Cosa significa fotografare spettacoli di teatro, danza, performance

Davanti alla scena
Piero Tauro
di Angelo Politano - Sguardi
Cosa significa fotografare spettacoli di teatro, danza, performance all’incrocio tra
tradizione e avanguardia? Cosa significa essere un fotografo di scena?
Essere fotografo di scena significa sicuramente vivere al buio e inciampare spesso…
aspettare cinque ore seduti su una poltrona l’inizio di una prova che doveva essere in
costume e poi non lo è… in una battuta direi che significa sofferenza, sacrificio ma anche
tanta emozione.
Per spiegare il senso più profondo del mio lavoro comincerei col dire che cosa per me non
è la fotografia di scena, cioè il racconto didascalico di un evento teatrale. La foto di scena
non serve a descrivere lo spettacolo secondo l’occhio e il punto di vista dello spettatore,
tutt’altro: essere fotografo di scena significa per me saper raccontare con le proprie
sensazioni ed emozioni quello che l’occhio dello spettatore potrebbe non riuscire a
cogliere. Significa deformare la percezione attraverso la sospensione di un attimo colto e
visto attraverso la propria percezione istintiva, attimo fermato nell’immagine e che lascia il
dubbio profondo – in chi guarda – su ciò che è avvenuto prima e che potrà avvenire dopo.
Senza dare chiavi interpretative.
Cosa ci deve essere, per te, in una buona foto di scena?
Dipende. Personalmente non mi considero un fotografo di tradizione: il teatro di tradizione
presuppone che la visione ottimale sia quella ortogonale, cioè perpendicolare alla scena.
Per me è importante rompere questo equilibrio, stravolgerlo per dare una visione diversa
di ciò che accade. Per questo io non fotografo mai dal centro del teatro, ma cerco sempre
prospettive diverse stravolgendo anche l’equilibrio dei rapporti fra i diversi elementi
scenici: in questo modo corro il rischio di perdere la completezza ortogonale del massimo
scenico, ma non subisco più una visione “imposta” bensì la personalizzo sbilanciando i
rapporti fra persone e cose.
L’avanguardia si nutre delle contaminazioni di genere - teatro, arti visive, cinema, musica
ecc – e della interdisciplinarietà – non esiste più l’attore “puro”, o il danzatore “puro”. Per
questo ho sempre sentito lo spettacolo contemporaneo più vicino alla mia sensibilità:
rompere l’equilibrio ortogonale in uno spettacolo contemporaneo significa “fare
avanguardia” anche nella sua fruizione.
La luce, in scena, è uno degli elementi fondamentali. Come cerchi di interpretarla?
La luce in scena è una speranza, a volte è un’utopia… la certezza è il buio. Fotografare una
performance dal vivo significa accettare le scelte di luce altrui. Ma proprio questo squilibrio
fra la luce che vorresti e il buio che c’è è un elemento di difficoltà e tensione continua che
rende per me particolarmente bello il mio lavoro.
E il movimento, come lo catturi?
Non si può catturare un movimento pensandolo. Se lo “senti”, il movimento è tuo. E la foto
c’è.
Hai messo a punto delle tecniche specifiche? Quale attrezzatura prediligi?
Non sono assolutamente legato a tecniche specifiche: la foto di scena ha l’obiettivo di
raccontare e di interpretare momenti che il più delle volte sono talmente rapidi – talvolta
addirittura unici - che non è permesso al fotografo ragionare in base alla tecnica. Quello che
si può fare in quell’attimo è solo sentire sé stessi e il rapporto con ciò che viene
rappresentato.
Dal punto di vista dell’attrezzatura ho naturalmente le mie preferenze. Intanto la 35 mm,
come modello mi è sempre piaciuta molto la FM2. E poi ottiche spinte al massimo. Sono
nikonista da sempre, l’85mm f.1.4, il 135mm f.2 ed il glorioso 180 f 2.8, oltre al 300 mm f.2.8
sono stati per tanti anni il mio pane quotidiano. Quando fotografo in digitale utilizzo la D100
con l’80-200 f 2.8 e il 28-80 f. 2.8.
Il digitale come ha cambiato, se lo ha fatto, il tuo modo di fotografare?
Il modo di fotografare in sé non è cambiato, alla fine si fanno sempre i conti con la propria
creatività che è la stessa, indipendentemente dalla tecnologia che uso. Tutto il resto però è
cambiato molto, basti pensare alle ore passate al buio per sviluppare… oggi la camera
oscura mi appare una sorta di stanza dei giochi: l’immagine che nasce dal foglio, il contatto
con la carta e gli acidi, l’alternarsi di luci rosse e bianche… sono un ricordo magico. La
tecnologia digitale, nel suo passaggio immediato dallo scatto al file alla visione ed
elaborazione della foto, ha un’immediatezza più comoda e utile e ti offre molte soluzioni; da
una lato si tratta di una facilità apprezzabile, dall’altra ricordo con piacere i momenti in cui, in
camera oscura, la scelta dei contrasti, la scala di grigi, l’esposizione della pellicola erano il
frutto di test, prove e della mia abilità ed esperienza. Rimpiango un po’ quei momenti come
si rimpiangono i giochi dell’infanzia.
Da vent’anni sei il fotografo ufficiale del Romaeuropa Festival, da sempre attento alle
nuove esperienze di teatro e danza contemporanea. Quali artisti, tra i tanti che hai
seguito, ti hanno stimolato maggiormente?
Romaeuropa è sicuramente una bella storia, per me è stato ed è ogni volta un banco di
prova importante: le scelte artistiche del Festival mi portano sempre a confrontarmi con la
contemporaneità e con un’innovazione costante, che viaggia ad una velocità a volte
superiore alla capacità di percepirla. Questo mi porta anche ad interpretare il mio lavoro non
tanto – o non solo - come memoria storica ma come partecipazione alla costruzione del
futuro.
Per questo non mi piace pensare ai singoli artisti ma ad un unico progetto culturale che è il
Romaeuropa Festival, di cui personalità come Robert Wilson, Peter Sellars, Raffaello
Sanzio, Emma Dante, DV8 - per citarne solo alcuni - sono elementi rappresentativi e
caratterizzanti.
C’è qualche aneddoto che ricordi in particolare?
Purtroppo per le mie macchine ricordo molto bene gli zoccoli dei cavalli di Zingaro. Ho
conosciuto Bartabas nel 1987 durante la prima tournée di Zingaro in Italia. Mi autorizzò a
fotografare lo spettacolo, raccomandandosi però che rimanessi lontano dal bordo della pista
dove passavano i cavalli in corsa, perché potevo spaventarli durante le loro evoluzioni. Io
naturalmente, alla ricerca della “grande”, “unica” foto di uno dei cavalli al galoppo, non ho
tenuto conto dei suoi avvertimenti e mi sono avvicinato, appoggiando le macchine sul bordo
della pista. Risultato: un corpo macchina e un obiettivo distrutti dagli zoccoli. A quel punto
Bartabas mi ha detto: adesso puoi restare lì, il cavallo ti conosce…..
Hai lavorato anche nel cinema come fotografo di set. Quanto è diverso il set dal
palcoscenico?
Se la fotografia di teatro è interpretazione, quella di set è riproduzione: non ti si chiede di
dare una visione diversa da quella del pubblico che andrà al cinema. Anzi: a parte il back
stage, di fatto sei obbligato a riprodurre gli stessi fotogrammi che verranno proiettati in sala.
Se una fortuna ho avuto in questo difficile rapporto, è stata quella di aver lavorato con registi
che avevano una luna storia di teatro: Gabriele Salvatores, Raul Ruiz, Mario Martone.
Questo mi ha permesso di utilizzare un linguaggio quasi trasversale, di “oltrepassare il
confine”; e quindi di mantenere la mia identità…..
Tra i tuoi lavori, quale ti piace citare in particolare?
“Il corpo della danza”, nato da un incontro con il critico e saggista Ugo Volli è sicuramente
un buon libro. Nato come pubblicazione celebrativa dei vent’anni del Festival Oriente
Occidente di Rovereto si è trasformato in qualcosa di più ampio, in una riflessione a due voci
– testo e immagini – sulla danza contemporanea. Due linguaggi – quello di Volli e il mio –
che si compenetrano: Ugo crea immagini con le parole e io racconto con le mie foto.
Entrambi esprimiamo il grande amore che abbiamo per la danza.
Tra i tanti servizi fotografici invece, quello a cui forse sono rimasto più legato è stato
“Palermo, Palermo” una produzione della città di Palermo, affidata a Pina Bausch, che
racconta la città e la sicilianità. Ho vissuto con la compagnia e raccontato tutta la
preparazione dello spettacolo, dalla scelta dei costumi nei mercati storici di Palermo (Pina li
comprava sulle bancarelle della Vucciria..) all’allestimento in teatro in tutte le sue parti. È
stato un grande spettacolo.
Qual è il lavoro che stai sviluppando in questo periodo?
I mesi autunnali per me sono prevalentemente dedicati agli eventi del Romaeuropa Festival,
e in questo ambito ho appena finito di allestire la mostra “Obbiettivo contemporaneo” alla
Galleria Alberto Sordi. Sto preparando una mostra con tre produttori italiani (il titolo è ancora
un segreto…☺) e ci sono forti possibilità che ne nasca una pubblicazione.