l’altro insegnamento, il primo. Infatti eccomi ora disposto a scordare gli errori di Enea e ogni racconto del genere, piuttosto che il modo di scrivere e leggere. Sull’ingresso delle scuole di grammatica pendono alcune cortine. Esse non simboleggiano tanto la solennità dei misteri che si svolgono all’interno, quanto velano gli errori che si commettono. E non schiamazzino contro di me, che più non li temo, mentre ti confesso le aspirazioni dell’anima mia, Dio mio, e trovo pace nel condannare le mie storte vie per innamorarmi delle tue diritte, non schiamazzino contro di me i venditori e i compratori di grammatica. Perché se io chiederò loro: “Venne mai davvero Enea a Cartagine, come asserisce il poeta?”, gli indotti risponderanno di ignorarlo, i più dotti affermeranno addirittura che no davvero; se invece domanderò con quali lettere si scrive il nome di Enea, tutti coloro che hanno appreso l’alfabeto mi risponderanno esattamente, secondo le norme con cui gli uomini convennero tra loro di fissarne i segni. Così pure, se domanderò quale di queste due conoscenze sarebbe più dannoso per la vita dimenticare, se la lettura e la scrittura oppure le invenzioni dei poeti citate sopra, chi non sa quale sarebbe la risposta di chiunque non abbia perduto completamente il senno? Io peccavo dunque da fanciullo nel prediligere le vacuità dei poeti alle arti più utili, o meglio, nell’odiare decisamente le seconde e nell’amare le prime. L’”uno più uno due, due più due quattro” era una cantilena odiosa per me, mentre era spettacolo dolcissimo, eppur vano, il cavallo di legno pieno di armati, l’incendio di Troia e l’ombra di lei, di Creusa. Come mai, dunque, provavo avversione per le lettere greche, ove pure si cantano i medesimi temi? Omero, ad esempio, è un abile tessitore di favolette del genere, dolcissimo nella sua vanità; eppure per me fanciullo era amaro. Credo avvenga altrettanto di Virgilio per i fanciulli greci, quando sono costretti a impararlo come io il loro poeta. Era cioè la difficoltà, proprio la difficoltà d’imparare una lingua straniera ad aspergere, dirò così, di fiele tutte le squisitezze greche contenute in quei versi favolosi. Io non conoscevo alcuna di quelle parole, e mi s’incalzava furiosamente per farmele imparare con minacce e castighi crudeli. Prima, durante l’infanzia, anche di latino non conoscevo nessuna parola, ma con un poco di attenzione le imparai senza bisogno d’intimidazioni e torture, anzi fra carezze di nutrici, festevolezze di sorrisi e allegria di giochi. Dunque le imparai senza il peso di castighi e sollecitazioni, perché il mio cuore stesso mi sollecitava a dare alla luce i suoi pensieri. Ma non ne avrebbe avuto la via, se non avessi imparato qualche vocabolo, più che a scuola da chi insegnava, dalla voce di chi parlava, nelle cui orecchie a mia volta deponevo i miei sentimenti. Ne emerge in modo abbastanza chiaro che per imparare queste nozioni vale più la libera curiosità che la pedante costrizione; ma il flusso della prima è contenuto dall’altra secondo le tue leggi, o Dio. Dalle verghe dei maestri fino alle torture dei martiri le tue leggi sanno combinare amari salubri, che ci richiamano a te dopo le dolcezze pestifere che da te ci hanno allontanato. (da: Agostino d'Ippona, Confessioni, Milano, Rizzoli) Battista Guarino Riflettendo ed esaminando a fondo, da ogni parte, con diligenza, l'ordine degli studi e i gradi dell'istruzione, un solo fine supremo mi sembra proposto ai cristiani, cui si danno larghissime speranze di premi immortali: conoscere Dio, conoscendolo amarlo, amandolo goderne, cioè immedesimarsi in lui. Questo ci mostra e ci promette con la destra distesa quell'eccelsa signora e regina delle scienze che è la teologia; a lei le altre, muse, arti, dottrine, come ancelle obbediscono, tengono dietro, servono. Alcune ornano le vesti, altre acconciano i capelli, altre ancora prendono cura della lingua, delle membra, del corpo; ella ascolta i discorsi di tutte, li scruta, e chiede cure premurose. Se una ricorda nomi, natura e forme di erbe, di piante, di sorgenti, di fiumi, di monti, di uccelli, di animali; se fa menzione di città e di epoche, di buon grado essa ascolta, giudicando che tutto ciò contribuisce alla propria eccellenza e perfettissima maestà. Perciò chi aspira al sommo della sua dignità provvede ad agguerrirsi anche nelle minime cose, per non trovarsi impari alla molto ardua ascensione. Infatti, come di ce il nostro Girolamo, padre dei sacri testi, non ci sono cose che si possano disprezzare come troppo piccole, perché senza di esse non potrebbero esserci le cose grandi. Forse tutto questo, senza corredo di esemplificazioni, può sembrare scarso di efficacia; dobbiamo perciò portare in causa i testimoni, quasi maestri di vita: tu giusto e saggio qual sei, potrai essere buon giudice e censore, o, meglio ancora, maestro. Io sono solito guardare a quei grandi ed eccellenti ingegni, dottori della cristianità, e seguirli con reverente e grande ammirazione. […] La mia penna si volgerà a uomini che riconoscerai di prim'ordine: il grande Basilio, il più importante dei dottori greci per santità di vita e varietà di cultura, Girolamo, cui spetta la gloria di ogni lode; Agostino, veramente augusto fra gli uomini di dottrina e di cultura. […] Se vogliamo indagare il pensiero di Girolamo sui poeti, gli storici e gli altri scrittori, dobbiamo rifarci in primo luogo ai suoi scritti, tutti pieni di versi di poeti, di favole, di racconti di gesta, tanto da ingannare il lettore inesperto; e spesso, scostandosi dal verso, si esprime attraverso parafrasi in prosa, senza indicare né riferimenti né nomi di autori. Per non andare tanto lontani: «sono quasi scivolato, dice, a parlar d'altro e, mentre cerco di fare un orcio con la ruota che gira, mi trovo ad aver plasmato un'anfora». Non è, forse, questa, un'allusione al verso oraziano: «era stata cominciata un'anfora; come mai nel girar della ruota è venuto un orcio?». […] In altri luoghi altre allusioni si incontrano, quasi innumerevoli, che si possono intendere solo nella lettura dei poeti, senza i quali riconoscerai di procedere incerto, e come un cieco senza bastone. […] Di quale autore mai della letteratura pagana non fecero uso Tertulliano, Minucio Felice ed altri quasi innumerevoli? […] Ma ecco che si fa avanti in aiuto nostro Agostino, illustratore e maestro della dottrina cristiana, che ci apre una via sicura alla lettura degli scrittori: «Mi sembra dunque salutare – egli dice – prescrivere ai giovani di buon ingegno, timorati di Dio e bramosi della vita beata, di non seguire fiduciosi, come guida alla beatitudine, nessuna delle dottrine estranee alla chiesa cristiana, ma di sottoporle invece a un giudizio attento ed accurato». Ora come faranno a giudicare senza leggere? Bisogna dunque leggere e distinguere tra il bene e il male: questo è giudicare. Così, per esempio, ciò che mi citi dal secondo libro del De civitate Dei: Se, contemplato un quadro che raffigura Giove adultero, «un giovane vizioso», e dico un giovane vizioso «si gloria di imitare il lume», il lettore comprenderà che l'adulterio non è considerato una colpa soltanto dalla chiesa che lo proibisce, ma era punito e condannato anche dalle leggi pagane. Dove si vede che, secondo Agostino, non era malvagio il poeta che ne scriveva, ma Giove che invitava ad imitare le sue colpe, secondo quello che già aveva detto: «numi incuranti della vita e dei costumi delle città, lasciano che i cittadini diventino pessimi senza nessuna grave proibizione». Quando i filosofi trattano della virtù e del vizio, non devono essere letti perché il lettore li segua negli estremi e trascuri il mezzo, ma al contrario. [...] E giacchè il discorso è caduto su Giovenale, chi più violento di lui nel bollare il vizio? Chi più pronto nel lodare la virtù, esortando al bene e suscitando l'orrore del male? E questo è il compito tuo e degli altri banditori del verbo divino: insegnare «ciò che conviene o no, e dove porta la virtù, dove il vizio» si rivela identico al compito dei poeti satirici, che Agostino e gli altri dottori conobbero così bene da citarli spesso nei loro scritti e nelle loro opere. Io, certo, faccio molto più conto della satira di Giovenale sullo scarso valore delle cose umane che non di molti filosofi; quando la leggiamo, quale maestro di vita possiamo paragonare a lui? Puoi trovare in lui quello che Girolamo dice compendiosamente commentando l'Ecclesiaste: «c'insegnano la vanità di tutte le cose che vediamo nel mondo, che non dobbiamo desiderare troppo perché appena afferrate svaniscono». Vengano pure a sostenere che non si deve leggere Giovenale, quando è così evidente il suo accordo con i nostri libri sacri! […]. Ma torniamo, dopo tanti discorsi, ad Agostino e concludiamo nel suo nome, per sentire cosa desideri ancora. «Se in qualche luogo, egli dice, gli autori hanno affermato cose vere in armonia con la nostra fede, non solo non dobbiamo averne paura, ma dobbiamo anzi rivendicarle a noi, quasi non fossero nelle giuste mani. Infatti come gli Egizi, non avevano solo idoli e gravami, detestati e fuggiti dal popolo d'Israele, ma anche vasi e ornamenti d'oro e d'argento e vesti, che Israele uscendo dall'Egitto rivendicò a sé nascostamente per farne uso migliore, mentre, senza saperlo, non per loro decisione ma per divino decreto, gli Egiziani fornivano agli Ebrei ciò che male usavano; analogamente le dottrine tutte dei Gentili non contengono solo finzioni false e superstiziose, e cose inutilmente ingombranti che ognuno di noi, sotto la guida di Cristo, uscendo dalla società dei pagani deve detestare e combattere. Esse racchiudono anche le arti liberali, più consone al loro genere di verità e ricche di utilissimi precetti morali; e presso di loro si trova perfino qualche verità relativa al culto del dio unico di cui dobbiamo impadronirci a forza per farne buon uso nella predicazione del vangelo. Del resto cosa fecero di diverso tanti buoni seguaci della nostra fede? Di quanto oro ed argento, di quanti vestimenti non vediamo uscir carico dall'Egitto Cipriano, dolcissimo dottore e beatissimo martire? E Lattanzio, e Vittorino, e Ottato ed Ilario?» È tempo di chiudere la lettera, se non voglio affaticarti con discorsi prolissi quando sei già stanco di predicare. Tu, udita la testimonianza dei santi uomini cari a Dio, cultori d'ogni genere di arti e debitamente numerosi, pesa i loro argomenti, portali in giudizio e, come in tribunale, pronuncia la sentenza nella causa contro di te. Nel pronunciarla ascolta la tua voce, e non lasciarti dominare dai consigli degli altri. Qui non si tratta del consenso di un gruppo trascurabile, ma dell'attesa di tutta la schiera dei dotti e del fior fiore dei letterati, della salvezza o della perdizione delle anime […]. Vittorino da Feltre Non permise che entrasse nella sua scuola chi non prometteva di abbandonare senz'altro, sulla soglia, ogni eventuale malvezzo, conoscendo la regola che avrebbe informato tutta la sua vita; e se qualcuno di proposito non ne teneva conto, veniva espulso come indegno di quella santa educazione. Nemico del piacere e della pigrizia esortava tutti a sopportare la fatica. Diceva infatti che amore degli studi e piacere non vanno d'accordo; che a non far conto del piacere, con un po' d'applicazione, data l'abbondanza di bravi insegnanti, qualunque ingegno, anche mediocre, può essere condotto a dare in breve ottimi frutti. Riprendeva i ragazzi che nel parlare mancavano di misura e di pudore. Diceva che ai giovani si addice moltissimo osservare un gran decoro in tutto, e particolarmente nella cura del corpo, nel passo, nelle vesti. Severamente rimproverava quelli che con troppa cura guardavano allo specchio la propria pettinatura, il viso, i femminei ornamenti del corpo e della veste, quelli che sapevano di profumi: tutte cose che possono indurre al male. Lodava invece la pulizia dell'aspetto, delle vesti, le cure che si addicono a un uomo, la robustezza dovuta all'esercizio fisico. Continuamente, per quanto poteva, cercava di distogliere i giovani dalle cose del sesso con la sobrietà; da questa, diceva, il corpo e la mente traggono vigore; da quelle derivano debolezza e involuzione. Ma se li vedeva per natura inclini alla sensualità (chi ci tende di più e chi meno), pur non approvando, sopportava meno a malincuore i rapporti con le donne. Quelli che aveva scoperto attirati dai maschi senz'altro furono cacciati dalla scuola, perché nessun peccato gli sembrava più nero e più grave. Più volentieri accoglieva quelli che venivano da un popolo civile e di ottimi genitori; e quando li aveva accolti se li teneva stretti con mezzi d'ogni genere; perché li riteneva suscettibili di essere educati e istruiti nel migliore dei modi, come i puledri nati da cavalli di razza. Li teneva accuratamente lontani dalla crapula e dal bere, offriva loro un vitto moderato, sempre frugale e semplice, perché il troppo cibo e il troppo vino non ne intorpidissero la mente e non ne fiaccassero il corpo. Gli piacevano i tipi allegri e vivaci, che stavano volentieri a giocare insieme ai compagni; ed osservava che erano anche i meglio disposti alla virtù e al lavoro. Prediligeva fra tutti quelli che mostravano devozione filiale, pietà religiosa, socievolezza coi compagni. Distoglieva gli scolari dalle frivolezze, dalla pigrizia, dalle gozzoviglie; per un giovane, diceva, è meglio riflettere al modo di farsi dotto e buono, che non sciupare il tempo in cose vane. Anche nel cuore dell'inverno, sotto pena di gravissime punizioni, era proibito avvicinarsi al fuoco per non perdere il proprio vigore, come succede ai cani per il torpore, per la scabbia, per l'inerzia. Diceva che l'esercizio produce un calore più intenso e salubre. Quanto a lui, che gli venisse naturale o che se lo imponesse per mettere in soggezione con la forza del suo esempio, mai, o almeno di rado, fu visto accanto al fuoco. Voleva che i giovani si abituassero a cibi semplici e cucinati alla buona, riponendo nella sobrietà e nella continenza una fonte non trascurabile di salute fisica, di vivacità e di acutezza mentale. Nei giovani lodava la cortesia, la docilità, l'animo benevolo; mentre rimproverava quelli che, per voler essere troppo gentili o troppo faceti, cadevano nell'adulazione o nella sguaiatezza. Diceva che, per le scapataggini commesse senza malizia, i ragazzi vanno rimproverati, che non abbiano a ricaderci, ma poi perdonati. Spesso, scrupolosamente, raccomandava ai maestri di non fare o dire nulla che, con l'esempio, incoraggiasse i ragazzi a cose poco belle; se questi, per negligenza, cadevano in qualche colpa, andavano corretti e, in caso di necessità, puniti con privazione di cibo o con percosse. Divideva il tempo in modo che tutti passassero dallo studio agli esercizi fisici: in modo che, in pace e in guerra, dandosene il caso, fossero buoni cittadini. Diceva infatti che si addice al bravo cittadino il salto, la corsa, il cavalcare, il lancio del giavellotto, l'esercizio della spada, l'uso dell'arco. Assunse anche maestri che dessero lezioni di canto e di lira a quelli che gli risultavano più dotati, imitando in questo, come nelle altre cose, i maestri greci; diceva che anche così, col canto e con l'armonia, gli animi sono tratti alla gloriosa bellezza della virtù. Con nessuno era più aspro e severo che con gli spergiuri, con chi imprecava contro Dio e contro i santi. […] Soprattutto educava i discepoli alla religione e al timor di Dio, dicendo che tutti ricevono da Dio l'educazione e la scienza: perciò, chi aspira a una cosa tanto grande, tanto divina, dev'essere puro da ogni macchia ed empietà. Andava spesso in chiesa, specie durante le funzioni, portando con sé i figli del principe, per aggiungere la forza dell'esempio alle parole con cui di continuo li esortava alla religiosità. […] Infatti, secondo lui, niente giova alla cultura più della pietà religiosa, che va instillata ai giovani se si vuole che abbiano costumi impeccabili; questa è la miglior maniera per aprirsi la via alla cultura chè, conquistando tale disposizione d'animo e tale regola di vita, ci si assicura il favore di Dio e degli uomini. Diceva che i ragazzi hanno bisogno di tre cose: d'ingegno, di cultura, d'esercizio. Paragonava l'ingegno a un campo, l'esercizio alla coltivazione del medesimo; il risultato è la fertilità. La cultura ha questo di buono: migliora la virtù dell'uomo e gli offre per tutta la vita un rifugio nella buona e nell'avversa fortuna. A un giovane che gli chiedeva che cosa dovesse fare per impadronirsi della scienza rispose: «disimparare quel che di cattivo e storto hai imparato e, purificato l'animo da ogni macchia e vizio, metterti completamente nelle mani di un eccellente maestro, che sia per te come un padre e che tu ricambi on l'obbedienza che si conviene a un figlio». La sua lezione era dimessa, priva di quegli orpelli o artifici oratori che spesso vengono impiegati per dar risalto all'ingegno e alla cultura. Tuttavia la sua esposizione era mossa, chiara, semplice e concisa, in armonia con la mentalità degli ascoltatori e col tipo di lezione. Tutto il suo eloquio era pudico e schietto; né per scherzo né sul serio si udì mai da lui parola men che onesta. Se, nel corso della lettura, si presentava da spiegare un passo osceno, sconcio, volgare, come se ne trovano nei poeti, o passava oltre, o lo spiegava con una perifrasi decente, con volto verecondo, biasimando i poeti che, imitando i seguaci di Diogene, abolivano con impudica licenza il pudore che è dono di natura. Con la sua voce misurata e chiara si faceva udire da qualunque scolaresca, per numerosa che fosse, valendosi largamente dell'espressione del volto e delle parole; spiegava oratori poeti e filosofi come se si fosse trattato di pronunciare fedelmente gli oracoli dell'Apollo Pizio prima del mistero. Spesso ammoniva i discepoli di non arrivare alla lezione, pubblica o privata, senza essersi prima fatta un'idea del significato esatto dei termini, delle sentenze, dei moti dell'animo dei vari personaggi. E a questo li spingeva specialmente con l'esempio. Infatti se, tornando a casa dopo aver sbrigato le molte e importantissime faccende che spesso si addossava per gli amici, e specialmente per i poveri, per caso, come accadeva spessissimo, trovava gli scolari riuniti in attesa di ascoltarlo, dotto com'era e ormai ricco di larga esperienza didattica in ogni campo, li pregava di aspettare che avesse dato un'occhiata a ciò che doveva esporre. Insegnava del pari il greco e il latino, sembrandogli che la conoscenza dell'una lingua fosse facilitata da quella dell'altra. Già adulto, aveva imparato il greco da Guarino, attraverso uno scambio, come tra negozianti. Infatti Guarino, tornato a Venezia da Bisanzio con la conoscenza del greco, si perfezionò in latino con Vittorino che ripagava lasciandogli i tesori della cultura greca, che Vittorino in seguito arricchì, col contributo dei propri studi e con l'apporto dei dotti greci, che, continuamente, dalla Grecia invitava a casa propria. Voleva che i giovani imparassero a memoria carmi dei maggiori poeti e passi di oratori, perché se a quell'età ci si impadronisce di una cosa, la si conserva molto tenacemente fino alla vecchiaia, come l'anfora nuova suol mantenere il profumo di un liquore pregiato. Teneva conto dell'età e dell'intelligenza di ognuno. A certi, infatti, fin da principio, proponeva senz'altro il da farsi, dopo avere trovato che avevano spalle proporzionate al peso; ad altri, invece, ancora un po' svagati per via della tenera età, perché non avessero a rifiutare il freno e autorità come cavalli indomiti, dava le lettere dell'alfabeto dipinte a colori come per un gioco di carte; ed i ragazzi, imparato alla perfezione il nome delle lettere a forza di sentirlo ripetere, come avviene spesso nel gioco, finivano con l'apprenderne senza fatica anche l'uso. Lodava i giovani vivaci e pronti, portati al gioco in comune; biasimava gli scontrosi e i pigri; questi giudicava nati all'ozio e all'inerzia, quelli all'attività spirituale e fisica. Se in passeggiata, a caccia, a pesca, vedeva uno oltrepassare un ruscello o una fossa di qualunque larghezza con un sol balzo, lo considerava degno della sua guida; perché sosteneva potersi giudicare dall'agilità del corpo la prontezza dell'intelletto. Punteggiava lo studio di pause, perché i giovani non prendessero a noia ciò che ancora non potevano amare, e perché tornassero agli studi rinvigoriti dal riposo, e con la speranza di nuovo svago se al momento dovuto avessero studiato. Manteneva la disciplina tra i giovani valendosi spesso del rimprovero, raramente e solo per qualche grave mancanza delle percosse, mostrandosi, per ottenere una maggiore obbedienza, cupo in volto e triste. Si preoccupava moltissimo che i giovani si esercitassero in frequenti letture di poeti e di oratori, e spesso stava presente, interrogando e indagando se nel leggere davano segno di capire, distinguendo le clausole, sospendendo il fiato, alzando o abbassando la voce, sottolineando la ricchezza delle parole, la varietà delle immagini. A volte, a bella posta, dava una lettura sbagliata di qualche frase per saggiare l'intelligenza degli scolari, che si può conoscere solo attraverso l'insegnamento e la lunga consuetudine. Si rallegrava vivamente se trovava qualcuno che osava confutare la spiegazione errata, considerandolo un segno di ottimo ingegno e di intelligenza; e, perché non avessero a insuperbire – è difficile a quell'età seguire la via di mezzo – molto spesso li punzecchiava, in modo che non si guastassero gonfiandosi di una presunzione infondata. Lodava invece i modesti che si rimettevano al suo giudizio, perché, incoraggiati, tornassero agli studi con più entusiasmo. Aveva una tale passione d'insegnare e una preoccupazione di rendersi utile, da soffermarsi durante la lezione, nonostante la sua grandissima dottrina, su tutte le minuzie, ripetendo, secondo l'età e l'intelligenza dei ragazzi, anche quelle cosucce che muovono la nausea d'un uomo di media cultura. Giova dell'ingegno dei giovani e, per la gioia, si commuoveva fino alle lacrime se dicevano qualcosa di bello, in prosa o in versi. Stimolava a maggiore facondia i temperamenti asciutti e aridi; non rimproverava l'esuberanza; secondo lui, con gli anni, è più facile tenere a freno l'ingegno che espanderlo. […] Faceva studiare contemporaneamente cose diverse, dicendo che, come il corpo si irrobustisce per la varietà dei cibi, così lo spirito per la varietà degli studi. Lodava quella che in greco si chiamava enciclopedia, sostenendo che scienza e cultura risultano da numerose e svariate discipline; convinto assertore di una educazione che renda l'uomo capace di trattare, secondo il momento e la necessità della natura, dei costumi, del moto degli astri, delle forme geometriche, dell'armonia musicale, dei numeri, delle misure. Riprendeva i fanciulli che, durante la discussione, non facevano domande; sosteneva che ciò indica disinteresse, o scarso amore dello studio. Ascoltava invece volentieri quelli che con le loro domande mostravano desiderio di imparare. Con quanti poi cavillavano o insistevano con ostinazione, perdeva la pazienza, dicendo che rivelavano un'intelligenza di qualità non buona. Irascibile per temperamento, non tardava tuttavia a calmarsi appena rifletteva. […] Ciascuno aiutava a raggiungere i migliori risultati nel ramo in cui sembrava meglio dotato, l'uno nella storia, l'altro nella poesia, altri ancora nelle matematiche. Alcuni discepoli, talvolta a proprie spese, mandò a scuole pubbliche perché si addottrinassero in fisica, diritto civile, diritto canonico; né gli procurava dispiacere o disagio il fatto che, per imparare, andassero da altri maestri. Come si dedicava con tutte le sue capacità a istruire ed educare i discepoli, così provvedeva alla loro salute, non diversamente da quanto fanno i genitori coi figlioli. D'estate, infatti, poiché in città di solito la salute pubblica non era buona, mandava gli scolari in luoghi sani e ameni, come le rive del Garda e le colline veronesi, fissando la data del ritorno. E mantenne a sue spese anche i genitori di alcuni scolari, gente povera e in difficoltà per l'età avanzata, perché i figli, mossi da pietà, non abbandonassero gli studi per provvedere ai genitori. […] Ai ragazzi erano severamente vietate le bugie. Chiedendogli un tale perché mai il proprio figliolo si dedicasse agli studi più di quel che egli stesso non desiderasse, e di quanto non lo consentissero i mezzi della famiglia, rispose che la cultura non si può acquistare come un podere: questo si compra col denaro, quella richiede tempo e cure assidue. Continuamente incitava i giovani allo studio, dimostrando loro che nessuna perdita portava risultati peggiori della perdita di tempo. Amava la nobiltà, e se, come spesso accade, nasceva tra un nobile e un plebeo una qualche contesa, pur dicendo che la nobiltà si identifica con l'amore della virtù, propendeva tuttavia per i nobili. […] Tutelò tenacemente gli orfani, le vedove, quelli che trepidavano sotto processo. Gravato da così numerose e importanti faccende, non lasciò testimonianza alcuna del suo ingegno, dicendo essere meglio bene operare che scrivere bene. Rimangono tuttavia alcune sue lettere ad amici improntate a gravità, schiettezza e acume indiscutibile. Leon Battista Alberti Alberto, uomo di prudenza, autoritate e fama non vulgare, e come nelle altre cose diligente, così al bene e onore della famiglia nostra affezionatissimo e officiosissimo, el quale spesso con gli altri antichi Alberti confortandogli a essere quanto egli certo erano in le cose desti e diligenti, solea dire queste parole: «Non è solo officio del padre della famiglia, come si dice, riempiere el granaio in casa e la culla, ma molto più debbono e' capi d'una famiglia vegghiare e riguardare per tutto, rivedere e riconoscere ogni compagnia, ed essaminare tutte le usanze e per casa e fuori, e ciascuno costume non buono di qualunque sia della famiglia correggere e ramendare con parole più tosto ragionevoli che sdegnose, usare autorità più tosto che imperio, monstrare di consigliare dove giovi più che comandare, essere ancora severo, rigido e aspero dove molto bisogni, e sempre in ogni suo pensiero avere inanti il bene, la quiete e tranquillità della tutta universa famiglia sua, come quasi uno segno dove egli adrizzi ogni suo ingegno e consiglio per ben guidare la famiglia tutta con virtù e laude; sapere con l'aura, con favore e con quella onda populare e grazia de' suoi cittadini condursi in porto di onore, pregio e autorità, e ivi sapere soprastarsi, ritrarre e ritendere le vele a' tempi, e nelle tempestati, - in simili fortune e naufragii miserandi, quali iniustamente patisce la casa nostra anni già ventidue -, darsi a reggere gli animi de' giovani, né lasciargli agl'impeti della fortuna abandonarsi, né patilli giacere caduti, né mai permettergli attentare cosa alcuna temeraria e pazzamente, o per vendicarsi, o per adempiere giovinile alcuna e leggiere oppinione; e nella tranquillità e bonaccia della fortuna, e molto più ne' tempestosi tempi, mai partirsi dal timone della ragione e regola del vivere, stare desto, provedere da lungi ogni nebbia d'invidia, ogni nugolo d'odio, ogni fulgore di nimistà in le fronti de' cittadini, e ogni traverso vento, ogni scoglio e pericolo in che la famiglia in parte alcuna possa percuotere, essere ivi come pratico ed essercitatissimo navichiero, avere a mente con che venti gli altri abbino navigato, e con che vele, e in che modo abbiano scorto e schifato ciascuno pericolo, e non dimenticarsi che mai nella terra nostra alcuno mai spiegò tutte le vele, benché non superchie fussero grandi, il quale mai le ritraesse intere e non in gran parte isdrucite e stracciate. E così conoscerà essere più danno male navigare una volta, che utile mille giugnere a salvamento. Le invidie si dileguano dove risplende non pompa ma modestia; l'odio s'atuta dove non alterezza cresce ma facilità; l'inimicizia si rimette e spegne dove tu te armi e fortifichi non di sdegno e stizza, ma di umanitate e grazia. A tutte queste cose debbono e' maggiori delle famiglie aprire gli occhi e la mente, tendere el pensiero e l'animo, stare da ogni parte apparecchiati e pronti a prevedere e conoscere el tutto, durarvi fatica e sollecitudine, avervi grandissima cura e diligenza in far di dì in dì la gioventù più onesta, più virtuosa e più a' nostri cittadini grata. «E sappino e' padri ch'e' figliuoli virtuosi porgono al padre in ogni età molta letizia e molto sussidio, e nella sollecitudine del padre sta la virtù del figliuolo. La inerzia e desidia inrustichisce e disonesta la famiglia, i solleciti e officiosi padri la ringentiliscono. Gli uomini cupidi, lascivi, iniqui, superbi caricano le famiglie d'infamia, d'infortunii e di miserie. I buoni, per mansueti, moderati e umani che siano, se non saranno molto nella famiglia solliciti, diligenti, preveduti e faccenti in emendare e reggere la gioventù, sappino che cadendo alcuna parte della famiglia, sarà forza a loro insieme ruinare, e quanto e' saranno in la famiglia con più amplitudine, fortuna e grado, tanto sentiranno in sé maggior fracasso. Le priete più che l'altre in alto murate son quelle che cadendo più s'infrangono. Però siano e' maggiori al bene e onore di tutta la famiglia sempre desti e operosi, consigliando, emendando e quasi sostenendo la briglia di tutta la famiglia. Né però è se non lodata, pia e grata opera con parole e facilità frenare gli apetiti de' giovani, destare gli animi pigri, scaldare le volontà fredde a onorare sé stessi insieme e magnificare la patria e la casa sua. Né anche a me pare opera se non molto dignissima e facilissima nei padri delle famiglie a contenere con gravità e modo, e ristrignere la troppa licenza della gioventù; anzi da qualunque di sé stessi vorrà da' minori molto meritare serà cosa molto condecentissima mantenersi il pregio in sé della vecchiezza, el qual credo sia non altro che autoritate e reverenza. Né possono bellamente e' vecchi in altro miglior modo acquistare, accrescere e conservare in sé maggiore autorità e dignità, che avendo cura della gioventù, traendola in virtù, e renderla qualunque dì più dotta e più ornata, più amata e pregiata, e così traendola in desiderio di cose amplissime e supreme, tenendola in studii di cose ottime e lodatissime, incendendo nelle tenere menti amore di laude e onore, sedando loro ogni dissoluta volontà e ogni minima dislodata turbazione d'animo, e così estirpandogli ogni radice di vizio e cagione di nimistà, ed empiendogli di buoni ammaestramenti ed essempli, e non fare come usano forse molti vecchi dati alla avarizia, e' quali ove e' cercano e' figliuoli farli massai, ivi gli fanno miseri e servili, dove eglino stimano più le ricchezze che lo onore, insegnano a' figliuoli arti brutte e vili essercizii. Non lodo quella liberalità quale sia dannosa senza premio di fama o d'amistà, ma biasimo troppo ogni scarsità, e sempre mi spiacque ogni superchia pompa. Stiano e' vecchi adunque come communi padri di tutti e' giovani, anzi come mente e anima di tutto il corpo della famiglia. E come avere il piè negletto e nudo sarebbe disonore al viso a tutto l'uomo e vergogna, così e' vecchi e ciascuno maggiore in qualunque infimo di casa negligente sappia sé meritare gran biasimo, se in parte alcuna lascia la famiglia essere dissorevole o disonesta. Stia loro in mente essere de' vecchi prima faccenda intraprendere per ciascuno di casa, come que' buoni passati Lacedemoniesi che si riputavano padri e tutori d'ogni minore, e correggevano ciascuno tutti i disviamenti in qualunque loro giovane cittadino si fusse, e aveano i suoi più stretti e più congiunti carissimo e accettissimo fossero da qualunque altri stati fatti migliori. Ed era lode a' padri render grazia e merzè a chiunque si fusse, per far la gioventù più moderata e più civile, el quale n'avesse intrapreso alcuna opera. E con questa buona e utilissima disciplina de' costumi renderono la terra loro gloriosa, e ornoronla di fama immortale e meritata. Però che ivi non era inimistà fra loro, ove gli sdegni e le inimicizie subito erano nascendo svelte e regittate; ivi una sola volontà fra tutti commune e operosa d'avere la terra ben virtudiosa e costumata. Alle quali cose tutti s'afaticavano quanto in loro era studio, forza e ingegno, e' vecchi con ammunire e ricordare e di sé stessi porgere lodatissimo essemplo, e' giovani ubidendo e imitando». Se queste e molte più cose, quali soleva messer Benedetto recitare, tutte sono a' padri delle famiglie necessarie; se la cura del reggere la gioventù non solo ne' padri, ma negli altri ancora si conosce essere lodatissima, non sia adunque chi stimi non essere debito come degli altri padri così mio procurare con ogni argumento, ingegno e arte ch'e' miei a me figliuoli e carissimi rimangano quanto più si può alla fede e pietà de' parenti e di ciascuno racomandatissimi e gratissimi. E così, o figliuoli miei, veggo essere officio de' giovani amare e ubidire e' vecchi, riverire l'età e avere e' maggiori tutti in luogo di padre, e rendergli come è dovuto grandissima osservanza e onore. Nella molta età si truova lunga pruova delle cose, ed èvvi el conoscere molti costumi, molte maniere e animi degli uomini, e stavvi l'aver veduto, udito, pensato infinite utilitati, e ad ogni fortuna ottimi e grandissimi rimedii. Nostro padre messer Benedetto, del quale uomo, come fo in ogni cosa, però m'è debito ricordarmi, perché in ogni cosa lui sempre cercò da noi essere conosciuto prudentissimo e civilissimo, trovandosi con alcuni suoi amici in l'isola di Rodi, introrono in ragionamenti delle inique e acerbe calamità della famiglia nostra, e iudicavano avesse la nostra famiglia Alberta dalla fortuna ricevuta iniuria troppo grande; e vedendo forse in qualcuno de' nostri cittadini qualche fiamma d'invidia e d'ingiusto odio essere incesa, accadde a ragionamento che messer Benedetto allora predisse alla terra nostra molte cose delle quali medesime già n'abbiàno non poca parte vedute. Ivi parendo a chi l'udiva cosa molto maravigliosa così apertamente predire quel che agli altri era udendo difficile compreendere, pregorono gli piacesse manifestarli donde egli avesse quel che così da lungi prediceva. Messer Benedetto, uomo umanissimo e facilissimo, sorridendo si discoperse alto la fronte e monstròngli que' canuti, e disse: «Questi capelli di tutto mi fanno prudente e conoscente». E chi ne dubitasse nella età lunga essere gran memoria del passato, molto uso delle cose, assai essercitato intelletto a pregiudicare e conoscere le cagioni, il fine e riuscimento delle cose, e sapere coniungere da ora le cose presenti con quelle che furono ieri, e indi presentire quanto domani possa riuscirne, onde prevedendo apparisca e conséguiti certo e accomodatissimo consiglio, e consigliando renda ottimo rimedio a sostenere la famiglia in stato riposato e rilevato, in qual sempre con fede e diligenza possa difenderla da qualunque subita ruina, e con forza e virilità d'animo adirizzarla e ristituirla se già fusse dagli urti della fortuna in parte alcuna commossa o piegata? L'intelletto, la prudenza e conoscimento de' vecchi insieme colla diligenza sono quelle che mantengono in fiorita e lieta fortuna e adornano di splendore e laude la famiglia. A chi adunque può questo ne' suoi, mantenerli in felicità, reggerli contro all'infelicità, sostenerli non senza ornamento a ogni fortuna, qual possano e' vecchi, debbase loro non aver grandissima riverenza? Debbano adunque e' giovani riverire e' vecchi, ma molto più i propri padri, e' quali e per età e per ogni rispetto troppo da' figliuoli merita- no. Tu dal padre avesti l'essere e molti principii ad acquistare virtù. El padre con suo sudore, sollecitudine e industria t'ha condutto ad essere uomo in quella età, quella fortuna, e a quello stato ove ti truovi. Se tu se' obligato a chi nella necessità e miseria tua t'aiuta, certo a chi quanto poté mai te lasciò patire alcuno minimo bisogno, a quello sarai obligatissimo. Se e' si debba ogni pensiero, ogni tua cosa, ogni fortuna coll'amico communicare, sofferire sconcio, fatica e sudore per chi ti porta amore, molto più pel padre tuo a chi tu se' più che alcuno altro carissimo, e quasi più che a te stesso obligatissimo. Se dell'avere, del bene, delle ricchezze tue, gli amici e conoscenti tuoi debbono in buona parte goderne, molto più il padre, dal quale tu hai avuto se non la roba la vita, non la vita solo ma il nutrimento tanto tempo, se none il nutrimento l'essere e il nome. Adunque sia debito a' giovani referire co' padri e co' suoi vecchi ogni volontà, pensiero e ragionamento suo, e di tutto con molti consigliarsi, e con quegli in prima a' quali conoscono sé essere più che agli altri cari e amati, udirgli volentieri come prudentissimi ed espertissimi, seguire lieti gli amaestramenti di chi abbia più senno e più età. Né siano e' giovani pigri ad aiutare ogni maggiore nella vecchiezza e debolezze loro; sperino in sé da' suoi minori quella umanità e officio quale essi a' suoi maggiori aranno conferita. Però siano pronti e diligentissimi cercando di dargli in quella stracchezza della lunga età conforto, piacere e riposo. Né stimino a' vecchi essere alcuno piacere o letizia maggiore quanto è in loro di vedere la gioventù sua ben costumata e tale che meriti d'essere amata. E di certo niuno sarà maggior conforto a' vecchi quanto di vedere quelli in chi lungo tempo hanno tenuto ogni loro speranza ed espettazione, quelli per chi hanno avuti sempre i suoi desiderii curiosi e solleciti, questi vederli per loro costumi e virtù esser pregiati, amati e onorati. Molto sarà contenta quella vecchiezza quale vedrà ciascuno de' suoi adritto e avviato in pacifica e onorevole vita. Sempre sarà pacifica vita quella de' molto costumati; sempre sarà onorevole vita quella de' virtuosi. Da cosa niuna tanto segue alla vita de' mortali gran perturbazione quanto da' vizii. Però sia vostro officio, o giovani, con virtù e costumi cercare di contentare e' padri e ogni vostro maggiore come nell'altre cose così in queste, le quali sono in voi lodo e fama, e a' vostri rendono allegrezza, voluttà e letizia. E così, figliuoli miei, seguite la virtù, fuggite e' vizii, riverite e' maggiori, date opera d'essere ben voluti, fate di vivere liberi, lieti, onorati e amati. El primo grado a essere onorato si è farsi voler bene e amare; el primo grado ad acquistar benivolenza e amore si è porgersi virtuoso e onesto; el primo grado per adornarsi di virtù si è avere in odio e' vizii, fuggire i viziosi. Volsi adunque sempre aversi apresso de' buoni lodati e pregiati, né partirsi mai da quelli onde abbiate essemplo e dottrina ad acquistare e appreendere virtù e costume. E doveteli amare, riverire, e dilettarvi d'essere da tutti conosciuti senza alcuno biasimo. Non siate difficili, non duri, non ostinati, non leggeri, non vani, ma facilissimi, trattabili, versatili, e quanto s'appartenga nella età pesati e gravi, e quanto in voi sia cercate con tutti essere gratissimi, e inverso e' maggiori quanto molto si può reverenti e ubidenti. Suole la umanità, mansuetudine, continenza e modestia ne' giovani non poco essere lodata; ma verso e' maggiori la riverenza ne' giovani sempre fu grata e molto richiesta. Non dirò per millantarmi, ma ben per darvi domestici essempli, e' quali vi siano più ad animo udirgli e più a mente a ricordarvene che gli strani. Non mi ramenta in luogo alcuno, dove Ricciardo nostro fratello, o de' nostri altri di più età di me fossero, ch'io mai volessi ivi essere veduto o sedere o starmi senza rendergli grandissima riverenza. Mai fra più gente né in alcuno luogo publico fu chi appresso de' miei maggiori mi vedesse se non ritto e aparecchiato se cosa mi volessino comandare. Dovunque io gli avessi veduti, sempre levavo me verso loro e discoprivami ad onorarli, e dovunque io gli trovassi, era mio costume lasciare adrieto ogni mio sollazzo e compagnia per essere co' maggiori, rendergli onore e acompagnarli. Né sarei mai ritrattomi da loro, né reduttomi tra' giovani amici, se prima come da padre non avea impetrata licenza. Ed era di questa mia osservanza e subiezione non da' vecchi tanto, ma da' giovani ancora non biasimato, e a me parea averne fatto el debito mio, ché fare il contrario, non aggradire, non pregiare, non sottoaversi a' maggiori arei riputatomi a vergogna e biasimo. E più in ogni cosa a me sempre parse dovere con Ricciardo come sempre feci, apertomi con lui, consigliatomi, riputatolo come padre, tanto mi stava in animo essere debito degnare e onorare l'età. Sarete adunque quanto vi conforto verso e' maggiori molto riverenti, e quanto in voi stessi potrete virtuosi. Né guardate, figliuoli miei, che la virtù in vista sia forse duretta e aspretta, gli altri disviamenti in primo aspetto sieno proclivi e dilettosi, imperoché adentro vi si truova questa tra loro gran- dissima differenza: nel vizio abita più pentimento che contentamento, più vi surge dolore che piacere, più vi truovi perdimento da ogni parte che utile. Nella virtù tutto contra, lieta, graziosa e amena, sempre ti contenta, mai ti duole, mai ti sazia, ogni dì più e più t'è grata e utile. E quanto in te saranno buoni costumi e intere ragioni, tanto sarai pregiato e lodato, e da' buoni ben voluto, e godera'ne fra te stesso. E se conoscerai te non essere non uomo, e non vorrai umanitate alcuna essere da te lontana, certo arai non pochissima parte di vera felicità in te stessi. Questo può la virtù per sé sola, rendere beato e felice chi con tutto l'animo e tutte l'opere dedica sé a seguire e osservare ogni erudimento e precetto col quale alontani sé da' vizii e fugga ogni rio costume e cosa non lodata. Io sono di quelli che vorrei più tosto, figliuo' miei lasciarvi per eredità virtù che tutte le ricchezze, ma questo non sta in me. Quello che in me stimai licito, sempre mi sono operato darvi ogni principio, aiuto e modo con che voi conseguiate molta lode, assai grazia e grande onore. A voi sta usare l'ingegno avete da natura, credo non piccolo, né debole, e farlo migliore con studio ed essercizio di buone cose, e con molta copia di buone arti e lettere. E la fortuna, la quale io vi lascio, dovete adoperarla e distribuirla in que' modi tutti siano utili a farvi grati come a' vostri, ancora simile a ogni strano. E' mi par ben potere però dubitare che desiderarete qualche volta avermi in vita, figliuoli miei; forse patirete degli affanni e necessità, quale essendoci io, manco vi nocerebbono, ché a me non è nuovo quello possa la fortuna ne' deboli anni negli animi inesperti de' giovani, a' quali manca e consiglio e aiuto. Ed èmmi essemplo la casa nostra, la quale abonda di prudenza, ragione ed esperienza, fermezza, virilità e constanza d'animo; pure conosce in queste nostre avversità quanto con sua furia e iniquità la fortuna in qualunque saldo consiglio, e in qualunque ferma e ben constituta ragione vaglia. Ma siate di forte e intero animo. Le avversità sono materia della virtù. E chi è colui el quale di sua fermezza d'animo, di sua constanza di mente, di sua forza d'ingegno, di sua industria e arte vaglia di sé nelle seconde e quiete cose, nell'ozio e tranquillità della fortuna, tanto meritare e acquistare laude e nome quanto nella avversa e difficile? Però vincete la fortuna colla pazienza, vincete la iniquità degli uomini collo studio delle virtù, adattatevi alle necessitati e a' tempi con ragione e prudenza, agiugnetevi all'uso e costume degli uomini con modestia, umanità e discrezione, e sopratutto con ogni vostro ingegno, arte, studio e opera, cercate molto in prima essere, e apresso parere virtuosi. Né a voi sia più caro, né prima desiderata alcuna cosa che la virtù, e in voi stessi arete statuito sempre alla scienza e sapienza posporre ogni altra cosa, e indi ogni utile della fortuna apresso di voi riputerete da non molto essere pregiato. E ne' vostri desiderii lo onore solo e la fama si vendicaranno e' primi luoghi, né mai posporrete le lode alle ricchezze e per asseguire onore e pregio niuna cosa benché ardua e laboriosa mai vi parrà da nolla intraprendere e proseguire, e delle fatiche vostre basteravvi aspettare non altro che grazia e nome. Né dubitate che chi è virtuoso, quando che sia troverrà frutto dell'opere sue, né vi sfidate con perseveranza e assiduità durare in studii di buone arti, in pervestigazioni di cose rarissime e lodatissime, e in apprendere e tenere buone dottrine e discipline, ché un tardo renditore spess'ora ne suole venire con molta usura. Né a me spiace in voi che 'nsino da questa puerile e tenera età abbiate apparecchiata non mezzana materia ad essercitarvi e ad imparare opporsi e sostenere gl'impeti degli avversi casi umani. Lasciovi in essilio e senza padre, fuori della patria e della casa vostra. Fievi lodo, figliuoli miei, ne' teneri e deboli anni, se none in tutto, in parte almanco traiettarvi a superare la durezza e asprezza delle necessitati, e nella ferma età a voi sarà quasi meritato in voi stessi triunfo, se arete in ogni vita saputo poco temere la malignità e vincere l'ingiuria della fortuna. E da ora stimate quanto in voi non mancherà diligenza, sollecitudine e amore alle cose pregiate e oneste, tanto rarissimo v'acaderà desiderare la presenza mia e molto meno l'aiuto degli altri mortali. Chi in sé arà virtù, a costui pochissime altre cose di fuori saranno necessarie. Troppo ampla ricchezza, troppo grande possanza, troppo singulare felicità risiede in colui el quale saprà essere contento solo della virtù. Beatissimo colui el quale si porge ornato di costumi, forte d'amicizie, copioso di favori e grazia fra' suoi cittadini. Niuno sarà più in alta e più ferma e salda gloria, che costui el quale arà sé stessi dedicato ad aumentare con fama e memoria la patria sua, e' cittadini e la famiglia sua. Costui solo meriterà avere il nome suo apresso de' nipoti suoi pien di lode e famoso e immortale, el qual d'ogn'altra cosa fragile e caduca ne giudicherà quanto si debba, da nolla curare e da spregiarla, solo amerà la virtù, solo seguirà la sapienza, solo desiderrà intera e corretta gloria. Qui, figliuoli miei, nella virtù, nelle buone arti, nelle lodate discipline sarà vostro officio essercitarvi, e dare opera che per voi non manchi di venire tali quali costoro aspettano voi siate e desiderano. Così fate, cercate in qualunque onesto modo, con tutte le fatiche, con molto sudore, con ogni forza e industria meritare apresso di costoro lodo e grazia, e insieme apresso degli altri benivolenza, dignità e autorità, e apresso de' nipoti e di chi de' nipoti verrà memoria di voi, di vostri singulari detti e fatti e opere. E siate di migliore animo. Qui è Adovardo, e Lionardo, e saracci Ricciardo, a' quali spero sarete racomandati. Io conosco la natura di ciascuno di casa nostra Alberta molto amorevole, e stimo non vorranno essere riputati sì duri, né sì spiatati che non aiutassero e' suoi vedendo essercitarvi in virtù. Così vi priego, Adovardo e tu Lionardo; voi vedete l'età di questi garzoni, conoscete el pericolo della gioventù, gustate el bene e onore di casa; siate adunque solliciti, pigliatene ciascuno di voi tutta la somma fatica. Egli è debito a tutti studiare che nella casa crescano ingegni con virtù e fama. Erasmo da Rotterdam I brani che seguono fanno parte dell'opera più famosa dedicata all'educazione dall'umanista olandese: De liberis statim ac liberaliter instituendis, del 1529. Il lettore potrà cogliere non solo la sostanza della concezione “pedagogica” erasmiana, ma anche il particolare stile espositivo ed argomentativo. Che bella premura ci si dà, dunque, per quei bambini che prima ancora di aver compiuto quattro anni vengono mandati in una scuola elementare diretta da un maestro sconosciuto, rustico e di modi poco puliti, a volte senza neppure la testa a posto, spesso lunatico, epilettico o affetto da quella malattia della pelle che ora si chiama comunemente morbo gallico. Non vi è infatti oggi alcuno abbastanza misero, incapace, insignificante perché i più non lo considerino adatto a dirigere una scuola. Quelli pensano di aver avuto un regno ed esibiscono una crudeltà sorprendente, benché il loro potere si eserciti non su bestie, come dice il poeta comico, bensì su dei bambini di un'età che si sarebbe dovuto far sviluppare con la massima dolcezza. Non scuola la diresti, ma sala di tortura: non vi si sente altro che lo schiocco delle sferze, lo strepito delle verghe, gemiti, singhiozzi e atroci minacce. Cos'altro possono impararvi i bambini, se non ad odiare la cultura? Una volta che quest'odio ha messo radice nei teneri animi, anche da grandi detestano lo studio. [...] Dopo i maestri scozzesi nessuno ha il gusto del bastone più di quelli francesi. Quando glielo si fa notare replicano: "Questo popolo, come si è detto dei Frigi nell'antichità, si corregge solo a suon di botte”. Se ciò sia vero giudichino altri; ammetto però che ci sono alcune differenze nazionali e soprattutto differenze di carattere individuale. Certi bambini è più facile ucciderli che correggerli con le botte, ma con l'affetto e rimproveri dolci puoi far fare quello che vuoi. Devo dire di aver avuto da bambino un carattere di questo tipo; e poiché il maestro, a cui ero più caro degli altri, perché diceva di aspettarsi qualcosa di molto buono da me, stava particolarmente attento e voleva vedere una volta per tutte come reagissi alle verghe, mi rinfacciò una mancanza che non avevo neppure sognato e mi picchiò. Questo episodio scacciò da me ogni amore per lo studio e umiliò il mio animo di bambino al punto che mancò poco mi consumassi di dolore; quanto meno quel dispiacere finì in una febbre quartana. Il maestro, compreso infine il suo errore, fra gli amici deplorava l'accaduto dicendo: “Per poco non rovinavo quell'ingegno prima di conoscerlo”. Era infatti un uomo né sciocco, né incolto e non lo credo neppure cattivo. Capì lo sbaglio, ma troppo tardi per me. Da quest'unico esempio puoi congetturare, amico eccellente, quante intelligenze di prim'ordine vengano rovinate da questi boia ignoranti, ma presuntuosi perché credono di sapere, tetri, avvinazzati, truculenti e che picchiano per il solo piacere di farlo: sono infatti così bestiali da provar piacere per il dolore altrui. Uomini di questo tipo avrebbero dovuto essere macellai o carnefici, non educatori dei bambini. I più crudeli nel torturare i bambini sono poi quelli che non hanno da insegnare loro. […] Torno però all'infanzia, cui nulla serve meno che abituarsi alle percosse. L'eccesso di botte rende ribelle un animo nobile, avvilisce un carattere remissivo; la frequenza delle botte comporta che il corpo faccia il callo alle sberle e l’animo divenga impermeabile ai rimproveri. Anzi, non bisogna ricorrere troppo spesso a una sgridata troppo violenta. Un rimedio dato al momento sbagliato fa peggiorare la malattia invece che alleviarla e, se lo somministra in continuazione, finisce per perdere le proprietà terapeutiche, facendo l'effetto del cibo sgradevole e poco sano. Qui alcuni ci vanno ripetendo i sacri detti degli Ebrei: “Chi risparmia le botte odia il figlio, e chi lo ama lo picchia spesso” e “Fagli chinare la testa finché è giovane e ammorbidiscigli i fianchi finché è bambino”. Forse era il castigo giusto per gli Ebrei di una volta! Ora dobbiamo interpretare le massime giudaiche da persone civili. Se ci mettono sotto pressione con il senso letterale, cosa c'è di più assurdo che “far piegare la testa del bambino” e “ammorbidirgli i fianchi”? Non ti pare che si stia educando un bue all'aratro o un asino al basto e non un uomo alla virtù? E cosa ci fanno poi balenare per frutto di questa educazione? Affinché non vada bussando alle porte dei vicini”. Teme che il figlio diventi povero come fosse il peggiore dei mali. Che massima banale! Che la nostra verga sia il rimprovero rispettoso della persona, magari anche la sgridata, ma dolce e non violenta. È questa la frusta cui dobbiamo abituare i nostri figli: venir educati bene, avere a casa un modello di buon comportamento e non essere costretti ad andare mendicando nelle decisioni il parere dei vicini. Il filosofo Licone ha indicato due pungoli efficacissimi, per stimolare i bambini, la vergogna e la lode: vergogna è la paura del rimprovero giustificato, la lode poi alimenta tutti i rami del sapere. Questi pungoli dobbiamo usare per incoraggiare la facoltà dei figli. Se vuoi, ti mostrerò anche il bastone per ammorbidir loro i fianchi. Il poeta eccelso dice: ✁Tutto vince la fatica immoderata”✂ stimoliamo dunque in tutti i modi, pretendendo, ricapitolando, inculcando, con questo bastone ammorbidiamo i fianchi ai nostri bambini. Comincino coll' amare e ammirare cultura e virtù, a detestare vizio e ignoranza. Sentano lodar alcuni per le loro buone azioni e biasimare altri per le cattive; si chiamino in causa gli esempi di qualcuno a cui la cultura ha procurato grandissima gloria, ricchezze, posizione e prestigi e, viceversa, di coloro a cui cattivi costumi e mancanza di cultura hanno arrecato infamia, disprezzo, povertà e morte. Questi, certo, sono bastoni adatti ai cristiani, discepoli del mitissimo Cristo. Se poi non si ottiene nulla né coi rimproveri, né con le preghiere, né con l'emulazione, né con la vergogna, né con le lodi, né con alcun altro metodo di correzione, anche il castigo corporale (se non si può far altro) dev'essere rispettoso della persona e del pudore. […] Lo ammetto: come i filosofi tracciano i modelli del saggio, i retori dell'oratore, in termini puramente ideali, così è molto più facile prescrivere come debba essere il precettore che trovarne molti che corrispondano al modello. Avrebbero dovuto preoccuparsi i magistrati civili e i vertici della gerarchia ecclesiastica, però, che, come soldati e cantori sacri ricevono una loro formazione, così, a molto maggior ragione, la ricevessero quelli che dovranno impartire ai figli dei cittadini eminenti un'educazione giusta e rispettosa. Vespasiano pagava cento scudi all'anno di tasca propria ai retori latini e greci. Anche Plinio il Giovane spese una somma ingente di tasca propria a questo stesso scopo. Se poi le pubbliche istituzioni rimangono inerti, ognuno deve badare quanto meno a casa propria. Che faranno, si obbietta, i poveri che faticano a dar da mangiare ai figli, altro che poter pagare un maestro?! Qui non so che risposta se non il detto comico: “Come possiamo, visto che non è possibile come vogliamo”. Noi stiamo esponendo il miglior metodo educativo, non possiamo dare la ricchezza; sennonché forse anche in questo caso la generosità dei ricchi dovrebbe venire in aiuto ai capaci e meritevoli, ma che per mancanza di mezzi non possono esercitare il loro talento naturale. [...] Smetterò forse di prendermela con i maestri maneschi dopo un'ultima osservazione. I saggi condannano quelle leggi e quelle magistrature che fungono solo da deterrente senza offrire anche un incentivo e che puniscono i reati senza badare a prevenirli. Lo stesso giudizio si può trasferire ai più dei maestri, che di solito si limitano a punire per le mancanze, ma non educano a non voler mancare. Alle interrogazioni, se il bambino sbaglia sono botte; e se questo avviene tutti i giorni, perché il piccolo ci faccia meglio l'abitudine, pensano di aver assolto egregiamente il loro compito di maestri. Ma prima bisognava attrarre il bambino ad amare lo studio e a vergognarsi di far dispiacere al maestro. Certi, però, penseranno forse che ho trattato troppo a lungo questi argomenti; e sarebbe vero, se quasi tutti non commettessero in questo campo errori così gravi, che non si può finire di criticarli. Molto vantaggioso è poi che l'educatore sappia ricreare dentro di se l'affetto di un genitore. Così il bambino imparerà più volentieri e lo stesso maestro si sentirà meno infastidito dalla fatica dell'insegnare: in ogni attività, infatti, la passione toglie gran parte della difficoltà. E poiché, secondo il vecchio proverbio, “il simile ama il simile☎, il maestro deve tornare in certo senso bambino per farsi amare dal bambino. (pp. 153-159) Come dunque i teneri corpicini si nutrono di cibi leggeri e dati a intervalli, così le menti con insegnamenti adatti all'infanzia, ma impartiti gradualmente e come per gioco, si abituano a poco a poco a nozioni più difficili, e intanto la stanchezza non viene avvertita, poiché gli incrementi infinitesimi ingannano la percezione della fatica, ma contribuiscono lo stesso al progresso complessivo. Ad esempio si racconta di un'atleta che, abituato a portare un vitello per un certo tratto ogni giorno, non ebbe alcun problema a portarlo anche diventato toro: l'aumento non veniva percepito perché ciascuna giornata aggiungeva qualcosa al peso. Ma certi pretendono che i bambini diventino subito persone mature, senza tener conto dell'età, bensì misurando la loro intelligenza dalla propria. Cominciano subito a metterli sotto pressione, a esigere uno sforzo totale, a corrugare la fronte se il bambino non corrisponde abbastanza alle attese e si arrabbiano come se avessero a che fare con un adulto, dimenticandosi, evidentemente, di essere stati bambini. Quanto è più umana l'ammonizione rivolta da Plinio a un maestro troppo severo: “Ricordati che è un ragazzo e anche tu lo sei stato”. Moltissimi, però, infieriscono contro i deboli bambini come se non si ricordassero di essere uomini e anche gli allievi lo sono. […] Cosa potrebbe ascoltare più volentieri un bambino delle favolette esopiche (e lo stesso frutto si ricava dalle altre narrazioni mitiche degli altri poeti)? Il bambino sente parlare dei compagni di Ulisse trasformati in porci e altri animali dagli incantesimi di Circe. Il raccontino fa ridere; intanto, però, il bambino impara un punto centrale dell'etica: chi non è guidato dalla ragione, ma trascinato dalla passione, non è un uomo, ma una bestia selvaggia. Cosa potrebbe dire di più grave un filosofo storico? Ma un raccontino ridicolo insegna la stessa cosa. Siccome il tema è chiarissimo, non ti farò perdere tempo aggiungendo esempi. Cosa c'è di più aggraziato della poesia bucolica, di più divertente della commedia che, fondandosi sulla rappresentazione dei caratteri, colpisce anche ignoranti e bambini? Quanto della filosofia morale, allora, si può imparare per gioco? Aggiungi tutta la terminologia specifica, un campo in cui oggi anche quelli che passano per coltissimi prendono abbagli enormi. Infine le massime concise e spiritose, come quasi tutti i proverbie i detti degli uomini illustri, un tempo l'unico strumento per insegnare la filosofia al popolo. Già nei bambini piccoli si può osservare una particolare inclinazione per certe materie, ad esempio, la musica, l'aritmetica o la geografia. Io ho osservato di persona bambini molto lenti a capire le regole grammaticali e retoriche e dotatissimi per quelle materie più sottili e difficili. Bisogna dunque assecondare le tendenze naturali spontanee. In discesa si fa ben poca fatica, mentre “non dirai né farai nulla sforzandoti. Ho conosciuto un bambino che non sapeva ancora parlare, il cui divertimento maggiore era aprire un libro e prendere l'atteggiamento di chi legge; a volte lo faceva per ore intere senza mai annoiarsi e porgendogli il libro si potevano anche calmare i suoi capricci più violenti. Ciò faceva sperare ai parenti che sarebbe diventato un dotto, anche per il nome di buon augurio (si chiamava Girolamo). Non so come sia adesso: non l'ho visto da ragazzo. Perché impari le lingue sarà molto importante che venga allevato in un ambiente dove si parla bene. Per fargli imparare più volentieri e ricordare meglio favole e apologhi si devono mettere sotto gli occhi al bambino illustrazioni ben fatte dell'argomento di cui trattano, con una perfetta corrispondenza fra parole e immagine. Lo stesso metodo servirà a imparare i nomi e le caratteristiche di alberi, piante e animali, soprattutto quelli rari ed esotici come rinoceronte, tragelafo, pellicano, onagro, elefante. Un'illustrazione mostra un pitone che stringe fra le spire un elefante avvolgendogli la coda intorno alle zampe anteriori. L'immagine strana diverte il bambino; che farà il maestro a questo punto? Gli spiegherà che il bestione si chiama elefante in greco e anche in latino, anche se a volte diciamo “elephantus, elephanti” secondo il tipo flessionale latino. Gli mostrerà ciò che i Greci chiamano proboscide e i Latini mano perché serve all'animale a portare il cibo alla bocca. Gli spiegherà che quell'animale non respira come noi con la bocca, bensì con la proboscide e gli mostrerà le zampe da cui si trae l'avorio tanto apprezzato dai ricchi; e dicendo questo gli mostrerà un pettine d'avorio. Poi gli insegnerà che in India ci sono rettili così giganteschi. “Drago” poi è una parola greca e anche una latina, con l'unica differenza che noi la decliniamo alla nostra maniera, mentre i greci dicono “dracaena” come ✁laena”. Gli spiegherà che fra elefanti e draghi c'è una guerra innata all'ultimo sangue; e, se il bambino sarà particolarmente curioso, potrà aggiungere molti altri dettagli sulle caratteristiche degli elefanti e dei draghi. Alla maggior parte dei bambini piacciono le scene di caccia; quante nozioni botaniche e zoologiche si possono imparare da queste per gioco. Non ti prenderò tempo con altri esempi, perché è facile generalizzare. Nello scegliere queste immagini il maestro starà attento a presentare al bambino di preferenza ciò che gli parrà più gradito, adatto all'età, piacevole e per così dire fiorito. Il profitto che si ricava dalla prima infanzia, come dalla primavera, consiste in fiori delicati e prati ameni verdeggianti, finché la maturità, come l'autunno, fa traboccare il granaio con il raccolto maturo. Sarebbe dunque assurdo pretendere in primavera l'uva matura e la rosa in autunno; così anche il maestro deve saper distinguere cosa sia adatto ad ogni età. Per l'infanzia vanno bene cose liete e piacevoli. A dire il vero, però, la tetraggine, in assoluto, deve essere bandita dallo studio. Sono sicuro che questo volevano simboleggiare gli antichi attribuendo alle Vergini Muse straordinaria bellezza, cetra, canti, danze e giochi sui bei verdi prati e dando loro le Cariti come compagne: far profitto nello studio consiste soprattutto in uno spirito di collaborazione e di amicizia, da cui il termine “studi propri dell'uomo”. (pp. 163-169). […] Nei bambini è innato il desiderio di vincere e un sentimento di gelosia ben radicato, nonché la paura della vergogna e l'amore per la lode, soprattutto in quelli che sono di intelligenza più elevata e carattere vivace. Di questi sentimenti il maestro deve servirsi a profitto dello studio. Quando non gioverà nulla, né preghiere ed esortazioni carezzevoli, né piccoli premi infantili ed elogi, bisognerà fingere una gara con i coetanei. Si lodi il compagno in presenza dello svogliato: la rivalità stimolerà il bambino che la sola esortazione non ha potuto incoraggiare. Non sarà il caso, però, di assegnare definitivamente il primo premio; il maestro, invece, di tanto in tanto farà balenare al vinto la speranza di riscattare la vergogna con l'applicazione, quello che fanno in guerra i generali. Talvolta bisogna lasciare che il bambino creda di vincere pur riuscendo inferiore. L'alternanza di lode e rimprovero nutrirà in loro (come dice Esiodo) un'utile rivalità. Forse una persona di carattere serio non avrà molta voglia di pargoleggiare così fra i bambini. Questa stessa persona seria, però, prova gusto e non si vergogna affatto di giocare per molte ore al giorno con cagnette maltesi o bertucce, oppure di scherzare a ruota libera con un buffone. Giocando con i bambini si fa una cosa serissima; strano che una persona per bene non si diverta a farlo, visto che poi l'affetto e la speranza di un grande profitto rendono piacevoli anche attività di per sé pesanti. (da: Erasmo da Rotterdam, Per una libera educazione, Milano, Rizzoli, 2004, passim). Jan Amos Komensky Il testo qui riportato (tratto dalla Pampaedia, una delle sette parti in cui avrebbe dovuto articolarsi la sua opera più vasta, la De rerum humanarum emendatione consultatio catholica, che rimase incompiuta) approfondisce le motivazioni che spingono Comenio ad affermare con forza il suo ideale di un'istruzione “per tutti, in tutto, totalmente”, secondo la celebre espressione che finì per costituire il “motto” della “pansofia” e della “pampedia”; sono, forse, le pagine centrali di tutta la produzione pedagogica comeniana. V. Quanto agli uomini il loro interesse è che nessuno, che sia partecipe della natura umana, aberri dallo scopo della sua introduzione nel mondo. Poiché è vano camminare verso qualche meta e non arrivarci, andar dietro a qualche cosa e non raggiungerla; cercare e non trovare, fare e non condurre a termine, volere e non ottenere: allora a che serve essere al mondo e non sapere, non fare, e non conseguire quelle cose per cui siamo qui? Sarebbe stato meglio se non fossimo proprio nati! Poiché, dunque, tutti nasciamo, bisogna fare in modo che, infine, nessuno si penta di essere nato. In che modo? VI. Anzitutto adoperandoci perché nessuno viva come un bruto, ma secondo i dettami della ragione, della cui luce tutti hanno il dono. Ma non tutti sanno far uso di ciò che è posseduto da tutti, se non sono istruiti. Bisogna dunque istruirli, altrimenti sarà simile a stoltezza l'avere un campo e non coltivarlo, possedere strumenti musicali e non suonarli, gli occhi e non guardare, le orecchie e non udire, i piedi e non camminare, ecc. A che serve dunque la natura razionale se non la si educa all'uso della ragione? Perché dovremmo volere che alcuni, forniti d'intelligenza (e lo sono tutti), lo fossero invano? Altro è il caso se a giacere incolte sono le terre prive di abitatori, dove mancano quelli che abbiano a coltivarla; giacché manca chi abbia bisogno. Infatti, che la terra sia coltivata o lasciata incolta, è cosa transitoria, è una cosa soltanto di questa vita. L'anima umana invece è un fondo eterno; non può essere trascurato senza un danno eterno (la perdita della salvezza dell'uomo è ingiuria alla gloria di Dio). VII. E non è da desiderare soltanto che gli uomini non abbiano ad abbrutirsi, ma anche che diventino sapienti quanto più è possibile. Poiché tutti sono stati creati ad immagine di Dio, Saggezza infinita, bisogna fare in modo che risponda al suo archetipo l'immagine che ne fu tratta. E poiché la moltitudine dei sapienti rappresenta la salvezza del mondo (Sap, 6, 26), non si può sperare una piena salvezza se non si ottiene che, come ora tutto il mondo è pieno di stolti, così in futuro sia pieno di sapienti; affinché tutti amministrino rettamente le loro cose e nessuno le mandi in rovina. VIII. In terzo luogo poiché si desidera che nessun uomo degeneri in non uomo, bisogna desiderare che nessun uomo resti senza istruzione; perché se si è privi dell'istruzione è facilissimo degenerare per la stessa forza della natura umana. In realtà, la potenza conoscitiva della mente, se non si applica ad oggetti reali, da cui si lasci regolare, si costruisce ogni vano fantasma da cui può essere ingannata anche nel modo più mostruoso. La potenza volitiva, se non è diretta a ciò che è autenticamente vero e buono per dilettarsene salubremente, cercando di afferrare quanto c'è di più falso e compiacendosi di ciò che è nocivo al posto di ciò che è utile, si perde. La potenza attiva, infine, non diretta dove è necessaria, si applica all'illecito, e in esso o si logora senza nessun vantaggio o in più arreca danno a sé ed agli altri. (Di qui, infatti, nascono furti, stragi, e tutti i mali, che quasi automaticamente dilagano e si commettono, mentre la forza attiva si rivolge tutta a realizzare cose vere ed utili). E interessa sopra ogni altra cosa che ciò avvenga. IX. E poiché la sola causa di tanti errori, che dovunque si commettono, è la cecità della mente, per cui gli uomini non conoscono né i fini loro né quelli delle cose, e i mezzi per raggiungere quei fini ed i legittimi modi per adoperare quei mezzi, è assolutamente necessario che tutti gli uomini, che devono sempre guardarsi dai baratri eterni, intorno a tutto ciò vengan rettamente istruiti. Certamente, infatti, qualunque peccato commettano gli uomini in pensiero, volontà, azioni, c'è sempre alla radice della loro deviazione questo unico fatto, che essi non badano ai fini delle cose, ai mezzi e ai modi; soprattutto ai fini ultimi a cui deve essere riportato tutto di ogni cosa (e massimamente dell'uomo stesso). Una volta disatteso poi lo scopo principale, è quanto mai agevole lasciarsi distrarre da cose accessorie che ci capitino di traverso e così deviare dai fini veri verso i falsi. Se il commettere questa mancanza verso ogni altra cosa è nocivo, lo è infinitamente di più, se l'uomo, disattendendo il proprio fine, da esso si disvia [...]. Dunque per arrestare o almeno ridurre per tutto il genere umano queste esorbitazioni non si può pensare niente di così efficace come se tutti gli uomini cominciassero a riflettere e poi a capire, e in conformità di ciò a regolare le loro azioni, perchè mai essi si trovino qui e per quale scopo, nello stesso tempo, ogni cosa si trovi qui con loro. X. Bisogna, poi, desiderare che anche le nazioni che vivono nel grado estremo di barbarie possano essere illuminate e liberate dalle tenebre della loro barbarie, perché esse sono parte del genere umano da assimilare al suo Tutto; e perché l'intero non è tale se manca di qualche parte; e poi, perché desiderare la parte piuttosto che il tutto (nel possesso di ogni bene) è lampante prova di mancanza di giudizio o di buona volontà. Perciò chiunque non voglia mostrare di appartenere agli stolti o ai malvagi deve preferire che stiano bene tutti piuttosto che lui solo o pochi suoi parenti o solo il suo popolo. Né, infatti, tutto il corpo può star bene se le membra, tutte e singolarmente, non stanno bene, così collegate essendo tutte fra loro che appena una (fosse anche la più piccola) soffre, un senso di dolore si diffonde in tutte e facilmente da un membro ammalato se ne contagia un altro. Né diversa è la struttura della società umana: poiché un uomo è contagiato da un altro uomo, una città da un'altra città, un popolo da un altro popolo; mentre se tutti fossero sani parteciperebbero del bene comune in comune. Dunque arreca ingiuria a tutta l'umanità chi non desidera veramente che stia bene tutta l'umanità, ma non è neppure veramente amico di se stesso nella propria individualità se, essendo sano, desidera frequentare i malati, sapiente gli stolti, buono i cattivi, felici i miseri; il che è inevitabile, se si desidera essere incolume, sapiente, buono e felice desiderare che anche gli altri lo siano. XI. In una parola si deve desiderare che nessuno ponga differenze dove Dio non ne ha poste: affinché non cerchiamo di sembrare più sapienti dello stesso Dio, disponendo il mondo in modo diverso da come lo ha disposto Lui. Ora Dio non pose alcuna differenza tra gli uomini se si tien conto di ciò che costituisce la natura umana; poiché ha creato tutti 1) dallo stesso sangue (At, 17, 26): ecco l'unità della materia; 2) partecipi della medesima immagine divina (Gn 1, 26): ecco l'unità della forma; 3) plasma dello stesso architetto (ivi): ecco l'unità dell'origine; 4) eredi della stessa eternità (Mt 25, 34): ecco l'unità del fine; 5) siamo tutti inviati alla stessa scuola del mondo e tutti siamo comandati di prepararci ad un'altra vita. Tutto ci è, dunque, comune. Perché, dunque, non siamo ammessi tutti a tutte le cose, mediante le cose siamo resi idonei a tutto? È una cosa dolorosa e addirittura ingiusta ed umiliante che tutti siano mandati nei teatri di Dio, ma che non sia dato a tutti la possibilità di vedere tutto; che tutti siano invitati in cielo, ma non a tutti sia insegnata la via; che tutti osservino quotidianamente le cose create per tutti, che tuttavia i più ignorino che cosa mai esse siano, e per quale scopo siano e vengano create, al pari di animali da soma, che sono privi d'intelligenza. XII. Ma neppure in quelle cose che dal di fuori si aggiungono e capitano alla natura umana, Dio volle che noi fossimo così distanti, affinché si constatasse che è necessario affrontare i medesimi casi con gli stessi rimedi. Tocca a tutti la sorte di nascere e di morire, anche se nell'intervallo di questi due momenti sembriamo differenziarci; ma anche qui, però, c'è somiglianza nel reciprocarsi delle vicissitudini. Hanno le loro debolezze e le loro cadute i plebei, i contadini, i mendicanti, i barbari; le hanno anche i re, i principi e i filosofi. E da tutti, ugualmente, si passa il tempo nell'attesa del bene, e intanto soffrendo, se non conosciamo i rimedi di tali mali; i quali rimedi non possono venire se non dalla ricerca delle vera sapienza; e se di questi qualcuno crede che egli o i propri parenti non abbiano bisogno, costui o sottragga se stesso e quelli alla comune sorte umana, oppure si scagli inerme contro tutte le sventure del tempo e dell'eternità e dimostri di essere un temerario e costringa gli altri ad agire temerariamente come lui. Infelice chi non conosce l'immensità della felicità che ha perduto, né la miseria dell'infelicità nella quale è caduto, né la via per sfuggire a questa e riottenere quella. XIII. Infine è nell'interesse anche delle stesse cose che tutti gli uomini siano educati ad una vita ragionevole: perché anche loro sotto la sapiente guida dei sapienti si trovino meglio, ché come l'orto stesso, quando si trova in mano ad un buon ortolano, e l'arte in mano di un bravo artista, e la famiglia in mano ad un saggio capo di casa, e il regno in mano ad un re sapiente, un esercito in mano ad un generale esperto, ecc., si trova meglio che in mano a persone senza esperienza, così, pure, è per tutte le cose in mano agli uomini che le posseggono e le usano secondo il loro diritto, qualora essi sappiano rettamente usarle. Memorabile è il detto di Salomone: “Il giusto ha cura anche della vita del suo giumento, ma l'empio è crudele” (Pv 12, 9). Quanta crudeltà subiscono dappertutto tutt le cose quando siano usate per scopi illeciti a cagione della cattiveria o imperizia umana! A questo allude l'apostolo quando dice che tutte le cose create sono soggette all'inutilità, e sospirano e desiderano e sperano di essere liberate da così iniqua schiavitù (Rm, 8, 20). E che questa aspirazione e speranza delle cose create progredisca ed ogni cosa e dappertutto proceda meglio e tutte le cose create abbiano ragione di lodar Dio insieme con noi, è cosa che, in ogni caso, merita di essere desiderata (Sal, 148). Dunque deve essere desiderato anche questo, che tutti gli uomini siano ammaestrati a ben conoscere e capire le cose e delle cose a far buon uso e buon godimento: ora ciò né avvenne mai senza l'educazione degli ingegni né accadrà giammai. XIV. Si manifesta chiaramente, così, la necessità dell'educazione universale (nell'interesse di Dio, degli uomini e delle cose). Ma qualcuno potrà dire: “Sono invano sì grandi aspirazioni se ciò che si desidera è impossibile”. D'accordo se così è; ma nego che così sia. Giacché è impossibile che Dio, essendo sapiente, abbia precostituito dei fini alle cose senza i mezzi ordinati al fine. Esaminiamo qui ancora questa questione troveremo che a tutti son date tutte quelle cose con cui gli uomini possono essere educati all'umanità. Infatti: XV. Tra i mezzi che promuovono l'uomo verso i suoi fini, c'è l'uomo stesso; così fatto che può conseguire la sua perfezione se lo voglia; è in grado di volerlo se è in grado di saperlo, quando sia stato rettamente istruito riguardo ad essi (fini). O se non lo volesse, la colpa ricadrebbe su di lui; il suo creatore potrebbe dire: “Io volli, ma tu non hai voluto” (Mt, 23, 27). Così se Adamo si fosse mantenuto al posto suo (sotto l'ossequio del creatore), sarebbe rimasto l'immagine pura, santa e sapiente di Dio, padrone delle cose e di se stesso e, come dice la Scrittura, gloria di Dio (I Cor, 11, 7). Ma poiché cadde, non per questo è diventato impotente Dio, bensì l'uomo, e se egli non persisterà nella sua incredulità e contumacia, Dio ha la potenza di rialzarlo (Rm., 11, 23)! Come, dunque, ciascuna altra cosa per il fine per cui è stata creata, per esso appunto, ha ricevuto gli organi, e la sua struttura bene analizzata mostra il suo (proprio) fine; così anche l'uomo, bene analizzato nelle sue parti e mostrato a se stesso qual'è, può scoprire dentro se stesso i suoi sublimi e divini fini e disporsi alla loro osservanza, come abbiamo visto nella pansofia. XVI. Inoltre, la natura umana, poiché è tutta attiva, dovunque si rivolge, lì tutta si effonde; dunque può essere educata. È evidente; poiché è parte di una comune natura che non può agire, come si dimostra ragionando induttivamente sull'attivismo dei fenomeni naturali. L'acqua scorre lungo i pendii, in qualunque direzione le darai un alveo; se non glielo darai, lo troverà da sé, provocando un'alluvione. Un raggio di sole, raccolto in uno specchio, si rifletterà in qualunque direzione vorrai; ma se tu non gli pari innanzi uno specchio, esso da sé o cadendo sulle acque si rifletterà in tutti i versi, oppure, rimbalzando qua e là, per terra, per le selve, per gli edifici, per le nubi ecc. disperderà la sua luce. E così è per tutte le cose. XVII. Né mancano i mezzi somministrati dal cielo a tutti; infatti vengono date tutte quelle cose che possono rendere l'uomo saggio. E precisamente: da un lato, i libri di Dio e, dall'altro, gli organi per la lettura dei libri divini, cioè i sensi, la ragione, la fede. Quanto al libro del mondo, che tutti quanti vedono aprirsi ogni giorno al cospetto di tutti, nessuno ne ha dubitato, né del libro della mente umana che notte e giorno leggono non soltanto tutti ma anche i singoli, sapienti e stolti. Quanto al libro delle rivelazioni contenute nella Sacra Scrittura, dubbi potrebbero esserci, poiché non tutti lo posseggono; né quelli che lo hanno lo leggono tutti; molti anche ignorano l'esistenza di un tale libro. Poiché però c'è l'ordine di Dio (Dt, 31,12) che nessuno venga da esso tenuto lontano, tutti lo conoscono (perfino i bambini), e sono lodati quelli che leggono e meditano questo libro giorno e notte (Sal, 1, 2; At, 17, 11) anche fin dall'infanzia (II Tim, 3, 15) e sono, infine, esortate tutte le genti ad ascoltare (Sal, 49, 1 e altrove) ciò che dice Dio; non si deve dubitare che anche questo libro Dio vuole che sia comune a tutti, soprattutto oggi, in cui il mondo volge alla fine. Sebbene, infatti, un tempo egli abbia sottratto temporaneamente la sua legge alle genti offeso dalla loro idolomania e perciò, dal loro tradimento (Sal, 14 e 79), riconciliandosi col mondo, tuttavia, tramite il Cristo, ordinò di predicare i misteri della salvezza per tutto l'universo a tutte le creature (Mc, 16, 15) in tutto il mondo (Mt, 24, 14) promettendo che sarebbe venuto un tempo in cui tutta la terra si sarebbe riempita della scienza di Dio come il mare è pieno delle acque (Is, 11, 9). Adunque almeno ora, alla fine dei secoli, possa questo libro della rivelazione divenire comune a tutti, e possano tutti essere istruiti nell'uso di tutti i libri divini affinché di là attingano tutti la sapienza, soprattutto perché sugli organi non sussiste affatto dubbio, e cioè che sia dato a tutti il senso per conoscere tutto ciò che il mondo contiene; la ragione per esaminare tutte le conseguenze che l'umana natura concatena; la fede per ammettere come vero ciò che riferiscono testimoni degni di fede, ecc. Dunque abbondantemente si è provveduto per tutti con larghezza. XVIII. Né soltanto a tutti gli uomini in seno ad una determinata gente, bensì a tutti gli uomini sparsi per l'universo mondo sono dati i mezzi per istruirsi. Parlando dei mezzi intendo tutti i sensi, esterni ed interni, con tutto ciò che essi percepiscono; e intendo la mente, che sia pienamente fornita del corredo delle conoscenze, degli istinti e delle facoltà comuni; e il cuore come sede degli affetti e desiderio del sommo bene; e intendo la lingua, che serve per comunicarsi reciprocamente ogni cosa; e le mani che servono per fare in modo simile tutte le cose che sono simili; e la lentezza del crescere perché ci sia tempo sufficiente per tutti gli scopi che si devono raggiungere. In qualsiasi luogo non c'è nessuna differenza in ciò da gente a gente. XIX. Non solo a tutti i popoli, ma a tutti gli individui di ogni popolo, son date tutte queste cose, essendo la natura umana dovunque la stessa. Giacché la struttura interna di tutti gli uomini è altrettanto una, quanto la struttura esterna dei loro corpi. Tutto ciò che uno solo fra gli uomini è, ha, vuole, se e può per natura, questo sono, hanno, vogliono e sanno e possono tutti quanti gli altri. Si può dire veramente con il poeta: “Se ne conosci uno, li conosci tutti”. Chiunque tu sia che leggi queste cose, misura da te stesso tutto il genere umano. Qualunque cosa tu senti di volere, di sapere e potere, la stessa cosa sente di potere, sapere e volere chiunque altro; perché è dotato degli stessi organi. Adunque se tutti gli uomini sono condotti per le stesse strade, tutti non potranno che essere condotti alla stessa meta. Nella sostanza non vi è nessuna differenza anche se, forse, ve ne è molta nel grado; poiché uno afferra più rapidamente di un altro, o riflette con più profondità, o ricorda più tenacemente di un altro. Ma un ingegno, un giudizio, una memoria più viva o più ottusa non ha rilevanza per l'esser o non essere uomo, bensì soltanto per un più rapido o più lento progredire. Se qualcuno dice: “Siamo corrotti”, rispondo: 1) ma siamo anche stati redenti dal nuovo Adamo; 2) ci è stato comandato di correggere il corrotto, di rimettere per noi a cultura i campi incolti e di non seminare nelle spine (Ger, 4, 3): a questo mira l'educazione nelle menti umane. Si dirà: “Alcuni individui sono tardi”. Rispondo: nessuno è menomato totalmente e quelli che sono più tardi di mente, comunemente sono più vigorosi di corpo e perciò più adatti a sopportare le fatiche; non devono, dunque, essere lasciati senza aiuto. XX. Perché, infine, gli uomini non potrebbero esseri educati a far buon uso delle cose anziché ad abusarne? Basterebbe insegnar loro che è bene per le cose essere mantenute ciascuna nel suo stato e amministrate in modo da rendere utilmente quei servizi che sono tenute a rendere. Ora la pansofia (nella quale tutti gli uomini possono essere istruiti) dimostra che non vi è nulla in cielo, in terra, o nell'acqua e nell'aria e in nessun luogo che non sia destinato (mediatamente o immediatamente) ai bisogni umani; ciò risulta dal mondo naturale; dal mondo del lavoro umano, poi, risulta che nessuna cosa serve al proprio scopo se non è usata a proposito; e che le cose non possono usare bene a se stesse, ma debbono essere usate bene dall'uomo. Se tutti impareranno ad osservare questa verità, si potrà liberare il mondo da tanti infami ed orribili abusi. (da: Johann Amos Comenius, Pampaedia, Roma, Armando, 1968, pp. 23-39) John Locke Della natura occasionale dei Pensieri sull'educazione (1693) s'è già fatto cenno. Nelle pagine che seguono il filosofo inglese si pronuncia su quello che deve essere, a suo avviso, il giovane gentleman e, di conseguenza, sulle qualità del buon precettore che dovrebbe formarlo. In tutta la complessa questione dell'educazione non c'è nulla a cui si badi meno o che più difficilmente si osservi, di questo che sto per dire: cioè che i bambini, dal momento che incominciano a parlare, dovrebbero aver vicino una persona prudente e calma – saggia insomma – che avesse il compito di foggiarli rettamente e di tenerli lontani dal male; di tenerli lontani specialmente dal contagio delle cattive compagnie. E' questo un ufficio che richiede grande calma, moderazione, affettuosità, diligenza e discrezione: qualità che è difficile trovar riunite in persone a cui si danno gli ordinari stipendi; e neppur facili a trovare in qualsiasi altra persona. Quanto alla spesa che vi costerà un buon precettore, credo che non potreste spender meglio il vostro denaro per i vostri figli; perciò, anche se essa dovesse esser maggiore di quello che è di solito, non dovrà mai esser giudicata troppo grande. Chi a qualsiasi costo procura al proprio figlio un animo buono, rettamente educato, incline alla virtù e a quanto è utile, e adorno di cortesia e di buone maniere, fa a suo profitto un miglior acquisto che se avesse speso il proprio denaro per comperar nuovi terreni da aggiungere a quelli che aveva già. Risparmiate quanto volete nei balocchi e nei giochi, nelle sete e nei nastri, nei merletti e nelle altre cose inutili; ma non lesinate in una questione di tanta importanza com'è questa. Non è saggia economia accrescere il patrimonio dei figli e lasciarne povero l'intelletto. Ed io ho sempre guardato con grande meraviglia a coloro che profondevano abbondantemente il denaro per agghindarli con abiti di lusso, per fornire loro alloggio e mensa sontuosi, per provvederli più che a sufficienza di domestici inutili, e che nel tempo stesso lasciavano digiuno il loro intelletto, e non si curavano abbastanza di coprire quella che è la più vergognosa delle nudità, cioè le cattive inclinazioni e l'ignoranza. In ciò non vedo altro che un tributo pagato alla loro propria vanità, il quale mette in luce piuttosto il loro orgoglio che non un vero interessamento per il bene dei figli; mentre tutto quanto spenderete a profitto della loro educazione, sarà prova del vostro vero amore per loro anche se ne risulterà diminuito il patrimonio. E' difficile che un uomo buono e saggio non goda fama di esser grande e felice, e non lo sia realmente; mentre l'uomo stolto e vizioso, qualunque sia il patrimonio che gli lascerete in eredità, non potrà essere né grande né felice. Ed io vi domando se voi preferireste che vostro figlio assomigliasse a certi uomini di questo mondo che hanno cinquecento sterline di rendita all'anno, o ad altri, a voi noti, che ne hanno cinquemila. La considerazione della spesa per il precettore non dovrebbe dunque trattenere chi ha la possibilità di sostenerla. La gran difficoltà consiste nel trovare la persona adatta. Giacchè coloro che sono molto giovani, o di modeste condizioni o di scarsa virtù, sono disadatti a questo ufficio; e quelli che posseggono tutto ciò in più larga misura, difficilmente si sobbarcheranno a simile incarico. Dovete dunque cominciar presto a guardarvi intorno e cercare dappertutto, perché nel mondo v'è gente di ogni qualità. Ricordo che Montaigne in uno dei suoi Saggi racconta che il dotto Castalio, a Basilea, fu costretto a fare taglieri per non morir di fame, proprio nel tempo in cui il padre di Montaigne avrebbe volentieri pagato qualsiasi somma per avere un simile precettore per il proprio figliolo, e il Castalio dal canto suo avrebbe assunto tale ufficio a condizioni assai moderate: ma il fatto avvenne per mancanza di informazioni reciproche. Se incontrate difficoltà a trovare un precettore quale desiderate, non dovete stupirvene: questo soltanto posso dirvi: non risparmiate per trovarlo, né fatiche né denaro. In questo modo si trova tutto ciò che si vuole; ed io vi assicuro che se riuscite a scovarne uno buono, non avrete mai a pentirvi della spesa, perché avrete sempre la soddisfazione di sapere che di tutte le maniere di spendere il vostro denaro, questa è la migliore. Ma badate bene di non prendere nessuno o per pressione di amici, o per carità, o per le grandi raccomandazioni. Anzi, se volete proprio fare il dover vostro, non accontentatevi neppure della reputazione che uno può godere, di uomo serio e provvisto di una buona dose di dottrina; il che in generale è tutto quanto si richiede per un precettore. In questa scelta siate guardingo come lo sarete per cercare a vostro figlio una moglie: giacché non dovete neppur sognarvi di prenderne uno in prova per poi cambiarlo. Ciò cagionerebbe un grave danno a voi, ed uno più grave ancora a vostro figlio. Se considero gli scrupoli e le cautele che qui vi metto dinanzi agli occhi, mi sembra di aver l'aria di consigliarvi qualcosa che vorrei faceste ma che non può in realtà esser fatta. Ma chi pensi quanto l'ufficio di precettore, giustamente inteso, sia diverso da quanto comunemente si crede, e quanto siano lontani dal farsene un'idea esatta coloro stessi che si offrono per tale incarico, condividerà probabilmente la mia opinione; cioè che non si trovi ad ogni pie' sospinto la persona adatta ad educare ed a plasmare l'anima di un giovane gentiluomo; e che nello sceglierlo bisogna spiegare ben più che una cura ordinaria, se non si voglia fallire lo scopo. Come ho notato più sopra, tutto quanto si pretende in un precettore è la serietà del carattere e la coltura; ciò in generale è ritenuto sufficiente, ed è tutto quanto i genitori cercano. Ma quando un precettore avrà scaricato nel suo allievo tutto il latino e tutta la logica che egli ha portato con sé dall'Università, questa imbottitura basterà forse a fare di lui un gentiluomo distinto? E ci potremo forse aspettare che l'allievo sia educato, e preparato a vivere in società, e fornito di saldi principi di vera virtù e di generosità, più e meglio del suo giovane istitutore? Per formare un giovane gentiluomo, quale questi deve essere, occorre che il precettore stesso sia bene educato, conosca le norme della civiltà e il modo di contenersi col variar delle persone, dei tempi e dei luoghi; e sappia mantenere costantemente il suo allievo nella stretta osservanza di tali norme, secondo le esigenze dell'età. Questa è un'arte che né si insegna né si impara sui libri, e si acquista soltanto frequentando buone compagnie e in pari tempo praticandola. Il sarto potrà fargli i vestiti alla moda, il maestro di ballo dar grazia ai suoi movimenti, ma nessuna di queste due cose, per quanto siano un bell'ornamento, farà di vostro figlio un gentiluomo ben educato; e neppure se per giunta fosse pieno di erudizione! Giacché questa, se non sarà ben impiegata, servirà soltanto a renderlo più impertinente e insopportabile in società. È l'educazione, quella che farà rifulgere tutte le sue altre buone qualità e gliele renderà utili, procacciandogli la stima e la benevolenza di tutte le persone che avvicina: e senza una buona educazione, tutte le sue altre doti non serviranno che a farlo passare per superbo, presuntuoso, vanitoso osciocco. In un uomo maleducato, il coraggio ha l'aria di essere brutalità ed è creduto tale; la coltura diventa pedanteria; lo spirito, buffoneria; la semplicità, zotichezza; la bontà, adulazione. Non ci può essere in lui buona qualità che la mancanza di educazione non travisi e non deformi a suo svantaggio. Virtù ed ingegno, sebbene si tributi loro la dovuta considerazione, non bastano tuttavia ad assicurargli una buona accoglienza e a farne un uomo bene accetto dovunque vada. Non si accontenta di portar diamanti grezzi chi voglia fare bella figura; per dar lustro bisogna che siano rifiniti e incastonati. Le buone qualità sono le ricchezze sostanziali dell'animo, ma è la buona educazione che le mette in evidenza; e chi voglia riuscire bene accetto deve dare alle proprie azioni vigore e grazia ad un tempo: serietà, e magari utilità, non bastano in esse; ciò che conferisce loro ornamento e le rende gradite sono i modi graziosi e garbati. In molti casi il modo di fare una cosa ha maggiore importanza che la cosa stessa, e da quel modo dipende la soddisfazione o il disgusto con cui essa è accolta. Questo garbo dunque non consiste nella maniera di togliersi il cappello o di fare un complimento, bensì nella debita compostezza di linguaggio, di sguardi, di movimenti, di atteggiamenti, di contegno, ecc., adatti alle persone ed alle circostanze; ed è soltanto con l'abitudine e con la pratica che si può acquistarlo. Benché esso sia superiore alla capacità dei bambini, ed i più piccoli non debbano venir seccati a questo riguardo, tuttavia un giovane gentiluomo dovrebbe esservi iniziato, ed apprenderlo in gran parte mentre è sotto la guida di un precettore, prima di muover da solo i primi passi in società; giacché allora è di solito troppo tardi per sperar di correggere certe abituali sconvenienze, che consistono magari in un nonnulla. Infatti il buon contegno non è mai quello che veramente deve essere, fino a quando non sia divenuto naturale e spontaneo in ogni sua parte; come fanno le dita di un provetto musicista, che scorrono in ordine armonico senza attenzione né preoccupazione. Per di più, questa parte dell'educazione è necessarissimo che sia appresa mediante le cure e sotto la guida di un precettore; giacché, sebbene le mancanze di educazione che si commettono siano le prime ad esser notate dagli altri, sono le ultime di cui ci si avverte: non già perché la malignità del mondo non sia sollecita a farne argomento di chiacchiere, ma perché queste si fanno sempre dietro le spalle di chi potrebbe approfittare di quei giudizi, correggendosi in seguito a quelle critiche. E invero questo è un tasto così delicato da toccare, che anche coloro che sono più amici e desidererebbero veder emendati quei difetti, difficilmente osano farne menzione, e dire a quelli che amano che in questa o in quell'altra circostanza hanno commesso una mancanza di educazione. Errori di altro genere possono spesso esser fatti rilevare con garbo, né si contravviene all'amicizia o alle buone maniere correggendo altre manchevolezze; ma la stessa buona educazione non consente di toccar questo tasto, o di far capire a qualcuno che ha commesso una mancanza di civiltà. Osservazioni di questa natura possono venire soltanto da chi abbia autorità sopra di noi, ed anche allora riescono sempre amare e sgraditissime ad un uomo fatto; e per quanto addolcite sono sempre male accolte da chi abbia vissuto anche per poco in società. Quindi è necessario che ciò costituisca la cura principale di un precettore, affinché nel suo allievo la grazia e la cortesia del contegno diventino per quanto è possibile abituali, prima che egli esca dalle sue mani; affinché esso non abbia più bisogno di consigli al riguardo, quando non avrà più né tempo né modo di riceverne, e nessuno più gli sarà vicino per darglieli. Dovrà dunque il precettore essere sopra tutto un uomo ben educato; ed il giovane gentiluomo che da lui acquisterà tali doti, potrà dirsi già ben quotato. In seguito egli troverà che ciò spesso gli spiana la via, gli procura amici e lo conduce lontano nel mondo, più che tutte le parole difficili o la vera dottrina che egli ha appreso dalle Arti liberali o dal suo dotto ed enciclopedico istitutore. Non che quest'ultime vadano trascurate; ma non devono affatto esser preferite all'educazione, o lasciare che la escludano. Oltre ad esser ben educato, il precettore dovrebbe conoscere bene il mondo: gli usi, i capricci, le follie, le astuzie, i difetti del suo tempo, e specialmente quelli del paese in cui vive. Tutto questo dovrebbe esser capace di mostrare al suo allievo, non appena esso sia in grado di capirlo; strappar la maschera con cui essi nascondono il loro tenore di vita e le loro finzioni, e mostrare ciò che si nasconde nel fondo sotto tali apparenze; affinché, come fanno i giovani inesperti quando non siano prevenuti, non scambi una cosa per l'altra, non giudichi dalle apparenze, non ceda a queste ed alla suggestione di un contegno corretto e di modi servizievoli. Deve anche l'istitutore insegnare al suo allievo a indovinare le intenzioni delle persone con cui ha a che fare, e a guadagnarsene, senza troppa diffidenza né troppa fiducia; e poiché il giovane è per sua natura proclive ad eccedere nell'uno o nell'altro senso, deve raddrizzarlo e inclinarlo verso il lato opposto. Deve abituarlo, per quanto è possibile, a farsi un giusto concetto degli uomini per mezzo di quegli indizi che servono meglio a dimostrare ciò che essi sono e a dare un'idea dei loro sentimenti intimi; i quali si rivelano spesso nelle piccole cose, specialmente quando costoro non posano o non stanno in guardia. Deve fargli conoscere il mondo quale è, e disporlo a pensare che gli uomini non sono né migliori né peggiori, né più savi né più pazzi di quanto sono in realtà. Così, per gradi sicuri e insensibili, egli da fanciullo diventerà uomo; che è il passo più rischioso di tutto il corso della vita. Perciò questo passaggio va sorvegliato attentamente, ed il giovane va aiutato con grande diligenza a superarlo, contrariamente a quanto si fa abitualmente oggi giorno, che lo si sottrae alla guida del precettore per gettarlo tutto ad un tratto in mezzo alla società, abbandonato a sé stesso, non senza evidente pericolo di perdersi immediatamente. Non v'è caso più frequente di quello di giovani, che appena lasciati liberi da una rigida e severa educazione, si sono abbandonati alla più grande licenza, alla prodigalità e alla dissolutezza. Di questo fatto ritengo si debba essenzialmente dar colpa al cattivo sistema di educazione usato con loro, specialmente nella parte di cui sto parlando. (Da: John Locke, Pensieri sull'educazione, Firenze, la Nuova Italia, 1973, pp. 112-119) Rousseau Le prime pagine del capolavoro rousseauiano (apparso nel 1762) espongono sinteticamente la sua attitudine intorno all'educazione dell'essere umano nel quadro della sua visione del mondo e della natura dell'uomo, così influente presso i suoi contemporanei e determinante per lo sviluppo successivo del pensiero europeo. È significatvio che la filosofia di Rousseau trovi la via della sua espressione più organica nella cornice di una riflessione “pedagogica”. Questa raccolta di riflessioni e di osservazioni, senza ordine e quasi senza connessione, fu cominciata per compiacere ad una buona madre che sa pensare. Dapprima avevo progettato soltanto una memoria di poche pagine; poiché l'argomento mi trascinava mio malgrado, questa memoria divenne insensibilmente una specie di opera troppo grossa, senza dubbio, per ciò che contiene, ma troppo piccola per la materia che tratta. Ho ponderato a lungo per pubblicarla; e spesso mi ha fatto sentire, mentre lavoravo ad essa, che non basta aver scritto qualche opuscolo per saper comporre un libro. Dopo vani sforzi per fare meglio, credo di doverlo presentare così com'è, giudicando che l'importante è di volgere l'attenzione pubblica da questo lato e che, anche se le mie idee fossero cattive, se riesco a farne nascere delle buone in altri, non avrò affatto perduto il mio tempo. Un uomo che, dal suo ritiro, getta i suoi fogli tra il pubblico, senza laudatori, senza un partito che lo difenda, senza sapere nemmeno che cosa se ne pensa e che cosa se ne dice, non deve temere che, se sbaglia, si accolgano i suoi errori senza esame. Parlerò poco dell'importanza di una buona educazione; non mi soffermerò neppure a provare che quella in uso è cattiva; mille altri l'hanno fatto prima di me ed io non amo affatto riempire un libro di cose che tutti sanno. Noterò solo che, da tempo infinito, è un grido solo contro la pratica stabilita, senza che nessuno pensi di proporne una migliore. La letteratura e il sapere del nostro secolo tendono assai più a distruggere che a edificare. Si censura con tono da maestro; per fare proposte, bisogna prenderne un altro, del quale l'alterigia filosofica si compiace meno. Malgrado tanti scritti, che hanno, si dice, il solo scopo dell'utilità pubblica, la prima di tutte le utilità, che è l'arte di formare gli uomini, è ancora dimenticata. Il mio argomento, dopo il libro di Locke, era ancora completamente nuovo, e temo assai che non lo resti anche dopo il mio. Non si conosce affatto l'infanzia: sulla base delle false idee che se ne possiedono, più si va innanzi, più ci si svia. I più saggi si attaccano a ciò che importa agli uomini di sapere, senza considerare quello che i fanciulli sono in grado di imparare. Cercano sempre l'uomo nel fanciullo, senza pensare a ciò che egli è prima di essere uomo. Ecco lo studio a cui mi sono maggiormente applicato, affinché, anche qualora il mio metodo fosse chimerico e falso, si potesse sempre profittare delle mie osservazioni. Posso aver visto malissimo ciò che occorre fare; ma credo di aver visto bene il soggetto sul quale si deve operare. Cominciate dunque con lo studiare meglio i vostri allievi, poiché sicurissimamente non li conoscete affatto; ora, se leggete questo libro in questa visuale, non credo che la lettura sia per voi priva di utilità. Riguardo a quella che si può chiamare la parte sistematica, la quale, qui, non è altro che il cammino della natura, è proprio questa quella che svierà maggiormente il lettore; è pure attraverso questa che mi si attaccherà indubbiamente, e forse non si avrà torto. Si crederà di leggere, più che un trattato di educazione, le fantasticherie di un visionario sull'educazione. Che farci? Io non scrivo intorno alle idee altrui; scrivo sulle mie. Non vedo affatto come gli altri; è molto tempo che mi si è rimproverato ciò. Ma dipende forse da me darmi altri occhi e concentrare il pensiero su altre idee? No. Dipende da me non essere pienamente della mia opinione, non credere di essere da solo più saggio di tutti; dipende da me, non il cambiar parere, ma il diffidare del mio: ecco tutto ciò che posso fare e che faccio. Se talvolta assumo il tono affermativo, non è per ingannare il lettore, ma per parlargli come penso. Perché dovrei proporre in forma dubitativa ciò di cui, quanto a me, non dubito affatto? Dico esattamente ciò che passa per la mia mente. […] Proponete ciò che si può fare, non si cessa di ripetermi. E' come se mi si dicesse: “Proponete di fare ciò che si fa; o almeno proponete un bene che si colleghi col male esistente”. Un progetto simile, su certe materie, è più chimerico dei miei; infatti, in un collegamento del genere, il bene si guasta, mentre il male non guarisce. Piuttosto di adottarne una buona metà, preferirei seguire in tutto la pratica stabilita: ci sarebbe minore contraddizione nell'uomo; non si può tendere nello stesso tempo a due scopi opposti. Padri e madri, ciò che si può fare è quello che voi volete fare. Devo forse rispondere della vostra volontà? In ogni specie di progetto ci sono due cose da considerare: anzitutto, la bontà assoluta del progetto; in secondo luogo, la facilità dell'esecuzione. Sotto il primo aspetto, basta, perché il progetto sia accettabile e praticabile in se stesso, che ciò che ha di buono sia nella natura della cosa; qui per esempio, che l'educazione proposta sia conveniente all'uomo e adatta al cuore umano. La seconda considerazione dipende dai rapporti dati in certe situazioni; rapporti accidentali rispetto alla cosa, i quali, di conseguenza, non sono affatto necessari e possono variare all'infinito. Così un'educazione può essere praticabile in Svizzera e non esserlo in Francia; un'altra può esserlo presso i borghesi e un'altra ancora fra i nobili. La facilità maggiore o minore dell'esecuzione dipende da mille circostanze [...]. Ora, tutte queste applicazioni particolari, non essendo essenziali al mio argomento, non rientrano nel mio piano. Altri, se vogliono, potranno occuparsene, ciascuno per il paese o per lo Stato che considererà. A me basta che, dovunque nasceranno degli uomini, se ne possa fare ciò che io propongo e che quando si sia fatto di loro ciò che io propongo, si sia fatto quello che è meglio e per loro stessi e per gli altri. Se non mantengo questo impegno, ho torto indubbiamente; ma se lo mantengo, si avrebbe pure torto a esigere da me di più; poiché io non prometto altro che questo. Tutto, quando esce dalle mani dell'autore delle cose, è bene; tutto degenera nelle mani dell'uomo. Questo costringe un terreno a nutrire i prodotti di un altro, un albero a portare i frutti di un altro; scompiglia e confonde i climi, gli elementi, le stagioni; mutila il suo cane, il suo cavallo, il suo schiavo, sconvolge tutto, sfigura tutto, ama la deformità, i mostri; non vuole niente come l'ha fatto la natura, neppure l'uomo; questo bisogna addestrarlo per lui come un cavallo da maneggio; bisogna modellarlo secondo il suo gradimento, come un albero del suo giardino. Se ciò non fosse, tutto andrebbe ancora peggio: la nostra natura non vuole essere modellata solo a metà. Nello stato in cui versano ormai le cose, l'uomo, abbandonato a se stesso fin dalla nascita in mezzo agli altri, finirebbe con l'essere il più deformato di tutti. I pregiudizi, l'autorità, la necessità, l'esempio, tutte le istituzioni sociali, in cui ci troviamo sommersi, soffocherebbero in lui la natura senza mettere nulla al suo posto. Essa sarebbe in lui come un arboscello nato per caso in mezzo a una strada, che i passanti fanno tosto perire, urtandolo da ogni parte e piegandolo in ogni senso. Mi rivolgo a te, madre tenera e previdente, che hai saputo allontanarti dalla strada maestra e proteggere l'arboscello nascente dall'urto delle opinioni umane! Coltiva, innaffia la pianticella prima che muoia: i suoi frutti, un giorno, faranno la tua delizia. Erigi per tempo un recinto intorno all'anima del tuo bimbo: un altro ne può tracciare la circonferenza, ma solo tu devi costruire su di essa la barriera. Le piante si formano con la coltivazione, gli uomini con l'educazione. Se l'uomo nascesse grande e forte, la mole e la forza non gli servirebbero a nulla finché non avesse imparato a servirsene; anzi, gli sarebbero di danno, perché impedirebbero agli altri di pensare ad assisterlo; in tal modo, abbandonato a se stesso, morirebbe miserabilmente prima ancora di avere conosciuto i suoi bisogni. Ci si lamenta della condizione infantile e non si vede che la razza umana sarebbe perita se l'uomo non avesse cominciato con l'esser bambino. Nasciamo deboli e abbiamo bisogno di forze; nasciamo sprovvisti di tutto e abbiamo bisogno di assistenza; nasciamo stupidi e abbiamo bisogno di giudizio. Tutto quello che non possediamo al momento della nascita e di cui abbiamo bisogno da grandi ci è dato dall'educazione. L'educazione ci proviene dalla natura o dagli uomini o dalle cose. Lo sviluppo interno delle facoltà e degli organi costituisce l'educazione della natura; l'uso che ci viene insegnato a fare di questo sviluppo è l'educazione degli uomini; e l'acquisto dell'esperienza personale relativa agli oggetti che cadono sotto i sensi è l'educazione delle cose. Ciascuno di noi è dunque formato da tre specie di maestri. Il discepolo nel quale le loro diverse lezioni si contrastano è educato male e non sarà mai d'accordo con se stesso; quello, invece, nel quale esse convergono sugli stessi punti e tendono agli stessi fini, si dirige da solo al suo scopo e vive coerentemente. Solo questo è educato bene. Ora, di queste tre diverse educazioni, quella della natura non dipende affatto da noi; quella delle cose dipende da noi solo entro certi limiti. Quella degli uomini, invece, è la sola di cui siamo veramente padroni, lo siamo però solo ipoteticamente: chi può sperare, infatti, di dirigere completamente i discorsi e le azioni di tutti coloro che circondano il fanciullo? Dunque, dal momento che l'educazione è un'arte, è quasi impossibile che abbia buon esito, poiché il concorso di circostanze necessario al suo successo non dipende da nessuno. A forza di cure, al massimo, è possibile avvicinarsi più o meno allo scopo; ma, per raggiungerlo, ci vuole fortuna. Qual è questo scopo? È quello stesso della natura; ciò è stato appena provato. Poiché il concorso delle tre educazioni è necessario alla loro perfezione, bisogna far convergere le altre due verso quella sulla quale non abbiamo alcun potere. Ma forse la parola natura ha un significato troppo vago: occorre cercare ora di precisarlo. La natura, si dice, non è altro che l'abitudine. Che significa ciò? Non ci sono forse abitudini che si contraggono solo per forza e che non soffocano mai la natura? Tale è, ad esempio, l'abitudine delle piante di cui si impedisce la crescita in direzione verticale. La pianta, quando è lasciata libera, conserva l'inclinazione che l'abbiamo costretta a prendere; ma non per questo la linfa ha mutato la sua primitiva direzione e, se la pianta continua a vegetare, il suo prolungamento diviene nuovamente verticale. Accade lo stesso delle inclinazioni umane. Finché si resta nello stesso stato, si possono conservare quelle che derivano dall'abitudine e che sono per noi le meno naturali; ma, non appena la situazione muta, l'abitudine cessa e la tendenza naturale ritorna. Certo, l'educazione non è che un'abitudine. Ora, non ci sono persone che dimenticano e perdono l'educazione? Ed altre che la conservano? Da che cosa deriva questa differenza? Se bisogna limitare il nome di natura alle abitudini conformi alla natura, ci si può risparmiare questo discorso ingarbugliato. Nasciamo forniti di sensi e, fin dalla nascita, siamo stimolati in diversi modi dagli oggetti che ci circondano. Non appena abbiamo, per così dire, la coscienza delle nostre sensazioni, incliniamo a cercare o a fuggire gli oggetti che le producono, dapprima a seconda che esse siano piacevoli o spiacevoli, poi a seconda della convenienza o sconvenienza che troviamo fra noi e questi oggetti e infine a seconda dei giudizi che diamo su di esse in base all'idea di felicità o di perfezione fornitaci dalla ragione. Queste disposizioni si estendono e si consolidano a mano a mano che diveniamo più sensibili e più illuminati; ma, forzate dalle nostre abitudini, esse si alterano più o meno a causa delle nostre opinioni. Prima di questa alterazione esse sono ciò che io chiamo, in noi, natura. Bisognerebbe, quindi, riferire tutto a queste disposizioni primitive; ciò sarebbe possibile se le nostre tre educazioni fossero solo diverse: ma che fare quando sono opposte? Quando, invece di educare l'uomo per se stesso, si vuole educarlo per gli altri? Allora l'accordo è impossibile. Costretti a combattere o la natura o le istituzioni sociali, bisogna scegliere tra il fare l'uomo o il cittadino, poiché non si può fare nello stesso tempo l'uno e l'altro. Ogni società parziale, quando è ristretta e molto unita, si aliena dalla grande. Ogni patriota è duro verso gli stranieri: essi non sono altro che uomini, non sono nulla ai suoi occhi. [...] L'essenziale è di essere buoni con le persone con cui si vive. Lo Spartano, fuori, era ambizioso, avaro, iniquo; ma il disinteresse, l'equità, la concordia regnavano fra le sue mura. Diffidate di quei cosmopoliti che vanno a cercare lontano, nei loro libri, doveri che non si degnano di osservare intorno a loro. Un filosofo ama i Tartari per essere dispensato dall'amare i suoi vicini. L'uomo naturale è tutto per sé; egli è l'unità numerica, l'intero assoluto, che non ha rapporti se non con se stesso o col suo simile. L'uomo civile non è che un'unità frazionaria, che dipende dal denominatore ed il valore della quale deriva dal suo rapporto con l'intero che è il corpo sociale. Le buone istituzioni sociali sono quelle che sanno snaturare nel miglior modo l'uomo, che sanno togliergli la esistenza assoluta per dargliene una relativa e trasferire l'io nell'unità comune, in modo che ogni privato non si ritenga più uno, ma parte del''unità, e non sia più sensibile se non nel tutto. Il cittadino di Roma non era né Caio né Lucio; era un Romano; anzi, amava la patria esclusivamente sua. Regolo, per essere divenuto proprietà dei suoi padroni, pretendeva di essere Cartaginese. Nella sua qualità di straniero, rifiutava di sedere nel Senato di Roma e fu necessario che un Cartaginese glielo ordinasse. Si indignò che gli si volesse salvare la vita. Vinse e se ne tornò trionfante a morire fra le torture. Ciò non ha molta relazione, mi sembra, con gli uomini che conosciamo. Il Lacedémone Pedarete si presenta per essere ammesso al consiglio dei trecento; è respinto: se ne torna tutto contento perché si sono trovati a Sparta trecento uomini migliori di lui. Suppongo che questo comportamento fosse sincero, e si deve credere che lo fosse: ecco il cittadino. Una donna di Sparta aveva cinque figli in guerra e aspettava notizie della battaglia. Arriva un ilota; ella gliene chiede notizia tremando: “ I vostri cinque figli sono stati uccisi. - Vile schiavo, ti ho forse domandato questo? - Abbiamo riportato la vittoria!”. La madre corre al tempio e ringrazia gli dei. Ecco la cittadina. Colui che, nell'ordine civile, vuole conservare la preminenza dei sentimenti naturali, non sa quello che vuole. Sempre in contraddizione con se stesso, sempre incerto fra le inclinazioni e i doveri, non sarà mai né uomo né cittadino; non sarà mai buono né per sé né per gli altri. Sarà uno degli uomini d'oggi, un Francese, un Inglese, un borghese; non sarà mai niente. Per essere qualcosa, per essere se stesso e sempre uno, bisogna agire come si parla; bisogna essere sempre decisi sul partito da prendere, prenderlo apertamente e seguirlo sempre. Aspetto che mi venga mostrato un simile prodigio per sapere se è un uomo o cittadino o come far per essere nello stesso tempo l'uno e l'altro. Da questi scopi necessariamente opposti derivano due tipi di educazioni contrarie: una pubblica e comune, l'altra privata e domestica. Volete farvi un'idea dell'educazione pubblica? Leggete la Repubblica di Platone. Non è un'opera di politica, come pensano quelli che giudicano i libri solo dai titoli: è il più bel trattato di educazione che sia mai stato fatto. Quando si vuol mandare al paese delle chimere, si nomina l'educazione di Platone. Se Licurgo avesse messo la sua solo per iscritto, io la troverei molto più chimerica. Platone non ha fatto altro che purificare il cuore dell'uomo; Licurgo l'ha snaturato. L'educazione pubblica non esiste più e non può più esistere, perché dove non c'è più patria non ci possono essere più cittadini. Le due parole patria e cittadino devono essere cancellate dalle lingue moderne. Io conosco la ragione di ciò, ma non la voglio dire; essa non riguarda il mio argomento. Non considero come educazione pubblica quei risibili istituti che si chiamano collegi. Non tengo in maggior considerazione l'educazione derivante dalla società, poiché essa, tendendo a due fini opposti, non ne raggiunge nessuno dei due: essa è adatta solo a fare degli uomini doppi, che sembrano riferire ogni cosa agli altri e che invece non riferiscono mai nulla se non a se stessi. Ora, poiché questi modi di fare sono comuni a tutti, non ingannano nessuno. Sono preoccupazioni inutili. Da queste contraddizioni nasce quella che sperimentiamo continuamente noi. Trascinati dalla natura e dagli uomini per strade opposte, costretti a ripartirci fra questi diversi impulsi, finiamo col seguire una forza composta che non conduce né all'uno né all'altro scopo. Così, combattuti e incerti per tutto il corso della vita, arriviamo alla fine senza avere potuto trovare l'accordo con noi stessi e senza avere giovato né a noi né agli altri. Resta, infine, l'educazione domestica, ossia quella della natura. Ma che cosa diverrà per gli altri un uomo educato unicamente per se stesso? Forse, se il duplice scopo che ci si propone si potesse riunire in uno solo, eliminando la contraddizione dell'uomo, si eliminerebbe un grande ostacolo alla sua felicità. Per poter dare un giudizio su di lui bisognerebbe vederlo completamente formato; bisognerebbe avere osservato le sue inclinazioni, avere veduto i suoi progressi, avere seguito il suo sviluppo; bisognerebbe, in una parola, conoscere l'uomo naturale. Dopo avere letto questo scritto, ritengo che si sarà fatto qualche passo innanzi in ricerche del genere. Per formare quest'uomo raro, che cosa dobbiamo fare? Molto, senza dubbio: impedire che nulla sia fatto. Quando si tratta di andare semplicemente contro vento, si bordeggia; ma se il mare è grosso e si vuole restar fermi, bisogna gettare l'àncora. Sta' attento, giovane pilota, che la gomena non si sfili o che l'àncora non ari il fondo e che la nave non vada alla deriva prima che tu te ne sia accorto. Nell'ordine sociale, dove tutti i posti sono contrassegnati, ciascuno dev'essere educato per il suo. Se un privato, educato per il suo posto, ne esce, non è più capace a nulla. L'educazione è utile solo nella misura in cui la fortuna si accorda con la vocazione dei genitori; in tutti gli altri casi essa è nociva all'allievo, non foss'altro che per i pregiudizi che gli dà. In Egitto, dove il figlio era obbligato ad abbracciare la condizione del padre, l'educazione aveva almeno un fine certo; ma far noi, dove restano solo le classi, mentre gli uomini di queste cambiano continuamente, nessuno sa se, educando il proprio figlio per la sua classe, non lavori contro di lui. Poiché nell'ordine naturale gli uomini sono tutti eguali, la loro comune vocazione è la condizione umana e colui che è bene educato per questa non può adempiere male i doveri ad essa connessi. Poco importa che il mio allievo sia destinato alla spada, alla Chiesa o alla toga. Prima della vocazione dei genitori, la natura lo chiama alla vita umana. Vivere è il mestiere che voglio insegnarli. Uscendo dalle mie mani, egli non sarà, né convengo, né magistrato, né soldato, né prete: sarà prima di tutto uomo; tutto ciò che l'uomo dev'essere, egli, in caso di bisogno, potrà esserlo tanto bene come chiunque altro e la fortuna avrà un bel fargli cambiar posto: egli sarà sempre al suo. Occupavi te, Fortuna, atque cepi: omnesque aditus tuos interclusi, ut ad me aspirare non posses. Il nostro vero studio è quello della condizione umana. Quello di noi che sa sopportare meglio i beni ed i mali della vita, a mio giudizio, è il meglio educato; onde si ha la conseguenza che la vera educazione consiste più in esercizi che in precetti. Noi cominciamo ad istruirci cominciando a vivere; la nostra educazione comincia con noi; il nostro primo precettore è la nostra nutrice. La parola educazione aveva presso gli antichi anche un altro significato che non le diamo più: significa allevamento. Educit obstetrix, dice Varrone, educat nutrix, instituit paedagogus, docet magister. Così l'educazione, l'istituzione e l'istruzione sono tre cose tanto diverse, rispetto al loro scopo, quanto la governante, il precettore e il maestro. Ma queste distinzioni sono male intese e, per essere ben guidato, il bimbo deve seguire una sola guida. Bisogna dunque generalizzare le nostre vedute e considerare nell'allievo l'uomo astratto, l'uomo esposto a tutti gli accidenti della vita umana. Se gli uomini nascessero attaccati al suolo di un paese, se la stessa stagione durasse tutto l'anno, se ciascuno fosse legato alla sua sorte in modo tale da non poter mai cambiare, la pratica stabilita, sotto certi aspetti, sarebbe buona, poiché l'uomo educato per la sua condizione, non uscendo mai da essa, non potrebbe essere esposto agli inconvenienti di un'altra. Ma considerata la mobilità delle cose umane, considerato lo spirito inquieto e irrequieto di questo secolo che sconvolge ogni cosa ad ogni generazione, si può concepire un metodo più insensato di quello di educare il bambino come se non dovesse mai uscire dalla sua camera, come se dovesse essere sempre circondato dai suoi? Se l'infelice fa un solo passo sulla terra, se discende un solo gradino, è perduto. […] Si pensa solo a conservare il proprio bimbo; non basta: bisogna insegnargli a conservarsi da uomo, a sopportare i colpi della fortuna, a vivere, se occorre, fra i ghiacci dell'Islanda o sulla rupe ardente di Malta. Inutilmente prendete precauzioni perché egli non muoia. Dovrà pur morire, ed anche se la sua morte non sarà opera delle vostre cure, esse saranno egualmente fraintese. Non si tratta tanto di impedirgli di morire quanto di farlo vivere. Vivere non significa respirare, ma significa agire, significa far uso degli organi, dei sensi, delle facoltà, di tutte le parti di noi stessi che ci danno il sentimento dell'esistenza. L'uomo che è vissuto più a lungo non è quello che ha contato il maggior numero di anni, ma quello che ha sentito di più la vita. […] Tutta la nostra saggezza consiste in pregiudizi servili; tutte le nostre usanze non sono altro che assoggettamento, soggezione e costrizione. L'uomo civile nasce, vive e muore in schiavitù: alla nascita viene cucito nelle fasce, vive e muore in schiavitù: alla nascita viene cucito nelle fasce; alla morte viene inchiodato in una bara: finché conserva aspetto umano, è incatenato dalle istituzioni. Si dice che alcune levatrici, modellando la testa del neonato, pretendano di darle una forma più conveniente, e ciò viene tollerato! Le nostre teste, così come le ha forgiate l'autore del nostro essere, sarebbero mal fatte; dobbiamo farle modellare di fuori dalle levatrici e di dentro dai filosofi. I Caraibi sono di una metà più fortunati di noi. [...] Il neonato ha bisogno di distendere e di muovere le membra, per scioglierle dal rattrappimento in cui, ravvolte come in un gomitolo, sono rimaste così a lungo. Vengono distese, è vero, ma si impediscono ad esse i movimenti; si costringe anche la testa nelle cuffie: sembra che si abbia paura che il bimbo sembri vivere. Così l'impulso delle parti interne del corpo che tende alla crescita incontra un ostacolo insormontabile nei movimenti che esso richiede. Il bambino fa continuamente sforzi inutili, che esauriscono le sue forze o ritardano il loro progresso. Egli era meno in angustia, meno turbato, meno compresso nell'amnio di quanto non lo sia nelle fasce: non vedo che cosa abbia guadagnato a nascere. L'inattività, la costrizione in cui si tengono le membra del bambino possono solo ostacolare la circolazione del sangue, degli umori, impedire al bimbo di fortificarsi, di crescere e alterare la sua costituzione. Nei luoghi in cui non si adottano queste precauzioni stravaganti, gli uomini sono tutti alti, forti, ben proporzionati. I paesi nei quali si fasciano i bambini sono quelli che formicolano di gobbi, di zoppi, di sbilenchi, di deformi, di rachitici [...]. A causa del timore che i corpi si deformino con movimenti liberi, ci si affretta a deformarli mettendoli sotto il torchio. Per impedire loro di storpiarsi, si farebbero diventar volentieri paralitici. Una costrizione così crudele potrebbe non influire tanto sul loro umore quanto sulla loro indole? Il loro primo sentimento è un sentimento di dolore e di pena. Trovano solo ostacoli ad ogni movimento di cui sentono il bisogno: più infelici di un criminale in catene, fanno sforzi vani, si irritano, gridano. Le loro prime voci, voi dite, sono pianti? Lo credo bene: li contrariate fin dalla nascita; i primi doni che ricevono da voi sono catene; le prime cure che sperimentano sono tormenti. Non avendo libera che la voce, come potrebbero non servirsene per lamentarsi? Essi gridano per il male che fate loro: così strettamente legati, voi gridereste più forte di loro. Da che cosa deriva questa usanza irragionevole? Da un'usanza snaturata. Dal momento che le madri, disprezzando il loro primo dovere, non hanno più voluto allevare i loro figli, bisognò affidare questi a donne mercenarie, le quali, trovandosi ad essere in tal modo madri di bambini estranei, per i quali la natura non diceva loro nulla, hanno cercato solo di risparmiare il disagio. Un bambino in libertà dovrebbe essere vigilato continuamente; ma quando è ben legato può esser gettato in un angolo senza preoccuparsi dei suoi strilli. Purché non ci siano prove della negligenza della balia, purché il lattante non si rompa né braccia né gambe, che importa, del resto, che perisca o che rimanga infermo per tutti i suoi giorni a venire? Si conservano le sue membra a spese del suo corpo e, qualunque cosa accada, la nutrice non ha colpa. Quelle dolci madri che, sbarazzatesi dei loro bambini, si abbandonano allegramente ai divertimenti della città, sanno forse, tuttavia, quale trattamento riceve al villaggio il loro bimbo in fasce? Alla minima noia che sopraggiunge, viene appeso ad un chiodo, come un pacco di cenci; e finché, senza affrettarsi, la balia attende alle sue faccende, l'infelice resta crocifisso in questo modo. Tutti quelli che sono stati trovati in questa posizione avevano il viso livido, perché il petto fortemente compresso non lascia circolare il sangue; questo, così, risaliva alla testa e si riteneva che il paziente fosse tranquillissimo perché non aveva la forza di gridare. Non so quante ore un bimbo possa restare in questo stato senza rimetterci la vita, ma dubito che ciò possa durare molto a lungo. Questa, penso, è una delle maggiori comodità delle fasce. Si pretende che i bambini in libertà possano assumere cattive posizioni e fare movimenti capaci di nuocere alla buona conformazione delle membra. Questo è uno dei vani ragionamenti delle nostra falsa saggezza, che nessuna esperienza ha mai confermato. Nella moltitudine di bimbi che, presso popoli più assennati di noi, sono allevati con le membra completamente libere, non se ne vede nemmeno uno che si ferisca o si storpi: essi non possono imprimere ai loro movimenti una forza capace di renderli pericolosi e, quando assumono una posizione forzata, il dolore li avverte tosto di mutarla. Non abbiamo ancora avuto l'idea di mettere in fasce né i cuccioli né i gattini; si nota forse che da questa negligenza derivi ad essi qualche inconveniente? I bambini sono più pesanti; d'accordo: ma in proporzione essi sono anche più deboli. Riescono appena a muoversi: come potrebbero storpiarsi? Se venissero distesi sul dorso, morirebbero in questa posizione, senza potersi mai voltare. Non contente di avere smesso di allattare i figli, le donne smettono anche di volerne fare; la conseguenza è naturale. Dal momento che la condizione di madre è onerosa, si trova presto il modo di liberarsene completamente: si vuole fare un lavoro inutile, per ricominciarlo sempre, e si svolge a danno della specie l'attrattiva concessa per moltiplicarla. Questa usanza, aggiunta alle altre cause di spopolamento, ci annuncia la sorte prossima dell'Europa. Le scienze, le arti, la filosofia ed i costumi che essa genera non tarderanno molto a farne un deserto: sarà popolata di bestie feroci: non per questo il tipo dei suoi abitanti sarà molto cambiato. Ho notato talvolta le piccole astuzie delle giovani donne che fingono di voler allattare i figli. Sanno farsi pregare di rinunciare a questo capriccio: fanno accortamente intervenire i mariti, i medici e soprattutto le madri. Un marito che osasse acconsentire che sua moglie allatti il figlio sarebbe un uomo perduto; si farebbe di lui un assassino che vuole disfarsi della moglie. Mariti prudenti, bisogna immolare l'amore paterno alla pace. Fortunati che si trovino in campagna donne più continenti delle vostre! Più fortunati ancora se il tempo che queste guadagnano è destinato esclusivamente a voi! Il dovere delle donne non è dubbio: ma si discute se, nel disprezzo in cui lo tengono, sia lo stesso per i figli essere allattati col loro latte o con quello di altre. Io considero la questione, nella quale sono giudici i medici, decisa secondo il desiderio delle donne e per conto mio penserei pure che sia meglio per un bimbo succhiare il latte di una nutrice in salute anziché quello di una madre corrotta, se ci fosse da temere qualche nuovo male dallo stesso sangue da cui esso è formato. Ma si deve considerare la questione solo sotto l'aspetto fisico? E il bimbo ha forse meno bisogno delle cure della madre che della sua mammella? Altre donne, anche bestie, potranno dargli il latte che ella gli rifiuta, ma la sollecitudine materna non può essere sostituita. Colei che, invece del proprio, allatta il bimbo di un'altra, è una cattiva madre; come potrà essere una buona balia? Potrà diventarlo, ma lentamente; bisognerà che l'abitudine muti la natura; e il bambino mal curato avrà il tempo di morire cento volte prima che la sua nutrice abbia acquistato per lui un affetto di madre. Da questo stesso vantaggio deriva un inconveniente, che da solo dovrebbe togliere ad ogni donna sensibile il coraggio di far allattare il proprio figlio da un'altra: è quello di condividere il diritto della madre, o meglio di alienarlo; quello di vedere il suo bimbo amare un'altra altrettanto e più di lei; quello di sentire che l'affetto conservato per la madre è un favore, mentre quello che ha per la madre adottiva è un dovere: perché, quando ho trovato le cure di una madre, non devo avere l'attaccamento di un figlio? Il modo in cui si pone rimedio a questo inconveniente è quello di ispirare ai bambini disprezzo per le nutrici, trattandole come vere e proprie domestiche. Quando il loro servizio è finito, si ritira il bimbo o si congela la balia; a forza di accoglierla male, viene dissuasa dall'idea di venire a vedere il figlio di latte. In capo a qualche anno, egli non la vede più, non la conosce più. La madre, che ritiene di sostituirsi ad essa e di riparare alla propria negligenza con la crudeltà, si inganna. Invece di fare di un figlio di latte snaturato un figlio affettuoso, lo abitua all'ingratitudine; gli insegna a disprezzare un giorno colei che gli ha dato la vita come quella che l'ha nutrito col suo latte. Quanto insisterei su questo punto se fosse meno scoraggiante ribadire vanamente degli argomenti utili! Ciò dipende da più cose di quanto non si pensi. Volete restituire ciascuno ai suoi primi doveri? Cominciate dalle madri; sarete stupiti dei cambiamenti che produrrete. Tutto discende in ordine di successione da questa prima depravazione: tutto l'ordine morale si altera; la tendenza naturale si estingue in tutti i cuori; l'interno delle case assume un aspetto meno vivo; lo spettacolo commovente della famiglia che nasce non colpisce più il marito, non impone più riguardi agli estranei; la madre della quale non si vedono i figli è meno rispettata; nelle famiglie non c'è più residenza; l'abitudine non rinforza più i vincoli del sangue; non ci sono più né padri, né madri, né figli, né fratelli, né sorelle; tutti si conoscono appena: come potrebbero amarsi? Ciascuno pensa solo a se stesso. Quando la casa non è altro che una triste solitudine, bisogna bene andare a ricrearsi altrove. Ma le madri si degnino di allattare i loro figli ed i consumi si ristabiliranno da soli, i sentimenti della natura si risveglieranno in tutti i cuori, lo Stato si ripopolerà; questo primo punto, questo punto solo riconcilierà tutto. L'attrattiva della vita domestica è il miglior contravveleno per i cattivi costumi. Il fastidio dei figli, che si ritiene importuno, diventa piacevole; esso rende il padre e la madre più necessari, più cari all'altra; esso stringe fra loro il vincolo coniugale. Quando la famiglia è viva e animata, le cure domestiche costituiscono la più gradita occupazione della moglie e il più dolce divertimento del marito. Così, dalla correzione di questo solo abuso, deriverebbe presto una riforma generale; presto la natura riprenderebbe i suoi diritti. Le donne ridiventino una buona volta madri e presto gli uomini ridiventeranno padri e mariti. Discorsi superflui! La noia stessa dei piaceri del mondo non riconduce mai a quelli. Le donne hanno cessato di essere madri, non lo saranno più, non vogliono più esserlo. Se pure lo volessero, lo potrebbero appena; oggi, essendo stabilito l'uso contrario, ciascuna di esse dovrebbe combattere l'opposizione di tutte quelle che l'avvicinano, alleate contro un esempio che le une non hanno dato e che le altre non vogliono seguire. Tuttavia, qualche volta si trovano ancora delle giovani di buona indole che, osando affrontare su questo punto l'impero della moda ed i clamori del loro sesso, adempiono con intrepida virtù questo dovere tanto dolce che la natura loro impone. Possa il loro numero aumentare per l'attrattiva dei beni destinati a quelle che ci si dedicano! Sulla base delle conseguenze del più semplice ragionamento e di osservazioni che non ho mai visto smentire, oso promettere a queste degne madri un affetto saldo e costante da parte dei loro figli, la stima e il rispetto del pubblico, parti felici senza complicazioni e senza conseguenze, una salute forte e vigorosa e infine il piacere di vedersi un giorno imitare dalle loro figlie e citare ad esempio a quelle altrui. Niente madre, niente figlio. Fra loro i doveri sono reciproci; se essi sono male adempiuti da una parte, saranno trascurati dall'altra. Bisogna che il figlio ami la madre prima di sapere che deve amarla. Se la voce del sangue non è irrobustita dall'abitudine e dalle cure, si estingue nei primi anni e il cuore muore, per così dire, prima ancora di nascere. Eccoci fin dai primi passi fuori della natura. Se ne esce anche seguendo una strada opposta, quando, invece di trascurare le cure materne, la donna le porta all'eccesso; quando fa del suo bimbo il suo idolo, quando aumenta e alimenta la sua debolezza per impedirgli di sentirla e quando, nella speranza di sottrarlo alle leggi della natura, allontana da lui i colpi penosi, senza pensare, preservandolo per un momento da qualche incomodo, a quanti accidenti e pericoli accumula e pericoli accumula a lungo andare sul suo capo e a quanto sia una barbara precauzione quella di protrarre la debolezza dell'infanzia sotto le fatiche dell'uomo fatto. Teti, per rendere il figlio invulnerabile, lo tuffò, dice la favola, nell'acqua dello Stige. L'allegoria è bella e chiara. Le madri crudeli di cui parlo fanno diversamente: a forza di tuffare i figli nella mollezza, li preparano alla sofferenza, aprono i loro pori ai mali d'ogni specie, di cui non mancheranno di essere preda da grandi. Osservate la natura e seguite la strada che vi traccia. Essa esercita continuamente i bambini, fortifica il loro temperamento con prove di ogni specie e insegna loro per tempo che cos'è la pena e il dolore. I denti che spuntano danno loro la febbre, coliche acute danno loro le convulsioni, lunghe tossi li soffocano, i vermi li tormentano, la pletora corrompe il loro sangue, lieviti diversi fermentano in essi e causano pericolose eruzioni. Quasi tutta la prima età è malattia e pericolo: la metà dei bambini che nascono muore prima dell'ottavo anno. Superate le prove, il bimbo ha guadagnato forze e non appena può far uso della vita, il principio di questa diventa più sicuro. Questa è la regola della natura. Perché la contrariate? Non vedete che, pensando di correggerla, distruggete la sua opera, impedite l'effetto delle sue cure? Fare esternamente quello che essa fa all'interno, secondo voi, significa raddoppiare il pericolo; e invece significa evitarlo, attenuarlo. L'esperienza insegna che i fanciulli allevati con delicatezza muoiono più degli altri. Purché non si oltrepassino i limiti delle loro forze, si rischia meno usandole che risparmiandole. Esercitateli dunque in vista delle avversità che dovranno sopportare un giorno. Indurite i loro corpi alle intemperie delle stagioni, dei climi, degli elementi, alla fame, alla sete, alla fatica; immergeteli nell'acqua dello Stige. Prima che il corpo abbia acquistato le sue abitudini, gli si danno quelle che si vuole senza alcun pericolo; ma, una volta che abbia raggiunto la sua consistenza, ogni alterazione diventa per esso pericolosa. Il bambino sopporta cambiamenti che l'uomo non potrebbe sopportare: le fibre del primo, molli e flessibili, prendono senza sforzo la piega che si dà ad esse; quelle dell'uomo, più indurite non cambiano più, se non con la violenza, la piega che hanno ricevuto. È possibile dunque far diventare un bimbo robusto senza metterne in pericolo la vita e la salute, e se pure ci fosse qualche rischio, non si dovrebbe restare in dubbio. Poiché si tratta di rischi ineliminabili dalla vita umana, si potrebbe forse far meglio di respingerli nel momento del suo corso in cui sono meno svantaggiosi? Il bambino diventa più prezioso col crescere dell'età. Al valore della sua persona si aggiunge quello delle cure che è costato; alla perdita della vita si aggiunge in lui il sentimento della morte. Attendendo alla sua conservazione, dunque, bisogna soprattutto pensare all'avvenire; bisogna agguerrirlo contro i mali della giovinezza prima che ci sia giunto: infatti, se il valore della vita aumenta fino all'età in cui diventa utile, quale follia non è quella di risparmiare alcuni mali all'infanzia per moltiplicarsi all'età della ragione! […]. Il destino dell'uomo è quello di soffrire in ogni tempo. La cura stessa della sua conservazione è legata al dolore. [...] Non ci si uccide per i dolori della gotta: solo quelli dell'anima generano la disperazione. Compiangiamo il destino dell'infanzia, mentre è il nostro che dovremmo compiangere. I nostri mali più grandi ci derivano da noi stessi. Alla nascita, il bimbo strilla; la prima infanzia trascorre fra i pianti. Talvolta viene dondolato, viene lusingato per farlo stare quieto; talvolta viene minacciato, viene picchiato per farlo tacere. O facciamo ciò che piace a lui, o esigiamo da lui ciò che piace a noi; o ci sottomettiamo ai suoi capricci, o lo sottomettiamo ai nostri: non c'è via di mezzo, bisogna che dia ordini e che ne riceva. Così le sue prime idee sono quelle di dominio e di servitù. Prima di saper parlare, comanda; prima di poter agire, obbedisce; talvolta viene castigato prima che possa commetterne. In questo modo vengono insinuate per tempo nel suo cuore le passioni che in seguito si imputano alla natura e, dopo essersi dati da fare per renderlo cattivo, ci si lamenta di trovarlo tale. Il bambino passa sei o sette anni in questo modo, tra le mani delle donne, vittime del loro capriccio e del suo; e dopo avergli fatto imparare questo e quello, cioè dopo avere sovraccaricato la sua memoria o di parole che non può capire o di cose che non gli servono a niente; dopo aver soffocato l'indole con le passioni che si sono fatte nascere, si affida questo essere alle mani di un precettore, il quale finisce di sviluppare i germi artificiali che trova già bell'e formati e gli insegna tutto fuorché a conoscersi, fuorché a trar partito da se stesso, fuorché a saper vivere e a rendersi felice. Infine, quando il bimbo, schiavo e tiranno, pieno di scienza e privo di buon senso, debole tanto di corpo quanto di anima, è gettato nel mondo, mostrando in esso la sua inettitudine, il suo orgoglio e tutti i suoi vizi, fa deplorare la miseria e la perversità umane. Ma ci si inganna. Questo è l'uomo dei nostri capricci: quello della natura è fatto in un altro modo. Se volete che egli conservi la sua forma originaria, dovete preservarla fin dal momento in cui viene al mondo. Da quando nasce, impadronitevi di lui e non lasciatelo più finché non sia diventato uomo: senza di ciò non riuscirete mai. Come la vera nutrice è la madre, così il vero precettore è il padre. Si accordino, costoro, tanto nell'ordine delle loro funzioni, come nel loro metodo; dalle mani dell'una il bimbo passi in quelle dell'altro. Egli sarà meglio educato da un padre giudizioso e di idee limitate che dal maestro più abile, poiché lo zelo supplirà meglio al talento che il talento allo zelo. Ma gli affari, i compiti, i doveri ... Ah! I doveri: indubbiamente, l'ultimo è quello di padre! Non meravigliamoci che un uomo, la moglie del quale non si è degnata di nutrire il frutto della loro unione, non si degni di educarlo. Non c'è quadro più attraente di quello della famiglia; ma un solo tratto sbagliato guasta tutti gli altri. Se la madre non è abbastanza robusta per essere nutrice, il padre avrà troppi affari per essere precettore. I figli, allontanati, dispersi in pensioni, in conventi, in collegi, porteranno altrove l'amore della casa paterna o, per meglio dire, ci porteranno l'abitudine a non essere affezionati a nulla. I fratelli e le sorelle si conosceranno appena. Quando tutti saranno riuniti in festa, potranno essere gentilissimi fra loro, ma si tratteranno come estranei. Dal momento che la convivenza familiare non costituisce più la dolcezza della vita, bisogna pur ricorrere ai cattivi costumi per supplirvi. Chi è tanto sciocco da non vedere la connessione di tutto ciò? Un padre, quando genera e nutre dei figli, con ciò non fa più di un terzo del suo dovere. Egli deve alla sua specie degli uomini; deve alla società degli uomini socievoli; deve allo Stato dei cittadini. Ogni uomo che può pagare questo triplice debito e non lo fa è colpevole, è più colpevole ancora, forse, quando lo paga solo a metà. Colui che non può adempiere i doveri di padre non ha il diritto di diventarlo. Non c'è né povertà, né lavoro, né rispetto umano, che lo dispensino dal nutrire i suoi figli e dall'educarli egli stesso. Lettori, potete credermi. Predìco a chiunque abbia viscere e trascuri questi santi doveri che verserà a lungo lacrime amare sulla sua colpa e non ne sarà mai consolato. Ma che cosa fa quest'uomo ricco, questo padre di famiglia tanto indaffarato e costretto, secondo lui, a lasciare i figli nell'abbandono? Paga un altro per attendere alle cure che gli sono gravose. Anima venale! Credi di dare un altro padre a tuo figlio servendoti del denaro? Non ti ingannare su ciò; non è neanche un maestro che gli dài, ma un servo. Egli ne formerà be presto un secondo. Si discute molto sulle qualità di un buon precettore. La prima che esigerei in lui – e questa sola ne presuppone molte altre – è quella di non essere uomo venale. Ci sono mestieri tanto nobili, che non si possono esercitare per denaro senza mostrarsi indegni di esercitarli; tale è quello di un uomo d'armi; tale è quello dell'istitutore. Chi educherà dunque mio figlio? Te l'ho già detto, tu stesso. Io non posso. Non puoi? ... fatti dunque un amico. Non vedo altra via d'uscita. Un precettore! Oh, che anima sublime! ... in verità per fare un uomo bisogna che noi stessi siamo o padri o più che uomini. Ecco il compito che affidate tranquillamente a mercenari. Più ci si pensa, più si scorgono nuove difficoltà. Bisognerebbe che il precettore fosse stato educato per il suo allievo, che i domestici di questo fossero stati educati per il loro padrone, che tutti quelli che lo avvicinano avessero ricevuto le impressioni che gli devono comunicare; bisognerebbe, di educazione in educazione, risalire non si sa fin dove. Come può avvenire che un fanciullo sia educato bene da chi non è stato bene educato egli stesso? Questo raro mortale è dunque introvabile? Non lo so. In questi tempi di avvilimento, chi sa mai a quale grado di virtù può ancora giungere un'anima umana? Ma supponiamo di avere trovato questo prodigio. Considerando quello che deve fare, vedremo che cosa dev'essere. Ciò che credo di poter prevedere è che il padre che sente tutto il valore di un buon precettore, decida di farne a meno; poiché dovrebbe faticare di più a cercarlo che a diventarlo egli stesso. Vuole dunque farsi un amico? Educhi suo figlio ad esserlo; eccolo dispensato dal cercarlo altrove, e la natura ha già fatto metà dell'opera. Da: J.-J. Rousseau, Emilio, Roma, Armando, 1970, pp. 3-27. Friedrich Froebel L'opera fondamentale di Froebel, l'unica di ampio respiro, è L'educazione dell'uomo (1826), nella quale si ritrovano agevolmente tutti i principi ispiratori della sua pedagogia, che troverà nel “giardino d'infanzia” la sua realizzazione principale, ampiamente giustificata sul piano “teorico” e metodlogico dall'ispirazione agevolmente individuabile nelle pagine che seguono. Tutto ciò che si manifesta prescrivendo, deve agire secondando. […] Ogni vera educazione, ogni vero insegnamento, ogni vera istruzione, l'autentico educatore ed insegnante deve a ciascun momento, in tutte le sue esigenze e determinazioni, tenere un duplice atteggiamento, mirare a un duplice fine nel medesimo tempo: dare e prendere, congiungere e dividere, prescrivere e secondare, essere attivo e passivo, fermo e mobile,, determinare ed affrancare. Nella stessa condizione deve essere posto lo scolaro, l'educando. Ma in mezzo a loro, tra l'educatore e l'educando, tra l'esigenza e la conseguenza, deve dominare, invisibile un terzo elemento: l'ottimo, il giusto, che procede necessariamente dalle condizioni poste e si manifesta al di fuori di ogni arbitrio; un terzo elemento, il terzo, al quale educatore e educando ugualmente e nella identica misura sono soggetti. Il tacito riconoscimento, la chiara nozione di questo terzo elemento e la calma, serena sottomissione al suo impero, ciò specialmente, senza limiti e con purezza, deve manifestarsi nell'educatore e nell'insegnante, spesso anche per mezzo di lui, esprimersi con fermezza e serietà. Il bambino, l'educando ha, a questo riguardo, un tatto così fine, un sentimento così preciso per riconoscere se ciò che l'educatore, l'insegnante, il padre esprime ed esige, è qualche cosa di personale e di arbitrario oppure di universale e necessario, che raramente in questo il bambino, l'educando, lo scolaro sbaglia. Tale sottomissione, tale dedizione, tale tranquillo affidarsi al dominio di un terzo elemento, che non è soggetto a mutamenti, ed al quale educando e educatore sono ugualmente subordinati, deve quindi rivelarsi in ogni esigenza, anche minima, dell'educatore e dell'insegnante. Perciò la formula universale e necessaria dell'istruzione è la seguente: Fa questo e guarda, in questo determinato rapporto, quale è la conseguenza del tuo agire e a quale conoscenza esso ti conduce! Onde la prescrizione per la vita in sé e per ognuno: Rappresenta la tua essenza spirituale, dunque ciò che vive in te, la tua vita, puramente all'esterno e, mediante l'esterno, nell'azione, e guarda ciò che la tua essenza richiede e come essa è costituita! Unicamente con questa prescrizione Gesù stesso invita al riconoscimento della divinità della sua missione, della sua essenza, della sua vita, al riconoscimento della verità delle sua dottrina, ed è quindi questa la prescrizione per riconoscere ogni vita, la ragione e l'essenza di ogni vita e di ogni verità. In ciò si risolve e si chiarisce la seguente esigenza, ed è data al tempo stesso come la sua risoluzione e del suo adempimento. L'educatore, l'insegnante deve rendere universale l'individuale ed il particolare, l'universale particolare ed individuabile, e mostrare entrambi nel loro concreto esistere. Egli deve fare interno l'esterno ed esterno l'interno, e mostrare la necessaria unità di entrambi. Deve considerare infinito il finito, finito l'infinito, ed armonizzarli ponendoli nella vita. Egli deve cogliere ed intuire il divino nell'umano, mostrare in Dio l'essenza dell'uomo ed aspirare a rappresentarli entrambi nella vita. L'uno all'altro intimamente congiunti. Ecco quello che scaturisce dall'essenza dell'uomo, tanto più chiaramente e distintamente, tanto più incontestabilmente, quanto più l'uomo riguarda in se stesso, nell'uomo che sta crescendo e nella storia dello svolgimento dell'umanità. Poiché dunque la rappresentazione dell'infinito nel finito, dell'eterno nel temporaneo, del celeste nel terreno, del divino nell'uomo e attraverso l'uomo, nella vita dell'uomo attraverso lo svolgimento delle sua originaria essenza divina, da ogni lato si presenta e si esprime come, incontestabilmente, l'unico scopo, l'unica meta di ogni educazione e insegnamento, di ogni istruzione, perciò da questa, dall'unico vero punto di vista, l'uomo deve essere considerato subito dal suo apparire sulla terra, anzi, come per Maria, subito fin dalla sua annunciazione, deve essere vigilato e curato già ancora invisibile, ancora nel grembo materno. Ogni uomo, secondo la sua immortale essenza, la sua anima, il suo spirito, deve essere riconosciuto e trattato come il divino manifestantesi e manifestatosi sotto l'aspetto umano, come un pegno dell'amore, della presenza, della grazia di Dio, come un dono di Dio; così invero anche i primi cristiani riconobbero i loro figli, come dimostrano i nomi che diedero loro. Ogni uomo, fin da bambino, deve essere conosciuto, riconosciuto e venir trattato come un membro necessario, essenziale dell'umanità, e per questo i genitori, in quanto lo curano, si devono sentire e riconoscere responsabili di fronte a Dio, al bambino e all'umanità. Non diversamente debbono anche i genitori considerare e sorvegliare il bambino in necessaria unione, in chiara relazione e in vivo rapporto con il presente, il passato e l'avvenire dello sviluppo dell'umanità e così porre la formazione, l'educazione del bambino in connessione, coincidenza ed accordo con la presente, passata e futura esigenza dello svolgimento dell'umanità e del genere umano; così pure l'uomo deve essere considerato, apprezzato e trattato nelle sue disposizioni divine, terrene ed umane, rispetto a Dio, alla natura e agli uomini, quindi come l'essere che comprende in sé al tempo stesso un'unità, un'individualità ed una molteplicità, e così porta in sé al tempo stesso presente, passato e futuro. Così l'uomo, l'umanità nell'uomo, quale manifestazione esterna, deve essere considerata non come qualcosa già completamente manifestatosi, completamente divenuto, qualcosa già fisso, immobile, bensì come qualche cosa che costantemente e sempre diviene, si sviluppa, eternamente vive e sempre procede da un grado di sviluppo e perfezionamento ad un altro, verso la meta stabilita e nell'eternità. Il considerare lo svolgimento e il perfezionamento dell'umanità come qualche cosa di immobile, chiuso, che quasi si ripeta sempre solo di nuovo e solo in una maggiore generalità, è opinione dannosa più di quanto si possa dire. Poiché in questo modo il bambino, come ogni generazione seguente, sarà solo un'immagine imitante esteriore e morta, come un getto della precedente, ma non un modello di nuovo vivente per il futuro, per ogni futuro e per le generazioni a venire, del grado di sviluppo sul quale poggiava nel complesso dello svolgimento umano. Certo ogni generazione umana che segue, ogni singolo uomo deve ripercorrere in sé l'intero, complessivo sviluppo e perfezionamento precedenti del genere umano (e lo ripercorre, se no non capirebbe il mondo precedente e presente), ma non per la morta via dell'imitazione, della copia e dell'immagine, bensì per la viva strada dello sviluppo e del perfezionamento autonomo e spontaneo. Ogni uomo deve di nuovo liberamente rappresentare questo cammino come modello per sé e per gli altri; poiché in ogni uomo quale membro dell'umanità e figlio di Dio è posta ed esiste l'intera umanità, ma rappresentata ed espressa in ognuno in modo del tutto particolare, personale, unico in sé, e deve essere rappresentata in ogni singolo uomo in questo modo del tutto particolare, ed unico, affinché l'essenza dell'umanità e di Dio sia presentita nella sua infinita eternità e come comprendente in sé ogni molteplicità, sia riconosciuto sempre di più e sempre più vivacemente e determinatamente presentita. Soltanto da questa conoscenza dell'uomo, la sola esauriente e sufficiente, che tutto coglie ed abbraccia, soltanto da questa penetrazione dell'uomo e della essenza dell'uomo, donde con una seria ricerca sgorga necessariamente, quasi da sé, tutto l'altro che ancora bisogna sapere per lo svolgimento e l'educazione dell'uomo, soltanto da questa considerazione dell'uomo fin dall'annuncio della sua apparizione, può riuscire, fiorire, dar frutti, maturare la vera genuina educazione dell'uomo, lo sviluppo dell'uomo. Di qui deriva, con semplicità, determinatezza e sicurezza, tutto ciò che sposi e genitori debbono fare prima e dopo l'annuncio: essere puri e immacolati nella parola e nell'azione! Compenetrati appieno del valore e della dignità dell'uomo, considerarsi quali difensori, protettori e custodi di un dono divino, acquistar la conoscenza della missione e della destinazione dell'uomo, della via e dei mezzi con i quali egli realizza missione e destinazione! Orbene, come la destinazione del figlio appunto in questo consiste, svolgere e perfezionare in accordo ed armonia l'essenza dei genitori, del padre e della madre, gli elementi paterni e materni, intellettuali e sentimentali – che secondo la disposizione e l'energia possono trovarsi in essi, anche non riconosciuti e non presentiti da ambedue – così la destinazione dell'uomo come figlio di Dio e della natura consiste in questo, nel rappresentare in accordo ed armonia l'essenza di Dio e delle natura, il naturale e il divino, il terreno e il celeste, il finito e l'infinito. Come la destinazione di un figlio quale membro della famiglia consiste in questo, nello svolgere e rappresentare l'essenza delle famiglia, le disposizioni spirituali e le forze di essa nel loro accordo, molteplicità e chiarezza: così la destinazione e la missione dell'uomo quale membro dell'umanità consiste in questo, nello svolgere, perfezionare e rappresentare l'essenza, le forze e le disposizioni dell'umanità nel suo complesso. Ma i figli e i membri di una famiglia come tale svolgono e rappresentano nel modo più chiaro e completo l'essenza dei genitori e della famiglia, [...] quando ognuno dei figli, dei membri sviluppa e rappresenta se stesso nella maniera più completa, più chiara e molteplice, ma anche più particolare e personale. E così anche gli uomini, quali figli di Dio e membri dell'umanità, rappresentano nel modo più puro e completo l'essenza divina ed insieme umana dell'umanità, che è in essa riposta, anche se generalmente non è affatto conosciuta e riconosciuta – quando ogni singolo uomo, ogni singolo fanciullo perfeziona e rappresenta se stesso nella maniera più particolare e più personale. Ciò avviene quando l'uomo si sviluppa e si perfeziona secondo la legge secondo la quale tutte le cose si sviluppano e si perfezionano, si sono sviluppate e perfezionate, e che domina e signoreggia dovunque si trova l'essere e l'esistere, il creatore e la creatura, Dio e la natura: quando ogni uomo rappresenta sé, la sua essenza, come unità in sé e per se stessa; come individualità in qualsiasi elemento individuale, in qualsiasi elemento espresso fuori di lui, che da lui procede, e soprattutto con chiarezza e compiutezza, come molteplicità in ogni molteplicità e in tutto ciò che da lui proviene e per opera sua avviene. Solo in questa rappresentazione triplice, ma unica in sé, è compiuta la manifestazione, l'estrinsecazione e così la rivelazione dell'interno di ogni essere. Dove manchi una parte di questa triplice rappresentazione, nella realtà o anche soltanto nella conoscenza, allora incompiuta, imperfetta è la rappresentazione, imperfetta e ostacolatrice la penetrazione. Solo in questo modo ogni cosa si rivela nella sua unità, nella sua essenza, e chiara in tutti i suoi aspetti, solo il riconoscimento e l'applicazione di tale triplice ed unica rappresentazione di ogni cosa, quando questa deve rendere completamente nota e manifesta la sua essenza, conduce alla giusta conoscenza di igni cosa, alla vera penetrazione nella sua essenza. Perciò il bambino, l'uomo giovane, subito dal suo apparire sulla terra, subito dalla sua nascita deve essere compreso secondo la sua natura, trattato giustamente e posto nell'esercizio libero e completo delle sue forze. L'esercizio di alcune forze e membra non si deve favorire a scapito delle altre, e queste non si devono ostacolare nel loro sviluppo; il bambino non si deve nemmeno in parte incatenare, legare, avviluppare, né più tardi tenere con le dande. Trovare in se stesso il centro di gravità, il centro d'equilibrio di tutte le sue forze e membra, appoggiarsi su di questo, e su questo appoggiandosi muoversi, liberamente muoversi ed essere attivo, afferrare e tener saldo con le proprie mani, stare diritto sulle proprie gambe e camminare da solo, scoprire e osservare con i propri occhi, usare le proprie membra nella stessa misura e con la stessa energia: questo il giovane uomo, il bambino, deve imparare per tempo. Per tempo il bambino deve imparare la più importante e più difficile di tutte le arti, quella di mantenere saldo il centro e l'equilibrio nel cammino della vita, contro ogni deviazione, turbamento e impedimento, e per tempo deve dedicare ad essa applicazione ed esercizio. Questo primo sentimento di comunione, che dapprima unisce il bambino alla madre, al padre, ai fratelli, […] cui più tardi si riannoda l'indubbia constatazione che padre, madre, fratelli, uomini si sentono e si riconoscono in unione e comunione con qualche cosa di più alto, umanità, Dio: questo sentimento è il germe più fecondo, la vetta più alta di ogni pura religiosità, di ogni schietto sforzo a un'unione senza ostacoli con l'eterno, con Dio. La religione pura, vera, viva, che tale si dimostra nel pericolo e nella lotta, nell'oppressione e nel bisogno, nel piacere e nella gioia, deve insinuarsi nell'uomo ancora lattante, poiché quanto esiste di manifestamente divino nell'essere completo, nell'uomo, oscuramente intuisce e presto sente con certezza la sua provenienza dal divino, da Dio. E questo oscuro presentimento, questa coscienza ancor molto nebulosa deve nell'uomo essere subito curata, rafforzata, alimentata, più tardi elevata a consapevolezza e purificata. […] Si esercita un'influenza oltre ogni dire dannosa, ostacolatrice, anzi distruggitrice, quando al corso costantemente procedente negli anni dello sviluppo umano vengono fissati limiti così precisi ed opposizioni così nette che ne viene sottratto interamente all'attenzione quanto procede ininterrottamente e vivamente collega, l'essenza stessa della vita. È quindi assai dannoso il considerare i gradi dello sviluppo umano – lattante – bambino – ragazzo, fanciulla – giovane, giovinetta – uomo, donna – vecchio, vecchia – come realmente separati, e non, come la vita li mostra, senza lacune in sé, trapassanti l'uno nell'altro, in un procedimento continuo; peggio ancora il considerare il bambino, il fanciullo, come qualcosa del tutto diverso dal giovane o dall'uomo, qualcosa di così separato che l'elemento comune – l'uomo – appena debolmente traspare nel concetto, nell'intelletto e nella parola, ma passa quasi del tutto inosservato nella vita. Eppure così avviene in realtà! Infatti, si si considerano i discorsi abituali e la vita, quale essa si mostra ed è, come già del tutto separati sono il bambino e il fanciullo! Specialmente nei periodi posteriori si parla dei precedenti come di qualcosa del tutto estraneo, di completamente diverso. Il bambino, il fanciullo, l'uomo, soprattutto non deve avere alcun'altra aspirazione che quella di essere in ogni grado del suo svolgimento, in maniera completa ciò che tale grado esige. Allora ogni grado seguente nascerà come nuova protezione da un sano germoglio, e in ogni grado seguente con uguale aspirazione al completamento diverrà l'uomo quello che tale grado esige, poiché soltanto lo sviluppo sufficiente dell'uomo in ogni stadio precedente causa, produce uno sviluppo abbastanza completo di ogni grado seguente, posteriore. Questo è da considerarsi di grande importanza, riguardo specialmente allo sviluppo e al perfezionamento dell'attività umana volta a produrre effetti esteriori, l'attività operativa, lavorativa. E' impossibile dire quanta energia umana rimanga così senza svolgimento, quanta ne vada perduta! Sarebbe altamente salutare che, fra le ultime ore di lezione, si introducessero vere ore di lavoro, non differenti da quelle. A ciò si deve pure arrivare; poiché l'uomo, attraverso l'uso insignificante e determinato solo da riguardi esterni che ha fatto finora della sua energia, ha smarrito la misura interna ed esterna della medesima e quindi la conoscenza, il giusto apprezzamento, la fiduciosa considerazione di essa. Come è sommamente importante educare per tempo alla religione, così ugualmente importante è educare per tempo alla schietta operosità e laboriosità. Il lavoro cominciato per tempo, in armonioso riferimento al suo intimo significato, avvalora e nobilita la religione. La religione senza l'operosità, senza il lavoro corre pericolo di diventare vuota fantasticheria, inutile esaltazione, inconsistente fantasma, come il lavoro, l'operosità senza religione rende l'uomo una bestia da soma, una macchina. Lavoro e religione sono alcunché di simultaneo, come Dio, l'Eterno, creò dall'eternità. Se questo fosse riconosciuto, se gli uomini fossero penetrati a questa verità, se conformemente ad essa agissero e operassero nella vita fino a qual grado il genere umano presto si innalzerebbe! Tuttavia non solo riposando in se stessa come religione e religiosità, non solo esplicandosi all'esterno come lavoro e attività operosa, ma anche ritornando in sé e raccogliendosi in sé, deve l'energia umana svolgersi, operare, e in quest'ultimo caso come astinenza, temperanza parsimonia. E' necessario, a tal proposito, più di un cenno per l'uomo che non sia divenuto completamente estraneo a se stesso? Dove le tre accennate, ultime qualità, veramente inseparabili agiscono nella loro schietta, originaria unione, dove la religione, la laboriosità e la temperanza agiscono d'accordo, là è il cielo in terra, là è la pace, la gioia, la salvezza, la grazia e la benedizione! Tale è l'uomo considerato come un tutto nel bambino, tale la vita dell'umanità e dell'uomo guardata come unità nell'infanzia, tale l'intera attività futura dell'uomo veduta come germe nel bambino! E così deve essere! Egli, l'uomo, perché completamente svolga se stesso e in sé l'umanità, deve, sin dall'infanzia, essere considerato completamente e unitariamente, nell'insieme dei rapporti terreni. Ma poiché ogni unità, nel suo manifestarsi, esige una diversità, ed ogni totalità, pure nel suo manifestarsi, implica come necessaria condizione un seguirsi, un succedersi nel tempo, anche il mondo e la vita si svolgono per il bambino e nel bambino solo come diversità e successione. E così le forze, le disposizioni e le inclinazioni, le attività delle membra e dei sensi debbono essere svolte in quella medesima necessaria successione, in cui gli si manifestano. (Da: Friedrich Froebel, L'educazione dell'uomo e altri scritti, Firenze, La Nuova Italia, 1960, pp. 335). Pestalozzi Se Leonardo e Geltrude si può considerare l'opera più fortunata di pestalozzi, la sua ultima opera, Il canto del cigno (1825) rappresenta la sintesi autentica del suo pensiero. Da quest'opera sono estratte le considerazioni sulla natura umana in relazione alla sua educabilità. Sicché l'idea dell'educazione elementare, più precisamente circoscritta, non è altro che il risultato degli sforzi fatti dal genere umano per porgere alla natura, nel suo processo di sviluppo e formazione delle nostre facoltà e forze, quell'aiuto, che le possono conferire l'amore illuminato, l'intelletto educato e l'illuminato senso artistico del genere umano. Per quanto il processo della natura nel mettere le basi di sviluppo della nostra specie sia sacro e divino, esso, lasciato soltanto a sé, è avvivato soltanto dall'animalità. E' cura del genere umano, è scopo dell'idea dell'educazione elementare, è scopo della pietà e della saggezza, avvivarlo umanamente e divinamente. Esaminiamo ora più partitamente questo concetto nei rapporti morali, spirituali, domestici e pubblici, e domandiamoci: Come nel genere umano il sostrato della vita morale, l'amore e la fede, si svolge effettivamente, veramente secondo natura, e come nel fanciullo fin dalla sua nascita i primi germi delle nostre attitudini morali e religiose s'avvivano, si mostrano, si rafforzano nel loro crescere mercé l'influenza delle cure umane e dell'arte umana, sicché grazie a queste gli ultimi risultati della moralità e religiosità e della loro benedizione debbano considerarsi come umani, ma anche veracemente e naturalmente fondati e preparati? Troviamo allora che la sicura, tranquilla e costante soddisfazione dei bisogni fisici è quella che vivifica e sviluppa nel poppante sin dalla sua nascita i primi germi di facoltà morali; e così è la sacra cura materna, è l'attenzione che il bambino presta istintivamente al fatto della soddisfazione immediata di ogni bisogno, che non soddisfatto lo renderebbe visibilmente inquieto, ciò che noi dobbiamo riconoscere in lui come primo ma essenzialissimo avviamento a quello stato interno, nel quale si sviluppano i germi sensibili della fiducia verso la persona che è sorgente di quel soddisfacimento, e con essa anche i primi germi dell'amore verso di lei; e precisamente dal destarsi di questi germi di fiducia e di amore derivano e si svolgono anche i primi germi sensibili di moralità e religiosità. E quindi è di estrema importanza, per educare il genere umano all'umanità, la cura di conservare nel lattante la tranquillità e la soddisfazione, e di servirsene per vivificare i germi ancora sonnecchianti di quei sentimenti, che ci distinguono da tutti gli altri esseri del creato, che non sono uomini. Ogni insoddisfazione, che in questo momento turbi la vita vegetativa del bimbo, ha per effetto di vivificare e rafforzare tutte le tendenze e le pretese della nostra natura sensuale, animalesca, e d'indebolire tutte le basi essenziali dello sviluppo secondo natura di tutte le facoltà e forze che costituiscono l'essenza specifica dell'umanità. La prima e la più vivace cura per la conservazione di tale tranquillità nel primissimo periodo della vita infantile è stata posta dalla natura nel cuore della madre. Essa si manifesta universalmente nel genere umano mediante la forza e fedeltà innate nella madre. La mancanza di tal forza e di tal fedeltà è contraria alla natura materna, ed è conseguenza del corrompimento antinaturale del cuore materno. Dove questo avviene, sono negletti nel primo e più duro elemento di vita, e quindi annullati, anche l'eventuale vigore operoso del padre, il senso educativo dei fratelli e sorelle, e con essi la benedizione educativa della vita di famiglia. Quest'elemento vitale nella sua origine e nella sua essenza è dato dalla presenza e vivacità dell'amore e della fedeltà materna; e come soltanto con l'esistenza di tale amore e fedeltà è pensabile la contentezza del bambino nel primo periodo della sua vita, così la conservazione di tale amore e fede è pensabile soltanto ove la sua energia morale continui a svilupparsi. L'essenza dell'umanità si sviluppa soltanto nello stato di soddisfazione, senza cui l'amore perde ogni forza di verità e di benedizione. Lo scontento nella sua essenza è figlio di dolori o di appetiti sensuali; è figlio o del malvagio bisogno o del più malvagio egoismo; in ogni caso è padre del disamore, della sfiducia e di tutte le conseguenze che derivano dal disamore e dalla sfiducia. Quanto è importante la cura per la contentezza del bimbo e per l'amore e fedeltà della madre che la assicura, altrettanto importante in questo periodo è la cura di allontanare tutti gli eccitamenti sensuali allo scontento. Questi eccitamenti derivano così dalla mancanza di diligenza amorosa per la soddisfazione di veri bisogni dei sensi, come anche dall'eccesso di godimenti sensuali inutili, che svegliano l'egoismo animalesco. Se la madre trascura spesso e irregolarmente il bimbo che dalla culla grida verso di lei, e questo deve giacere nello spiacevole sentimento del bisogno, che la madre dovrebbe acchetare, e spesso aspettare tanto che questo sentimento sia diventato in lui sofferenza, difetto e dolore, allora si sviluppa e vivifica in lui intensamente il germe del malcontento maligno e di tutte le sue conseguenze, e il posteriore tardo soddisfacimento dei suoi bisogni non basta più, come dovrebbe, a sviluppare il sacro germe dell'amore e della fiducia verso la madre. Allora appare nel bimbo il primo germe di abbrutimento animalesco, lo scontento maligno, invece della contentezza generata dal soddisfacimento, nella quale soltanto si svolgono secondo natura i germi dell'amore e della fiducia. Lo scontento, vivificato nel bambino ancora in culla, sviluppa poi necessariamente i germi del sentimento ribelle della propria forza sensuale, fisica, l'inclinazione alla violenza brutale, e quindi l'inferno dello spirito mondiale immorale, irreligioso, che misconosce e rinnega l'intima essenza divina dell'umanità. Il bambino, che la sofferenza proveniente da mancata soddisfazione dei suoi bisogni da parte della madre ha reso internamente ribelle, si getta pi come un bruto affamato e assetato sul petto della madre, cui invece, sentendo più leggermente il bisogno, dovrebbe accostarsi lietamente. Quale che sia la causa, certo è che quando manca al bambino la mano delicata e l'occhio sorridente della madre, neppure nel suo occhio e nella sua bocca fiorisce il sorriso e l'allegria, che gli sono così naturali quando è contento. Questa prima attestazione della destantesi vita dell'umanità manca al bambino insoddisfatto; al contrario appaiono in lui tutti i segni del malcontento e della sfiducia, che arrestano lo spiegamento dell'amore e della fiducia per così dire nel primo germinare, lo scompigliano, e mettono così in pericolo il bambino nell'essenza del suo primo evolvere verso l'umanità. Ma anche l'abbondanza eccessiva di piaceri sensuali, della quale egli in condizione di tranquillità non eccitata sensualmente contro natura non sente alcun bisogno, distrugge la benedizione della sacra quiete, nella quale si sviluppano naturalmente i germi dell'amore e della fiducia, e invece causa anch'essa la maledizione dello scontento dei sensi e i relativi effetti di sfiducia e di violenza. La donna ricca e stolta, che, in qualunque condizione si trovi, sovraccarica ogni giorno il suo bambino di godimenti sensali, fa nascere in lui appetiti animaleschi e contro natura, che non hanno alcun reale fondamento nei bisogni della natura umana, ma piuttosto sono atti nelle loro conseguenze a frapporre ostacoli insuperabili al solido soddisfacimento di tali bisogni, giacché distruggono, sconvolgono e paralizzano sin dalla culla quelle forze di cui il bambino avrà impreteribile necessità per soddisfare sicuramente e indipendentemente nella vita i suoi bisogni, e quindi facilmente e quasi necessariamente degenerano in lui in una sorgente inesauribile e sempre crescente di malcontento, di preoccupazioni, di dolori, di violenze. La vera diligenza materna, volta a risvegliare nel bambino la prima e pura vita umana, dalla quale procede, sotto l'aspetto umano, l'essenza superiore della moralità e religiosità, si limita a provvedere ai bisogni reali. La madre illuminata e assennata vive per suo figlio a servizio del proprio amore, ma non a servizio del capriccio e dell'egoismo animalescamente eccitati e vivificati in lui. Le cure con cui la madre ottiene la contentezza del bambino sono conformi a natura solo in quanto soddisfano i bisogni di lui, non in quanto ne stimolano i sensi. Questa conformità a natura della cura materna, sebbene viva già nella madre istintivamente, è inoltre in armonia con le esigenze dello spirito e del cuore in lei; è fondata sullo spirito e sul cuore, e solo vivificata nell'istinto, e quindi non è affatto la conseguenza del soggiacere delle sue nobili facoltà superiori agli appetiti sensuali della sua carne e del suo sangue, bensì il risultato degli sforzi del suo spirito e del suo cuore. Per questa via l'influsso della forza e fedeltà materna svolge naturalmente nel bambino lattante le prime tracce d'amore e di fiducia e a un tempo prepara e fonda l'influsso benedetto del vigore paterno e del sentimento fraterno, e così diventa atto a poco a poco ad estendere il senso dell'amore e della fiducia su tutta la cerchia della vita domestica. Per questa via l'amore sensuale e la fiducia sensuale verso la madre si elevano ad amore umano e fede umana, che procedendo dall'amore verso la madre, si esprimono nell'amore verso il padre, verso i fratelli e le sorelle, e nella fiducia in essi. La cerchia dell'amore umano e della fiducia umana del bimbo s'allarga sempre più. Chi è amato dalla madre, è amato anche dal bimbo; chi gode la fiducia della madre, gode anche quella del bambino. Invero, se mai la madre, mostrando al bambino un estraneo da lui mai veduto, gli dice: “egli ti vuol bene, e tu devi fidarti di lui, dagli la manina”- il bimbo gli sorride volentieri e gli dà la manina nella sua innocenza. Così pure, s'ella gli dice: - “in un paese lontano tu hai un gran nonno, che ti vuol bene”, - il bambino crede a questo amore, e parla volentieri con la madre di questo gran nonno, crede all'amore di lui e spera nella sua eredità. E similmente quand'ella gli dice: - “io ho un padre in cielo, dal quale deriva ogni bene, che tu ed io possediamo” - il bimbo sulla parola della madre crede al Padre di lei che è in cielo. E quando ella da cristiana rivolge a Lui la sua preghiera, e legge la Bibbia, e crede nello spirito d'amore che signoreggia la parola di Lui, anche il bambino prega volentieri con la madre il Padre ch'è in cielo, crede nella parola del suo amore, il cui spirito egli pur nella sua infanzia sensuale riconosce in quanto la mamma fa od omette. Così avviene che il figlio dell'uomo con la guida della madre passa naturalmente dall'amore e dalla fede dei sensi all'amore umano e alla fiducia umana, e da questi poi s'eleva al puro sentimento della vera fede cristiana e del vero amore cristiano. E appunto in questo processo l'idea dell'educazione elementare cerca di dare fondamento umano alla vita morale e religiosa del bambino sin dalla culla, e ciò si propone come scopo di tutti i suoi sforzi. (Da: Johann H. Pestalozzi, Il canto del cigno, Firenze, La Nuova Italia, pp. 8-15) Johann Friedrich Herbart Opera tarda di Herbart, il Compendio delle lezioni di pedagogia generale (1835) è anche l'esposizione più compiuta del suo “sistema” pedagogico, particolarmente interessante anche per l'attenzione dedicata alla descrizione dell'età evolutiva, con capitoli specifici sui singoli periodi. Qui si riportano le pagine centrali riguardanti l'infanzia, che offrono l'occasione ad Herbart per menzionare alcuni elementi essenziali della sua visione dlel'educazione. 195. Siccome nei primi anni il filo della vita è ancora estremamente debole, per cui la cura del corpo (della quale qui non si parla) precede ogni altra cosa, sorgono secondo le condizioni di salute delle grandi differenze in rapporto al tempo, che consente un profitto nella formazione dello spirito. Ma per quanto possa essere breve questo periodo, esso è importantissimo per la grande ricettività ed eccitabilità dei primissimi anni di età. 196. Si utilizzi il tempo, in cui il bambino è del tutto attento senza soffrirne, per offrirgli ogni volta qualcosa per una percezione sensibile, che però non lo forzi. Sono da evitare forti impressioni come cambiamenti rapidi [...]. Una certa compiutezza nelle percezioni della vista e dell'udito è da desiderarsi in modo che questi sensi si familiarizzino uniformemente nel loro ambito. 197. Si cerca di far posto in un modo non nocivo alla vivacità propria del bambino. Anzitutto perché si abitui all'uso di tutte le sue membra; poi anche, perché egli mediante propri tentativi allarghi la sua osservazione delle cose e della loro mutabilità. 198. Si devono evitare con ogni accuratezza le impressioni sgradevoli, ripugnanti, di uomini, chiunque essi siamo. Nessuno può trattare un bambino come un giocattolo. 199. Ugualmente nessuno deve lasciarsi governare dal bambino; e meno che meno quando egli si esprima in forma irruenta. Altrimenti l'ostinazione è la conseguenza immancabile che, in bambini malaticci, è pressoché inevitabile a causa dell'attenzione con cui si è costretti a corrispondere alle espressioni del loro dolore. 200. Il bambino deve continuamente sentire la superiorità dell'adulto e spesso la propria impotenza. Su questo si fonda la necessaria obbedienza. Con un trattamento coerente, le persone, che si trovano sempre nell'ambiente del bambino, otterranno più facilmente ubbidienza di altre che raramente sono presenti. Alle emozioni dev'essere lasciato tempo di placarsi, se circostanze urgenti non richiedono qualcos'altro. 201. In rari momenti può manifestarsi una costrizione, che ispirerà tanto timore, quanto sia necessario, per pronunciare con successo una minaccia nel caso opportuno e per poter frenare la prepotenza. Il governo infatti deve già essere consolidato nei primissimi anni, per non essere poi costretti alla durezza in modo del tutto pregiudizievole. 202. La formazione del linguaggio dei bambini richiede fin da principio una seria sollecitudine, affinché non si radichino erronee abitudini e trascuratezze, che sogliono più tardi richiedere moltissima perdita di tempo e fastidio. Si devono assolutamente evitare forme artificiose di esprimersi, il cui senso oltrepassi la cerchia di pensieri dei bambini. DAL QUARTO ALL'OTTAVO ANNO 203. L'autentica linea di demarcazione non sta negli anni, ma nel fatto che cessa la primitiva impotenza e subentra un coerente uso delle membra e del linguaggio. Per il fatto che i fanciulli ora si possono liberare da soli da molti disagi momentanei, ne consegue che acquistino più tranquillità e giovialità. 204. Ora quanto più il bambino sa aiutarsi da solo, tanto più deve venir meno l'aiuto esterno. Al tempo stesso il governo deve acquistare fermezza e, verso alcuni individui, severità, finché le ultime tracce dell'ostinazione, prima per lo più non del tutto evitabile, spariscano. Questo però presuppone che nessuno stimoli senza necessità il fanciullo a esercitare qualsiasi genere di opposizione. Quanto più il bambino vede attorno a sé ordine stabile, tanto più facilmente vi si adatta. 205. Al fanciullo dev'essere lasciata tanta libertà quanta ne permettono le circostanze non fosse che perché egli si manifesti apertamente e si possa studiare la sua individualità. Tuttavia la cosa principale in quest'età è impedire le cattive abitudini, soprattutto quelle che sono collegate con modi di pensare riprovevoli. 206. Due idee pratiche si prendono qui immediatamente in considerazione ma in modi diversi, e cioè quella della benevolenza e della perfezione. Il fanciullo si forma quasi sempre da sé concezioni isolate che si riferiscono alla perfezione. La prima si sviluppa più raramente; essa gli deve essere data e non sempre lo si può fare direttamente. 207. Le manifestazioni di malevolenza, che si presentano con frequenza in alcuni fanciulli, sono da prendersi molto seriamente e per certo come segni del tutto cattivi; infatti un carattere, una volta traviato su questo punto, non si lascia più correggere a fondo, e la corruzione comincia talora presto. Quello che di deve fare in tal caso si fonda su quanto segue: 208. In primo luogo si presuppone che non si lascino soli a lungo bambini piccoli, ma che tutte le loro abitudini di vita siano socievoli e che nell'ambito sociale regni un ordine rigoroso. Le manifestazioni della malevolenza sono quindi fuori regola, e non appena subentrano, il bambino ha contro di sé l'ordine dominante. Ora quanto più è abituato a far parte di una volontà comune, a occuparsi e a star contento nell'ambito della medesima, tanto meno sopporta il sentirsi solo. Si lasci solo il malevolo ed egli è già punito. 209. Tale castigo presuppone però la completa ricettività del bambino piccolo, che piange, non sa aiutarsi, si sente totalmente debole, non appena lo si lascia solo; e che al contrario si trova nuovamente bene, dal momento che lo si riceve di nuovo nel gruppo sociale. Se si è trascurato questo periodo, se il malevolo si è già resa ostile la cerchia, in cui poteva vivere contento, allora un'amarezza ne provoca un'altra e non rimane altro che attenersi rigidamente al diritto. 210. Ora lo spirito di socievolezza, che tiene lontana la malevolenza, non costituisce ancora la benevolenza reale, e persino quelle descrizioni del medesimo, che si trovano abitualmente negli scritti per fanciulli, corrono pericolo di non essere recepite, come [fossero] favole facilmente inventate. Allora importa soprattutto radicare la fede nella benevolenza anche nel bambino, che mediante l'educazione incessante è colmato di benefici, ma vi è insensibile per l'abitudine. Lo si privi un poco delle cure abituali. Al rinnovarsi delle medesime, il bambino le riconoscerà come atti liberi e le apprezzerà. Quando, al contrario, dei fanciulli considerano come obbligo o come effetto di qualche meccanismo ciò che si fa per loro, questo errore è una fonte aperta di molteplici mali morali. 211. Alla severità necessaria si deve aggiungere la bontà, l'amabilità, se non si vuole raffreddare l'animo del bambino e uccidere i germi della benevolenza. Nel periodo di cui qui si parla, lo stato d'animo dipende ancora immediatamente dal trattamento, e una prolungata sgarbatezza ha come conseguenza l'insensibilità. Ora il doppio compito, sia di far sufficientemente risalto all'idea della benevolenza, sia di risvegliare effettivamente sentimenti benevoli, non si lascia ancora assolvere, certo, nella fanciullezza. Ma si è guadagnato molto, se un sentimento di partecipazione, sostenuto dalla giovialità sociale, si congiunge con la fede nella benevolenza di coloro da cui il fanciullo dipende come da esseri superiori. Allora la formazione religiosa trova il suo terreno ed esigerà di più. 212. L'idea di perfezione nella sua generalità è certamente equidistante dal bambino come quella della benevolenza, tuttavia i primi inizi di quanto le si riferisce sono molto meno incerti. Come cresce e si sviluppa il fanciullo, così crescono anche le sue forze e capacità e si compiace di questa sua crescita. Tuttavia, vi sono qui innumerevoli differenze nel modo e nel grado, che si hanno da osservare, soprattutto a causa della connessione con l'insegnamento, che sottentra già, a questo punto, sia sinteticamente sia analiticamente, sebbene non costituisca ancora regolarmente l'occupazione principale del fanciullo. 213. Mentre l'ambito, entro cui il fanciullo si muove liberamente, si amplia, mentre egli con propri tentativi accresce sempre la sua esperienza e, oltre a ciò, si aggiunge ancora l'intenzionale condurre in giro da parte dell'educatore, spesso sommamente necessario, l'esperienza [stessa] prende il sopravvento sulle primitive fantasie, benché in rapporto molto diverso in diversi individui. Ma dall'impulso ad assimilare il nuovo, nascono ora le frequenti domande dei fanciulli, che suppongono l'educatore come un onnisciente, non hanno alcun fine, ma dipendono dall'umore del momento e, in gran parte, se non vi si risponde immediatamente, non si ripetono più. Molte di esse riguardano soltanto parole e si fanno accantonare con una qualsiasi denominazione accettabile dell'oggetto in questione. Altre concernono il nesso degli avvenimenti, soprattutto i fini delle azioni umane, senza distinguere se si parla di persone immaginarie o reali. Ora, benché ad alcune domande non si possa e a altre non si debba rispondere, in complesso tuttavia l'inclinazione a domandare deve trovare continuo incoraggiamento; infatti, in quelle si incontra un interesse originario, che in seguito l'educatore spesso dolorosamente rimpiange e non può con nessun'arte riprodurre. Qui è offerta l'occasione di ricollegare molte cose, che devono preparare il terreno al futuro insegnamento; soltanto che la risposta non deve prolungarsi a causa di un intempestivo approfondimento, ma l'educatore deve adeguarsi all'umore del fanciullo, che abitualmente non lascia che si sperimenti con lui, ma ha frequenti mutamenti improvvisi. 214. Finché non si possono ancora concedere determinate ore all'insegnamento analitico, che s'intreccia nella risposta alle domande dei fanciulli, esso coincide con le passeggiate, con il contatto umano, le occupazione e le abitudini che vi si connettono, gli indurimenti, i giudizi e le primissime impressioni religiose; in parte, persino con gli esercizi di lettura. (da: J. F. Herbart, Compendio delle lezioni di pedagogia, Roma, Armando, 1971, pp. 177-183) Emile Durkheim Il brano riportato propone una sintesi della concezione durkheimiana dell'educazione e della pedagogia come scienza riguardante i “fatti” tipici di quelle pratiche sociali che si propongono il fine di “formare” le generazioni più giovani e di prepararli ad entrare nella vita adulta. Ma, dall'abbozzo stesso che noi abbiamo qui tracciato, risulta con evidenza che le teorie, che sono chiamate pedagogiche, sono delle speculazioni di tutt'altra specie. Infatti, né esse perseguono lo stesso scopo, né esse impiegano gli stessi metodi. Il loro obbiettivo non è di descrivere o spiegare quello che è o quello che è stato, ma di determinare quello che dovrebbe essere. Non sono orientate né verso il presente né verso il passato, ma verso l'avvenire. Non si propongono di esprimere fedelmente certe realtà, ma di promulgare delle regole di condotta. Non ci dicono: “ecco quello che esiste ed eccone il motivo”, ma bensì “ecco quello che si deve fare. Anzi, i teorici dell'educazione non parlano generalmente dei metodi tradizionali del presente e del passato che con un disprezzo quasi sistematico. Ne segnalano soprattutto le imperfezioni. Quasi tutti i grandi pedagogisti, Rabelais, Montaigne, Rousseau, Pestalozzi sono stati rivoluzionari, insorti contro gli usi dei loro contemporanei. Non fanno menzione dei metodi antichi od esistenti che per condannarli, per dichiarare che sono senza fondamento nella natura. Ne fanno più o meno completamente tabula rasa e si mettono a costruire al loro posto qualche cosa d'interamente nuovo. Se dunque vogliamo capirci, dobbiamo distinguere con cura due specie di speculazioni così diverse. La pedagogia è una cosa differente dalla scienza dell'educazione. Ma allora che cosa è, dunque? Per fare una scelta motivata, non ci basta sapere ciò che essa non è; dobbiamo indicare in che cosa consista. Diremo che è un'arte? La conclusione sembra imporsi, perché ordinariamente non si vede un termine intermedio tra questi due estremi e si dà il nome di “arte” a qualsiasi prodotto del raziocinio che non è la scienza. Ma allora si estende il senso della parola “arte” fino al punto di farvi entrare delle cose molto diverse. Infatti, si chiama ugualmente “arte” l'esperienza pratica acquisita dal maestro di scuola nel contatto coi fanciulli e nell'esercizio della sua professione. Ora, questa esperienza è chiaramente cosa molto differente dalle teorie del pedagogista. Un fatto dovuto all'osservazione quotidiana rende sensibilissima questa differenza. Si può essere un perfetto educatore e pur tuttavia essere totalmente inidoneo alle speculazioni della pedagogia. Il maestro abile sa fare il necessario, senza poter sempre dire i motivi che giustificano i procedimenti che impiega; al contrario, il pedagogista può mancare di qualsiasi abilità pratica. Noi non avremmo affidato una classe né a Rousseau, né a Montaigne; persino di Pestalozzi, che pur tuttavia era un uomo del mestiere, si può dire che non doveva possedere che incompletissimamente l'arte dell'educatore, come provano i ripetuti suoi insuccessi. La stessa confusione si riscontra in altri campi. Si chiama arte l'accortezza dell'uomo di Stato, esperto nel maneggio dei pubblici affari. Ma si dice anche che gli scritti di Platone, di Aristotele, di Rousseau sono dei trattati d'arte politica; ed è certo che non vi si possono vedere delle opere veramente scientifiche, poiché esse hanno per oggetto non di studiare la realtà, ma di costruire un ideale. E pur tuttavia vi è un abisso tra i processi spirituali che implica un libro come il Contratto Sociale e quelli che presuppone l'amministrazione dello Stato. Rousseau sarebbe stato verosimilmente un altrettanto cattivo ministro che un cattivo educatore. E' per questo motivo che i migliori teorici delle cose mediche non sono, e di molto, i migliori clinici. V'è dunque interesse a non designare con la stessa parola due forme di attività così diverse. Occorre, riteniamo, riservare il nome di “arte” a tutto quello che è pratica pura, senza teoria. È così che tutti intendono dire quando parlano dell'arte militare, dell'arte dell'avvocato, dell'arte del maestro di scuola. Un'arte è un complesso di modi d'agire adattati a degli scopi speciali, che sono il prodotto sia di un'esperienza tradizionale trasmessa dall'educazione, sia dell'esperienza personale dell'individuo. Non si possono acquisire che mettendosi in rapporto con le cose sulle quali si deve esercitare l'azione ed operando personalmente. Senza dubbio può avvenire che l'arte sia illuminata dalla riflessione, ma la riflessione non è un elemento essenziale, perché questa arte può esistere senza di lei. Anzi, non esiste una sola arte dove tutto sia riflessione. Ma tra l'arte così definita e la scienza propriamente detta, vi è il posto per un'attitudine mentale intermedia. Invece di agire sulle cose o sugli esseri secondo delle modalità determinate, si riflette sui modi di procedere, che sono così impiegati, in vista di conoscerli e di spiegarli, ma di apprezzare quello che valgono, se sono quello che devono essere, se non sarebbe utile modificarli, ed in qual modo, o persino sostituirli completamente con procedimenti nuovi. Queste riflessioni prendono la forma di teorie; sono delle combinazioni di idee, non delle combinazioni di atti e, per questo motivo, s'avvicinano alla scienza. Ma le idee che sono in tal modo combinate, hanno per oggetto non d'esprimere la natura delle cose date, ma di dirigere l'azione. Non sono dei movimenti, ma sono vicinissime ai movimenti che hanno la funzione d'orientare. Se non si tratta d'azioni, si tratta perlomeno di programmi d'azione e, per tal motivo, si avvicinano all'arte. Di questa natura sono le teorie mediche, politiche, strategiche, ecc. Per esprimere il carattere misto di questa specie di speculazione, noi proponiamo di chiamarle “teorie pratiche”. La pedagogia è una teoria pratica di questo genere. Essa non studia scientificamente i sistemi d'educazione, ma vi riflette per fornire all'attività dell'educatore delle idee che la dirigano. Ma la pedagogia così intesa è esposta ad un'obbiezione, della quale non possiamo dissimularci la gravità. Senza dubbio, si dice, una teoria pratica è possibile e legittima quando essa può appoggiarsi ad una scienza organizzata ed incontestata della quale non è che l'applicazione. In questo caso, effettivamente, le nozioni teoriche dalle quali si deducono le conseguenze pratiche hanno un valore scientifico che si comunica alle conclusioni che ne derivano. È in questo modo che la chimica applicata è una teoria pratica che non è che la messa in opera delle teorie della chimica pura. Però una teoria pratica non vale che quello che valgono le scienze alle quali essa prende in prestito le sue nozioni fondamentali. Ora, su quali scienze la pedagogia può appoggiarsi? Dovrebbe esistere, per incominciare, una scienza dell'educazione. Perché, per sapere quello che l'educazione deve essere, occorre sapere prima di tutto quale ne è la natura, quali sono le diverse condizioni dalle quali dipende, le leggi secondo le quali essa ha fatto la propria evoluzione nelle storia. Ma la scienza dell'educazione non esiste che allo stato di progetto. Restano, da un lato, le altre branche della sociologia che potrebbero aiutare la pedagogia a fissare lo scopo dell'educazione stessa con l'orientamento generale dei metodi, dall'altra la psicologia, il cui insegnamento potrebbe essere utilissimo per la determinazione, nei loro particolari, dei procedimenti pedagogici. Ma la sociologia è una scienza appena nascente; essa non conta che pochi postulati affermati, supponendo che ve ne siano. La stessa psicologia, benché si sia costituita prima delle scienze sociali, è oggetto d'ogni sorta di controversie; non esiste problema psicologico sul quale non si sostengano ancora le tesi le più opposte. Che cosa possono valere, allora, delle conclusioni pratiche che riposano su dati scientifici contemporaneamente così incerti e così incompleti? Che cosa può valere una speculazione pedagogica che manca di qualsiasi base, o della quale le basi, quando non difettano completamente, mancano ad un simil punto di solidità? Il fatto che si invoca in tal modo, per negare qualsiasi credito alla pedagogia è, in se stesso incontestabile. È certo che la scienza dell'educazione è interamente da costruire, che la sociologia e la psicologia sono ancora ben poco progredite. Se pertanto ci fosse permesso d'attendere, sarebbe prudente e metodico pazientare fino a quando queste scienze abbiano fatto dei progressi e possano essere utilizzate con maggiore sicurezza. Ma è proprio questo, la pazienza non ci è permessa. Noi non siamo liberi di posarci oppure d'aggiornare il problema; esso ci è posto o, piuttosto, imposto dalle cose stesse, dai fatti, dalla necessità di vivere. La questione non è completa. Noi siamo imbarcati e dobbiamo proseguire. Su molti punti, il nostro sistema tradizionale d'educazione non è più in armonia con le nostre idee e i nostri bisogni. Noi non abbiamo dunque la scelta che tra le soluzioni seguenti: o cercare di conservare ugualmente i metodi che ci ha legato il passato, benché non rispondano più alle esigenze della situazione, o affrontare risolutamente il ristabilimento dell'equilibrio spezzato, cercando quali sono le modifiche necessarie. Di queste due soluzioni, la prima è irrealizzabile e non può arrivare ad una conclusione. Nulla è più vano di questi tentativi di dar una vita artificiale ed un'autorità tutta apparenza ad istituzioni vecchie e screditate. Il fallimento è inevitabile. Non si possono soffocare le idee che queste istituzioni contraddicono; non si possono far tacere le necessità che esse offendono. Le forze contro le quali s'intrapende in tal modo la lotta non possono non avere il sopravvento. Altro non resta, quindi, che mettersi coraggiosamente all'opera, che cercare i cambiamenti che s'impongono e realizzarli. Ma come scoprirli se non con la riflessione? Sola, la coscienza ponderata può supplire alle lacune della tradizione, quando questa si trova in difetto. Ora, che cosa è la pedagogia se non la riflessione applicata il più metodicamente possibile alle cose dell'educazione, in vista di regolarne lo sviluppo? Senza dubbio noi non abbiamo in mano tutti gli elementi che sarebbero desiderabili per risolvere il problema; ma non è questo un motivo per non cercar di risolverlo, poiché si deve risolvere. Non abbiamo perciò altro da fare per il meglio che riunire il maggior numero di fatti istruttivi che ci è possibile, che interpretarli con la maggiore metodicità che è nei mostri mezzi, allo scopo di ridurre al minimo le probabilità di errori. Questo è il ruolo del pedagogista. Nulla è più vano e più sterile di quel puritanesimo scientifico che, col pretesto che la scienza non è ancora arrivata alla sua perfetta definizione, consiglia l'astensione e raccomanda agli uomini d'assistere come testimoni indifferenti, o perlomeno rassegnati, alla marcia degli avvenimenti. A fianco del sofisma dell'ignoranza vi è il sofisma della scienza, che non è non meno pericoloso. Senza dubbio, agendo in queste condizioni si corrono dei rischi: la scienza, per quanto avanzata possa essere, non saprebbe eliminarli. Quello che soltanto può esserci richiesto è di mettere in opera tutto ciò che noi abbiamo di scienza, per quanto imperfetta essa sia, e tutto ciò che noi abbiamo di coscienza, allo scopo di prevenire questi rischi per quanto sta in nostro potere. Ed è precisamente in quello che consiste il ruolo della pedagogia. Ma la pedagogia non sarà soltanto utile in questi periodi critici nei quali occorre, con tutta urgenza, rimettere un sistema scolastico in armonia coi bisogni del tempo; oggi, perlomeno, essa è diventata un ausiliario costantemente indispensabile dell'educazione. Gli è che, effettivamente, se l'arte dell'educatore è fatta, innanzi tutto, d'istinti e di abitudini diventate pressoché istintive, è tuttavia necessario che l'intelligenza non se ne allontani. La riflessione non saprebbe sostituirla, ma non potrebbe esser esclusa, almeno a partire dal momento nel quale i popoli hanno raggiunto un certo grado di civiltà. Infatti, una volta che la personalità individuale è diventata un elemento essenziale della cultura intellettuale e morale dell'umanità, l'educatore deve tener conto del germe d'individualità che è presente in ogni bambino. Deve, con tutti i mezzi possibili, cercar di favorirne lo sviluppo. Invece di applicare a tutti, in modo invariabile, la stessa regolamentazione impersonale ed uniforme, dovrà variare, diversificarne i metodi secondo i temperamenti e la forma di ciascuna intelligenza. Per poter adattare con discernimento le pratiche educative alla varietà dei casi particolari, è necessario sapere a che cosa mirano i differenti procedimenti che le costituiscono, quali ne sono le ragioni, quali gli effetti che producono nelle varie circostanze; occorre, in una parola, averle sottoposte alla riflessione pedagogica. Un'educazione empirica, meccanica, non può mancare dall'essere compressiva e livellatrice. D'altra parte, a misura che si avanza nella storia, l'evoluzione sociale diventa più rapida; un'epoca non somiglia a quella che la precede. Ogni periodo ha la sua fisionomia. Dei bisogni nuovi e delle nuove idee sorgono continuamente; per poter adeguarsi ai cambiamenti incessanti che sopravvengono in tal modo nelle opinioni e nei costumi, è necessario che l'educazione stessa cambi e, di conseguenza, rimanga in uno stato di malleabilità che permetta i cambiamenti. Ora, il solo mezzo d'impedirle di cadere sotto il giogo dell'abitudine e di degenerare in automatismi meccanici ed immutabili è di tenerla continuamente in esercizio mediante la riflessione. Quando l'educatore si rende conto dei metodi che impiega, del loro scopo e della loro ragion d'essere, è in condizioni di giudicarli e quindi è pronto a modificarli, se arriva a convincersi che lo scopo da perseguire non è più il medesimo o che i mezzi da impiegare devono essere differenti. La riflessione è, per eccellenza, la forza antagonista della routine e la routine è l'ostacolo ai progressi necessari. È per questo motivo che, se è vero – come dicemmo all'inizio – che la pedagogia non compare nella storia che in maniera intermittente, bisogna però aggiungere che essa tende di più in più a diventare una funzione continua della vita sociale. Il Medio Evo non ne aveva bisogno. Era un'epoca di conformismo nella quale tutti pensavano e sentivano allo stesso modo, nella quale tutti gli spiriti erano come fusi nella stessa matrice, nella quale le dissidenze individuali erano rare e, d'altra parte, proscritte. Anche l'educazione era impersonale; il maestro, nella scuola medioevale, s'indirizzava a tutti i suoi alunni collettivamente, senza che egli avesse l'idea di adattare la sua azione alla natura di ciascuno. Nello stesso tempo, l'immutabilità delle credenze fondamentali si opponeva all'evoluzione rapida del sistema educativo. Per queste due ragioni, egli aveva meno bisogno d'esser guidato dal pensiero pedagogico. Viceversa, nel Rinascimento tutto cambia. Le personalità individuali si distaccano dalla massa sociale nella quale esse erano, fino a quel momento, assorbite e confuse, gli spiriti si diversificano; nello stesso tempo, lo sviluppo storico si accelera, una nuova civiltà si costituisce. Per rispondere a tutti questi cambiamenti, la riflessione pedagogica si sveglia e, benché non abbia sempre brillato con lo stesso splendore, pur tuttavia non doveva più smorzarsi completamente. Ma, affinché la riflessione pedagogica possa produrre gli effetti utili che si è in diritto d'attendere da lei, occorre che essa sia assoggettata ad una cultura appropriata. 1° - Abbiamo visto che la pedagogia non è l'educazione e non potrebbe farne le veci. Il suo mandato non è di sostituirsi alla pratica, ma di guidarla, d'illuminarla, d'aiutarla, se occorre, a colmare le lacune che si vengono a produrre, a rimediare alle insufficienze che vi si sono constatate. Il pedagogista non ha, dunque, da costruire totalmente un sistema d'insegnamento, come se non ne fossero esistiti prima di lui; occorre invece che egli si dedichi, innanzi tutto, a conoscere e a comprendere il sistema del suo tempo; è sotto questa condizione che egli sarà in grado di servirsene con discernimento e di giudicare quello che vi può essere di difettoso. Per poterlo comprendere non basta considerarlo tal quale è al giorno d'oggi, perché questo sistema di educazione è un prodotto della storia che soltanto la storia può spiegare. È una vera istituzione sociale. Anzi, non ve ne sono molte, dove tutta la storia del paese venga così integralmente ad avere una ripercussione. Le scuole francesi traducono, esprimono lo spirito francese. Non si può dunque capir nulla di quello che sono, lo scopo che perseguono, se non si conosce quello che costituisce il nostro spirito nazionale, quali ne sono i diversi elementi, quali sono quelli che dipendono da cause permanenti e profonde; quelli, invece, che sono dovuti all'azione di fattori più o meno accidentali e passeggeri; tutte queste questioni che soltanto con l'analisi storica possono ricevere una soluzione. Si discute spesso per sapere il posto che spetta alla scuola primaria nell'insieme della nostra organizzazione scolastica e nella vita generale della società. Ma il problema è insolubile se ignoriamo come si è formata la nostra organizzazione scolastica, di dove vengono i suoi caratteri distintivi; quello che ha determinato, nel passato, il posto che è stato fatto alla scuola elementare; quali sono le cause che ne hanno favorito o intralciato lo sviluppo. Perciò la storia dell'insegnamento, perlomeno dell'insegnamento nazionale, è la prima delle propedeutiche ad una cultura pedagogica. Naturalmente se si tratta di pedagogia primaria, è la storia dell'insegnamento primario che si deve cercare, di preferenza, d'arrivare a conoscere. Però, per la ragione che noi abbiamo appena indicato, questo non potrebbe esser isolato totalmente dal sistema scolastico più vasto, del quale non è che una parte. 2° - Ma questo sistema scolastico non è fatto unicamente di pratiche prefissate, di metodi consacrati dall'uso, eredità del passato.. Vi si trovano, in più delle tendenze verso l'avvenire, delle aspirazioni verso un ideale nuovo, più o meno chiaramente intravisto. Queste aspirazioni devono essere ben conosciute, per poter giudicare quale posto conviene loro assegnare nella realtà scolastica.. Ora, esse vengono ad esprimersi nelle dottrine pedagogiche; la storia di queste dottrine deve dunque completare quella dell'insegnamento. Si potrebbe credere, è vero, che, per assolvere utilmente il suo compito, questa storia non abbia bisogno di rimontare molto lontano nel passato e possa, senza inconvenienti, essere assai sommaria. Non è sufficiente conoscere le teorie tra le quali sono divisi gli spiriti contemporanei? Tutte le altre, quelle dei secoli anteriori, sono oggi sorpassate e non hanno più, sembra, che un interesse di erudizione. Ma questo modernismo non può, riteniamo, che disseccare una delle principali sorgenti alle quali si deve alimentare la riflessione pedagogica. Infatti, le dottrine più recenti non sono nate ieri. Esse sono la continuazione di quelle che le hanno precedute, senza le quali, pertanto, non possono essere capite. E così, a grado a grado, per scoprire le cause determinanti d'una corrente pedagogica di qualche importanza, occorre generalmente ritornare indietro assai lontano nel tempo. È, anzi, a questa condizione che si avrà qualche certezza che le vedute nuove, che appassionano gli spiriti maggiormente, non siano delle brillanti improvvisazioni, destinate a sprofondare rapidamente nell'oblio. Per esempio, per poter comprendere la tendenza attuale all'isegnamento mediante le cose, a quello che si può chiamare “realismo pedagogico”, occorre non limitarsi a vedere come si esprima presso questo o quel contemporaneo; dobbiamo rimontare fino al momento al quale è nato, cioè alla metà del XVIII secolo in Francia e verso la fine del XVII in certi paesi protestanti. Solo perché si troverà in tal modo collegata alle sue origini prime, la pedagogia realista si presenterà sotto un tutt'altro aspetto. Ci si renderà meglio conto del fatto che essa deriva da cause profonde, impersonali, che agiscono presso tutti i popoli d'Europa. E, nello stesso tempo, ci si troverà nelle migliori condizioni per scoprire quali sono queste cause e, di conseguenza, per giudicare la vera portata di tale movimento. Da un altro lato, questa corrente pedagogica si è costituita in opposizione ad una corrente contraria, quella dell'insegnamento umanistico e nozionistico. Non si potrà dunque apprezzare in maniera esatta il primo che a condizione di conoscere il secondo, ed eccoci costretti a risalire ancora ben più lontano nella storia. Questa storia della pedagogia, per dare tutti i suoi frutti, non deve, quest'è certo, essere separata dalla storia dell'insegnamento. Benché noi le abbiamo separate nell'esposizione, esse sono, in realtà, solidali l'una all'altra. Perché, a ogni momento, le dottrine dipendono dallo stato dell'insegnamento, del quale sono il riflesso anche quando reagiscono contro di lui e, d'altra parte, nella misura che esercitano un'azione efficace, esse contribuiscono a determinarlo. La cultura pedagogica deve dunque avere una base largamente storica. È a questa condizione che la pedagogia potrà sfuggire ad una critica che le è stata sovente rivolta e che ha fortemente nuociuto al suo credito. Troppi pedagogisti – e fra i più illustri – hanno intrapreso d'edificare i loro sistemi facendo astrazione da quello che era esistito prima di loro. Il trattamento al quale Penocrates sottomette Gargantua prima d'iniziarlo ai metodi nuovi è, su questo punto, significativo. Gli purga il cervello “con l'elleboro d'Anticira” in modo di fargli dimenticare “tutto quello che aveva appreso sotto i suoi antichi precettori”. Cioè, in forma allegorica, si voleva dire che la pedagogia nuova nulla doveva avere di comune con quella che l'aveva preceduta. Ma questo significava contemporaneamente collocarsi al di fuori della condizioni della realtà. L'avvenire non può esser evocato dal nulla: noi non possiamo costruirlo con i materiali che ci ha legato il passato. Un ideale che si costruisce prendendo l'opposto dello stato di cose esistente non è realizzabile, perché non ha radici nella realtà. D'altronde è chiaro che il passato aveva la sua ragion d'essere; non avrebbe potuto durare se non avesse risposto a dei bisogni legittimi [...]; non si può quindi farne così radicalmente tabula rasa senza disconoscere delle necessità vitali. Ecco perché è avvenuto che troppe volte la pedagogia altro non è stata che una forma di letteratura utopica. Noi compiangeremmo i fanciulli ai quali venisse applicato rigorosamente il metodo di Rousseau o quello di Pestalozzi. Senza dubbio tali utopie possono aver avuto una influenza utile nella storia. [Ma] per questa pedagogia di tutti i giorni, della quale ogni maestro ha bisogno allo scopo d'illuminare e guidare la sua esperienza quotidiana, occorre meno slancio passionale ed unilaterale, ed invece più metodo, un sentimento più presente della realtà e delle difficoltà multiple alle quali è necessario far fronte. E questo sentimento che darà la cultura storica ben intesa. 3° - soltanto la storia dell'insegnamento e della pedagogia permette di determinare i fini che deve perseguire l'educatore ad ogni istante del suo tempo. Ma per quello che si riferisce ai mezzi necessari per la realizzazione di questi fini, è alla psicologia che ci si deve rivolgere. Infatti, l'ideale pedagogico d'un'epoca esprime innanzi tutto lo stato della società all'epoca considerata. Affinché questo ideale diventi una realtà, occorre conformarvi la coscienza del fanciullo. Ora, la coscienza ha le sue leggi proprie che devono essere conosciute, per poter modificarle se, almeno, si vuol evitare a se stessi, nei limiti del possibile, di brancolare nel buio dell'empirismo, che la pedagogia ha appunto per oggetto di ridurre al minimo. Per poter spingere l'attività a svilupparsi in una data direzione, è necessario anche sapere quali sono le forze che la muovono e quale è la loro natura. Perché è a questa condizione che diventerà possibile applicarvi, con la necessaria conoscenza, l'azione che è conveniente. Si tratta, per esempio, di risvegliare l'amore della patria od il senso dell'umanità? Noi sapremo tanto meglio piegare la sensibilità morale degli alunni in un senso o nell'altro, quanto noi più possederemo delle nozioni complete e precise sull'insieme dei fenomeni che si chiamano tendenze, abitudini, desideri, emozioni ecc.; sulle diverse condizioni dalle quali dipendono; sulle forme che presentano nel fanciullo. A seconda che si vedrà nelle tendenze un prodotto delle esperienze gradevoli o sgradevoli che ha potuto fare la specie, oppure, al contrario, un fatto primitivo anteriore agli stati affettivi che ne accompagnano il funzionamento, si dovrà affrontare il problema in maniera differentissima per regolarne il funzionamento. Ora, è alla psicologia e specificamente alla psicologia infantile che compete la soluzione di questi problemi. Se dunque essa è incompetente per fissare il fine – poiché il fine varia secondo gli stati sociali – non è dubbio che essa ha un mandato utile da svolgere nella costituzione dei metodi. Anzi, siccome nessun metodo può applicarsi nello stesso modo ai diversi fanciulli, è ancora la psicologia che dovrebbe aiutarci a raccapezzarci tra le varietà d'intelligenze e di caratteri. Disgraziatamente non si ignora che siamo ancora lontani dal momento nel quale sarà veramente in condizioni di soddisfare questo desideratum. V'è una forma speciale della psicologia che ha per pedagogo una importanza tutta particolare: è la psicologia collettiva. Una classe è una piccola società e non si può condurre come se essa non fosse altro che una piccola agglomerazione di soggetti indipendenti gli uni dagli altri. I fanciulli, in classe, pensano, sentono ed agiscono in modo diverso di quando sono isolati. Si producono, nella classe, dei fenomeni di contagio, di demoralizzazione collettiva, di mutua sovreccitazione, d'effervescenza salutare che occorre saper valutare per prevenire o combattere in determinati casi ed utilizzare in altri. Certamente, questa scienza è ancora totalmente nell'infanzia. Abbiamo però, fin d'ora, un certo numero di postulati che è importante non ignorare. (da: Emile Durkheim, La sociologia e l'educazione, Roma, 1971, pp. 63-86). Rosmini Le considerazioni di Rosmini sul carattere unitario dell'opera educativa sono esposte fondamentalmente nell'opera Sull'unità dell'educazione (1826), di cui si riportano alcune delle pagine iniziali, in cui l'Autore espone aspetti della visione del mondo che dovrebbe proficuamente reggere l'intera teoria dell'educazione. Sono né nostri tempi due maniere di uomini egualmente bene intenzionati ed egualmente pieni d'amore dell'umanità, che rivolgendo i loro sguardi a questo spettacolo morale che il presente stato del mondo ci somministra, rimangono colpiti da affetti non pur diversi, ma interamente contrari; e mentre gli uni si ritraggono da quello spaventati, quasi da una scena di orrore che non possono sostenere, gli altri non finiscono di rimirarlo quale prospetto abbellito delle più recenti immagini o più fecondo almeno di speranze inesauribili. I primi declamano in guisa di profeti che annunziano sventura; ed i secondi, incapaci di presentare alle menti degli uomini né pur un'idea un po' funesta che li conturbi, imitano senza avvedersene la favolosa voce delle sirene, ed addormentano gli infelici che varcano un immenso Oceano aperto ad ingoiarli, e che forse fra brevi istanti, immersi in un sopore profondo, debbono esser pasto dei mostri che nel suo seno egli alimenta. E come adunque uno spettacolo stesso può eccitare sentimenti e destare affetti così contrari in uomini che sono pure animati da uno stesso spirito, che ravvolgono gli stessi pensieri e partecipano agli stessi desideri? o si dovrà puramente attribuire tanta differenza nel giudicare ad un errore degli uni o degli altri inconcepibile? Non già; che chi è fornito di medesimi sensi non può vedere le cose stesse dipinte di colori diversi; e, senza differire nella qualità del colore, differiscono nel grado, giacché l'organo è formato in tutti sul tipo stesso e ha la stessa disposizione nei riguardanti. Laonde egli sembra più tosto che lo spettacolo, cui il genere umano presenta nei nostri tempi, abbia in sé qualche cosa che li renda quasi di due viste diverse, è simile, per così dire, ad un colore cangiante che si mostra mutato al solo mutare dell'angolo della luce sotto cui si riguarda. E duplice veramente si può dire che sia lo stato presente dell'universo morale. Egli riviene pur ora da un atroce combattimento nel quale, se le schiere della virtù hanno portato pieno trionfo, egli fu però atroce e sanguinoso; ed il suo aspetto è simile ad uno spaventevole campo di battaglia sul quale i gridi della vittoria s'innalzino in mezzo ai monti di cadaveri ed ai fiumi di sangue, e le lagrime della gioia dei vincitori si mescolino a quelle che loro spreme una compassione involontaria ed un sentimento irresistibile di fratellanza con i periti. I vincitori stessi pur troppo si ritrovano indeboliti dal combattimento, e le loro file non sono piene: e solo dai secoli aspettar si può ai mali della guerra sostenuta un rimedio, se pur sapranno raccogliere i successori il frutto della vittoria. Avvi ragione adunque da spargere lacrime di dolore; ed insieme di educare in mezzo ad esse il ramoscello d'olivo che, seminato a travagli e dalla costanza dei presenti, cresce occulto alla pace dello avvenire, e rallegra il pensiero di quelli che, rifuggendo dalle presenti sciagure, si protendono coll'animo loro, fatto a letizia, alle più ampie speranze del futuro, e par loro di vedere già sereno il cielo perché s'accorgono del molto allentare della tempesta. Ma egli pare che il conflitto che fa il vizio colla virtù non sia che il più terribile quando questa combatte, quasi direi, per disperazione; e che la divina Provvidenza permetta le più gravi scosse perché gli uomini animati dal pericolo abbiano finalmente il coraggio di radicare quelle ultime radici dell'errore e del vizio che si conserverebbero altamente a lungo o inosservate o ancora amate dalle abitudini, o tutelate finalmente dai pregiudizi sempre pronti a trovare il modo di fare l'apologia dei vizi, e ad alimentare la speranza ingannevole di farli sussistere insieme e quasi di consociarli colla virtù. È alla umana virtù pur troppo che la gramigna dell'errore e del vizio si abbarbica e si restringe con avvolgimenti e ritorte infinite per essere con essa conservata: ed è sola la Provvidenza quella che la conserva, prima perché, lo stesso ceppo della virtù non si schianti, e poi perché la virtù stessa sia scossa; e, presso che ad essere sradicata, perisca quel vizio tenace che, sempre più ingrossando e serpeggiando, l'avrebbe già isterilita e miseramente distrutta. Così nelle vie tanto superiori alle umane degli eterni consigli, è in pietà dei suoi nemici che Dio purifica i suoi eletti dalle superstizioni, rivolgendo in tal modo il furore degli empi a rendere più pura e più splendida la divina sua religione, come è colle loro persecuzioni che egli purifica la sua Chiesa degli efftti terreni, e che le fa conoscere d'una scienza viva e sperimentale, che essa non è fabbricata sopra nessuna della cose umane, ma sulla sola virtù della sua divina parola. Egli è per questo che non mai sì bella e sì fresca si presenta come la sposa di Gesù Cristo che allorquando ella rialza il capo da una lunga oppressione; ed allora pare simile a quella atmosfera che tutta lavata dai vapori viene irraggiata dal sole dopo una pioggia fecondatrice. Imponenti sforzi dei mortali contro l'Eterno! Egli nella creazione dell'universo si è prefisso un fine così vasto, così completo che per ottenerlo aveva bisogno appunto anche di quelli stessi sforzi ben preveduti, che avrebbero fatto gli uomini contro di lui! Così tutti, non esclusi neppure gli empi, lavorano assiduamente a fabbricare la stessa casa. Legato l'ordine sociale all'ordine religioso, non si poteva distruggere questo senza scavare i fondamenti anche di quello; ed il genio del male che vuole render l'uomo infelice nella sua conoscenza, non può sostenere a lungo di vederlo felice neppure nell'esterna sua vita: la quiete è per lui un tormento come è all'odio la felicità! Così non so qual furore mena uomini che hanno abbandonato la religione, per una via angustiosa a trovare tutto quel castigo che essi si possono dare dentro ai confini della vita presente nello scompiglio dell'ordine sociale non meno che dell'ordine familiare. Egli succede allora quel discioglimento universale di tutti i legami che stringono gli uomini fra di loro, che noi vegliamo nella presente società; e l'uomo, privo di tutte le affezioni e di tutte le abitudini, si trova solo in mezzo agli uomini. Ma ridotti così gli uomini a non esistere che come individui sciolti da tutti i legami, e privi di tutti i punti d'appoggio sui quali poteva riposare il loro cuore, essi sentono tutta intera la forza di quella gravitazione che hanno verso Dio, verso questo centro delle intelligenze; e non possono a lungo stare in questo stato senza abbandonarvisi, come non può il corpo essere sostenuto a lungo da un turbine violento nel mezzo dell'aria senza cadere. Egli è poi questa mancanza di ogni sostegno in cui si ritrova il cuore umano dopo che egli fu isolato dalle sue antiche affezioni sociali e domestiche, che mi spiega questo bisogno universale di religione, che avventuratamente si fa sentire ai nostri tempi a pruove sì manifeste. L'ordine religioso è legato all'ordine sociale, ma non ai vizi della società. Ma come poche sono le persone di tanta penetrazione che sappiano distinguere questi da quello, non debbe riuscire meraviglioso, che un gran numero di loro, che desideravano tolti i vizi della società, si trovassero nelle schiere inimiche, e combattessero contro l'ordine sociale ad un tempo e contro l'ordine religioso. Essi si trovarono in sull'arme contro la religione stessa, senza conoscere che questa non era punto la loro inimica. Tale sciagura toccò ai cristiani trascurati nello studiare intimamente la loro divina religione, che essi presero in fallo, avvisandosi sciaguratamente che ad essa appartenessero i mancamenti degli uomini. Ed egli fu il gran numero di cotesti, male istruiti e per ignoranza traviati figliuoli della Chiesa, che ingrossò le colonne dei nostri nemici, ed esse ci apparvero sì formidabili: quelli per altro ignoranti insieme ed ingannati non hanno giammai estinto il germe della giustizia che è quello stesso della religione: e la maggior parte di essi, resi poscia accorti dai successori delle cose, abbandonarono le ingannatrici bandiere sotto le quali combattevano; e un'altra parte sembra pronta a lasciare tosto che si tolga dalle menti illuse qualche errore di fatto, anzi che le empietà dai cuori non pervertiti, dove essa fu sempre imponente a stabilirvi il suo impero. Sciagurati que' pochi che, datisi in preda al partito della menzogna, credendo da principio di trovarvi la verità, rimasero vittima della loro poca fede, e precipitarono in quel fondo di perdizione, onde par loro impossibile rilevarsi! D'altra parte l'errore non istà che alla superficie dell'uomo; la verità solo penetra l'intimo del suo spirito. Questa verità che, spuntata maestosa come il sole sopra alla terra insieme col Cristianesimo, ne cacciò l'errore che non si potè sostenere alla virtù dei suoi raggi divini; questa verità, che risplendette sul genere umano per lo spazio di diciotto secoli sempre facendo progressi dentro alle vaste regioni dello spirito umano, senza che nessuna forza potesse allentare il fatale suo corso; questa verità, che si mescolò, per così dire, colla coscienza stessa dell'uomo, che divenne una proporzione della sua essenza, ed il primo elemento della sua vita; questa verità, che le umane generazioni oggi mai si trasfondono in uno colla natura, dalla quale pare indivisibile; questa verità finalmente che penetrò l'uomo fino al suo fondo, che giunse a collocarsi al suo centro come gran base della sua esistenza e come punto intorno a cui l'universo, che l'uomo porta con se medesimo, si rivolga; questa verità insomma, che è salda più che il firmamento e che esce dal grembo della eternità, sarà essa subitamente spenta nell'uman genere per l'opera infernale, di pochi lustri tenebrosi? Eh no; chè essa vive immortale, anche dove ne sono cancellate dallo errore le sue sembianze: e mentre questo ha creduto d'occupare il seggio di quella nel cuore degli uomini, egli non ha fatto che togliere le sue immagini esteriori ond'abbelliva, per così esprimermi, la superficie dell'umanità, estendeva visibile al di fuori la sua bellezza divina; ed il vizio, ed il vizio, grazie all'Altissimo, non è forse ancora che un leggiero fango che cuopre al di sotto l'ottimo colore dell'oro incorruttibile. E sono forse pochi o dubbiosi i segni di vita, che nei nostri tempi materiali ha dato ancora la pietà del suo ritiro profondo nel cuore degli uomini? Non ha la chiesa di Gesù Cristo abbracciato e stretti al suo seno tanti figliuoli traviati, che rattemperarono i suoi dolori? Non hanno rivolti a lei gli sguardi della speranza tanto infelici? E quelli che rimanevano per tanto tempo da lei divisi, e che avevano da' loro stessi padri ricevuto l'infelice retaggio di tanta divisione, non hanno sentito negli estremi pericoli della loro virtù il bisogno della loro madre sempre tenera e sempre sospirosa sopra di loro? Duro è all'umana natura sentirsi strappare tanto dalla virtù, che non si possa oggimai più ingannare sulla sua perdita e ch'ella debba confessare a sé stessa, senza escusazione veruna, di non essere più virtuosa. Così si discioglie il protestantesimo da sé medesimo come perisce il naufragio gittato dall'onde sopra una spiaggia disabitata; e l'incredulo da lui generato torna indietro, come il fanciullo piangente smarrito in una immensa foresta per essersi allontanato dalla sua madre. E che conforto di letizia non debbe aver portato al capo della Chiesa di Gesù Cristo il vedere che quando, inalzando la sua voce di pace e di universale benevolenza, proclamò agli uomini inaspriti tuttavia delle recenti fazioni, e ancor ringhiosi sui beni caduchi di questa terra, universale perdono dal cielo e condizione di universale perdono fra loro e di scambievole compatimento in nome del comun Redentore, trovò mille schiere che risposero alla sua voce colle lor voci di compunzione e di ravvedimento ed il mistico corpo di Cristo, la cui prima legge è d'avere un cuor solo ed un'anima sola, si rinforzò di santi proponimenti, si rabbellì di nuove grazie e di nuove virtù? Nessuno forse avrebbe preveduto il frutto raccolto dal giubileo pubblicato da Leone XII, se fino l'estremo Oriente non si fosse mosso a darne dei segni, e la capitale del protestantesimo non avesse solennizzato il grido di pace e di riconciliazione. Finalmente qual sintomo di vita più manifesto che questi uomini, che si sollevano improvvisamente su tutto ciò che pensa e che opera sulla terra; che si francano da tutti i pregiudizi, e quasi non fossero mai stati al contatto, per così dire, dè' loro simili, sembrano abitatori di regioni più pure e più innocenti: di questi uomini che accusano qualche cosa in se stessi che gli sforza ad alzare la voce, e di chiamare in giudizio il lor secolo; di questi uomini che con una parola resa potente dal zelo de' primi tempi della Chiesa ci atterriscono, senza avvilirci, e ci annunziano, come dicevo, l'ira del cielo sopravveniente, insegnandoci ad un tempo la via di declinare lo scoppio! Ed è certamente l'educazione delle venienti generazioni uno di que' preziosi mezzi che possono mettere il mondo al coperto dalle estreme sciagure, e fargli acquistare un aspetto meno odioso, per così dire, agli occhi dell'Onnipotente: è l'educazione quella che può cogliere i frutti della vittoria e riparare le devastazioni della guerra; quella che può ridurre di bel nuovo all'aperta luce la timida virtù rinserrata ne' cuori e restituire ad essa l'imperio intero del mondo sì visibile che invisibile: è l'educazione quella di cui si contesta il bisogno da tutti, e si sente nella stessa misura che quello della religione; quella che si domanda ai pastori de' popoli, e che i sapienti che trattano la causa degli uomini, sollecitano qual mezzo di salute, acciocchè egli non giunga forse troppo tardi, e quando già il male sia divenuto irreparabile. Ma egli parmi che, quanto è vantaggioso che si senta altamente l'importanza delle salutari istituzioni, altrettanto è necessario che venga indicata la maniera di eseguirle, o almeno che ne sieno disegnate le basi su cui se n'eriga con solidità l'edificio; conciossiachè una fabbrica fatta a caso rovina, o è disagiata, od inopportuna. Ed è tanta la scarsezza di questo sapere di modo di ben eseguire, che talora sembra fino che con soverchia severità sia sgridato il genere umano dai più ardenti zelatori della virtù e della religione perch'egli non faccia tant'opere salutari e necessarie. Non è egli tanto che non voglia fare, ma è più tosto ch'egli non sa: egli è così poco operoso, perché nell'esecuzione delle opere gli si contrappongono tali ostacoli, che fanno assai ben conoscere come per ottenere alcun fine non basta averlo semplicemente affissato coll'occhio, se non si ha posto altresì attenzione e diligenza né mezzi; è perché egli è stordito da una moltitudine di ragionamenti veri e falsi, generosi e vili, religiosi e ipocriti, filosofici ed empi, che il confondono ed il lasciano indeterminato, ed instupito. Il che tutto interviene nelle istituzioni sociali a' dì nostri, dove le opinioni ed i pregiudicii fanno insieme una lotta incessante, e l'affrontamento di circostanze imprevedute rende inutile, o dannoso fors'anche, per gli effetti accessorii che produce sull'uomo, ciò che utilissimo pur dovrebb'essere ed è, considerato solo l'effetto suo principale, o, per dir meglio, l'effetto preso direttamente di mira dalla istituzione. (da: A. Rosmini, Sull'unità dell'educazione, Brescia, La Scuola, 1950, pp. 27-37) Il neoidealismo italiano Nel celebre Sommario di pedagogia (apparso nel 1913) il carattere "scientifico" della pedagogia è ricondotto da Gentile alla sua dimensione filosofica, formulando una tesi che peserà a lungo sulla cultura pedagogica italiana, che rimarrà sostanzialmente estranea agli sviluppi delle scienze dell'educazione fino agli anni Cinquanta. Nei passi che seguono Gentile formula alcune delle affermazioni fondamentali del suo sistema filosofico, con particolare riferimento al carattere dell'educazione. La scelta antologica è integrata da alcuni passi tratti dalle Lezioni di pedagogia generale (del 1916) di Lombardo Radice, che mettono in evidenza le notevoli differenze d'impostazioni ravvisabili tra i due pensatori. Giovanni Gentile [...] Abbiamo cercato di chiarire un solo concetto, quello dell'uomo; e abbiamo trovato che l'uomo è la stessa realtà universale considerata nella sua attualità, per cui è soggetto; e che ogni altra forma di realtà, nella quale par di vedere qualche cosa più o meno del soggetto, è una forma astratta, non corrispondente alla realtà attuale, ossia alla realtà qual è quando si attua. La trattazione di questo concetto è, s'intende, l'abbozzo di una scienza: di quale? Il battesimo della scienza in cui ci siamo messi potrebbe aiutarci per un utile orientamento; come a chi si trovi in luoghi nuovi e non più veduti, apprendere il nome è una luce opportuna per ritrovare la via, se gli soccorra qualche nozione anche elementare e approssimativa di topografia. Antropologia essa è certamente, se la parola si prende nel senso che la voce suona, di scienza dell'uomo. Ma non è antropologia che dell'uomo fa una specie, ancorchè la suprema e privilegiata, tra le specie animali. Psicologia è, poiché l'uomo per noi consiste nel processo psichico. Ma non è psicologia che descrive le forme astratte dei fatti psichici, considerati come fatti, analoghi ai fatti naturali, ancorché d'altra sorta, e da trattarsi perciò con gli stessi criteri e metodi delle scienze naturali, che in tutto vedono materia e meccanismo; perché la nostra psicologia è la confutazione dei principii e delle proposizioni fondamentali di una tale psicologia. E la psicologia, come scienza analoga alle scienze naturali, muove dal concetto di un fatto psichico che sia una categoria tra le categorie dei fatti naturali; laddove, se è vero tutto quello che noi abbiamo discorso, il fatto psichico, che è propriamente un atto, non esclude nessun fatto da sè, ed è l'atto in cui si concentra e risolve la vita non pure del corpo e di un corpo, ma di tutto. Metafisica, piuttosto, è da dirsi in quanto ha per oggetto un essere che è l'essere, fuori del quale non c'è altro; o, con parola meno sospetta, filosofia, che non ha propriamente altro significato. In questa filosofia, per altro, il problema dell'essere né ha quella generalità, che importi la necessità di quelle trattazioni speciali, onde par che la filosofia generale si articoli in talune filosofie speciali (donde, da una parte, la metafisica, o logica; e dall'altra, o la fisica e l'etica, come per gli antichi, o la filosofia della natura e la filosofia dello spirito, e simili, come per i moderni); né quella particolarità, per cui nell'Herbart, p. es., la metafisica, come filosofia puramente teoretica o scienza di quel che è, aspetta il suo compimento dall'estetica, o pratica, scienza di quel che dev'essere. Non ha quella generalità, perché, liberandosi da ogni formalismo, essa non considera uno schema o un tipo o una legge astratta della realtà, ma la realtà stessa nella sua assoluta concretezza, oltre la quale non è possibile concretezza maggiore; ossia la realtà come legge a se stessa nella sua attualità. Nè questa particolarità, perché qui l'essere non è concepito come realmente distinto dal dover essere, il fatto dalla legge, l'accadere psichico dall'ideale; ma i due termini sono unificati in guisa da costituire un'assoluta unità; unità del processo reale, che è processo spirituale, e però non ha niente di esterno a sè da attuare, ma attua se stesso: non è fatto, dicemmo, o semplice accadere, ma atto assoluto, e però intrinseco valore. E se il fare che non è effetto, ma causa di se stesso, farsi, è libero; l'essere, di cui si è discorso, e il processo psichico in cui l'essere si è risoluto, non sono natura e meccanismo, ma assoluto spirito, fin da principio ed essenzialmente, o libertà. Come scienza universale e concreta, questa filosofia non ammette né integrazioni nè specificazioni. Il punto, a cui siamo pervenuti, non è tappa da sorpassare; è la meta d'ogni ricerca. Il solo svolgimento di cui è suscettibile, è della stessa natura di ogni spirituale svolgimento. Infatti se il reale è uno, il suo concetto, o coscienza che esso abbia di sè, non può essere che uno: ma come cotesto reale è storia, diversificazione di sè da se stesso e insieme unificazione in sè d'ogni sua molteplicità; svolgimento interno, quindi, di carattere storico; così anche il concetto di cotesto reale, la filosofia, si realizza eternamente come processo storico di alienazione da sè e di ritorno a sè. Processo, attraverso il quale la filosofia stessa apparisce nelle forme più diverse; le quali, astrattamente considerate, non sono filosofia, ma, considerate ad una ad una nella loro attuale concretezza, si risolvono tutte nell'unità immoltiplicabile della filosofia. Così dalle analisi precedenti dovrebbe essere apparso come la psicologia, l'antropologia, le scienze naturali, in genere, al pari delle scienze filosofiche, si risolvano nella filosofia. La risoluzione non mira già, come esplicitamente osservammo, a far disparire gli oggetti rispettivi di tali discipline, bensì a dimostrare qual è il punto esatto, a cui convien collocarsi a fine d'intendere la reale natura di ciascuno di essi, né può quindi significare che tali discipline siano grossolani errori di cui giovi purgare lo spirito scientifico; sibbene che ognuna di tali discipline si attiene all'apparenza estrinseca del reale, e non coglie nel vivo la verità che alla stessa apparenza vien conferita dalla natura intrinseca che la sostiene. Si può dire che ogni disciplina, per astratta e particolare che sia, è vera; ma di una verità che aspetta di essere ancora approfondita, e non si può approfondire dal punto di vista di essa, ma solo da questo della filosofia, in cui essa si risolve. In questo senso puramente critico la filosofia, [...], è capace di svolgimento, o, come si dice meno propriamente, di applicazione al problema pedagogico. In tutti i tempi la filosofia s'è trovata ad avere nel suo seno il problema dell'educazione. Il quale si presenta sempre sotto due aspetti fondamentali, che danno luogo a due forme principali della pedagogia; ma così per l'uno come per l'altro rientra di pieno diritto nel dominio della speculazione filosofica. Questi due aspetti del problema pedagogico corrispondono ai due aspetti della realtà, che abbiamo più d'una volta rilevati nell'atto spirituale; quei due aspetti, che non sono (non occorre quasi più avvertirlo) due forme o facce o parti della realtà stessa, ma quasi i due occhi, con cui noi possiamo guardarla. Con uno vediamo la realtà come qualche cosa che è quella che è: come una legge che non cessa di esser legge perché ci paia dura (dura lex, sed lex). Non è né buona né cattiva in sè; e il filosofo non troverà ragionevole né lodarla o biasimarla, gioirne o piangerne, ma, come voleva Spinoza, il più strenuo teorico della realtà veduta con questo occhio, vorrà solo intenderla. Con l'altro vediamo invece una realtà che si può discutere se sia o no realizzata, se sia tutta o parte realizzata, ma che sarebbe degna veramente di diventar realta, e tutta realtà. Nè, per isforzi che si faccia di non adoperare altro che il primo di questi due occhi, si può fare a meno del secondo. Spinoza, quella sua dottrina della realtà che è quel che è, come un triangolo che contiene e non può, data la sua natura, non contenere due angoli retti, l'espone in un trattato di Etica, onde l'uomo, liberato dalla servitù delle passioni e dagli errori della fluttuante immaginazione, mira ad acquistare la libertà della mente consapevole della natura del reale e beata nell'amore intellettuale di Dio: un trattato che, a parte l'intento esplicito di purificazione etica e eudemonologica dello spirito umano, - questo amore intellettuale di Dio, che è intelligenza e adesione al vero, e che sarebbe assurdo se la realtà, e quindi anche l'uomo schiavo delle passioni ed errante tra le ambagi della fantasia, fosse paragonabile a un triangolo contenente in eterno due angoli retti; a parte ciò, vuol essere, come ogni trattato, la dimostrazione di una verità, ossia di qualche cosa in cui tutti debbono consentire. Appena l'uomo dica, magari soltanto questo, che il mondo è quel che è e non quel che dev'essere, egli col fatto della sua affermazione pone già un'esigenza: afferma che si deve convenire in quel che egli assevera; afferma cioè la realtà del vero; che non è più un fatto, ma appunto un'esigenza, un postulato, una norma, una idea. Nè è possibile cavarsi l'occhio del fatto, dell'essere qual è, per vedere solo la bellezza dell'idea, dell'ideale, della norma del reale, o del reale come norma. Questa era la tendenza di Platone; e quella tendenza, attraverso il Neoplatonismo, andò a finire in Spinoza. Giacchè la norma stessa, appena cessi di considerarsi norma dell'essere, e si faccia essa stessa essere, si converte appunto in fatto: qualche cosa che è quel che è, e che perciò si priva del suo valore. Onde gli astrattisti hanno finito col mettere da una parte l'essere, e dall'altra quello che esso dev'essere (il dover essere): come dire, che l'essere non sia mai quel che dev'essere, e però la norma rimanga sempre una norma: impotente, prigioniera della sua schiva e superba eccellenza sulla realtà effettuale. Tralasciando per ora di additare l'errore di tale astrattezza, è incontestabile l'esistenza dell'uno e dell'altro occhio, voglio dire la nacessità della doppia considerazione del reale. E però è chiaro che il concetto dell'uomo è capace di atteggiarsi a volta a volta come l'uno o l'altro di due concetti affatto diversi: secondo che si guardi all'uomo qual è, o all'uomo quale dev'essere: alla feccia di Romolo, come diceva immaginosamente il Vico, o alla repubblica di Platone; secondo che si guardi alle leggi naturali o costitutive della natura immediata dell'anima umana, o ai fini, ai bisogni, alle aspirazioni di essa. Si paragoni Machiavelli e Savonarola. Ambidue convinti della profonda corruttela italiana del Rinascimento, l'uno v'affisa lo sguardo, per studiarla, questa corruttela, con la serenità dello scienziato, che pare cinismo, persuaso che non ci siano altre forze, sulle quali fare assegnamento, oltre quelle operanti nella corruttela medesima; l'altro calpesta sdegnato e fremente questo mondo vano e corrotto, richiamando, con accesa eloquenza, ideali, che non hanno radice in quella società, ma che egli vorrebbe suscitarvi a rinnovamento degli spiriti. La "realtà effettuale" del Machiavelli era l'essere; il "regno di Gesù Cristo" che il Savonarola voleva in Firenze, era un semplice dover essere. Ma l'essere non è mai tanto essere, che Machiavelli non possa fare sprizzare a forza dalla sua teoria del meccanismo sociale un ideale patriottico; né il dover essere è mai tanto un dover essere da costringere il Frate ferrarese a non mescolarsi, la parte sua, in quel brutto mondo, non foss'altro per atterrirlo con i fulmini delle sue prediche. Don Abbondio, [...] se ne sta all'essere, persuaso che il coraggio uno non se lo può dare; ma il cardinal Federigo è fermo invece al dover essere, sicuro che il coraggio uno deve darselo. Orbene, secondo che si considera l'uomo in un modo o nell'altro, il problema della formazione dell'uomo, che è il problema dell'educazione, ha un diverso significato: perché una volta siamo innanzi a una realtà meccanica, e un'altra volta a una realtà teleologica. La formazione dell'uomo è, infatti, il processo dello svolgimento umano; e questo processo può essere inteso come processo meccanico, in quanto si risolve in una serie di effetti ciascuno dei quali dipende da una causa; e come un processo teleologico in quanto si risolve in una serie di atti, diretti tutti a un fine. L'astrattezza dei due concetti fa sì che l'uno non possa non essere contaminato dall'altro: donde temperamenti da una parte e dall'altra, i quali non annullano la tendenza diversa dei due concetti. Così è che la filosofia ora si è trovata innanzi al problema: come si forma l'uomo? Come si sviluppa lo spirito umano? Quali sono le leggi della formazione umana o mentale? Ed ora innanzi a quest'altro: come si deve formare l'uomo? Qual è l'uomo che dobbiamo formare? Nel primo caso, com'è ovvio, passa in seconda linea il secondo problema; nel secondo caso, il primo. Chi cerchi per quali vie o mezzi l'uomo riesce uomo, presuppone tacitamente di sapere, anzi che si sappia, e sia convenuto, che cosa è quest'uomo, e a che mena il suo processo di formazione. Chi discute invece del fine a cui si deve indirizzare l'educazione dell'uomo, suppone che l'altra questione non presenti difficoltà, parendogli che basti proporsi la vera mèta, perché si sappia senz'altro la via da percorrere. Se si dice psicologia la scienza dello sviluppo naturale dello spirito, ed etica la scienza dei fini a cui deve mirare questo sviluppo, il problema pedagogico ora apparirà come psicologia, ora come etica: ma, ripeto, non mai tanto psicologia, che questa psicologia non implichi un'etica; né, per converso, mai tanto etica, che questa non implichi una psicologia. Ora, si badi che, per l'avvertenza testé ripetuta, se la pedagogia apparisce, a guardarla da un lato, una psicologia, la psicologia sempre può essere considerata come una pedagogia (guardata, s'intende da quel solo lato, che è il meccanicistico). Voglio dire che, dal punto di vista psicologico, la pedagogia meccanica e la psicologia coincidono puntualmente, perché non c'è psicologia che possa tralasciare di considerare, come fatto psicologico, quella idealità etica che abbiamo detto essere implicita nella stessa pedagogia psicologica: di guisa che questo non è un carattere integrativo della psicologia specificamente pedagogica. E così, d'altra parte, l'etica, supponendo sempre un certo concetto dell'anima proporzionato ai fini che essa teorizza, coincide anch'essa interamente con la pedagogia etica. Ma fu un mero artifizio dell'Herbart, caduto affatto nel vuoto, quello di riunire ecletticamente psicologia ed etica nel concetto di pedagogia, concepita come la scienza che si serva delle cognizioni psicologiche per la formazione dell'uomo alla virtù. A parte la scorrettezza gnoseologica del concetto di praticità introdotto nel concetto di una scienza [...], l'unificazione della psicologia con l'etica, concepite le due discipline, come le concepisce Herbart, l'una fuori dell'altra, l'una come la scienza della pura causalità psichica, l'altra come scienza dei fini, l'unificazione vera non è possibile per la semplice ragione che quella psicologia ha la sua etica dentro di sè, incompatibile con quella etica con cui essa pedagogicamente si dovrebbe integrare; e dicasi altrettanto dell'etica. Prima dell'Herbart e dopo, nella storia della filosofia, questo problema gnoseologico della pedagogia non è stato preso in considerazione mai. Eppure una trattazione sistematica, ossia rigorosamente orientata e coerente, della dottrina dell'educazione non è possibile se non si viene a capo della questione intorno alla sua natura. Il pedagogista deve prender partito, o con la psicologia, o con l'etica: o con don Abbondio, o col cardinal Federigo! Ma la soluzione di questo problema pedagogico non avrebbe potuto esser data da una filosofia incapace di superare il dualismo di psicologia ed etica, poiché s'è visto che la pedagogia è psicologia per un verso ed etica per l'altro. E diciamo dualismo di psicologia ed etica, per usare i due termini che dal principio del secolo passato (da Herbart in poi) sono in campo in tutte le definizioni della pedagogia. Ma si può egualmente dire ogni dualismo, in cui si rappresenti in genere l'illustrata opposizione di quel che è e di quel che dev'essere: fatto e valore, causalità e fine, natura e spirito, legge e norma spirituale, necessità e libertà, ecc. Viceversa, la soluzione è già data quando la filosofia abbia superato siffatti dualismi. Quando si sia capito che non c'è psicologia che non sia etica, nè etica che non sia psicologia, che non c'è fatto che non sia l'instaurazione di un valore, né causa che non sia posta dal suo effetto, né natura che non si spiritualizzi, né necessità che non sia la stessa assoluta autodeterminazione dello spirito (autoctisi). Allora non c'è più una psicologia e un'etica tra cui scegliere: c'è la filosofia, e s'impone il concetto che la pedagogia è la filosofia. Giuseppe Lombardo Radice Empiricamente (cioè se si considera l’educando singolo, astraendolo dal vivo nesso della realtà spirituale) l’educazione comincia da un dato momento e quindi, se l’educare nell’universalità sua non ha presupposti, nella concreta particolare situazione del singolo sul singolo ha sempre a presupposti certi caratteri ereditari, una data indole, determinate abitudini, un certo ambiente. Bisogna risolverli nell’attività dell’alunno educatore di sé. Giacchè la nuova verità non resta inoperosa: fa della esperienza interna dell’alunno un altro tutto, cioè riopera sull’insieme delle verità già conseguite da lui, determinando un nuovo assestamento di esse, in cui trovi il posto che prima non aveva. Poco o molto, qualunque, anche una piccola verità (piccolo è un modo di dire chè la verità ha un’universalità indefettibile) determina una nuova anima, cioè un alunno nuovo, diverso da quello prima conosciuto dal maestro, e che il maestro deve ancora conoscere e far intimo a sé. Giacchè un maestro non è un dio, e non sa perciò gli intimi nuovi movimenti dell’anima dello alunno, e i mille delicatissimi allacciamenti della verità che gli ha comunicato con la totalità della esperienza di lui. Anzi via via che l’alunno guadagna in maturità e profondità di vita interiore, il maestro sente più grave il problema, perché più delicata e più complessa si fa la trama (a dir così) della personalità dell’alunno e più arduo diventa l’atto educativo. L’identità spirituale di maestro e di alunno è stata spesso negata da moderni scrittori, avversarii dell’idealismo, pel desiderio – dicono – di non confondere. C’è il maestro e c’è l’alunno: ogni educazione postula due persone: che strano paradosso è quello pel quale si sostiene che il maestro è l’identico dello scolaro? Ma potremmo considerare come una ingenuità questo inalberarsi della coscienza volgare di fronte alla verità filosofica, se non nascondesse una giusta esigenza anche esso. La coscienza volgare non è nulla di spregevole, è semplicemente un momento della coscienza, in sé rispettabile, ma inadeguato rispetto a un altro superiore ad esso, che non lo nega se non comprendendolo e integrandolo. Nessuno può dimenticare la dualità di maestro e di alunno: ma questa dualità va intesa come un dualizzarsi incessante, che è motivo di una nuova interiorizzazione reciproca ed unificazione. Dualità come dualizzarsi: unità come unificarsi. Ed è questa un’altra prova della infinità dell’educazione: essa risolve un problema, solo ponendone un altro, il che non fa diminuire punto la fede nell’educazione, anzi significa che l’educazione ha eternamente un’intrinseca ragione d’essere, che ogni azione educativa è, per se stessa, un impegno a un’azione educativa più elevata, e che noi non educhiamo oggi se non per educare di più domani. Il pessimismo pedagogico dovrebbe poter dimostrare come perduto uno sforzo educativo; per noi invece – è chiaro da tutta la nostra teoria – nessuna azione educativa è perduta, perché ognuna è, nel suo ambito, una perfetta unificazione e quindi una elevazione sulla mera individualità scissa e aspirituale. La falsità del pessimismo è radicalmente insanabile. Ma non meno volgare del pessimismo sarebbe quell’ottimismo pedagogico che considerasse come possibile la definitiva attuazione dell’ideale e carezzasse in fantasia una umanità di angioli, un mondo che non può essere posto se non da un sentimentalismo dolciastro e stucchevole: un mondo senza lotta, un paradiso terrestre in cui non ci fosse più null’altro da fare che contemplare la propria perfezione ed andare in sollucchero per quella degli altri. A un tal mondo sarebbe da preferire la più selvaggia barbarie, che è pure vita, una 'prima' vita ricca d’un suo dinamismo e però più vicina a Dio che non l’immobilità d’un bene che appunto perché inalterabilmente fermo non sarebbe nemmeno più bene: una potenza tutta risoluta nell’atto: un atto senza più potenza di farsi. Una coscienza stagnante, e per nulla "milizia". Il nostro ottimismo ci dice: abbi fede che ogni creazione della tua coscienza e di ogni altra coscienza da te suscitata servirà necessariamente di base all’ulteriore vita della coscienza umana, in universale; abbi fede che l’educazione, sia pure d’un piccolo bambino ancor balbettante, sia pure l’educazione di un giorno e di un’ora, è in sé qualcosa di eternamente durevole. Educare è vivere nell’eterno, svolgere l’eterna opera dello spirito, prostrando l’anima con umiltà, ma con ardente gioia. A guisa di riepilogo e insieme di conferma, diciamo qui che cosa sia diseducazione, raccogliendo nella definizione di atto antieducativo tutte le note opposte a quelle additate come costitutive dell’atto educativo. Come si diseduca? Poniamo col sussidio del più comune buon senso (al quale la filosofia non è opposta, essendo anzi la sua giustificazione razionale) uno scelto elenco di casi tipici fra i mille possibili. Diseduca chi nel rapporto educativo con altri è dominato dalla sua passione. L’ira che proporziona il rimprovero e il castigo alla irritazione e allo sdegno del cosidetto educatore, ma non alla coscienza del colpevole, dentro la quale pur dovrebbe trovare la sua giustificazione; l’amore che si astiene dalla repressione del male perché teme di sentirsi divenire avverso l’amato a cagione della repressione stessa, o perché non può sopportare l’idea di essere verso l’amato altrimenti che carezzevole; sono atteggiamenti dell’educatore parimenti diseducativi, in quanto non realizzano una unità spirituale, e rendono il presunto educatore, rispettivamente tiranno o schiavo, tormentatore o vezzeggiatore. Peggio si diseduca quando si è dominati nei nostri rapporti cogli altri da passioni e da interessi altrui. Educare per "commissione" di altri e secondo la volontà altrui – quasi educare "su misura", contro o senza una propria fede – sarebbe opera servile. Il fattore ultimo di una presunta simile educazione sarebbe l’egoismo dell’educatore, pauroso di sgarrare e di incorrere nel rimprovero dei suoi padroni o nel licenziamento. Così questo caso somiglia al precedente, implicando la stessa passività verso se stesso. Parimenti si è passivi quando non si sente la propria verità intellettuale o morale come un problema, ma solo come una soluzione e non si è capaci di fare ridiscendere le soluzioni a problemi, per sentire le difficoltà dell’alunno e accompagnarlo nel suo sforzo. In tal caso l’educatore fa ripetere, non trovare, appunto perché ripete egli stesso, schiavo del suo sapere "bell’e fatto" e delle sue abitudini mentali. Altra passività possibile: la boria magistrale di chi diseduca perché si sente "solo autorità" e negli atti degli altri non vede che il riconoscimento o l’offesa alla sua "autorità". Non si educa restando lontani da quelli alla cui formazione siamo preposti, per umili che essi sieno; e non riconoscendo una personalità se non a se stessi! Ancora (chè l’elenco è lungi dall’essere esaurito): diseduca il feticismo della regola, che astrae gli atti dell’alunno dalla coscienza che li ha prodotti e li considera per sé, commisurandoli alla regola adottata, parte di una specie di "codice dell’educazione". (da: G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, Firenze, Sansoni, 1934, vol. I, pp. 109-119; G. Lombardo Radice, Lezioni di pedagogia generale. L'ideale educativo e la scuola nazionale, Palermo, Sandron, 1961, pp. 38-40; 65-66) Maria Montessori La vicenda editoriale del capolavoro montessoriano, Il metodo della pedagogia scientifica applicato all'educazione nelle Case dei bambini (1909), è alquanto complessa; l'opera fu più volte pubblicata, subendo ampi rimaneggiamenti e, nel tempo, anche il titolo cambiò e divenne La scoperta del bambino, con il quale l'opera è oggi universalmente conosciuta. Qui riprendiamo le pagine dedicate alla questione fondamentale per la Montessori del carattere autenticamente scientifico della pedagogia. Che cosa è uno scienziato? Non certo colui che sa maneggiare tutti gl'istrumenti di fisica di un gabinetto o che nel laboratorio di chimica rimaneggia con sicurezza tutti i reattivi: o che sa in biologia improntare i preparati microscopici. Anzi molto spesso persone assai al di sotto degli “scienziati”, come sarebbero gli assistenti o i semplici preparatori, sono essi, non lo scienziato, che hanno la più gran sicurezza della tecnica sperimentale. Noi chiamiamo scienziato la figura di colui che nell'esperimento ha sentito un mezzo conducente a indagare le profonde verità della vita, a sollevare un qualche velo dei suoi affascinanti segreti: e che in tale indagine ha sentito nascere dentro di sé un amore così passionale pei misteri della natura, da dimenticare se stesso. Lo scienziato non è il maneggiatore d'istrumenti – è il religioso della natura. Questo sublime innamorato porta della sua passione, come un monaco, i segni esterni: noi chiamiamo scienziato quegli che vive oramai nel suo gabinetto senza più sentire il mondo esteriore, quasi un trappista del medio evo; quegli che è trascurato nel vestire, perché non si ricorda più di se stesso; quegli che è instancabile nel guardare al microscopio, diventa cieco; - quegli che si inocula la tubercolosi, ingerisce gli escrementi di colerosi, nell'ansia di conoscere i veicoli di trasmissione delle malattie; quegli che sa come un preparato chimico possa essere esplosivo, ma pure tenta la sua sintesi, e rimane fulminato. Ecco lo spirito dell'uomo di scienza, al quale natura voluttuosamente rivela i suoi segreti, coronandolo con la gloria della scoperta. Esiste dunque uno “spirito” dello scienziato. E lo scienziato è al culmine della sua ascesa, allorché lo spirito ha trionfato sul meccanismo; da lui la scienza avrà non solo nuove rivelazioni della natura, ma sintesi filosofiche di pensiero. Ora io credo che dobbiamo preparare nei maestri, più lo spirito che il meccanismo dello scienziato: cioè l'indirizzo di preparazione deve essere verso lo spirito, anziché verso il meccanismo. […] Noi dobbiamo indirizzare il maestro, pur limitatamente agli scopi che si prefigge il suo ufficio, sulla via dello “spirito scientifico”. Cioè dobbiamo far nascere nella coscienza del maestro l'interesse alla manifestazione dei fenomeni naturali in genere, fino al punto che ami la natura, e che conosca l'aspettativa ansiosa di chi ha preparato un esperimento onde attendere la rivelazione. Gl'istrumenti sono come l'alfabeto e bisogna saperli manovrare, per poter leggere nella natura; ma come il libro che contenga la rivelazione dei più grandi pensieri di uno scrittore ha nell'alfabeto il mezzo di comporre la lettera delle sue parole; così la natura sotto il meccanismo dell'esperienza ha l'infinita serie di rivelazione dei suoi segreti. Ora chi compitasse potrebbe leggere a rigore le parole del sillabario, come quelle di un'opera di Shakespeare, purché in quest'ultima la stampa fosse abbastanza chiara. Chi è iniziato solo all'esperimento bruto – è come colui che compita il senso letterale delle parole in un sillabario; e a tale livello lasciamo i maestri, se limitiamo la loro preparazione al meccanismo. Dobbiamo invece renderli interpreti dello spirito e colti dello spirito della natura; similmente a colui che pur avendo un giorno imparato a compitare, giunge a leggere a traverso i segni grafici il pensiero di Shakespeare, o di Goethe, o di Dante. Come si vede la differenza è grande e la via è lunga. Tuttavia il primitivo nostro errore era naturale: il bambino che ha finito il sillabario ha l'illusione di saper leggere; infatti egli legge le insegne delle botteghe, i titoli dei giornali, e ogni parola e frase che eventualmente gli capiti sotto gli occhi. E' molto semplice l'errore nel quale egli cadrebbe se, entrando in una biblioteca, s'illudesse di saper leggere il senso di quei libri. Ma provando sentirebbe che “saper leggere meccanicamente” è nulla, e uscirebbe dalla biblioteca per andare ancora a scuola. Così è dei maestri che abbiamo creduto di preparare alla “Pedagogia Scientifica”, insegnando loro Antropometria e Psicometria. Mettiamo da parte le difficoltà di preparare i maestri-scienziati nel senso accennato, non facciamo neppure il tentativo di un programma, perché altrimenti occorrerebbe deviare in un argomento che qui non è nostro scopo. Supponiamo invece di aver preparato già i maestri, con lunghi esercizi, all'osservazione della natura, e di averli condotti, p.es., al grado di quegli scienziati zoologi, che si alzano di notte, per andare penosamente tra i boschi, a sorprendere il risveglio e le prime manifestazioni di vita diurna di qualche famiglia d'insetti che li interessano; - ecco lo scienziato che potrebbe essere assonnato e stanco del cammino, ma che è vibrante di vigilanza: il quale non si accorge se è infangato o polveroso, se la nebbia lo bagni e se il sole lo bruci; ma solo è intento a non rivelare minimamente la presenza di se stesso, affinché gl'insetti per ore e ore compiano pacificamente le loro funzioni naturali ch'egli vuole osservare. Supponiamo che siano al grado di quello scienziato il quale già miope, sapendo come ciò affatichi la sua vista, pure osserva al microscopio degli infusori nei loro movimenti spontanei – e gli sembra che nel modo di scansarsi l'un l'altro e nel modo di scegliere il nutrimento, siano forniti di una crepuscolare coscienza; e poi perturba quella vita pacifica con uno stimolo elettrico, osservando come alcuni si raggruppino al polo positivo e altri al negativo; e quindi esperimenta uno stimolo luminoso, e vede come alcuni corrano verso la luce e altri ne rifuggano; e indaghi tali fenomeni di tropismo: - sempre fissando la mente sul problema se quell'accorrere o fuggire agli stimoli sia della stessa natura dello scansarsi, dello scegliere il cibo; cioè se sia dovuto a scelta e a fenomeno crepuscolare di coscienza, anziché ad attrazione o a repulsione fisica simile a quella della calamita e del ferro. E supponiamo che questo scienziato, accorgendosi che sono le due dopo mezzogiorno e che non ha ancora pranzato, senta la gioia di aver studiato in un gabinetto anziché in casa sua, ove lo avrebbero chiamato due ore prima, interrompendo insieme l'interessante osservazione e il digiuno. Supponiamo, dico, che il maestro sia arrivato (indipendentemente dalla sua cultura scientifica) a sentire un consimile, per quanto più attenuato, interesse nell'osservazione dei fenomeni naturali. Ebbene, tale preparazione non basterebbe. Egli infatti è destinato nel suo scopo definitivo, non già ad osservar insetti o infusori, ma l'uomo. E non l'uomo nelle manifestazioni dei suoi costumi diurni, quali quelle famiglie d'insetti, al loro risvegliarsi al mattino; ma l'uomo nel suo svegliarsi alla vita intellettuale. L'interesse verso l'umanità per chi vuole educarla, deve avere un carattere che connetta più intimamente l'osservatore e l'osservando, di quel che facciano lo zoologo o il botanico con la natura; e ciò è più intimo, è necessariamente più dolce. L'uomo non può amare l'insetto o la reazione chimica - senza attrito; quell'attrito che in realtà, a chi l'osserva senza passione, apparisce come una sofferenza, uno strappo alla vita propria, un martirio. Ma l'amore da uomo può essere più dolce e così semplice, che non il privilegiato dello spirito, ma le masse possano giungervi senza sforzo. E' necessario che i maestri, iniziati abbastanza nello “spirito di scienziati” - riposino nel sollievo che ben presto dovranno provare, diventando osservatori dell'umanità. Per dare un'idea di questa seconda forma di preparazione dello spirito, immaginiamo […] l'anima mistica dei primi seguaci di Gesù Cristo, i quali sentivano da Lui parlare di un Regno di Dio alto, grandioso al di là di quanto possa concepirsi sulla terra. E ad uno dei discepoli vien fatto di pensare come mai potranno essere i grandi, in questo Regno. E lo chiede con ingenua curiosità: “Maestro, e come sarà il più grande di tutti, nel Regno dei Cieli?” - A cui Cristo, carezzando il capo di un piccolo bambino che lo fissava incantato – rispose: “Chi potrà farsi simile a questo fanciullo, quegli sarà il più grande nel Regno dei Cieli”. Ora supponiamo un'anima ardentemente mistica, che osservi in tutte le manifestazioni sue il piccolo fanciullo, per imparare con un misto di rispetto e d'amore, di sacra curiosità, e di aspirazione alle supreme altitudini del Cielo la via della propria perfezione; e di porla nel bel mezzo di una classe, popolata da piccoli fanciullini. Ebbene, questo non sarebbe il nuovo educatore che vogliamo formare. Ma cerchiamo di fondere in un'anima sola lo spirito di aspro sacrificio dello scienziato – e quello di estasi ineffabile d'un tale mistico – e avremo completamente preparato lo spirito del “maestro”. Egli infatti imparerà dal fanciullo stesso i mezzi e la via per la propria educazione; cioè imparerà dal fanciullo a perfezionarsi come educatore. Immaginiamo uno dei nostri botanici o zoologi, pratico nella tecnica dell'osservazione e dell'esperienza, che avesse viaggiato, p.es., per istudiare sul luogo la peronospera – e avesse compiuto in aperta campagna le sue osservazioni; e poi al microscopio e in generale nel gabinetto, le ulteriori ricerche ed esperienze di cultura ecc.; o che avesse, p.es., studiato le zecche introducendosi nelle stalle e cercando negli escrementi degli animali; - che, infine, intendesse che cosa è studiar la natura, e conoscesse tutti i mezzi che la moderna scienza sperimentale offre per raggiungere tale scopo; - dico, immaginiamo uno di questi , in merito agli studi superati, a coprire un posto scientifico, con l'incarico di compiere delle ricerche nuove sugli imenotteri. E che giunto sul posto del suo destino, gli ponessero avanti agli occhi una scatola, coperta di un limpido vetro, sul fondo della quale fossero infilate con uno spillo e conservate delle belle farfalle morte ad ali spiegate. Il giovane studioso direbbe che quello è un gioco da bambini e non un materiale di studio da scienziati; che quelle preparazioni nella scatola sono il complemento alla ginnastica che fanno i ragazzi nei giardini pubblici, quando acchiappano le farfalle con una reticella sospesa a un bastoncino. Lo sperimentalista innanzi a quell'oggetto non potrebbe far nulla. Lo stesso sarebbe se ponessimo un maestro scienziato secondo il nostro concetto - in una delle nostre odierne scuole, ove i fanciulli sono soffocati nelle espressioni spontanee della loro personalità, come esseri morti; e fissi sul posto rispettivo, sul banco – come farfalle infilate a uno spillo; mentre dispiegano le ali del sapere aridamente acquisito, e che può essere simboleggiato da quelle ali, che hanno il significato di vanità. Dunque non vale preparare il maestro scienziato: occorre apportargli la scuola. E' necessario che la scuola permetta le libere manifestazioni naturali del fanciullo perché vi nasca la Pedagogia Scientifica: questa è la sua riforma essenziale. Nessuno potrà osare l'affermazione che tale principio sia già esistente nella pedagogia e nella scuola. E' vero che qualche pedagogista - auspice il Rousseau, - espresse fantastici principi e vaghe aspirazioni di libertà infantile: ma il vero concetto di libertà è affatto sconosciuto ai pedagogisti. Essi hanno spesso della libertà il concetto che se ne sono fatti i popoli nell'ora della ribellione alla schiavitù; o, in un grado più elevato, hanno un concetto di libertà sociale che è sempre ristretto, perché significa un gradino superato della scala di Giacobbe, cioè la liberazione di qualche cosa di parziale: di una patria, di una casta, del pensiero. La concezione di libertà che deve ispirare la pedagogia è invece universale: ce l'hanno illustrata le scienze biologiche del XIX secolo, quando ci offrirono i mezzi per istudiare la vita. Ond'è che se l'antica pedagogia avea intraveduto o vagheggiato i principi di studiare lo scolaro prima di educarlo, e di lasciarlo libero nella sue manifestazioni spontanee – tale intuizione appena espressa e indefinita - non può rendersi attuabile, pratica e perciò realizzabile, altro che dopo il contributo delle scienze sperimentali dell'ultimo secolo. Non è il caso di soffermarsi a discutere: basta provare. Chi dicesse che il principio di libertà informa oggi la pedagogia e la scuola farebbe sorridere, come un fanciullo che innanzi alle scatole delle farfalle infilate, insistesse ch'esse son vive e possono volare. Il principio di schiavitù informa tutta la pedagogia che si sta per sorpassare: e quindi lo stesso principio informa la scuola. Una prova – il banco. Ecco per esempio una luminosa prova degli errori della primitiva Pedagogia scientifica materialistica, la quale s'illudeva di portar le sue pietre sparse alla riedificazione del piccolo, crollante edificio della scuola. Esisteva il banco bruto e cieco ove si ammassavano gli scolari: viene la scienza e perfeziona il banco. In tale opera essa tutti contempla i contributi dell' Antropologia: le età del fanciullo e la lunghezza delle sue gambe, per modellare a una giusta altezza il sedile; con cura matematica calcola le distanze tra il sedile e il leggio, perché il dorso del bambino non si deformi nella scoliosi; e perfino (oh, profondità dell'intuizione e dell'adattamento!) separa i sedili – e li misura nella larghezza affinché il fanciullo ci stia seduto appena appena, sì da non potersi nemmeno sgranchire con mosse laterali, e ciò per essere separato dal vicino; e il banco è costruito in modo che il fanciullo sia il più possibilmente visibile nella sua immobilità: tutta questa separazione ha l'intento occulto di prevenire gli atti di perversione sessuale in piena classe - e ciò anche negli asili d'infanzia. Che dire di tale prudenza in una società ove sarebbe scandaloso enunciare dei principi di morale sessuale nell'educazione, per non contaminare l'innocenza? Ma ecco la scienza che si presta a questa ipocrisia, fabbricando macchine. Non solo; la compiacenza va più in là; la scienza perfeziona i banchi in modo da permettere al massimo punto possibile l'immobilità del fanciullo, o se si vuole, da risparmiargli ogni mossa. Così affinché lo scolaro sia incastrato bene nel suo banco, sì che esso lo forzi alla posizione igienicamente conveniente – ecco il sedile, il posapiedi e il leggio disposti in modo che il fanciullo non potrebbe mai alzarsi in piedi -; ma appunto perciò il sedile, a una mossa determinata, cade; il leggio si alza; il posapiedi si rovescia – e il fanciullo ha precisamente lo spazio di stare in posizione eretta. Su questa via i banchi progredirono in perfezione: tutti i cultori della cosidetta pedagogia scientifica ne idearono un modello; le nazioni, non poche, andarono orgogliose del loro banco nazionale -: nella lotta della concorrenza si comprarono brevetti e privative. Indubbiamente questo banco aveva alla base della sua costruzione molte scienze: l'antropologia con le misure del corpo e la diagnosi dell'età; la fisiologia nello studio di movimenti muscolari; la psicologia riguardante precocità e perversione d'istinti – e soprattutto l'igiene, tendente a impedire la scoliosi acquisita. Era dunque veramente un banco scientifico, avente per indirizzo di costruzione lo studio antropologico del fanciullo. Ecco un esempio delle applicazioni letterali della scienza alla scuola. Orbene io credo che non passerà molto tempo, e saremo tutti colpiti di gran meraviglia da questo fatto che sembrerà incomprensibile; cioè come dai tanti studiosi d'igiene infantile, di antropologia, di sociologia – nel progresso del pensiero a cui si è giunti sulla fine del primo decennio del XX secolo; - in tutte le nazioni ove una riscossa di protezione al fanciullo sembra essersi risvegliata -; non sia stato rilevato l'errore fondamentale del banco. Io credo che tra non molto la gente stupita vorrà proprio toccare con le mani i nostri banchi modello e rileggere coi propri occhi sui libri il loro scopo, illustrato da parole e da figure - quasi non credendo a se stessa. Il banco – aveva lo scopo d'impedire la scoliosi degli scolari! Cioè gli scolari erano sottoposti a un tal regime, che, pur essendo nati sani, potevano contorcersi nella colonna vertebrale e diventare gibbosi! La colonna vertebrale: la parte biologicamente primitiva fondamentale, più antica dello scheletro; la più fissa, perciò; mentre lo scheletro è la parte più dura dell'organismo. - La colonna vertebrale, che poté resistere senza piegarsi alle lotte più aspre dell'uomo primitivo e civile, quand'egli combatté contro i leoni del deserto, quando soggiogò i mammouth, quando scavò la pietra, quando piegò il ferro, quando sottopose la terra – non resiste, e si piega sotto il giogo della scuola. E' incomprensibile come la cosidetta scienza abbia lavorato a perfezionare un istrumento di schiavitù nella scuola, senza essere minimamente penetrata almeno da un raggio di luce del movimento che si svolgeva al di fuori, nell'opera di liberazione sociale. L'epoca dei banchi scientifici è pur l'epoca della redenzione dei lavoratori dal giogo del lavoro inumano. L'indirizzo è ben noto, e si ripete da tutti; lo ripetono i maestri del proletario e le masse dei proletari: i libri scientifici del socialismo e i piccoli giornali quotidiani. Il lavoratore denutrito non chiede dei ricostituenti, ma un miglioramento economico il quale impedisca la denutrizione: il minatore che per compiere durante troppe ore della giornata il suo lavoro stando piegato sul ventre, va soggetto alle ernie inguinali, non chiede i cinti erniari onde trattenere le intestina sfuggenti, ma chiede una diminuzione di ore e migliori condizioni di lavoro, in modo che possa continuare la vita sana come gli altri uomini. E se durante questa medesima epoca sociale noi constatiamo nella scuola, che i fanciulli sono lavoratori in cattive condizioni igieniche, contrarie al normale sviluppo della vita, fino al punto che ne può rimanere deformato lo scheletro – rispondiamo a così terribile rivelazione con un banco ortopedico. Sarebbe come offrire al minatore il cinto erniario e al denutrito l'arsenico. Tempo fa una signora, immaginandomi fautrice delle innovazioni scientifiche riguardanti la scuola, sottopose con evidente compiacimento al mio giudizio un busto per gli scolari – da lei inventato, onde completare l'opera profilattica del banco. Invero noi medici usiamo per la cura della deviazioni della colonna vertebrale più mezzi di terapia fisica: gl'istrumenti ortopedici, i busti e la impiccagione; cioè si sospende periodicamente per la testa e per la punta della spalla il bambino rachitico, in maniera che il peso del corpo distenda e quindi raddrizzi la colonna vertebrale. Nella scuola l'istrumento ortopedico è in gran vigore: il banco; oggi comincia qualcuno a proporre il busto; un passo ancora e sarà consigliata l'impiccagione metodica degli scolari. Tutto ciò è logica conseguenza di materiali applicazioni scientifiche alla scuola decadente. Altrettanto potrebbe dirsi della applicazioni dell'Antropologia e Psicologia sperimentale all'educazione, nella nostre odierne scuole. Evidentemente il mezzo razionale di combattere la scoliosi degli scolari è di cambiare la forma del loro lavoro; in guisa ch'essi non siano più obbligati a rimanere per molte ore del giorno in una posizione viziosa. E' una conquista di libertà, quella che occorre; non il meccanismo di un banco. Che se pure il banco fosse utile allo scheletro del bambino, esso sarebbe dannoso all'igiene dell'ambiente, per la difficoltà che presenta ad essere rimosso per le pulizie; mentre il piano su cui il fanciullo posa i piedi, non potendosi sollevare, accumula il polviscolo trasportato dalla strada ogni giorno, da tanti piccoli piedi che hanno camminato. Oggi il mobilio della case si trasforma nel senso di divenir sempre più leggero e semplice, affinché possa rimuoversi tutto con facilità, ed essere possibilmente pulito ogni giorno, se non addirittura lavato: ma la scuola è sorda alle trasformazioni dell'ambiente. Bisogna riflettere a ciò che avverrà dello spirito del fanciullo, allorché questi è condannato a crescere in modo tanto artificioso e vizioso, che le ossa ne restano deformate. Quando parliamo della redenzione dei lavoratori – intendiamo sempre che sotto alla piaga più apparente, come sarebbero la povertà del sangue, le ernie ecc., esiste l'altra piaga profonda, che colpisce l'anima umana nello stato di schiavitù: e a quella si mira direttamente, dicendo che il lavoratore deve essere redento nella libertà. Sappiamo bene che là dove un uomo ha consumato materialmente il suo sangue e dove il ventre emette le intestina – l'anima fu oppressa nelle tenebre, resa insensibile e forse uccisa. La degradazione morale dello schiavo, è quella che pesa soprattutto al nostro progresso, che vorrebbe elevarsi, e non può, con tale zavorra. E il grido di redenzione parla assai più delle anime, non dei corpi. Che diremo allorquando si tratta di educare i fanciulli? Conosciamo bene questo triste spettacolo. Nella classe c'è il maestro faccendiere, che travasa le cognizioni nelle teste degli scolari. Per riuscire nella sua opera è necessaria la disciplina dell'immobilità, dell'attenzione con larghezza di premi e di castighi, onde costringere a tale attitudine, coloro che sono condannati ad essere i suoi ascoltatori. Invero oggi si è convenuto di abolire le bacchette e l'abitudine delle percosse: come pure si è resa meno vistosa la cerimonia delle premiazioni, altro puntello alla scuola decadente approvato e ribadito dalla scienza. Questi premi e questi castighi, mi si permetta l'espressione, sono il banco dell'anima, cioè l'istrumento di schiavitù dello spirito; soltanto che qui esso non è applicato ad attenuarne le deformazioni, ma a provocarle. Il premio e il castigo sono una spinta verso lo sforzo, e allora non possiamo certo parlare di svolgimento naturale del fanciullo. Lo yockey offre pezzi di zucchero al cavallo da corsa prima di montarvi in sella; e il cocchiere frusta i suoi cavalli perché trascinino la carrozza secondo i segni dati dalle guide ch'egli maneggia: e pure nessuno di questi corre così superbamente come il libero cavallo delle lande. Lo zucchero e la frusta sono egualmente un giogo – necessario a domare la ribellione del nobile animale; e non solo uno stimolo a farlo rimuovere. E qui, nel caso dell'educazione, sarà l'uomo che aggioga l'uomo? - E' vero: si dice che l'uomo sociale è l'uomo naturale aggiogato alla società. Ma se noi diamo uno sguardo complessivo alla morale sociale, vediamo a poco a poco farsi più dolce il giogo. Cioè vediamo gradualmente tornare verso il trionfo la natura, la vita. Il giogo dello schiavo cedè a quello del servo, e questo a quello del lavoratore. Tutte le forme di schiavitù tendono a poco a poco a dileguarsi: anche la schiavitù sessuale della donna. La storia della civiltà è una storia insieme di conquiste e di liberazioni. Ora dobbiamo chiederci in quale momento della civiltà ci troviamo, e se veramente sia necessario il giogo del premio e del castigo per avanzare: poiché se noi avessimo realmente sorpassato questo gradino, tale forma di educazione sarebbe un trarre le nuove generazioni indietro verso il regresso dell'umanità. Qualche cosa di molto simile alla scuola corrisponde nella società alle grandi amministrazioni governative e ai suoi impiegati. Essi pure scrivono tutto il giorno per un vantaggio grandioso e lontano, di cui non risentono l'immediato vantaggio. Cioè che lo Stato proceda nei suoi grandi meccanismi per opera loro e che il vantaggio di tutti gli uomini che compongono il popolo della nazione sia dipendente dal loro lavoro, essi non lo percepiscono. Per essi è immediato bene la promozione, come per lo scolaro il passaggio della classe. Quest'uomo che perde di vista il suo alto fine è come un fanciullo degradato, è come uno schiavo ingannato: la sua dignità d'uomo è ridotta nei limiti della dignità di una macchina, che ha bisogno di olio per agire, perché non ha in sé l'impulso della vita. Tutte le cose più piccole, come il desiderio delle decorazioni, sono lo stimolo artificioso al suo arido e buio cammino: così noi diamo le medaglie di merito agli scolari. E il timore di non aver promozioni li trattiene dalla fuga e li lega al lavoro monotono e assiduo, come il timore di non passare la classe forza lo scolaro sul libro. Il rimprovero del superiore è in tutto simile alla sgridata del maestro – la correzione delle lettere malfatte, equivale al cattivo punto sul cattivo compito dello scolaro. Il parallelo è quasi perfetto. Ma se le amministrazioni non procedono nel modo eccellente che sarebbe necessario alla grandezza della patria; se la corruzione vi si infiltra non difficilmente – è per colpa di avere spento la grandezza dell'uomo nella coscienza dell'impiegato, e di avere ristretto la sua visione a quei fatti piccoli e vicini a lui, che possono per lui considerarsi come i premi e i castighi. Il potere col favoritismo molto può – perché agisce su cotesti scolari dello stato. La patria si regge perché la rettitudine della maggior parte dei suoi impiegati è tale che resiste alla corruzione di premi e di castighi; e s'impone quale corrente irresistibile di onestà: così come la vita nell'ambiente sociale trionfa contro ogni causa d'impoverimento e di morte, e procede alla conquista dei suoi nuovi trionfi, e come l'istinto di libertà atterra gli ostacoli, procedendo di vittoria in vittoria. E' questa forza intima e grandiosa della vita, forza latente spesso nell'incoscienza, - che manda avanti il mondo. Ma chi compie un'opera veramente umana, cioè grande e vittoriosa, non lo fa mai per piccola attrattiva di ciò che noi chiamiamo “castigo”. Se in guerra un numeroso esercito di giganti combattesse per la smania di conquistare promozioni, spalline o medaglie, e per il timore di venire fucilato; - e gli fosse contro un manipolo di pigmei infiammati d'amor di patria, la vittoria sorriderebbe a questi ultimi. Quando l'eroismo è finito in un esercito – i premi e i castighi non potranno far altro che compiere l'opera di disfacimento, infiltrandovi la corruzione. Tutte le vittorie e tutto il progresso umano riposano sulla forza interiore. Così un giovane studente potrà diventare un gran dottore se è spinto allo studio della sua vocazione; ma se lo è dalla speranza di un'eredità, o di un matrimonio, o di un vantaggio esteriore qualsiasi – mai diventerà vero maestro e gran dottore, e il mondo non farà un solo passo di progresso per opera sua. Che se poi occorrono addirittura i premi e i castighi della sua scuola o della vita familiare a fare studiare un giovane fino alla laurea – meglio è che questi non diventi affatto dottore. Ognuno ha una sua tendenza speciale e una speciale vocazione latente, forse modesta, ma certamente utile: il premio può deviare tale vocazione sul falso cammino della vanità: e così perturba o si annienta un'attività umana. Noi ripetiamo sempre che il mondo progredisce, e che bisogna spingere gli uomini ad ottenere il progresso. Ma se il progresso viene dalle cose nuove che nascono: ed esse non essendo prevedute, non sono premiate; anzi spingono spesso i precursori al martirio. Guai se i poemi dovessero nascere dal desiderio di conquistar l'alloro nel Campidoglio; basterebbe che quella visione rimanesse sola campeggiante nell'anima del poeta, e la musa sarebbe scomparsa. Il poema deve scaturire dall'animo del poeta quand'egli non pensa né al premio né a se stesso: e se pur giunge a ottener l'alloro, ne sente la vanità – e il vero premio suo sta nell'affermazione della propria forza interna trionfante. Esiste anche un premio esteriore per l'uomo: allorquando p.es. l'oratore vede la fisionomia degli ascoltatori alterarsi per l'emozione, prova qualche cosa di così grande, che può solo paragonarsi alla gioia intensa di chi scopre di essere amato. E' sempre toccare e conquistare le anime, il nostro godimento e il premio unico che sia vero compenso. A volte ci accade di attraversare degli istanti di felicità concessi agli uomini per continuare in pace la loro esistenza. O per un amor soddisfatto, o per un figlio concepito, o per un libro pubblicato, o per una scoperta gloriosa, noi c'illudiamo che nessun uomo esista al disopra di noi. Ebbene, se in quel momento una autorità costituita, o uno che s'atteggia a nostro maestro, ci viene innanzi con una medaglia o un premio, egli è il distruttore importuno del vero premio nostro. [...]. In quanto al castigo – l'anima dell'uomo normale si perfeziona espandendosi, e il castigo comunemente inteso e sempre una repressione. Esso sarà utile per gl'inferiori la cui espansione è nel male; ma costoro sono pochi, e il progresso sociale non attinge da loro. Il codice ci minaccia castighi se siamo disonesti, in quei limiti indicati dalla legge. Ma noi non siamo onesti per paura del codice; noi non rubiamo e non uccidiamo perché amiamo il lavoro e la pace – perché l'orientamento della nostra vita ci conduce innanzi, tenendoci lontani costantemente e sicuramente dai pericoli di certe colpe. Senza entrare in questioni filosofiche, si può tuttavia affermare che il delinquente, prima di delinquere, si è accorto della esistenza di un castigo, ha sentito quel codice gravante su di lui. Egli lo ha sfidato, o vi è incappato illudendosi di sfiorarlo; ma è avvenuta una lotta tra il delitto e il castigo entro la sua coscienza. Sia efficace o no a raggiungere lo scopo d'impedire i delitti, quel codice penale è però indubbiamente fatto per una sola e limitata categoria d'individui: i delinquenti. La enorme maggioranza dei cittadini è onesta anche ignorando le minacce della pena. Il vero castigo dell'uomo normale è di perdere la coscienza della sua propria forza e della grandezza che formano la sua interiore umanità; e tale castigo colpisce spesso gli uomini, quand'anche navigano nell'abbondanza di ciò che il comune linguaggio chiama premio. Purtroppo, del vero castigo che minaccia e colpisce l'uomo, l'uomo non si accorge. E pure è qui che può svolgere la sua efficacia l'educazione. Ora teniamo gli scolari in iscuola compressi tra quegli istrumenti degradanti il corpo e lo spirito che sono: il banco, e il premio e i castighi esteriori – al fine di ridurli alla disciplina dell'immutabilità e del silenzio – per condurli dove? Purtroppo, per condurli senza scopo. Si tratta di travasare meccanicamente il contenuto di programmi, nella loro intelligenza: programmi compilati spesso nei ministeri e imposti per legge. Ah, dinanzi a tale oblìo della vita che si svolge nella nostra posterità, vien fatto di chinare il capo confusi e di coprirci con le mani il rossore del volto! Dice bene il Sergi : “oggi s'impone un bisogno urgente: il rinnovamento di metodi per l'educazione e per l'istruzione, e chi lotta per questa insegna, lotta per la rigenerazione umana”. (da: Maria Montessori, Il metodo della pedagogia scientifica applicato all'educazione infantile nelle case dei Bambini, Roma Edizioni Opera Nazionale Montessori, pp. 78-106). Dall'attivismo alle scienze dell'educazione Il panorama degli studi sul bambino odierni è debitore dell'opera svolta lungo tutto il corso del Novecento da studiosi come Piaget, Vygotskij, Bruner e Gardner. La loro produzione ha dimensioni monumentali. Questa breve selezione propone testi utili ad iindividuare temi portanti ed anche segni del confronto costante che caratterizzò l'attività di questi studiosi. La costruzione dell'universo, che sembrava terminata con quella dell'intelligenza senso-motoria, prosegue attraverso tutto lo sviluppo del pensiero, il che certamente è naturale, ma prosegue pur sembrando a tutta prima ripetersi, prima di progredire realmente per inglobare i dati dell'azione in un sistema rappresentativo d'insieme. È questo l'insegnamento che ci fornisce il paragone delle nostre attuali osservazioni con i risultati dell'esame delle rappresentazioni del bambino dai 4 ai 12 anni. Per comprendere la portata di questo fatto, conviene continuare ciò che dicevamo, al par. 1 di questo capitolo, circa i rapporti tra l'assimilazione e l'accomodamento intellettuali, applicando ora queste riflessioni ai processi del pensiero stesso. Abbiamo cercato di mostrare come, sul piano senso-motorio, l'assimilazione e l'accomodamento, dapprima indifferenziati, ma insieme occupati ad imprimere alla condotta quasi degli strattoni in senso contrario, giungano a poco a poco a differenziarsi e a diventare complementari. Ma dopo ciò che abbiamo appena visto sullo spazio, l'oggetto, la causalità e il tempo, è chiaro che, sul piano del pensiero rappresentativo, che è insieme quello delle relazioni sociali o del coordinamento tra le personalità individuali, diventano necessarie nuove assimilazioni e nuovi accomodamenti, che iniziano a loro volta con una fase di indifferenziazione caotica per procedere poi ad una differenziazione e armonizzamento complementari. Durante i primi stadi del pensiero, infatti, l'accomodamento rimane alla superficie sia dell'esperienza fisica che di quella sociale. Certamente, sul piano dell'azione, il bambino non è più interamente dominato dall'apparenza delle cose, perché è giunto a costruire un universo pratico coerente unendo l'accomodamento agli oggetti con la loro assimilazione a strutture coordinate le une alle altre. Ma, quando si tratta di superare l'azione per formarsi una rappresentazione disinteressata della realtà, ossia un'immagine comunicabile e destinata a raggiungere la verità più che la semplice utilità, l'accomodamento alle cose si trova alle prese con nuove difficoltà, Non si tratta più soltanto di agire, ma di descrivere, non solo di prevedere ma di spiegare e, anche se gli schemi senso-motori sono già adattati alla loro propria funzione, che è quella di assicurare l'equilibrio tra l'attività individuale e l'ambiente percepito, il pensiero è obbligato a costruire una nuova rappresentazione delle cose per soddisfare la coscienza comune e le esigenze di una concezione d'insieme. In questo senso, il primo contatto del pensiero propriamente detto con l'universo materiale costituisce ciò che si può chiamare l' “esperienza immediata”, in opposizione all'esperienza scientifica o corretta dall'assimilazione delle cose alla ragione. L'esperienza immediata è l'accomodamento del pensiero alla superficie delle cose, è l'esperienza semplicemente empirica che considera come dato obiettivo la realtà quale appare alla percezione diretta. In molti casi, quelli in cui la realtà coincide con l'apparenza, questo superficiale contatto con l'oggetto basta a condurre alla verità. Ma, più si esce dal campo dell'azione prossima per costruire una rappresentazione del reale adeguata, e più è necessario, per comprendere i fenomeni, inglobarli in un reticolato di relazioni che si allontana sempre più dall'apparenza e inserire quest'ultima in una nuova realtà elaborata dalla ragione. In altri termini, capita sempre più che l'apparenza richieda di essere corretta e che la correzione renda necessari il collegamento o l'assimilazione reciproca di punti di vista diversi. Nell'esempio, citato al par. 3, dei gruppi di spostamenti relativi alle montagne, è evidente che tutta una strutturazione dell'esperienza, ossia un'assimilazione razionale e un coordinamento dei molteplici punti di vista possibili, sono indispensabili al bambino per comprendere che, malgrado l'apparenza, le montagne non si spostano quando noi ci spostiamo rispetto ad esse e che le diverse prospettive possibili su di esse non escludono per nulla il permanere delle loro forme. Lo stesso processo è necessario perché si pensi che le rive di un fiume o di un lago sono immobili mentre il battello avanza e, in generale, per organizzare lo spazio lontano che non dipende più dall'azione diretta. Per quanto riguarda gli oggetti, pensiamo, ad esempio, alla differenza che separa l'esperienza immediata relativa agli astri ossia il semplice accomodamento della percezione alle loro dimensioni e ai loro movimenti apparenti, dall'esperienza reale che ne acquisisce l'intelligenza quando combina questo accomodamento con un'assimilazione degli stessi dati all'attività della ragione. Dal primo di questi punti di vista, gli astri sono delle palline o delle macchioline situate all'altezza delle nubi, i loro movimenti dipendono dal nostro camminare e la loro permanenza non può essere determinata (anche per quanto riguarda il sole, vediamo bambini che credono nella sua identità con la luna, quando non ammettano, al contrario, l'esistenza di più soli e di più lune). Dal secondo punto di vista, invece, le dimensioni e le distanze reali non hanno alcun rapporto con l'apparenza, le traiettorie effettive non si accordano con i movimenti apparenti che grazie a relazioni di crescente complessità e l'identità dei corpi celesti diventa funzione di questo sistema d'insieme. Ma ciò che, su larga scala, è vero per gli stessi astri, lo è sempre, e a tutte le scale, per gli oggetti a cui non giunge l'azione diretta. Quanto alla causalità, il primo esempio venuto, come quello del galleggiamento delle navi, così suggestivo per il pensiero del bambino piccolo, dà luogo alle stesse considerazioni. Seguendo il corso dell'esperienza immediata, il bambino comincia con l'ammettere che le navi piccole galleggiano perché sono leggere: ma, vedendo un pezzettino di piombo o un sassolino che colano in fondo all'acqua, aggiunge che questi corpi sono senza dubbio troppo leggeri e piccoli per poter essere sostenuti dall'acqua: d'altra parte, le navi grandi galleggiano perché sono pesanti e possono così reggersi da sole. In breve, restando alla superficie delle cose, la spiegazione rimane possibile solo a prezzo di continue contraddizioni, perché il pensiero, per adeguarsi alle pieghe della realtà, è obbligato ad aggiungere di continuo i legami apparenti gli uni agli altri, invece di poterli coordinare in un sistema coerente d'insieme. Il contatto della mente con l'esperienza reale conduce invece ad una spiegazione semplice, purché tuttavia questo elementare accomodamento del pensiero ai dati immediati della percezione venga completato con una correlativa assimilazione di questi dati ad un sistema di relazioni (rapporti tra il peso e il volume ecc.) che il pensiero riesce ad elaborare solo sostituendo all'apparenza delle cose una reale costruzione. Accontentiamoci ugualmente, nell'ambito del tempo e della durata, di un solo esempio, quello della scomposizione della velocità in relazioni tra il tempo e lo spazio percorso. Dal punto di vista dell'esperienza immediata, il bambino giunge molto presto a valutare le velocità, di cui ha percezione diretta, gli spazi percorsi in un tempo uguale o il « prima » e il « dopo » nel giungere al fine, in caso di traiettorie di una stessa lunghezza. Ma da ciò a scomporre le velocità per ricavarne una misura del tempo stesso, vi è un salto considerevole, perché si tratta appunto di sostituire le intuizioni dirette proprie dell'accomodamento elementare del pensiero con un sistema di relazioni che implica un'assimilazione costruttiva. In breve, in tutti i campi il pensiero inizia con un contatto superficiale con le realtà esterne, ossia con un semplice accomodamento all'« esperienza immediata ». Perché questo accomodamento rimane, nel senso stretto del termine, « superficiale » e non giunge subito a correggere l'apparenza sensibile con la verità razionale? Perché, e proprio qui volevamo arrivare, il primitivo accomodamento del pensiero, come precedentemente quello dell'intelligenza senso-motoria, resta insieme indifferenziato da un'assimilazione del reale all'io, deformante e orientata in senso contrario. Durante questa stessa fase di superficiale accomodamento all'esperienza fisica e sociale, si osserva infatti una continua assimilazione dell'universo non solo alla struttura impersonale della mente — che non è stata completata, se non sul piano senso-motorio — ma anche e soprattutto al punto di vista proprio, all'esperienza individuale e anche ai desideri e all'affettività del soggetto. Considerata nel suo aspetto sociale, quest'assimilazione deformante consiste, come si è visto (par. 2), in una sorta di egocentrismo del pensiero tale che questo, non ancora sottomesso alle norme della reciprocità intellettuale e della logica, ricerca la soddisfazione più che la verità e trasforma il reale in funzione dell'attività propria. Dal punto di vista dell'adattamento del pensiero all'universo fisico, d'altro lato, questa assimilazione porta ad una serie di conseguenze che ora ci interessano. Nell'ambito dello spazio, ad esempio, è evidente che se il bambino resta dominato dalla “esperienza immediata” della montagna che si sposta e dagli altri accomodamenti superficiali or ora citati, ciò avviene perché questi rimangono indifferenziati da un'assimilazione continua del reale al proprio punto di vista: cosi il bambino crede che i suoi spostamenti regolino quelli delle montagne, del cielo ecc. Lo stesso accade per quanto riguarda gli oggetti: nella misura, ad esempio, in cui il bambino fa fatica a costruire l'identità della luna e degli astri in genere, perché non va oltre l'esperienza immediata dei loro movimenti apparenti, è perché si crede ancora seguito da loro e assimila in tal modo il quadro dei loro spostamenti al suo punto di vista, proprio come il bambino di pochi mesi il cui universo è mal obiettivato perche incentrato sull'attività propria. Quanto alla causalità, il bambino fa fatica ad unificare le sue spiegazioni in un sistema coerente di relazioni sempre perché l'accomodamento alla diversità qualitativa del reale resta indifferenziata da un'assimilazione dei fenomeni all'attività propria: perché, ad esempio, le navi sono concepite come pesanti o leggere in sé, senza che venga colta la relazione del peso e del volume, se non perché il peso è valutato in funzione dell'esperienza muscolare del soggetto invece di essere trasformato in relazione obiettiva? Cosi, il primato della durata intcriore sul tempo esteriore attesta l'esistenza di un'assimilazione deformante che necessariamente accompagna il primitivo accomodamento della mente alla superficie degli eventi. L'accomodamento superficiale degli inizi del pensiero e la assimilazione deformante del reale all'io sono dunque inizialmente indifferenziati e agiscono in senso contrario l'uno dall'altra. Sono indifferenziati perché l'esperienza immediata che caratterizza il primo, consiste subito, in ultima analisi, nel considerare il proprio punto di vista come l'espressione dell'assoluto e nel sottomettere così l'apparenza delle cose ad un'assimilazione egocentrica, come quest'ultima necessariamente si accompagna con una percezione diretta che esclude la costruzione di un sistema razionale di relazioni. Ma per quanto inizialmente siano indifferenziate le operazioni accomodatrici e quelle in cui si ravvisa l'assimilazione, esse lavorano in senso contrario. Appunto perché l'esperienza immediata si unisce ad un'assimilazione delle percezioni agli schemi dell'attività propria o ricalcati sul suo modello, l'accomodamento al meccanismo profondo delle cose viene di continuo disturbato. Inversamente, l'assimilazione delle cose all'io subisce di continuo scacchi da parte delle resistenze che tale accomodamento richiede, poiché si tratta di tener conto almeno dell'apparenza del reale, che non può indefinitamente piegarsi al desiderio del soggetto. Così, sul piano sociale, la costrizione dell'opinione altrui si oppone all'egocentrismo e reciprocamente, per quanto i due atteggiamenti dell'imitazione degli altri e dell'assimilazione all'io coesistano di continuo e siano la prova delle stesse difficoltà di adattamento alla reciprocità e alla vera cooperazione. A mano a mano che si sviluppa il pensiero del bambino, invece, l'assimilazione e l'accomodamento si differenziano per diventare sempre più complementari l'uno dell'altra. Nel campo della rappresentazione del mondo, questo significa, da un lato, che l'accomodamento, invece di rimanere alla superficie dell'esperienza, penetra in essa sempre più profondamente, ossia cerca le regolarità sotto la confusione caotica delle apparenze e diventa capace di sperimentazioni reali per stabilirle. D'altro lato, l'assimilazione, invece di ridurre i fenomeni alle nozioni che si richiamano all'attività propria, li inserisce in un sistema di relazioni dovute all'attività più profonda dell'intelligenza stessa. La vera esperienza e la costruzione deduttiva diventano in tal modo insieme distinte e correlative, mentre nel campo sociale il sempre più profondo adattamento del proprio pensiero all'altrui e la correlazione reciproca delle prospettive assicura la possibilità di una cooperazione, che costituisce appunto l'ambiente propizio per questa elaborazione della ragione. È dunque evidente che il pensiero, nei suoi diversi aspetti, riproduce, sul piano che gli è proprio, i processi evolutivi da noi osservati a proposito dell'intelligenza senso-motoria e della struttura dell'universo pratico iniziale. Lo sviluppo della ragione, abbozzato al livello senso-motorio, prosegue in tal modo secondo le medesime leggi, una volta che si sono costituite la vita sociale e la riflessione. In presenza delle nuove difficoltà che solleva l'apparire di queste nuove realtà, l'assimilazione e l'accomodamento, all'inizio di questo secondo periodo dello sviluppo intellettuale, si ritrovano in una situazione che avevano già superato sul piano inferiore. Ma, procedendo dallo stato puramente individuale che caratterizza l'intelligenza senso-motoria alla cooperazione che definisce il piano su cui d'ora innanzi si muove il pensiero, il bambino, dopo aver superato il suo egocentrismo e gli altri ostacoli che determinano l'insuccesso di questa cooperazione, riceve da quest'ultima gli strumenti necessari per prolungare la costruzione razionale preparata nei due primi anni e per dispiegarla in un sistema di relazioni logiche e di rappresentazioni adeguate. Lev Semenovic Vygotskij Quando parliamo del giuoco e della sua funzione nello sviluppo del bambino in età prescolare, si pongono due problemi fondamentali. Il primo problema è in che modo il giuoco stesso sorga nello sviluppo del bambino, è il problema dell'origine del giuoco, della sua genesi; il secondo problema è il ruolo di questa attività nello sviluppo, il significato del giuoco come forma di sviluppo del bambino in età prescolare. Il giuoco è la forma dominante o semplicemente una forma prevalente dell'attività del bambino in questa età? Mi sembra che dal punto di vista dello sviluppo il giuoco non sia una forma prevalente di attività, ma sia in un certo senso la linea dominante dello sviluppo nell'età prescolare. Sappiamo che la definizione del giuoco in base al piacere che esso procura al bambino non è una definizione corretta per due ragioni. In primo luogo perché esistono parecchie attività che possono procurare al bambino emozioni piacevoli molto più forti di quelle del giuoco. Il principio del piacere, per esempio, è egualmente valido per la suzione, perché essa procura al bambino un piacere funzionale, anche quando egli non si sazia. D'altra parte, conosciamo giuochi nei quali lo svolgersi di attività non procura piacere, giuochi che dominano alla fine dell'età prescolare e all'inizio di quella scolare, e che procurano piacere soltanto se il loro risultato riesce interessante per il bambino; si tratta, per esempio dei cosiddetti giuochi sportivi (sono sportivi non soltanto i giuochi di educazione fisica, ma anche i giuochi con vincita, con dei risultati). Molto spesso essi sono accompagnati da un acuto senso di scontentezza, quando il giuoco non finisce al vantaggio del bambino. È naturale, quindi, che la definizione del giuoco in base al piacere che procura, non può essere considerata giusta. Mi sembra però che rinunziare ad affrontare il problema del giuoco dal punto di vista del modo in cui in esso si realizzano le esigenze del bambino, i suoi stimoli all'azione, le sue aspirazioni affettive, significherebbe intellettualizzare terribilmente il giuoco. La difficoltà di una serie di teorie del giuoco va ricercata in una certa intellettualizzazione del problema. Sono propenso ad attribuire a questo problema un valore anche più generale e penso che l'errore di molte teorie sull'età consista nell'ignorare le esigenze del bambino, intese in senso lato, incominciando dalle pulsioni per finire con l'interesse come esigenza di carattere intellettuale, in breve nell'ignorare tutto ciò che si può riunire sotto i nomi di impulsi e motivi dell'attività. Spesso [...] dinanzi a noi ogni bambino si pone come essere teorico che, secondo il grado maggiore o minore di sviluppo intellettivo, passa da un livello di età all'altro. Non si prendono in considerazione le esigenze, le pulsioni del bambino, gli impulsi, i motivi della sua attività, senza i quali, come mostra la ricerca, non avviene mai il passaggio del bambino da una fase all'altra. In particolare mi sembra che anche l'analisi del giuoco si debba incominciare chiarendo proprio questi elementi. Evidentemente ogni svolta, ogni passaggio da un livello di età ad un altro, è legato ad un brusco cambiamento dei motivi e degli stimoli all'attività. Ciò che per il lattante costituisce il valore più alto, cessa quasi di interessare il bambino nella prima infanzia. Questa maturazione di nuove esigenze, di nuovi motivi di attività deve, naturalmente, essere posta in primo piano. In particolare, non si può non vedere che il bambino nel giuoco soddisfa determinate esigenze, determinati impulsi, e che se non si comprende il carattere di questi impulsi non si può capire quel particolare tipo di attività che è il giuoco. Nell'età prescolare sorgono particolari esigenze, particolari impulsi, molto importanti per tutto lo sviluppo del bambino e che conducono immediatamente al giuoco. In questa età sorgono nel bambino molte tendenze irrealizzabili, desideri non immediatamente realizzabili. Il bambino nella prima infanzia tende alla risoluzione immediata e al soddisfacimento dei suoi desideri. Un rinvio dell'adempimento del desiderio è difficile per il bambino nella prima infanzia, è possibile soltanto entro limiti ristretti; nessuno ha mai conosciuto un bambino al di sotto dei tre anni che desiderasse fare qualcosa entro pochi giorni. Di solito il cammino dall'impulso alla sua realizzazione è assai breve. Mi sembra che se nell'età prescolare non avessimo la maturazione di esigenze che non si possono realizzare immediatamente, non avremmo il giuoco. Le ricerche mostrano che non soltanto quando abbiamo a che fare con bambini insufficientemente sviluppati sul piano intellettivo, ma anche con i bambini con una sfera affettiva poco sviluppata, il giuoco non si sviluppa. Mi sembra che dal punto della sfera affettiva il giuoco si formi in quella fase dello sviluppo in cui appaiono le tendenze irrealizzabili. Il bambino nella prima infanzia si comporta così: egli vuole prendere una cosa e deve prenderla subito. Se questa cosa non si può prendere, o egli fa un capriccio, si butta per terra e batte i piedi, oppure rinunzia, si rassegna, non prende questa cosa. In lui i desideri insoddisfatti hanno le loro particolari vie di sostituzione, di rinunzia, ecc. Verso l'inizio dell'età prescolare nascono i desideri insoddisfatti, le tendenze non immediatamente realizzabili, da una parte, e, dall'altra, si conserva la tendenza dell'età della prima infanzia alla realizzazione immediata dei desideri. Il bambino vuole, per esempio, essere al posto della madre, oppure vuole essere un cavaliere e andare a cavallo. Si tratta di un desiderio per ora irrealizzabile. Che cosa fa il bambino piccolo se vede passare una carrozzella, vuole andarci sopra ad ogni costo? Se è un bambino capriccioso e viziato, pretenderà dalla madre di essere messo ad ogni costo sulla carrozzella, può buttarsi per terra anche nella strada, ecc. Se invece è un bambino ubbidiente, abituato a rinunziare ai suoi desideri, si allontanerà, oppure la madre gli offrirà una caramella, o distoglierà la sua attenzione con un affetto più forte e il bambino rinunzierà al suo desiderio immediato. Dopo i tre anni, invece nel bambino sorgono particolari tendenze contraddittorie; da una parte nascono una serie di esigenze non immediatamente realizzabili, di desideri per ora inattuabili e che tuttavia non si eliminano in quanto desideri; d'altro canto, si conserva quasi interamente la tendenza alla realizzazione immediata dei desideri. Da qui deriva il giuoco che, dal punto di vista del perché il bambino giuoca, deve sempre essere inteso come una realizzazione immaginaria, illusoria di desideri irrealizzabili. L'immaginazione, quella formazione nuova che manca nella coscienza del bambino nella prima infanzia, manca assolutamente nell'animale e rappresenta una forma specificamente umana dell'attività della coscienza; come tutte le funzioni della coscienza, essa sorge inizialmente nell'azione. [...] È difficile immaginare che l'impulso che induce il bambino a giuocare sia effettivamente solo uno stimolo affettivo dello stesso genere di quello che prova il lattante succhiando il succhiotto. È difficile ammettere che il piacere provocato dal giuoco in età prescolare sia determinato dallo stesso meccanismo affettivo del semplice succhiamento del succhiotto. Ciò non corrisponde in nessun modo al punto di vista sullo sviluppo del bambino in età prescolare. Ciò non vuole dire che il giuoco sorga come risultato da ogni singolo desiderio insoddisfatto; il bambino voleva andare in carrozzella, questo desiderio non è stato subito soddisfatto, il bambino è arrivato in camera sua e si è messo a giocare alla carrozzella. Questo non succede mai. Il fatto è che nel bambino non ci sono soltanto singole reazioni affettive a singoli fenomeni, ma tendenze affettive generalizzate, non materializzate. Prendiamo un bambino che soffra di un complesso di inferiorità, per esempio un microcefalo; egli non poteva stare in un collettivo di bambini, lo prendevano talmente in giro che si è messo a spaccare tutti gli specchi e i vetri nei quali si vedeva la sua immagine. In questo sta la profonda differenza dalla prima infanzia; allora per ogni singolo fenomeno (in una situazione concreta), per esempio ogni volta che si è presi in giro, sorge una singola reazione affettiva, non ancora generalizzata. In età prescolare il bambino generalizza il suo atteggiamento affettivo verso il fenomeno, indipendentemente dall'attuale situazione concreta, poiché l'atteggiamento affettivo è legato al senso del fenomeno, e perciò il bambino manifesta sempre un complesso di inferiorità. La sostanza del giuoco è l'attuazione dei desideri, ma non di singoli desideri, bensì di affetti generalizzati. In questa età il bambino prende coscienza dei suoi rapporti con gli adulti, reagisce ad essi affettivamente, ma a differenza della prima infanzia, egli generalizza queste reazioni affettive (lo mette in soggezione l'autorità degli adulti in generale, ecc.). L'esistenza di questi affetti generalizzati nel giuoco non significa neppure che il bambino comprenda i motivi per i quali il giuoco viene intrapeso, che egli lo faccia consapevolmente. Egli giuoca senza aver coscienza dei motivi dell'attività ludica. In generale bisogna dire che il campo dei motivi, delle azioni, degli impulsi è tra i meno coscienti e diventa pienamente accessibile alla coscienza soltanto nell'età di transizione. Soltanto l'adolescente si rende chiaramente conto del perché fa una cosa o un'altra. Ora lasciamo per qualche minuto il problema del fatto affettivo, consideriamolo come una premessa, e vediamo come si esplica l'attività ludica vera e propria. Mi sembra che come criterio per distinguere l'attività ludica del bambino dal gruppo complessivo delle altre forme della sua attività, bisogna prendere il fatto che nel giuoco il bambino crea una situazione fittizia. Ciò è possibile per quel divario tra il campo visibile e quello intellettivo, che si manifesta nell'età prescolare. Questo pensiero non è nuovo nel senso che l'esistenza del giuoco con una situazione fittizia è sempre stata nota, ma veniva considerata come propria di un gruppo di giuochi. Alla situazione fittizia si attribuiva quindi il valore di carattere secondario. La situazione fittizia nella concezione dei vecchi autori non era la qualità fondamentale che fa del giuoco un giuoco, visto che soltanto un determinato gruppo di giuochi era caratterizzato da questo tratto specifico. La difficoltà principale di questa idea, mi sembra, si trova in tre aspetti. In primo luogo c'è il pericolo di un approccio intellettualistico al giuoco; può sorgere la preoccupazione che se si estende il gioco come simbologia, esso si trasformi in un'attività simile all'algebra in atto; si trasformi in un sistema di segni che generalizzano una realtà effettiva; non troviamo più nulla di specifico del giuoco e immaginiamo il bambino come uno studioso di algebra mancato che non sa ancora scrivere i segni sulla carta, ma li rappresenta nell'azione. È indispensabile mostrare il nesso con gli impulsi nel giuoco, poiché di per sé il giuoco, mi sembra, non è mai un'azione simbolica nel senso proprio della parola. Il secondo elemento, mi sembra, è che questa idea presenta il giuoco come processo conoscitivo, indica il significato di questo processo conoscitivo, lasciando da parte non solo il momento affettivo, ma anche il momento dell'attività del bambino. Il terzo elemento è che bisogna scoprire il ruolo di questa attività nello sviluppo, cioè che cosa si può sviluppare nel bambino con l'aiuto di una situazione fittizia. Se permettete, incominceremo dal secondo problema, poiché il problema del nesso con l'impulso affettivo è già stato brevemente trattato. […] Che cosa significa il comportamento del bambino in una situazione fittizia? Noi sappiamo che esiste una forma di giuoco che già da tempo è stata rilevata e che di solito veniva riferita al periodo più tardo dell'età prescolare; il suo sviluppo era considerato centrale nell'età scolare; si tratta dei giuochi con regole. Parecchi studiosi [...] hanno incominciato ad esaminare il giuoco della prima infanzia e la loro ricerca ha portato alla conclusione che il giuoco con una situazione fittizia, in sostanza, è un giuoco con determinate regole; mi sembra che si possa addirittura avanzare la tesi che non c'è giuoco dove non c'è comportamento del bambino nei confronti delle regole, dove non c'è un suo originale atteggiamento verso le regole. Jerome Seymour Bruner L'istruzione è, in fin dei conti, uno sforzo per aiutare o per orientare lo sviluppo. Nel programmare l'istruzione per il giovane, sarebbe assurdo ignorare quello che si conosce intorno allo sviluppo, alle limitazioni cle implica e alle opportunità che offre. Una teoria dell'istruzione, e questo libro è un insieme di saggi su tale argomento, è in effetti una teoria dei vari modi in cui è possibile favorire la crescita e lo sviluppo. È quindi opportuno cominciare con il problema della crescita e dei suoi modelli, problema non ancora completamente chiarito in tutti i suoi aspetti, ma intorno al quale va emergendo un nuovo complesso organico di discipline che costituiranno le “scienze dello sviluppo”, relative a tutti i settori che si riferiscono alla comprensione e alla facilitazione dei processi attraverso i quali gli esseri umani passano, così rapidamente, da uno stato di completa impotenza a un controllo dell'ambiente insospettabile per i nostri predecessori. Le scienze dello sviluppo, certamente, non si limiteranno all'aspetto esterno del fenomeno considerato, e per evidenti ragioni: la specie umana, anche prescindendo dalla cultura acquisita nel corso della storia, potrebbe, col tempo, reinventare il linguaggio e la tecnologia che hanno reso possibile la espressione della sua potenza, ma lo sviluppo di un singolo individuo, concepito al di fuori di ogni presupposto culturale, costituirebbe un'ipotesi del tutto inverosimile. [...] Dopo queste premesse, cercherò di chiarire in che cosa consiste lo sviluppo intellettuale. È abbastanza facile ricorrere alla propria teoria preferita per spiegare le modificazioni del comportamento e usarla come uno strumento per la descrizione della crescita: sono così numerosi gli aspetti dello sviluppo, che in pratica ogni teoria è in grado di spiegarne bene almeno qualcuno. Forse il modo migliore per non divagare inutilmente sull'argomento è quello di elencare alcuni punti fermi relativi alla natura dello sviluppo intellettuale, da usare come criteri per un tentativo di spiegazione. La lista di tali punti potrebbe essere, a mio avviso, la seguente: 1. La crescita è caratterizzata da una crescente indipendenza della risposta dalla natura immediata dello stimolo. Gran parte di quello che il bambino piccolo fa, lo si può prevedere dalla conoscenza degli stimoli che agiscono su di lui nel momento in cui egli risponde, o immediatamente prima. Una parte importante dello sviluppo consiste nella capacità del bambino di mantenere una risposta invariata di fronte al variare dell'ambiente che lo stimola, o nell'apprendere ad alterare la sua risposta in presenza di un ambiente immutato. Egli raggiunge la sua libertà dal controllo dello stimolo attraverso processi mediati, come li si è venuti chiamando negli ultimi anni, che trasformano lo stimolo prima che la risposta abbia luogo. Alcuni di questi processi medianti richiedono un notevole intervallo tra stimolo e risposta. Una teoria dello sviluppo che non cerchi di tener conto di questi processi medianti e delle trasformazioni che essi rendono possibili non presenta grande interesse per la psicologia. 2. Lo sviluppo è basato sulla interiorizzazione di eventi di un “sistema di conservazione” che corrisponde all'ambiente. È questo sistema che rende possibile la crescente capacità del bambino di andare oltre l'informazione incontrata in una singola occasione. Egli raggiunge questa capacità facendo delle previsioni e delle estrapolazioni dal modello della realtà che ha costituito entro di sé. 3. Lo sviluppo intellettuale implica la crescente capacità di un individuo di dire a se stesso e agli altri, attraverso parole o simboli, quello che ha fatto e quello che farà. Questo controllo o coscienza di sé permettono il passaggio dal comportamento puramente ordinato al comportamento cosiddetto logico. È questo processo che alla fine conduce al riconoscimento della necessità logica [...] e porta gli esseri umani al di là dell'adattamento empirico. 4. Lo sviluppo intellettuale dipende da una interazione sistematica e contingente tra un educatore e un educando, ove si supponga l'educatore in possesso di un'ampia serie di tecniche, inventate in precedenza, che egli insegna al bambino. Nonostante sia ovvio dire che il bambino nasce nell'ambito di una cultura e che da essa è plasmato, non è chiaro sotto quale aspetto una teoria psicologica dello sviluppo cognitivo debba considerare questo fatto. Inoltre è necessario tener conto delle varie relazioni sistematiche che una cultura presenta per affrontare il rapporto educatore-educando: la famiglia, speciali figure di identificazione, maestri, eroi, e così via. 5. L'insegnamento è enormemente facilitato dal mezzo del linguaggio, che finisce per essere non solo il mezzo per lo scambio, ma lo strumento che lo stesso discente può usare in seguito, per organizzare l'ambiente. La natura del linguaggio e le funzioni che esso adempie devono far parte di ogni teoria dello sviluppo cognitivo. 6. Lo sviluppo intellettuale è caratterizzato da una capacità crescente di considerare simultaneamente diverse alternative, di tener presenti diverse serie di connessioni durante lo stesso periodo di tempo, e di suddividere il tempo e l'attenzione in un modo adeguato a queste molteplici richieste. La distanza tra la mente di un bambino piccolo, capace di interessarsi di una sola cosa alla volta, e l'abilità del ragazzo di dieci anni nell'affrontare un mondo straordinariamente complesso, è enorme. Ciò può bastare come lista minima, ma forse già eccessiva, dato che molti punti si sovrappongono chiaramente l'un l'altro. Vorrei ora introdurre alcune specifiche nozioni teoriche, e alcuni esperimenti che le illustrano, per vedere che cosa si possa dire sui principi testé formulati. Desidero incominciare con una precisione di essenziale importanza per una teoria dello sviluppo. Senza dubbio, la figura più rilevante nell'ambito degli studi sullo sviluppo cognitivo è oggi quella di Jean Piaget: la nostra generazione e quella che ci seguirà gli saranno grate per il suo lavoro di pioniere. Tuttavia il Piaget viene spesso interpretato in modo errato da coloro che ritengono che il suo orientamento sia principalmente psicologico - questo non è vero: esso è epistemologico. Egli si occupa essenzialmente della natura della conoscenza in se stessa, della conoscenza come esiste nei diversi stadi dello sviluppo del bambino, mentre è interessato in misura molto minore ai processi che rendono possibile la crescita, e li affronta mediante una generica teoria di equilibri e squilibri – un ciclo che oscilla tra adattamento all'ambiente e assimilazione dell'ambiente a uno schema interno. Alla nostra comprensione dello sviluppo hanno contribuito, non tanto la sua piuttosto semplicistica concezione di equilibrio e squilibrio, quanto le sue brillanti descrizioni formali della natura della coscienza che i bambini mostrano di possedere ad ogni stadio del loro sviluppo. Tali descrizioni si riferiscono alla struttura logica che sorregge ed informa le soluzioni dei problemi da parte dei fanciulli, ai presupposti logici sui quali sono basate le loro spiegazioni e manipolazioni. Il Piaget ha saputo cogliere la teoria logica implicita in base alla quale opera il bambino quando affronta compiti di natura intellettiva. Nelle sue descrizioni di carattere formale ci sono indubbiamente dei difetti, che sono stati criticati da logici e matematici, ma ciò non ha importanza: straordinariamente importante è invece l'utilità, il valore del suo lavoro descrittivo, anche se questa descrizione formale non costituisce assolutamente una spiegazione né una descrizione psicologica dei processi dello sviluppo. Tale chiarezza descrittiva, al contrario, apre solo un problema per chiunque voglia affrontare una spiegazione di tipo psicologico. (da: J. Piaget, La costruzione del reale nel bambino, Firenze, La Nuova Italia, 1973 (ed. or. 1967), pp. 430-437; Lev S. Vygotskij, Il giuoco e la sua funzione nello sviluppo psichico del bambino, in “Riforma della scuola”, a. 26°, luglio 1979, pp. 41-43, cit. in R. Fornaca, R. S. Di Pol, La pedagogia scientifica del Novecento, Milano, Principato, 1981, pp. 261-266 (il testo risale al 1933); Jerome S. Bruner, Verso una teoria dell'istruzione, Roma, Armando, 1970 (ed. or. 1956), pp. 17-18, 21-25)