Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica UNITÀ DIDATTICA 1 APPRENDIMENTO: APPROCCI CLASSICI Lezione 1 Lo studio dei processi di apprendimento e la psicologia dell’educazione In queste pagine saranno presentate alcune riflessioni sull’apprendimento, cercando di fornirne una definizione, di collocarlo all’interno di un contesto, di spiegarne i meccanismi che lo regolano. È essenziale, prima di addentrarsi nell’analisi delle differenti teorie di riferimento che nel corso del tempo hanno cercato di dare spiegazioni di tale fenomeno, comprendere che cosa si intenda per apprendimento e quale sia il suo scopo. Possiamo intendere per apprendimento un qualsiasi cambiamento che avvenga nell’individuo per effetto dell’esperienza. Apprendere significa modificare, cambiare, riorganizzare un comportamento o una conoscenza sulla base di una nuova esperienza vissuta o di un’informazione ricevuta. Apprendere, però, non è sinonimo di svilupparsi. Apprendimento e sviluppo sono due processi complementari, ma il secondo termine ha un’estensione più ampia: lo sviluppo della persona consiste, infatti, nell’insieme dei cambiamenti che si verificano nel comportamento e nelle capacità dell’individuo con il procedere dell’età. Tali cambiamenti non avvengono necessariamente per effetto dell’esperienza, ma anche per la maturazione fisica: nei primi anni di vita, ad esempio, si assiste ad un accrescimento ponderale e staturale del bambino. Apprendere, al tempo stesso, non si riduce però soltanto allo studio scolastico o all’acquisizione di nozioni in un contesto formale come la scuola. Apprendiamo ogni giorno della nostra vita, tramite le azioni, l’osservazione, l’interazione con l’ambiente e con coloro che sono intorno a noi. La famiglia è il primo contesto in cui il bambino apprende: impara comportamenti, modi di pensare, atteggiamenti propri della situazione in cui è inserito. Non tutti gli apprendimenti, inoltre, sono intenzionali: tutti, ad esempio, sappiamo che è pericoloso toccare con una mano un corpo 1 incandescente, ma alcuni di noi lo avranno appreso, magari in tenera età, a proprie spese e certamente non in maniera intenzionale. L’apprendimento, inoltre, non è un aspetto che riguarda soltanto la cognizione e il pensiero in senso stretto: dipende anche dallo stato emotivo che stiamo vivendo e racchiude in sé componenti affettive che determinano fortemente gli esiti di tale processo. Allo studio dell’apprendimento hanno contribuito diverse branche della psicologia e, in queste pagine faremo riferimento alla psicologia dell’educazione, alla psicologia dello sviluppo, alla psicologia generale, alla psicologia sociale, ma anche alla psicopatologia. La psicologia dell’educazione, in particolare, ha mosso i primi passi agli inizi del 1900, prendendo le mosse dai primi studi di psicologia generale e sperimentali condotti a partire dalla fine del 1800 su attenzione e memoria. In realtà, da sempre l’uomo si occupa di psicologia dell’educazione e lo fa ogni volta in cui riflette su una qualsiasi azione di insegnamento o di apprendimento: nel V secolo avanti Cristo, Democrito scriveva sugli indubbi vantaggi dati dalla scolarizzazione e a tutti è noto il metodo maieutico di Socrate, con il quale il maestro aiutava il discepolo nella ricerca della verità. Platone e Aristotele si interrogarono su diversi aspetti dell’educazione, quali l’effetto dell’arte nello sviluppo dell’individuo, la relazione fra insegnante e allievo, la natura dell’apprendimento. In epoca romana, ancora, Quintiliano forniva indicazioni sulla selezione degli insegnanti e l’adeguatezza dei curricola. Agli inizi del diciassettesimo secolo, Comenio sostenne l’importanza dell’educazione finalizzata ad una reale comprensione (e non alla memorizzazione) e propose riflessioni tutt’oggi attuali sul ruolo della famiglia nell’educazione dei figli. Nella prima metà del diciannovesimo secolo Johann Friedrich Herbart fu tra i primi a sostenere l’esigenza di un approccio scientifico all’educazione promuovendo l’istruzione educativa e offrendo validi spunti sulla formazione dei concetti e degli schemi (Alexander, Winne, 2006). Nel 1903, uno psicologo statunitense, Edward Lee Thorndike, pubblicò l’opera in tre volumi Educational Psychology: con questa data si individua la nascita ufficiale della disciplina. Gli ambiti di studio di tale disciplina sono andati progressivamente diversificandosi: in ambito anglosassone la 2 psicologia dell'educazione ha acquisito presto significato di psicologia applicata all'apprendimento dei contenuti scolastici, mentre in ambito francofono ha assunto un significato riferito soprattutto allo studio dei sistemi scolastici ed ai risultati del funzionamento delle istituzioni scolastiche in cui si attivano processi socio psicologici relativi a gruppi, classi, interazioni, norme e regole, condotte e obiettivi della loro vita quotidiana. La moderna psicologia dell'educazione fa propri i concetti inizialmente messi a punto da altre discipline psicologiche, con le quali ha una relazione bidirezionale e costruttiva: le conoscenze proprie di tali discipline sono infatti condizioni necessarie ma non sufficienti per la strutturazione di valide teorie sull’insegnamento. Per molti anni, lo stato scientifico di tale disciplina è stato molto dibattuto e per lungo tempo essa è stata considerata una disciplina di second’ordine, di esclusivo carattere applicativo e senza una propria identità. Oggi può essere considerata una disciplina ponte (Coll, 1988) fra le scienze psicologiche e le scienze dell’educazione: essa infatti è in una relazione di interdipendenza con le altre branche della psicologia, affianca le scienze dell’educazione per meglio comprendere il processo di insegnamento-apprendimento e ottenere una maggiore efficacia dei processi educativi e, infine, grazie alla sua natura anche applicativa, comprende conoscenze per ampliare e approfondire la dimensione teorico-concettuale, la pianificazione di ricerca e l’intervento educativo. Nel corso degli anni, gli interessi della psicologia dell’educazione si sono ampliati ed oggi riguardano la ricerca applicata alle situazioni educative, identificando i principi che governano la nascita e le condizioni dell’apprendimento nelle differenti situazioni e creandone schemi esplicativi. Temi principe oggetto di ricerca sono ad esempio le variabili personali (con riferimento alle rappresentazioni formali della conoscenza e dei processi ad essi sottesi, le conoscenze di base degli studenti, la autoregolazione dell'apprendimento, la motivazione, le pre-conoscenze), i processi di apprendimento (le sue componenti, le strategie di apprendimento, le strategie metacognitivi), la costruzione di modelli teorici che possano illustrare come si verifica l'apprendimento e quali siano le relazioni fra le componenti in esso coinvolte, la relazione insegnante-allievo e, più in generale, le 3 relazioni in classe, gli insegnanti e il processo di insegnamento, lo studio delle nuove tecnologie come mezzo per favorire l’apprendimento, la diversità e le difficoltà di apprendimento, il contesto familiare e le modalità educative che in essa si attivano. In queste pagine saranno affrontati solo alcuni aspetti della psicologia dell’educazione e si farà riferimento particolare alla psicologia dell’istruzione, ossia a quella parte di studi che si rivolgono principalmente all’analisi dei processi di apprendimento in contesti formali, come la scuola. E’ essenziale che un insegnante e un educatore siano in grado di conoscere i meccanismi fondamentali dell’apprendimento in modo tale da saper educare i propri allievi. Con educazione, infatti, richiamiamo il processo attraverso il quale l'individuo impara e fa proprie capacità e facoltà intellettuali e morali, ad esempio determinate regole di comportamento, condivise dalla famiglia e dal contesto sociale e culturale. L’etimologia del termine educazione rimanda al latino e-ducere, che significa letteralmente condurre fuori, portare alla luce qualcosa che è nascosto. Proseguiremo, ora, affrontando le principali teorie postulate dalla psicologia, partendo da due approcci classici, il comportamentismo e il cognitivismo, riflettendo sulle correnti dell’approccio socio-culturale, analizzeremo alcuni processi che intervengono nell’apprendimento e, infine, ci soffermeremo sul concetto di motivazione scolastica e sui suoi legami con l’apprendimento e il successo scolastico. 4 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica I Unità Didattica – Lezione 2 Le metafore dell’apprendimento Come abbiamo appena visto, l’apprendimento comprende una pluralità di abilità che convergono in un processo complesso in continuo divenire, che si modifica per adeguarsi a forme e contesti nuovi creati dall’ambiente socio-culturale. Ogni approccio teorico che ha cercato di dare spiegazione di tale concetto, sottende una concezione di apprendimento particolare che mette in luce l’attività o la passività dell’apprendente, la causalità o la linearità. In questa lezione prenderemo in considerazione le metafore utilizzate dai vari approcci per esplicare tale processo. Il pregio della metafora è sottolineare gli aspetti essenziali di un concetto sconosciuto per renderlo più accessibile alla comprensione, sottolineando similitudini o affinità con concetti più noti. Considereremo quattro metafore principali (trasmissione della conoscenza, costruzione della conoscenza, partecipazione a un gruppo e transazione) e sottolineeremo di volta in volta le concezioni di conoscenza e mente ad esse sottese. La trasmissione della conoscenza Questa metafore si basa su un assunto meccanicistico, secondo cui la conoscenza viene trasmessa da un emittente a un ricevente in maniera fortemente meccanica. L’informazione trasmessa non è caratterizzata da alcun tipo di trasformazione e il successo di tale passaggio è dato proprio dalla capacità di trasferire il messaggio nella medesima forma d’origine. Tale aspetto si riverbera sugli aspetti valutativi dell’apprendimento: la valutazione è infatti focalizzata sulla similitudine tra quanto trasmesso dal docente e quanto ricevuto dall’apprendente. La conoscenza è considerata come qualcosa di statico e di predefinito, che non necessita di aggiustamenti e non è facilmente modificabile. Se l’emittente ha il compito di stabilire a priori gli obiettivi dell’apprendimento, al ricevente rimane il solo compito di appropriarsi di tale conoscenza trasmessa, nei modi e nelle 5 forme più simili possibili al messaggio originale. La conoscenza è quindi fortemente statica ed oggettiva. Occorre però considerare anche quale ruolo giochino le menti dei soggetti coinvolti nel processo di apprendimento. Colui che trasmette riveste il ruolo di esperto che è in grado di trasferire la conoscenza sulla base di conoscenze precedentemente acquisite. Il ricevente, invece, gioca il ruolo di novizio. La mente di entrambi è considerata al pari di un contenitore che può essere riempito di concetti e di idee. La qualità e la quantità del contenuto delle due menti è sensibilmente diverso; non esistono invece differenze se il ruolo di esperto è giocato da un individuo, da un libro o da un supporto digitale: in ognuno di questi casi la conoscenza è immagazzinata e sistematizzata in una forma che è difficilmente modificabile. La costruzione di conoscenza Questa metafora si incentra sulla costruzione attiva e continua della conoscenza durante il processo educativo. Rientrano in questa concezione, le riflessioni di Dewey, Piaget, Vygotskij e Leont’ev. Non esiste conoscenza cristallizzata che viene trasferita da un emittente a un ricevente: la conoscenza si costruisce, è in continuo divenire grazie alle interazioni che l’individuo ha con persone e oggetti. Manca in questo caso una corrispondenza tra conoscenza e realtà, proprio perché la conoscenza è frutto di una costruzione attiva dell’individuo che non descrive pedissequamente la realtà che esiste in quanto tale, ma la interpreta sulla base della propria esperienza nel mondo. La conoscenza non è quindi più un dato oggettivo: se essa nasce sulla base di interpretazioni della realtà, ne deriva che esistano molteplici conoscenze, frutto delle differenti percezioni della realtà di ogni individuo. La conoscenza quindi è in continua costruzione e varia nel tempo, costruendosi su base individuale e su base sociale; tale assunto si riflette sugli aspetti valutativi del processo di apprendimento che non può più considerare la valutazione come un confronto fra il prima e il dopo ma deve osservare la conoscenza nel suo dispiegarsi. È il processo e non il prodotto ad essere importante: una valutazione ottimale secondo tale ottica può servirsi ad esempio dei portfoli 6 individuali, di valutazioni e di autovalutazioni. La mente assume un ruolo centrale in tale metafora diventando strumento e luogo per la creazione di conoscenza. Non ha più valore la distinzione tra esperto e novizio perché tutti sono in grado di produrre conoscenza e si parla quindi di novizio intelligente, ossia di una persona che pur non conoscendo approfonditamente un tema, è in grado di reperire le informazioni mancanti e con esse produrre nuova conoscenza. La partecipazione ad un gruppo Aspetto centrale delle due metafore precedenti era la considerazione dell’apprendimento come un atto cognitivo; in questa metafora, l’attenzione si sposta sugli aspetti sociali e sui contesti situazionali. L’apprendimento è considerato un processo di acculturazione, ossia un percorso attraverso il quale l’individuo si appropria della cultura del proprio gruppo di riferimento e la modifica mediante la sua partecipazione. Non è quindi l’atto cognitivo ad essere centrale, ma la partecipazione ad un gruppo, la relazione con gli altri, l’essere parte di discorsi e riti di un gruppo sociale. Questo modello si rifà alle teorizzazioni di Lave e Wenger (1991) che postularono il modello partecipativo. Secondo tale modello la partecipazione è dapprima periferica: entrando a far parte di un gruppo si inizia ad osservarne le pratiche, ad interagire poi in alcune attività, fino ad assumere ruoli più centrali; la partecipazione si sposta quindi dalla periferia al centro, abbandonando modalità di interazione passive per modalità più attive. Il successo dell’apprendimento è in questo caso dato dal passaggio dalla periferia al centro. Anello debole di questo modello è dato però dalla sua applicazione alle società moderne: mentre la partecipazione a gruppi di società, ad esempio, aborigene rispecchiano chiaramente quanto postulato (sono culture stabili in cui i contenuti culturali, invariati da molto tempo, sono trasmessi da una generazione all’altra senza variazioni), la stessa cosa non avviene per la nostra società, in cui si assiste a repentini cambiamenti. L’apprendimento, allora, non è tanto un’acquisizione di pratiche del proprio gruppo, quando un superamento di pratiche esistenti per giungere a pratiche nuove. Anche il concetto di conoscenza si modifica radicalmente, è un corpus in continua trasformazione, 7 osservabile solo tramite le attività e le pratiche svolte in comunità. Essa emerge da una continua negoziazione dei significati all’interno di un gruppo. Non può essere contenuta in un luogo o in un individuo, ma è una conoscenza distribuita. La partecipazione non solo determina la conoscenza, ma definisce anche i contesti e le azioni che in essa si verificano. La mente è soltanto uno dei processi che definisce il processo di acculturazione: è imperscrutabile e si modifica anche solo per effetto della sua osservazione. L’interesse si sposta sull’identità dell’individuo, come attore del processo di partecipazione. La transazione L’ultima metafora proposta si rifà agli studi di Dewey e alla definizione di apprendimento come una transazione commerciale in cui si verifica una cessione da parte del venditore e un’acquisizione da parte dell’acquirente, apportando cambiamenti per entrambi gli attori e modificando anche il contesto. La metafora prende in considerazione congiuntamente individuo e ambiente nell’intento di dare una spiegazione della complessità del processo educativo. Tale metafora è stata proficuamente applicata per illustrare il funzionamento di contesti tecnologici in cui le voci dei singoli individui, che si producono in un contesto locale e non mediato, generano nuovi contesti telematici (si pensi ad un forum online). Anche la concezione di conoscenza deriva dalle idee di Dewey, secondo il quale la conoscenza è ciò che fa ritenere conclusa l’indagine, il risultato della transazione. Se l’indagine conoscitiva corrisponde alla trattativa (ossia al reperimento delle informazioni, alla loro valutazione, la conoscenza può essere considerato come il prezzo pagato per la compravendita. In questo modo, però, l’apprendimento appare un processo finito e limitato nel tempo, ma la conoscenza prodotta può dare avvio a nuove indagini in un processo circolare continuo. La mente è uno strumento utile alla ricerca di significati e valori, anche sulla base di esperienze precedenti, con lo scopo di aumentare il controllo del soggetto sull’ambiente. La mente, quindi, fornisce significato e senso alla pratiche per mezzo della quali si verifica la transazione. 8 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica I Unità Didattica – Lezione 3 Il comportamentismo Nei primi anni del 1900 dominavano la scena psicologica gli studi di Wilhem Wundt, un fisiologo e psicologo tedesco che fondò a Lipsia il primo laboratorio di psicologia sperimentale con lo scopo di studiare le funzioni elementari della mente (ad esempio, sensazione e percezione) (cfr. Barone, D’Urso, 2012). Il metodo di Wundt si basava sull’osservazione e sull’introspezione, ossia lo studio descrittivo delle sensazioni che il soggetto sperimentale provava durante le fasi dell'esperimento. Inoltre, anche la diffusione delle teorie psicoanalitiche freudiane avevano introdotto nell’ambito psicologico concetti come mente, inconscio. Negli Stati Uniti, nel 1913, John Watson pubblicò su Psychological Review, un ormai celebre saggio nel quale affermava la necessità di rifondare la psicologia su basi scientifiche, bandendo definitivamente i concetti di derivazione filosofica perché non riferibili a entità direttamente osservabili. Watson riteneva che soltanto gli atti esteriori dell’individuo dovessero essere oggetto dell’indagine psicologica; solo l’attenzione ai comportamenti osservabili, ossia qualsiasi risposta manifesta di un organismo agli stimoli ambientali, avrebbe potuto restituire scientificità e oggettività alle discipline psicologiche. A partire da tale rivendicazione presero avvio alcuni fra gli studi più noti sul comportamento umano: l’approccio comportamentista dominò il panorama internazionale per tutta la prima metà del ventesimo secolo. Secondo tale approccio, l’apprendimento è un cambiamento che si verifica nei comportamenti dell’individuo a seguito di una serie di stimoli ambientali. A fondamento di tale approccio sta la centralità attribuita all’ambiente come motore di qualsiasi apprendimento. Riprendendo le idee di Platone e di Locke, anche i comportamentisti affermano che, alla nascita, l’essere umano è una tabula rasa: nessun comportamento e nessuna conoscenza sono innate, tutto viene appreso grazie all’esperienza. L’apprendimento, quindi, ha un ruolo 9 fondamentale per i comportamentisti che ritenevano possibile spiegare ogni comportamento umano sulla base delle esperienze pregresse vissute dal soggetto. Da tale assunto consegue la forza attribuita all’apprendimento: predisponendo l’ambiente in maniera tale da far vivere ad un soggetto determinate esperienze, sarebbe possibile veicolare l’apprendimento di qualsiasi comportamento desiderato. I comportamentisti ritenevano che ogni apprendimento fosse frutto di un condizionamento, ossia di un’associazione fra uno stimolo ambientale e la risposta fornita dal soggetto. Secondo il comportamentismo radicale, il condizionamento era in grado di spiegare ogni risposta umana. Due sono i tipi di condizionamento: il condizionamento classico e il condizionamento operante. Il condizionamento classico fu teorizzato da Pavlov, un fisiologo russo. Noto è il suo esperimento sul riflesso condizionato nei cani. Pavlov osservò che, ponendo un cane di fronte ad una ciotola di cibo (stimolo incondizionato) la sua salivazione aumentava (riflesso incondizionato). Il fisiologo iniziò così a presentare unitamente alla ciotola di cibo il suono di un campanello o l’accensione di una luce (stimoli condizionati). Dopo alcune presentazioni, era sufficiente che il cane udisse il suono del campanello perché si verificasse l’aumento della salivazione (risposta condizionata), senza che venisse presentata la ciotola di cibo. Che cosa era accaduto? Il cane aveva appreso una nuova associazione, che faceva sì che una reazione naturale e fisiologica (l’aumento della salivazione) venisse associato ad un evento non naturale, come la variazione delle condizioni ambientali. Il condizionamento classico, però, poteva dare spiegazione soltanto di associazioni che comprendevano risposte già presenti nell’individuo, mentre il modello non si applicava all’acquisizione di nuovi comportamenti. Gli studi di Thorndike e Skinner sul condizionamento operante o per prove ed errori cercarono proprio di colmare questo vuoto, invertendo nei loro esperimenti le fasi del condizionamento classico e facendo sì che la risposta fosse precedente allo stimolo con funzione di rinforzo (cfr. Barone, D’Urso, 2012). Il condizionamento operante, infatti, centra l’attenzione sull’azione del soggetto dalla quale deriva un rinforzo che ha lo scopo di consolidare la messa in atto del 10 comportamento precedente. Come per il condizionamento classico, cerchiamo di comprendere con un esempio quanto appena letto. Skinner dimostrò che inserendo un topolino in una gabbia, questo veniva ricompensato con del cibo ogni volta che premeva una leva. La prima comparsa dell’azione desiderata, ossia la pressione della leva, avveniva in forma del tutto casuale. Il ripetersi della successione di eventi pressione della leva somministrazione di cibo faceva sì che il topolino si impegnasse attivamente nella riproduzione del comportamento auspicato dallo sperimentatore. La somministrazione di cibo aveva secondo Skinner la funzione di rinforzo, ossia uno stimolo con funzione di aumentare la frequenza del comportamento immediatamente precedente alla sua comparsa. Skinner differenziò fra il rinforzo positivo, ossia il verificarsi di una situazione piacevole (come trovare del cibo per un ratto affamato rinchiuso in una gabbia), il rinforzo negativo, ossia il venire meno di una situazione spiacevole (al ratto non viene più somministrata una scossa se preme una leva) e la punizione, cioè un evento che diminuisce la probabilità che si manifesti il comportamento cui è associata (al ratto viene somministrata una scossa se si avvicina all’uscita della gabbia). Il rinforzo è fondamentale: quando viene meno, i comportamenti indotti tendono a ridurre la propria comparsa (se il topolino premerà più volte la leva senza ricevere cibo, tenderà a ridurre il comportamento fino alla sua scomparsa). Il condizionamento operante trovò vasta applicazione in due ambiti, quello scolastico e quello militare. Nel primo caso, Skinner ideò un sistema di istruzione programmata o istruzione lineare mirato a personalizzare l’apprendimento sulla base dell’accertamento dei prerequisiti del soggetto e un puntuale controllo e rinforzo dell’apprendimento in corso. Egli mise a punto delle macchine per insegnare, dispositivi provvisti di schede nelle quali ogni unità di apprendimento veniva scomposta in unità di contenuto minime e di difficoltà crescente. Sulla base dell’accertamento iniziale ogni apprendente poteva iniziare il percorso dal segmento più prossimo alle proprie preconoscenze e proseguire a piccoli passi con costante verifica dell’apprendimento precedente. Tale strutturazione dell’apprendimento aveva il pregio, secondo Skinner, di minimizzare il più possibile la possibilità 11 di commettere errori. Secondo il comportamentismo, infatti, l’errore deve essere attivamente evitato poiché impedisce la possibilità di ricevere un rinforzo e quindi riduce gli esiti del processo di apprendimento e porta il soggetto sperimentare associazioni scorrette. Negli anni successivi, oltre alla programmazione lineare sono state proposte la programmazione ramificata, che poneva l'enfasi sulla flessibilità del programma più che sul rinforzo e il mastery learning (apprendimento per la padronanza), che poneva l'enfasi sul tempo per apprendere a disposizione dello studente. Con riferimento all’ambito militare, invece, gli assunti del comportamentismo sono stati applicati alle procedure di addestramento; interessanti contributi sono stati apportati ai concetti di task analysis e di feedback nell’ambito dello studio dell’apprendimento di abilità percettivo motorie complesse. Con task analysis, ossia analisi del compito, si intendono le procedure messe in atto per l’individuazione dei requisiti comportamentali necessari allo svolgimento di un compito, ossia un’analisi puntuale delle caratteristiche richieste per l’esecuzione di un comportamento complesso. Il feedback è invece un'informazione di ritorno, attraverso la quale si ottiene la conoscenza dei risultati ed è importante per valutare l'accuratezza della prestazione in cui si è coinvolti. È, ad esempio, un feedback l’insieme di informazioni che riceviamo da un docente cui abbiamo consegnato un elaborato scritto: sono feedback tanto una semplice valutazione, quanto una riflessione sui punti di forza e di debolezza della nostra prestazione (cfr. Barone, D’Urso, 2012). 12 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica I Unità Didattica – Lezione 4 Il Comportamentismo: prospettive alternative Nel corso degli anni, alcune critiche furono mosse ai comportamentisti, soprattutto con riferimento all’indiscusso ruolo del rinforzo come presupposto necessario per garantire l’apprendimento di comportamenti nuovi e alla volontà di studiare l’apprendimento umano soltanto attraverso l’osservazione del comportamento manifesto. Tolman, negli ani Trenta, si occupò di indagare il rapporto fra apprendimento e prestazione, mettendo in dubbio che ad un determinato livello di apprendimento dovesse sempre corrispondere, così come postulato dai primi comportamentisti, un medesimo livello di prestazione in un compito. In altre parole, Tolman si occupò di dimostrare in sede sperimentale l’esistenza di un apprendimento latente, non direttamente connesso alla ricezione di un rinforzo (cfr. Barone, D’Urso, 2012). Per verificare la propria ipotesi, selezionò tre gruppi di ratti e osservò i loro comportamenti in un labirinto. I topi del gruppo A ottenevano del cibo (rinforzo) ogni qualvolta raggiungevano l’uscita del labirinto, quelli del gruppo B erano lasciati liberi di muoversi per il labirinto senza alcun rinforzo, mentre i topi del gruppo C erano trattati, per i primi 10 giorni, come il gruppo B e per la settimana successiva come il gruppo A. Nei primi 10 giorni di sperimentazione il ruolo del rinforzo era evidente: i ratti del gruppo A dimostravano di aver appreso la struttura del labirinto, raggiungendo rapidamente l’uscita con una rapida diminuzione degli errori nel tempo; negli ultimi 7 giorni, però, i ratti del gruppo C raggiungevano rapidamente nelle prestazioni i ratti del gruppo A, fino a superarli, ottenendo risultati migliori nella ricerca dell’uscita del labirinto. Come ipotizzato, i topi del gruppo C dovevano avere appreso nei primi 10 giorni la struttura del labirinto e senza la necessità di alcun rinforzo. Tolman si riferisce a questo proposito alla creazione di una mappa cognitiva, ossia una rappresentazione mentale della meta e dello spazio che conduce ad essa: grazie a tale mappa, secondo il principio del minimo sforzo, la meta viene raggiunta per 13 mezzo del percorso più semplice e meno dispendioso. Secondo tale prospettiva, quindi, muta il ruolo del rinforzo ai fini dell’apprendimento: è utile per la manifestazione del comportamento, ma non per il suo apprendimento che rimane latente in assenza di una motivazione specifica; il rinforzo è quindi utile per manifestare un apprendimento ed è quindi maggiormente associato ad un’elevata prestazione, piuttosto che ad un’avvenuta acquisizione. Un altro contributo di rilievo fu apportato da Kohler, con riferimento ad un apprendimento che non riusciva ad essere esplicato dai paradigmi del comportamentismo radicale (cfr. Barone, D’Urso, 2012). Kohler si concentrò infatti sull’apprendimento per insight, ossia quel tipo di apprendimento che pare verificarsi all’improvviso, senza l’intervento di alcun tipo di rinforzo. Ci riferiamo in questo caso a quelle situazioni, che tutti noi abbiamo sperimentato, in cui ci sentiamo bloccati da un problema senza essere in grado di trovare una soluzione fino a che, improvvisamente, la soluzione appare d’improvviso alla nostra mente, come un’illuminazione. Kohler condusse alcuni esperimenti con uno scimpanzé rinchiuso in una gabbia. Al di fuori di essa venivano posti della frutta e due bastoni di diversa lunghezza. Lo scimpanzé, dall’interno della gabbia, non poteva raggiungere direttamente né il cibo, né il bastone più lungo, ma poteva afferrare il più corto. Per riuscire a cibarsi, lo scimpanzé doveva servirsi del bastone corto per poter afferrare quello lungo e, solo grazie a questo, raggiungere la frutta. Le sedute osservative effettuate registravano dei tentativi dello scimpanzé di raggiungere il cibo tramite il bastone corto e poi dei lunghi momenti di inattività, in cui lo scimpanzé sembrava disinteressarsi totalmente del problema. Improvvisamente, poi, giungeva l’insight: lo scimpanzé si serviva del bastone corto per afferrare quello lungo e avvicinava a sé il cibo. Anche in questo esperimento veniva meno uno degli assunti base del comportamentismo: non si assisteva ad un apprendimento per piccoli passi o per prove ed errori, ma l’abilità complessa sembrava venire acquisita improvvisamente e non per progressivi avvicinamenti. L'intuizione dello scimpanzé era una modificazione repentina e unitaria del campo che portava a riconsiderare in modo qualitativamente diverso gli elementi in esso contenuti. Parleremo ancora di insight nel modulo 3 dedicato ai processi di apprendimento. 14 Intorno agli anni Cinquanta, i teorici dell’apprendimento sociale apportarono nuovi contributi all’approccio comportamentista, oggetto di critiche da parte di molti psicologi in quanto ritenuto insufficiente a spiegare la complessità del comportamento umano soltanto per mezzo del condizionamento classico e operante. È importante ricordare il contributo di Albert Bandura che studiò il concetto di apprendimento sociale, cercando di calare alcuni assunti del comportamentismo all’interno della fitta rete di relazioni in cui quotidianamente l’essere umano è inserito (cfr. Barone, D’Urso, 2012). Uno dei motori dell’apprendimento fin dalla più tenera età, è secondo Bandura, l’imitazione, considerato in tale prospettiva come un meccanismo autonomo di apprendimento. Dall’osservazione di altre persone, il bambino apprende comportamenti e atteggiamenti che farà propri senza necessità di un rinforzo esterno: questo è il motivo per cui gli individui manifestano anche comportamenti mai rinforzati precedentemente, frutto dell'osservazione di altre persone rinforzate per il loro comportamento. Cambia quindi il ruolo affidato al rinforzo che risulta essere necessario più per l’esecuzione della risposta (creando motivazione) che per l’apprendimento. Se il modello riceve rinforzi positivi questi avranno un effetto sull’apprendimento dell’osservatore che vorrà compiere la stessa azione per essere ricompensato; i rinforzi diretti potranno invece consolidare la risposta. Consideriamo un esempio di apprendimento per imitazione: un bambino che osserva un’insegnante lodare spesso una sua compagna perché si impegna molto nei compiti, può cercare di imparare a comportarsi nello stesso modo, così come, al contrario, riuscire a imparare che può farla franca comportandosi inadeguatamente. Ulteriore novità apportata da tale approccio è l’attribuzione di un ruolo essenziale al pensiero cosciente a guida del comportamento grazie alla considerazione delle aspettative, delle credenze, delle cognizioni di ogni individuo che influenzano ogni essere umano nell’interpretazione della realtà. Durante tutta la vita, grazie all’osservazione del proprio e dell’altrui comportamento, gli individui regolano i comportamenti sulla base delle conseguenze delle proprie azioni, 15 considerandone i successi e i fallimenti: in tale modo sono in grado di comprendere che cosa sia adeguato in una determinata circostanza e di anticipare il risultato di un comportamento. Ma in quale modo si apprende osservando un modello e cercando di imitarlo? Affinché tale processo abbia successo e sia efficace è necessaria l’attivazione di alcuni processi cognitivi, ossia: a) processi attentivi, che consentono la messa a fuoco del modello oggetto di imitazione b) processi rappresentazionali, che permettono la rappresentazione in memoria della sequenza di azioni compiuta dal modello e la relativa interpretazione c) processi di riproduzione, che riguardano la capacità da parte dell’individuo di attuare una riproduzione motoria, ossia ripetere la sequenza osservata a livello motorio d) processi motivazionali, ossia la presenza di autoconsapevolezza che permette di individuare quali vantaggi derivino dall’esecuzione del modello. A ben vedere, pur nascendo in ambito comportamentista, la teoria di Bandura si colloca più giustamente nell’ambito cognitivista, richiedendo l’abbandono della sola considerazione del comportamento manifesto per spiegare l’apprendimento e inserendo la considerazione delle attese di conseguenze sulla base di eventi passati e l’influenza di opinioni e credenze nell’interpretazione del mondo. 16 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica I Unità Didattica – Lezione 5 Il cognitivismo HIP A partire dagli anni Cinquanta, mentre l’egemonia del comportamentismo veniva sempre meno a causa delle crescenti critiche mosse alla visione meccanicistica dell’apprendimento, presero avvio alcuni studi che ritornarono a studiare la mente umana tramite le inferenze tratte dai comportamenti osservabili. Il successo di tali studi fu di portata elevata tanto da trasformare tale prospettiva di indagine nella prospettiva dominante sulla cognizione e l’apprendimento umano. Il termine cognitivismo venne però coniato molto più tardi, soltanto nel 1967, quando Neisser, in un volume dal titolo Cognitive Psychology, esplicitò in una trattazione organica l’attenzione riservata ai processi cognitivi offrendone un nuovo paradigma esplicativo (cfr. Barone, D’Urso, 2012). Neisser propose infatti il modello HIP (Human Information Processing) che considerava la mente umana come un elaboratore di informazioni. Prima di addentrarci in tale modello, è importante definire, però, che cosa sono i processi cognitivi: sono le rappresentazioni e i processi mentali che permettono di percepire ed elaborare le informazioni alla base del comportamento (Job, 1988). Gli individui possono conoscere il mondo attraverso le funzioni mentali come la percezione, l'attenzione, la memoria, il pensiero. Grazie ai processi mentali possiamo trasformare, ridurre, lavorare, immagazzinare e recuperare le informazioni che arrivano ai nostri sistemi sensoriali. Tutte le attività che svolgiamo grazie ai processi cognitivi sono per la maggior parte consapevoli e attengono alle nostre risposte volontarie piuttosto che involontarie. 17 Il modello HIP del processo di elaborazione dell'informazione Neisser riteneva che si potesse effettuare un parallelo fra i processi cognitivi umani e le modalità di elaborazione dell'informazione svolte da un computer. Un software è infatti formato da una serie di istruzioni perché possano essere compiute delle operazioni passo passo, che vengono raggruppate e riunite secondo forme differenti. Alcune istruzioni, vengono conservate nel computer per un tempo limitato, utile all'applicazione delle operazioni in una memoria temporanea, di servizio, oppure possono essere conservate in una memoria a lungo termine, un disco fisso, perché possano essere a disposizione ogni volta che siano necessarie all'elaboratore. Così come il computer, anche l'essere umano manipola delle informazioni, trasformando le informazioni in ingresso per produrre informazioni in uscita; così come un computer, l'essere umano ha dei limiti circa la quantità di informazioni che può manipolare e circa il tempo impiegato per elaborare le stesse. Non stiamo qui formulando un parallelo fra le caratteristiche fisiche di un elaboratore e di un essere umano: la metafora propone un'analogia fra le modalità di processare l’informazione. Confronto dell’informazione Trasduzione sensoriale Registro sensoriale INPUT ambientale o stimolo Mantiene l’informazione nella forma originaria a cessata stimolazione Informazione riconosciuta Informazione ignorata MBT o memoria temporanea di lavoro MLT o magazzino permanente Compiti cognitivi, processi di controllo OUTPUT o risposta dell’organismo Fig. 1. Il modello dei magazzini di memoria (Atkinson e Shiffrin, 1968) Nel 1968, Atkinson e Shiffrin, all'interno degli studi condotti sulla memoria umana, proposero il modello dei magazzini di memoria al fine di spiegare in che modo l'informazione venisse recepita, trasformata e conservata dall'essere umano. Se il comportamentismo fino ad allora si era interessato 18 alle associazioni che determinavano un legame fra un determinato input e un corrispondente output, il cognitivismo cercò di indagare quali erano i processi mentali che intercorrevano fra la ricezione di un input dall'ambiente e la produzione di un output da parte dell'individuo. Secondo tale modello esistono tre principali magazzini di memoria, attraverso i quali l’informazione viene processata: il registro sensoriale, la memoria a breve termine e la memoria a lungo termine. Ogni qualvolta i nostri sensi percepiscono una sensazione, il registro sensoriale si occupa di conservare tale unità informativa per poche frazioni di secondo, durante le quali lo stimolo viene confrontato con alcune informazioni presenti nella memoria a lungo termine, al fine di giungere al riconoscimento dello stimolo (operando una trasduzione sensoriale). Se lo stimolo viene considerato non utile, viene ignorato; in caso contrario, l'informazione passa alla memoria a breve termine (o memoria di lavoro). Tale memoria ha una capacità limitata, sia in termini di tempo (qualche decina di secondo), sia in termini di spazio (in media 7 unità informative). La memoria a breve termine ha un ruolo duplice e fondamentale: è il magazzino nel quale transitano le informazioni provenienti dal registro sensoriale prima di essere trasmesse e conservate nella memoria a lungo termine, ma soprattutto è lo spazio in cui le informazioni vengono elaborate, integrate e modificate al fine di poter produrre un output. Il terzo magazzino è la memoria a lungo termine, ossia un archivio potenzialmente illimitato nel quale vengono conservate, per alcuni minuti o per tutta la nostra vita, le conoscenze, le esperienze, i fatti personali che caratterizzano la nostra persona. Nell'unità didattica riservata alla memoria, saranno approfondite le modalità attraverso le quali l'essere umano ricorda più facilmente determinati informazioni rispetto ad altre. Un tale cambio di prospettiva nell'indagine dei processi cognitivi, porta con sé una concezione totalmente diversa del concetto di apprendimento, che non pone più attenzione al prodotto ma al processo. Il focalizzare l'attenzione sui processi che intervengono tra rappresentazioni di stimoli e la produzione di risposte richiede nuovi metodi di indagine e nuove concezioni dell'essere umano che elabora attivamente l'informazione. L'individuo diventa costruttore dell'informazione, un'informazione che viene rappresentata internamente e che può raggiungere diversi livelli di 19 astrazione; essa si costruisce grazie a più attività separate che operano in concerto e tali attività possono essere distinte fra loro, ma non possono essere esplicative della complessità del pensiero se non sono considerate nella loro interezza. L'apprendimento è, quindi, secondo i cognitivisti, un processo costruttivo, strategico-attivo e interattivo. L'individuo, infatti, costruisce la propria realtà e la propria conoscenza, compiendo inferenze anche su base motivazionale e affettiva. Le rappresentazioni del mondo sono organizzate secondo schemi mentali (vedi unità didattica successiva) che sono creati, modificati, ristrutturati sulla base dei nuovi stimoli e delle nuove informazioni che pervengono alla nostra mente. L'apprendimento infatti nasce dal confronto tra l'informazione in arrivo e le conoscenze depositate in memoria; la conoscenza si costruisce sulla base della conoscenza precedente e a partire da questa si organizza. L’apprendimento è anche definito strategico perché richiede una strategia, un'attività specifica da parte del soggetto. Una strategia è una modalità, una procedura per affrontare un compito in vista di un obiettivo da raggiungere. Le strategie sono in genere attività intenzionali e controllate dall’individuo, anche se a livelli esperti possono diventare automatizzate. L'uso di strategie consente di realizzare prestazioni cognitive differenti, più o meno efficaci ed esistono molteplici strategie funzionali al raggiungimento di obiettivi specifici e all'esecuzione di diversi compiti scolastici. L'uso di strategie è in stretta relazione con le componenti metacognitive e motivazionali dell'apprendimento e su di esse si può intervenire per migliorare il processo di apprendimento: le strategie sono, infatti, modificabili e insegnabili. Infine, l’apprendimento è un processo interattivo perché nell'elaborazione dell'informazione è fondamentale l'interazione tra processi dal basso e processi dall'alto, ma anche l'interazione tra il vecchio e nuovo. Inoltre, ogni apprendimento è risultato dell'interazione tra i processi cognitivi e tra quelli metacognitivi. 20 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica I Unità Didattica – Lezione 6 La conoscenza: tipologie e strutture. Gli schemi Uno dei maggiori contributi dell’approccio cognitivista riguarda lo studio approfondito delle strutture, dei meccanismi e delle strategie che consentono all'essere umano di acquisire conoscenze. Gli studi che hanno elaborato teorie generali dell'attività cognitiva hanno contribuito ad esplicitare la distinzione fra alcune conoscenze possedute dall'essere umano. Anderson ha definito la memoria dichiarativa come l’insieme dei nomi, dei significati, dei fatti, delle regole e delle date conosciute da un individuo e la memoria procedurale come i modi o le procedure attraverso le quali l'individuo esegue compiti; se la conoscenza dichiarativa riguarda il sapere cosa, la conoscenza procedurale riguarda il sapere come. Tulving ha esplicitato maggiormente le caratteristiche della conoscenza dichiarativa, postulando l'esistenza di due ulteriori tipi di conoscenza. Nella memoria episodica sono immagazzinate le informazioni sugli episodi e gli eventi che hanno una precisa collocazione nel tempo (e che quindi consentono di ricordare un appuntamento o il fatto di aver incontrato un amico): grazie ad essa possiamo di collocare i fatti su una precisa sequenza temporale, in confronto ad altri momenti e alla luce delle relazioni con gli altri; nella memoria semantica, invece, possiamo reperire tutte le conoscenze relative ai simboli verbali, ai significati e abbiamo la possibilità di ascrivere un'informazione in una classe precisa. Se la memoria episodica è più esposta all'oblio (a causa di interferenze o di sovrapposizioni con altri ricordi), la memoria semantica è più stabile, poiché tutte le informazioni sono inserite all'interno di strutture complesse composte da concetti e da relazioni; nel primo caso le informazioni sono aggregate sulla base di una vicinanza temporale, nel secondo caso l'aggregazione è relativa ad un'appartenenza categoriale o ad una somiglianza sintattica. 21 Le informazioni contenute nella conoscenza procedurale, invece, si distinguono per la loro caratteristica di maggiore o minore accessibilità. A volte può accadere infatti che, pur sapendo eseguire un compito, non siamo in grado di spiegare il procedimento seguito per giungere alla soluzione. Tale memoria riguarda le abilità e si evidenzia tramite il miglioramento di un fatto percettivo, motorio, cognitivo. Questo tipo di memoria, per esempio, ci permette di migliorare sempre di più nel digitare le lettere sulla tastiera di un computer, aumentando rapidità e precisione: non sappiamo quando e come abbiamo appreso tale capacità, siamo sono consapevoli di possederla. La memoria procedurale, quindi, si esprime in modo implicito, mentre quelle dichiarativa si esprime in modo esplicito. Appurata l'esistenza di diversi tipi di memoria e di conoscenza, è necessario ora soffermarsi su quali siano le strutture attraverso le quali viene rappresentata tale conoscenza. È necessario introdurre, quindi, la nozione di schema mentale, ossia unità organizzative della memoria attraverso le quali rappresentiamo le nostre conoscenze con riferimento ad oggetti, situazioni, eventi e azioni. Gli schemi possono essere considerati come i mattoni grazie ai quali costruiamo la nostra conoscenza, gli elementi fondamentali utilizzati per elaborare l'informazione. Ci serviamo degli schemi ogniqualvolta dobbiamo interpretare i dati provenienti dalla realtà, comprendere situazioni, creare nuova conoscenza, recuperare determinate informazioni dalla memoria, stabilire scopi e finalità. Gli schemi mentali possono essere descritti attraverso alcune analogie: possono essere considerati come un copione di una pièce teatrale, nella quale vi sono personaggi che, pur potendo essere interpretati da attori diversi di volta in volta, mantengono delle caratteristiche proprie, e nella quale si tratteggiano situazioni e ruoli diversi. Uno schema può anche essere paragonato ad una teoria perché viene utilizzato dall'individuo per interpretare situazioni eventi e fenomeni che toccano la propria vita: grazie agli schemi l’essere umano è in grado di effettuare previsioni e compiere inferenze su aspetti non direttamente osservabili. Uno schema, infine, ha analogie anche con il software per un computer: così come un programma è composto da moduli e sotto programmi, così uno schema è composto da sotto schemi in un continuum fra generale e particolare. 22 Riassumendo, le caratteristiche generali degli schemi sono: avere delle variabili, essere inseribili gli uni negli altri, rappresentare conoscenze a vari livelli di astrazione, rappresentare conoscenze e non definizioni, essere stati elaborati attivamente, essere dispositivi di riconoscimento utili alla valutazione dell'adeguatezza dell'informazione. La memoria di un individuo è composta da un numero elevatissimo di schemi che vengono di volta in volta attivati a seconda della situazione. L'attivazione può avvenire secondo processi dal basso, ossia quando sono i dati ad attivare direttamente gli schemi corrispondenti, oppure secondo processi dall'alto, quando concetti già posseduti si attivano per cercare di dare interpretazione della realtà. Una tipologia particolare di schema è lo script, vale a dire la rappresentazione di una sequenza di eventi che organizza in ordine temporale una serie di azioni compiute per conseguire uno scopo. Costituisce uno script, ad esempio, l'andare a cena fuori: si entra in un locale, si chiede al cameriere un tavolo, si prende posto, si ordina, si mangia, si chiede il conto, si paga, si esce dal locale. Gli script costituiscono una sequenza di azioni predeterminata e stereotipata, definendo situazioni ben conosciute: non sono quindi facilmente modificabili, né sono utili per affrontare situazioni completamente nuove. Quando la comprensione, infatti, è guidata da uno script, in una prima fase viene individuato lo script più adatto alla situazione da comprendere e in una seconda fase si ricostruiscono gli eventi affinché siano ascrivibili allo script selezionato. Nel caso in cui ci si trovi in una situazione totalmente nuova, lo script non può essere di aiuto e l’individuo è costretto ad interpretare la situazione utilizzando soltanto le informazioni che possiede circa il comportamento delle persone. Se l’individuo organizza tutta la sua conoscenza attraverso schemi, allora è necessario interrogarsi sul modo in cui essi si strutturano. Come può l'apprendimento intervenire sugli schemi? Secondo Rummelhart e Norman (1978) possono avere luogo tre tipi di apprendimento: per accrescimento, per sintonizzazione o per ristrutturazione. L'apprendimento per accrescimento si verifica quando vengono incorporate informazioni nuove entro schemi già disponibili e presenti nella mente di un soggetto. Tali schemi non vengono 23 sottoposti ad alcuna modifica, semplicemente sono aggiunte ulteriori informazioni; in questo caso l'apprendimento è semplice e non è dispendioso né dal punto di vista cognitivo né dal punto di vista motivazionale. L'apprendimento per sintonizzazione (o tuning) avviene quando è necessario modificare gli schemi attivati al fine di poter interpretare nuove conoscenze. Esistono differenti tipi di sintonizzazione: una mira a migliorare l'applicabilità dello schema grazie ad una maggiore specificazione dei concetti e delle relazioni che li caratterizzano, rendendo lo schema più appropriato; una seconda modalità consiste nel generalizzare l'applicabilità dello schema a più variabili; infine, la sintonizzazione può consistere anche nella riduzione delle variabili alle quali è applicabile uno schema o nell'individuazione di dati mancanti che consentono una maggiore chiarezza dello schema stesso. L'apprendimento per ristrutturazione si verifica nel momento in cui le nuove informazioni dell'ambiente non si adattano ad alcun schema preesistente. In questo caso è necessario l'elaborazione di una nuova struttura o la riorganizzazione in una nuova forma della conoscenza già immagazzinata. La ristrutturazione è considerabile come il tipo di apprendimento più raffinato, significativo e impegnativo per il soggetto, sia sul piano cognitivo sia sul piano motivazionale. 24 Bibliografia Alexander, P., Winne, P. (2006). Handbook of educational psychology. LEA. Baroni, M.R., D’Urso, V. (2012). Psicologia generale. Torino: Einaudi. Piaget, J. (1932). Il giudizio morale del fanciullo. Trad. it., Firenze: Giunti, 1973. 25 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica UNITÀ DIDATTICA 2 L’APPROCCIO SOCIOCULTURALE E RELAZIONI IN CLASSE Lezione 1 Approccio socio culturale e la scuola storico-culturale russa Nel primo modulo di questo corso, abbiamo affrontato due approcci classici allo studio dell’apprendimento. In questo secondo modulo ci soffermeremo sugli studi che hanno legato il concetto di cultura alle teorie sull’insegnamento-apprendimento. A partire dagli anni Settanta, si affacciò sulla scena psicologica un nuovo approccio allo studio dell’apprendimento che prese avvio dalle critiche mosse al cognitivismo. Gli studi condotti sulla cognizione umana avevano permesso di conoscere meglio i processi attraverso i quali l’individuo elabora le informazioni provenienti dall’ambiente, ma, proprio a causa della metafora proposta dalla HIP, avevano postulato un modello di cognizione fredda, che non prendeva in considerazione gli aspetti emotivi e sociali del processo di apprendimento. Inoltre, le prospettive universaliste, che postulavano uniche modalità di sviluppo e apprendimento per qualsiasi individuo, risultavano poco esplicative di quanto la cultura e il contesto all’interno del quale viveva la persona potessero influenzare il processo di apprendimento. Il maggior esponente dell’approccio socio-culturale è Michael Cole, il primo studioso ad inserire il concetto di cultura come centrale nello studio dell’apprendimento. A Cole va il merito di aver collocato in una teoria organica il concetto di cultura, ma anche di essere stato il principale diffusore delle idee di Lev Semënovič Vygotskij, uno psicologo russo, capostipite della scuola storico culturale russa. Cole formulò le sue considerazioni partendo dal fatto che le attività quotidiane sono rese possibili soltanto attraverso oggetti e persone; esse sono cioè mediate da oggetti, persone, strumenti di vario 26 genere, sia materiali sia simbolici, primo fra tutti il linguaggio. Gli strumenti di mediazione del comportamento umano sono gli artefatti culturali: un artefatto è un qualsiasi aspetto del mondo materiale, modificato nel corso della storia della sua utilizzazione, all'interno di attività umane dirette ad uno scopo. Gli artefatti sono al tempo stesso materiali (hanno una forma e un materiale specifico), ma anche concettuali (hanno un nome, sono stati inventati e creati da qualcuno, sono stati originati da interazioni sociali). Cole propone tre livelli di artefatti: il primo livello comprende utensili, strumenti per scrivere, o anche il linguaggio stesso; il secondo livello è rappresentazione degli artefatti di primo livello e può essere descritto come l’insieme dei modelli di azioni nei quali gli artefatti sono impiegati; il terzo livello, infine, comprende concetti, convenzioni, norme che costituiscono sistemi di credenze, come ideologie, filosofie, religioni. Se gli artefatti sono il perno della mediazione culturale, allora la cultura è l’insieme organizzato degli artefatti. Cole trasse profonda ispirazione dalle opere di Vygotskij, secondo il quale gli artefatti, e di conseguenza le attività pratiche della vita quotidiana, si sviluppano nel corso della cultura all'interno del suo sviluppo storico. Le attività pratiche consentono all'individuo di appropriarsi degli artefatti culturali, i quali per la maggior parte appartengono anche alle generazioni precedenti; gli artefatti, quindi, diventano mediatori della cultura producendo effetti sull'uomo, sui suoi comportamenti e sulle sue caratteristiche psicologiche. Se l'essere umano si appropria di artefatti già prodotti e utilizzati da generazioni precedenti, diventa allora fondamentale il dispiegarsi della cultura nella storia: appropriandosi di artefatti già prodotti, l'uomo si appropria della cultura delle generazioni precedenti, ma produce anche nuove possibili forme e usi di artefatti per le generazioni successive. Le fonti ispiratrici dell’approccio vygotskiano possono essere rintracciate nella filosofia di Hegel e di Marx, che costituivano anche gli strumenti culturali utilizzati in Russia a partire dalla rivoluzione del 1917 per fondare la nuova società comunista. In contrapposizione delle idee di Piaget, conosciuto da Vygotskij attraverso le prime opere degli anni Venti, sostiene la relatività dello sviluppo cognitivo in rapporto alla cultura di appartenenza del singolo. Lo sviluppo cognitivo deve 27 essere, quindi, inquadrato secondo quattro diversi ambiti che concorrono al formarsi della mente: lo sviluppo della specie, lo sviluppo storico e culturale dell'umanità, lo sviluppo del singolo individuo e quello di ciascun singolo processo psicologico. Ogni qualvolta, quindi, si parli di sviluppo cognitivo dell'individuo, tale sviluppo deve tenere conto dei processi di cambiamento che agiscono sui restanti tre piani. Vygoskij affermava che lo sviluppo umano ha una doppia matrice: una biologica e una culturale. Alla matrice biologica, universale per ogni individuo, corrisponde lo sviluppo delle funzioni psicologiche primarie (come la percezione, l’attenzione…) che l’essere umano condivide anche con il mondo animale. Le funzioni psicologiche secondarie, invece, hanno una matrice culturale, sono ossia determinate dalla cultura in cui l’individuo è immerso. A partire da tali assunti, Vygotskij enuncia la legge generale dello sviluppo culturale: ritiene cioè che ogni funzione psichica superiore si presenti due volte nel corso dello sviluppo culturale degli individui e si possa già osservare nello sviluppo dei bambini: inizialmente si presenta sul piano sociale (interpsichico) e, solo successivamente, sul piano individuale (intrapsichico). Il processo sociale evidenziato da Vygotskij riguarda il rapporto tra individui coinvolti in interazioni in piccoli gruppi, mediato dall'uso di strumenti prodotti dalla cultura e trasmessi di generazione in generazione, di cui devono appropriarsi. Lo psicologo russo distingueva fra gli strumenti tecnici, definibili semplicemente strumenti, da quelli psicologici o segni. Se uno strumento è rivolto al mondo esterno per produrvi un cambiamento, un segno (ad esempio, il linguaggio, il calcolo, la scrittura, le opere d'arte, le tecniche mnemoniche) è, invece, rivolto all'interno per influenzare psicologicamente il comportamento, ossia regolarlo e controllarlo. I processi mentali hanno uno sviluppo culturale in quanto vengono trasformati dai segni o strumenti psicologici: ad esempio, il linguaggio scritto, usato per ricordare meglio qualcosa, trasforma la memoria stessa oltre che aiutarla, mettendo l'individuo in grado di essere consapevole di tale funzione e di poterla controllare. Pensando ad esempio al linguaggio, osserviamo come questo permette al fanciullo di comunicare con gli altri, di regolare il loro comportamento chiedendo che facciano o che gli diano 28 qualcosa, così come di essere a sua volta regolato dagli altri, facendo ciò che gli dicono. Le capacità interpsichiche sono gradualmente interiorizzate, trasformandosi in individuali e intrapsichiche: grazie ad esse il bambino è in grado di regolare il proprio comportamento e di progettare le proprie azioni. In un primo tempo, il fanciullo è capace di orientare il proprio comportamento soltanto parlando a voce alta da solo, ad esempio commentando cosa sta disegnando o esplicitando ciò che fa. Solo in un secondo tempo, intorno ai sette-otto anni, egli non avvertirà più la necessità di parlare a voce alta o bassa: a quel punto il fanciullo dispone di un linguaggio interiore per mezzo del quale pensare a ciò che sta facendo o intende fare. Il linguaggio interiore rende accessibili altre attività psichiche, come il ragionamento. Ecco come un'attività, inizialmente eseguibile dal bambino solo sul piano sociale, diventa ragionamento come attività intrapsichica. L'interiorizzazione viene descritta da Vygotskij attraverso quattro fasi identificabili nell'interazione tra un bambino e un adulto su un problema da risolvere. Inizialmente, il bambino risponde alle stimolazioni ambientali in maniera diretta, non mediata cioè da alcun segno; l’adulto in interazione con lui può controllare il suo comportamento solo agendo sugli stimoli. Ad un certo punto, il bambino comincia a utilizzare un segno esterno che non padroneggia completamente, ma che lo svincola dalla risposta immediata allo stimolo; in seguito, il bambino, ripetendo l'operazione con l'aiuto dell'adulto, diviene consapevole del ruolo del segno come supporto della sua attività mentale. Infine, il bambino non ha più bisogno del supporto dell'adulto né del segno materiale, perché ha effettivamente interiorizzato la funzione del segno ed è in grado di utilizzarla autonomamente. 29 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica II Unità Didattica – Lezione 2 Il concetto di Zona di Sviluppo Prossimale In questa lezione, focalizzeremo la nostra attenzione sulle ricadute evolutive della teoria di Vygotskij. Il forte ancoraggio delle funzioni psicologiche umane ad origini sociali porta con sé la necessità di porre attenzione fondamentale alle condizioni concrete nelle quali i bambini crescono, in particolare al ruolo degli adulti o comunque delle persone più grandi, come già esperti della cultura. Se ogni funzione psicologica superiore si presenta prima a livello interpsichico, non è allora possibile valutare le abilità cognitive del bambino secondo una concezione statica (si pensi al QI così come valutato da Binet e Simon): è necessario utilizzare una concezione dinamica, partendo dall'assunto che esista un potenziale intellettuale che non viene messo in luce se si utilizzano strumenti di misura esclusivamente individuali. Vygotskij definisce la zona di sviluppo prossimale come la distanza fra il livello di sviluppo attuale, definito dal tipo di abilità mostrata da un soggetto che affronta individualmente un compito, e il livello di sviluppo di cui un soggetto dà prova quando affronta un compito del medesimo tipo, con l'assistenza di un adulto o di un coetaneo più abile. Si tratta, ossia, di una zona determinata da due limiti: il limite inferiore è dato dalla capacità individuale, il limite superiore dalla capacità della stessa persona quando svolge un compito aiutato da una persona più esperta. Le misure statiche dei testi intellettivi, quindi, non possono misurare in modo esauriente il funzionamento mentale di un individuo: le funzioni mentali, in costante sviluppo, dovrebbero essere osservate non durante prove individuali, ma durante la loro costruzione, cioè in attività di collaborazione. Proprio a partire dal concetto di zona di sviluppo prossimale, Vygotskij ha elaborato il metodo funzionale della doppia stimolazione per studiare la formazione degli strumenti cognitivi. Vygotskij presentava ai soggetti una prova considerata al di sopra delle loro possibilità attuali, poiché non avevano a disposizione gli strumenti adatti a trovare la soluzione. In un secondo momento offriva ai 30 soggetti un nuovo set di materiali, osservando se e come questi diventavano parte della soluzione del compito; attraverso l'osservazione dei comportamenti messi in atto da un soggetto per giungere alla soluzione, Vygotskij poteva comprendere come il soggetto costruisce specifici significati e come organizza l'intera situazione allo scopo di raggiungere la meta. La nozione di zona di sviluppo prossimale è stata utilizzata da Vygotskij anche nella valutazione di bambini con ritardo nello sviluppo: egli era convinto che, proprio valutando in modo accurato il potenziale di sviluppo di tali bambini, fosse possibile assicurare loro un apprendimento più efficace. Le ricadute del concetto di zona di sviluppo prossimale sull'insegnamento sono fondamentali. Se la Zona di Sviluppo Prossimale definisce i limiti cognitivi superiori ed inferiori, necessariamente qualsiasi attività di insegnamento-apprendimento dovrà collocarsi all'interno di tale zona. L'insegnante dovrà essere capace di proporre compiti adeguati, che non superino i limiti cognitivi superiori, in modo da non scoraggiare il bambino che non avrebbe alcuna possibilità di risolverli, ma che si collochino all'interno di tale zona; grazie all'interazione con il bambino su un determinato prima, l'insegnante spiega, indaga, informa, corregge e spinge il bambino a illustrare il proprio punto di vista. I docenti hanno disposizione una pluralità di tecniche e di strumenti utili a stimolare la zona di sviluppo prossimale; analizzeremo ora in breve l'osservazione di comportamenti, l'utilizzo della contingenza, il feedback, le istruzioni sul compito, il porre domande, la strutturazione cognitiva. Durante la sua azione didattica, un insegnante ha la possibilità di offrire comportamenti, intenzionali o meno, da osservare ed eventualmente imitare. Durante le attività quotidiane domestiche, ad esempio, è frequente apprendere tramite l'osservazione di modelli: si pensi al preparare la tavola, aggiustare oggetti, rifare il letto; i bambini partecipano in forma guidata a queste attività, avendo l'opportunità di osservare e chiedere di collaborar e a parte o a tutta l'attività. Questo tipo di apprendimento è, però, diverso dall'osservazione diretta comportamentista, poiché, durante la partecipazione, i soggetti negoziano il significato delle azioni e degli oggetti presenti in quella situazione. 31 L'utilizzo della contingenza, invece, fa riferimento a una modalità di controllo della produzione dei comportamenti: l'insegnante, o il genitore, può fare uso di premi o punizioni di vario genere con lo scopo di ottenere dal bambino la produzione del comportamento auspicato, oppure la non ripetizione di un comportamento non desiderato. I premi utilizzati possono essere diversi: incoraggiamenti verbali, piccoli doni, denaro, privilegi simbolici. In ambito educativo, le punizioni fanno quasi esclusivamente riferimento alla mancata consegna di un premio, o alla sua sottrazione, o a rimproveri di tipo verbale. L'utilizzo della contingenza, soprattutto se legato alla concezione meccanicistica del condizionamento operante, può esser a volte inadeguato: Vygotskij criticò ampiamente gli assunti comportamentisti, ma è necessario sottolineare che tali modalità non sono comunque incompatibili con un'azione positiva sulla zona di sviluppo prossimale, soprattutto quando si tratta di riconoscere positivamente e premiare dei successi, e incoraggiare in caso di fallimento. Un altro concetto studiato dal comportamentismo che può avere utili ricadute è il feedback, ossia l'offerta all'allievo di informazioni sull'attività in corso o appena compiuta. Un feedback può essere tanto una valutazione esplicita (valutazione, voto) anche in riferimento a prestazioni di altri, o un commento fornito dall'insegnante all'allievo nel corso dell'attività. Nel contesto scolastico tanto gli insegnanti quanto gli allievi forniscono costantemente feedback; le informazioni di ritorno dell'insegnante, inoltre, diventano un criterio di riferimento non soltanto per l'alunno a cui è indirizzato il commento, ma per tutta la classe che dispone di un obiettivo per il quale regolarsi nell'esecuzione di compiti futuri. Tanto nella vita quotidiana così come scuola, ai bambini è spesso richiesta l'esecuzione di un compito o di un attività. Per far sì che il bambino possa operare in modo corretto, è fondamentale che l'insieme di informazioni ricevute siano chiare e poste all'interno di un sistema di obiettivi condivisi e espliciti. Il fornire istruzioni sul compito, quindi, esplicita al bambino un contesto di azione che giustifica e orienta il comportamento in funzione dello scopo. 32 Una delle attività più frequenti svolte dall'insegnante è il porre domande agli allievi. Le domande che innescano un'attività cognitiva e verbale negli alunni (che cos'è la fotosintesi clorofilliana?) consentono all'insegnante di osservare il livello potenziale di funzionamento cognitivo degli allievi e di assisterli nella formulazione di ipotesi e di concetti, nell'individuazione di esempi e nella elaborazione di conclusioni. Non tutte le domande però innescano attività cognitiva: alcune domande sono esclusivamente valutative, retoriche, fuorvianti; nel formulare la domanda è fondamentale che l'insegnante trasmetta un genuino interesse al pensiero del bambino e non all'espressione di un giudizio su di esso. L'insegnante, infine, può rendere disponibile al bambino le modalità adulte di strutturazione del pensiero e dell'azione. Può fornire all'allievo strutture di spiegazione, ossia definizioni di concetti o relazioni che intercorrono fra gli elementi di un tutto, o strutture che permettono di organizzare attività cognitive, ossia suggerimenti su come memorizzare meglio, raccogliere in maniera adeguata dati scientifici o organizzare le conoscenze. 33 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica II Unità Didattica – Lezione 3 Lo scaffolding: una riflessione sulla figura del tutor Tutti gli strumenti fino qui elencati trovano applicazione all’interno dello scaffolding. Il termine significa letteralmente “creare un’impalcatura” ed è stato introdotto nel 1976 da Wood, Bruner e Ross come metafora per illustrare le modalità degli adulti di organizzare le attività con i bambini. Gli studi sull’argomento hanno interessato soprattutto l’interazione delle madri con i propri figli nel secondo semestre di vita, ma le stesse caratteristiche sono state riscontrate anche nelle attività con bambini di età prescolare. Le funzioni dello scaffolding sono molteplici: riguardano il coinvolgimento del bambino ed il suo interesse per l’attività, il mantenimento dell’attenzione, la riduzione delle difficoltà che il compito può presentare, la segnalazione delle caratteristiche specifiche dell’attività per favorirne la comprensione e il controllo degli insuccessi al fine di evitare la frustrazione che può impedire la prosecuzione del compito. Vengono utilizzate le varie componenti elencate precedentemente: nessuna di esse garantisce da sola il raggiungimento dell’obiettivo, ma la combinazione dei diversi interventi si rivela essere più efficace per ottenere un progresso delle abilità individuali del bambino. Un’estensione della nozione di scaffolding si ritrova con la nozione di tutor, ossia quella particolare figura professionale che si assume il compito di sostenere un allievo (o un gruppo di allievi) guidandone le attività formative o lavorative per mezzo di un rapporto personalizzato e mediando i rapporti fra le figure di riferimento e l’allievo stesso. Wood (1989) ha evidenziato un modello di apprendimento nel quale tutor e allievo si distribuiscono in modo diverso i compiti e le decisioni per la realizzazione di un’attività. Gli interventi dell’adulto variano attraverso cinque livelli secondo le competenze dell’allievo: più questo è responsabile e abile nella gestione del compito, meno il tutor interverrà direttamente nel lavoro, lasciando 34 maggiore libertà di azione al bambino, limitandosi soltanto ad indicazioni generiche mirate più alla motivazione e all’attenzione che a fornire strutture di spiegazione per la prosecuzione del compito tramite istruzioni verbali o dimostrazione concreta di azioni. La Zona di Sviluppo Prossimale, oltre alle interazioni fra adulto e bambino, trova applicazione anche fra i coetanei. I primi studi risalgono agli Stati Uniti dei primi anni Sessanta di fronte ai problemi di scolarizzazione di massa e insuccesso scolastico. Molti autori hanno documentato gli effetti dell’insegnamento fra pari, notando che erano i tutor coloro che traevano maggiore profitto dall’attività con l’aumento della fiducia nelle proprie capacità, della socializzazione, dell’impegno e il miglioramento del profitto. Tutto questo sembrava riconducibile alle dinamiche di socializzazione che si attivavano grazie alla responsabilizzazione dei tutor da parte degli insegnanti. Le metodologie dell’apprendimento cooperativo o dell’apprendimento reciproco, ad esempio, sono nate da studi condotti sulla ZOPED e si rivolgono a bambini in età scolare. Esperienze positive si trovano anche in ambito lavorativo e formativo. Nell’ottica della prospettiva teorica situazionista, che considera l’acquisizione della conoscenza come il frutto di una negoziazione dei significati fra una pluralità di soggetti, Lave e Wenger (1991) hanno proposto la nozione di partecipazione periferica legittima secondo la quale gli individui che vivono in una specifica comunità di pratiche si appropriano progressivamente del linguaggio e delle pratiche sociali che si sviluppano all’interno della comunità stessa, diventandone partecipanti attivi attraverso la partecipazione guidata e l’appropriazione partecipata. La prima presuppone una condivisione degli scopi, delle responsabilità ed il rispetto dei compiti assegnati: il ruolo di guida è attribuito in funzione dei valori culturali e sociali; il concetto di appropriazione partecipata vede invece l’individuo modificare gradualmente i suoi comportamenti verso modalità più competenti grazie proprio alla partecipazione all’attività della comunità: tutto ciò gli consente di partecipare in maniera più fattiva allo sviluppo ed alla trasformazione della comunità stessa. 35 Bruner (1983), in un prolungamento delle idee di Vygotskij, considera lo sviluppo come un processo di assistenza, di collaborazione fra il bambino e l’adulto, quest’ultimo nel ruolo di mediatore con la cultura e il mondo esterno. Caratteristiche degli esseri umani sono la capacità di apprendere e in ugual modo quella di insegnare. Nella ricerca educativa sui processi cognitivi, il ruolo dei processi intrapsichici è in secondo piano rispetto a quelli interpsichici: l’attenzione è quindi rivolta a rendere accessibile il sapere e facilitare la comprensione nelle interazioni. La negoziazione, la costruzione e la condivisione del sapere si fondano sull’intersoggettività che Bruner considera una delle caratteristiche più specifiche dell’essere umano. La capacità di esplicitare il proprio ragionamento, di renderlo più accessibile attraverso la metacognizione, è molto importante per colui che deve imparare ad apprendere: conferisce al pensiero un carattere pubblico, negoziabile ed estremamente formativo. In questa prospettiva, in cui apprendere è un processo interattivo nel quale le persone imparano le une dalle altre, Bruner vede l’insegnamento mutuo come un metodo efficace che permettere di gestire meglio la diversità con il sostegno agli alunni meno esperti, favorisce l’emulazione e, sul piano della costruzione dell’identità personale, facilita l’inserimento nella comunità scolastica. Wertsch (1985) ha indagato i rapporti dialettici fra i processi psicologici individuali e i processi di interazione sociale. Negli scambi la mediazione ha un ruolo essenziale, soprattutto attraverso il linguaggio, fondamentale per l’organizzazione cognitiva. La mediazione semiotica non è propria solo dei processi intrapsichici ed è attivata dal tutor, ad esempio, durante la ricerca dei termini per aiutare lo studente durante la realizzazione del compito: lo scopo non è soltanto quello di facilitare il lavoro dell’allievo ma, come già detto, di fornire anche strutture cognitive che consentano di ottimizzare la logica di risoluzione dello studente e, nello stesso tempo, diventino più consapevoli e controllate dal tutor stesso grazie ad un processo metacognitivo. Per essere efficace, infatti, il tutor deve capire quali sono le difficoltà dell’allievo per potergli offrire l’aiuto necessario: riflette quindi sull’intelligibilità del compito e sulle procedure di risoluzione che possono essere messe in atto. 36 Spesso si può essere portati a pensare che gli effetti positivi derivanti da pratiche di tutorato ricadano maggiormente su colui che riceve l’aiuto ma, anche se meno visibili, sono molti i benefici che il tutor può trarre. Bruner, riflettendo sugli scambi per la negoziazione di significati fra tutor e tutee e la conseguente costruzione dell’intersoggettività, definisce transazionale la natura del tutorato (Bruner, 1983). La sua efficacia si fonda proprio sulla qualità degli scambi, su quanto il tutor sa percepire la difficoltà del tutee e aiutarlo a superarla: i benefici tratti dallo studente dipendono in buona parte dalla pertinenza e dalla chiarezza delle spiegazioni fornite dal tutor. L’aspetto transazionale si accosta alla forma di mutualità che contraddistingue gli scambi di tale tipo di apprendimento: scambi che si fondano sul compito, ma che sono personalizzati e diversi in ogni situazione e in cui gli aspetti cognitivi e sociali si fondono. Hartup (1988) sottolinea la presenza di elementi di mediazione freddi e caldi: i primi si riferiscono agli scambi cognitivi e riguardano le indicazioni per la prosecuzione del compito, i secondi coprono la sfera più emotiva, mirano al mantenimento dell’interesse e dell’attenzione attraverso un incoraggiamento costante. Il tutor elabora il sapere in modo tale da non guidare direttamente l’allievo, ma condurlo a modificare il suo comportamento: deve quindi ricostruire sul piano logico e verbale la sua conoscenza per poterla rendere accessibile allo studente. Il lavoro di ricostruzione è oltremodo formativo per il tutor: dovendo costantemente adattare il suo pensiero a quello dello studente, sulla base delle informazioni tratte dagli scambi che si verificano nella risoluzione del compito, egli mette in funzione le proprie capacità metacognitive non soltanto per la produzione di spiegazioni, ma anche durante il controllo e la valutazione delle risposte del tutee; queste potranno poi essere reinvestite dal tutor e condurranno ad una maggiore consapevolezza del proprio sapere e ad una migliore organizzazione dello stesso. In un’attività di tutorato, riflettere sull’azione consente al tutor di crearsi una rappresentazione mentale della risposta dello studente e su di esse riorganizzare la qualità del proprio intervento. 37 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica II Unità Didattica – Lezione 4 Tutorato fra pari e conflitto socio-cognitivo La corrente della psicologia sociale genetica colloca il tutorato fra pari nella prospettiva generale di una costruzione sociale dell’intelligenza: in questo ambito sono numerosi i lavori di Doise, Mugny e Perret-Clermont. Nelle loro ricerche hanno posto l’accento sull’effetto insegnante (tutoring effect) vale a dire il vantaggio personale che un bambino può trarre dall’insegnamento che lui stesso dà ad uno dei suoi compagni. Le interazioni sociali giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo cognitivo: dovendo aiutare un compagno nella soluzione di un compito e esplicitare le modalità di risoluzione, il “bambino-tutor” compie una profonda rielaborazione del proprio sapere che lo porta ad accrescere le sue competenze. Non bisogna, però, pensare che tutte le interazioni sociali abbiano a priori caratteristiche tali da favorire uno sviluppo: è necessario che si crei un conflitto sociocognitivo fra soluzioni divergenti proposte dai partners, ad esempio tramite un confronto fra studenti con livelli cognitivi differenti o durante un’interazione tutoriale asimmetrica. In quest’ultimo caso, il tutee si trova di fronte ad una divergenza fra la sua risposta e il modello indotto dal tutor: l’intervento di quest’ultimo ha un effetto destabilizzante che consente al discente di distanziarsi dalla propria soluzione e di riflettere con maggiore obiettività, portandolo a nuove e costruttive elaborazioni. Diverso è il punto di vista del tutor perché la risposta dell’allievo non genera in lui un conflitto sociocognitivo, ma innesca soltanto delle strutture di spiegazione: grazie a queste, però, i tentativi di valutazione e d’aiuto, messi in atto per ridurre la distanza fra le due risposte, consentono di essere reinvestiti successivamente in funzione del proprio sapere. Alcuni autori si sono interessati agli effetti positivi del tutorato sul bambino aiutato, riconoscendo a questa tipologia di interazione un ruolo importante per l’educazione e lo sviluppo. L’ambiente sociale stimola la motivazione ad apprendere del bambino, gli fornisce strumenti e mezzi d’apprendimento, 38 regola gli atteggiamenti consentendo una migliore valutazione del proprio prodotto e del risultato a cui deve tendere. Sono svariate le tipologie di interazione che mettono in relazione gli individui e che consentono l’acquisizione di nuove conoscenze attivando una pluralità di processi cognitivi e sociali dipendenti dall’esperienza dei soggetti, dalle conoscenze in gioco, dal contesto e dai rapporti esistenti fra i soggetti implicati nella relazione: ogni tipologia necessita dello sviluppo di un modello esplicativo che ne illustri le modalità sociali di acquisizione; tre fra esse sono considerate particolarmente importanti: - la co-costruzione paritaria è caratterizzata da una simmetria di competenze e di relazioni in cui la realizzazione del fine comune si ottiene attraverso la cooperazione o il superamento di un conflitto; - la tutelle si distingue per l’asimmetria delle competenze in cui un esperto mette le sue conoscenze e abilità a disposizione di un principiante con l’obiettivo di portarlo alla costruzione di nuove competenze e all’autocontrollo; - l’imitazione è intesa come un utilizzo intenzionale dell’azione dell’altro quale punto di partenza o guida verso l’obiettivo che si intende raggiungere. Lo studio del ruolo delle variabili sociali nello sviluppo cognitivo è stato argomento d’indagine di ricerche che hanno sottolineato l’interesse del tutorato per lo sviluppo della meta cognizione. Tra le forme di collaborazione messe in atto da un gruppo di soggetti nella realizzazione di un compito, la collaboration acquiesçante (collaborazione acquiescente, tacita) e la co-construction consentono di ottenere una maggiore comprensione della dinamiche interattive presenti nel tutorato. La collaboration acquiesçante è spesso presente nelle interazioni fra partner: si intende con questo termine il controllo che un soggetto opera sull’altro, incoraggiandolo a proseguire l’esecuzione del compito e si associa spesso agli interventi che un insegnante mette in atto per rinforzare l’attività dell’allievo; la co-construction si verifica, invece, quando, a turno, ciascuno contribuisce alla realizzazione comune dell’attività. 39 Durante queste forme di collaborazione, entrano spesso in gioco due importanti funzioni: quella di destabilizzazione delle rappresentazioni iniziali e quella di controllo. La prima chiarifica l’importanza dell’intervento iniziale di un esperto, il quale fa sì che l’allievo ripercorra in modo critico le fasi che lo hanno portato alla formulazione dell’ipotesi di risoluzione, cosicché possa cogliere gli eventuali passaggi deboli e trovare nuove strategie di risoluzione, e ha un effetto positivo anche sul pari più esperto attraverso l’impegno cognitivo che richiede l’argomentare e il giustificare il proprio punto di vista per renderlo accessibile all’allievo. La funzione di controllo, in atto in diversi momenti dell’intervento del tutor, evidenzia la natura del suo sforzo cognitivo che si realizza particolarmente in tre differenti modalità: il controllo verbale dell’attività del tutee, la precisione nella presentazione del compito e le spiegazioni fornite durante la risoluzione. Il conflitto socio-cognitivo, però, diventa produttore di apprendimento anche in situazione di collaborazioni fra bambini di pari livello che interagiscono nella risoluzione di un compito al quale non riescono a fornire una soluzione corretta a livello individuale. Per giungere alla risoluzione di un compito occorre collaborazione all’interno del gruppo: solo tramite un lavoro di negoziazione, che coinvolge processi cognitivi, relazionali e sociali, si può ottenere il consenso dei membri circa gli obiettivi da raggiungere e il quadro di riferimento: in questa situazione un’insegnante o un tutor diventano i facilitatori e i garanti dell’attivazione dei processi che conducono alla costruzione dell’intersoggettività, aspetto cardine di qualsiasi interazione. A partire dagli anni 70-80, molti studi hanno focalizzato e approfondito aspetti differenti del conflitto socio-cognitivo. I primi studi hanno avuto origine dall’ipotesi che le interazioni sociali diventano fonte di progresso cognitivo grazie ai conflitti di comunicazione che si creano fra i partner, anche quando nessuno dispone della risposta corretta che può costituire il modello da imitare. Gli esperimenti condotti in tali ricerche richiedevano una risoluzione interattiva alle prove piagetiane per studiare l’effetto della cooperazione e delle divergenze di punti di vista sulle acquisizioni cognitive. 40 Tali studi ebbero il merito di sottolineare quali elementi potevano creare difficoltà nell’attivazione del conflitto socio-cognitivo, che si verifica spesso quando è richiesta la co-costruzione di strumenti cognitivi più avanzati da parte di soggetti che non sono in grado di risolvere un compito da soli. Tale richiesta, infatti, implica la comprensione della legittimità di una risposta diversa dalla propria: se il conflitto si basa e si orienta con riferimento alla relazione interpersonale che lega i partner e si trasforma in una competizione di forza o bravura, il conflitto non si attiva perché non si creano le condizioni per un confronto e per l’accettazione di un diverso punto di vista. Una volta accettato il confronto della propria risposta con quella del partner, però, occorre saper regolare il conflitto. Questo, infatti, diventa produttore di conoscenza solo quando non viene risolto da un punto di vista esclusivamente relazionale (compiacenza, condiscendenza, conformismo…): la soluzione a cui i partner pervengono non è determinata da una negoziazione dei significati a livello cognitivo, ma ad una regolazione sociale del conflitto, come l’accettazione acritica o la rinuncia ad integrare diversi punti di vista. Diversi studi hanno invece focalizzato il proprio interesse sugli aspetti facilitanti la risoluzione del compito cognitivo assegnato, considerando il ruolo delle norme sociali che il compito stesso evoca. Per un bambino, ad esempio, è più facile comprendere l’uguaglianza di quantità nei compiti di conservazione piagetiani1 di due liquidi quando il contenuto dei bicchieri è una bibita, presentata come ricompensa, offerta in uguale quantità per la partecipazione all’attività. La connotazione sociale e la sua efficacia dipendono però dalla maniera in cui le norme richiamate dall’adulto sono comprese dai bambini nella specificità della situazione. 1 Piaget, per dimostrare l’avvenuta acquisizione dell’operazione della reversibilità, utilizzava delle prove chiamate Compiti di conservazione. L’esperimento più noto prevedeva di porre il bambino di fronte a due contenitori di diversa forma: il primo, alto e stretto, era pieno di un liquido colorato mentre nel secondo, basso e largo, veniva travasato, di fronte al bambino, il contenuto del primo bicchiere. Fino ai sei-sette anni, i bambini non sono in grado di comprendere che la quantità di liquido contenuta nei due bicchieri non varia. Si veda: http://www.youtube.com/watch?v=B65EJ6gMmA4 41 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica II Unità Didattica – Lezione 5 L’apprendimento cooperativo L’apprendimento cooperativo è un metodo didattico che si fonda su piccoli gruppi in cui gli studenti lavorano insieme per migliorare reciprocamente il loro apprendimento. Per la sua peculiarità organizzativa si distingue sia dall’apprendimento competitivo (in cui gli studenti lavorano per raggiungere un giudizio migliore di quello ottenuto dal compagno) sia da quello individualistico (in cui gli studenti lavorano da soli per raggiungere obiettivi di apprendimento indipendenti da quelli dei compagni). A differenza dell’apprendimento competitivo e di quello individualistico, l’apprendimento cooperativo può essere applicato a ogni compito, ogni materia ed ogni curricolo, promuovendo la costruzione di conoscenza tramite la collaborazione in gruppo. Centinaia di studi hanno dimostrato che, quando correttamente applicato, l'apprendimento cooperativo è superiore all'istruzione tradizionale, poiché garantisce un migliore apprendimento, facilita lo sviluppo di abilità cognitive di alto livello e l'attitudine a lavorare con gli altri; aiuta gli studenti ad avere fiducia nelle proprie capacità, preparandoli all'ambiente di lavoro. E' stato dimostrato che il cooperative learning approfondisce le capacità di comprensione e rende significativo e stabile nella memoria ciò che si è appreso; inoltre, crea relazioni più positive tra gli studenti, creando uno spirito di squadra, rapporti di amicizia e sostegno reciproco in un ambiente in cui la diversità viene rispettata e apprezzata. Il Cooperative Learning garantisce inoltre un miglior adattamento psicologico degli studenti, così come un maggior senso di autoefficacia, una migliore autostima e immagine di sé: grazie a tale organizzazione gli studenti sviluppano competenze sociali e una maggiore capacità di affrontare le difficoltà e lo stress. L’apprendimento cooperativo si contrappone a una conduzione della classe in genere definita come tradizionale o rivolta a tutta la classe. È un metodo che si fonda sulla mediazione sociale, anziché 42 sulla mediazione dell’insegnante. Nelle modalità con mediazione sociale, le risorse e l’origine dell’apprendimento sono soprattutto gli allievi. Essi si aiutano reciprocamente e sono corresponsabili del loro apprendimento, stabiliscono il ritmo del loro lavoro, si correggono e si valutano, sviluppano e migliorano le relazioni sociali per favorire l’apprendimento. L’insegnante diventa soprattutto un facilitatore e un organizzatore dell’attività di apprendimento. Nell’insegnamento reciproco (peer tutoring) gli studenti rispecchiano le differenze esistenti tra insegnante ed allievo: pur lavorando in coppia, ristabiliscono una relazione asimmetrica, nella collaborazione fra pari (peer collaboration), invece, gli studenti si trovano alla pari di fronte al compito da svolgere. Nessuno è in una posizione migliore rispetto agli altri in relazione al contenuto del compito e tutti devono aiutarsi e collaborare per portare a termine il loro lavoro di apprendimento. Quindi, l’apprendimento cooperativo propone un gruppo composto da più persone impegnate su un compito, realizzando un’interdipendenza positiva tra i membri del gruppo: una volta svolto il compito non è più possibile attribuire ad una persona soltanto quanto è stato realizzato. Le caratteristiche tipiche che possono essere importanti per la riuscita di un apprendimento cooperativo sono la presenza di compiti strutturati, una classe di dimensioni relativamente piccole, la formazione di gruppi eterogenei per livelli, la somministrazione di frequenti test individuali per verificare l’apprendimento, il miglioramento delle abilità sociali di ciascun gruppo. Inoltre, perché il gruppo sia realmente cooperativo occorre che gli insegnanti verifichino che i gruppi collaborativi siano retti da cinque principi: - Interdipedenza positiva. I membri del gruppo fanno affidamento gli uni sugli altri per raggiungere lo scopo. Se qualcuno nel gruppo non fa la propria parte, anche gli altri ne subiscono le conseguenze. Gli studenti si devono sentire responsabili del loro personale apprendimento e dell'apprendimento degli altri membri del gruppo. 43 - Responsabilità individuale. Tutti gli studenti di un gruppo devono rendere conto sia della propria parte di lavoro sia di quanto hanno appreso. Ogni studente, nelle verifiche, dovrà dimostrare personalmente quanto ha imparato. - Interazione costruttiva diretta. Benché parte del lavoro di gruppo possa essere ripartita e svolta individualmente, è necessario che i componenti del gruppo lavorino in modo interattivo, verificando gli uni con gli altri la catena del ragionamento, le conclusioni, le difficoltà e fornendosi il feedback. In questo modo si ottiene anche un altro vantaggio: gli studenti insegnano a vicenda i contenuti oggetto di studio. - Sviluppo delle competenze sociali. Gli studenti nel gruppo vengono incoraggiati e aiutati a sviluppare la fiducia nelle proprie capacità, la leadership, la comunicazione, il prendere delle decisioni e il difenderle, la gestione dei conflitti nei rapporti interpersonali. Le abilità sociali sono insegnate direttamente, dai livelli più bassi (mantenere un tono di voce basso per non disturbare gli altri) ai livelli più elevati (saper controbattere costruttivamente in una discussione) - Valutazione del lavoro. I membri, periodicamente, valutano l'efficacia del loro lavoro e il funzionamento del gruppo, e individuano i cambiamenti necessari per migliorarne l'efficienza. Gli esperti di Cooperative Learning distinguono tra cooperative learning informale, esercizi brevi assegnati in classe a gruppi non fissi di due o più studenti, e cooperative learning formale, esercizi più lunghi e impegnativi assegnati a gruppi di studenti che lavorano insieme per una parte significativa del corso. I risultati didattici in entrambi i casi sono efficaci. Nel Cooperative Learning informale, viene chiesto agli studenti di comporre gruppi per attività brevi ed estemporanee. I gruppi si formano sulla base del caso e i ruoli all’interno assunti dai membri senza regole precise. Le attività sono scarsamente strutturate e raramente si reggono sui cinque principi sopra enunciati. La questione posta dal docente può riguardare spiegazioni precedenti, l'impostazione della soluzione di un problema, il completamento di passaggi mancanti in un procedimento di calcolo o in una procedura sperimentale, la formulazione di una spiegazione su una osservazione 44 sperimentale, l' ipotesi di una serie di cause, il riassunto di una lezione, la formulazione di una o due domande sugli argomenti relativi ad una certa lezione, l'elenco di possibili difetti di un esperimento o di un progetto, o la risposta a domande che il docente normalmente fa alla classe durante una spiegazione. Una variante a questo metodo è la coppia che ragiona insieme (think-pair-share). Il docente prima chiede a ciascuno studente di formulare singolarmente la risposta, poi di unirsi in coppie e costruirne una sola, a partire dalle due risposte individualmente già date. Infine il docente invita alcuni studenti, appartenenti a coppie diverse, ad esporre la risposta. La scelta di questi studenti non deve essere fatta né in anticipo, né sulla base della volontarietà. Infatti se il docente chiedesse di rispondere solo a dei volontari o ad alunni preventivamente individuati, verrebbe meno l' incentivo per la partecipazione attiva di tutti, che è invece l'essenza di questo metodo . Se gli studenti sanno che chiunque può essere chiamato, tutti, o quantomeno la maggioranza, sono motivati a predisporre la miglior risposta possibile. Nel Cooperative Learning formale, gli studenti lavorano in gruppi su problemi, su progetti o su relazioni di laboratorio. Il lavoro può essere fatto tutto o in parte in classe, o fuori della classe. Una interdipendenza positiva si ottiene assegnando ruoli differenti ai vari membri del gruppo, fornendo un training specifico sui differenti aspetti del progetto ai diversi membri del gruppo e assegnando a caso a ciascuno studente una relazione su una parte del progetto. Alla fine si valuterà sia ogni singola relazione, sia il progetto complessivo del gruppo. L'impegno individuale viene assicurato esaminando ogni studente su ogni aspetto del progetto elaborato dal gruppo. 45 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica II Unità Didattica – Lezione 6 Relazione insegnante-allievo Il contesto scolastico e quello della classe rappresentano un terreno fertile per la formazione e lo sviluppo di esperienze relazionali da parte dei bambini e offrono loro molte occasioni di instaurare rapporti significativi con figure adulte non genitoriali. Le relazioni tra bambini e adulti in ambito scolastico rispecchiano il genere di relazioni che gli stessi bambini vivono a casa, nella loro famiglia. Prima di chiarire bene che cosa si intende per relazione insegnante-allievo, è bene soffermarsi sul termine “relazione”. Esso presenta una doppia radice semantica con un duplice significato connesso ai due verbi costitutivi: il verbo referre, che significa riferire, e il verbo religare, cioè legare. Il primo verbo rimanda all’immagine della scuola come portatrice di senso; l’insegnante, infatti, non si limita a trasmettere contenuti disciplinari, ma comunica modi di sentire, di percepire e di pensare la società. Il verbo religare vuole rendere evidente che, per trasmettere una qualsiasi informazione tra due posizioni, deve necessariamente esistere un collegamento. Questo ponte di contatto, tra l’insegnante e l’allievo, risiede nel sentimento della fiducia, fondamento sicuro per creare legami affettivi importanti. La relazione diadica tra alunno e insegnante costituisce una particolare risorsa, soprattutto nelle prime classi della scuola primaria, quando ciascun bambino sente di intrattenere un rapporto unico e privilegiato con il docente. Il maestro instaura con gli allievi una relazione molto importante, in quanto si ritrova a ricoprire il ruolo di sostituto dei genitori. In effetti, con l’ingresso nella scuola elementare si consolida il processo di parziale separazione dalla famiglia e il ruolo dei genitori si differenzia da quello rivestito dall’insegnante; anche le regole di convivenza diventano più complesse, infatti, i legami affettivi privilegiati che il bambino intrattiene con i familiari devono integrarsi con nuove relazioni di diversa intensità e rilevanza, in 46 cui gli adulti sempre più si predispongono come modelli di crescita intellettuale e mediatori nell’acquisizione di strumenti sociali piuttosto che come figure di attaccamento. Anche la giornata assume una struttura organizzativa diversa e le richieste di apprendimento diventano sempre più mirate. L’ingresso nella scuola porta il bambino a eliminare i modi consueti di parlare, di chiedere e di spiegare per far posto a quelli richiesti all’istituzione. L’alunno tende a richiamare su di sé l’attenzione dell’insegnante, cercandone l’approvazione per ogni suo atto. Inoltre, desidera stabilire con lui un contatto oculare, fisico e avere conversazioni, ma cerca anche di coinvolgerlo nei giochi e nelle attività, preferendo quasi la sua presenza a quella dei compagni. Dall’altro versante, il maestro svolge un compito molto importante, quasi da poterlo definire “funzione cerniera” tra il mondo della famiglia e la società più ampia. Se, da un lato, l’allievo si mostra disponibile a mettersi in relazione con l’insegnante, dall’altra parte, l’insegnante deve saper sfruttare al meglio questa predisposizione, cercando di avvalersi delle energie e delle risorse dell’allievo nelle attività formative. Per giungere ad una vera conoscenza reciproca è necessario molto tempo, e tutto questo risulta essere favorito dai contatti giornalieri. Le forme relazionali tra bambino e insegnante, così come quelle tra genitore e bambino, possono variare per natura e qualità. Alcune relazioni presentano caratteristiche di vicinanza e intimità e sono più affettuose, altre distanti e formali, altre ancora conflittuali (Pianta, 2001). Da uno studio sulle percezioni degli insegnanti circa il loro rapporto con gli alunni, Pianta ha individuato sei tipi di relazione insegnanteallievo: dipendente: in questo caso, la relazione è caratterizzata da un affidamento eccessivo e il soggetto che apprende è legato alle azioni dell’insegnante, è poco autonomo e responsabile. Egli ha una forte paura di sbagliare e così interviene poco nelle attività di socializzazione. Tutto questo può comportare l’isolamento del bambino dai suoi compagni e gelosia verso l’insegnante; disfunzionale: è il caso in cui la relazione che si instaura tra il docente e l’alunno è mal tollerata, provoca rabbia e fastidio. Le motivazioni possono essere diverse, ad esempio ingiustizie subite o 47 solamente percepite. Nelle situazioni più estreme la relazione può persino scomparire e le due figure si ignorano completamente; mediamente funzionale: è tale la relazione che si esprime in ambito scolastico e scompare al di fuori di esso. E’ funzionale, ma solo a livelli formali e siccome si consuma all’interno dei ruoli di docente e alunno, può essere definita come relazione didattica; rabbiosa: è il caso in cui la relazione presenta conflitti elevati tra insegnante e discente. I due soggetti sono ostili l’uno all’altro, non si sopportano e non si preoccupano di esprimere con toni accesi la loro ostilità. Possono subentrare anche comportamenti aggressivi; l’aggressività se superata, non costituisce un problema grave poiché può dare origine ad un dialogo costruttivo, può diventarlo se l’ostilità permane, come unica forma di comunicazione; non coinvolta: indica la relazione che presenta scarso calore, scarsa comunicazione, quasi come se venisse imposta dalla necessità. Non si avverte il bisogno di contatto; positivamente coinvolta: è la relazione in cui l’insegnante e l’allievo stanno bene insieme e si comunicano stima e ammirazione. La comunicazione è buona, il calore e l’affetto permettono a tale relazione di evolversi nel tempo e l’allievo si sente motivato ad apprendere e ad apprezzare le attività scolastiche (Iannaccone, Longobardi, 2004). Altre caratteristiche della relazione riguardano la responsabilità diretta dell’insegnante, in quanto figura capace di vedere negli allievi i futuri uomini. Un insegnante, venendo a contatto con gli allievi, dovrebbe porsi alcuni obiettivi fondamentali. Innanzitutto, un insegnante dovrebbe cercare di aiutare gli allievi a crescere come persone, sviluppando in loro tutte le potenzialità, sia a livello motorio e intellettuale, che sul piano degli interessi e della socialità. Tutto questo significa favorire nel bambino lo sviluppo di una fiducia di base in se stesso e nelle proprie potenzialità, ma anche l’acquisizione della capacità di interazione con gli altri. Significa poi portare l’alunno ad assumersi delle responsabilità e a saper reagire di fronte agli insuccessi, senza per questo arrendersi. 48 L’insegnante è colui che si preoccupa anche della crescita intellettuale e culturale degli allievi. Promuovere lo sviluppo intellettuale del bambino significa favorire lo sviluppo delle capacità di sintesi, di analisi, di rielaborazione, di simbolizzazione e di ragionamento. E’ bene ancora che l’insegnante coinvolga gli alunni nelle attività di apprendimento, in modo tale da far “immergere” l’allievo e le sue energie psichiche in esse. Infine, l’ultimo obiettivo deriva dal conseguimento dei tre precedenti e riguarda lo sviluppo affettivo: un bambino instaura un rapporto affettivo con quelle persone che, prendendosi cura di lui, favoriscono la sua crescita. E’ proprio tale aspetto a gratificare il maestro e a rendere più semplice il suo lavoro. Altrettanto fondamentale è l’atteggiamento dell’insegnante nei confronti degli allievi; tale atteggiamento deve essere caratterizzato da accoglienza, per poter individuare e riconoscere le esigenze dell’allievo, da protezione, per costruire un legame forte e duraturo con il bambino, da valorizzazione, per individuare le potenzialità del bambino, da tolleranza per l’accettazione delle infrazioni alle norme, da ascolto, per comprendere i segnali inviati dal bambino e, infine, da rispetto, per saper riconoscere il bambino come individuo diverso dall’insegnante, ma con bisogni simili, come quello di conoscere e capire. E’ bene infine menzionare i requisiti che una buona relazione tra insegnante e allievo deve soddisfare. Reciprocità, sincronia e coordinazione sono tutti aspetti che permettono al bambino di autoregolare il proprio comportamento in vista delle richieste educative. 49 Bibliografia Bruner, J. (1983). Il linguaggio del bambino. Trad. it. Roma: Armando, 1991. Hartup, W.W. (1983). Peer relations. In P.H. Mussen (Ed.), Handbook of Child Psychology (pp. 103–196). New York: John Wiley & Sons. Iannaccone, A., Longobardi, C. (a cura di) (2004) Percorsi educativi in psicologia scolastica: dalla prescuola alla scuola dell'obbligo. Milano: Franco Angeli. Lave, J., Wenger, E. (1991). Situated learning. Legitimate peripheral participation. Cambridge, Cambridge University Press. Pianta, R.C. (2001). The Student–Teacher Relationship Scale. Charlottesville: University of Virginia. Tirassa, M. (2010). La natura e il ruolo dell'intersoggettività nella comunicazione. In F. Morganti, A. Carassa, G. Riva (a cura di), Intersoggettività e interazione. Un dialogo fra scienze cognitive, scienze sociali e neuroscienze (p. 117-135). Torino: Bollati Boringhieri. Vygotskij, L.S. (1934). Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche. Trad. it. Roma: Laterza, 1992. Wood, S. (1989). The Transformation of Work? Skill, Flexibility and the Labour Process. London: Unwin Hyman. 50 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica UNITÀ DIDATTICA 3 PROCESSI DELL’APPRENDIMENTO Lezione 1 Memoria La memoria è la funzione che ci permette di codificare, conservare nel tempo e recuperare le informazioni tratte dalla nostra esperienza quotidiana. Come abbiamo visto nell’unità didattica sul cognitivismo, non abbiamo una memoria, ma molte memorie: essa infatti è composta da una serie di sistemi interconnessi complessi, ognuno dei quali svolge una specifica funzione. A differenza di sistemi di registrazione come una videocamera o un registratore, la memoria non porta a una riproduzione fedele della realtà, ma svolge un’attività di ricostruzione: le informazioni che arrivano dall’ambiente vengono lette, interpretate e ricostruite sulla base dei nostri schemi mentali e, sulla base di questi, immagazzinate. I primi studi a sostegno del carattere ricostruttivo della memoria furono condotti da Bartlett (1932; cit. in Antonietti, 1998), il quale domandò ad un gruppo di soggetti di leggere e rievocare a più riprese una storia della tradizione indiana. Lo studioso notò che nelle successive rievocazioni i soggetti aggiungevano o eliminavano elementi alla storia, mostrando così di non ricordarla passivamente, ma di applicare su questa processi di tipo ricostruttivo, che potevano aver luogo sia nel momento della lettura (codifica) che in quello successivo della rievocazione (recupero). Tramite la storia proposta da Bartlett, cerchiamo di comprendere quali processi intervengono nell’elaborazione mnestica. Ecco il testo originale della storia: “Una notte due giovani di Egulac si recarono al fiume a caccia di foche e, mentre si trovavano là, scese la nebbia e l’aria diventò stagnante. Udirono allora grida di guerra e pensarono: “forse si tratta di una spedizione di guerra”. Scapparono verso la spiaggia e si nascosero dietro ad un tronco. C’erano delle canoe che risalivano il fiume, ed essi potevano udire il rumore delle pagaie e videro una canoa che si dirigeva verso di loro. Dentro c’erano cinque uomini ed uno di loro disse: “che cosa ne dite? Vogliamo portarvi con noi. Stiamo risalendo il fiume per andare a fare la guerra alla gente.” Uno dei due giovani disse : “Ma non possiedo 51 frecce” “le frecce sono nella canoa” risposero. “Io non verrò. Potrei essere ucciso. I miei non sanno dove sono andato. Ma tu - disse, rivolgendosi all’altro, - potresti andare con loro”. Così uno dei due giovani andò, mentre l’altro tornò a casa. E i guerrieri continuarono su per il fiume, fino ad una città all’altro lato del Kalama. La gente scese vicino all’acqua, incominciarono a combattere e molti vennero uccisi. Ma ben presto il giovane sentì dire da uno dei guerrieri: “Presto, torniamo a casa: l’Indiano è stato colpito”. Allora pensò: “Oh, sono fantasmi”. Non sentiva dolore, ma dicevano che era stato colpito. Le canoe tornarono a Egulac e il giovane tornò alla sua casa alla spiaggia e accese il fuoco. E raccontò a tutti: Pensate, ho accompagnato i fantasmi e sono andato a combattere. Molti dei nostri compagni sono stati uccisi, come anche molti di coloro che ci attaccarono.” Raccontò tutto questo e poi si calmò. Quando il sole sorse, cadde a terra. E qualcosa di nero gli venne fuori dalla bocca. Il suo volto si contrasse. La gente balzò in piedi e gridò. Era morto.” e si veda ora una delle storie narrate alla decima rievocazione: “Due indiani erano a pesca di foche nella baia di Momapan, quando si fecero avanti altri cinque indiani in una canoa da guerra. “Venite con noi - dissero i cinque ai due - a combattere”. “Non posso venire - fu la risposta di uno - perché ho una vecchia madre a casa che dipende da me”. Anche l’altro disse che non poteva venire perché non aveva armi. “Questa non è una difficoltà - replicarono gli altri - perché ne abbiamo in abbondanza con noi sulla canoa”; così egli entrò nella canoa e andò con loro. Poco dopo, in una battaglia, l’Indiano ricevette una ferita mortale. Ritenendo che fosse venuta la sua ora, gridò che stava per morire. “Sciocchezze -- disse uno degli altri - non morirai. Invece morì.” Che cosa è accaduto? La nostra memoria lavora ai fini di agevolare la comprensione del testo: i dettagli non capiti sono più facilmente eliminati, altri particolari possono essere aggiunti o cambiati al fine di rendere le storie più plausibili e più comprensibili ai nostri schemi mentali. Ma quali sono i passaggi che consentono di memorizzare un’informazione ed essere poi in grado di richiamarla quando necessario? Nell’elaborazione mnestica è necessario distinguere tre processi o fasi: 1) la codifica (encoding), attraverso la quale l’input in ingresso viene trasformato nel tipo di codice o rappresentazione che la memoria accetta e riconosce; 2) l’immagazzinamento (storage), che consiste nell’attività di mantenere in memoria l’informazione codificata; 3) il recupero (retrieval), che corrisponde alla fase in cui l’informazione viene ritrovata per essere utilizzata. Le attività ricostruttive, e anche le perdite di memoria, possono riguardare tutte e tre le fasi. A seconda poi del sistema di memoria coinvolto, codifica, immagazzinamento e recupero avvengono in modo diverso ed hanno una rilevanza differente. 52 Fin dall’inizio, nella fase della lettura e comprensione del testo, i soggetti interpretavano gli avvenimenti narrati alla luce dei loro schemi conoscitivi e perciò la storia veniva codificata in memoria con alcune modifiche. La narrazione subiva poi ulteriori cambiamenti con il passare del tempo, prima nella fase della conservazione dell’informazione nella memoria a lungo termine ed, ancora, al momento del recupero. Nella memoria a lungo termine si hanno relazioni strette tra codifica, immagazzinamento e recupero. La grande varietà di informazioni contenute nella memoria a lungo termine porta a modalità di codifica differenti a seconda della tipologia di materiale in ingresso. Tale materiale viene elaborato al fine di fornire a questo un significato. Il codice preferenziale è quello verbale, ma possono essere usati anche altri codici, in relazione alle caratteristiche del materiale e alle caratteristiche individuali delle persone. Si può ad esempio ricordare il timbro di una voce, l’odore di un piatto particolare, il colore di un fiore. Sostenere che la codifica richiede elaborazione, attenzione, ricerca di significato del materiale, può far pensare che l’intenzione di ricordare, la volontà, lo sforzo siano fondamentali per apprendere. Ci sono però tante situazioni, soprattutto nella vita di tutti i giorni, in cui non ci proponiamo di ricordare qualcosa, ma ricordiamo in modo incidentale. Rispetto a queste due tipologie di memoria, qual è più efficace? Un interessante esperimento condotto da Mandler (1967; cit. in Antonietti, 1998) ha messo a confronto le prestazioni di 4 gruppi di soggetti: a due gruppi (A e B) veniva esplicitato di memorizzare una lista di parole, agli altri due (C e D) non veniva richiesto nulla in proposito. I gruppi venivano poi ulteriormente suddivisi: ai gruppi A e C era richiesto di ripetere le parole della lista più volte e, ai restanti, di raggruppare le parole in base a categorie di appartenenza. Alla richiesta di indicare la parole ricordate, solo il gruppo che non sapeva di dover memorizzare e che aveva ripetuto le parole mostrò una prestazione bassa, mentre i due gruppi che dovevano formare delle categorie avevano, sia in situazione intenzionale che in quella incidentale, la stessa prestazione. Inoltre tale prestazione era simile a quella del gruppo che sapeva di dover ricordare e aveva ripetuto le parole. Il sapere di dover 53 ricordare aveva dato gli stessi risultati della categorizzazione. In conclusione, l’intenzionalità, la volontà e il desiderio di ricordare qualcosa, non producono da soli un miglior ricordo; sono utili solo nella misura in cui inducono a mettere in atto, nella fase della codifica, processi volti ad integrare le informazioni in arrivo all’interno della memoria permanente. L’esperimento precedente focalizza l’attenzione sui livelli di elaborazione della codifica. Negli anni Settanta, alcuni studiosi cercarono di studiare non tanto i sistemi di memoria ma i processi che consentivano il ricordo. In un famoso articolo, Craik e Lockhart (1972; cit. in Antonietti, 1998), svilupparono il concetto di profondità della codifica, secondo il quale si ricorda meglio un materiale che è stato elaborato in modo profondo, e quindi significativo, indipendentemente dall’intenzionalità di apprendere o meno il materiale proposto. La regola è che quanto più profonda, ricca, ampia è stata l’elaborazione, cioè quanto più è stato profuso uno sforzo per dare significato al materiale collegandolo con le informazioni che già possediamo, tanto migliore sarà il suo ricordo. Alcuni materiali sono già di per sé significativi ed interessanti, altri invece richiedono uno sforzo attivo che dia loro un senso. In un esperimento, divenuto ormai classico, gruppi differenti di soggetti furono istruiti a codificare a diversi livelli di profondità lo stesso materiale (Craik e Tulving 1975; cit. in Antonietti, 1998). I soggetti erano invitati ad analizzare liste di parole ed a rispondere sì o no a domande quali la parola è scritta in maiuscolo (elaborazione percettiva), fa rima con un’altra parola (elaborazione fonologica), potrebbe completare la seguente frase (elaborazione semantica). Alla fine, inaspettatamente, i soggetti erano invitati a ricordare le parole. Le prestazioni migliori si ottenevano con l’elaborazione semantica, ossia la più profonda. Come sostenere allora i nostri allievi nell’apprendimento di determinati concetti? Se una buona memorizzazione dipende dalla profondità dell’elaborazione, sarà fondamentale mettere a loro disposizione le strategie migliori per affrontare di volta in volta i vari compiti cognitivi, strategie che punteranno ad una comprensione profonda del materiale piuttosto che ad una pedestre ripetizione dei contenuti proposti. 54 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica III Unità Didattica – Lezione 2 Attenzione Prima di iniziare questa unità didattica, il lettore è invitato a visionare il video disponibile all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=wg96RSsrXk0 e a cercare di dare una definizione di attenzione. Se chiedessimo ad un insegnante o a un educatore di dare una definizione di attenzione, raccoglieremmo una serie di definizioni incentrate sul rapporto con diversi aspetti connessi all'apprendimento, quali la memoria, l'interesse, l'esperienza di disattenzione legata alla distrazione o alla noia. William James, uno dei più grandi psicologi americani, nel 1890, descriveva l'attenzione in questo modo: Ognuno di noi sa cosa sia l'attenzione. Essa è l'atto per cui la mente prende possesso in forma limpida e vivace di uno fra tanti oggetti e fra diverse correnti di pensieri che si presentano come simultaneamente possibili ... Essa implica l'abbandono di certe cose, allo scopo di trattare più efficacemente con altre, ed è uno stato che trova precisamente il suo opposto in quello stato di dispersione, confusione, che ... viene detto distrazione. Ma quali sono i meccanismi che permettono di concentrarsi su un determinato oggetto? Perché è un determinato oggetto e non un altro a colpire i nostri organi sensoriali? Perché ci distraiamo? L'attenzione ha una durata? E' possibile prestare attenzione a più cose contemporaneamente? A tutti noi sarà accaduto almeno una volta di giungere a una destinazione familiare in automobile senza ricordare assolutamente nulla del viaggio compiuto: eravamo talmente assorti nei nostri pensieri da guidare in completo automatismo. Accade di frequente che molte abilità come nuotare, andare in bicicletta, leggere o parlare una lingua straniera abbiano richiesto nella fase iniziale d’apprendimento molto sforzo ed impegno da parte nostra, siano state controllate nella loro esecuzione e solo successivamente, con l'esperienza e l'esercizio, siano diventate automatiche. Nel 55 momento in cui però ci rendiamo conto che qualcosa differisce dagli abituali schemi di azione, abbiamo comunque la facoltà di controllare in modo maggiormente consapevole tali attività. Buona parte dei nostri comportamenti quotidiani è governata da processi automatici che sfuggono alla nostra consapevolezza, che non richiedono cioè sforzo attentivo o intenzioni precise e hanno la caratteristica di essere relativamente rapidi, di utilizzare un'elaborazione parallela e simultanea (pensiamo alle azioni compiute al ritorno a casa come infilare la chiave nella toppa, aprire la porta, accendere la luce…); tali processi possono essere talmente superappresi da essere innescati anche quando non si vorrebbe. Altri comportamenti, come prendere una decisione, risolvere un problema, o compiere una ricerca sono, invece, processi controllati e si basano sulla consapevolezza, sull’intenzionalità di raggiungere un certo scopo; hanno una natura seriale e richiedono attenzione, pianificazione e controllo. Molti apprendimenti scolastici di base dovrebbero con il passare del tempo, e grazie alla pratica, assumere le caratteristiche dei processi automatici: leggere, calcolare, ascoltare e parlare in una lingua straniera sono esempi di compiti che dovrebbero diventare automatici, liberando molte risorse cognitive utilizzabili per altri apprendimenti di natura più complessa e ad alto sforzo cognitivo. Quando l’attenzione è cosciente può essere benefica per tre finalità: monitorare le interazioni con l’ambiente per informare sul grado di adattamento in esso; offrirci il senso di continuità dell’esperienza, grazie al recupero di ricordi e sensazioni; controllare e pianificare le nostre azioni future. Occorre però distinguere fra attenzione e coscienza: la prima riguarda tutta l’informazione che viene manipolata cognitivamente, mentre la seconda si riferisce a quella quantità limitata di informazione che il soggetto è consapevole di manipolare. La selezione delle informazioni da elaborare avviene grazie all’apprendimento che consente all’individuo di ignorare gli stimoli diventati familiari e sintonizzarsi su quelli nuovi privilegiandoli. Si definisce abituazione il processo cognitivo governato dalla relativa stabilità e familiarità dello stimolo che consente di “risparmiare” capacità attentive da indirizzare sugli stimoli nuovi. 56 Ma quali sono le funzioni dell’attenzione? In questa sede ci soffermeremo su quattro fondamentali: Attenzione selettiva, permette di “scegliere” alcuni stimoli piuttosto che altri (è la tipologia di attenzione che ci consente di parlare con amico durante una festa molto rumorosa, in cui sono in corso diverse conversazioni); Vigilanza, capacità di prestare attenzione per un periodo prolungato ad un campo di osservazione, in attesa di un certo segnale (è l’attenzione messa in atto quando attendiamo il suono del clacson dell’amico che passa a prenderci per uscire la sera). Ricerca attentiva, un tipo di vigilanza attiva nella quale eseguiamo una scansione dell’ambiente alla ricerca di stimoli con particolari caratteristiche (entrare in un’aula gremita di studenti, cercando dove è seduto il nostro compagno di studi); Attenzione divisa, nella quale suddividiamo le nostre risorse attentive su più compiti contemporaneamente (leggere un libro sulla metropolitana, in attesa della propria fermata) (Polito, 2012). Se pensiamo ad una situazione di insegnamento-apprendimento è palese che l’attenzione e la concentrazione sono prerequisiti fondamentali. Anche le consegne basilari, richiedono durante le prime esecuzioni un’elaborazione cosciente degli elementi necessari per portare a termine il lavoro. I compiti scolastici, anche i più semplici, nella fase iniziale richiedono sempre una manipolazione cosciente delle informazioni necessarie all’esecuzione. Solo l’automatizzazione di determinati processi permette un’elaborazione al di sotto della soglia della consapevolezza che comporta, quindi, la liberazione di risorse attentive a vantaggio delle operazioni cognitive più complesse. Comprendere un testo e studiare, produrre una composizione scritta richiedono processi controllati, intenzionali e sotto il controllo della coscienza. Grazie anche alle attività che compie a scuola, lo studente apprende a escludere pensieri distraenti, emozioni e situazioni non rilevanti con il compito che sta svolgendo. Il livello di concentrazione è regolato non solo da caratteristiche interne al soggetto (scopi, motivazione, stile cognitivo), ma 57 anche da fattori ambientali ed in relazione con il tipo di compito che deve essere portato a termine. Sia un ambiente rumoroso pieno di persone che parlano, sia condizioni personali quali stati di malattia, di stanchezza vanificano lo sforzo per apprendere. Riconoscere che il livello di attenzione varia in base a differenti fattori può essere il primo passo per riuscire a regolare il livello di impegno e di sforzo necessario per portare a termine un compito e prevedere se sarà ultimato con successo o meno. Con riferimento alla situazione di apprendimento che si sta vivendo, la conoscenza di se stessi e delle proprie caratteristiche rappresenta un momento fondamentale per giungere alla gestione consapevole degli stati attentivi; altrettanto importante, però, è anche la riflessione sull’influenza che l’ambiente fisico ha sulla propria psiche. Una stanza poco luminosa, ad esempio, potrebbe essere scarsamente stimolante per le capacità attentive, tanto da indurre sonnolenza, stanchezza, noia. Uno stato di bassa attivazione potrebbe essere indotto anche da compiti troppo facili: eseguirli anche bene non porterebbe alcuna soddisfazione. Queste consapevolezze dovrebbero far parte delle conoscenze possedute da un ragazzo che vuole apprendere in maniera strategica, consentendogli di individuare le modalità a lui più congeniali per il mantenimento dell’attenzione. 58 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica III Unità Didattica – Lezione 3 Problem solving Spesso ci accade di essere assorti nei nostri pensieri: che cosa facciamo quando pensiamo? Quali processi attiviamo? Siamo sempre consapevoli di ciò a cui stiamo pensando? L’azione del pensare richiama, da un lato, l'attività rappresentativa e, dall'altro, la capacità che abbiamo di ragionare, valutare, risolvere problemi per adattarci alla realtà esterna: con il termine pensare intendiamo la capacità di manipolare i simboli, sia per entrare in interazione con l'ambiente esterno, ma anche per ipotizzare nuove e possibili alternative. Pensiero, però, non è sinonimo di intelligenza: il primo, sostenendosi sull’attività rappresentativa, non compare prima dei 18-24 mesi del bambino, successivamente, cioè, all’acquisizione della funzione simbolica; la seconda, invece, fa la sua comparsa più precocemente quando il bambino, in grado di coordinare gli schemi motori, è capace di eseguire azioni in vista di uno scopo, ossia è capace di eseguire un comportamento intelligente senza che ancora vi corrisponda una rappresentazione mentale dei risultati attesi. Studiare i processi di pensiero significa concentrare la propria attenzione sulla relazione fra gli scopi che l’individuo si prefigge e le modalità selezionate per raggiungere il proprio obiettivo. Per un insegnante è fondamentale focalizzare l’attenzione su tali aspetti: conoscere quali sono i modi spontanei di ragionare dell’essere umano consente di individuare quelli che possono essere gli snodi fondamentali di una disciplina sui quali è necessario insistere, con le metodologie adeguate, per garantire la piena comprensione e un apprendimento fattivo. Che cosa accede nel momento in cui un individuo deve risolvere un problema (ossia superare un ostacolo per raggiungere un particolare obiettivo o rispondere ad una curiosità)? Bransford e Stein (1993) sostengono che, di fronte ad una situazione che richiede uno sforzo cognitivo per essere superata, si attivano una serie di operazioni, aventi caratteristiche di ciclicità. 59 Anzitutto è necessario identificare il problema: a volte capita di non saper riconoscere una situazione problematica (il dovere evitare di trovarsi sulla traiettoria di una macchina che non viene vista); soltanto in tal caso siamo in grado di definire e rappresentare il problema in modo adeguato. Una volta che il problema è stato rappresentato in modo tale da consentire delle operazioni, il passaggio successivo consiste nella pianificazione di una strategia di soluzione. Tale strategia richiede un'analisi, ossia la scomposizione del problema complesso in più parti, e una sintesi, grazie alla quale ricomponiamo in modo utile i diversi elementi. In associazione a queste strategie, un'altra coppia di azioni cognitive è rappresentata dal pensiero divergente, che tenta di generare il maggior numero di alternative possibili al problema, e dal pensiero convergente, che dovrebbe orientare verso la strategia più adeguata e permettere una verifica. A seguito della definizione della strategia, è fondamentale organizzare le informazioni in modo da costituire uno scenario nel quale applicare le strategie formulate. Ogni strategia richiede sforzi mentali e a volte anche risorse materiali, allocando le risorse necessarie sulla base delle forze disponibili. È quindi necessario dedicare una quantità di risorse mentali alla pianificazione del lavoro complessivo o globale, focalizzandosi sul suo insieme, per arrivare alla soluzione più adeguata. Alcuni studi hanno evidenziato che gli studenti migliori, solitamente, impiegano più tempo nella pianificazione della fase iniziale della crisi, decidendo come risolvere il problema, rispetto gli studenti meno bravi. Probabilmente, nell'impiegare più tempo per decidere che cosa fare, gli studenti più efficaci hanno meno probabilità di intraprendere percorsi sbagliati o al di sopra delle proprie potenzialità. Durante la risoluzione del problema è poi necessario un costante monitoraggio delle attività in corso: le verifiche frequenti consentono infatti di valutare l’efficacia della strategia adottata e eventualmente ritornare sui propri passi o apportare lievi aggiustamenti. Infine, giunti al termine del lavoro è necessaria una valutazione globale che consenta di verificare se l’obiettivo è stato raggiunto o se è necessaria la formulazione di una nuova strategia, riavviando il ciclo risolutivo. Definite le tappe fondamentali di risoluzione, consideriamo ora le caratteristiche intrinseche del problema. In letteratura vengono individuate diverse tipologie di problemi: di trasformazione, di 60 ordinamento, induttivi o deduttivi. Più in generale gli psicologi cognitivisti distinguono i problemi in problemi ben strutturati o ben definiti e problemi mal strutturati o mal definiti. I problemi ben strutturati richiedono per la loro soluzione una serie preordinata di mosse. Implicano percorsi di soluzione chiari anche se non facili. Sono caratterizzati da uno stato iniziale e da uno finale: il solutore ha il compito di dell'identificare le mosse che permettono la transizione dall'uno all'altro. Ecco un esempio: Tre monaci e tre cannibali si trovano sulla riva di un fiume: tutti devono attraversare il fiume per giungere all'altra sponda. A questo scopo dispongono di una piccola canoa su cui possono trovare posto solo due persone. Se il numero di cannibali in una delle due sponde supera il numero di monaci, i cannibali divorano i monaci. Come si può fare affinché tutte le sei le persone giungano sull'altra sponda, garantendo che i cannibali non divorino i monaci? La soluzione da individuare è fortemente lineare poiché, nella maggior parte dei passi da compiere, esiste una e una sola mossa possibile senza che siano violate le regole date. In questi problemi è necessario un numero minimo di mosse per poter giungere alla soluzione: un numero maggiore di passaggi si effettua quando inavvertitamente si ritorna ad una situazione precedente invece di avvicinarsi allo stato finale. Nello studio di questi problemi, spesso, è stata usata anche la simulazione al computer. Nel modello di Newell e Simon (1972; cit. in Antonietti, 1998), l’eleboratore considera gli stati iniziali e finali all'interno di uno spazio problemico che rappresenta l'universo di tutte le possibili azioni che possono essere eseguite: il problema viene scomposto in passi, e ciascun passo deve attenersi alle regole relative alle procedure che possono essere implementate. Molti dei programmi di risoluzione consistono in algoritmi, ossia sequenze di operazioni ripetibili più volte finché non è soddisfatta la condizione posta dal programma. Un algoritmo è la descrizione esatta di che cosa è necessario fare in una certa situazione (un po’ come una ricetta di cucina esplicita tutti passi necessari per preparare la pietanza prescelta). Per mezzo di un algoritmo adeguato, il computer può facilmente calcolare tutte le operazioni e le combinazioni possibili all'interno dello spazio problemico, determinando la migliore sequenza possibile per risolvere quel problema. A differenza del computer, la mente umana non riesce a eseguire tutte le possibili computazioni e alla stessa velocità per i limiti della nostra memoria di lavoro. Per questo motivo è spesso necessario 61 ricorrere a delle scorciatoie mentali, delle euristiche, ossia strategie di ricerca generali, intuitive e informali di combinazione degli elementi del problema (si veda l’unità successiva). Le euristiche entrano in gioco soprattutto quando la soluzione del problema non è immediatamente visibile; a volte conducono a soluzioni efficaci, a volte no. Caratteristica dei problemi mal definiti invece è una modalità di presentazione che influisce fortemente sulla sua soluzione. Una donna che abitava in un piccolo paese sposò venti uomini diversi del luogo. Tutti sono ancora viventi e non ha mai divorziato da nessuno di loro; eppure non ha violato la legge. Come è possibile? Per risolvere questi problemi è difficile basarsi su una sequenza di mosse che si avvicini sempre più alla soluzione. È molto più probabile che per risolverli dobbiamo considerare il modo originale, cioè diverso da come li abbiamo percepiti inizialmente e da come si tende risolvere i problemi in genere. In questo è probabile che entri in gioco una risoluzione per mezzo dell’insight poiché richiede una concettualizzazione o ristrutturazione del problema. La ristrutturazione, che fa apparire immediata e semplice la soluzione, è spesso associata all'idea di illuminazione. Gli psicologi sono interessati soprattutto comprendere il perché certi problemi siano particolarmente difficili da risolvere e hanno scoperto che sono molti e diversi i fattori ostacolanti, alcuni dei quali insospettabili, come una precedente esperienza con problemi di un certo tipo. Alcuni ricercatori affermano che i problemi più difficili da risolvere sono quelli più astratti o che rendono difficile o impediscono l'uso delle rappresentazioni mentali. Affrontare un problema con un set mentale (o trinceramento) che implica un modello preesistente inadeguato alla rappresentazione del problema è uno dei principali ostacoli. Ne è un esempio il problema della donna: la fissazione su una procedura conosciuta, un oggetto o sul significato di una parola è ostacolo alla soluzione. La soluzione dell’ultimo problema? La donna è il sindaco del piccolo paese. 62 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica III Unità Didattica – Lezione 4 Decisione e ragionamento Spesso dobbiamo decidere aspetti rilevanti per la nostra vita: la scelta di un lavoro, l'acquisto dell'auto o della casa. Come ci regoliamo quando prendiamo una decisione? Secondo la teoria classica della decisione, elaborata negli anni Cinquanta, si compiono le scelte sulla base del principio della razionalità illimitata. Questo modello assume che l'uomo sia totalmente informato, infinitamente sensibile all'informazione e completamente razionale. Le scelte, quindi, avverrebbero a seguito di un calcolo probabilistico volta massimizzare i benefici e minimizzare i costi. L'insoddisfazione per questi modelli indusse Herbert Simon (1957; cit. in Antonietti, 1998), un economista, a proporre un modello decisionale basato sulla razionalità limitata, partendo dalla considerazione l’essere umano è soltanto limitatamente razionale. Egli sosteneva che, per decidere, si utilizza generalmente una strategia basata sul soddisfacimento: tale strategia non conduce a considerare tutte le azioni possibili, ma a valutare differenti opzioni, una ad una, fino ad individuare quella che appare accettabile, rispetto a un livello minimo stabilito a priori dal soggetto. Negli anni Settanta, questa teoria venne rivista da Tversky (1972), il quale osservò che quando ci si trova di fronte a più alternative che possono essere ragionevolmente prese in considerazione, utilizza un processo di eliminazione per aspetti. In altre parole ci si focalizza su un aspetto, stabilendo per esso un criterio minimo ed eliminando tutte le azioni che non lo soddisfano. Questo processo continua fino a quando non resta che un'unica opzione. Ad esempio, se decidiamo di affittare una casa, ci possiamo focalizzare sulla dimensione, trascurando fattori come costi, manutenzione, disposizione. Una volta che abbiamo escluso tutte le alternative che non soddisfano il nostro criterio di grandezza, scegliamo un altro aspetto e procediamo nello stesso modo, ma in maniera sempre più accurata, finché arriviamo all’unica scelta possibile. Questo significa che per scegliere la casa da affittare non abbiamo eseguito precisi calcoli di costi/benefici così come 63 previsto dalla teoria classica della decisione, né abbiamo visionato tutti gli appartamenti in affitto della città: dopo averne visitati alcuni, abbiamo eliminato ad una ad una le possibili alternative, utilizzando di volta in volta criteri diversi, fino a quando non ne è rimasta una sola possibile per noi. Tversky ha inoltre osservato che non solo non prendiamo decisioni ottimali, ma anche che frequentemente utilizziamo scorciatoie mentali, e persino distorsioni, che limitano e talvolta alterano le nostre decisioni razionali. Le scorciatoie che utilizziamo, nel prendere decisioni importanti, spesso implicano il calcolo della probabilità, ossia un calcolo estremamente complesso, assolutamente non intuitivo e che richiede un apprendimento formale. Proprio per tale difficoltà cadiamo frequentemente in distorsioni. Kahneman e Tversky (1979; cit. in Antonietti, 1998) rivoluzionarono la ricerca sul giudizio sulla presa di decisione facendo notare che le persone prendono decisioni sulla base di euristiche e distorsioni. Tali scorciatoie mentali alleggeriscono il carico cognitivo, ma aumentano la probabilità di commettere errori. I due autori sostengono che la nostra tendenza a giudicare più probabili certe sequenze piuttosto che altre dipende dall’euristica della rappresentatività, con la quale cerchiamo la probabilità che un certo evento accada sulla base di quanto pare simile o rappresentativo della popolazione da cui deriva e sulla base del grado in cui esso riflette le caratteristiche salienti del processo da cui è generato. L’euristica della rappresentatività ci porta considerare certe sequenze che sembrano casuali piuttosto che considerare le probabilità effettive di tali occorrenze. Ad esempio, viene interpretata come segnale positivo la coincidenza di giorno o mese di nascita tra due o più membri di un gruppo quando invece la probabilità che ciò accada è elevata. Un altro esempio di questa euristica è dato dalla fallacia del giocatore d'azzardo che ritiene, erroneamente, che la probabilità dell'evento casuale sia influenzata da eventi casuali precedenti. Quindi, i giocatori d'azzardo pensano che un numero abbia maggiori probabilità di uscita solo perché non è stato estratto da alcune settimane! Una delle ragioni per cui le persone utilizzano in modo fuorviante l’euristica della rappresentatività è costituita dalla mancanza di attribuzione di peso al concetto di frequenze di base, che si riferisce 64 alla frequenza prevalente di un evento o di una caratteristica all'interno di una popolazione di eventi di caratteristiche. Ad esempio, se a un medico venisse detto che un bambino accusa dolori al torace non tenderebbe pensare che si tratti di un possibile attacco di cuore perché molto improbabile quell'età; ci penserebbe, invece, se la persona con dolori al torace avessi 50 anni. L’euristica della rappresentatività è utile e facile da usare: basti pensare alle previsioni meteorologiche, quando stiamo per uscire e temiamo che possa scoppiare un temporale sulla base di alcune caratteristiche quali il periodo dell'anno, le nuvole in cielo, eccetera. Tuttavia, tendiamo usare queste euristiche più frequentemente del necessario. Accade per esempio quando veniamo a conoscenza di aneddoti che confermano le statistiche delle frequenze di base. Davanti a statistiche sui danni causati da un eccesso di grassi nell'alimentazione, potremmo pensare: io ho conosciuto un uomo che mangiava solo cibi grassi e ha vissuto bene fino a cent'anni e non dare alcun peso quelle informazioni che denunciano, invece, un rischio autentico. Questa nostra disponibilità a richiamare alla mente quelli che vengono percepiti come esempi rilevanti di un fenomeno è stata definita euristica della disponibilità. Ad esempio, alla domanda Nella lingua inglese ci sono più parole che iniziano con la lettera R o che hanno la lettera R come terza lettera?, la maggior parte delle persone intervistate sosteneva che esistevano più parole che iniziano con la R. La maggiore disponibilità, ovvero la maggiore facilità di recupero per la prima modalità, induceva stime di probabilità errate. La fallacia di congiunzione, invece, porta ad attribuire probabilità di occorrenza più elevata a un sottoinsieme di eventi, piuttosto che all’insieme degli eventi che comprende anche quel sottoinsieme. Interessante è anche la tendenza a scegliere le opzioni che implicano un’avversione al rischio, quando ci troviamo di fronte una possibilità che presenta dei guadagni potenziali, ma non certi. In altre parole scegliamo di guadagnare poco ma in modo sicuro piuttosto che molto ma senza certezza. L’avversione per il rischio è ancora più forte su questioni di vita e di morte. Si vedano le situazioni qui riportate: quali programmi di intervento scegliereste? 65 Si immagini che un governo che deve affrontare un'epidemia. 600 persone rischiano di morire. Vi sono due programmi. Se venisse adottato il programma A si salverebbero 200 persone, se venisse usato il programma B ci sarebbe la probabilità di 1/3 di salvarle tutte e 2/3 di probabilità che muoiano tutte. Si immagini un governo che deve affrontare un'epidemia. Se i 100 persone rischiano di morire. Se venisse adottato il programma C morirebbero 400 persone, se venisse usato il programma D ci sarebbe la probabilità di1/3 che non muoia nessuna di esse, e 2/3 di probabilità che muoiano tutte. Le nostre predilezioni per l’avversione o per la ricerca del rischio portano a scelte piuttosto differenti sulla base dei modi in cui una decisione viene presentata, anche quando gli esiti effettivi delle scelte sono gli stessi. Un altro errore molto comune è causato dall’eccesso di sicurezza, ovvero una sopravvalutazione individuale delle proprie capacità, conoscenze o giudizi: a causa di questo eccesso a volte si arriva a compiere decisioni inappropriate. Gli studi sulle scelte degli individui mostrano che la maggior parte degli esseri umani decide sulla base del soddisfacimento personale, utilizzando quelle strategie che portano a limitare convenientemente l'insieme delle opzioni che potrebbe essere sovrabbondante, tanto da renderne impossibile la gestione. Inoltre, spesso mostriamo una preferenza accentuata per l’euristica della rappresentatività per la quale crediamo che campioni piccoli somiglino alla popolazione totale in tutti gli aspetti. 66 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica III Unità Didattica – Lezione 5 Intelligenza Dare un definizione di intelligenza è un compito complesso. L’aggettivo intelligente viene spesso associato, nella vita quotidiana, a persone con un buon rendimento scolastico o lavorativo, a inventori o personaggi che hanno contribuito con le loro azioni a risolvere determinati problemi. Il termine intelligente viene anche associato, ad esempio, a sistemi per la gestione della propria casa a distanza. Ma quali sono le caratteristiche di una persona intelligente? E come definirla? Alcune ricerche hanno dimostrato che il senso comune ci porta a creare diverse misconcezioni, ossia concettualizzazioni che si discostano dal pensiero scientifico e sono in buona parte veicolate dalla cultura di appartenenza o determinate da un pensiero di tipo intuitivo. Questa lezione è dedicata a sfatare tali misconcezioni e a riflettere sulle caratteristiche dell’intelligenza in relazione ai processi di insegnamento-apprendimento. Intelligenza come abilità cognitiva multidimensionale. Spesso siamo portati a considerare una persona intelligente o meno, in senso generale, credendo che l’intelligenza sia una caratteristica che si riflette su tutti i comportamenti dell’individuo permettendogli di raggiungere meglio i propri scopi. In realtà, diversi studi hanno cercato di individuare quali abilità possano comporre l’intelligenza umana. Nel 1938, Thurstone (cit. in Antonietti, 1998) sosteneva l’esistenza di 7 abilità primarie componenti l’intelligenza umana: la comprensione verbale, la fluidità verbale, la capacità numerica, la visualizzazione spaziale, la memoria, il ragionamento, la velocità percettiva. Guilford, nel 1958 (cit. in Antonietti, 1998), giunse ad individuarne ben 120. Ciò che conta, comunque, è che studi sperimentali hanno dimostrato che un individuo può eccellere in determinate abilità più che in altre, e che quindi l’intelligenza non può essere un’abilità unitaria, ma è composta da una pluralità di abilità. 67 Intelligenza come abilità cognitiva specifica. Le riflessioni precedenti ci portano a supporre che se esiste una pluralità di abilità, esse allora saranno applicabili a campi specifici. Ognuno di noi si sentirà maggiormente portato per l’ambito letterario o per quello scientifico e, a seconda delle proprie propensioni, avrà trascorso parte della propria vita a migliorare e a lavorare in quegli ambiti verso i quali si sente maggiormente portato. Ogni volta che ci siamo accostati ad una disciplina differente abbiamo dovuto apprendere nuove modalità di ragionamento e nuovi linguaggi idonei alla materia studiata. Anche le abilità trasversali, come, ad esempio, la pianificazione assumono caratteristiche differenti a seconda che si debba pianificare la composizione di un testo scritto o la risoluzione di un problema matematico. La ricerca ha anche dimostrato che essere esperti in un determinato campo significa anche avere abilità molto sviluppate in quell’ambito e disporre di strategie affinate per elaborare le informazioni specifiche. Le abilità e le strategie di un esperto in fisica possono però non essere di alcun aiuto per esprimersi, ad esempio, in una lingua diversa dalla propria: il trasferimento di abilità domino-specifiche non è sempre possibile. Intelligenza come abilità cognitiva appresa. Spesso nei discorsi quotidiani siamo portati a considerare l’intelligenza come un dono, qualcosa di geneticamente definito, di innato. Tale considerazione aveva trovato in passato conferma anche nel fatto che molte abilità mentali erano distribuite nella popolazione secondo una curva normale, come molte altre caratteristiche innate. Al tempo stesso, però, la ricerca educativa ha dimostrato che le abilità mentali possono essere insegnate e quindi apprese e modificabili. Fermo restando il fatto che vi possono essere alcune componenti a base genetica, queste da sole non possono rendere conto dell’intelligenza dell’individuo. Intelligenza come abilità cognitiva dinamica. Per molti decenni, l’intelligenza è stata considerata come un’abilità cognitiva statica, un prodotto quindi facilmente misurabile tramite test volti a valutare il livello di abilità di un individuo nel risolvere una serie di prove. Come già abbiamo visto nelle unità precedenti, l’individuo, però, è dotato di un potenziale di apprendimento. Gli studi sul rapporto fra intelligenza e apprendimento condotti da Brown e Campione hanno messo in luce che 68 una valida teoria sull’intelligenza dovrebbe da un lato esplicitare quali caratteristiche deve possedere un soggetto per ottenere una buona prestazione ad un test (e quindi raggiungere elevati livelli nella misurazione del comportamento intelligente) ma anche specificare le modalità secondo le quali gli individui si differenziano fra loro. Secondo tali studiosi, le differenze individuali si possono situare a livello di hardware o di software. Con differenze di hardware, i due studiosi si riferiscono a differenze rilevabili nelle architetture di sistema, ossia nei magazzini di memoria dei soggetti, sia a livello di capacità (spazio utilizzabile per l’archiviazione dell’informazione), sia di durata (il tempo di permanenza nelle varie strutture del sistema), sia di efficienza (velocità di codifica dell’informazione, ritmo di ricerca dell’informazione in memoria); le differenze a livello di software, invece, riguardano, da un lato, la base di conoscenze che si acquisisce (con riferimento alla quantità e alla tipologia delle informazione, ossia le strutture di rappresentazione dei dati) e, dall’altro, i processi di controllo che gli individui attivano per svolgere tutte le attività cognitive. La prestazione di un individuo in un compito complesso è determinata quindi dalle potenzialità dell’individuo in tutti i campi sopracitati. Per ragioni di spazio non ci soffermeremo in questa sede sulle varie teorie dell’intelligenza che sono state proposte nel corso del tempo, e ci limiteremo soltanto ad accennare che dai modelli gerarchici, che prevedevano un fattore unico legato alla prestazione in qualsiasi attività mentale (al quale erano sottesi una serie di altre capacità mentali ordinate gerarchicamente), si è passati a modelli contestuali che sottolineavano il ruolo della cultura nella determinazione di quali comportamenti possano essere considerati intelligenti. Oggi ricevono maggiori riscontri i modelli complessi, come la teoria triarchica dell’intelligenza di Stenberg o la teoria delle intelligenze multiple di Gardner. La prima sostiene che l’intelligenza si fonda su tre grandi componenti: l’abilità di elaborare l’informazioni che guidano il comportamento intelligente, l’applicazione di tali abilità nei contesti reali e la capacità dell’individuo di fare riferimento alle proprie esperienze per risolvere problemi nuovi. Mentre la teoria di Sternberg (cit. in Antonietti, 1998) si focalizza sui processi mentali, quella di Gardner puntualizza gli ambiti in cui si può manifestare l’intelligenza, giungendo ad 69 individuare otto tipologie di intelligenza: linguistica, logico-matematica, musicale, corporeocinestetica, intrapersonale, interpersonale, visivo-spaziale, naturalistica. Ogni individuo possiede tali intelligenze secondo gradi e combinazioni diverse, le quali determinano il profilo della persona. Si rimanda ad un testo di psicologia dell’educazione o di psicologia cognitiva per un maggiore approfondimento di tali aspetti. In chiusura di questa unità è d’obbligo proporre una riflessione: come insegnare ad essere più intelligenti? Se l’intelligenza non è geneticamente determinata, in quale modo un insegnante può sostenere l’allievo nel far progredire la propria intelligenza? La ricerca educativa sottolinea che è necessario curare l’insegnamento di tutte quelle abilità cognitive che sono alla base dell’apprendimento in ambito scolastico e accademico. L’insegnamento deve focalizzarsi sulla comprensione del processo piuttosto che sulla produzione di un prodotto finale. È altresì importante che l’insegnamento avvenga i contesti specifici e non generici, in modo che l’apprendente abbia la possibilità di sperimentare determinate abilità in un contesto d’uso idoneo. Infine, è fondamentale puntare inizialmente alla padronanza delle abilità di base, prerequisito necessario per tutti gli apprendimenti successivi e modello per la costruzione di apprendimenti più complessi. 70 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica III Unità Didattica – Lezione 6 Stili di pensiero Un’altra modalità per rendere conto delle differenze individuali nell’apprendimento e nelle prestazioni fa riferimento agli stili di pensiero dell’individuo: in questo caso il focus non è il livello di abilità raggiunto, ma la modalità preferenziale con cui un individuo affronta la risoluzione di un compito. Lo stile di pensiero, in altre parole, è una modalità prevalente di funzionamento cognitivo. Mentre un’abilità riguarda un preciso livello di cognizione, si riferisce a un dominio specifico, va misurata in termini di accuratezza e velocità, è unipolare, ha un valore assoluto e consente di svolgere un compito in un’area specifica, lo stile di pensiero si riferisce alla modalità di pensiero, è pervasivo nelle azioni dell’individuo, riguarda l’individuazione di una modalità preferenziale di risposta, ha più polarità, ha un valore che dipende dalla natura e dal contesto dell’attività in cui viene applicato e organizza il funzionamento cognitivo. Ci soffermeremo in questa lezione sugli stili di pensiero postulati da Sternberg all’interno della teoria dell’autogoverno mentale. Il cuore della teoria è l’idea che le persone necessitano di governare, dirigere, controllare le proprie attività quotidiane sia a scuola che fuori. Esistendo molteplici modalità di azione, ogni individuo preferisce scegliere lo stile a sé più congeniale. Molte persone sono piuttosto flessibili nell’uso degli stili e cercano, con vari gradi di successo, di adattarsi alla richiesta stilistica di una situazione. L’uso flessibile della mente per l’autogoverno mentale tiene in considerazione la varietà di stili di pensiero. Secondo la teoria sull’autogoverno mentale, i diversi modi in cui ci organizziamo possono corrispondere a tipi di governo che esistono nel mondo: monarchico, gerarchico, oligarchico, legislativo, esecutivo, giudiziario. Sternberg evidenzia tredici stili che vengono classificati in cinque categorie: per funzione, forma, livello, scopo e inclinazione. Molti di noi propendono per uno stile in ognuna delle categorie, sebbene queste preferenze possano variare a seconda del compito e della situazione. Per esempio bambini che hanno uno stile liberale in scienze (amano fare cose in modi 71 nuovi) possono avere uno stile conservativo in cucina o in ginnastica (preferire situazioni familiari); insegnanti che hanno uno stile legislativo nel lavoro (preferiscono creare, inventare) possono avere uno stile esecutivo a casa (eseguire o dare direttive, preferire strutture). L’autogoverno mentale implica tre funzioni: legislativa, esecutiva e giudiziaria. In ogni persona una delle funzioni è dominante ed orienta lo stile della persona. Una persona legislativa ama credere, inventare, progettare, fare le cose a modo proprio, avere compiti poco strutturati, un’esecutiva, invece, ama eseguire direttive, fare ciò che le viene assegnato, operare in situazioni strutturate, una giudiziaria, infine, ama valutare ed esprimere giudizi su cose e persone In situazioni di insegnamento-apprendimento, ogni disciplina può essere insegnata in modo da essere congruente con qualsiasi stile: proprio per questo, gli studenti cercheranno attività di apprendimento che siano compatibili con il loro stile preferito, così come gli insegnanti tenderanno ad insegnare in modi compatibili con il proprio stile, creando a volte un mancato incontro fra stile del docente e del discente. È, perciò, importante che gli insegnanti siano consapevoli dello stile preferito da ognuno dei propri studenti, così da promuovere maggiori opportunità di apprendimento per tutti. Come le funzioni dell’autogoverno mentale assomigliano ai rami del governo, così le forme dell’autogoverno mentale assomigliano a forme di governo: monarchico, gerarchico, oligarchico e anarchico. Nella forma monarchica predomina un solo obiettivo o un unico modo di fare le cose, la persona monarchica ama fare una cosa alla volta, impegnandovi quasi tutte le energie e risorse. Nella forma gerarchica sono ammessi molteplici obiettivi, ognuno con diversa priorità. Un gerarchico, quindi, ama fare molte cose contemporaneamente stabilendo priorità per quale fare, quando, per quanto tempo e quante energie impiegare per ogni aspetto. Nella forma oligarchica sono ammessi molteplici obiettivi, ognuno ugualmente importante. Il soggetto oligarchico ama fare molte cose contemporaneamente, ma ha problemi nello stabilire priorità. Nella forma anarchica, infine, le procedure, le regole e le linee guida appaiono come un anatema. L’anarchico ama avere 72 un approccio casuale nella risoluzione di problemi; non ama i sistemi, le linee guidate e praticamente tutte le costrizioni. I livelli sono le variabili stilistiche più modificabili dell’autogoverno mentale. Alcune situazioni e certi compiti richiedono un livello globale di elaborazione. I problemi che richiedono questo tipo di approccio sono di natura generale e richiedono un pensiero astratto. Per risolvere questo genere di problemi, un individuo deve essere in grado di vedere la complessità del problema nella sua interezza e non ogni aspetto nella sua singolarità. Altre situazioni e compiti, per contrasto, vengono svolti meglio ad un livello locale. Questi problemi tendono ad essere specifici e richiedono un pensiero concreto; per risolverli occorre essere in grado di cogliere ogni singolo aspetto, non solo la globalità del problema. Un individuo con stile globale preferisce occuparsi di questioni ampie ed astratte e spesso esclude i dettagli, mentre un individuo con stile locale preferisce occuparsi di questioni più maneggevoli e concrete e spesso gradisce i dettagli. Gli scopi dell’autogoverno mentale possono essere interni o esterni. Gli scopi interni riguardano compiti in cui gli studenti lavorano da soli; gli scopi esterni comprendono compiti in cui gruppi di studenti collaborano, indipendentemente dal livello dei membri. I governi, infine, possono avere varie tendenze politiche, dall’ala destra all’ala sinistra: Sternberg, da questo parallelo, deriva due inclinazioni: conservativa e liberale. Gli individui con uno stile conservativo tendono ad aderire alle regole e procedure che già esistono, minimizzando i cambiamenti ed evitando le situazioni ambigue quando è possibile. Una persona può essere sia conservativa che liberale se ama sviluppare nuove idee con modalità che tengono fortemente in considerazione ciò che è stato fatto nel passato. Una persona con uno stile liberale ama andare oltre le regole e le procedure esistenti, provocando cambiamenti e cercando situazioni incerte ed ambigue. La scuola insegna agli studenti ad essere fruitori di conoscenze più che produttori di conoscenze, ma, al tempo stesso il mondo del lavoro richiede loro di essere produttori di cultura e conoscenze; dopo anni di richieste di tipo esecutivo ci si aspetta che nella professione siano creativi. Perciò gli 73 insegnanti dovrebbero apprezzare e valorizzare non solo gli stili che ripagano nel presente, ma anche quelli che possono risultare proficui nel futuro. Se la scuola deve promuovere negli studenti l’abilità di passare da uno stile all’altro secondo la richiesta della situazione, ciò significa che anche gli insegnanti devono essere istruiti ad usare stili diversi. Un modo per sviluppare tale flessibilità è quello di descrivere vari compiti agli insegnanti durante la loro formazione o agli studenti durante le attività di classe e poi di chiedergli quale stile di pensiero sarebbe più efficace per lo svolgimento di ogni compito. Successivamente si può chiedere agli insegnanti o agli studenti di motivare le loro risposte ed infine di svolgere il compito usando lo stile ottimale. Lo sforzo per capire gli stili di pensiero e il loro uso flessibile richiede che prima si sia in grado di identificare lo stile preferito di un individuo. Gli insegnanti possono raggiungere un maggior numero di studenti se si preoccupano di variare i tipi di suggerimenti che usano nell’insegnamento e nella verifica. Variare sistematicamente il modo di insegnare e di verificare è un ottimo metodo per rispondere ai bisogni di un numero maggiore di studenti. 74 Bibliografia Antonietti, A. (1998). Psicologia dell'apprendimento. Processi, strategie e ambienti cognitivi. Brescia: La Scuola. Polito, M. (2012). Atleti della mente. Il potere dell'attenzione e della concentrazione. Editori Riuniti Univ. Press. 75 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica UNITÀ DIDATTICA 4 ASPETTI MOTIVAZIONALI Lezione 1 Motivazione In questo modulo ci occuperemo degli aspetti emotivo-motivazionali connessi all’apprendimento, ossia alla motivazione, all’emozione, all’affettività. La motivazione è un concetto ampio, che è stato affrontato secondo approcci teorici molto diversi fra loro. La definizione classica, ascrivibile all’approccio comportamentista, considera la motivazione come una spinta del soggetto verso la soddisfazione di un bisogno; il bisogno spinge l'organismo alla ricerca della sua soddisfazione, cioè ad aggiungere l'equilibrio che la privazione ha causato. La soddisfazione del bisogno, secondo i comportamentisti, diventa rinforzo che consolida la risposta dell'organismo, cioè il comportamento che ha immediatamente preceduto l'evento rinforzante. Ogni organismo agisce per ridurre dei bisogni, i quali determinano delle pulsioni cioè degli stimoli che sorgono da uno stato di bisogno che hanno la funzione generale di attivare il comportamento. Le pulsioni primarie, come fame, sete, sonno, sono associate agli stati di bisogno innati; le pulsioni secondarie, come la paura, possono essere apprese per condizionamento. In ambito scolastico gli studi sulla motivazione hanno quindi sottolineato l'importanza del rinforzo: il ruolo dell'insegnante è quindi quello di predisporre un ambiente rinforzante al fine di avere sempre un allievo motivato grazie al sapiente dosaggio dei rinforzi ricevuti. Una definizione più generale di motivazione indica la configurazione organizzata di esperienze soggettive che consente di spiegare l'inizio, la direzione, l'intensità e la persistenza di un comportamento diretto a uno scopo. Il concetto di bisogno, legato alla teoria motivazionale, è stato 76 fortemente criticato dal cognitivismo: né il semplice bisogno, né un rinforzo meccanico, sono in grado di dare spiegazioni della motivazione di un individuo. I cognitivisti sottolineano tre dimensioni fondamentali del concetto di motivazione. In primo luogo assegnano un ruolo attivo all'individuo: la motivazione non è una soddisfazione esclusivamente passiva dei bisogni primari o secondari, ma nasce nel momento in cui l’individuo più si pone degli obiettivi. Il soggetto costruisce attivamente la propria motivazione, agendo intenzionalmente nel mondo, valutando le proprie capacità, facendo uso dei mezzi a disposizione per raggiungere l’obiettivo. È più corretto, quindi, definire la motivazione come l'attivazione e la direzione del comportameto teso verso il raggiungimento di un obiettivo. In secondo luogo è necessario considerare la percezione che l'individuo ha di se stesso in rapporto all'obiettivo e al risultato. Tale percezione fa sì che l’individuo costruisca sulla base della sua prestazione, convinzioni circa la propria competenza dalla quale deriverà aspettative di riuscita o di fallimento per le situazioni future. In terzo luogo, è necessario considerare gli strumenti che l'individuo applica al fine di raggiungere i suoi obiettivi. Con strumento si intendono tanto gli strumenti materiali, quanto, soprattutto, le strategie di studio, di monitoraggio, di controllo, di azione attraverso le quali uno studente orienta il proprio comportamento allo scopo; è ossia fondamentale considerare l'autoregolazione dell’individuo. Una distinzione classica che viene effettuata con riferimento il concetto di motivazione è la suddivisione fra motivazione intrinseca e la motivazione estrinseca. La prima si basa sulla curiosità, che viene attivata quando un individuo incontra caratteristiche ambientali strane, sorprendenti, nuove; in tale situazione la persona sperimenta incertezza, conflitto concettuale e sente il bisogno di esplorare l'ambiente alla ricerca di nuove informazioni e soluzioni; le seconda fa sì che il comportamento sia retto da scopi esterni all’attività stessa: l’apprendimento di una nozione in questo caso diventa non il fine ma lo strumento per raggiungere il proprio scopo. Tale suddivisione, per quanto molto nota, non tiene conto della distinzione fra motivazioni innate (come i bisogni 77 primari) e motivazioni mediate cognitivamente, come le aspettative e gli obiettivi. È comunque utile soffermarsi sul concetto di motivazione intrinseca poiché molto funzionale per un apprendimento efficace. Essa infatti porta l’individuo a affrontare un compito per se stesso, senza finalità esterne, traendo soddisfazione dalla propria azione, spesso dettata da un bisogno innato di essere curiosi. La curiosità epistemica è un bisogno universale di conoscere ed apprendere, che si origina dall’esplorazione dell’ambiente ed è giustificata dal desiderio di sapere. Essenziale per l’attivazione di tale curiosità sono le caratteristiche collative degli stimoli come la novità, la complessità e l’incongruenza. Data l’importanza dell’attivazione di una curiosità epistemica a scuola, dovrebbe essere compito fondamentale dell’insegnante il cercare di predisporre le attività e i materiali di studio cercando di soddisfare tali caratteristiche dello stimolo, agendo sull’organizzazione della lezione, sulle richieste presentate all’allievo o sulle caratteristiche del problema presentato. L’osservazione del comportamento degli individui ha però portato alcuni studiosi a concludere che l’azione del soggetto non è soltanto spinta dal desiderio di appagare una curiosità, ma soprattutto dalla necessità di autodeterminarsi, esercitando forme di controllo sul proprio comportamento e sulla realtà in cui vivono. Deci e Ryan (1985), nel postulare la teoria dell’autodeterminazione, hanno considerato l’essere umano come un organismo attivo avente la tendenza innata a sviluppare un senso di sé unitario e integrato, tramite lo sviluppo armonico di vari aspetti della propria vita. Secondo tali studiosi, infatti, esistono tre bisogni psicologici fondamentali, la cui soddisfazione, essenziale al pieno benessere dell’individuo, può essere ostacolata dall’ambiente sociale. Tali bisogni sono esigenze innate, non mediate dalla cultura e pertanto comuni a tutti gli individui. La competenza si riferisce al sentirsi efficace nelle interazioni con l’ambiente sociale e nell’esercitare ed esprimere le proprie capacità. È il bisogno di competenza che porta gli individui a conservare ed accrescere le proprie abilità, cercando anche stimoli per svilupparle. Nel momento in cui, infatti, ci dedichiamo ad una attività che ci piace, da un lato ci impegniamo perché ci sentiamo in grado di eseguirla, dall’altro siamo stimolati a proseguire poiché essa racchiude sempre per noi una nuova sfida: la competenza non può essere considerata una capacità appresa, ma ci offre un senso di 78 sicurezza e capacità di agire. L’autonomia è stata definita come il sentirsi origine del proprio comportamento grazie alle azioni dettate dalla nostra volontà e non da cause ambientali esterne al nostro essere. Il comportamento, in questo caso, diventa espressione del Sé dell’individuo che è capace di controllare l’ambiente in cui vive. Autonomia però non è sinonimo di indipendenza dagli altri: è questa un’autonomia caratterizzata da convizione e coerenza e ha al suo opposto atteggiamenti conformistici. Il terzo bisogno fondamentale è quello che porta ad instaurare relazioni con gli altri, per il bisogno di sentirsi parte di un gruppo sociale, formale o informale, per il desiderio di occuparsi degli altri al fine di costruire un progetto di vita o per motivazioni altruistiche come il volontariato o per il puro piacere di stare con gli altri. 79 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica IV Unità Didattica – Lezione 2 Obiettivi di riuscita Affrontati da un punto di vista più generale le caratteristiche della motivazione, come motore dell’individuo per il raggiungimento di fini ed obiettivi, ci concentreremo ora su quali siano i rapporti tra motivazione e apprendimento, analizzando le riflessioni sugli obiettivi di riuscita. Come abbiamo visto nell’unità precedente, la motivazione si attiva quando un individuo ha un obiettivo da raggiungere, un risultato che si vuole ottenere o evitare: si parla in questo caso di obiettivi target, ossia dei traguardi che consentono facilmente la verifica dell’avvenuto raggiungimento. Diversi, invece, sono gli obiettivi di riuscita (achievement goal): non ci si riferisce in questo caso ad un risultato da raggiungere, ma al perché un individuo si impegna in un compito o in un’attività di apprendimento. Gli obiettivi di riuscita, quindi, sono sovraordinati rispetto agli obiettivi target: rispetto al medesimo obiettivo target, due individui possono collegare obiettivi di riuscita differenti. Uno studente può decidere di conseguire un perfezionamento perché lo ritiene interessante o utile per la sua professione, un altro per conseguire un titolo con il quale mettersi in luce di fronte ad amici e colleghi. L’obiettivo di riuscita è un insieme di convinzioni, attribuzioni e affettività che determina le intenzioni del comportamento e che si esprime in modalità diverse di affrontare l’obiettivo target; non indica un traguardo, ma un orientamento dell’individuo verso la realizzazione del Sé e comporta una credenza dell’individuo circa la propria abilità, una propensione ad attribuire a determinate cause i propri successi o i propri fallimenti, la capacità di perseverare nel raggiungimento di una meta. La teoria degli obiettivi di riuscita fu elaborata da Dweck nel corso degli anni Ottanta, a partire da ricerche che dimostravano quanto gli studenti reagissero secondo modalità diverse a seguito della sperimentazione di un insuccesso scolastico. Alcuni studenti non si scoraggiavano, dimostravano persistenza nell’impegno e ricercavano nuove strategie per affrontare il problema, dimostrando dei pattern di comportamento adattivi; altri erano 80 invece colti dallo sconforto, manifestavano frustrazione e aggressività, si irrigidivano sulla strategie, riapplicate in maniera rigida e ripetitiva, rispondendo, in altre parole, con pattern di comportamento mal adattivi. Dweck formulò quindi l’esistenza di due tipi di achievement goal: gli obiettivi di padronanza o di prestazione. Gli studenti orientati alla padronanza, ossia centrati sul compito, sono motivati a capire ciò che affrontano e a svolgere una buona attività. Sono studenti fiduciosi in se stessi, persistenti in caso di difficoltà, maggiormente in grado di autoregolarsi e di elaborare strategie flessibili. Tali studenti svolgono volentieri le attività perché sorretti dalla curiosità epistemica, ma anche perché possono ritenere utile tale attività per altri scopi. Essere orientati alla padronanza, quindi, non sempre corrisponde ad avere una motivazione intrinseca. Gli studenti orientati alla prestazione, quindi centrati sulla dimostrazione della propria abilità, cercano di ottenere risultati legati alle aspettative sociali associate al compito, come ottenere buone valutazioni dal docente e evitare quelle negative, effettuare una prestazione migliore di quella dei propri compagni; tali studenti però sono maggiormente esposti allo sconforto, soprattutto nei casi i cui l’individuo percepisca un basso livello nelle proprie abilità: proprio per questo motivo, Dweck ha definito l’approccio alla prestazione come un pattern mal adattivo. Dweck ha inoltre sottolineato che riveste una fondamentale importanza la definizione che l’individuo dà di abilità: coloro che ritengono che un’abilità sia un qualcosa di statico, considera il successo come un’affermazione rispetto ad altri, come risultato di una valutazione; chi invece ritiene che un’abilità sia apprendibile e sviluppata, si orienta più facilmente verso obiettivi di padronanza essendo capace di considerare un successo l’aumento di competenza in un determinato compito. Studi successivi a tale teoria, contestarono la dicotomia proposta da Dweck. Elliot, in particolare, mise in dubbio il fatto che gli obiettivi di prestazione conducessero sempre a pattern maladattivi per l’apprendimento: propose quindi di differenziare gli obiettivi di prestazione a seconda che fossero caratterizzati da componenti di approccio o di evitamento del compito. Sia la padronanza che la prestazione, infatti, sono obiettivi di approccio: nel primo caso, lo studente desidera riuscire 81 sviluppando la propria competenza, nel secondo caso manifesta invece il bisogno di dimostrarla. Caratteristica dell’orientamento di approccio, infatti, è proprio la riuscita; l’orientamento di evitamento è caratterizzato, invece, dalla volontà di evitare di dimostrare la propria incapacità. Eliott propone quindi una nuova tricotomia circa gli obiettivi di riuscita, che si distinguono in obiettivi di padronanza (focalizzati sullo sviluppo della competenza, l’individuo si confronta con se stesso), obiettivi di approccio di prestazione (focalizzati sul raggiungimento di competenza in relazione ad altri), obiettivi di evitamento della prestazione (focalizzati sull’evitare uno standard di competenza in rapporto ad altri). Ad essi si aggiunge un quarto pattern, ossia l’orientamento all’evitamento della padronanza che però si allontana, nelle sue ricadute, dagli aspetti legati alla scuola e alle richieste che tale ambiente pone allo studente. Dei primi tre orientamenti indicati, solo il terzo costituisce un pattern maladattivo; è la percezione circa la propria competenza che spinge l’individuo ad adottare obiettivi di prestazione o di evitamento. L’adozione di un determinato obiettivo pare essere anche fortemente legata alle metodologie di lavoro adottate in classe e agli obiettivi dominanti che tali metodologie intrinsecamente trasmettono. Alcuni studi hanno dimostrato che studenti posti davanti allo stesso compito, presentato, però, secondo modalità differenti che di volta in volta sottolineavano l’importanza di impadronirsi di una tecnica, di ottenere una vittoria su tutti i partecipanti o di essere individuati per la propria incapacità, dimostravano livelli differenti di motivazione intrinseca e percepivano un maggiore o minor livello di piacere nello svolgimento del compito. Dal gruppo di studenti in cui veniva indotto l’obiettivo di evitamento, la prova era svolta con scarso piacere e reticenza e la motivazione intrinseca dei soggetti di attestava su livelli decisamente inferiori rispetto a quella degli altri gruppi. Non sono quindi solo gli obiettivi personali a determinare l’approccio ad una attività ma anche i messaggi che giungono dal contesto classe, ossia la struttura di obiettivo. Con tale termine si designa l’insieme dei messaggi dominanti in una classe o in una scuola, che possono influenzare gli 82 obiettivi personali del soggetto: l’organizzazione di un gruppo classe si esplicita nei modelli di compito, di autorità e di valutazione, nel modo in cui, cioè, un insegnante assegna attività, pone regole e valuta gli studenti. Anche in questo caso, allora, è fondamentale che l’insegnante sia estremamente consapevole dei messaggi trasmessi al proprio gruppo classe, dato che dal suo atteggiamento derivano influenze sull’adozione di atteggiamenti di padronanza o di prestazione. Infine, è necessario tenere in considerazione che i tentativi di riuscire comportano nello studente la sperimentazione di una vasta gamma di emozioni che sono sì legate al vissuto di successo o di insuccesso, ma anche alla valutazione che ne viene data dal contesto di appartenenza. Gli obiettivi di padronanza sembrano favorire la sperimentazione di emozioni positive e la riduzione di quelle negative; l’emozione positiva concorre all’adozione di una motivazione intrinseca e al perseverare nel raggiungimento dell’obiettivo prefissato. 83 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica IV Unità Didattica – Lezione 3 Teoria dell’attribuzione Un’ulteriore modalità per lo studio della motivazione alla riuscita fa riferimento al comprendere come gli individui spiegano i risultati differenti che raggiungono, a quali cause, cioè, tendono ad attribuire i propri successi o insuccessi. Heider, nel 1958 (cit. in Antonietti, 1998), si concentrò sulla tendenza dell’individuo ad attribuire le cause delle proprie azioni a due fattori principali: se stessi o l’ambiente, ossia a cause interne a sé (locus of control interno) o esterne a sé (locus of control esterno). A partire da tale teoria molti ricercatori hanno specificato maggiormente alcuni aspetti dell’attribuzione causale. Ci occuperemo in questa sede di affrontare il contributo di Weiner. Gli individui tendono a addurre quattro motivi per i risultati delle proprie azioni: queste possono essere determinate da abilità, sforzo, difficoltà del compito o fortuna. Tali motivazioni si possono articolare secondo alcune dimensioni: il locus of control, la stabilità/instabilità della causa e la sua controllabilità. La stabilità attiene alla possibilità che i criteri presi in considerazione cambino nel tempo, mentre la controllabilità si riferisce alla possibilità da parte del soggetto di controllare la causa che ha determinato il successo o il fallimento. La combinazione delle tre dimensioni conduce l’individuo a compiere otto differenti tipi di attribuzione, come si può vedere nello schema seguente. Locus Stabilità Stabile Interno Instabile Stabile Esterno Instabile Controllabilità Controllabile Incontrollabile Controllabile Incontrollabile Controllabile Incontrollabile Controllabile Incontrollabile Attribuzione Tenacia Abilità Impegno Tono umore Pregiudizio Difficoltà Aiuto Fortuna Le aspettative sono determinate dalla percezione della propria abilità e da quanto si è disposti a impegnarsi in base alla difficoltà del compito, alla percezione del proprio controllo della situazione e alla precedenti esperienze proprie ed altrui. Le aspettative sono influenzate dalla dimensione di 84 stabilità (abilità/inabilità – facilità/difficoltà del compito): l’attribuzione a cause stabili porta ad aspettarsi in caso di successo, un ulteriore successo e, in caso di insuccesso, un nuovo fallimento. Allo stesso modo, un insegnante che nutre aspettative positive o negative sulla bravura di uno studente, sarà più facilmente portato a credere che quello studente sarà sempre, o non sarà mai, bravo. Ogni attribuzione porta con sé degli effetti sulle emozioni. Chi attribuisce all’impegno il proprio successo sperimenterà soddisfazione, mentre chi vi attribuirà l’insuccesso sperimenterà il senso di colpa e la vergogna per non aver perseverato abbastanza; l’attribuzione all’abilità del successo aumenta la propria fiducia in sé e i vissuti di autostima, l’attribuzione dell’insuccesso fa sperimentare l’impotenza, l’apatia, la depressione e la vergogna. Diverse sono le emozioni sperimentate quando la attribuzione è data a cause esterne. La difficoltà del compito in caso di successo scatena emozioni di sorpresa per il buon esito conseguito e di pietà e compatimento di se stessi quando gli esiti sono, invece, negativi; quasi gli stessi effetti sono riscontrabili nelle attribuzioni al caso. Infine, quando si considera il proprio successo legato ad un aiuto altrui si sperimenta un’emozione di gratitudine che diventa, invece, rabbia se l’aiuto altrui ci ha condotto al fallimento. Le attribuzioni influenzano fortemente anche gli esiti delle prestazioni e dell’apprendimento. Esiste una relazione tra cognizione, meta-cognizione, prestazione, stili attributivi, motivazione al compito e autostima: in tale sistema complesso riveste un ruolo centrale l’uso di strategie che pongano l’enfasi sul processo di istruzione. L’insegnante è il mediatore culturale che deve contribuire a sviluppare negli alunni un positivo atteggiamento verso lo studio, collegando in modo efficace la prestazione all’impegno strategico, attraverso feedback appropriati e l’organizzazione di situazioni stimolo, materiali e compiti funzionali alle varie strategie. La probabilità d’uso di strategie di apprendimento è fortemente legato al tipo di attribuzione che influenza direttamente la prestazione in compiti scolastici. Chi crede infatti di riuscire o non riuscire per effetto dell’impegno personale, dell’interesse, della motivazione presenta un atteggiamento strategico che lo porta ad 85 avere buone abitudini di studio e ad applicare correttamente le strategie, tende a prodigarsi per ottenere un successo, ha un maggior senso della realtà e una maggiore fiducia in se stesso. Essendo più motivato al successo, ottiene prestazioni superiori, soprattutto nell’applicazione di strategie di memoria e di studio. Chi, al contrario, pensa di riuscire o fallire a causa di un’abilità innata, stabile e non modificabile, o, per effetto di fattori esterni come difficoltà o fortuna, è meno portato ad utilizzare strategie o a adottare corrette abitudini di studio perché meno convinto di poter controllare gli eventi, tanto da ritenere inutile anche impegnarsi ulteriormente. Una situazione di questo tipo, protratta nel tempo attraverso continui fallimenti, potrebbe condurre il soggetto a sviluppare un senso di impossibilità a riuscire in contesti simili o, peggio ancora, a sviluppare la sindrome dell’impotenza appresa per cui l’individuo è portato a credere che non sia possibile fare nulla Né per affrontare una situazione positiva, né per evitarne una negativa. Dalle varie esperienze vissute, l’individuo sviluppa uno stile attributivo. Esistono differenti stili attributivi, ognuno dei quali è utile, secondo modalità diverse, per difendere la propria immagine personale o la specifica situazione in cui ci si trova. Nella situazione di apprendimento lo stile più funzionale per il successo nello studio è quello che si caratterizza per il fatto di riconoscere una grande importanza all’impegno personale. Infatti, lo studente che attribuisce i propri risultati prevalentemente al proprio lavoro ed alle modalità da lui adottate riesce da un lato ad ottenere prestazioni migliori e dall’altro a affrontare positivamente l’insuccesso, vissuto come tappa necessaria del processo di apprendimento per imparare ad adottare le strategie di risoluzione più adeguate al compito. Il sistema attributivo non è innato, ma trae origine sia dalle esperienze passate di successo o insuccesso ma anche dall’ambiente culturale, familiare e scolastico cui l’individuo appartiene. Anche gli atteggiamenti e le concezioni degli insegnanti influenzano diversi aspetti emotivomotivazionali dei ragazzi. Gli alunni, infatti, sono generalmente sensibili nel cogliere le reazioni emotive che gli adulti manifestano in relazione al successo o all’insuccesso e a coglierne l’atribuzione sottostante. Tali aspettative, noinché il generale atteggiamento dei genitori e degli 86 insegnanti sono anche una delle cause determinanti le alcune differenze individuali, come le differenze di genere. Le ragazze, ad esempio, vengono criticate più spesso in caso di una prestazione scolastica non adeguata e ricevono quindi un feedback negativo: mentre i maschi presentano un atteggiamento di negazione che tende ad attribuire l’insuccesso a cause esterne, le femmine tendono a sviluppare più facilmente un sentimento di incapacità e una bassa stima di sé. Così come lo stile attributivo può essere appreso, nello stesso modo può essere modificato per mezzo di interventi didattici mirati. La letteratura educativa fornisce una vasta gamma di prodotti per la valutazione dello stile attributivo dello studente e di tecniche per lavorare verso l’assunzione di uno stile attributivo maggiormente adattivo per il successo scolastico. 87 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica IV Unità Didattica – Lezione 4 Autoefficacia Secondo la definizione generale, il senso di autoefficacia rappresenta la convinzione nelle proprie capacità di organizzare e realizzare le azioni necessarie per gestire adeguatamente le situazioni che si incontreranno, in modo da raggiungere gli obiettivi prefissati. Le credenze di autoefficacia possono essere definite, quindi, come le determinanti prossimali delle azioni umane, in quanto ne influenzano in modo significativo le componenti cognitive, emozionali e motivazionali; gli individui che si ritengono in grado di risolvere un problema, di intraprendere la carriera lavorativa per loro più vantaggiosa, di affrontare una nuova esperienza nel modo migliore e che effettivamente risultano molto attive ed efficienti nell’eseguire le azioni necessarie per realizzare i loro progetti, sono dotate di un buon livello di senso di autoefficacia; coloro che, invece, nutrono dubbi sulle loro capacità o sulle loro scelte e che risultano dunque poco impegnati e poco produttivi nelle attività, sono dotati di un basso livello del senso di autoefficacia. Chi nutre buone credenze di efficacia riesce inoltre ad anticipare e prevedere esiti positivi nelle attività che compirà e questa capacità di “vedersi” impegnati in azioni di successo, a sua volta, influenza positivamente le credenze di efficacia del soggetto. In una società globale come quella attuale, basata sulla conoscenza, sulla continua trasformazione e sulla necessità di essere costantemente aggiornati sui vari sviluppi, le prospettive future di ogni individuo dipendono dalla sua capacità di guidare se stesso, di evolversi e di rinnovarsi continuamente ed un elevato senso di autoefficacia risulta essere l’elemento fondamentale per l’effettiva realizzazione di tutto ciò. A Bandura va riconosciuto il merito di aver attirato l’attenzione degli studiosi su questo argomento, sottolineando quanto il concetto di senso di autoefficacia sia molto importante nella vita di ogni individuo, in quanto può essere validamente esteso alla risoluzione di tutti i problemi, da quelli 88 cognitivi a quelli interpersonali, facendo riferimento alle convinzioni di ognuno sulle abilità di controllare il proprio comportamento e determinare il successo o l’insuccesso delle varie azioni. La teoria dell’autoefficacia definisce le convinzioni sulle propria capacità non come un tratto generale, ma come un insieme differenziato di convinzioni sulla propria persona, legate a sfere di funzionamento distinte; bisogna precisare, tuttavia, che il senso di efficacia non riguarda il numero di abilità possedute, quanto piuttosto ciò che si crede di poter fare in una particolare situazione con i mezzi a propria disposizione, dando un importante contributo alla qualità della prestazione. Ulteriori elementi che determinano la complessità del concetto sono dati dal fatto che le convinzioni di autoefficacia assumono configurazioni diverse in persone diverse, cioè ogni singolo modello di configurazione assunto dal senso di efficacia personale rappresenta la disposizione di autoefficacia di una data persona. Inoltre si possono creare delle discrepanze tra le convinzioni di efficacia e le azioni corrispondenti, e questo accade perché il semplice fatto di esprimere un giudizio sulla propria autoefficacia può non riflettere ciò che si crede realmente e può, dunque, non produrre la prestazione corrispondente; dunque la differenza è data dalla discordanza tra il pensiero di sé e l’azione. Ancora questo concetto dimostra la sua duttilità e dinamicità attraverso la necessità di essere analizzato utilizzando giudizi particolareggiati su capacità che possono variare a seconda delle caratteristiche della situazione e del contesto, del livello di difficoltà del compito e di sviluppo e maturazione raggiunti dall’individuo. Infine altre discrepanze derivano da difetti di valutazione, da una notevole quantità di tempo trascorsa dall’azione alla valutazione e dall’ambiguità delle richieste. L’autoefficacia viene generalmente analizzata considerando tre importanti elementi che la caratterizzano: la grandezza, che si riferisce al numero crescente di difficoltà che la persona ritiene di saper affrontare, la forza, che riguarda il grado di convincimento con cui un individuo pensa alla sua efficacia, anche di fronte a situazioni complicate, e infine la generalizzazione, che indica la capacità di trasferire il senso di autoefficacia, provato per un particolare comportamento, su situazioni simili ma in ambiti diversi. 89 Il comportamento umano è costantemente influenzato dal senso di autoefficacia, il quale agisce: • sull’individuazione e selezione degli obiettivi personali; • sulla scelta di compiti, azioni e situazioni; • sul grado di persistenza dei tentativi di raggiungimento degli obiettivi, anche di fronte ad eventuali difficoltà o ostacoli; • sul tipo e sull’intensità di emozioni provate in una particolare situazione (compresi stress e depressione). Bisogna sottolineare il fatto che il senso di autoefficacia influisce su questi fattori e da questi viene, a sua volta, incrementato o decrementato, attraverso un circolo vizioso. Inizialmente un individuo si cimenta in un compito nuovo ed il senso di autoefficacia agisce sugli sforzi e sulla persistenza nelle azioni del soggetto, accompagnati da particolari stati emozionali, ed il tutto è finalizzato al raggiungimento dell’obiettivo, che l’individuo stesso aveva scelto; in base al risultato ottenuto il livello del senso di efficacia personale può aumentare o diminuire e ciò influisce sulla scelta di nuovi obiettivi e nuovi compiti, ricominciando il ciclo. Tutti questi elementi fungono da feedback, i quali sono fondamentali per il soggetto, nel determinare le sue credenze e le sue scelte successive. E’ importante analizzare il senso di autoefficacia attraverso una sua distinzione da altri concetti, ai quali spesso erroneamente è stato legato. La percezione di efficacia fa riferimento ai giudizi che un individuo formula riguardo ai comportamenti che pensa di poter attuare di fronte ad una particolare situazione e per questo tale concetto si differenzia dai tratti di personalità e dal concetto di sé, i quali sono in grado di predire i comportamenti specifici della persona in misura minore, dal momento che derivano da valutazioni generali e globali del soggetto su se stesso. Bandura, inoltre, distingue l’autoefficacia dall’autostima, in quanto la prima riguarda giudizi di capacità personale, mentre la seconda riguarda giudizi di valore personale e non è mai stata stabilita una relazione tra le convinzioni riguardo alle proprie capacità e il fatto di apprezzarsi o disprezzarsi. Il senso di efficacia personale deve essere distinto anche dalla moralità, poiché l’innalzamento e l’abbassamento del livello di autoefficacia sono indipendenti dai giudizi morali sulla propria 90 persona e dalla vittimizzazione o colpevolizzazione personale in base ai risultati ottenuti. Un’altra linea di separazione deve essere posta tra l’autoefficacia ed il locus of control, ovvero il grado in cui le persone pensano che l’azione compiuta ed il risultato raggiunto dipendano da loro stessi e dal loro controllo piuttosto che da fattori esterni come il destino, la fortuna o altri individui; l’autoefficacia riguarda, invece, la capacità di organizzare ed eseguire determinate azioni per raggiungere gli obiettivi. Da questa distinzione deriva quella tra l’efficacia personale e le aspettative di risultato: le convinzioni di autoefficacia costituiscono il giudizio sulle proprie capacità di organizzazione e gestione delle proprie attività per giungere ad una particolare meta, mentre un’aspettativa di risultato è un giudizio sulla probabile conseguenza che tali prestazioni potranno produrre. Infine un’importante precisazione di Bandura riguarda il legame tra l’autoefficacia e gli stili attributivi: nonostante alcuni autori ritengano che sono gli stili attributivi ad influenzare le aspettative di autoefficacia e di conseguenza il comportamento e lo stato emozionale della persona, si può affermare che in realtà la situazione è opposta. Un’analisi ed una valutazione del senso di efficacia personale delle persone risultano molto complesse, soprattutto se si tengono in considerazione le notevoli differenze individuali e la complessità e varietà della popolazione della nostra società. A questo proposito vari studiosi si sono chiesti se gli effetti del senso di autoefficacia possano essere ritenuti universali, ossia se possano essere generalizzabili a tutte le culture nonostante le loro differenze di principi, valori e credenze; i dati dimostrano che effettivamente il senso di autoefficacia è universale, dal momento che trae origine da meccanismi psicologici essenziali, propri dell’attività umana in generale (Bandura, 1999). 91 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica IV Unità Didattica – Lezione 5 Autoefficacia dell’insegnante Gli insegnanti hanno il compito di creare situazioni e ambienti favorevoli all’apprendimento e allo sviluppo delle competenze cognitive dei bambini, di sfruttare tutte le risorse disponibili per giungere a questo risultato e di contrastare le influenze sociali che pregiudicano l’impegno degli studenti a scuola; gli insegnanti assolvono tale compito grazie al loro talento e al loro senso di autoefficacia. Un concetto centrale nella definizione di benessere dell’insegnante è la soddisfazione lavorativa. Il grado di soddisfazione è, infatti, correlato alla probabilità di abbandono della professione. In particolare, è stato osservato che gli insegnanti impegnati in programmi di educazione speciale sono più insoddisfatti di quelli coinvolti nell’istruzione generale o in entrambi i contesti e particolarmente insoddisfatti risultano gli insegnanti più giovani e con minore esperienza. Tra i determinanti della soddisfazione lavorativa si annoverano l’interazione con gli studenti, gli atteggiamenti sociali, lo stile di leadership dei dirigenti scolastici e il riconoscimento sociale della professione. Coloro che hanno elevate concezioni di autoefficacia educativa dedicano gran parte del loro tempo alle attività scolastiche e alla loro programmazione, gratificano i successi scolastici degli studenti, forniscono loro una valida guida e predispongono esperienze in cui gli alunni possono sperimentare sensazioni di padronanza; coloro che, viceversa, non credono fermamente nelle loro abilità, dedicano poco tempo libero alle attività scolastiche, criticano spesso i loro allievi, si arrendono di fronte alle prime difficoltà, non sanno gestire la classe, sono stressati e pessimisti, si focalizzano sull’insegnamento della disciplina piuttosto che sull’effettivo sviluppo degli allievi, tendono ad evitare le materie che corrispondono alle loro aree di inefficacia percepita e, se potessero scegliere, cambierebbero mestiere. 92 Spesso un insegnante si trova esposto a situazioni stressanti ed è importante che sappia dirigere i suoi sforzi verso la soluzione del problema, piuttosto che limitarsi a lenire il suo disagio emozionale, e in tutto questo è ampiamente aiutato da un elevato livello di efficacia personale. Una scuola efficace è caratterizzata da un sistema di causazione reciproca: il senso di efficacia degli insegnanti influisce sulle concezioni personali, le aspirazioni e l’apprendimento degli studenti, in particolare i più piccoli, e sul livello di partecipazione dei genitori alla vita scolastica dei figli; a sua volta le caratteristiche, i risultati degli allievi ed il loro background familiare possono modificare le convinzioni di efficacia degli insegnanti. Una causazione reciproca positiva può dare origine ad un progressivo aumento del successo scolastico e del livello di efficacia personale degli insegnanti, mentre una causazione reciproca negativa può demoralizzare gli studenti e gli insegnanti e decrementare il loro livello di autoefficacia. Un esempio del secondo tipo di relazione è dato dalla presenza nella scuola di studenti svantaggiati; numerosi studi dimostrano che gran parte del personale scolastico possiede un basso senso di efficacia personale quando deve affrontare l’istruzione di studenti poveri o extracomunitari e nutre basse aspettative rispetto al loro futuro, dal momento che tali allievi presentano difficoltà cognitive, motivazionali e sociali che vengono spesso interpretate, da parte degli insegnanti, come mancanza di interesse ed impegno. Per modificare tale situazione, che è caratterizzata da una relazione bidirezionale negativa, è fondamentale costruire un resistente tessuto connettivo tra scuola, famiglia ed enti esterni e impegnarsi in iniziative collettive, in modo che gli insegnanti ricevano un sostegno ed un aiuto nel gestire le attività educative e possano così ottenere dei buoni risultati anche con gli studenti svantaggiati, aumentando la loro concezione di autoefficacia (Bandura, 1999). E’ importante sottolineare che le convinzioni di efficacia degli insegnanti, come di molte altre persone quando si analizza il loro senso di efficacia occupazionale, non corrispondono ad un generico senso di competenza o di autostima, ma sono l’espressione di un costrutto legato a situazioni e realtà specifiche. 93 A.C. Porter e J. Brophy (1988) mostrano un quadro sintetico delle caratteristiche degli insegnanti efficaci, proveniente da studi dell’IRT, cioè l’Institute for Research on Teaching. Gli insegnanti sarebbero professionisti semi autonomi che: - sono chiari riguardo ai loro obiettivi educativi - sono bene informati riguardo ai contenuti e alle strategie per insegnarli - comunicano ai loro studenti ciò che si aspettano da loro ed il perché - usano in modo esperto i materiali educativi esistenti per dedicare più tempo alle pratiche che arricchiscono e chiarificano il contenuto - sono ben informati sui loro studenti, adattano l’istruzione ai loro bisogni e prevengono le idee sbagliate sulla loro effettiva conoscenza - insegnano agli studenti le strategie metacognitive e danno loro l’opportunità di impararle - si pongono obiettivi cognitivi sia di livello superiore che di livello inferiore - controllano la comprensione degli studenti offrendo un regolare e appropriato feed-back - integrano la loro istruzione con quella in altre aree di contenuti - accettano la responsabilità per i risultati dei propri studenti - pensano e riflettono sulla propria pratica. A.E. Quagliozzi (2003) ha invece sintetizzato un’indagine svolta dalla società inglese Hay McBer su incarico del Ministero dell’Istruzione e del Lavoro nel 2000. La ricerca compiuta ha identificato tre fattori che accrescono l’efficacia dell’insegnamento: le competenze didattiche, le caratteristiche professionali ed il clima di classe. Le competenze didattiche sono micro-comportamenti che possono essere appresi, mentre le caratteristiche professionali hanno radici molto più profonde; sono quei modelli di comportamento che spingono ad agire in un certo modo, e servono a sostenere le prime. Il clima della classe rappresenta, invece, una verifica degli esiti dell’insegnamento, indica infatti come gli allievi si sentono in classe, aspetto determinante per la motivazione ad apprendere. 94 I tre fattori interagiscono e, insieme, possono migliorare il rendimento degli alunni di oltre il 30%. È stato riscontrato invece che alcuni fattori non sono determinanti, ad esempio fattori come le informazioni sull’età degli insegnanti, sugli anni di servizio, ecc. non consentono di predeterminare l’efficacia dell’insegnamento. Ciò significa che l’uso di tali dati non è significativo al fine della valutazione dell’efficacia degli insegnanti. Infine, secondo la ricerca compiuta, nemmeno il contesto scolastico comprendente la percentuale dei bambini appartenenti a minoranze etniche, la dimensione della scuola ecc. è risultato pertinente per la predizione dei progressi degli studenti. La ricerca, infine, dimostra che gli insegnanti efficaci sono in grado di trasformare le aule in ambienti stimolanti, che motivino gli alunni e facilitino l’apprendimento. Il clima presenta diverse caratteristiche, ognuna delle quali ha una determinata influenza sugli allievi e sul loro modo di sentirsi in classe. L’analisi svolta ha messo in evidenza tre fattori che hanno una certa rilevanza per l’apprendimento: la mancanza di disturbo e di interruzioni, l’incoraggiamento all’impegno e le elevate aspettative da parte dell’insegnante. 95 Psicologia dell’apprendimento e motivazione scolastica IV Unità Didattica – Lezione 6 Autostima L’autostima rappresenta una componente essenziale di ogni individuo; essa non deve essere però confusa con il concetto di sé. Il concetto di sé è l’insieme di elementi cui una persona fa riferimento per descrivere se stessa, mentre l’autostima è una valutazione delle informazioni contenute nel concetto di sé, e deriva dai sentimenti che un individuo prova nei confronti di se stesso in senso globale. In concreto, essa si esprime nel valore positivo o negativo che la persona generalmente si attribuisce. Il processo di formazione dell’autostima si snoda lungo due componenti: il sé percepito ed il sé ideale. Il sé percepito equivale al concetto di sé, cioè ad una visione oggettiva di abilità, caratteristiche e qualità presenti o assenti nel soggetto. Il sé ideale è l’immagine della persona che ci piacerebbe essere, non sulla base di aspettative irrealistiche, ma alla luce della convinzione di possedere determinate qualità. La discrepanza tra sé percepito e ideale crea i problemi di autostima. Si può considerare l’autostima come un processo circolare in quanto, chi nutre fiducia nel possesso di determinate sue abilità, tende a conseguire buone prestazioni e quindi ad incrementare l’autostima, mentre chi ha un’autostima scarsa, tenderà a conseguire risultati sempre più scadenti che faranno peggiorare maggiormente l’autovalutazione. Una persona caratterizzata da un buon livello di autostima è estroversa e la sua sicurezza in sé le permette di non farsi cogliere facilmente dall’ansia. Chi possiede uno scarso livello di autostima tende all’introversione ed è facilmente preda di ansia e preoccupazioni. In caso di bassa autostima l’intervento di persone significative quali ad esempio gli insegnanti, può determinare un aumento di fiducia nelle proprie capacità spezzando, così, il circolo vizioso. L’autostima non è un elemento statico, ma è soggetta a mutamenti e aggiustamenti nel tempo, in particolare durante le varie fasi di sviluppo o in situazioni critiche. L’evoluzione dell’autostima è 96 presente già dalla prima infanzia, per poi maturare e consolidarsi acquisendo nuove informazioni nel corso dello sviluppo successivo. Nel periodo adulto risulta articolata in più aree: capacità intellettuali e culturali, successo lavorativo, rapporti familiari, rapporti sociali, aspetto fisico e così via. L’autostima, in sintesi, può essere definita come l’insieme dei giudizi di valutazione che il soggetto esprime su se stesso. Dal punto di vista evolutivo, essa si differenzia progressivamente in varie dimensioni sulla base delle quali il soggetto compie una valutazione articolata in ambiti specifici: - dimensioni del successo interpersonale ( possibilità di accettazione e simpatia); - dimensioni della competenza (essere capace di fare determinate cose); - abilità diverse (fisiche, scolastiche ecc.); - autostima sociale (rapporti con i coetanei, con i colleghi, con i genitori, ecc.). L’autostima può essere percepita dall’individuo globalmente, in rapporto al suo valore complessivo o in modo specifico. L’autostima specifica è una guida che dirige il comportamento e deriva dal rapporto fra le aspirazioni di successo del soggetto e le sue competenze effettivamente acquisite. L’autostima globale è legata al livello di auto-accettazione e rispetto per se stesso dell’individuo (connotata più dagli affetti che dalla razionalità) e non fornisce indicazioni precise riguardo al comportamento specifico. Sono le forme di autostima specifiche ad avere effetti su quelle globali. L’entità di questo effetto dipende dall’importanza assegnata all’ambito in cui ci si valuta. M. Kernis si è occupato del tema dell’instabilità dell’autostima nell’ambito di numerose ricerche. L’instabilità del livello dell’autostima può essere valutata: • su fluttuazioni a lungo termine. L’instabilità riflette cambiamenti nel livello di base che si verificano lentamente e su di un lungo periodo di tempo: • su fluttuazioni a breve termine. L’instabilità si manifesta con incrementi o decrementi temporanei, causati da specifici eventi che vengono utilizzati per l’autovalutazione. All’instabilità dell’autostima si associano: • elevata sensibilità agli eventi valutativi; 97 • aumento dell’attenzione alla propria valutazione di sé; • eccessiva fiducia nelle fonti sociali di valutazione. Per quanto riguarda la sua origine, cioè se l’autostima sia generata da fonti esterne o si formi all’interno dell’individuo, Cooley ritiene che il sé si formi rispecchiandosi nelle reazioni degli altri. Ciò sta ad indicare che il modo in cui consideriamo noi stessi dipende dal modo in cui gli altri ci riflettono le nostre azioni, quindi se veniamo trattati con disprezzo dagli altri, tenderemo, di riflesso, ad adottare il punto di vista negativo dell’altro che ci è stato comunicato. Anche Rosenberg sostiene che la valutazione che l’individuo compie di se stesso è influenzata fortemente dalle reazioni altrui. Il concetto di sé e l’autostima, secondo tale prospettiva, si sviluppano attraverso un continuo processo di interazione tra l’individuo e il suo ambiente, tra i quali c’è un rapporto di reciprocità, poiché l’individuo agisce sull’ambiente e l’ambiente, a sua volta, reagisce influenzando l’individuo. L’autostima ha dunque diverse fonti: può derivare da autovalutazioni sulla competenza personale o sul possesso di caratteristiche culturalmente investite di valore positivo o negativo. Nell’autostima che deriva dalla competenza personale, gli individui si sentono soddisfatti quando riescono a raggiungere i loro standard, quando svolgono bene il proprio lavoro, mentre sono insoddisfatti se non sono all’altezza di raggiungere gli obiettivi prefissati. Le competenze personali, quindi, possono offrire una solida base di autostima. Spesso le valutazioni compiute dagli individui riflettono l’apprezzamento o il disprezzo per le caratteristiche personali piuttosto che il giudizio sull’operato; sono legate, cioè, ad esempio a caratteristiche fisiche o allo status sociale invece che alle competenze. Questo aspetto è da tener in considerazione soprattutto perché il senso di valore personale di ognuno tende a riflettere le valutazioni ricevute dagli altri. Il senso di valore personale è influenzato poi dagli stereotipi culturali. A volte le persone vengono classificate in gruppi socialmente apprezzati o disprezzati, in base a etnia, razza, sesso, 98 caratteristiche fisiche, e vengono trattare con atteggiamenti dettati dallo stereotipo sociale e non in base alla loro individualità; in queste situazioni, nelle vittime subentra una perdita di autostima. In genere le pratiche sociali di svalutazione poggiano su giustificazioni che attribuiscono ai gruppi svantaggiati alcune colpe. Se tale attribuzione è convincente, gli stessi membri del gruppo disprezzato possono arrivare, col tempo, a condividere la caratterizzazione denigrante fatta loro. Si crea così un effetto di autosvalutazione maggiore, e le persone che possiedono attributi denigrati dalla società, accettando le valutazioni negative dettate dagli stereotipi, avranno una bassa stima di sé indipendentemente dal loro impegno. Proprio perché l’autostima ha diverse fonti, i modi per svilupparla sono vari. L’autosvalutazione che si origina dall’incompetenza necessita della coltivazione di capacità che favoriscano risultati positivi e di un recupero della soddisfazione di sé. Chi si è posto standard troppo elevati da raggiungere, e quindi si svilisce, può essere aiutato attraverso l’adozione di standard più realistici. L’autosvalutazione derivante da giudizi sociali disprezzanti necessita di un sostegno maggiore da parte degli altri, in modo da riaffermare il valore della persona. Se l’autosvalutazione è la conseguenza di uno svilimento discriminatorio di attributi personali, può risultare utile incentivare il senso d’orgoglio per tali caratteristiche. Se poi la svalutazione è dovuta a molteplici cause, è necessaria una correzione su più fronti, ad esempio non solo incoraggiando l’orgoglio per le proprie caratteristiche ma anche coltivando competenze che permettano l’instaurarsi di un elevato senso di efficacia. 99 Bibliografia Alexander, P., Winne, P. (2006). Handbook of educational psychology. LEA. Antonietti, A. (1998). Psicologia dell'apprendimento. Processi, strategie e ambienti cognitivi. Brescia: La Scuola. Bandura, A. (1999) Moral disengagement in the perpetration of inhumanities. Personality and Social Psychology Review, 3, 193-209. Baroni, M.R., D’Urso, V. (2012). Psicologia generale. Torino: Einaudi. Borgogni, L. (2005). Efficacia organizzativa. Il contributo della teoria sociale cognitiva alla conoscenza delle organizzazioni. Milano: Guerrini Studio. Bruner, J. (1983). Il linguaggio del bambino. Trad. it. Roma: Armando, 1991. Hartup, W.W. (1983). Peer relations. In P.H. 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