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LA RIVISTA DELLA SCUOLA
INSERTO SPECIALE
Anno XXXI, luglio/agosto 2010, n.11/12
Origine storica e significato
La Scuola eleatica; Senofane; Monismo e Panteismo; Parmenide; Zenone
di Elea; Melisso; Achille e la tartaruga.
di
ANTONIO FUNDARÒ
segue dal precedente n. 9
La scuola eleatica
La città di Elea
a città di Elea fu fondata intorno alla
metà del VI secolo a.C. (probabilmente l’anno 540) dai Focesi di Alalia (città della Corsica, detta anche
Aleria). Focèa era stata fondata dai Greci nel
VII secolo a.C. in Asia Minore, su una penisoletta posta di fronte all’isolotto di Bacchion;
era stata sottomessa nel 546 a.C. dai Persiani
(al tempo del re Ciro), I Focesi, sfruttando la
loro abilità marinaresca e commerciale,
cominciarono ad emigrare verso occidente,
navigando e svolgendo affari lungo il Mediterraneo, l’Adriatico, lo Jonio e il Tirreno, fondando importanti colonie; tra queste Alalia (poi
Aleria) in Corsica. I Focesi di Alalia, a loro
volta, nel 540 a.C., fondarono Elea, sulla
costa tirrenica dell’antica Lucania (oggi ricadente in Campania). La città di Elea proprio
alle origini (tra il VI e il V secolo a.C.) ebbe un
periodo di massimo fulgore, dovuto anche al
fatto di trovarsi in buoni rapporti con
la città di Posidonia e con gli Etruschi;
infatti, dopo la caduta di Sibari (ad
opera di Crotone nel 510 a.C.), si
trovò in una condizione favorevole per
affermare la sua supremazia economica e politica nel contesto del suo
territorio circostante, così come è
testimoniato dall’emissione di monete, che ne rivelano la massima floridezza. Nel III secolo a.C. entrò nell’orbita della dominazione romana (dopo
la guerra di Pirro e la sottomissione di
Taranto avvenuta il 272 a.C.); da ciò il
suo nome latino di Velia imposto dai
Romani. Nel periodo medioevale
cominciò la sua decadenza e all’inizio del IX secolo fu conquistata e
distrutta dagli Arabi. Di solito viene
ricordata per l’importanza ricoperta
dalla scuola filosofica, risalente a Parmenide, Zenone e Melisso; e ancor
prima di loro a Senofane.
L
ti; alcuni lo fanno vivere addirittura oltre i
cento anni; probabilmente la sua vita si svolse
tra il 570 e il 470 a.C. e fu caratterizzata da
continui viaggi svolti per molti paesi del Mediterraneo. Per questo motivo gli si attribuivano
due opere, rispettivamente dedicate alla Fondazione di Colofone e alla Colonizzazione di
Elea. Pur non essendo nativo di Elea, il suo
rapporto con la scuola rappresentata da Parmenide, si deve alla concezione monistica
della natura. Ma, prima ancora di essere considerato filosofo, si deve ricordare la sua attività di poeta e di rapsodo che cantava le sue
stesse composizioni; le sue Elegie e suoi Silli
testimoniano la versatilità di un poeta che
passava dalle composizioni serie alle parodie
che egli stesso recitava nel corso di banchetti.
Con Senafone ci troviamo di fronte ad un
autore in grado di passare dalla poesia alla
filosofia, così come testimoniato dal suo componimento “Sulla natura” (περι; φυϖσεω⌡),
dove elabora la sua concezione monistica e
panteistica della natura. Tuttavia proprio nei
Silli espone la sua critica sferzante ad ogni
forma di antropomorfismo.
non va considerato, contraddittoriamente, nei
termini di quell’antropomorfismo da lui criticato; il dio unico di Senofane non è un essere
trascendente, così come concepito dalle teologie occidentale; si tatta di una divinità, che
“tutto vede, tutto percepisce, tutto ode” (Sulla
natura, fr. 24), ma in stretta relazione con la
natura; un dio che non può essere rapportato
all’uomo e che, senza essere sottoposto al
divenire della natura, determina il movimento
e la vita di tutte le cose contingenti. Volendo si
può parlare di panteismo, ma in un senso critico ed intelligente, che, come esclude la trascendenza, così esclude l’immanenza; dio è
presente nella natura, ma non si confonde
con essa. In Senofane assistiamo al tentativo
di trasformare il fisicalismo della scuola ionica
in una forma di sofisticato razionalismo, che
esclude pure ogni forma di gretto antropomorfismo. Per questa sua tesi sulla unicità dell’essere (implicante la stretta relazione tra dio e
la natura), spesso si è pensato a Senofane
come fondatore della scuola di Elea o, quanto
meno, come predecessore di Parmenide; ma
non bisogna trascurare che, nel riprendere il
naturalismo degli ionici, egli ribadisce un principio fondamentale della scienza moderna,
secondo il quale “tutto quanto nasce è soggetto a corruzione” (Ivi, fr. 1). Partendo da
questo presupposto della sua fisica, si può
comprendere la sua particolare teologia, per
cui tutto ciò che accade nel mondo è subordinato all’intelligenza divina. In questo senso,
anticipando il tema centrale della filosofia di
Anassagora, concepisce dio come nous
(νου⌡), ossia come intelligenza che dà vita
alla natura; in tal mondo tenta di superare la
dicotomia tra unicità e molteplicità, proprio
perché sostiene che tutto è uno, pur essendo
composto di più parti, che però sono alimentate da questa intelligenza divina che sta dentro il cosmo.
Parmenide
Vita e opere
La tradizione eleatica
Infatti non è chiaro se la fondazione
della scuola filosofica nella città di
Elea si debba a Parmenide o a Senofane. Di certo non si può misconoscere l’importanza ricoperta da questa
scuola nell’ambito della filosofica
greca, che, ancora nel corso dei
secoli VI e V a.C., si distinse per il
contributo dato dalle colonie della
Magna Graecia. Dopo avere esaminato la rilevanza della scuola fondata
Prove di stabilità - Alfred Fuch, NY, 1925002
da Pitagora a Crotone, l’attenzione su
quest’altra scuola fondata e sviluppata ad Elea, testimonia la floridezza sociale di
queste città, oltre che dal punto di vista ecoLa critica all’antropomorfismo
nomico, anche dal punto di vista culturale; e
Senofane obiettava che gli uomini si raffigunon ultimo filosofico. Lo studio dell’opera e del
rano gli dei a loro immagine e somiglianza, in
pensiero dei suoi singoli rappresentanti conquanto “hanno l’opinione che gli dèi siano
sente di potere cominciare ad avere un quagenerati e che abbiano il loro modo di vestire,
dro più completo della filosofia greca svilupla loro voce e il loro aspetto” (Silli, fr. 14); sicpatasi nel variegato contesto dei presocratici;
ché, ad esempio, “gli Etiopi asseriscono che i
si può notare la specificità della scuola pitagoloro dèi sono camusi e neri, i Traci che sono
rica rispetto a quella ionica; e quindi la specifiazzurri di occhi e rossi di capelli” (Ivi, fr. 16). La
cità della scuola eleatica rispetto a quella ionisua critica all’antropomorfismo della religione
ca e a quella pitagorica. Per certi versi si
del tempo è sorprendente e trova riscontro a
potrebbe parlare di reazione al naturalismo e
lunga distanza nel secolo dei lumi, allorquando
all’ilozoismo ionico, ma senza dubbio si può
si recupera la dimensione della religione natuparlare di diversità, nel modo di concepire la
rale, contrapponendo il deismo al teismo. La
realtà della natura. Si va dalle problematiche
sua non è una critica al politeismo, bensì alla
di ordine teologico, poste da Senofane; a
ritualità della religione che, anziché avvicinare,
quelle di ordine logico-metafisiche, poste da
allontana l’uomo dalla divinità; e per questo
Parmenide; a quelle di ordine dialettico, poste
motivo prende in giro i suoi simili, pensando
da Zenone e Melisso.
che anche gli animali, se ne avessero la capacità, si raffigurerebbero le divinità a propria
immagine e somiglianza. “Per altro se avessero
mani i bovi, i cavalli e i leoni, o fossero in grado
Vita e opere
di dipingere e di compiere con le proprie mani
Anche se gli si attribuisce il merito di avere
opere d’arte come gli uomini, i cavalli rapprefondato la scuola di Elea o quanto meno di
senterebbero immagini di dèi e plasmerebbero
averne anticipato i temi trattati dai suoi rapstatue simili a cavalli, i bovi a bovi, in modo
presentanti (Parmenide, Zenone, Melisso),
appunto corrispondente alla figura che ciascuSenofane è la prova del fatto che già in quelno possiede” (Ivi, fr. 15).
l’epoca la stessa filosofia rappresentava un
circuito ampio che andava dall’Asia Minore
alla Magna Graecia; esser nato a Colofone
(una delle città della Ionia) conferma questo
Leggendo i frammenti del suo poema Sulla
rapporto a distanza tra oriente e occidente.
natura si ricava la concezione che Senofane
Sulla sua data di nascita e sullo svolgimento
aveva della divinità: un essere unico, che però
della sua vita non si hanno notizie concordan-
Senofane
Monismo e panteismo
Anche di Parmenide non si hanno testimonianze concordanti; ad esempio Apollodoro lo
vuole nato nel 540, mentre Platone nel 515
a.C.; ma di lui si può dire che certamente nacque e visse ad Elea tra la fine del VI secolo e
la prima metà del V secolo a.C.; e che in vita
godette di grande fama dentro e fuori la sua
città natale. Solo così si spiega che proprio
Platone sia rimasto influenzato dalla sua dottrina, dedicandogli uno dei suoi dialoghi principali (il Parmenide ), nel quale addirittura
parla di un ipotetico incontro avvenuto ad
Atene, intorno al 450 a.C., tra Parmenide
molto vecchio e Socrate molto giovane. Se
oggi possiamo continuare a parlare di Parmenide, ciò si deve soprattutto a Simplicio che,
nel VI secolo d.C., commentando la Fisica di
Aristotele, ritenne opportuno riportare ampi
brani della sua opera Sulla natura (περι∧
φυϖσεω⌡); un’opera, già all’epoca di Simplicio, divenuta molto rara, e di cui per fortuna ci
sono stati tramandati 19 frammenti per un
totale di 154 versi. Si tratta infatti di un’opera
scritta in versi (esametri) e non in prosa
(usata dagli ionici); la forma poetica, il carattere allegorico e la complessità del suo contenuto rendono il pensiero di Parmenide tra i più
interessanti e i più suggestivi dell’antichità,
ma pure tra quelli maggiormente soggetti a
rischi interpretativi.
Allegoria e mito
Il poema si apre con un’introduzione nella
quale l’autore immagina di essere trasportato
su un cocchio dalle Eliadi (le figlie del sole),
dal mondo delle tenebre verso il mondo della
luce; là dove regna sovrana Dike, dea della
giustizia, che sta dinanzi alla porta che separa
la notte della terra dal giorno del cielo. Si tratta
di un espediente letterario, proprio della poesia dell’epoca, che si serviva di questo tipo di
allegoria; Parmenide vi fece ricorso per esprimere concetti e idee su cui ancora oggi discutiamo. La strada, da seguire e seguita da Parmenide, è quella della verità (αϕληϖθεια) contrapposta all’opinione (δοϖξα); si tratta di un
percorso che conduce dal mondo umano, contraddittorio e fallace, a quello divino, stabile e
inalterabile. L’allegoria del poema è sviluppata
attraverso altri artifici: il viaggio dal basso
verso l’alto, evidentemente rappresenta il
primo simbolo, indicando una linea da seguire
progressivamente; le cavalle, che tirano il cocchio lungo questo sentiero (οϑδοϖ), rappresentano le facoltà del ragionamento; le Eliadi
(le fanciulle figlie del sole) rappresentano la
parte illuminante; la porta, che separa la notte
dal giorno, rappresenta il limite tra il mondo
dell’opinione (da abbandonare) e il mondo
della verità (da perseguire); Dike (dea della
Giustizia) rappresenta la garante di questa
realtà da scoprire. Spalancandogli la porta e
consentendogli il passaggio da una parte
all’altra della via, Dike così ammonisce Parmenide: “È pertanto necessario che tu apprenda
tutto, tanto il cuore immobile della Verità rotonda, quanto le opinioni dei mortali, in cui non si
trova verace certezza. Tuttavia anche questo
apprenderai come sia necessario che chi percorra incessantemente tutto il dominio delle
esperienze ammetta l’esistenza di ciò che
appare [ai mortali]” (Sulla natura, fr. 2).
Le tre vie (verità,
opinione, verosimile)
Quindi le vie indicate sono tre: quella della
verità che è propria delle divinità, ma che gli
uomini possono scoprire mediante un corretto
uso della ragione; quella della opinione che è
propria degli uomini, quando si lasciano trascinare dalla fallacia dei sensi, e quella del
verosimile, che è pure propria degli uomini e
che comunque è il caso di non trascurare allo
scopo di comprendere in pieno la prima. Il
passaggio dalla notte al giorno avviene attraverso un sentiero (οϑδοϖ) che è da intendere come via di ricerca, ossia come metodo
(µεϖθοδο) di indagine per cogliere l’essere
(εϕοϖν). Il che ha comportato notevoli difficoltà interpretative, perché, in buona sostanza, si è sempre e molto discusso se Parmenide abbia voluto intendere l’essere, come
realtà cosmica, secondo una dimensione
fisiologica, oppure come categoria logicometafisica, secondo una dimensione metafisica. In ogni caso i versi di Parmenide consentono di cogliere e di esprimere un senso del
discorso su un piano filosofico comune. Egli
parte dalla celebre affermazione che si trova
nel frammento terzo del suo poema, dove
dice che “identico è il pensare e l’esistere”. Su
questo punto il buon senso, che la dea Dike
suggerisce a Parmenide, consente di sottolineare che, qualunque linea interpretativa si
voglia assumere su questo concetto della filosofia del caposcuola di Elea, si può essere
d’accordo nel sostenere che il pensiero
umano non può concepire il non essere, ma
solo l’essere; l’identificazione tra pensiero ed
essere può essere assunta proprio in questo
modo, secondo il quale ogni atto del pensare
implica come oggetto pensato l’essere
(ει∴ναι) ed esclude il nulla (µηδεϖν). Non
potrà mai accadere che il pensiero concepisca il nulla, perché il nulla, in quanto tale, non
esiste; siccome il pensiero non può pensare
ciò che non esiste, ma solo ciò che esiste, se
ne deduce che pensare ed essere sono la
medesima cosa.
Gli attributi dell’essere
A questo punto Parmenide passa a definire
gli attributi dell’essere. Esso deve risultare
“ingenerato”, altrimenti deriverebbe o da un
altro essere o dal non essere; nel primo caso,
ammetteremmo l’esistenza di due esseri,
mentre nel secondo caso la derivazione di ciò
che è da ciò che non è; tra l’altro in un certo
momento risulterebbe non essere stato e da
un altro momento in poi risulterebbe essere;
in tal senso, oltre che come ingenerato, va
concepito come incorruttibile, ossia come ciò
che non può mutare nel tempo, altrimenti, nel
tempo, acquisirebbe la forma di tanti esseri.
“Ne segue, dunque, che esiste realmente
ancora una sola rivelazione di via: su questa
vi sono ben numerosi segnavie che l’essere è
ingenerato e indistruttibile: è, infatti, un tutto
nella sua struttura, immobile, privo di fine temporale, poiché non fu, né sarà un tutto di parti
unite, ma è soltanto nella sua natura un tutto”
(Ivi, fr. 8). Di conseguenza l’essere non ha né
un passato né un futuro, ma sempre è in
assoluto e non già in termini cronologicamente relativi; esso è immutabile e immobile. L’essere non può risultare divisibile, ma sempre
uguale a se stesso; altrimenti implicherebbe
la differenza dentro se stesso; “infatti tutto è
pieno di essere; perciò è tutto connesso, ché
l’essere aderisce all’essere” (Ibidem). Parmenide concepisce l’essere “limitato”, di forma
sferica, “egualmente pesante dal centro in
ogni parte” (Ibidem); se le sue parti fossero
diseguali tra di loro, l’essere sarebbe affetto
dall’attributo della diseguaglianza. Non ci si
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