L.Geymonat – Storia del pensiero filosofico e

LUDOVICO GEYMONAT
Storia
del pensiero
ftlosoftco
e scientifico
VOLUME SECONDO
Il Cinquecento - Il Seicento
Con specifici contributi di
Corrado Mangione, Gianni Micheli, Renato Tisato
GARZANTI
www.scribd.com/Baruhk
1 edizione: luglio 1970
Nuova edizione: ottobre 1975
Ristampa 1981
©
Garzanti Editore s.p.a., 1970, 1975, 1981
Ogni esemplare di quest'opera
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deve ritenersi contraffatto
Printed in Italy
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SEZIONE TERZA
Il rinascimento e la rivoluzione scientifica
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CAPITOLO PRIMO
Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale
DI LUDOVICO GEYMONAT E RENATO TISATO
l
·
VARIE INTERPRETAZIONI DELLA
RIVOLUZIONE
RINASCIMENTALE
Col termine « rivoluzione rinascimentale » vogliamo qui intendere quell'ampio e articolato processo storico che ha profondamente rinnovato il mondo
europeo, portandolo - in poco più di due secoli - dalla civiltà medievale
alle soglie di quella moderna. Per un lato esso vede il progressivo abbandono di
tutte le regole che durante il medioevo avevano costituito altrettanti limiti invalicabili all'attività umana, sia teoretica sia pratica (nel campo della morale
come in quello della metodologia scientifica, in quello della politica come in quelli
della religione e dell'arte); per l 'altro vede il sorgere di nuove strutture economicopolitiche, e di nuovi valori culturali.
Le trasformazioni realizzate nell'ambito della cultura durante il periodo in
questione possono venire raggruppate intorno a tre fatti fondamentali : I) recuper_~del mondo_ classico e formazione di una nuoya_concez~()!le _deJl'u~!ll()_~
della_!l_at~ra_ e di _dio; 2) trll,y_agliQ_t:f:J!gi()S<? e frattura del corpus christianum in
chiesa riformata e chiesa cattolica; 3) elaborazione del ID:_(!!_c;>_d~ _ma~(!~..3:!i~g-spe­
rimen!ale e conseguente avvio ..a:ll~_sc::ienz.ll. moder_f!a.
Per lungo tempo gli storici della cultura si interessarono soprattutto al
primo (cioè al vero e proprio rinascimento) e al secondo (riforma protestante
e controriforma o riforma cattolica). Oggi si comincia a comprendere che il
terzo fu forse più importante, da un punto di vista storico generale, dei primi
due, ai quali peraltro - in ispecie al primo - è strettamente connesso. Proprio
per sottolineare il nostro intento di prendere in esame il grandioso fenomeno
nella sua globalità, abbiamo parlato, nel titolo del capitolo, di « rivoluzione rinascimentale ».
Per quanto riguarda la valutazione del primo dei tre grandi fenomeni storici
ora riferiti, va notato che si tratta di un problema storiografico di notevolissima
importanza, poiché l 'interpretazione che si dà della civiltà rinascimentale coinvolge e condiziona l 'interpretazione di tutta la storia e di tutta la cultura moderna.
Non per nulla lo studio del rinascimento ha attirato in ogni tempo l 'attenzione
dei grandi storici ed è tuttora al centro degli interessi di un forte numero di stu-
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Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale
diosi. Uno storico americano, Wallace K. Ferguson, ha tracciato, in un libro
molto utile, un quadro abbastanza analitico delle varie interpretazioni del rinascimento susseguitesi a partire dalle origini, cioè dall'ambito della stessa cultura
umanistica, fino ai tempi più recenti. Chi legge tale libro non può non rimanere
colpito dall'enorme varietà di interpretazioni sostenute, sulla base di accurate
e approfondite analisi, da illustri storici e poi sempre rimesse in discussione da
altri storici e da essi sostanzialmente respinte. Lungi dal suscitare una sorta di
scetticismo o di relativismo, ciò costituisce un indice abbastanza significativo,
da un lato del grande rilievo che ha sempre avuto questo cruciale problema
storiografico, dall'altro dell'estrema complessità della questione e della grande
difficoltà che si incontra per giungere, in essa, ad una sintesi soddisfacente, non
basata sopra una documentazione parziale o unilateralmente interpretata.
Le due grandi correnti, in cui si è soliti dividere le interpretazioni che vennero
date del rinascimento, sono quelle designate con i termini di: _!:~orie ciella frattura
e teorie della continuità.
Le prime considerano il rinascimento in netta opposizione al medioevo,
valutato come un'età di regresso nello sviluppo civile. Questa tesi, che per certi
aspetti ha le sue origini negli stessi umanisti i quali si opponevano polemicamente
allo spirito dell'età medievale, trovò il suo più ampio rilievo nella storiografia
dell'illuminismo, ma sopravvisse a lungo anche in seguito, almeno in linea generale, malgrado il cambiamento di prospettiva nei confronti del medioevo operatosi durante il romanticismo. Essa fu riespressa in una nuov~_ ~§\lgg_es~iva formulazione, verso la metà del secolo scorso, dallo storico ~s>b Burckh3:~_cl_~
in una celebre opera dal titolo Die Kultur der Renaissance in ltalien (La civiltà del
rinascimento in Italia, 11i6ob. La tesT~~tral~d~l:B~;~kh~~dt-è-~he la civiltà rinascim~!J.tale abbia rappresentato una netta e improvvisa contrapposizione al f!!l~_-J
_c:!is>c;:yq. Quest'ultimo è da lui visto come un:~~_l:>_!l:ta, d<?.!!l:i_nata dallo J>piri~p,ji·
_Qarbarie e __4~ mi~~i(:~S_Il19 __cl'_is_tiano, avverso all'antica luminosa civiltà pagana.
Pertanto la rinascita della cultura avrebbe significato necessariamente anche un
ritorno al ~ganesi~-~· Un altro motivo tipicq di questa interpretazione è la tesi
che proprio l'imitazione dell'antico sarebbe stata la «causa» della rinascita. Di
qui la distin;i;;-~~-fra un primo periodo della civiltà rinascimentale, il cosiddetto
<4..!!.II1~~!glol», caratterizzato dal culto delle humanae litterae in opposizione alle
divinae litterae dominanti nell'età di mezzo, e un secondo periodo, cioè il «(i~-:.
~Cl..ijieQ_i:g in senso stretto », caratterizzato da una nuova concezione di dio, della
natura, della vita umana conseguente al rinnovato culto delle lettere classiche.
La tesi di Burckhardt ha avuto un grande successo, ma palesava pure gravi
insufficienze metodologiche e, in particolare, una scarsa fecondità, onde venne da
più parti sottoposta a critiche assai radicali. Proprio da queste critiche trassero
origine alcune fra le più interessanti teorie della continuità, che miravano essenzialmente a porre in luce gli elementi comuni al medioevo e al rinascimento.
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Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale
Si è negato che il medioevo possa essere considerato un'era di oscurità e barbarie,
sottolineandone e valorizzandone la produzione culturale, specialmente dei secoli
successivi al Mille. Si è negato altresì che il medioevo possa essere considerato
monoliticamente cattolico, richiamando l 'attenzione sui numerosi moti ereticali
anticipatori della riforma. Si è creduto di scorgere nell'aspirazione ad una renovatio religiosa, caratterizzante il movimento gioachimita e quello francescano,
un'anticipazione di quella renovatio di tutte le manifestazioni della vita in cui consiste, per l'appunto, il rinascimento. Infine si è messo in luce il rapporto che lega
la rinascita culturale alla generale rinascita economica e alla conseguente trasformazione sociale e politica.
Per questa via si è giunti ad anticipare di alcuni secoli l'inizio del rinascimento ed a stabilire una linea continua fra il tramonto del medioevo e l 'inizio
dell'età moderna. Alcuni studiosi poi, che accettavano la tesi della continuità
storica, hanno preteso rovesciare la tesi del Burckhardt, mettendo in evidenza
proprio i caratteri cristiano-cattolici del rinascimento, e arrivando a scorgere
in quest'ultimo non già il ritorno del paganesimo o il trionfo del pensiero laico,
ma un 'alleanza del tradizionalismo classico col tradizionalismo cattolico, contro
l'eresia e la scienza eterodossa, largamente diffuse nel tardo medioevo.
Come si vede, il problema dell'interpretazione del rinascimento è intimamente connesso con quello della sua periodizzazione. Tipica a questo proposito
è la questione dei rapporti fra umanesimo e rinascimento in senso stretto.
Già ricordammo che il Burckhardt considerava l'umanesimo quale fenomeno a
carattere prevalentemente letterario e collocava il suo apice nel xv secolo. Altri
invece, accusando di unilateralità questa tesi, tendono ad identificare fra loro
umanesimo e rinascimento ed a sottolineare, come caratteristica comune di tali
due età, una nuova concezione dell'uomo, della storia, della società (concezione
elaborata appunto nel xv e xvi secolo). Nuove ed interessanti periodizzazioni
sono state suggerite di recente: esse hanno introdotto il concetto di anti rinascimento o controrinascimento. Il termine, che è stato ovviamente formulato in
analogia con quello di controriforma, venne diffuso in particolare da Hir~~H~Y4.l!
nel volume intitolato appunto__!!_contr()!inascif11.ento. L'analisi dello Haydn, ricca
e affascinante se pur discutibile sotto molti aspetti, tende a considerare come antirinascimentali quegli aspetti antintellettualistici insiti sia in Lutero e in Calvino,
sia in Montaigne e (parzialmente) in Machiavelli, sia negli scienziati che professano un empirismo piuttosto accentuato, rivolti prevalentemente contro le
concezioni razionalistiche della scolastica e dell'umanesimo, accomunate dall'autore in una prospettiva di umanesimo cristiano. Altri invece preferiscono
indicare con il termine « antirinascimento » il periodo caratterizzato dal costituirsi della nuova scienza, che considerano sorta in opposizione ai metodi e alle
prospettive rinascimentali. Anche senza voler sottoporre queste tesi al vaglio
di un accurato esame critico, i pochi cenni qui riferiti possono risultare suffi-
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Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale
denti a porre in luce come il problema dei rapporti fra umanesimo, rinascimento
e scienza moderna sia oggi più c:he mai un problema molto dibattuto e variamente risolto.
Vive discussioni ha suscitato, in particolare, la questione dei rapporti fra
umanesimo e scienza moderna. Alcuni storici della scienza hanno osservato
come gli umanisti non abbiano in realtà apportato alcun sostanziale contributo
allo sviluppo della nuova scienza; anzi, l'atteggiamento di molti umanisti ostile
all'effettiva e concreta indagine del mondo naturale ed il loro prevalente interesse
per i problemi della retorica e della morale avrebbero costituito più un ostacolo
che un avanzamento verso la formulazione della scienza moderna. Tali storici
hanno invece sottolineato il ruolo e l 'importanza - per la nascita della scienza della tradizione aristotelica e dei risultati conseguiti dall'indagine della tarda scolastica, a scapito degli elementi del platonismo insiti nella tradizione umanistica.
Notevole rilievo hanno pure assunto, per una nuova valutazione generale del
rinascimento, sia alcuni studi sociologici, sia le ricerche sul ruolo svolto dai tecnici e dagli artigiani. Ciò che importa comunque sottolineare è il fatto che in questi
ultimi anni è venuta via via crescendo l'attenzione degli studiosi verso gli aspetti
-troppo a lungo trascurati- della civiltà rinascimentale costituiti dall'indagine
naturalistica, tecnologica e scientifica, nel preciso intento di chiarire quell'evento
di cruciale importanza che è la rivoluzione scientifica. Ne è scaturita una profonda
modificazione nel modo di considerare l 'intero rinascimento, con il definitivo
abbandono dei vecchi schemi che facevano di esso un indirizzo di idee esclusivamente o prevalentemente accentrato intorno ai problemi dell'arte, della letteratura,
della religione e della politica.
L'impostazione data alla presente sezione e l'articolarsi dei suoi capitoli
provano in modo manifesto che gli autori di questo volume condividono il parere
di quei critici i quali vedono nella elaborazione del metodo matematico-sperimentale il risultato più rilevante del complesso fenomeno storico costituito dalla
rivoluzione rinascimentale. A convalidare fin d'ora il peso di questa tesi interpretativa basti riferire le chiare e incisive parole dell'autorevole storico inglese
Herbert Butterfield sull'importanza della rivoluzione scientifica e sull' opportunità di fare ormai esplicito riferimento ad essa ai fini di una periodizzazione della
storia moderna: « Dal momento che questa rivoluzione rovesciò l 'autorità non
solo della scienza medievale, ma anche di quella del mondo antico, dal momento
che non solo portò all'eclisse della filosofia scolastica, ma anche alla demolizione
della fisica aristotelica, essa supera per importanza ogni avvenimento dal sorgere
del cristianesimo, e riduce il rinascimento e la riforma al livello di semplici
episodi, semplici spostamenti interni entro il sistema della cristianità medievale.
Dal momento che la rivoluzione scientifica cambiò il carattere delle abituali
operazioni mentali degli uomini anche nei riguardi delle scienze non materiali,
trasformando l 'intero diagramma dell'universo fisico e la struttura della stessa
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Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale
vita umana, essa appare tanto chiaramente come la vera origine del mondo moderno e della moderna mentalità, che il nostro modo abituale di suddividere la
storia europea in determinati periodi è divenuto un anacronismo e un dannoso
pregiudizio. »
II
· CENNI DI STORIA ECONOMICO-POLITICA
Prima di analizzare i caratteri secondo noi più tipici della nuova cultura,
gradualmente elaborata nel periodo in esame, sarà opportuno richiamare alcune
elementari notizie sulle complesse vicende storiche di tale periodo, in particolare
su quelle italiane.
Uno dei problemi politici più intricati e più importanti del mondo occidentale
durante la fase di trapasso dal medioevo all'evo moderno fu, come ben noto,
quello della riforma della chiesa; possiamo quindi dare anzitutto qualche brevissimo cenno ad esso, per passare poi a discutere - in forma un po' meno
schematica - l'effettivo significato storico e sociale dell'anzidetto trapasso.
Un anno dopo il ritorno del pontefice Gregorio XI da Avignone a Roma
(I377) aveva avuto inizio, in occasione della nomina del suo successore (I378),
il famoso scisma di occidente che per vari anni contrappose l 'uno all'altro due
papi (quello di Roma e quello di Avignone), sostenuti da due gruppi diversi di
potenze cattoliche. Questa gravissima scissione aveva acuito il profondo travaglio
già da tempo presente nella chiesa, portando in primo piano il problema di
provvedere con urgenza ad una radicale riforma delle sue vecchie strutture.
Ma su che base procedere a tale riforma? Riconfermando il potere assoluto del
papa o sostenendo la preminenza dei concili ecumenici?
Come è noto, nel I409 il concilio ecumenico di Pisa aveva creduto di poter
porre fine allo scisma deponendo i due papi avversari e nominandone un terzo.
Senonché questi non era riuscito ad imporre la propria autorità, sicché l'unico
risultato era stato quello di accrescere il numero dei papi da due a tre.
Di fronte a questa enorme confusione, si rese necessaria la convocazione
di un altro concilio a Costanza (I4I4-I8), concilio che apparve ben presto
come la vera assemblea costituente del mondo cattolico. Esso deliberò anzitutto
che ogni fedele, ivi incluso il papa, avrebbe dovuto rispettare i deliberati del concilio e provvide a deporre tutti e tre i papi contendenti (due di essi si sottomisero
al decreto, il terzo morì qualche anno più tardi). Era l'unica via per porre termine allo scisma, ma era anche il trionfo delle correnti che intendevano riorganizzare la chiesa su basi conciliari e federative.
L'importante svolta doveva però rivelarsi di breve durata. Apertosi nel I43 I
un nuovo concilio a Basilea, il papa Eugenio IV, vedendo che esso tornava ad
orientarsi nel senso di quello di Costanza, si affrettò a scioglierlo ed a convocarne
un altro a Bologna. La lotta fra le due correnti poco sopra accennata si rifece
II
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Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale
aspra: i padri conciliari rifiutarono di sottomettersi al disposto pontificio e nel
143 8 diedero inizio a un nuovo scisma: il cosiddetto scisma del concilio di Basilea. Ma questa volta il papa riuscì a manovrare le cose in modo da prendere
il sopravvento, e in poco più di dieci anni sconfisse in maniera definitiva gli avversari. Il nuovo scisma ebbe termine nel 1449 con la piena vittoria dell'autorità
papale. Il problema della riforma della chiesa era ancora una volta rinviato, ma
questo rinvio era soltanto destinato a renderlo più acuto e più drammatico.
Intanto il papa riusciva a conseguire un altro notevole successo, di grande
rilievo seppure di breve durata. Nel concilio da lui indetto a Firenze (1439)
realizzava un solenne accordo con la chiesa d 'oriente (accordo caduco, che durerà solo ventitré anni), ristabilendo l'unità di tale chiesa con quella d'occidente.
Vedremo nel prossimo capitolo che questa riunificazione ebbe una grande
importanza anche per la storia della cultura. Essa infatti favorì nuovi contatti
con i dotti bizantini e contribuì in misura notevolissima a rinvigorire il movimento umanistico, inteso proprio nel senso di un ritorno allo studio dei classici.
Gli eventi di storia ecclesiastica testé richiamati servono assai bene a caratterizzare una situazione politica in rapido movimento. Essi saranno seguiti a breve
distanza da un altro fatto di rilievo ancora maggiore: la_<:~duta di C~~~ll:!ltinop~y
ad opera dei turchi nel ~145 3.~ Alcuni storici fanno iniziare proprio da questa data
l'età moderna; altri preferiscono invece spostarla a circa mezzo secolo più tardi,
cioè alla scoperta dell'America (1492). Da un punto di vista politico sia l'uno
che l'altro evento furono senza dubbio di enorme importanza per la storia d'Europa; sarebbe tuttavia erroneo cercare particolarmente in essi i motivi profondi
del mutamento di un'epoca. In realtà questo mutamento affonda le proprie radici
in fenomeni sociali assai anteriori.
Se consideriamo carattere predominante della società medievale l'economia
chiusa, mirante al puro soddisfacimento immediato del bisogno, ispirata a quei
principi del giusto prezzo, del giusto salario, del divieto di usura che riducono
al mtnimo il profitto, dobbiamo concludere che l'inizio dell'età moderna, almeno
per le più importanti città mercantili dell'occidente e particolarmente per quelle
italiane, risale al XIII secolo.
Come già ricordammo nella sezione II, il XIII secolo vede, contemporaneamente al sorgere della borghesia, la decadenza dei due istituti universalistici
tipicamente medievali: il papato e l 'impero. La varietà trionfa sull'unità. L 'Europa
si avvia a trasformarsi in un complesso di stati regionali o nazionali. In Italia,
durante il XIV secolo, i reggimenti comunali sono a poco a poco sostituiti dalle
città-stato. La discordia tra le fazioni, la pressione esercitata dalle arti minori e
dal popolo minuto contro i privilegi del popolo grasso e delle arti mediane,
l'incapacità del comune di risolvere il problema dei rapporti col contado e con le
città ridotte a sudditanza, portano all'avvento della signoria, che, sostanzialmente,
rappresenta l 'assunzione del potere da parte di un singolo, capace di eliminare
12.
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Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale
il governo dei partiti e di imporre una volontà imparziale a tutte le contrastanti
forze costitutive dello stato. La classe che viene maggiormente avvilita dal regime
signorile è la vecchia nobiltà. La borghesia trova nella maggiore sicurezza un
clima adatto alla prosperità economica. Il popolo minuto gode, sia pure di riflesso, dell'accresciuto benessere e si compiace della tranquillità. Le città minori
e il contado, già sottoposti alla città principale, vengono progressivamente
pareggiati a quest'ultima sotto l'uguale dominio del signore. Col trascorrere del
tempo la mera unione personale viene integrata da un complesso di istituti
uniformi e di magistrati comuni, da una burocrazia accentrata. In tal modo la
signoria e successivamente il principato, se per un certo aspetto costituiscono la
soppressione di fatto dei venerandi e gloriosi istituti comunali, considerati da un
altro punto di vista si rivelano come un passo innanzi verso lo stato moderno.
Prima conseguenza di questa lenta e profonda rivoluzione social-politica,
che segna il vero trapasso da un'epoca all'altra è, sul piano economico, la dilatazione del mercato. All'economia eminentemente locale si viene sostituendo,
nell'ambito dei grandi complessi regionali e nazionali, un'economia basata sulla
_eliti!inazione di barriere e___E!Qtezig_f!L _loç~li, sull 'unifica?_iof!~_ 4~!~_!!1_9_E~ta, ~ei_
_Eesi,__qc;:lle ~_S_\1_!_(:!. Ciò porta ali 'affermazione - accanto alla piccola borghesia
che tenta di impedire la concorrenza, il rialzo dei prezzi, la libera circolazione
delle merci e della manodopera, aggrappandosi disperatamente alle norme della
vecchia etica medievale-scolastica - di una nuova classe di grandi mercanti.
Si tratta di uomini i quali non lavorano più soltanto per vivere di giorno in giorno,
secondo gli schemi della tradizione e della morale della chiesa, ma per accrescere le proprie fortune, per acquistare onore e potenza.
Nasce così una nuova aristocrazia, assai diversa da quella militare e guerriera
che aveva dominato per tutto il medioevo. Né si tratta di mera plutocrazia, giacché
molti di questi nuovi grandi imprenditori eccellono anche per cultura, gusto,
passione per le opere d'arte, sagacia nella valutazione degli eventi storici e delle
azioni politiche.
Ma il principato incide sulla struttura sociale e sui caratteri della cultura
anche per altre vie. In primo luogo, sostituend~, come abbiamo visto, k-~~g!_-_
stra!~!'~ __rl_f:_!!iV:C::fQ!:! __~!!_a_~~~~~~iE~:_ __F!<?f~s_s!~~~~e. Secondariamente, con una
politica economica mirante a fornire al principe le somme indispensabili per far
fronte ad esigenze di gran lunga cresciute a causa delle spese per la milizia professionale, per l'amministrazione civile, per le opere pubbliche e il fasto della
corte. La fame di denaro spinge il signore non solo a promuovere lo ~!_ggio_m
nuove tecniche finanziat:ie, ma anche a favorire e stimolare I ~~ument()_~f!]l_~_..e_r~:
duzione delle
merci
di nuove industrie, l'adozione
di
--- - -tradizionali,
- - - - - l'introduzione
----------------------------·-·--··- -----------nuove ç_t:>ltu~--~!icok, I 'irrigazi_9_!1~_Qi _yaste ar_c;:~ ~QJ!iy_a]Jili.
Così, sotto la pressione combinata della politica e del commercio, si trasformano le tecniche relative alla nautica, all'idraulica, alle fortificazioni, alla
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contabilità. Coronamento dì questo fecondo periodo, e al tempo stesso punto di
partenza dì un periodo incomparabilmente più fecondo, sono le gran~i.__-~c()p~r!~
geog!"~fj._ç_h~, J'ìnVc:!f!?:Ìo~g~JI~ pql_yere dan§pll:rQ_ e quella della__~~~!I!P~:.
Sulla base di questa fino allora sconosciuta prosperità economica si sviluppa
una irresistibile aspirazione verso il benessere, verso forme di vita più comode
e piacevoli. Non ci si limita a costruire bellissimi i templi della divinità o le
residenze dei principi e delle magistrature, ma si costruiscono per i più ricchi
cittadini palazzi grandiosi, forniti di ogni comodità, ville adorne di statue ed
affreschi. La nuova borghesia, come abbiamo già detto, apprezza l 'arte, le belle
sculture e pitture, il bello scrivere.
Fino alla seconda metà del xv secolo la vita economica europea vede l 'incontrastata egemonia dell'Italia. Venezia e Genova conservano una netta superiorità nel settore mercantile e promuovono quello industriale delle città lombarde
e toscane. « Lombardo » è sinonimo di banchiere.
Nel corso del xv secolo, perdurando il primato italiano, si assiste però al
fenomeno della diffusione del commercio capitalistico in tutta Europa, specialmente in Francia, nei Paesi Bassi e in Inghilterra. l metodi che erano stati prerogativa degli uomini d'affari italiani divengono pratica corrente. D'altra parte
la democratizzazione del mercato comincia a far prevalere in taluni campi i
prodotti più rozzi ma più a buon mercato provenienti dall'Inghilterra o dalla
Francia. Così, quando a questi fattori si aggiungeranno le ripercussioni dell'occupazione turca del vicino oriente e delle scoperte geografiche, la crisi sarà
inevitabile.
Ma l'eclisse italiana non avrà solo cause economiche. Sul piano politico
risulterà determinante il fatto che i principati italiani per la loro recente origine
hanno una stabilità molto minore delle grandi monarchie (francese, inglese, ecc.).
Aggiungasi la funzione nefasta dell'impero e, specialmente, quella del papato,
accanitamente avverso ad ogni possibilità di quell'unificazione nazionale in cui
scorge la ragion sufficiente della fine del potere temporale, e ·si comprenderà
agevolmente quanto sia precario l'equilibrio di questo paese proprio nel momento della massima prosperità e del più fulgido splendore.
III
· DISCRIMINAZIONE FRA LA NUOVA CULTURA
E QUELLA MEDIEVALE-COMUNALE
Siamo ora in condizione di poter fare alcune precisazioni indispensabili
allo scopo di evitare confusione e fraintendimenti circa l 'inizio e il significato
della nuòva cultura.
Qualora si facesse cominciare il rinascimento dall'inizio del processo di
trasformazione delle strutture economiche e sociali, accennato nel paragrafo precedente, si dovrebbe concludere che tutta la produzione culturale del XII e XIII
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secolo fino alla metà del XIV rientra nel quadro rinascimentale. Questo riassorbirebbe pertanto il romanico e il gotico, la lirica provenzale, la scuola siciliana,
lo stil nova e tutta la scolastica. Orbene, senza voler negare il nostro pieno diritto
di imporre al termine rinascimento l'ampliamento testé accennato, resta però
il fatto che l'identica denominazione non annulla la profonda diversità esistente
fra la cultura del medioevo comunale e borghese e quella dell'umanesimo quattrocentesco e del rinascimento in senso stretto. Si tratta, dunque, di determinare
con precisione l'essenza e i limiti di tale diversità, non di discutere se valga la pena
indicare quelle due diverse culture con il medesimo nome o con nomi differenti.
Va d'altra parte osservato, se vogliamo fissare un rapporto di dipendenza
diretta tra il rinascimento e la trasformazione dell'assetto economico-politico
della società, che l'umanesimo fiorisce quando ormai l'esplosione rivoluzionaria
del comune ha ceduto alla reazione signorile, tanto che qualche storico ha creduto
di dover capovolgere, per così dire, i termini tradizionali della questione, giungendo a considerare - come ricordammo nel paragrafo I - quale espressione
della virtù creativa sprigionantesi con la nascita e la maturazione di un mondo
nuovo (cioè come vero rinascimento) proprio la cultura volgare fiorita nel
periodo comunale, laddove il rinascimento in senso stretto e l'umanesimo come
culto dell'antichità classica costituirebbero invece un moto regressivo.
Ci sembra che, per evitare pericolose schematizzazioni, si debba distinguere
in primo luogo fra la vita vissuta e la realtà culturale (arte, filosofia, ecc.) in cui
tale vita è riflessa, idealizzata, giustificata concettualmente.
Che nei secoli immediatamente successivi al Mille si costruiscano case più
belle e più comode, si aspiri a vestirsi ed a mangiare meglio; che i mercanti e i
banchieri del XIII secolo agiscano in conformità con le spietate leggi del mercato
e non con quelle che la chiesa vorrebbe imporre; che gli uomini politici facciano
della ragion di stato il fine supremo che giustifica tutti i mezzi atti a conseguirlo,
tutto questo non è semplicemente vero: è addirittura ovvio.
Senonché l'etica medievale, fondata sulla rivelazione e imperniata attorno
al concetto della trascendenza del fine della vita, destituisce di valore, almeno
nelle sue formulazioni più conseguenti, gli sforzi, le lotte, le conquiste degli
uomini. Il medioevo comunale è perciò caratterizzato da un profondo contrasto
tra l'operare e il pensare, dalla coesistenza di due concezioni del mondo, una che
si manifesta nell'azione, l'altra, che è poi quella cristiano-feudale, sostenuta dalla
chiesa e accettata ormai solo ufficialmente e per forza di tradizione dalla maggior
parte dei gruppi sociali. Nel complesso l 'uomo del medioevo comunale non
riesce a giustificare teoricamente il suo modo di operare praticamente; c'è
in lui una coscienza ereditata dal passato in contrasto con quella implicita nel suo
comportamento. Le figure di Petrarca e di Boccaccio sono, sotto questo punto
di vista, veramente esemplari.
Possiamo pertanto assumere come criteriQ_atto a rendere possibile la discri-
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minazione fra cultura medievale-comunale e cultura umanistico-rinascimentale
l 'apparire della co~E-~-1!~~--~~~~_<:>E!_~~~!~-~~~~!c:!!!!(! Jra _v_ita_yissut_a e i_4c::~l<;>gia. La
coscienza del contrasto diviene consapevolezza della frattura formatasi tra medioevo e tempi nuovi, anzi diviene consapevolezza del medioevo come età a sé
stante, in antitesi alla nuova età iniziatasi col rinascimento.
Abbiamo detto poco fa che dal mondo dei grandi affari e dalla lotta politica,
l'esigenza della libera espansione del singolo in tutte le direzioni prorompe irresistibile e porta alla instaurazione di un nuovo metro valutativo. « V era e perfetta nobiltà, » scrive Poggio Bracciolini, « è quella che sta in noi; non quella che
abbiamo ereditata, ma quella che abbiamo conquistata con le veglie, con le fatiche,
con gli studi ... » Pico della Mirandola svolgerà lo stesso tema in chiave neoplatonica, affermando che la dignità dell'uomo consiste nel fatto che « il suo destino
dipende dalla sua libera volontà e che egli reca in sé i germi di ogni specie di
vita». Così l'individuo si viene sempre più convincendo di essere autore della
vita propria e della storia, « artefice della propria fortuna ». Ora possiamo però
aggiungere che i mercanti, i politici, i banchieri del Duecento e del Trecento erano
sì disposti a contravvenire alle norme della chiesa quando queste contrastavano
con le loro imprese, ma sentivano questa contravvenzione come peccato. Nella
nuova situazione, invece, Poggio Bracciolini (nel dialogo De avaritia) illustra
la naturalità della brama del denaro e mette in rilievo la sua utilità: « Allo stato
il denaro è nerbo necessario e gli avari ne debbono essere considerati base e fondamento.»
Se tutti si accontentassero di ciò che è indispensabile, la civiltà scomparirebbe.
Il lavoro è una benedizione; esso rappresenta l'espansione della personalità
umana. La ricchezza è quasi un segno tangibile dell'approvazione divina. D'altro
canto, in polemica con l'ideale ascetico del medioevo, Leonardo Bruni esalta
Dante perché, pur essendo uno studioso, partecipa alla guerra e prende moglie
e procrea figli, e per motivi analoghi loda Cicerone e Catone.
Contro la tesi medievale per la quale « anche l 'amate della gloria è un vizio »
e « un umile contadino che serve dio è certo al di sopra del filosofo », la gloria
torna ad essere intesa come il ripercuotersi della virtù nel cuore degli altri uomini,
come il segno tangibile del suo valore sociale. Ritorna così un motivo già presente nella concezione greca del mondo: l'onore come unica misura oggettiva
del grado di areté realizzato; la fama come unico modo di prolungare nei
secoli la breve e travagliata vita terrena. È, ovviamente, un motivo destinato a
rafforzarsi tanto più quanto più debole si va facendo la fede nell'altra vita.
Così da un lato si afferma il mecenatismo, dall'altro la figura dell'uomo di cultura,
artista o letterato o scienziato che, mentre dà l 'immortalità al protettore, chiede
immortalità per se stesso. «L'epoca dell'architettura anonima delle cattedrali
gotiche, » osserva lo storico inglese H.A.L. Fisher, « costruite da generazioni
e generazioni di operai sconosciuti, è definitivamente chiusa. »
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Da tutto questo deriva l'attribuzione di una fondamentale importanza alla
volontà ed una concezione del tutto nuova del « sapere ». Le maggiori correnti
filosofiche del medioevo concepivano il sapere essenzialmente come « teoria »,
contemplazione della verità. Ora, invece, il sapere diventa un mezzo per conquistare il dominio di sé, per creare opere belle, per inserire la propria azione nel
corso della storia e, in un momento successivo, della natura.
Si delinea una nuova concezione della virtù, efficacemente e sinteticamente
indicata col termine humanitas, dal quale deriveranno, successivamente, le espressioni « umanista » e « umanesimo ».
IV
· DUE TEMI FONDAMENTALI
CARATTERISTICI DELLA NUOVA CULTURA
Quanto ora esposto ci pone in grado di comprendere, nel loro intimo significato e nelle loro molteplici implicazioni, due temi fondamentali che caratterizzano la nuova cultura:
1) il rili<::_\'?_~~ eSS:J. ~ato~lJ~~~~re. cleÙ'~m~~~j~:d:iy_ig~_aJ!t_àl e conseguentemente (poiché l'individualità si radica soprattutto nell'azione) la preminenza
accordata alla volontà sull'intelletto;
2) ~TrttOrno__~l__P.l_Q_~Q -~I~s-~çgL nella letteratura, nell'arte, nelle scienze e
nella filosofia, con una più vasta, profonda e spregiudicata conoscenza dei latini
e con la scoperta dei greci.
Quanto al significato del primo tema, esso risulta già sufficientemente chiarito dall'analisi (compiuta nel paragrafo m) delle differenze fra la nuova cultura e
quella medievale-comunale. Sarà tuttavia opportuno approfondire da un punto di
vista filosofico tali differenze, integrando la precedente analisi con un brevissimo
raffronto fra il concetto medievale di individuo e di volontà, e quello suggerito
dalle concrete strutture della nuova società in formazione.
È risaputo che anche nella storia della filosofia medievale si incontrano varie
filosofie a carattere volontaristico; ne abbiamo parlato a lungo nella sezione n.
Proprio allora abbiamo fatto però rilevare che esse sogliano inserire la volontà
in una problematica spiccatamente religiosa. Per tali filosofie il problema dei
rapporti fra volontà e intelletto coincide, in ultima istanza, con quello dei rapporti tra fede e ragione. Orbene, la differenza tra esse e il nuovo pensiero filosofico sta per l'appunto qui: diversamente dal filosofo medievale, il filosofo
del rinascimento interpreta la volontà come qualcosa di essenzialmente terreno;
come capacità effettiva, posseduta dall'uomo, di inserire la propria azione nel
mondo dell'esperienza. In altri termini: essa è, per lui, forza, energia, impulso
ad operare.
In conclusione: pur ammettendo l'esistenza nel medioevo di importanti
antecedenti filosofici dell'individualismo e volontarismo rinascimentali, dobbiamo
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riconoscere che è il significato stesso dei termini « individuo » e « volontà » che
ora risulta rinnovato. Non si indaga più la loro essenza metafisica, né più ci si
interessa dei problemi religiosi loro connessi. Si afferma il valore dell'individuo
e della volontà, per attestare la fede della nuova epoca nella potenza invincibile
del cittadino, dell'artista, dello scienziato. Individuo e volontà cessano di essere
puri concetti filosofici, e designano invece qualcosa di concreto: designano cioè
le effettive esperienze della vita umana che è lavoro e lotta, non mai semplice
contemplazione.
Anche il secondo tema risulta in parte chiarito da quanto abbiamo detto
nel paragrafo m. Qui pure, però, si rende necessario un ulteriore approfondimento
(tra l'altro per sottolineare i rapporti fra questo secondo tema e il precedente).
Dobbiamo in primo luogo sgomberare il terreno da una questione preliminare. È vero che l'età dell'umanesimo vede un accrescimento quantitativo della
conoscenza degli autori latini e greci? La risposta non può essere che affermativa.
In circa un secolo si viene a conoscere, del mondo latino, assai più di quanto non
se ne conoscesse nel medioevo. Per quanto riguarda il greco, la conoscenza di
quell'antica letteratura è alimentata dalla venuta in Italia, dall'impero orientale, di
numerosi dotti, in occasione del concilio di Firenze (1439) e, più tardi, in seguito
alla caduta di Costantinopoli. 1 Ma, ovviamente, il motivo essenziale dell'umanesimo non va cercato nel numero delle opere ritrovate e lette, bensì nel « modo »
della lettura.
Abbiamo visto come l'etica del medioevo destituisse di valore gli sforzi,
le lotte e le conquiste degli uomini. D'altro canto, la struttura cristiano-feudale
della società riduceva l'educazione, come strumento formativo delle classi dirigenti, ad essere educazione cavalleresca oppure ecclesiastica. La società nuova
esige, invece, da un lato una concezione del mondo e della vita che giustifichi
i suoi bisogni, le sue aspirazioni, il suo comportamento, dall'altro un'educazione
che formi l'individuo non più in quanto cavaliere o religioso, ma in quanto
cittadino e uomo. Ebbene: pare agli studiosi del Tre-Quattrocento che la giustificazione delle passioni, delle aspirazioni, proprie di quegli « uomini non perfecti,
co' quali comunemente si vive», e l'esaltazione della personalità in tutta la sua
interezza, nella sua essenzialità umana, abbia costituito il motivo fondamentale
della civiltà greco-romana, in base a quanto di tale civiltà è possibile giudicare
attraverso la letteratura e i ruderi giunti fino a noi.
Alla cultura classica non si chiedono nozioni che servano all'acquisizione
di capacità specifiche, bensì l'innalzamento a un livello superiore dell'intera
personalità ed il potenziamento di tutte le sue attitudini particolari. Ritorna la
figura dell'oratore come « vir bonus dicendi peritus », uomo che attraverso la
meditazione delle cose divine ed umane giunge al pieno ed armonico svolgimento
1 Sui riflessi di questi due eventi storici
sopra la cultura umanistica ritorneremo più am-
piamente capitolo.
come si è già detto -
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nel prossimo
Fattori e caratteri della rivoluzione rinascimentale
di tutte le proprie facoltà. La cultura generale (classica), anche se non fornisce
immediatamente una tecnica usufruibile in un determinato campo professionale,
si rivela utilissima, indirettamente, anche in rapporto a quest'ultimo a causa
della maturità di giudizio, del senso di equilibrio, del ponderato autodominio
che da essa conseguono.
Così la tensione verso una nuova concezione del mondo approda alla rinascita della concezione greco-romana. Il termine « rinascimento » acquista di
conseguenza un significato più ristretto ma più stimolante.
A questo punto però sorge spontanea una domanda: il ricordo di Roma
non era presente anche nel medioevo? Indubbiamente sì. Senonché la memoria
del passato non implica necessariamente l'esaltazione di quel passato e la speranza
di una sua resurrezione. Ora, in primo luogo, nel medioevo prevale la concezione
agostiniana di Roma quale «nuova Babilonia». Secondariamente, l'idea di
Atene e di Roma sopravvive nelle espressioni di una cultura ormai fossile, ridotta
perlopiù entro gli schemi di mediocri compendi. Infine, non bisogna dimenticare
che l'idea di Roma nel medioevo è estremamente complessa e vede mescolato
al mito della città classica quello della sede della cattolicità.
In Cola di Rienzo, Coluccia Salutati, Leonardo Bruni e specialmente nel
Machiavelli, troviamo invece il concetto nuovo di )-zmzTa!ff!j; ed è precisamente
questo il motivo che contraddistingue l'atteggiamento umanistico di fronte
all'antichità da quello medievale. L'umanità greco-romana è vista come quella
che da un lato ha raggiunto pienezza ed armonia di vita e dall'altro è riuscita
ad esprimere tale pienezza ed armonia in modo perfetto, nelle opere d'arte e di
pensiero. «L'antichità classica,» scrive lo Chabod, «diventa l'ideale momento
della storia umana in cui si sono realizzate le più alte aspirazioni degli uomini,
il momento modello in cui bisogna specchiarsi per avere chiara e sicura guida
a più alto operare, nelle lettere come nelle arti, nella politica e nella milizia. »
Il richiamo all'antichità assume così il carattere di un programma che traccia
una chiara linea d'azione alle aspirazioni verso nuove forme di vita.
Un altro aspetto, esso pure molto importante, del ritorno al mondo classico
è costituito dall'amore per il testo: testo che si vuole non più interpolato o deformato con pie intenzioni, bensì trascritto nella sua originalità; non più studiato
per trovarvi conferme a una concezione teologico-filosofica ben consolidata,
ma per servire alla co_l:lO~~en?_~__Q_~assa~o nel~~~S.':l!J.()ggettiyità. Una s.~~_i_;~,jn<fa­
gine filolog!c::l diventa, da questo punto di vista, il complemento indispensabile
?el ritorno al mondo classico: la premessa necessaria di ogni seria discussione
tntorno ad esso.
All'amore scrupoloso per il testo, or ora menzionato, si ricollega una scoperta filosofica del più alto interesse: ~scop~_!_t~_ g~g~__pr:e>~pettiva storica. Il
filologo umanista percepisce con estrema chiarezza la differenza fra autentica
cultura classica e permanenza di temi classici nella cultura posteriore; coglie
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l 'irreducibilità del mondo greco-romano a quello instaurato dalla cristianità;
perde ogni illusione circa l 'unità e continuità tra antico e moderno. Si rivolge
insomma ai testi classici, per studiarvi il pensiero degli antichi, per cercarvi il
passato in quanto passato: il suo amore per la purezza del testo antico diventa
consapevolezza della diversità fra antico e presente, cioè consapevolezza del fluire
della storia.
Anche se lo sforzo di cogliere il mondo antico nella sua obiettività storica
è compiuto, dagli umanisti, nella speranza di trarne suggerimento per la risoluzione dei nuovi problemi del secolo in cui vivono, il presupposto da cui essi partono è l'esistenza di una frattura fra questi problemi e quelli dell'antichità. Tale
frattura è rappresentata, secondo essi, dal pensiero medievale: e proprio la loro
polemica contro il medioevo non fa che accentuare sempre più la profondità della
frattura stessa, cioè rendere via via maggiore la distanza fra il presente e l'antico.
Al rinnovato amore per il mondo classico si ricollega, infine, un fatto di
grande importanza, non solo per la storia della lingua ma anche per la storia
del pensiero: il ritorno all'uso del l~_tlQ:9_S:1llc~~i_cQ nella composizione di nuove
opere, specialmente di argomento etico-filosofico. Dobbiamo intendere questo
ritorno al latino come una diminuzione di originalità, rispetto ai primi autori
che scrissero in lingua volgare?
La nostra risposta non può essere che negativa. Innanzi tutto perché il
ritorno al latino classico viene attuato, non per tutti i generi letterari, ma per quel
tipo di opere che nemmeno nei secoli antecedenti erano state scritte in volgare (e
cioè per orazioni, dialoghi dottrinali, ecc.). In secondo luogo, perché il latino
degli umanisti, se pur modellato su quello classico, non fu mai una passiva e
pedestre imitazione. Voler opporre il latino degli umanisti al volgare, è quindi
inesatto: vero è, invece, che il volgare si venne formando lessicalmente e sintatticamente proprio all'ombra del latino vivo degli umanisti a mano a mano che
se ne approfondiva lo studio e l'uso ne diveniva più sciolto. Negare l'originalità
degli umanisti, significa non intendere la consapevolezza storica, che sta alla
base del loro interesse per gli antichi: consapevolezza che impedisce loro qualsiasi
confusione tra mondo presente e mondo passato; consapevolezza che fa loro
cercare il mondo passato, non per riprodurlo passivamente in una situazione
del tutto diversa, ma per trarne suggerimento a ideare nuove e più mature soluzioni dei problemi presenti.
Una volta sottolineate le implicanze positive dell'amore degli umanisti per
la classicità, non possiamo però fare a meno di segnalare anche un pericolo,
assai grave, che si celava in tale amore: il pericolo che il gusto per la purezza
classica finisse, col trascorrere degli anni, per alimentare nel ceto colto una relativa chiusura rispetto al mondo circostante.
Così accadde effettivamente, specie in Italia, ove si giunse purtroppo alla
fatai~ costituzione di_ una f.l~~~_Q_L_g.Qt_ti)~Q!!l:!!.9-aJ p()polo, incapaci di comuni-
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care alle masse i frutti della loro cultura e di ricavare da questa comunicazione
nuovi argomenti di riflessione filosofica. L'uso di una lingua diversa dal volgare
divenne, per tali dotti, la più evidente espressione della propria posizione di
privilegio entro la società. Proprio quest'isolamento fu la causa dellçnto iste_rilirsi della cultura strettamente umanistica, cioè del venir meno di quella viva
originalità che era senza dubbio presente nei primi umanisti. Toccherà a uomini
di altra formazione - per esempio a Le~~~q<:>_« JlQJ:llQ,_sanza Jitt~re » - infrangere questa chiusura aristocratica e immettere nella cultura problemi nuovi:
sarà per l'appunto loro merito procurare alla seconda parte del rinascimento
un carattere più vivo, originale e fecondo della prima (l'umanesimo); saranno i
loro problemi a far germogliare dal rinascimento il pensiero moderno.
V
· ALTRI TEMI FONDAMENTALI
CARATTERISTICI DELLA -NUOVA CULTURA
L'accenno contenuto nella conclusione del paragrafo precedente ci avvia
all'analisi dei due ulteriori temi fondamentali che caratterizzano la nuova cultura:
1) p uovo interessç_Q~!"__~_§_t_rut!_l!~--P.~!ico!_~ri della p.atura, e pet:__~p_~~!iv~
_!~nici diretti a dgmln&A<::. e utilizzarle a vantaggio dell'uomo;
z) nuovo atteggiamentQ_gi_J:rQ.l!!~ al rnond9 natutale (nella sua globalità),
considerato non più come ombra di un mondo ideale e i tanto meno come luogo
di tentazione o di espiazione, ma come -~()l?.H!_~!_l!!_~-~~~~t~[ o, addirittura, co11:1e..~e.9,~
e corpo di qjg.
Anche questi due temi della cultura rinascimentale, in particolare il primo,
risultano parzialmente spiegati dalla breve analisi che abbiamo compiuto nel
paragrafo III. Va subito osservato, però, che essi riuscirono a imporsi solo gradualmente, e non senza contrasto, sicché l 'ultimo non poté trionfare pienamente
che nella seconda parte dell'epoca rinascimentale, ossia nel Cinquecento.
Che la valorizzazione dell'individuo attivo e volitivo dovesse dar luogo a
una rinnovata valorizzazione della tecnica, è cosa pacifica; ciò corrispondeva,
del resto, alle nuove esigenze della società, in fase di rapida ascesa economica.
Abbiamo visto d'altra parte, nel capitolo vu della sezione u, che anche molti
importanti indirizzi filosofici del tardo medioevo erano fortemente propensi a
tali valorizzazioni, onde si può dire che, su questo punto, vi è stata una sostanziale continuità fra pensiero medievale e pensiero rinascimentale, o - se preferiamo - che la frattura si è prodotta già nello stesso medioevo tra le maggiori
correnti filosofiche tradizionali e quelle innovatrici del XIV secolo.
Va anzi sottolineato che, in un primo tempo, furono proprio i fautori dell'umanesimo a guardare con molto sospetto al risorgente interesse per la natura.
Già ricordammo nel capitolo testé menzionato gli sprezzanti giudizi del Petrarca sulle ricerche matematico-fisiche dei « sofisti britannici »; qui va precisato
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che tali giudizi non erano soltanto diretti (cosa abbastanza comprensibile) contro
il modo formale ed astratto con cui erano condotte le anzidette ricerche, ma proprio contro il rivolgersi dello spirito umano al mondo dell'esperienza. «Io mi
domando, » egli scriveva per esempio, « a che giovi il conoscere la natura delle
belve e degli uccelli e dei pesci e dei serpenti ed ignorare o non curar di sapere
la natura dell'uomo; perché siam nati, donde veniamo, dove andiamo.»
Questa incomprensione però non poteva durare a lungo; e, se essa si perpetuò - come abbiamo fatto presente nelle ultime righe del paragrafo precedente - in alcuni gruppi di dotti, isolati dal popolo, non riuscì certo a impedire
che l 'interesse per la natura (i vi compresa la natura del corpo umano) si diffondesse
rapidamente e incidesse con profondità nei caratteri della nuova cultura.
Ce ne forniscono ampia prova le opere sempre più efficienti degli ingegneri
e dei tecnici; ma ce lo provano anche quelle degli artisti. Così vediamo l'arte
quattrocentesca modellare in modo sempre più plastico la figura umana, e costruire intorno ad essa un paesaggio sempre meno squallido e schematico, sempre
più ricco e gioioso. Anche sul costume sociale si manifesta senza ritegni l'amore
per la natura, che diventa qualcosa di vivo e concreto, trasformandosi in amore
per le belle creature.
Con il trapasso dalla prima alla seconda parte dell'epoca rinascimentale,
l'amore per la natura e l'interesse per la tecnica cresceranno via via maggiormente, spingendo anche i filosofi a elaborare nuove concezioni del mondo,
capaci di garantire alla natura una piena autonomia.
La prima tendenza degli umanisti fu di ravvisare!neoplatqp}èaine~nella
natura e nelle sue creature la rivelazione della saggezza e della bellezza di dio.
A questa visione filosofica si affianca, in rm..gbli_1ìdçr:l~i~J:i, ~!i_S.gE_ç_ezi~Q~_~!_l:i­
mistica che si accentuerà sempre di più, in tutto il Cinquecento: essa popola la
natura di geni e di demoni, che l'uomo si illude di poter conoscere e dominare
attraverso pratiche occulte. Ne rimangono tracce nello stesso panteismo dei
grandi « filosofi della natura », che interpreteranno la materia come sostanza
animata o vedranno nella natura il grande corpo di dio (ove è palese l'abisso fra
il naturalismo del rinascimento e quello mistico di un Bonaventura, che nella
natura ricercava vestigie, immagini e similitudini della divinità trascendente).
Discuteremo nei prossimi capitoli se la filosofia della natura del Cinquecento
abbia esercitato un peso effettivo sull'elaborazione del metodo scientifico galileiano, che a nostro giudizio rappresenta la più valida conclusione della cultura
rinascimentale. Qui vogliamo comunque sottolineare, ancora una volta, che all'origine della filosofia della natura sta il nuovo interesse dell'epoca per la tecnica,
per l'intervento operativo dell'uomo sul mondo dei fenomeni, per il dominio
delle forze naturali. E questo atteggiamento, attivo e non più solo contemplativo,
sarà senza dubbio determinante - come spiegheremo meglio in seguito - per la
nascita della scienza moderna.
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Per ora ci limitiamo a far presente, in via del tutto generale, che è proprio
dall'atteggiamento tecnico-operativo che l'uomo venne condotto a trasformare
radicalmente il proprio metodo di studiare la natura, rinunciando in modo definitivo a far coincidere la scienza con la ricerca di teorie generali volte a spiegare
tutto l'universo. Fu la sterilità di queste teorie, ai fini della trasformazione dei
fenomeni, che dimostrò il loro scarso valore scientifico. Fu la necessità di ottenere
risultati utili che costrinse gli studiosi a circoscrivere le proprie indagini, ad
accontentarsi di schemi particolari, validi per gruppi limitati di fenomeni.
L'accentrarsi dell'indagine naturalistica su problemi particolari e concreti
anziché su teorie generali, è soprattutto dovuto all'insistenza con cui la nuova
società chiede, ai suoi uomini maggiormente preparati, di fornirle mezzi di produzione via via più efficienti, di aiutarla cioè a compiere passi sempre più rapidi
sulla strada del progresso. È questa atmosfera di generale rinnoyamento, questa
continua ricerca di accrescere la potenza dell'uomo sulla natura, che pone decisamente fine all'antico divorzio tra teoria e pratica, tra scienza e tecnica. Come
abbiamo visto nella sezione I, la società antica non seppe avanzare una richiesta
altrettanto pressante agli scienziati alessandrini, e ciò fu una tra le cause del mancato sviluppo di tutte le possibilità insite nelle loro conoscenze teoretiche. La società del rinascimento non commette più lo stesso errore, e con le sue fortissime
istanze pratiche impedisce alla nuova scienza di isterilirsi come quella antica.
Va infine aggiunto, che proprio le ricerche particolari pongono in luce
l 'imp9rtanz3:. de_!!:t I.!l~t~~~-ti<:::t. p~r: ..!q .!'!.~~lt2_.d~l1 '~~peri~_n_zll. Nulla infatti risulta
più idoneo che le linee e i numeri, a formulare schemi precisi dei singoli fenomeni,
a stabilire con esattezza i loro effettivi rapporti. In questo modo anche la più
astratta delle scienze conosciute dall'umanità, acquista un significato nuovo: il
significato di strumento indispensabile per leggere e penetrare il grande libro della
natura.
VI
· RINASCIMENTO E CRISTIANESIMO
Una volta delineati i temi più caratteristici della cultura rinascimentale,
siamo ora in grado di riprendere uno dei problemi più difficili cui abbiamo fatto
cenno nel paragrafo I: il problema dei rapporti fra rinascimento e cristianesimo.
A renderlo più complesso intervengono spesso fattori sentimentali o comunque
extrascientifici.
Si va dalla posizione di chi ritiene lo spirito cristiano del tutto assente dal
rinascimento e afferma che la pur frequente ripetizione di formule cristiane da
parte degli umanisti è meramente esteriore, a quella che vede invece nell'umanesimo la restaurazione cattolica contro l'eresia (eresia presente proprio negli
ultimi indirizzi filosofici del medioevo).
Orbene: se intendiamo il concetto di cristianesimo in senso estremamente
lato, sottolineandone alcuni aspetti e !asciandone altri nell'ombra, non solo
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dovremo ammettere che il rinascimento può dirsi cristiano, ma dovremo anche
dichiarare che alcuni motivi introdotti nella civiltà europea dal cristianesimo
sono addirittura esaltati dal rinascimento. Così va detto per il valore assoluto
attribuito alla personalità individuale, così per l'importanza concessa alla volontà
libera e responsabile, così infine per l'azione operante in vista del bene comune
rispetto all'ideale ellenico della pura contemplazione. Ma se consideriamo come
motivi essenziali del cristianesimo la trascendenza del fine dell'uomo, il concetto
di rivelazione e la morale della carità, scorgiamo facilmente quanto sia radicale
l'antinomia fra la religione di Cristo e la concezione rinascimentale del mondo.
Il borghese rinascimentale, che si è liberato dai pesanti legami della società
feudale, non prova più il bisogno di evadere dal mondo terreno. Mira invece
a conquistarselo e interpreta la stessa religione in funzione di questa conquista.
Scompare quindi, per lui, ogni opposizione tra l'umano e il divino. L'ascesa
a dio assume il carattere di attuazione completa della più profonda umanità.
Quanto alla rivelazione, sono chiaramente identificabili nel rinascimento
le due direttrici lungo le quali si verrà svolgendo il pensiero moderno : da una
parte la tendenza ad elaborare i concetti scientifici escludendo ogni presupposto
teologico; dall'altra l'accettazione delle Scritture e della rivelazione, collegata
però col diritto dell'individuo di porsi come unico interprete e delle Scritture e
della rivelazione. Col rifugiarsi della fede nell'intimo della coscienza, fuori di
qualsiasi valutazione oggettiva e ufficiale, si apre la strada ad una religiosità
puramente naturale e razionale.
Per quanto, infine, si riferisce alla carità, la necessità di giustificare teoreticamente la libera iniziativa economica e di riaffermare l'autonomia dell'azione
politica, induce a fare del successo la misura del valore e a identificare la forza
con la virtù, in evidente contrasto col dettato della morale evangelica.
D'altra parte, il rinascimento è fortemente caratterizzato dalla tendenza
a sopprimere la classica contrapposizione tra uomo e natura o ritornando all'antico
naturalismo che riassorbe l'uomo nel cosmo o approfondendo la tematica neoplatoniGa della divinità del mondo. Comunque, nell'uno e nell'altro caso, viene
sconvolta l 'impostazione cristiana dei problemi riguardanti i rapporti fra libertà
e determinazione, razionalità e spontaneità, uomo e dio.
I punti di convergenza di queste direttrici rinascimentali saranno da una
parte la moderna scienza laica, dall'altra la riforma religiosa e le filosofie spiritualistiche da essa derivanti. Il fatto che talune correnti umanistiche, specialmente italiane, confluiscano nella controriforma cattolica significa solo che, nel quadro della crisi politica, sociale ed economica che ha travolto l'Italia, tali correnti hanno ormai perso ogni virtù creativa e possono fornire l'apparato culturale ad una chiesa la quale, a sua volta, va di grado in grado assumendo una
funzione storica sempre più esclusivamente politica.
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VII
· TENDENZA DELLA CULTURA
A FRANTUMARSI IN DISCIPLINE AUTONOME
Crediamo di non poter chiudere questa rapida analisi dei motivi essenziali
della nuova cultura senza sottolinearne un tratto particolarmente importante,
un tratto che, mentre la caratterizza ulteriormente di fronte alla cultura medievale, la rende d'altro canto intimamente contraddittoria, aprendo la via ad un
contrasto profondo che nei secoli successivi costituirà l'oggetto di ampie
discussioni, variamente orientate, e che oggi stesso appare tutt'altro che
risolto. Ci riferiamo all'aspirazione, manifestata da ogni singola attività spirituale,
a divenire autonoma, a porsi un fine particolare, ad elaborare un proprio metodo
ed una propria tecnica. Le « cattedrali di idee », le concezioni grandiose e organiche nelle quali arte, filosofia, scienza e politica erano strettamente connesse
fra loro in un sistema di rapporti reciproci e, tutte, subordinate ai principi universali della metafisica e della teologia, cadono a pezzi ed ogni settore dello
scibile proclama la propria indipendenza, sia dagli altri settori particolari, sia, e
soprattutto, da ogni visione d'insieme.
Spesso si attribuisce alla politica la prerogativa di essere, per prima, uscita
dal sistema e di essersi affermata, per usare la formula famosa del giurista Bartolo
da Sassoferrato, « superiorem non recognoscens ». In tal senso il primo grande
pensatore del mondo moderno sarebbe Mas;_h!_:~::yelli, il quale considera la politica
al di fuori di ogni criterio morale e svincola lo stato da qualsiasi presupposto e
finalità di carattere etico-religioso.
In realtà è stato notato che lo stesso discorso si può fare anche, e prima,
per l'arte. L'artista del Quattrocento concepisce l'arte per l'arte (anche se non
giunge a teorizzare questa autonomia), e si ribella alla concezione dell'arte-allegoria, vale a dire dell'arte ridotta ad ancella del vero e del buono. In questo senso,
come ebbe ad osservare Lionello Venturi, l'eroe dell'arte, chiuso ad ogni altra vita
che non fosse quella del suo immaginare poetico, precede l'eroe machiavellico
della politica. « La novità essenziale del rinascimento, » scrive sempre a tale proposito Chabod, « consiste nel fatto che il suo cosiddetto naturalismo e individualismo conduce, come nell'arte e nelle lettere così nella scienza, nella teoria politica
e nella storiografia, ali' affermazione del valore autonomo, indipendente da premesse e fini metafisici e dell'opera d'arte e della politica e della storia; con una
linea di sviluppo continua dali' Al berti, attraverso il Machiavelli, fino a Galileo. »
Così la cultura umanistico-rinascimentale, mentre da un lato afferma la dignità della persona umana come unità armonica del corpo e di tutte le facoltà
spirituali, dall'altro dà l'avvio alla civiltà moderna con ciò che essa ha di più
caratteristico e di più conturbante: lo sviluppo e l'accentuazione illimitata della
specializzazione.
------La prima conseguenza di ciò, conseguenza già chiaramente avvertibile nel
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pensiero filosofico del più maturo rinascimento, è la perdita della capacità di
sistemare logicamente in un'organica unità le varie forme di vita. Si tratta di
un motivo destinato a divenire più drammatico via via che, col passare dei secoli,
le singole discipline progrediscono, assumendo profondità ed ampiezza un tempo
assolutamente inconcepibili e, conseguentemente, scavando un solco sempre più
profondo fra se stesse e le altre discipline, anche prossime ed affini.
Come tale drammatica situazione possa essere superata; per quale via la persona possa venire reintegrata nella sua unità armonica senza che vadano per ciò
perduti i vantaggi, ormai definitivamente acquisiti, di una tecnica fondata sull'alto
grado di specializzazione, è problema ancora oggi aperto, problema per il quale
appunto - almeno a giudizio degli autori del presente capitolo - la filosofia e
la scienza del nostro secolo sono seriamente tenute a proporre, come vedremo a
suo luogo, una valida soluzione.
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CAPITOLO SECONDO
Il pensiero ftlosoftco nel Quattrocento
I
· DAL TRECENTO AL QUATTROCENTO
Il Quattrocento è essenzialmente un secolo di trapasso: secolo ricco di fermenti nei quali si sta senza dubbio maturando qualcosa di nuovo e di molto
importante, che però non riesce ancora - o vi riesce con difficoltà - a porre in
chiaro i motivi più profondi da cui scaturiranno la sua fecondità e la sua validità.
È ben noto che l 'umanesimo, come movimento letterario, aveva già avuto
inizio nel Trecento; basti ricordare che proprio in tale secolo visse e operò uno
dei massimi animatori del ritorno al pensiero classico, Francesco Petrarca. Anche
se da un punto di vista rigorosamente filosofico il pensiero del grande poeta
non è molto rilevante (abbiamo già ricordato in precedenza la sua insensibilità
per lo studio della natura, e la sua incomprensione per i più significativi indirizzi
della tarda scolastica), è certo però che esso esercitò una vasta e profonda influenza, anche al di là dei suoi meriti teoretici. È proprio nel Quattrocento che
l'insistente richiamo di Petrarca alla cultura classica susciterà più profondi consensi non solo fra i letterati, ma anche fra i filosofi.
Un altro autorevole umanista trecentesco del quale dovremo tenere ampio
conto esponendo la filosofia del Quattrocento è Coluccia Salutati (I330-I4o6),
nelle cui opere sono palesi le tracce dello stoicismo di Seneca. Caratteristica è
per esempio la sua tendenza (che influenzerà profondamente tutti i pensatori del
primo umanesimo) a far coincidere virtù e verità. Per essere più precisi, la verità
è, secondo lui, teoretica e al tempo stesso produttiva; non si esaurisce, cioè,
nella contemplazione, ma si traduce in abito morale e in azione. Per attuarla
sono necessari intelletto e volontà, ma quest'ultima ha il sopravvento su quello.
L'attività teoretica finisce, così, di esser ridotta ad una funzione eminentemente strumentale, di fronte alla quale l'attività pratica si rivela intrinsecamente
nobilior. ll vir sapiens si trasforma pertanto nel vir faber la cui caratteristica è la
vita attiva, estrinsecantesi nella cultura, nell'eroica lotta dell'uomo contro la
fortuna (ave affiora il concetto stoico dell'autosufficienza), nella partecipazione
alla vita civile e politica. Merita, a questo proposito, di venire ricordato che
Salutati stesso ci ha fornito personalmente un notevole esempio di vir faber,
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Il pensiero filosofico nel Quattrocento
con la sua intensa opera di studioso e con l'energica partecipazione alle lotte
politiche di Firenze (in particolare contro il papato). Caratteristico il fatto, che
egli inserisce il proprio amore per Firenze e per la libertà nell'amore per il mondo
classico. In Firenze egli vede, infatti, l'erede moderno della missione civilizzatrice di Roma. Si ricordino le celebri parole: « Qui d est, Florentinum esse, nisi
tam natura quam lege civem esse Romanum, et per consequens liberum et non
servum? » ( « Che cosa è, essere fiorentino, se non essere cittadino romano sia
per natura che per legge, e di conseguenza essere libero e non schiavo? »).
Una volta precisato che il richiamo a Petrarca e a Salutati costituì senza dubbio
un anello di collegamento fra il pensiero quattrocentesco e quello trecentesco,
non dobbiamo neanche dimenticare che fra i due secoli si ebbero pure altri numerosi elementi di continuità. Se è ben comprensibile che, pensando ai successivi
sviluppi della filosofia, noi tendiamo spontaneamente - nell'esporre il pensiero
del Quattrocento - a porre soprattutto in luce i nuovi temi germogliati entro
l 'umanesimo, cadremmo però in grave errore se non menzionassimo che, accanto
ad essi, continuarono a venire ampiamente discussi per tutto il secolo parecchi
temi tradizionali fra i più caratteristici della scolastica. Proseguirono in particolare i dibattiti fra i nominalisti (continuatori di Occam) e i realisti (continuatori
delle antecedenti filosofie medievali), cosicché le università dell'inizio del secolo sembravano non preoccuparsi d'altro che di questa polemica. Essa investiva
anzitutto questioni propriamente logiche, ma si estendeva anche ai rapporti tra
teologia e filosofia. Mentre i realisti intendevano mantenerli strettissimi, i nominalisti volevano vieppiù allentarli, sia per rendere più autonoma l'indagine
filosofico-scientifica, sia per liberare la religione dall 'intellettualismo, dando
maggior peso agli elementi volontaristici e fideistici.
Abbiamo già fatto cenno, nel capitolo vn della sezione n, al diffondersi dell' occamismo e del misticismo nel Quattrocento, ricordando che essi concorsero
in forte misura ad orientare la cultura europea (in particolare centroeuropea)
verso un modo di intendere la ragione e la fede, che troverà il suo naturale sbocco
nella riforma protestante. Qui non vogliamo soffermarci ulteriormente sull'argomento, sia perché i nomi che potremmo ricordare non sono di grande rilievo, sia
perché non riteniamo - come già cercammo di spiegare nel capitolo 1 - che la riforma costituisca una svolta decisiva nel laborioso trapasso dal pensiero filosofico
medievale a quello moderno. Questo silenzio non deve però favorire nel lettore
una visione unilaterale del secolo in esame. In particolare non deve fargli dimenticare che le correnti umanistiche, alle quali dedicheremo i prossimi paragrafi,
non monopolizzarono affatto il pensiero del Quattrocento, e che, nella stessa
Italia del Cinquecento, la generale rinascita della filosofia e della scienza non
riprenderà soltanto i grandi temi posti in luce dall'umanesimo, ma si ricollegherà pure - dando loro nuove aperture - a indirizzi profondamente diversi
(come l'aristotelismo naturalistico affermantesi a Padova e a Bologna).
2.8
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II
· IL PRIMO UMANESIMO
Il grande centro dell 'umanesimo, sia nella prima che nella seconda delle sue
fasi, è Firenze. Qui era particolarmente vivo il ricordo degli insegnamenti di
Petrarca e di Salutati; qui operò il primo gruppo di umanisti, cui intendiamo dedicare il presente paragrafo; qui si costituì la famosa accademia di Marsilio Ficino.
Il gruppo di studiosi, generalmente denotato con l'espressione «primo umanesimo », non costituì una vera e propria scuola filosofica, perché diverse erano le
tendenze dei suoi rappresentanti; ciò che li univa era soprattutto l'amore per il
mondo classico, la convinzione di poter trovare in esso un ideale di vita più
autenticamente umano di quello offerto dalla cultura tradizionale. Fra tali rappresentanti ci limiteremo a ricordare da un lato: Leonardo Bruni (1374-1444),
cancelliere del comune di Firenze, e Poggio Bracciolini ( 13 8o- I 4 59); dali' altro
Pier Paolo Vergerio (1370-1444) e Guarino Veronese (1374-146o), entrambi di
origine veneta ma collegati all'ambiente fiorentino.
Leonardo Bruni fu soprattutto un letterato, buon conoscitore della lingua
greca, dalla quale tradusse vari dialoghi di Platone nonché l'Etica a Nicomaco e
la Politica di Aristotele. Senza seguire un determinato indirizzo filosofico, cercò
di dare particolare rilievo ai problemi morali, affermando la superiorità della vita
attiva su quella puramente contemplativa: vita attiva che deve esplicarsi soprattutto nella partecipazione alla « società civile ». Difese inoltre la sostanziale coincidenza fra il pensiero classico e l'insegnamento cristiano.
Anche Poggio Bracciolini ebbe interessi più di letterato e di erudito che di
autentico filosofo. Come Bruni, fu acceso sostenitore della superiorità della vita
attiva, in cui l 'individuo realizza la sua più profonda personalità, dedicandosi al
lavoro e al bene comune. Proprio in nome di questo ideale, svolse una serrata
critica contro il modo di concepire la vita che stava alla base dell'ascetismo medievale. Fra le sue maggiori scoperte di carattere filologico va ricordata quella del
testo integrale del De rerum natura di Lucrezio. La conoscenza approfondita del
grande poema lucreziano eserciterà, per tutto il rinascimento, una profonda
influenza sul modo di concepire la natura.
Di maggior rilievo filosofico fu il pensiero e l'opera degli altri due, soprattutto per i decisivi contributi da essi portati al rinnovamento dell'educazione
(rinnovamento che costituisce uno dei temi più interessanti del programma culturale del nascente umanesimo ).
Pier Paolo Vergerio nacque a Capodistria, studiò a Padova e poi a Firenze
(ave conobbe Colucci o Salutati); più tardi ritornò a Padova. Partecipò ai lavori del
concilio di Costanza schierandosi contro i sostenitori dell'assolutismo papale.
Fallito il programma riformatore, abbandonò l'Italia, per ritirarsi prima in Boemia e poi a Budapest, ave morì.
Nel suo pensiero filosofico si ritrovano vari motivi stoici, ricavati da Cicerone
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Il pensiero filosofico nel Quattrocento
e da Seneca, che si inseriscono nel culto generale per il pensiero classico. La sua
opera principale, dal titolo De ingtnuis moribus et liberalibus studiis adolescentiae,
è un trattato sull'educazione, dedicato al più giovane dei figli naturali di Fr~n­
cesco Novello da Carrara, signore di Padova, ma rivolto a tutti coloro che un
giorno potranno esser chiamati ad assolvere una funzione dirigente nell'ambito
dello stato. Diviso in due parti, tratta, nella prima, di problemi generali concernenti la natura dell'animo umano e la possibilità di rafforzare in esso le tendenze
buone (Vergerio è convinto che il fanciullo sia sempre suscettibile di miglioramento, purché il processo educativo abbia inizio sufficientemente presto); nella
seconda delinea un piano di studi liberali, dei quali fornisce la seguente celebre
definizione: « Chiamo io liberali quegli studi che a uomo libero convengono,
pei quali si esercita o coltivasi la virtù e la sapienza, e il corpo e l'animo ad ogni
miglior bene si educa, e coi quali siamo soliti di procurarci gloria ed onore,
premi promessi, dopo l 'altro della virtù, all'uomo sapiente. Poiché, siccome le
arti ignobili hanno per fine il guadagno e il piacere, così la virtù e la gloria rimangono lo scopo degli studi liberali. »
Va notato che la condanna del guadagno e del piacere (nella quale è palese
l'influenza stoica) non significa, per Vergerio, esaltazione della pura vita di pensiero; chi si dedica solo allo studio, egli scrive, « forse riuscirà buono per sé,
ma certamente poco utile alla città ». 11 rendersi utile alla comunità, mettendo al
massimo profitto le nostre capacità e, se possibile, compiendo qualcosa di grande
è, in ultima istanza, ciò che dà un senso alla nostra esistenza: «Non dobbiamo
temere di aver vissuto poco tempo la vita, ma piuttosto di averla vissuta poco. »
Guarino dei Guarini nacque a Verona, studiò a Verona, a Venezia e a Padova.
Nel 1403 si recò a Costantinopoli per studiare il greco; ritornato in Italia nel 1408,
insegnò in varie città (a Firenze, dal 1412 al 1414). Nel 1429 si trasferì a Ferrara
ove aprì una celebre scuola-convitto, trasformatasi in scuola pubblica e poi
in università, ove egli rimase, quale attivo maestro di retorica, fino alla morte,
connettendo strettamente la sua attività di studioso con quella ·di insegnante.
Gli interessi culturali di Guarino sono molto larghi; essi vanno dalla retorica
alla geografia, dalla filosofia morale pagana a quella cristiana. Egli traccia un
piano educativo completo e particolareggiato (dove è evidente l'influenza di
V erg eri o) che si articola in tre corsi: elementare, grammaticale e retorico, consacrato quest'ultimo allo studio di Quintiliano e soprattutto di Cicerone. Il compito che si propone è quello che caratterizza tutta la pedagogia umanistica: creare
uomini di specchiata onestà, animati da un nobile senso della dignità personale,
socievoli, aperti verso tutto ciò che sia bello, sano, giusto, ordinato. Se tutti
hanno il dovere di agire secondo virtù, tanto più lo ha il maestro, tenuto oltretutto a comportarsi in modo coerente coi propri insegnamenti. Guai al letterato
che della dottrina si faccia scudo al male operare anziché innalzarla a madre
della onestà ed ornamento della vita! In questo vivo senso della responsabilità
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Il pensiero filosofico nel Quattrocento
che grava sulle spalle dell'uomo di cultura è il valore sociale della pedagogia
guariniana, mirante a formare cittadini integri ed illuminati nell'amministrare,
alacri nel promuovere il pubblico bene.
Oltre a Vergerio e a Guarino, troviamo nel Quattrocento vari altri pedagogisti che si muovono nell'ambito culturale del primo umanesimo, pur senza
appartenere all'ambiente fiorentino. Basti ricordare Vittorino da Feltre (I373I446), che fondò a Mantova una celebre scuola (la «casa giocosa») per educarvi i figli del marchese e altri giovinetti dell'aristocrazia (accogliendovi anche qualche fanciullo povero particolarmente intelligente); e Maffeo Vegio
(I 407- I 4 58) autore di un trattato dal titolo De educa tione liberorum clarisque eorum
moribus, in cui sono affrontati vari problemi di pedagogia e di morale, con il
prevalente intento di conciliare la cultura classica e la spiritualità cristiana.
Il rapido diffondersi nel primo Quattrocento di un così vivo interesse per
l'educazione è estremamente significativo. Esso conferma che, in questa fase
dell'umanesimo, il culto dei classici esercita una funzione incontestabilmente
positiva nella società: esso non induce l 'uomo di studi a rinchiudersi entro una
stretta cerchia di dotti, ma lo spinge ad interessarsi degli altri, per rinnovare ed
elevare il mondo che lo circonda.
III
· I DOTTI BIZANTINI IN ITALIA
Già accennammo nel capitolo precedente al valido ausilio, che la riunificazione tra chiesa d'oriente e chiesa d'occidente portò alla rinascita degli studi
classici, favorendo la conoscenza diretta delle grandi opere greche. È ora il
momento di aggiungere sull'argomento qualche notizia più precisa, sottolineando
anzitutto l 'importanza del fatto che proprio a Firenze si sia tenuto il concilio,
da cui tale riunificazione fu consacrata.
Molti furono infatti i dotti dell'impero orientale che vennero in questa città
nell'occasione di tale concilio al seguito dell'imperatore Giovanni VIII Paleologo
e del patriarca di Costantinopoli. Il contatto tra oriente e occidente divenne via
via più intenso negli anni successivi, finché la caduta di Costantinopoli costrinse
tutti i maggiori rappresentanti della cultura orientale ad emigrare in occidente.
Questa emigrazione ebbe, come sappiamo, un peso decisivo sullo sviluppo della
filosofia dell'umanesimo.
Uno dei più autorevoli maestri orientali, che parteciparono al concilio di
Firenze, fu Gemisto Pletone; egli si conquistò ben presto grande fama fra gli
studiosi nostrani per la sua vastissima cultura e per la approfondita difesa, svolta
dinanzi al concilio, dell'antica teologia greca. La sua breve opera (scritta in greco
verso il I44o) sulle differenze fra Platone e Aristotele venne ampiamente studiata
ed esercitò subito una profonda influenza. Malgrado l'aspetto neutrale del titolo,
essa era in realtà un'esaltazione di Platone contro Aristotele. Va però notato che
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Il pensiero filosofico nel Quattrocento
il platonismo difeso dal nostro autore non coincideva a rigore con l'autentico
pensiero dell'antico filosofo di Atene, ma piuttosto con il neoplatonismo, ben
vivo - come sappiamo - in tutta la tradizione filosofica bizantina. La tendenza
a interpretare il platonismo in senso neoplatonico risulterà dominante in tutto
l 'umanesimo ed il rinascimento.
L'opera di Pletone provocò la virulenta risposta di un altro maestro orientale,
Giorgio di Trebisonda, diretta a capovolgere il confronto a favore dello stagirita; essa aveva per titolo Comparationes philosophorum Aristotelis et Platonis (I45 5).
Così si accese una polemica che doveva proseguire per oltre un secolo, delineando due tipi di mentalità che si contrasteranno vivacemente il terreno non
solo nel campo della filosofia ma anche in quello della scienza.
Senza ~ntrare nei dettagli della polemica, basterà qui ricordare altri due nomi
di maestri immigrati in Italia dall'oriente, i quali diedero un serio contributo
alla conoscenza diretta dei testi di Platone e di Aristotele, partecipando con autorità ai dibattiti circa la superiorità dell'uno o dell'altro.
Il primo di essi è Basilio Bessarione (1403-1472) che, nominato cardinale dal
papa Eugenio rv, trascorse in Italia gli ultimi decenni della sua vita. Uomo di
straordinaria cultura, egli difese Platone con grande equilibrio; la sua difesa
riuscì tanto più efficace in quanto basata su di una perfetta conoscenza non solo
del pensiero platonico ma pure di quello aristotelico. Proprio al Bessarione si
deve una mirabile traduzione della Metafisica.
Il secondo è Giovanni Argiropulo ( r 4 I 5- I 48 7), chiamato nel I 4 57 a Firenze,
come lettore di filosofia greca. Pur avendo dedicato molti corsi all'esposizione del
pensiero aristotelico, anche Argiropulo fu un platonico, o per meglio dire, un
neoplatonico, convinto però della sostanziale armonia fra i due massimi filosofi
della Grecia: diede pertanto un carattere neoplatonico anche ai suoi commenti
ad Aristotele. Curò fra l'altro, l'edizione del testo completo delle Enneadi.
Argiropulo va particolarmente ricordato, perché contribuì più di ogni
altro a diffondere in Firenze quell'amore per Platone da cui trarrà origine l'accademia fiorentina.
IV
· LORENZO.VALLA E LEON BATTISTA ALBERTI
I due pensatori ai quali dedichiamo il presente paragrafo possono senza dubbio
venir considerati fra i massimi rappresentanti della prima fase dell 'umanesimo.
Lorenzo Valla (14o7-I457), professore all'università di Pavia, grande filologo e acuto filosofo, fu un vigoroso sostenitore dell'epicureismo, che per lui
significava soprattutto rivalutazione dell'uomo nella sua integrità, contro ogni
residuo medievalistico. Scrisse varie opere, delle quali ricordiamo: il De voluptate
ac de vero bono, che è una serrata critica dei primi quattro libri del De consolatione
philosophiae di Boezio; il dialogo De libero arbitrio che è una critica del quinto
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Il pensiero filosofico nel Quattrocento
libro di tale opera (Valla scorge in Boezio un seguace della morale stoica); le
Dialecticae disputationes, che sono una critica della logica aristotelica e scolastica;
le Elegantiae, che sono una esaltazione della filologia, intesa quale scienza del
linguaggio e, nel contempo, del pensiero che si esprime nel linguaggio, nonché
scienza delle cose attinte dal pensiero e della storia in cui il pensiero lascia
l 'impronta della propria potenza. Fra gli scritti minori merita una particolare
menzione il famoso discorso in cui è dimostrato - sulla base di una rigorosa
analisi filologica - il carattere leggendario della donazione costantiniana al
papa. A Pavia strinse rapporti di buona amicizia col Vegio, da noi ricordato nel
paragrafo u, tanto che poi lo introdusse come interlocuto:re nel citato dialogo
De libero arbitrio.
Il pensiero di V alla è in viva polemica con l'aristotelismo e con lo stoicismo.
Alla concezione aristotelica egli oppone quella epicurea sia nella spiegazione dei
fenomeni naturali (ave nega, per esempio, che le stelle siano dotate di anima e
cerca di assimilarle al fuoco terreno), sia nel campo dell'etica, ove combatte con
energia ogni forma di intellettualismo. « Se fosse vero,» sostiene, «che l'intelletto
comanda alla volontà, questa non peccherebbe mai; la realtà è, invece, che la
volontà possiede in sé la propria guida. La volontà autonoma include in sé la
ragione e, come tale, è la dominatrice dell'intero essere umano; nella volontà si
rivela la creatività del nostro essere, che decide, in un atto improvviso, del proprio destino. »
Contro lo stoicismo, Valla sostiene che il movente delle azioni è sempre
il piacere; anche i più celebri eroi di Roma, che affrontarono eroicamente il
suicidio, agirono per un piacere (per non vivere sotto il tiranno, ecc.). Il saggio,
però, antepone i danni minimi ai maggiori, e i piaceri più grandi ai più piccoli;
il piacere, così misurato (cioè l'utile, secondo la terminologia di Valla) amplia
l'azione del singolo dal campo della pura sensibilità a quello più vasto della vita
civile. La stessa religione tende alla realizzazione del piacere, sia pure ultraterreno
(cioè alla divina voluptas).
Particolare attenzione merita la filologia di Valla: essa non è una semplice
raccolta di osservazioni empiriche sui fenomeni linguistici, ma una vera filosofia
del linguaggio. Riesce in tal modo ad assumere il carattere di implacabile strumento contro la tradizione, contro la vecchia cultura, e in particolare contro
Aristotele e contro le astrattezze dei filosofi medievali (astrattezze che essi
esprimevano mediante vocaboli spuri come entitas, quidditas, perseitas, ecceitas,
illecitamente costruiti a partire dalle espressioni del linguaggio comune ens, quid,
per se, ecce). La lotta contro il latino barbarico dei parigini si trasforma nella lotta
generale contro la servitù della mente, per la completa autonomia della ragione,
per la vittoria della libertà. 1
1 Accanto al nome di Valla dobbiamo ricordare quello del tedesco Rudolf Huisman, detto
Agricola (144Z-1485), autore di una celebre opera
dal titolo De inventione dialectica. Egli assunse, co-
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Il pensiero filosofico nel Quattrocento
Lcon Battista Alberti (14o6-1472) fu uno dei più tipici ingegni universali
prodotti dalla cultura umanistica: architetto insigne, pittore, scultore, commediografo, matematico, filosofo, pedagogista. Riservandoci di ritornare sulla sua
produzione scientifica nel capitolo III, qui ci limitiamo a ricordare fra le sue numerose opere l 'interessante e filosoficamente significativo trattato Della cura della
famiglia, composto nel 1432-33, in cui vengono delineati gli insegnamenti atti
a formare l'uomo culturalmente completo del Quattrocento, ben inserito nella
città-stato italiana dell'epoca, pienamente capace di «bene et beate vivere».
L'opera è articolata in quattro libri. Nel primo si parla dei doveri reciproci tra
adulti e bambini e si espongono i principi generali della buona educazione. Nel
secondo si tratta della vita coniugale, e si fissano le condizioni della buona armonia familiare. Nel terzo si fissano i criteri della sana amministrazione. Nel
quarto, infine, si affronta il problema dei rapporti tra le varie famiglie e tra la
famiglia e lo stato.
La filosofia di Leon Battista Alberti ci fornisce un esempio preclaro di
cristiano stoicizzante che, pur nell'accettazione dell'ortodossia cristiana, mira a
un'assoluta autonomia dell'uomo, considerato come dominatore di tutta la
realtà, spirituale e materiale. In perfetta coerenza con questa concezione, egli
interpreta la religione stessa, non come lotta contro una presunta disposizione
al male che sarebbe radicata nel nostro animo, ma come esaltazione dei valori
intrinseci all'umanità, cioè come sforzo dell'uomo onde perfezionare se stesso
elevandosi a dio; significativa, sotto questo rispetto, la sua polemica contro le
preghiere, i voti, i digiuni propiziatori, ecc. Il volontarismo che anima la concezione ora accennata della religione, conduce l'Al berti a sostenere che, per riuscire virtuosi, basta volere seriamente la virtù:« Non ha virtù se non chi la vuole. »
Di fronte ad una volontà decisa ed energica, nemmeno la fortuna può avere il
sopravvento: «Tiene giogo la fortuna solo a chi sé gli sottomette. » L'uomo virtuoso estrinseca la propria natura nella vita politica, nella lotta per il progresso
della cultura, nell'investigazione dei fenomeni, nella creazione· di opere d 'arte.
V
· IL NEOPLATONISMO DI CUSANO
Gli insegnamenti dei dotti bizantini, della cui importanza abbiamo parlato
nel paragrafo III, esercitarono senza alcun dubbio una forte influenza sul pensatore
che ora ci proponiamo di esaminare brevemente. Nicola Krebs (detto Cusano)
nacque a Cusa, presso Treviri sulla Mosella, nel 1401, ma si inserisce direttamente
nella cultura del nostro paese, per aver studiato a lungo nell'università di Padova,
valido ossia se le conclusioni cui esso ci conduce sonò giuste o false. Come arte, essa è legata
alla grammatica e alla retorica. Agricola fu il
primo a introdurre il programma umanistico in
Germania.
me V alla, una posizione nettamente critica nei confronti della logica medievale, sostenendo che la
dialettica è soltanto un'arte: arte di trovare gli argomenti onde risolvere i problemi, e, in secondo
luogo, arte di giudicare se l'argomento trovato è
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Il pensiero filosofico nel Quattrocento
perché in Italia trascorse vari anni presso la corte papale, e infine perché italiani
furono molti suoi amici sui quali esercitò la maggior influenza. Partecipò attivamente alla vita politico-religiosa, dapprima associandosi al concilio di Basilea poi
passando al campo del papa; elevato da Pio n alla dignità cardinalizia, fu in Germania come legato pontificio. Di particolare importanza per la sua formazione culturale, è il viaggio da lui compiuto in Grecia come capo di una missione inviatavi
dal concilio di Basilea; durante questo viaggio ebbe contatti diretti con i più
autorevoli pensatori greci del tempo. Morì a Livorno nel 1464.
L'ampia cultura di Cusano, in cui sono ben visibili i caratteri della nuova
epoca, fu soprattutto orientata verso problemi filosofici e teologici. Distaccandosi
nettamente dalle correnti aristotelico-scolastiche, e riprendendo temi della teologia mistica, egli contribuì in misura notevolissima alla rinascita del platonismo
(o più esattamente neoplatonismo), che diverrà la filosofia umanistica per eccellenza. Nel quadro del neoplatonismo si interessò pure vivamente di matematica
(come cercheremo fra poco di spiegare), intendendola quale scienza eminentemente speculativa, atta a fornire efficaci simboli per rappresentare il nucleo più
profondo della realtà.
Le più importanti opere filosofiche di Cusano sono: il trattato De docta
ignorantia, composto nel 1440, e il De cof!iecturis. Ricordiamo inoltre alcuni scritti
minori: il De visione dei, il De beryllo, e il De quadratura circuii. Nei vari problemi
matematici particolari che egli affronta, possiamo riscontrare - frammiste a
speculazioni generali di tipo metafisica - alcune osservazioni assai pertinenti,
che rivelano nel loro autore un autentico acume scientifico.
Il punto di partenza del pensiero di Cusano è costituito dal più netto rifiuto
della presunta via razionale per giungere a dio. Ad essa egli contrappone una
via che si ricollega esplicitamente alla grande tradizione del misticismo medievale
pur trasformandolo profondamente: la via della dotta ignoranza.
Questo concetto, apparentemente contraddittorio, contiene due nozioni che
risultano entrambe fondamentali nella filosofia di Cusano: la nozione della superiorità di dio rispetto al mondo, per cui ogni conoscenza di lui risulta più
negativa che positiva (cioè più ignoranza che conoscenza); e quella espressa dal
termine «dotta», che tende ad escludere dalla posizione ora spiegata ogni tono
di scetticismo. In altre parole: l 'ignoranza nasconde, quando diventa consapevole,
un contenuto più profondo di ogni pretesa conoscenza positiva.
L'inafferrabilità di dio in termini logici, che vien contrapposta all'identificazione aristotelica di dio col primo motore, è connessa al fatto che nell'essere
supremo si verificherebbe - secondo Cusano - la coincidenza degli opposti,
l'unità di tutte le cose. Dio sarebbe quindi afferrabile unicamente per via intuitiva,
non per via razionale. In altre parole: nella realtà di dio e nella derivazione del
mondo dall'essere divino la nostra mente non potrà formulare altro che «congetture »: non arbitrarie, però, in quanto basate sulla profonda "unità tra la nostra
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mente e dio. Il termine congettura indica sì un « non-sapere », ma un non-sapere
che, per essere rivolto alla meta autentica del sapere, ci stimola ad « avvicinarci
continuamente ad essa, la quale rimane pur tuttavia sempre irraggiungibile nella
sua essenza assoluta ».
Entro questa concezione, è chiaro che la sensibilità non potrà costituire il
vero fondamento della nostra conoscenza; essa può costituire soltanto lo stimolo
psicologico che spinge l 'intelletto a sviluppare la potenza pura dello spirito:
«L'intelletto è una descrizione vivente della sapienza eterna e infinita: ma all'inizio questa vita, nel nostro intelletto, è simile a un uomo che dorme, fino a quando
lo stupore che suscita in esso il sensibile non lo spinge a muoversi. »
Ma come potrà avvenire la descrizione della sapienza eterna, se questa
supera - nella sua infinità - la finitezza del nostro intelletto? Cusano pensa che
essa possa avvenire solo per simboli, e pensa che i simboli più idonei a questo
fine ci possano proprio venire forniti dalla matematica. La matematica infatti
contiene, essa pure come la divinità, taluni procedimenti che rivelano in modo
palese casi di coincidenza degli opposti: allorché, per esempio, si suddivide
all'infinito la circonferenza, si giunge a un arco minimo il quale coincide con il
suo opposto, cioè con la corda che lo sottende; e ancora, se si aumenta il diametro
della circonferenza, questa diminuisce sempre più la propria curvatura, onde
giunge al limite a identificarsi con il suo opposto, cioè con la retta; anche in
un triangolo otteniamo una coincidenza degli opposti, se rendiamo infinite le
sue dimensioni, poiché al limite i tre lati verranno a fondersi in un'unica retta.
Da notarsi che qui non è solo la matematica a fornire un ausilio alla teologia,
ma è anche questa a potenziare quella; come scrive acutamente il Cassirer, « è
la matematica che, solo mediante il passaggio attraverso la teologia, può venir
sollevata al più alto grado della sua perfezione ».
Se l'antitesi fra l'infinità di dio e la finitezza della natura (in particolare
della natura umana) è assoluta, va comunque osservato che essa risulta mediata,
secondo la teologia cristiana fatta propria dal Cusano, dalla personalità del verbo
incarnato. Da questo mistero il nostro autore deduce però un tema squisitamente
umanistico : come il verbo incarnato, così anche l 'uomo (inteso nella sua concretezza di anima e corpo), unifica in sé i due opposti della luce e delle tenebre. Egli
può quindi venir considerato come un « dio umano » cioè come microcosmo in
cui «vi è un'unità, che è l'infinità stessa, umanamente contratta».
Dalla nozione della coincidenza in dio di tutti gli opposti, Cusano ricava
infine la relatività delle rappresentazioni che non sanno cogliere la coincidenza
anzidetta; ricava in particolare la relatività delle rappresentazioni di luogo e di
movimento. È un'idea molto feconda per la critica della conoscenza: essa conduce,
fra l'altro, alla conclusione che ogni punto può dirsi, a pari diritto, centro dell'universo. Non è ancora l'ipotesi copernicana, ma è certo la distruzione della
base filosofica, su cui si fondava la teoria geocentrica.
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Per l'interesse di questa concezione, e per l'importanza attribuita alla matematica nella conoscenza del vero essere del mondo, il neoplatonismo di Cusano
può considerarsi come una delle filosofie che esercitarono maggiore influenza
su tutto il pensiero del xv e xvi secolo.
VI
· L'ACCADEMIA PLATONICA DI FIRENZE
A differenza dei vecchi istituti universitari, ormai disseminati in tutta l'Europa e ovunque dominati da rigidi schemi dottrinali, l'accademia platonica di
Firenze, sorta per la protezione di Cosimo de' Medici, intende rappresentare un
centro culturale di tipo nuovo. Essa è un'organizzazione più aperta delle università, più libera, più sensibile alla nuova atmosfera culturale in via di rapida formazione. La sua stessa nascita la pone al di fuori della pesante tradizione medievale; in essa non vi sono più maestri e discepoli, separati da rigidi gradi gerarchici, né argomenti di insegnamento rigorosamente determinati. Vi partecipano
filosofi, letterati, artisti, scienziati; vi si riflette, insomma, tutta la parte più
viva della cultura che si sta sviluppando in Toscana. A sua volta l'accademia
potrà esercitare la sua opera stimolante in ambienti nuovi, sfuggiti fino allora
all'azione diretta dei dibattiti filosofici.
Il maggiore personaggio dell'accademia fiorentina fu Marsilio Ficino. Nato
a Figline nel 143 3, chiamato a Firenze da Cosimo de' Medici, traduttore (in latino)
e commentatore di Platone, Plotino e vari altri neoplatonici, Ficino espose il
proprio pensiero in numerose opere, di cui ci limiteremo a ricordare la Theologia
platonica de immortalitate animorum. Morì nel 1499·
Il problema centrale del suo pensiero è quello religioso; l 'intento che si
propone nei suoi scritti è fondamentalmente apologetico. Il modo, però, che egli
sceglie per difendere il cristianesimo è quanto mai caratteristico della nuova
atmosfera umanistica. Ficino non oppone il cristianesimo alle altre religioni;
sostiene, al contrario, che, in ultima istanza, le varie religioni coincidono tra loro,
derivando tutte da una profonda religiosità che è naturale nell'uomo (come, egli
spiega, è naturale il nitrito per i cavalli, l'abbaiare per i cani, ecc.). Il cristianesimo
non è che la più perfetta delle religioni, quella che meglio interpreta la religiosità
insita nella nostra natura. Poiché la consapevolezza di tale religiosità costituisce la
docta religio, identificantesi con la filosofia, ne segue che questa viene praticamente
ad assorbire in sé quanto vi è di più elevato nel cristianesimo.
Non occorre aggiungere altre parole, per spiegare il carattere filosofico e
aristocratico della religione ficiniana; il suo autore crede di muoversi nella tradizione cristiana, ma in realtà appartiene per intero alla corrente neoplatonica.
Dal neoplatonismo egli attinge, per esempio, la concezione di dio come l 'uno
che raccoglie nella semplicità del suo essere gli esemplari ete,rni di tutti i singoli
oggetti esistenti nel mondo; attinge inoltre la concezione del!' anima cosmica,
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Il pensiero filosofico nel Quattrocento
che pervade tutto l 'universo, facendo della stessa natura apparentemente inerte
qualcosa di animato; e infine l 'interpretazione del processo conoscitivo, attuantesi
nel nostro intelletto, come un immergersi di questo intelletto nell'infinito della
coscienza divina.
Sulla base di tale concezione di dio e dell'uomo, Ficino deve ammettere che
dio ha potuto rivelarsi all'umanità anche prima della comparsa storica di Cristo;
ed effettivamente si è rivelato al « divino » Platone, come a tutti gli autentici
filosofi, capaci di afferrare la vera natura ddl 'universo. Egli si rivela però, sia
pure in forma meno elevata, anche ai non filosofi, quando sappiano prestare
ascolto alla propria coscienza interiore. Così Ficino giunge a riconoscere che
la salvezza è possibile anche fuori del cristianesimo (problema, questo, che da
secoli preoccupava i più nobili spiriti cristiani, come risulta per esempio dai versi
70-90 del canto xxrx del Paradiso dantesco); ammette cioè che tutti gli uomini i
quali - senza conoscere la religione cristiana - osservano scrupolosamente i
dettami dell'etica naturale, possono conseguire uno stato di perfetta beatitudine
come le anime cristiane.
Non occorre aggiungere altre parole per spiegare per qual motivo il cristianesimo filosofico di Ficino dovesse risultare insensibile di fronte alle esigenze
ben più concrete di una religione sofferta e combattiva quale fu quella del Savonarola. Di qui l'assoluta incomprensione fra i due; di qui la sistematica ostilità
del filosofo nei confronti dell'opera riformatrice del coraggioso frate.
Alla religione immanente, ora delineata, Ficino collega vari motivi di ispirazione schiettamente umanistica, che costituiscono la ricchezza della sua filosofia:
esaltazione della bellezza del mondo, considerato come emanazione vivente dell'assolutezza divina; appello all'arte, per trovarvi la garanzia suprema del valore
universale delle idee; certezza della dignità dell'anima umana, concepita come
aemula dei; energica affermazione della superiorità dell'amore rispetto all'intelletto, al fine di raggiungere la visione di dio, ecc. Sono tutti temi molto caratteristici, evidentemente rivolti a conciliare in armoniosa unità la complessa esperienza spirituale dell'uomo. Pur senza includere direttamente il problema della
conoscenza naturalistica, essi finiscono per aprire nuove e mirabili possibilità
ad un fiducioso contatto con la natura.
Alla filosofia di Ficino si ricollega quella di Giovanni Pico della Mirandola
(1463-1494), che, dopo aver studiato a Bologna ed essere stato in relazione con
gli averroisti padovani, entrò in contatto coll'accademia fiorentina nel 1484.
Anche Pico è attratto dalle concezioni neoplatoniche; egli vorrebbe però giungere ad una nuova più ampia filosofia, capace di conciliare e sintetizzare platonismo, aristotelismo e perfino la tradizione misterica della cabbala, da lui profondamente studiata. E analogamente nel campo religioso, egli mira ad una integrazione
delle varie religioni fra loro.
Nel quadro della concezione, a sfondo neoplatonico, di Pico trova un'am-
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Il pensiero filosofico nel Quattrocento
pia giustificazione la magia, rivolta a cogliere le strutture numeriche che costituiscono la realtà profonda delle cose. Egli si oppone invece energicamente ali 'astrologia e, proprio in nome della libertà del volere umano, che ritiene condizionato
dal carattere empirico dell'individuo (oltreché dalle leggi della provvidenza divina), ma non necessitato dagli influssi degli astri.
Nella polemica contro l 'astrologia si inquadra la coraggiosa esaltazione pichiana del valore dell'uomo, considerato non più soltanto quale microcosmo o
essenza media dell'universo (come pensavano Cusano e Ficino), ma quale creatore
del proprio destino, simile a dio e perciò « degno di rispetto e di adorazione ».
Si tratta, come ognuno vede, di un atteggiamento ricco di viva modernità, che
si trova tuttavia costantemente mescolato ad un senso del misterioso e del fantastico, caratteristico non solo di Pico ma di quasi tutti gli uomini della sua epoca.
Prima di chiudere questo paragrafo, è doveroso aggiungere un cenno alla
vasta e profonda influenza che Ficino e Pico esercitarono anche al di là delle
Alpi. Tre nomi potranno bastare a darci un'idea dello stretto legame fra tutto il
movimento umanistico europeo e la gloriosa accademia di Firenze: quelli di
J ohannes Reuchlin (I 4 5 5- I 5 2 2 ), grande umani sta tedesco che subì soprattutto
l'influenza di Pico; di John Colet (I467-I519) celebre studioso inglese, il quale
ebbe preziosi contatti con Ficino e con Pico, traendone impulso per tentare un
rinnovamento della religione; e infine di Jacques Lefèvre d'Etaples (I45 5-I 5 36),
l'iniziatore dell'umanesimo francese, che si educò egli pure al platonismo di
Ficino e di Pico.
VII
· LENTO RISVEGLIO DELL'INTERESSE PER LE SCIENZE
Abbiamo avuto modo di constatare, seguendo lo sviluppo dell'umanesimo,
come esso riveli un'apertura via via maggiore verso i problemi naturali, senza
dubbio dettata dalla tendenza a vedere nella natura un'espressione diretta dell'essere divino. Se però confrontiamo l'impostazione data a tali problemi dagli umanisti con quella, per esempio, di Biagio Pelacani (di cui abbiamo parlato nel capitolo vu della sezione u), dobbiamo purtroppo riconoscere un inn~gabile regresso in questo settore della ricerca. Il fatto è che Pelacani non riuscì a trovare
neanche negli indirizzi filosofici estranei ali 'umanesimo, chi fosse veramente capace di proseguire e approfondire il suo pensiero. Lo spirito d'osservazione si
sviluppò, durante tutto il Quattrocento, non tanto negli scienziati e filosofi quanto
nei tecnici e negli artisti come cercheremo di chiarire nel prossimo capitolo. Solo
nel Cinquecento esso travalicherà i confini della tecnica e dell'arte, e, trovando
ormai negli eredi dell'umanesimo una disposizione d'animo favorevole allo studio
della natura, darà luogo a un fiorire davvero imponente di ricerche scientifiche.
La scienza che ha maggiormente interessato, anche nel suo aspetto tecnico,
i filosofi umanisti è stata - come sappiamo - la matematica, che, sia pure
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Il pensiero filosofico nel Quattrocento
inquadrata in' una concezione generale assai poco scientifica, ha trovato in alcuni
di essi dei valentissimi cultori (si pensi per esempio a Nicola Cusano).
È doveroso, però, segnalare un altro, assai valido, contributo fornito dall'umanesimo alle scienze: esso consiste nella traduzione di testi classici di argomento scientifico, condotta direttamente sull'originale e con uno scrupolo filologico prima ignoto. Anche questo benefico effetto si farà sentire soprattutto nel
Cinquecento; tuttavia già nel Quattrocento se ne hanno i primi risultati.
Il più illustre .traduttore di opere scientifiche, vissuto in pieno clima umanistico, è stato Johannes Miiller (1436-1476) detto Regiomontano, dal nome della
città natale (Konigsberg). Fin da giovane si dedicò con passione allo studio dei
classici e delle scienze matematiche. Venne in Italia per porsi a contatto col cardinale Bessarione (sopra ricordato nel paragrafo m) e per completare la propria
cultura di astronomo; dopo vari trasferimenti (a Vienna, a Budapest, a Norimberga), tornò a Roma chiamatovi dal papa per preparare la riforma del calendario,
e quivi restò fino alla morte.
Regiomontano impersona mirabilmente il gusto umanistico per l'erudizione,
rivolto però soprattutto alle grandi creazioni della matematica e dell'astronomia
greca. Studioso molto serio di Euclide e di Tolomeo, condusse a termine una
rigorosa traduzione latina dell'Almagesto, iniziata dal suo maestro Georg
Purbach (I423-146I), ed espose il sistema tolemaico in· un'opera famosa dal
titolo Epitome in Almagestum (pubblicata postuma nel 1496), nella quale rifulge
la sua perizia di astronomo e di ottimo conoscitore dei testi originali greci. Si
interessò pure di storia della matematica, contribuendo a diffondere la conoscenza
di Euclide, e compose un grande trattato di trigonometria dal titolo De triangulis
omnimodis (pubblicata solo parecchi anni dopo la sua morte, nel I 53 3). I suoi
studi di trigonometria verranno ripresi e approfonditi da Copernico.
Una menzione particolare va fatta dell'italiano Giorgio V alla (1447-1 5oo),
professore a Pavia, Milano, Genova e Venezia che - come scrive C. Vasoli ci fornisce «la dimostrazione forse più evidente dell'incontro fra la tradizione
umanistica degli studia humanitatis e larghi interessi scientifici ». Il suo contributo
più importante a questo incontro è costituito da due volumi, usciti nel qo1 col
titolo De expetendis et fugiendis rebus opus, che formano una raccolta a carattere
enciclopedico di ampi squarci di scritti scientifici, fino ad allora ignoti, di autori
greci e latini (Ippocrate di Chio, Aristarco di Samo, Erone, Archimede, Boezio,
ecc.). In essa «motivi logici di vicina e chiara ispirazione umanistica si uniscono
alla conoscenza e all'uso di tecniche proprie della "fisica " nominalistica, e alla
conoscenza diretta e originale dei grandi documenti della scienza classica » (Vasoli). A lui si deve pure una traduzione latina della Poetica di Aristotele.
Chiuderemo il paragrafo con qualche cenno al matematico Luca Pacioli
(1445-15 14) che, senza essere un umanista, ris~ntì assai da vicino l'influenza
dell'interpretazione neoplatonica della matematica, propria dell 'umanesimo.
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Il pensiero filosofico nel Quattrocento
Le principali opere di Pacioli furono: una specie di en~iclopedia matematica dal titolo Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità composta nel 1494 e pubblicata qualche anno più tardi (essa è scritta in una lingua
che vorrebbe essere volgare, ma è uno strano miscuglio di parole italiane, latine
e greche), e il De divina propor/ione (1 509) in tre parti, la prima delle quali è illustrata da splendide figure disegnate da Leonardo da Vinci.
Luca Pacioli non è un ricercatore originale; infatti la sua Summa attinge largamente dalle opere di Fibonacci e il De divina proportione non è che il rimaneggiamento di uno scritto di Pier della Francesca. Egli ha però il merito di saper diffondere tra vasti strati l 'interesse per la matematica, e soprattutto la conoscenza
dell'algebra (al livello, già notevole, a cui l'aveva portata Fibonacci); inoltre
comincia a introdurre, nelle espressioni algebriche, alcune felici abbreviazioni,
avviando tale scienza verso la cosiddetta scrittura sincopata. Se gli algebristi italiani del Cinquecento riusciranno - come vedremo nel capitolo VI - a realizzare nello studio delle equazioni straordinari progressi, bisogna riconoscere che
è stato Luca Pacioli a preparar loro efficacemente il terreno.
Quanto al significato che egli attribuisce alla matematica, sono degne di nota
le sue oscillazioni fra due interpretazioni pressoché antitetiche: in tal uni casi
(come testé ricordammo) accoglie. con disinvoltura le più caratteristiche istanze
del neoplatonismo umanistico, cercando nei numeri recondite qualità mistico-magiche; in altri casi invece interpreta la matematica in funzione essenzialmente
tecnica (nella Summa si preoccupa perfino di esporre il cosiddetto metodo della
partita doppia, già in uso da circa un secolo nei grandi empori commerciali).
Sono oscillazioni che denunciano i limiti della preparazione scientifica di Pacioli;
ma possono tuttavia valere come sintomi generali di profonde contraddizioni
che esistevano, relativamente a questo settore, in tutta la cultura del Quattrocento.
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CAPITOLO TERZO
La tecnica nel Quattrocento. Leonardo da Vinci
l
·
SGUARDO PANORAMICO AI VARI PROGRESSI DELLA TECNICA
Il risveglio della tecnica nel mondo occidentale risale, come è ben noto, al
medioevo. Ma il Quattrocento vede senza dubbio un rapido moltiplicarsi delle
ricerche tecniche e soprattutto degli sforzi per applicare i nuovi ritrovati a tutte
le attività della vita civile.
Così per esempio l'arte della lana poté trarre notevoli vantaggi dai perfezionamenti meccanici apportati ai telai: un nuovo tipo di essi, il cosiddetto « telaio a
tirella » è descritto in un codice quattrocentesco fiorentino dal titolo Trattato
dell'arte della seta di autore anonimo.
Sempre nuove tecniche vennero pure introdotte nella lavorazione del vetro
(concentrate a Murano). E dovevano essere molto preziose, se il governo di Venezia sentì l'esigenza di provvedere con severità a sorvegliarne la segretezza.
È risaputo che già nel Trecento aveva cominciato a diffondersi sulle navi
l'uso del timone (comparso sui mari del nord alla fine del xm secolo); furono
però i successivi perfezionamenti di tale utilissimo dispositivo di guida e lo
sviluppo delle velature a provocare un'autentica rivoluzione della navigazione.
Intanto i progressi della carpenteria rendevano possibile la costruzione di navi
da guerra e da trasporto di dimensioni sempre maggiori. Nel contempo si rinnovavano e perfezionavano gli strumenti di bordo: la bussola (già in uso, probabilmente, fin dal xn secolo), il solcometro per la misura delle distanze in navigazione (un nuovo tipo di solcometro fu ideato da Leon Battista Alberti),
il batometro per la misura delle profondità, l'astrolabio marittimo (il cui uso è
per la prima volta registrato in un documento del 1481), ecc. È sulla base di
tutti questi piccoli e grandi progressi tecnici che, a partire dalla fine del Quattrocento, i grandi navigatori potranno realizzare le loro storiche imprese.
Anche l 'invenzione della polvere da sparo risale, con probabilità, al XIII
secolo; certo è che i primi cannoni fanno la loro comparsa nella prima metà
del secolo successivo, ma ancora con scarso successo. Perfino nel Quattrocento
essi si rivelano, talvolta, più pericolosi per chi li usa che per colui contro il quale
vengono usati. Sono stati soprattutto i progressi realizzati dalla metallurgia a
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La tecnica nel Quattrocento. Leonardo da Vinci
rendere possibile il loro graduale perfezionamento. Nel 1412 si cominciarono a
fabbricare a Lilla i primi cannoni in ghisa; nella seconda metà del secolo i miglioramenti ottenuti nella fusione del bronzo e del ferro consentono la fabbricazione di pezzi sempre più resistenti. La tecnica della guerra sta per rinnovarsi
completamente.
Anche i primi passi della stampa sono resi possibili dai progressi della metallurgia. Se la xilografia era già in uso nel secolo precedente, e l'impressione con
tipi mobili era già nota prima del 1440, l'utilizzazione sistematica di questi tipi
si ebbe in Europa solo fra il 1440 e il '5o. Sappiamo con certezza che nel 1447
era in funzione a Magonza una tipografia condotta da Hans Gensfleisch detto
Gutenberg e da Johannes Fust: fu essa a stampare le prime opere pervenute
fino a noi (qualche verso di un poemetto tedesco sul Giudizio universale e un Calendario per il 1448). Oggi la più avveduta critica storica tende a sminuire la funzione innovatrice dell'invenzione della stampa (scrive per esempio Adriano Carugo: « La stampa, in un primo tempo, fu messa al servizio della tradizione, ossia
fu utilizzata come potente strumento per consolidare e diffondere più estesamente
verità e nozioni già saldamente acquisite dal sapere tradizionale »); è tuttavia un
fatto innegabile che essa costituirà uno dei punti di partenza del mondo moderno.
Gli studi di idraulica compiono, essi pure nel Quattrocento, notevoli progressi, e - come vedremo nelle prossime pagine- sollevano problemi che esigeranno, con sempre maggiore urgenza, una più stretta collaborazione fra tecnica e scienza. Così accadrà anche per la tecnica della progettazione architettonica, a cui dedicheremo, per la sua importanza, un intero paragrafo.
Vogliamo infine accennare al nuovo interesse per la pratica del calcolo aritmetico, che sorge dal diffondersi del commercio e dalla importanza sempre maggiore assunta dai problemi amministrativi. È assai sintomatico che il primo libro
di matematica cui spettò l'onore della stampa --l'Aritmetica di Treviso del 1478fu proprio un manuale didattico specialmente rivolto agli apprendisti del commercio, e cioè- come scrive l'anonimo autore-« ad alchuni zovani a mi molto
dilectissimi; li quali pretendevano a dover voler fare la merchandantia. »
Il carattere tecnico-pratico di questi studi determinò il formarsi, nel Quattrocento, di una interpretazione della matematica completamente diversa da quella
che nei medesimi anni era sostenuta dai platonici del gruppo fiorentino, come
fondamento della loro concezione del mondo. Abbiamo accennato, alla fine
del capitolo precedente, alla simultanea presenza delle due antitetiche interpretazioni in Luca Paci oli; e vedremo, parlando fra poco di Leonardo da Vinci,
che anche in lui si possono trovare tracce dell'una e dell'altra. Leonardo, però,
saprà elevare la matematica pratica ad un nuovo più alto livello riprendendo la via
che era sta~a aperta nell'antichità dal grande Archimede.
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II
· NUOVE ISTANZE CULTURALI
PROVENIENTI DALLO SVILUPPO DELLA TECNICA
Singolarmente prese, le innovazioni tecniche menzionate prima non potevano avere un effettivo peso culturale. Tutte insieme, però, esse sono riuscite a creare nella società del Quattrocento un nuovo ambiente, che ben presto
fu in grado di porre alla cultura dell'epoca nuovi problemi fortemente stimolanti.
Riassunta in poche parole, la situazione era questa: i tecnici, formatisi nella
pratica artigianale, non erano più in grado, da soli, di affrontare e risolvere i
problemi che venivano via via aperti dai progressi recentemente conseguiti; d'altra parte la società non poteva tollerare che la soluzione di tali problemi venisse
rinviata o comunque rallentata, tanto era ormai chiaro a tutti che la forza degli
stati e la ricchezza dei cittadini dipendeva strettamente dai successi della tecnica.
Di qui la necessità di formare una nuova categoria di tecnici, o più propriamente ingegneri, capaci di impostare gli anzidetti problemi in forma più razionale. Ma quale doveva essere la preparazione di questo nuovo tipo di studiosi?
Donde avrebbero essi potuto attingere le informazioni delle quali avevano tanto
bisogno? Era purtroppo ben evidente che non sarebbero state in grado di fornirgliele né la filosofia ufficiale insegnata nelle università, né quella a indirizzo prevalentemente letterario elaborata dagli umanisti.
Malgrado i suoi limiti intrinseci, l 'umanesimo riuscì tuttavia a fornire un ausilio prezioso per colmare la grave lacuna; questo consistette nei testi di scienziati e ingegneri dell'antichità, che i filologi misero a disposizione degli studiosi
dell'epoca. «La scoperta di un nuovo testo non era soltanto un fatto di importanz& archeologica,» scrive George Sarton, «essa era (o almeno poteva essere)
un'aggiunta positiva alle conoscenze che stavano a disposizione degli scienziati o
medici contemporanei. » Da questo punto di vista fu soprattutto positiva la conoscenza degli Elementi di Euclide e ancor più delle opere di Archimede e di
Erone (se è vero che alcuni di tali testi erano già noti ai medievali, vero è pure
che la presentazione critica di essi, fatta dai nuovi filologi, ne permetteva uno
studio molto più approfondito e completo). La scoperta o riscoperta delle grandi
opere scientifiche dell'antichità esercitò un'azione determinante sullo sviluppo
della scienza pura e applicata in tutto il rinascimento.
È chiaro comunque che lo studio dei classici non poteva bastare. La soluzione
dei difficili problemi sollevati dalla tecnica richiedeva innanzi tutto e soprattutto
un nuovo modo di esaminare la natura, non più rivolto a coglierne i principi
generali, ma a determinare il corso dei singoli fenomeni, a descriverli esattamente
in tutti i loro particolari per poterli riprodurre, controllare e regolare a nostro
vantaggio. Gli innumerevoli studi di Leonardo sul volo degli uccelli costituiscono
un tipico esempio di questo nuovo modo di osservare la natura.
Senza dubbio, per conseguire qualche effettivo risultato furono necessari
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La tecnica nel Quattrocento. Leonardo da Vinci
molti tentativi, pazienti e accuratissimi, e in tal uni casi (come appunto in quello
del volo) neanche la tenacia e la genialità di Leonardo riuscirono a realizzare l'intento voluto (che, nel caso citato, era quello di costruire una macchina capace di
farci volare). Comunque i successi, sebbene parziali, valevano senza alcun dubbio a
compensare le fatiche e spingevano altri studiosi ad avviarsi per la medesima
strada. Si formava così, a poco a poco, una nuova categoria di scienziati che portavano nelle proprie indagini un tipo non tradizionale di interessi: che certamente
studiavano a fondo la matematica ma per servirsene subito nelle più varie applicazioni, che osservavano la natura ma non solo per comprenderla bensì per riprodurla, che leggevano i più difficili testi scientifici ma non disdegnavano di
avvalersi della collaborazione dei tecnici, riflettendo seriamente sui risultati della
loro modesta ma prolungata esperienza.
È una mentalità nuova, quella ora accennata, che trova senza dubbio un'effettiva rispondenza e un certo appoggio (sia pure indiretto) nel clima creato dagli
umanisti, esaltatore dell'uomo attivo e costruttivo. Malgrado questo appoggio,
essa incontrerà tuttavia ancora molte resistenze, prima di giungere ad affermarsi
in modo definitivo. Alla fine, comunque, riuscirà a prevalere, e la sua vittoria
varrà ad introdurre profonde modificazioni nella stessa problematica filosofica,
se non altro perché proporrà una nuova concezione del sapere scientifico (come
spiegheremo meglio parlando di Galileo).
Per ora vogliamo !imitarci a far presente una conseguenza assai più banale e
immediata: la favorevolissima ripercussione che il sorgere del nuovo tipo di studiosi ebbe sulla valutazione sociale dello scienziato. Proprio perché lo « scienziato-ingegnere » è capace di fornire qualcosa di concreto alla società, questa è disposta a riconoscere concretamente il suo valore, anche nella retribuzione delle
sue prestazioni. Come scrive bene Adriano Carugo« l'ingegnere diventa un personaggio ufficiale, ascende a una posizione di prestigio pari, e talvolta superiore, a
quella di cui avevano fino allora goduto il medico e l'astronomo di corte, ed è
mantenuto dal principe o dall'amministrazione dello stato per i bisogni del governo e della collettività ». Sarà proprio questo prestigio ad attirare alla scienza
nuove energie, con indiscutibile vantaggio per il progresso degli studi.
III
· PITTURA, ARCHITETTURA E GEOMETRIA
Un discorso del tutto particolare è richiesto dal contatto arte-scienza-tecnica
che si realizzò nella pittura e nell'architettura del Quattrocento. È risaputo che
queste arti parteciparono direttamente al movimento umanistico di ritorno alla
classicità. Ciò che qui occorre sottolineare è che il nuovo stile, elaborato dall'architettura e dalle arti figurative del Quattrocento, richiese un rinnovamento della
tecnica (in particolare del disegno) il quale recò un contributo di fondamentale
importanza allo sviluppo della scienza geometrica.
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La tecnica nel Quattrocento. Leonardo da Vinci
Prima di addentrarci in qualche più specifica considerazione sarà opportuno
richiamare alcuni nomi.
Filippo Brunelleschi (1377-1446), sommo architetto dell'epoca, comprese
chiaramente l'importanza della prospettiva, non più intesa nel senso medievale
di scienza generale della luce, ma nel senso prettamente geometrico che essa
conserva anche nei trattati odierni. Introdusse la costante considerazione del
cosiddetto «occhio», che compie una funzione essenziale nell'impianto del disegno prospettico.
Di Leon Battista Alberti abbiamo già parlato nel capitolo precedente. Qui
basti aggiungere che egli fornisce una prima definizione della prospettiva di un
corpo, come intersezione del quadro con la corrispondente superficie visuale.
Fra le sue opere di argomento artistico e matematico ricordiamo: Gli elementi di
pittura, De re aediftcatoria, e infine i Ludi matematici. Quest'ultima è una raccolta
di vari problemi, alcuni dei quali di interesse puramente teorico, altri di interesse
pratico (è in quest'opera che egli descrive il nuovo solcometro di cui parlammo
nel primo paragrafo); anche se non mancano gli errori, la trattazione rivela un
notevole acume e una grande cultura scientifica.
Pier della Francesca (1406-1492) può venir considerato il vero teorico della
nuova prospettiva. Su di essa compose un trattato, dal titolo De perspectiva pingendi, che affronta i vari argomenti di questo ramo della geometria con un'ampiezza e profondità veramente esemplari. L'opera fu letta da molti contemporanei,
ma non pubblicata fino a tempi recenti. Scrisse pure un libro di geometria pura,
De corporibus regularibus, che tratta problemi classici di poligoni, poliedri e altre
figure piane e solide: è lo scritto utilizzato con molta disinvoltura da Luca Pacioli, come ricordammo nell'ultimo paragrafo del capitolo n.
Albrecht Diirer (1471-1528), uno dei maggiori pittori tedeschi dell'epoca
(ma legato all'ambiente italiano) scrisse egli pure un'opera di geometria, con il
precipuo scopo di insegnare questa disciplina agli artisti.
Tutti gli autori ora menzionati attribuiscono alla prospettiva· il preciso compito di determinare le regole tecniche onde costruire un disegno esatto, quando
siano dati l'oggetto e la posizione dell'occhio. Per risolvere tale compito, hanno
anzitutto bisogno di una buona conoscenza della geometria classica; ma poi
vanno al di là di essa, inoltrandosi in quel campo di indagini specifiche che oggi
porta il nome di geometria descrittiva. Essi non posseggono ancora una visione
sistematica di questa disciplina (che verrà elaborata solo alla fine del Settecento da
Gaspard Monge), ma ne introducono alcune nozioni fondamentali e alcuni metodi caratteristici che adoperano con grande perizia. Così riescono a dipingere quadri
o a progettare opere architettoniche, che soddisfano pienamente il nuovo gusto
dell'epoca. Pur riprendendo temi delle antiche opere romane, raggiungono una
autentica originalità. La loro passione per la purezza geometrica, che si traduce
in esattezza di proporzioni, in armonioso equilibrio delle parti entro il tutto,
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La tecnica nel Quattrocento. Leonardo da Vinci
dimostra che, in essi, la concezione artistica e quella scientifica si sono compenetrate perfettamente una con l'altra, senza alcuna frattura.
Proprio questa perfetta compenetrazione è stata forse uno degli elementi
più stimolanti nella cultura del Quattrocento. Essa infatti è riuscita a sviluppare
nel mondo umanistico - inizialmente così diffidente nei confronti del rigore
geometrico- una nuova disposizione d'animo verso la matematica, di cui bisognava ormai riconoscere l'apporto essenziale alla stessa creatività artistica.
Va inoltre sottolineato che la matematica rivelava qui il proprio valore,
non tanto da un punto di vista filosofico astratto (come espressione della divina
armonia dell'universo) quanto da un punto di vista umano, cioè come strumento
indispensabile all'homo faber per ideare e realizzare le più belle costruzioni di cui
egli sia capace. Era un passo di fondamentale importanza per la riconquista di
una profonda, concreta, unità della cultura.
IV
· LEONARDO DA VINCI
La produzione artistica di Leonardo da Vinci (1452-1 519) è notissima. Non
altrettanto può dirsi tutt'oggi dei suoi contributi al rinascere della scienza. Gli è
che questi contributi non vennero da lui raccolti in qualche opera sistematica,
ma lasciati in forma di appunti disorganici, spesso di semplici annotazioni suggerite dagli argomenti più diversi che si presentavano alla sua riflessione. Esiste
sì un Trattato della pittura che porta il suo nome, pubblicato per la prima volta nel
1651, ma è opera di un suo allievo, che lo compilò su passi del maestro. È certo
tuttavia che, seppure allo stato di appunti, i pensieri di Leonardo dovettero circolare largamente nel Cinquecento, esercitando un'influenza tutt'altro che trascurabile su quanti si occupavano di ricerche scientifiche. In tempi recenti, sono stati
in buona parte pubblicati e formano oggetto di approfonditi studi da parte degli
storici dell'arte, della scienza, e in generale della cultura. Di particolare importanza è il cosiddetto Codice atlantico, di cui si cominciarono a pubblicare ventiquattro tavole scelte nel r872; l'edizione completa in otto volumi venne poi eseguita fra il 1891 e il 1904 a cura dell'accademia dei Lincei.
L'interesse dell'opera di Leonardo, dal punto di vista della storia del pensiero
filosofico-scientifico è enorme. In lui confluiscono vari filoni culturali: innanzitutto quello che si stava maturando nel mondo dei tecnici e del quale abbiamo
parlato nei primi paragrafi di questo capitolo; in secondo luogo quello dei cosiddetti fisici parigini, che, come sappiamo dalla sezione rr, era stato introdotto in Italia da Biagio Pelacani; in terzo luogo il filone neoplatonico degli
umanisti, da cui Leonardo attinge alcune idee fondamentali come il parallelo fra
l'uomo e l'universo. Va però notato che egli fonda questo parallelo più su analogie fra la costituzione materiale del corpo umano e quella del mondo, che non
su considerazioni filosofiche generali: inoltre respinge la concezione animistica
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La tecnica nel Quattrocento. Leonardo da Vinci
dell'universo, ammettendo sì che esso provenga da dio, ma interpretando in
senso meccanicistico l'ordine impresso da dio al mondo. Per quanto riguarda
l'anima, egli si rifiuta di entrare nelle discussioni metafisico-teologiche sulla sua
natura e le sue funzioni, !asciandone la teorizzazione ai frati « li quali per ispirazione sanno tutti li segreti ».
Di particolarissima importanza è la sua concezione del sapere scientifico e
del metodo che occorre seguire per conquistarlo. Dal punto di vista metodologico, egli può venir considerato un precursore di Galileo, per l'importanza essenziale attribuita sia all'esperienza che alla matematica; anzi, non si può escludere che Galileo,· nell'elaborazione del suo metodo matematico-sperimentale,
abbia proprio subito, sia pure indirettamente, l'influenza di Leonardo. Ma per
comprendere meglio la concezione leonardesca della scienza, sarà bene riassumere brevemente alcuni dei maggiori contributi scientifici da lui lasciati.
Cominciando dalla meccanica, di cui Leonardo si occupò innumerevoli volte
sia dal punto di vista teorico che da quello applicativo, va subito segnalata la sua
geniale intuizione del principio di inerzia. Abbiamo detto « intuizione », e non
« scoperta », poiché Leonardo non giunse propriamente alla formulazione di
tale principio, né poteva giungervi essendo rimasto costantemente legato alla
teoria dell'i!llpetus, di provenienza parigina.
Come sappiamo, questa teoria affermava che, allorquando un motore imprime a un corpo un determinato movimento, gli fornisce con ciò stesso una realtà
- l'impeto - che sarà la causa del proseguimento del moto. Questa realtà sarebbe proporzionale al peso del mobile e alla sua velocità. Orbene, mentre i creatori della teoria dell'impeto immaginavano che la quantità di impeto, posseduta
all'inizio dal mobile, andasse via via estinguendosi, Leonardo sostenne invece
che essa rimaneva naturalmente immutata (e di conseguenza rimaneva invariabile
il moto del corpo), salvo a disperdersi per effetto di forze esterne agenti da freno.
Non è ancora l'enunciato esatto del principio di inerzia, ma è senza dubbio una
notevolissima approssimazione di esso. Basti pensare all'intuizione che ne aveva
avuto Democrito, per comprendere l'enorme progresso costituito dall'enunciato
di Leonardo.
Sempre restando nel campo della meccanica, va inoltre ricordato che Leonardo intuì pure il principio della composizione delle forze e quello del piano
inclinato, da lui assunto come base per la spiegazione del volo degli uccelli. La cosa
veramente meravigliosa è che queste intuizioni non restano, in lui, su di un piano
esclusivamente teorico, ma si traducono in tentativi di realizzazione o per lo
meno di progettazione tecnica. Sono progetti che egli illustra con accuratissimi
disegni, sui quali tenta di variare ora un particolare ora un altro, traendone motivo per nuove riflessioni scientifiche. È la prima volta nella storia dell'umanità
che la dialettica tecnica-scienza viene attuata con tanta consapevolezza: ciascuna
delle due fornisce all'altra ausili, suggerimenti, motivi di seria meditazione.
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La tecnica nel Quattrocento. Leonardo da Vinci
Passando dalla meccanica agli altri campi della fisica, basterà menzionare due
genialissimi risultati: l'intuizione dell'analogia fra il fenomeno della luce e i
fenomeni ondulatori, e la scoperta del principio dei vasi comunicanti (sia per il
medesimo liquido che per liquidi diversi). Quest'ultima scoperta si ricollega alle
approfondite indagini che Leonardo compì nel campo dell'idraulica applicata,
raggiungendovi una perizia senza dubbio notevolissima per la sua epoca, perizia
che egli mise a disposizione dei più attivi e intraprendenti principi della sua epoca
(in particolare di Ludovico il moro). Fra i suoi numerosi progetti o lavori idraulici
ricordiamo: la partecipazione alla bonifica della Lomellina; il progetto di serraglia mobile sull 'Isonzo per poter allagare, in caso di guerra, la pianura padana;
gli studi sulla sistemazione dell'Adda e del canale della Martesana, ecc.
Né meno geniali e anticipatrici furono le scoperte di Leonardo in altri campi
della scienza. In geologia spiegò l'origine dei fossili. In astronomia intuì che la
Terra può venire considerata come una stella, ed anzi si propose di dimostrare
che essa deve riflettere la luce in modo analogo a quanto fa la Luna. In anatomia, descrisse la struttura e il funzionamento dell'occhio, fece parecchie osservazioni esattissime sulla circolazione del sangue, studiò i muscoli del cuore disegnandone le valvole. L'interessante di questi studi di anatomia, è che Leonardo
li compiva in vista di un doppio fine: per conoscere meglio la natura e nel contempo per migliorare le proprie capacità di artista. D'altra parte proprio queste
capacità gli permettevano di riprodurre in disegno le cose osservate, con una
precisione e una fedeltà eccezionali. Se non possiamo scindere in lui il tecnico
dallo scienziato, ancor meno possiamo scindere lo scienziato dall'artista.
L'uso sistematico del disegno per studiare i fenomeni naturali pone in luce
uno dei caratteri essenziali del metodo scientifico di Leonardo: metodo che non
consiste mai nella pura osservazione, ma nella interrogazione della natura, nel
tentativo di riprodurla, di immaginare il meccanismo dei suoi processi, di riconfrontare poi immediatamente queste « immaginazioni » con la realtà. In ciò egli
poteva valersi dell'eccezionale potenza della propria fantasia, che utilizzava non
meno nella scienza che nell'arte; con la differenza che, quando la utilizzava nella
ricerca scientifica, si sforzava subito di precisarla e razionalizzarla con l'uso della
matematica.
Già abbiamo ricordato la straordinaria competenza di Leonardo nel campo
dell'ingegneria idraulica. Bisogna però aggiungere che egli seppe ideare nuovi
geniali dispositivi per tutti i campi allora noti della produzione, anche assai
distanti dall'idraulica: dalla fabbricazione delle armi alla progettazione di opere
difensive, dall'industria tessile all'industria tipografica. Ciò che ha ricavato dai
suoi studi di idraulica, e che non perderà mai di vista, è la consapevolezza dell 'importanza dell'energia idraulica come forza motrice: il problema centrale per
potenziare e perfezionare qualunque campo della produzione sarà, a suo parere,
quello di sfruttare al massimo tale energia, da un lato con la regolamentazione
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La tecnica nel Quattrocento. Leonardo da Vinci
delle acque, dall'altro con la costruzione di macchine motrici sempre più efficienti.
Ovviamente, nel suo straordinario fervore di idee, Leonardo non può non
cadere talvolta in errori. Ciò che senza dubbio gli nuoce - come abbiamo già
osservato a proposito del principio di inerzia - è il suo trovarsi condizionato
da vecchie teorie, che egli eredita dalla tradizione medievale. A svincolarsi
almeno praticamente da esse gli sono però di ausilio le letture dei classici, in
specie di Archimede, che egli assunse a propria guida e modello.
Ciò che lo attira in Archimede è la sua mentalità di « scienziato-ingegnere »
che interpreta la scienza non come scienza di spiegazioni generali, ma come studio di problemi ben determinati, come ricerca di strumenti per intervenire concretamente sulla natura, per riprodurla, per correggerla, per dominarla.
Certamente la sostituzione di Archimede ad Aristotele non significava ancora elaborazione di una nuova filosofia, da sostituire a quella aristotelica. Significava però graduale maturazione di una nuova coscienza dei veri compiti di
una qualunque seria indagine conoscitiva. Proprio questa coscienza avrebbe
poi costretto i filosofi a porre in crisi tutti i vecchi sistemi (e non solo quello aristotelico) per aprire la via a nuovi più moderni indirizzi di pensiero.
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CAPITOLO QUARTO
L'aristotelismo rinascimentale. Piero Pomponazzi
I
· SVILUPPI DELL'ARISTOTELISMO
Abbiamo ripetuto più volte che gli indirizzi filosofici caratteristici dell'umanesimo, sui quali ci siamo particolarmente soffermati nel capitolo II, non riuscirono affatto a soppiantare dalle università dell'epoca le più importanti correnti
filosofiche tradizionali; riuscirono tuttavia a esercitare su di esse una certa influenza, sia pure esterna, dovuta soprattutto al nuovo materiale scoperto e messo
a disposizione dai filologi. Ciò accadde in particolare per l'aristotelismo.
Non è il caso di ricordare che due erano state le versioni principali dell'aristotelismo latino, determinatesi durante i vivi dibattiti del xm secolo: la cosiddetta
versione ortodossa (Alberto Magno e Tommaso d'Aquino), e la versione
averroista. In un primo tempo, sia l'una che l'altra erano state colpite da severe
condanne da parte delle autorità ecclesiastiche. Ma all'inizio del XIV secolo i
difensori dell'aristotelismo tomista (cioè i domenicani) ottennero la revoca di
esse - ben inteso, nei limiti che riguardava direttamente la loro dottrina - e
anzi ottennero perfino la canonizzazione dell'aquinate. Nei secoli successivi
l'aristotelismo tomista consolidò e perfezionò la propria struttura sistematica,
riuscendo a caratterizzarsi quale uno dei baluardi più sicuri dell'ortodossia; questa posizione riceverà una specie di sanzione ufficiale ad opera della controriforma. Più vario e complesso fu invece lo sviluppo della versione eterodossa.
Già ricordammo, nel capitolo VII della sezione II, l'importanza assunta
dall'università di Padova nella storia dell'aristotelismo eterodosso; qui possiamo
subito aggiungere che nel Quattrocento e nel Cinquecento Padova si affermò
sempre più come il grande centro dell'averroismo, in antitesi a Firenze (centro
del platonismo). A Padova comparve nel 1472-74 la prima edizione latina delle
opere di Aristotele, che includeva pure il commento di Averroè; a Padova insegnarono Paolo Nicoletti da Udine detto Paolo Veneto (m. 1429), soprattutto
noto per due limpide e profonde opere di logica, Logica parva e Logica magna,
nonché per un commento al De anima di Aristotele chiaramente ispirato alle
teorie averroiste, e il più acceso sostenitore quattrocentesco della filosofia di
Averroè, Nicoletta V ernia (1420-1499), il cui allievo Agostino Nifo (1473-1 546)
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L'aristotelismo rinascimentale. Piero Pomponazzi
si farà portatore dell'averroismo nelle varie città italiane ove si recherà ad insegnare (Pisa, Bologna, Salerno, Roma).
Un secondo grande centro dell'aristotelismo eterodosso, essenzialmente rivolto come quello di Padova ai problemi di scienza e filosofia della natura ma
- come vedremo nel paragrafo III - con un'impostazione filosofica alquanto
diversa da quella averroista, fu l'università di Bologna. Per ora ci limitiamo aricordare, come rappresentanti di questo centro dell'aristotelismo eterodosso, il
bolognese Alessandro Achillini (r463-I512), professore di medicina e filosofia
prima a Padova e poi, appunto, a Bologna.
Non dobbiamo però dimenticare che anche a Firenze si ebbe nel frattempo
una rinascita di studi aristotelici ad opera di quei dotti bizantini, dei quali abbiamo
parlato nel capitolo II di questa medesima sezione. Come abbiamo ivi accennato,
furono proprio tali dotti a proclamare la necessità di una migliore conoscenza dei
testi aristotelici, per cogliere l'autentico pensiero dello stagirita, al di là delle interpretazioni (tomista e averroista) che se ne erano date nel medioevo. Se la maggioranza dei dotti bizantini venuti in Italia propendeva per il platonismo o meglio
il neoplatonismo, vi era però stato qualcuno di essi che - nel grande confronto
fra Platone ed Aristotele - aveva difeso la superiorità di quest'ultimo; già ricordammo nel capitolo testé citato il nome del più acceso sostenitore di questa
tesi, Giorgio di Trebisonda.
Il richiamo a una miglior conoscenza dei testi aristotelici ebbe notevole risonanza anche entro l'ambiente padovano; e, con i testi di Aristotele, si vollero
studiare più a fondo anche gli antichi commenti della filosofia aristotelica, composti da quei vari studiosi dei quali abbiamo fatto parola nel capitolo XVI della
sezione r. A tale proposito va ricordato il nome del filologo Ermolao Barbaro
(I45 3-1493), nato a Venezia, eminente studioso della medicina greca, e professore
a Padova, che tradusse dal greco la Retorica di Aristotele e il commento di Temistio, sostenendo l'assoluta superiorità degli interpreti greci di Aristotele rispetto ai suoi interpreti medievali.
Di notevole importanza sarà pure, qualche decennio più tardi, l'esatta conoscenza dei commenti di Giovanni Filopono a varie opere di Aristotele: al
De anima, al De generatione animalium, ai primi quattro libri della Fisica; per questi
ultimi l'interesse suscitato fu tale, che ne vennero pubblicate ben tre diverse traduzioni latine nel I 55 4, nel 1 55 8 e nel I 55 9·
Il fatto nuovo, che suscitò un'autentica svolta entro l'aristotelismo rinascimentale, fu tuttavia un altro: fu la meditata riflessione sui commenti aristotelici
e sulle opere originali di Alessandro di Afrodisia. 1 È proprio dall'approfondita
interesse degli studiosi come è dimostrato, fra
l 'altro, dalle numerose edizioni cinquecentine dei
suoi libri originali e dei suoi commenti. Ci limiteremo a ricordare, fra le prime, la traduzione del
De anima pubblicata nel 1502; fra le seconde,
r Alcuni scritti di Alessandro erano già noti
fin dal medioevo, come il commento al De sensu,
tradotto da Gherardo da Cremona alla fine del
xn secolo; ma nell'epoca di cui ci stiamo occupando è l'intera sua opera che suscita il più vivo
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L'aristotelismo rinascimentale. Piero Pomponazzi
conoscenza dell'interpretazione di Aristotele data da Alessandro, che prese origine quella notevolissima variante dell'aristotelismo eterodosso rinascimentale
solitamente nota col nome di « aristotelismo greco o alessandrista ».
Data l'importanza dell'alessandrismo, occorrerà fermarsi a delineare con
qualche cura i principali punti di accordo e di dissenso fra il nuovo indirizzo aristotelico ed il vecchio averroismo.
II
· ALESSANDRISTI E AVERROISTI
Innanzi tutto va ricordato che sia l'alessandrismo sia l'averroismo, per essere
entrambe filosofie aristoteliche, non possono fare a meno di avere in comune i
caratteri tipici di tutto l 'aristotelismo; per esempio, l 'impianto metafisica della
fisica (cioè la tendenza a far intervenire la causa finale nella spiegazione di un qualsiasi fenomeno), l'importanza attribuita alla logica assai più che alla matematica,
l'impostazione rigorosamente razionalistica di tutta l'indagine filosofica.
Il maggior divario tra i due indirizzi riguarda l'arduo problema dell'anima.
Come sappiamo, gli averroisti lo risolvevano contrariamente agli aristotelici
seguaci di Tommaso d'Aquino, con la separazione totale dell'intelletto (vuoi di
quello attivo, vuoi di quello passivo) dagli individui concreti; essi ritenevano cioè
che, secondo il pensiero aristotelico rettamente inteso, il processo intellettivo si
svolga per intero al di fuori dell'individuo concreto e ne deducevano che solo
l'intelletto separato, cioè la vera sede del processo intellettivo, è immortale, mentre
l'individuo concreto risulta soggetto alla morte non diversamente dal corpo.
Anche gli alessandristi sostengono la mortalità dell'anima individuale; giungono però ad una tesi ancora più estremista: negano l'esistenza di un'anima universale (l'intelletto separato degli averroisti), e quindi concludono che nulla
dell'uomo (né l'anima individuale né quella universale) può sopravvivere alla
morte. Essi accusano averroisti e tomisti di travisare il pensiero di Aristotele
ammettendo la separabilità della forma dalla materia; non si può parlare di
aristotelismo - dicono - ove non si riconosca nel modo più esplicito che
la realtà è sinolo inscindibile di materia e di forma. Da questo fondamentale
principio aristotelico ricavano poi, come caso particolare, l'impossibilità che
l'individuo umano viva al di fuori dell'unità di corpo e anima. La morte, dissolvendo questa unità, non può che eliminare ogni specie di vita. È una tesi di estrema importanza, non solo per la sua parte negativa, cioè per la negazione dell'i mAlexandri quod fertur in Aristote/is Sophisticos elenchos commentarium (tre diverse traduzioni pubblicate nel I54I, nel I557 e nel I559), In Aristotelis
Topicorum !ibros octo commentaria (I 542), In Aristotelis Analyticorum librum 1 (r ed. I 543), In Aristotelis Meteorologicorum libros commentaria (due diverse traduzioni pubblicate nel I548 e nel q66).
Merita particolare menzione il fatto che il commento di Alessandro alla Metafisica di Aristotele
venne tradotto dallo spagnolo Juan Gines Sepulveda che risiedette a lungo in Italia e fu allievo del Pomponazzi (di cui parleremo nel paragrafo m); il Sepulveda si trasferì poi alla corte
di Carlo v del quale divenne lo storico ufficiale.
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L'aristotelismo rinascimentale. Piero Pomponazzi
mortalità dell'anima, ma anche per la sua parte positiva, cioè per il riconoscimento ali 'individuo di un peso via via maggiore.
Malgrado la divergenza ora accennata, i due indirizzi di aristotelismo averroista e alessandrista hanno però molti caratteri in comune, che li collegano entrambi alla tradizione dell'aristotelismo eterodosso padovano. Ci limiteremo a
ricordarne due.
Il primo è costituito dalla loro impostazione decisamente naturalistica. Essi
polemizzano con energia contro tutti gli indirizzi a carattere metafisica-religioso:
vuoi quello aristotelico dei tomisti, vuoi quello platonico. Il vero oggetto della
filosofia è la natura, e l'unico metodo per indagarla è la ragione. In questa comune impostazione naturalistica, l'averroismo si trova però ancora impacciato
dall'ammissione di una realtà attiva (l'intelletto) totalmente separata dagli individui, e dalla conseguente interpretazione della materia come pura passività;
invece gli alessandristi, negando con la massima decisione la possibilità di separare la forma dalla materia, giungono a sostenere una tesi che dà un nuovo senso
a tutto il naturalismo: la tesi che la stessa materia possiede un'autentica attività
e determinatezza. È il passo più avanzato della corrente aristotelica verso le
posizioni che caratterizzeranno la ·cosiddetta filosofia della natura del rinascimento.
Altro punto fondamentale di accordo tra alessandristi e averroisti è costituito
dal loro atteggiamento nei confronti della religione. Non esiste-- essi pensanoche un modo e uno solo per ottenere che essa non ostacoli la piena e completa libertà spettante alla ragione: riconoscere una frattura totale fra le due. In altri
termini: fede e ragione non possono che muoversi su due piani diversi, separati
e indipendenti; ciascuna di esse possiede la sua verità che non può intralciare
quella dell'altra. Vedremo in questo e in altri capitoli l'enorme influenza della
teoria della doppia verità in tutto il pensiero rinascimentale; per ora basti accennare che essa trovavasi in netta antitesi con la tendenza dei platonici, miranti
a identificare religione e filosofia.
Come sappiamo, mentre i platonici dominarono in modo assoluto l'accademia fiorentina, gli aristotelici eterodossi dominarono molte università, in
ispecie quelle di Padova e di Bologna. Malgrado le polemiche interne tra averroisti e alessandristi, essi si trovarono spesso coinvolti nelle medesime battaglie filosofiche, e in comune furono tacciati di « barbarie » dai raffinati umanisti che lottavano nel campo avversario. Così accadde che il nome di « averroista » finì col
perdere il suo significato specifico e, col trascorrere del tempo, venne usato per
indicare indistintamente tutti gli aristotelici eterodossi.
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III
· PIERO POMPONAZZI
La figura più eminente dell'aristotelismo eterodosso fu quella di Piero Pomponazzi, seguace del commento alessandrista. Nato a Mantova nel 1462, egli fu
professore di filosofia prima a Padova, poi a Bologna, ove morì nel r 52 5. La
sua opera principale, De immortali/ate animae, è una serrata critica delle teorie
intorno all'anima, sostenute dagli averroisti, dai platonici e dai tomisti.l L'anima,
secondo il Pomponazzi, è « actus corporis physici organici » e non può quindi
vivere separata dal corpo.
Le conseguenze che il Pomponazzi ricava dalla teoria ora accennata sono
molteplici e di grande significato filosofico : esse vanno dal campo metafisica a
quello etico, dal campo gnoseologico a quello religioso. Qui basti ricordare che,
nel campo gnoseologico, il Pomponazzi nega con fermezza all'intelletto umano
la possibilità di concepire l 'universale puro: questa possibilità era invece affermata dagli averroisti e costituiva, secondo essi, la prova che il processo intellettivo si sviluppa del tutto al di fuori dell'esperienza sensibile, in cui è ovviamente
indispensabile la funzione del corpo. Ciò che - secondo il filosofo mantovano l'intelletto umano può fare è soltanto astrarre il concetto dal fantasma; ma il
fantasma sensibile non può prodursi senza gli organi corporei, e perciò questi
risultano alla fin fine indispensabili anche all'azione dell'intelletto.
Agli averroisti Pomponazzi concede che esistano altre intelligenze (le intelligenze celesti) che procedono in modo diverso: esse non hanno corpo, e quindi
non ricevono impressioni; muovono i cieli, ma non ne sono mosse. Il loro intelletto, puramente attivo, non ha però nulla a che fare con il nostro. Erra pertanto Tommaso quando afferma che la nostra anima può sopravvivere alla morte
del corpo: con tale affermazione egli finisce per trasformare la nostra anima in
quella divina, per sostituire-- all'uomo concreto, costituito di anima e corpo-un concetto astratto di uomo, che non ha più nulla a che vedere con la realtà.
Nel campo etico, Pomponazzi sostiene con energia che la virtù non ha bisogno dell'immortalità. La pretesa di condizionare la pratica della virtù alla promessa di un premio nell'aldilà o alla minaccia di un castigo, è assolutamente
infondata. Il premio essenziale della virtù è la virtù stessa. Un'autentica morale
può e deve essere fondata su basi autonome rispetto alla credenza fantastica in
una vita eterna. Il problema veramente difficile non è quello di giustificare la morale senza far riferimento a questa credenza, ma di ammettere o non ammettere la
libertà umana. A proposito di essa, il nostro autore si rivela alquanto oscillante:
per un lato, infatti, egli sostiene che la libertà umana va affermata, per l'altro sostiene che l'universo è regolato da un ordine necessario e immutabile. Pomponazzi
I Altre opere di Pomponazzi sono: De
incantationibus, contro presunte cause sovrannaturali di eventi naturali, e De fato sui nessi na-
turali che legano fra loro le cause e gli effetti (fra
questi nessi, egli riconosce esplicitamente gli influssi degli astri sulle vicende del mondo).
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L'aristotelismo rinascimentale. Piero Pomponazzi
non spiega come possano conciliarsi le due affermazioni: ciò che gli sta veramente a cuore è solo riconoscere la completa naturalità e necessità di tutto ciò
che accade; da ciò la sua fede nell'astrologia, che in lui assume l'aspetto di fede
nell'assoluta razionalità dell'universo. In questo quadro concettuale egli giunge
a sostenere che gli astri determinano anche il corso dei fenomeni collettivi: lo
stesso sorgere e declinare delle religioni risulterebbe, secondo lui, determinato
dalle congiunzioni astrali.
Ma come conciliare queste ardite tesi con la religione cristiana? Pomponazzi
non ha dubbi: solo la teoria della doppia verità può conciliare il suo intransigente
naturalismo filosofico con l'accettazione della fede cristiana; secondo tale teoria,
sarebbe perfettamente possibile, da un lato, ammettere per fede ciò che non è
giustificabile secondo ragione, dall'altro, respingere in sede religiosa le conseguenze delle verità filosofiche più apertamente in contrasto con il dogma cristiano.
È probabile che Pomponazzi fosse realmente convinto di riuscire, con
l'accettazione della doppia verità, a mantenersi cattolico pur seguendo in filosofia un indirizzo schiettamente razionalistico. È chiaro, però, che la sua posizione doveva portare ad una esaltazione sempre più completa della ragione a
tutto detrimento della fede.
IV
· ALTRI ARISTOTELICI DEL CINQUECENTO
Uno dei più illustri rappresentanti dell'aristotelismo padovano del Cinquecento fu Giacomo Zabarella (I 533-15 89), autore di un commento al De anima di
Aristotele, nonché di varie opere di logica, che godettero di grande notorietà
per circa un secolo. Sul problema dell'anima, Zabarella assunse una posizione
assai prossima a quella degli alessandristi, e in particolare di Pomponazzi; ed
infatti, pur ammettendo che l'intelletto umano risulti, nella sua attività, libero
dal corpo, sostenne però che, nel suo essere, non è altro che forma del corpo e
pertanto da esso inseparabile. Ne segue che l'anima, come perfezione del corpo,
non può esistere senza di esso perché la perfezione non può esistere senza ciò di cui
è perfezione (« quia perfectio non potest esse sine illo cuius est perfectio >?). Ma
a che si ridurrà allora l'intelletto attivo, la cui esistenza aveva costituito una delle
tesi centrali di tutto l'averroismo? Zabarella non nega tale intelletto, ma nega
che esso sia in qualche modo presente, da un punto di vista sostanziale, entro
l 'intelletto umano; esso non appartiene alla realtà umana, bensì a quella divina:
è il primo motore. In altre parole: l'intelletto attivo agisce senza dubbio su di
noi per rendere intelligibili le immagini del nostro intelletto, ma proprio perciò
la sua è un'azione che non si svolge in noi; esso opera come operano gli oggetti,
non come fattore interno della nostra anima(« intellectus activus agit ad modum
obiecti »).Quanto al primo motore, Zabarella nega che lo si possa concepire senza
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L'aristotelismo rinascimentale. Piero Pomponazzi
il mondo; noi possiamo dimostrare l'esistenza di dio, ma solo ammettendo l'eternità dei cieli di cui esso è il motore.
Particolare importanza hanno avuto, come si è testé accennato, gli studi di
Zabarella sulla logica. Va detto anzitutto che egli intende la logica come arte,
non come scienza; essa infatti non costituisce un'autentica conoscenza poiché
non si occupa delle nozioni prime che denotano oggetti, bensì delle nozioni
seconde che esistono solo nella nostra mente (quali « genere » e « specie ») nonché
dei loro nessi reciproci. La sua funzione è dunque essenzialmente metodologica,
e consiste soprattutto nel fornire gli strumenti onde collegare in modo inferenziale le proposizioni delle singole discipline, portandoci dal noto alla conoscenza
dell'ignoto. Di qui l'ampliamento del concetto stesso di logica che dovrà comprendere e ordinare- come scrive Cesare Vasoli- «strumenti molto vari e diversi che vanno da quelli propri della dimostrazione, valida per quei campi del sapere dove regnano principi necessari e universali, agli argomenti dialettici, validi
soltanto nell'ambito del possibile e del probabile (e dunque soprattutto nelle scienze che hanno per oggetto l 'uomo), alle " forme " retoriche e poetiche che servono
in quelle innumerevoli occorrenze della vita ove più vale la persuasione che la
fredda verità scientifica ».
Come dovrà venire operato l'anzidetto collegamento? È a proposito di questo
problema che Zabarella introduce la sua più importante novità: al metodo « compositivo » della sillogistica tradizionale (che, partendo dalle premesse, ne compone i vari elementi in un risultato unico, costituente la loro conclusione), egli
aggiunge un metodo « risolutivo » il quale consiste nel ridurre un determinato
oggetto concettuale nei suoi elementi e nelle sue condizioni. Mentre il primo trova
applicazione nelle scienze, di cui ci sono già noti i principi, il secondo la trova
nelle discipline, i cui principi « non ci sono noti, a causa della debolezza del nostro
spirito ». È chiaro che la resolutio di Zabarella, proponendosi di risalire dai fatti
ai loro principi costitutivi, prelude al metodo induttivo, che starà alla base della
rivoluzione metodologica di Bacone; da ciò la sua notevole importanza entro lo
sviluppo del processo storico che condurrà alla nascita della scienza moderna.
Ciò che invece manca a Zabarella, come a tutti gli aristotelici, è la comprensione
del valore della matematica nell'elaborazione dei dati empirici.
Al pensiero di Zabarella è collegato quello di Cesare Cremonini (I 5 5o-I63 I),
che fu collega di Galileo a Padova, ed anzi ne fu sincero amico, pur avversando
caparbiamente le dottrine galileiane; è famoso per essersi rifiutato di guardare
nel cannocchiale: « Quel mirare per quelli occhiali m'imbalordiscon la testa;
basta, non ne voglio sapere altro. » Cremonini accentua la separazione di dio dal
mondo, sostenendo che questo non può assolutamente essere creato da quello:
dio infatti è verità immobile; nulla gli manca e proprio perciò egli non può né
volere né agire (ché volontà e azione derivano dalla constatazione di una qualche
mancanza da colmare). Per quanto riguarda il problema dell'anima, ne sotto57
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L'aristotelismo rinascimentale. Piero Pomponazzi
linea sempre più il legame con il corpo, concludendo che non può in alcun modo
sopravvivergli. Malgrado la sua tendenza naturalistica, resta intransigentemente
fedele ai principi della fisica aristotelica. Citato più volte dal tribunale dell'inquisizione, fu validamente difeso dalle autorità della repubblica di Venezia.
Una posizione particolare spetta, nell'ambito dell'aristotelismo, ad Andrea
Cesalpino (r 519-r6o3), professore a Pisa e poi a Roma, il quale, oltreché filosofo
e logico, fu medico, studioso di anatomia e botanico. In logica, pur difendendo
l 'insegnamento del suo Aristotele, cercò di delineare una nuova concezione della
razionalità, pienamente aperta sia all'esperienza, sia alla creatività del conoscere.
In filosofia fu fortemente influenzato da Pomponazzi, di cui accentuò l'orientamento naturalistico. A differenza di Zabarella e Cremonini, invece di difendere
un distacco sempre più netto di dio dal mondo (distacco che garantisca l'autonomia di questo da quello), tende a concepire il reale come concretamente partecipe del divino, onde finisce per ammettere dio soltanto come anima dell'universo (concepito nella sua totalità).
L'orientamento panteistico di Cesalpino ci aiuta a comprendere il suo panpsichismo, che lo spinge a cercare ovunque l'esistenza di demoni, e ad elaborare
una medicina strettamente connessa alla stregoneria. Molto significativa è pure
la sua concezione delle piante come organismi non dissimili dagli animali : fornite
quindi esse pure di una testa (le radici) e di un'anima (localizzata nel midollo).
La stranezza di queste idee non impedì a Cesalpino di avere un fortissimo
spirito di osservazione, e di giungere, proprio attraverso di essa, ad alcune
scoperte di autentico valore scientifico. Basti ricordare i suoi contributi allo studio
della fisiologia delle piante e la sua descrizione del funzionamento delle vene e
delle arterie che fanno di lui un vero precursore di Harvey (lo scopritore della
circolazione del sangue, di cui parleremo nella sezione IV). Possiamo dire che
questa messe di risultati vale per un lato a confermarci l'effettivo impulso che
l'aristotelismo naturalistico seppe imprimere alla ricerca empirica (nel più ampio
senso di questo termine), per l'altro a dimostrarci che la scienza non poteva
scaturire dal semplice sviluppo di tale impulso senza una radicale rivoluzione
metodologica.
V
· L 'INFLUENZA DELL'ARISTOTELISMO N ATURALISTICO.
SUO VALORE E SUOI LIMITI
L'influenza dell'indirizzo esaminato nei paragrafi precedenti fu assai vasta e
profonda per tutto il XVI secolo. Va innanzi tutto segnalata l'importanza della
distinzione, tenacemente propugnata da averroisti e alessandristi, fra ordine delle
verità filosofico-scientifiche e ordine delle verità di fede: essa condusse a poco a
poco non soltanto a riconoscere la piena autonomia delle prime, ma a considerare
le altre come proposizioni inferiori, fornite non tanto di una autentica verità
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L'aristotelismo rinascimentale. Piero Pomponazzi
quanto, piuttosto, di una semplice validità (a fini diversi dalla conoscenza del
vero).
Era un primo passo verso un nuovo atteggiamento nei confronti della religione; atteggiamento che porterà a discuterla, non più sotto l'aspetto filosofico
della pura razionalità (per decidere fino a che punto siano razionali i fondamenti
della fede e dove invece essi rivelino un tipo di conoscenza sovrarazionale),
bensì sotto l'aspetto terreno: per esempio sotto l'aspetto politico di strumento
utile ai reggitori degli stati.
Considerato da questo punto di vista, l'aristotelismo del Cinquecento si
profila come la premessa diretta delle indagini di « filosofia della politica », che
da Machiavelli in poi assumeranno in quel secolo una notevole importanza.
Con ciò non intendiamo sostenere che Machiavelli sia stato, a rigore, un aristotelico; ma certo il suo modo di guardare alla religione è molto simile a quello
maturatosi entro l'averroismo. Invece non ha proprio nulla a che vedere con le
correnti platoniche, le quali- indipendentemente dall'essere più o meno ortodosse- interpretavano la religione come l'espressione più alta della razionalità.
Oltre a questo legame con la « filosofia della politica », alcuni recenti storiografi
scorgono pure uno stretto legame tra l'aristotelismo eterodosso e il complicato
movimento culturale generalmente noto con il nome di « libertinismo ». Ciò
accrescerebbe molto l'influenza dell'aristotelismo sul movimento filosofico e non
solo filosofico del Cinque e Seicento. Ma su Machiavelli e sullibertinismo ritorneremo nel capitolo vn.
Dal punto di vista più propriamente filosofico, l'aristotelismo del Cinquecento rappresentò una difesa intransigente della conoscibilità del reale, contro il
misticismo da un lato, e dall'altro contro ogni forma di nominalismo. Purtroppo
però questa difesa si spingeva ad asserire che la conoscenza del reale deve venire
ottenuta mediante certe ben determinate categorie di tipo tradizionale, con la
condanna di ogni tentativo volto a rinnovarla. Così esso finì per assumere una
funzione sostanzialmente conservatrice, che, se gli procurò l'appoggio di taluni
strati sociali, gettò un profondo discredito nei confronti di qualsiasi discorso
filosofico che aspirasse ad essere sistematico e controllato (in particolare, gettò
un grave e ingiusto discredito nei confronti della logica).
Il merito principale dell'aristotelismo, come abbiamo già detto più volte, fu
l'interesse suscitato per i problemi della natura, che fece passare in secondo piano
quello per l'oltremondo e per dio. Anche qui tuttavia non seppe conseguire risultati veramente decisivi, perché rimase impacciato dalla rigidità delle proprie formule. Ci limiteremo a ricordare tre pregiudizi, che ostacolarono gravemente il suo
sviluppo:
1) l'esclusione, dall'indagine naturalistica, dei procedimenti matematici, accusati di fermarsi alla descrizione dei fenomeni senza risalire alle loro cause;
questo pregiudizio condusse gli aristotelici a tentar di imbrigliare la natura
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L'aristotelismo rinascimentale. Piero Pomponazzi
in schemi dialettici, definizioni, principi generali, ecc., che finirono col dare alla
loro ricerca un carattere di astrattezza e generalità, in contrasto con il proclamato
empirismo e incapace di tenere conto dei risultati conseguiti dal lavoro pratico
dei tecnici; toccherà soprattutto ai platonici contrapporre l 'uso della matematica
a quello della logica nella conoscenza dei fenomeni;
z) l'accettazione della fisica aristotelica, come costruzione scientifica perfetta, e la pretesa di spiegare con i suoi schemi, in particolare con la causa finale,
tutti i dati scoperti e scopri bili dall'osservazione; questo pregiudizio graverà
in modo specialissimo sulle concezioni meccaniche e astronomiche, e costringerà
la nuova scienza a entrare in drammatico urto con l'aristotelismo;
3) il ricorso alle anime (sia pur intese come anime naturali) per rendere
conto dell'azione reciproca di un corpo sull'altro, e, per conseguenza, l'attribuzione di un valore scientifico all'astrologia come studio dell'azione del mondo
celeste su quello terrestre. Caratteristico, sotto questo rispetto, il ragionamento
col quale Pomponazzi ritiene di poter dimostrare la necessità dell'esistenza degli
uomini; distrutto l'uomo verrebbe meno la finalità agli esseri generabili; in tale
ipotesi il moto dei cieli non servirebbe più a nulla, e non esistendo i cieli mossi
da dio neanche il primo motore avrebbe più ragione di esistere.
Se, per le gravi deficienze interne che ora abbiamo accennato, l'aristotelismo
diverrà nel Seicento uno dei bersagli preferiti della nuova scienza, non bisogna
comunque dimenticare il contributo positivo che esso diede allo sviluppo dell'interesse per la natura, ed alla formazione- nei campi più diversi dell'indaginedi una mentalità realistica e razionalistica interamente spregiudicata nei confronti
della fede.
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CAPITOLO QUINTO
Riforma e controriforma
I
· RAPPORTI TRA RINASCIMENTO, RIFORMA
E CONTRORIFORMA
Abbiamo più volte fatto cenno, nei capitoli precedenti, ai fermenti di rinnovamento religioso che da vari secoli agitavano il mondo della cristianità. Lo
spirito di protesta contro il disordine morale e disciplinare della chiesa, la profonda avversione alla gerarchia ecclesiastica considerata responsabile di tale disordine, l'aspirazione a un coraggioso ritorno al «cristianesimo primitivo»
erano motivi già presenti nelle sette ereticali del Duecento; vennero ripresi e
teorizzati - come sappiamo - da Occam e da Marsilio da Padova; e poi approfonditi e arricchiti di contenuto sociale dai movimenti di popolo collegati ai
nomi di Wyclif e di Huss. In forma diversa, ma non meno drammatica, li abbiamo
visti ricomparire negli appassionati dibattiti dei concili di Costanza e di Basilea.
Ebbene, sono proprio essi che - dopo un breve periodo di calma apparente si impongono con rinnovato vigore a tutta la cristianità nei primi decenni del
Cinquecento. Questa volta i problemi non possono più venire elusi né tollerare
rinvii. I vecchi fermenti acquistano una formidabile carica esplosiva. Essi sfoceranno nei due ben noti movimenti politico-religiosi, che siamo soliti chiamare
riforma protestante e controriforma (o riforma cattolica).
Lo studio della riforma e della controriforma fuoriesce ovviamente dai
limiti della presente opera. Cercheremo tuttavia, nei prossimi paragrafi, di richiamare - per comodità del lettore - alcuni motivi che determinarono tali
profondi sommovimenti del mondo cristiano, essendo incontestabile che essi ebbero notevoli ripercussioni anche sullo sviluppo del pensiero filosofico. Prima,
però, riteniamo opportuno fare qualche breve considerazione sul complesso
problema dei rapporti fra essi e il rinascimento.
Il fatto stesso che la riforma (e successivamente la controriforma) si ricolleghi ai fermenti religiosi testé menzionati, e ne tragga motivo per programmare
una radicale riorganizzazione della chiesa, pone subito in chiaro che i problemi
affrontati dai riformatori sono del tutto diversi da quelli che stavano al centro
~egli indirizzi di pensiero esaminati negli ultimi due capitoli (indirizzi che fanno
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Riforma e controriforma
capo a Leonardo da Vinci e a Pomponazzi). Dalla breve esposizione del prossimo
paragrafo risulterà poi altrettanto manifesta la sostanziale irriducibile differenza
fra la religione predicata da Lutero e quella, essenzialmente filosofica, presa in
considerazione dal platonismo degli umanisti; la religione di Cusano e di Marsilio
Ficino, muovendosi su un piano esclusivamente culturale, non includeva né
poteva includere alcun effettivo impegno pratico, quella di Lutero invece si
traduceva immediatamente in azione riformatrice, volta a soddisfare le secolari
richieste di un rinnovamento dei costumi, dei dogmi e delle strutture organizzative: pur usando le medesime parole (fede, insufficienza della pura ragione, amor
di dio, ecc.), esse si muovevano in realtà su piani del tutto diversi e un loro incontro era impossibile. Se ne può concludere che la pretesa di far rientrare la
riforma nel movimento umanistico-rinascimentale è del tutto infondata.
Non vogliamo con ciò negare che esistessero fra essi alcuni punti di convergenza - come per esempio la polemica contro il medioevo, giudicato dagli
umanisti età di barbarie, e dai riformatori epoca di trionfante mondanizzazione
della chiesa - ma appena si passi dalla polemica alla parte costruttiva, risulta
subito chiaro che i due movimenti divergono in modo radicale: la riforma si
proponeva di costruire immediatamente una chiesa più seria, più profondamente
cristiana (fine questo che verrà perseguito, sia pure in modo del tutto diverso,
anche dalla controriforma); il rinascimento invece si propone soltanto di rinnovare la cultura e non specificamente quella religiosa, tant'è vero che il più importante risultato cui darà luogo (la nascita della moderna ricerca scientifica)
non avrà immediate ripercussioni né sull'organizzazione politica né su quella
ecclesiastica, anche se - nel corso di qualche secolo - trasformerà completamente i mezzi di produzione e quindi le strutture più profonde della società.
Senza dubbio la riforma si avvale - nello studio della sacra scrittura - del
medesimo metodo critico già applicato dagli umanisti allo studio dei classici;
ma nell'un caso questo metodo deve servire a recuperare l'autentico spirito
religioso dei primi cristiani, nell'altro a recuperare l'autentico patrimonio filosofico, letterario e scientifico dell'antichità classica. Quanto alla controriforma,
vedremo che essa pure si proclamerà erede degli umanisti e cercherà di introdurre
lo studio dei classici per riorganizzare il curriculum scolastico dei giovani; ma qui
lo studio dei classici perderà ogni funzione di rottura (così importante nel vero
umanesimo) per diventare invece strumento di conservazione e di severa disciplina degli spiriti.
È incontestabil6 che la riforma e il rinascimento tendono entrambi a riformulare il problema dei rapporti dio-mondo in termini diversi da quelli della
teologia tradizionale; ma la riforma mira ad accentuare la trascendenza di dio
e nel contempo a rendere più vivi e immediati i contatti fra dio e il singolo uomo,
mentre il rinascimento o sostiene tesi panteistico-immanentistiche che ovviamente attenuano tale trascendenza, oppure teorizza sì un assoluto distacco fra
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Riforma e controriforma
dio e il mondo (come abbiamo visto, esponendo il pensiero di alcuni averroisti),
ma al ben preciso scopo di rendere sostanzialmente impossibile ogni contatto
diretto fra essi.
Gli è che i due movimenti differiscono profondamente fra loro nel modo
stesso di intendere l 'uomo: essere irrimediabilmente corrotto dal peccato originale, secondo la riforma, e quindi salvabile solo per l 'intervento diretto e
vivificatore della grazia divina (essere naturalmente peccatore se abbandonato
alle sue sole forze, anche per la controriforma, ma sicuramente recuperabile
se assistito e guidato dalla chiesa); ricco invece di innumerevoli risorse interiori,
per il rinascimento, e proprio perciò capace di esprimere in via autonoma i
più alti valori spirituali, nonché di strappare i segreti dell'universo e conseguentemente di correggere a proprio vantaggio il corso dei fenomeni.
II
· NATURA E CAUSE DELLA RIFORMA
Un esame, anche sommario, del complesso fenomeno non può far a
meno di attrarre la nostra attenzione su alcune cause di carattere sociale ed
economico.
Ci limiteremo a sottolineare la crescente ostilità della borghesia finanziaria
dei vari paesi per l'ormai insopportabile e dannoso fiscalismo papale e, per
quanto riguarda la Germania, il nascente sentimento nazionale, sfociante in
avversione per la romanità, nonché le agitazioni sociali che muovono le masse
contadine contro i proprietari terrieri, i proletari cittadini contro i capitalisti,
i cavalieri contro i grandi feudatari e contro la monarchia. Si aggiunga la protesta dei sempre più numerosi intellettuali laici contro il monopolio culturale del
clero e degli ordini religiosi.
Cavalieri, proletari, contadini, intellettuali, borghesi, ardono dal desiderio
di rivoltarsi contro i poteri costituiti, dei quali Roma - centro della chiesa pare il simbolo. Espressioni come « affrancamento dalla servitù », « liberazione
dalla tirannia », « scotimento del giogo romano », sono usate da scrittori tedeschi dell'epoca come equivalenti, anche se in realtà ognuno attribuisce loro significati diversi e talora perfino contrastanti.
Ma che cosa scorgono di così intollerabile, nei dogmi e nella prassi della
chiesa romana, da non poter più oltre frenare la grande rivolta contro di essa?
L'essenza della chiesa consiste, secondo la dottrina cattolica, nel suo essere
stata costituita mediatrice fra l 'uomo e dio, sia come interprete e dichiaratrice
delle verità rivelate nelle sacre scritture, sia come dispensiera della grazia, di cui
sono canale i sacramenti che essa amministra.
L'impostazione cattolica del problema della grazia implica poi che l'individuo, dotato di libero arbitrio, debba e possa con le proprie opere buone rendersi
degno di usufruire dei meriti di Cristo, allo scopo di conseguire la salvezza eterna.
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Riforma e controriforma
Le opere buone, a loro volta, hanno efficacia anche per diminuire la pena delle
anime nel purgatorio.
Senonché l'istituzionalizzarsi della morale cristiana ha fatto sì che per
«opere buone» si sia finito con l'intendere, pur senza escludere l'esercizio della
virtù e le opere di carità, tutta una serie di comportamenti estrinseci, controllabili e addirittura misura bili dal di fuori: preghiere, digiuni, penitenze, voti,
pellegrinaggi, offerte a pii istituti ed alla chiesa, oltre, beninteso, il frequente
accostarsi ai sacramenti e l'assistere alla messa. L'uso, generalizzatosi durante
le crociate, di concedere benefici spirituali anche a chi, non potendo prendere
la spada, contribuiva almeno alla spesa delle spedizioni, si è andato allargando
ad ogni offerta di denaro fatta per fini approvati dalla chiesa, finendo con l'attribuire all'indulgenza il carattere di una vera e propria operazione finanziaria
senza alcun contenuto spirituale.
Il protestantesimo, e in primo luogo Lutero, batte in breccia precisamente
i due pilastri sui quali poggia la chiesa cattolica. Il principio del « libero esame »
toglie alla chiesa la sua funzione docente; il principio della «salvezza per la sola
fede » le toglie la funzione di veicolo della grazia.
Lutero non nega la rivelazione, ma, in primo luogo, considera ispirata soltanto la sacra scrittura, respingendo la tradizione, le interpretazioni dei papi e
dei concili, i commenti dei dottori; secondariamente, rimette l'interpretazione
della Scrittura al raziocinio di ciascun fedele, che si suppone assistito dallo spirito
santo.
Per Lutero l'indossare abiti consacrati, lo stare in chiesa o in luoghi pii,
il pregare materialmente, il digiunare, il recarsi in pellegrinaggio, ecc. è un « compiere opere buone per mezzo del corpo e nel corpo ». Si tratta di opere e riti che
possono essere compiuti anche da « un uomo malvagio, un ipocrita, un baciapile». Di qui egli trae l'audace conclusione che «compiendo tali pratiche, gli
uomini non possono diventare altro che dei perfetti ipocriti».
Da questa critica delle opere, intese come puro comportamento esteriore,
egli passa alla svalutazione delle opere anche nel loro significato più profondo
e genuino di impegno ad agire in base a un'intima adesione alla legge divina.
I comandamenti, è vero, insegnano e prescrivono ogni sorta di opere buone,
ma non per questo esse si realizzano. Essi forniscono precise indicazioni, ma
non donano alcuna forza per realizzarle. L'uomo, dopo la caduta originale, non
è capace di azioni virtuose; egli può solo peccare; qui la tema ti ca agostiniana
viene portata alle sue estreme conseguenze. I comandamenti della legge possono
solo guidarlo a riconoscere la propria incapacità a fare il bene, a disperare di se
stesso, a constatare che tutta la sua vita e le sue opere non sono niente al cospetto
di dio.
Se l'uomo non va oltre questo riconoscimento della propria colpevolezza
e insufficienza, la sua perdizione è sicura. Ma a questo punto interviene il se-
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Riforma e controriforma
condo insegnamento della Scrittura: la promessa. L'uomo; perduta la confidenza in se stesso, cerca altrove l'aiuto e tale aiuto soprannaturale altro non è
che il Cristo e la sua parola. « Dovrai abbandonarti a lui con fede robusta e confidare con coraggio in lui. Allora, in ragione di questa fede, tutti i tuoi peccati
ti saranno perdonati, tu trionferai della tua perdizione e diverrai giusto, veritiero, pacifico, pio e avrai adempiuto a tutte le leggi e sarai libero. »
Senonché, circa il vero significato della capacità salvifica della fede, il pensiero luterano appare oscillante fra due concezioni profondamente diverse. Talora sembra che la funzione della fede sia quella di rendere possibile, con l'aiuto
di Cristo, l'adempimento di quei comandamenti che, da solo, l'uomo non potrebbe in alcun caso attuare. Talaltra sembra invece che l'atto di fede, in quanto
tale, contenga in sintesi l'adempimento di tutti i comandamenti, così che per
esso il cristiano « non ha bisogno di opere buone per essere giustificato. » Indubbiamente questa seconda tesi, fondata sulla teoria della persistenza del peccato come concupiscenza anche dopo il battesimo, racchiude il pericolo di uno
sviluppo nel senso di un diffuso lassismo morale (contro questo aspetto del
luteranesimo reagirà il calvinismo); appare comunque ovvio che la famosa
massima, « pecca fortiter sed crede fortius » non va intesa, come vorrebbe una critica grossolana e maliziosa, quale invito a peccare liberamente, ben_sì quale ammonimento ad avere una fede così salda che, vivendo in essa e per essa, la buona volontà purifichi qualsiasi azione, anche apparentemente peccaminosa, nel senso del
motto: « omnia munda mundis ».
III
· CONSEGUENZE POLITICO-SOCIALI DELLA RIFORMA
La storia della rivoluzione religiosa è largamente dominata da fattori di ordine politico, i quali, spesso, deformano alcuni dei principi fondamentali o, perlomeno, ne ritardano l'attuazione. Consideriamo, per esempio, il principio del
soggettivismo religioso: durante un lungo periodo lo sviluppo di questo fondamentale motivo del cristianesimo riformato sarà impedito dal sopravvivere dell'organizzazione chiesastica, conseguenza, a sua volta, della forza della tradizione, dell'aspirazione ad una ortodossia uniforme da partè delle varie comunità
e, soprattutto, delle esigenze organizzative degli stati. Ciò non toglie che, alla
fine, il soggettivismo apra la strada allo slancio individuale e prepari l'avvento
del razionalismo filosofico.
D'altra parte il fattore religioso reagisce sui fattori politici. Esso contribuisce,
fra l'altro, al rafforzamento del particolarismo (Paesi Bassi, Germania). Il calvinismo, poi, con la sua concezione della chiesa quale società di eletti saldamente
organizzata ma a base democratica, condurrà alla formazione di organismi repubblicani (Svizzera, Olanda, colonie inglesi d'America).
Ma è soprattutto nel campo sociale che il protestantesimo, come nuovo
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Riforma e controriforma
ideale morale-religioso, basato sopra un rapporto tra la persona e dio, realizzantesi fuori dei sensi, nell'interiorità, porta a una radicale trasformazione. Non
è infatti possibile respingere la disciplina come complesso di comportamenti
esteriori senza lasciar cadere - come necessaria conseguenza - la distinzione
medievale fra clero e laicato, fra azione religiosa e azione mondana. Che si
tratti di un'innovazione di enorme importanza storica è fuori discussione; non
altrettanto chiari sono, però, i suoi riflessi immediati sui rapporti individuosocietà.
Taluno vede, nel ripiegamento del protestante in se stesso e nella svalutazione delle opere, la tendenza a « lasciare a sé il mondo, mero dominio del diavolo »; ciò non escluderebbe, tuttavia, che questo mondo, lasciato al diavolo,
possa subire una propria evoluzione raggiungendo mirabili risultati di ordine
scientifico, economico, sociale.
Ad altri sembra invece più valida la tesi secondo cui il protestante finisce
per identificare l'attività religiosa con quella civile. Campo delle opere della
fede diverrebbe allora la società secolare e il suo ordinamento; la società secolare
sarebbe l'unico strumento in grado di tendere all'attuazione dell'opera di dio
nel mondo. Sono, se ben si riflette, i logici sviluppi delle due interpretazioni
del valore della fede, sulle quali ci siamo precedentemente soffermati. Essi racchiudono due concezioni senza dubbio antitetiche della società: concezioni
nuove, comunque, rispetto a quella medievale e inconciliabili con essa, in quanto concludenti entrambe col riconoscimento - alla società civile - di un'autonomia piena e completa che l'uomo del medioevo non avrebbe mai potuto
ammettere.
In nessun settore i risultati di questa rivoluzione sono così radicali ed evidenti come in quello del lavoro. Tutta la civiltà classica ha svalutato il lavoro;
non solo il lavoro manuale, ma qualsiasi attività mirante al conseguimento di un
guadagno. Tale criterio è stato ripreso dagli umanisti, specialmente da quelli
italiani. Il cattolicesimo medievale non è andato più in là della parziale rivalutazione, implicita nell'attribuzione al lavoro di un carattere penale e pedagogico
insieme (remedium peccati).
Anche Lutero accetta questa definizione. Egli rimane inoltre su posizioni
sostanzialmente medievalistiche là dove, partendo dal presupposto che ognuno
è collocato da dio nel posto che gli compete, nega all'individuo il diritto di
passare da una professione all'altra allo scopo di ascendere nella gerarchia sociale.
Senonché la sua energica negazione della gerarchia e del culto lo porta a sopprimere ogni differenza tra servizio divino e lavoro quotidiano, tra culto e professione. Ogni distinzione tra professioni spirituali e professioni mondane è negata
alle radici. Il lavoro - tutto il lavoro - diviene servizio divino. Si serve dio
assolvendo nel miglior modo possibile i compiti che la professione comporta.
Ozio, mendicità, viver di rendita sono contro natura.
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Riforma e controriforma
Ma colui che porta la trasformazione del significato del lavoro alle sue
estreme conseguenze è Calvino. A prima vista la cosa può apparire strana,
quasi contraddittoria. A ben riflettere, però, essa risulta assolutamente chiara
e coerente.
Il motivo centrale della visione calvinistica del mondo è il concetto di predestinazione. Tra l'uomo e dio c'è un abisso, dio è tutto, l'uomo nulla. Dio ha
giudicato opportuno che solo una piccola parte degli uomini sia destinata alla
vita eterna. La destinazione dell'individuo è indipendente da ogni considerazione
di opere e di meriti; è un decreto imperscrutabile e immutabile, fissato ab aeterno.
Un simile principio sembrerebbe condannare l'uomo ad un'assoluta inazione.
Vero è invece il contrario. L'uomo,. nella sua terribile solitudine, cerca un segno,
una garanzia della propria elezione. Orbene, questo segno egli lo trova in primo
luogo nel fatto stesso di sentire angosciosamente il problema della salvezza e di
aver fede nel proprio destino; secondariamente, però, egli lo trova proprio nel
suo stesso contegno e nelle sue opere. Le opere non sono fattore di salvezza,
ma ratio cognoscendi dell'avvenuta elezione. Se l'amore per la natura e le creature
è essenzialmente peccaminoso, ciò non toglie che sia necessario agire sulla natura
e sulle creature, per piegarle a divenire lo specchio della divinità e per provare
l'avvenuta elezione di colui che in tale attività si impegna con un ritmo che
l'angoscia rende inesorabile e frenetico.
Il calvinista diviene così un attivista duro e teso, continuamente autocontrollato, convinto che in lui è dio stesso che agisce. Nasce così un tipo di asceta
mondano, il quale lavora non per godere della ricchezza, per adagiarsi nel riposo e nella quiete, ma per instaurare il regno di dio in terra e per accrescere
dentro di sé la fede nella propria salvezza. Il frutto del lavoro sarà usato legittimamente solo in quanto verrà investito in nuovo lavoro, e così all'infinito. Il
risparmio diviene fonte di nuova produzione e si creano le condizioni per il
sorgere della civiltà capitalistica.
Il lavoro grato a dio è quello metodico, disciplinato, razionale e cioè specializzato. Di qui l'importanza della divisione del lavoro stesso e, da un punto
di vista soggettivo, della scelta della professione. Qui Calvino supera decisamente
la concezione classista medievale accettata da Lutero. L'individuo ha l'obbligo
di lavorare nel settore più confacente alle sue attitudini, più redditizio per lui e
per la società. Per arrivare a tanto, egli ha non solo il diritto, ma addirittura il
dovere di mutare, se sia necessario, la propria condizione sociale. Con questo
appello a non legarsi al mondo, ma a lavorare nel mondo producendo e guadagnando senza tregua e senza riposo, il calvinismo contribuisce in maniera decisiva
a fondare il mondo moderno.
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IV
·
CONSEGUENZE DELLA RIFORMA
NEL CAMPO
DELL'EDUCAZIONE
Le conseguenze della riforma nel campo generale della cultura verranno via
via esaminate, quando se ne presenterà l'occasione, nel seguito dell'opera. Sembra
tuttavia opportuno dire subito qualche parola intorno ad esse limitatamente al
campo dell'educazione, sia perché le innovazioni qui realizzate ebbero un peso
immediato e rilevante nella storia della cultura, sia perché valgono a illuminare
piuttosto bene alcuni caratteri della riforma sui quali desideriamo attrarre l'attenzione del lettore. Gli argomenti che occorrerà a tal fine prendere in esame
sono due: le conseguenze che l'introduzione del libero esame ebbe nell'ambito
della cosiddetta «politica scolastica», e quelle che ebbe nell'ambito della vera e
propria educazione morale.
Quanto al primo punto, basterà osservare che il diritto-dovere di ogni cristiano ad interpretare liberamente la Bibbia presuppone, come è ovvio, che egli
abbia la capacità di leggerla direttamente. Pertanto il principio del libero esame
implica la « scuola per tutti », almeno nel suo grado elementare. Ma scuola per
tutti significa scuola gratuita e obbligatoria. La gratuità e l'obbligatorietà, poi,
esigono l'intervento dello stato o, comunque, di un'autorità pubblica la quale
possegga mezzi e forza sufficienti a fare della frequenza una realtà concreta e
non una mera dichiarazione di principio. Va notato, inoltre, che fu proprio
l'universale obbligo scolastico una delle cause che più stimolò l'affermarsi delle
varie lingue nazionali. Lutero traduce la Bibbia in tedesco, assolvendo nella
storia del suo paese un compito analogo a quello assolto in Italia dai grandi
toscani del Due-Trecento. Il latino, che pur continuerà ad essere insegnato nelle
scuole superiori, cessa di separare il clero dal laicato, e di conferire al culto un
carattere misterioso, esoterico. La gerarchia ecclesiastica perde un fondamentale
strumento di distinzione, e d'altronde- col libero esame -la funzione sacerdotale viene in certo senso estesa a tutti i credenti.
Quanto al secondo punto, va osservato che senza dubbio il libero esame
non è ancora la libertà di pensiero in senso moderno, dal momento che viene
pur sempre accettato il concetto di rivelazione. Il fatto, però, che al posto della
chiesa subentri direttamente dio la cui verità e la cui legge parlano dall'interno
del soggetto stesso, il fatto soprattutto che venga negato a una qualunque autorità umana il .diritto di dirigere il pensiero e di !imitarne la manifestazione,
crea i presupposti per la futura affermazione dell'autonomia della ragione.
L 'interiorizzazione della fede, poi, escludendo ogni possibilità di formalismo
farisaico e collegando la speranza nella salvezza ad una interiore autentica conquista di perfezione morale, pone l'uomo di fronte a se stesso, in condizione di
realizzare la propria personalità in un'atmosfera di spietata sincerità finora sconosciuta.
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Riforma e controriforma
Tutti i grandi riformatori- Lutero, Zwingli, Calvino - diedero, con l'azione e con la predicazione, un forte impulso alla realizzazione del programma
educativo testé delineato. Lutero, in particolare, scrisse varie opere di interesse
schiettamente pedagogico: An die Ratsherren aller Stiidte deutschen Landes (Ai consiglieri di tutte le città della Germania, I 524), Deutscher Catechismus e Kleiner Catechismus (Catechismo tedesco, detto pure Grande catechismo e Il piccolo catechismo,
I 529), Ein Predig, dass man Kinder zu Schiilen halten so/le (Sermone sulla necessità di
mandare i fanciulli a scuola, I 530).
Senza scendere in particolari sui suoi piani didattici, basti osservare che,
pur affermando che il fine ultimo dell'educazione resta quello religioso, egli
cercò di sottolineare varie volte l 'importanza della scuola anche in rapporto
alla vita terrena. È proprio in nome di questa importanza, che Lutero può richiamare energicamente le autorità statali al dovere di creare e finanziare la
scuola per tutti: « Se ogni anno si spende tanto denaro per comperare macchine da guerra, per costruire strade, per sistemare i ponti e per mille altri
oggetti di utilità pubblica, perché non impiegarne molto di più, o almeno altrettanto, per nutrire dei maestri di scuola, uomini attivi e intelligenti, capaci di allevare e di istruire i nostri giovani? »
Lutero si occupa pure della scuola superiore, ed è interessante notare a conferma dell'influenza esercitata su di lui dall'umanesimo- che prevede per
essa, tra gli insegnamenti fondamentali, quelli del latino, del greco, dell'ebraico,
la cui conoscenza è reputata indispensabile affinché almeno qualcuno sia in grado
di risalire alle fonti della Scrittura. La lingua materna deve invece venire usata
per leggere la Bibbia e per cantare (ricordiamo che nella liturgia luterana al
canto popolare, spontaneo, melodico è assegnata una funzione di grande rilievo,
perché lo si ritiene atto al sincero esprimersi dello slancio .interiore).
Per quanto riguarda l'organizzazione della scuola non diretta al popolo,
non può venire dimenticato il contributo decisivo ad essa dato da Philipp Melancthon 1 (I 497- I 56o), dottissimo professore e umanista; la cui adesione al movimento protestante incise profondamente sui rapporti fra riforma e umanesimo.
Senza voler qui discutere entro quali limiti il pensiero di Melantone possa dirsi
effettivamente protestante (è fuori dubbio che egli ripudiò alcuni temi più
nuovi e rivoluzionari della riforma), dobbiamo comunque riconoscere che a
lui si deve se un importante nucleo del pensiero umanistico-rinascimentale riuscì,
nei paesi riformati, a inserirsi in larghi strati e ad influire in modo decisivo sulla
formazione di una vera e propria cultura nazionale tedesca. L 'istruzione superiore,
riorganizzata nelle linee tracciate da Melantone, contribuì efficacemente a formare
il primo nucleo di una classe (di funzionari e professori) che saprà ben presto
acquistarsi la stima generale per solidità di sapere, fedeltà al dovere, energia spiI Il vero nome dell'autore in questione è
Schwarzerde (terra nera), di cui Melancthon è la
grecizzazione, secondo una consuetudine assai diffusa nell'epoca.
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Riforma e controriforma
rituale: la classe, come dirà lo storico Harmack, onorata e illuminata, non sacerdotale, degli impiegati con cultura accademica e dei maestri superiori, degna di
porre la propria candidatura alla direzione della nazione.
Bisogna invece riconoscere, purtroppo, che i motivi più schiettamente democratici della riforma rimasero in gran parte inattuati, proprio in campo
educativo, ed anzi vennero spesso persi di vista dagli stessi pedagogisti presi
da eccessivo entusiasmo per l'umanesimo letterario. Si può d'altra parte osservare
che questo concentrarsi dell'interesse verso le scuole superiori-latine rispondeva
all'esigenza più urgente: quella di formare ecclesiastici, maestri e magistrati
illuminati, senza di che il progresso dell'educazione popolare sarebbe rimasto
mera velleità. Comunque, resta il fatto che la scuola popolare non riuscì a trovare, nel xvr secolo, un solido assetto; i generosi tentativi dei pochi isolati saranno poi annientati dalla guerra dei trent'anni.
V
· LA CONTRORIFORMA
Abbiamo più volte fatto presente che nell'ambito della cristianità l'esigenza
di riformare la chiesa era vecchia di secoli; ora dobbiamo aggiungere che nello
stesso XVI secolo essa continuò ad essere vivamente sentita anche negli ambienti
che non intendevano seguire l'eresia protestante. È chiaro però che la condanna
di Lutero (I 5zo) limitò notevolmente le possibilità di azione dei « riformatori
cattolici ». Per un lato la frattura della cristianità confermava in modo irrefutabile
la necessità e l 'urgenza di un profondo rinnovamento della chiesa romana, se
non si voleva andare incontro alla sua definitiva rovina; per un altro lato, però,
ogni tentativo innovatore era tenuto a muoversi con la massima cautela, per il
timore di venire accusato di simpatie luterane. Ed erano senza dubbio molte,
intorno al papato, le forze conservatrici che minacciavano contro tutto e tutti
accuse del genere, al fine di poter conservare intatti i loro privilegi. Con l'elezione
al soglio pontificio di Paolo m Farnese (I 534-49) i movimenti di riforma
riescono finalmente a salire dalle « membra » periferiche al « capo », e il papa
stesso prende finalmente l 'iniziativa di convocare un concilio che prepari le
basi della riforma cattolica.
Come non ci siamo fermati ad esporre, neanche in forma schematica, le
varie fasi di sviluppo della riforma protestante, così non ci fermeremo ora a
delineare l'andamento del concilio di Trento (I 545-63) e delle successive
iniziative con cui si cercò (in taluni casi con forti limitazioni) di attuarne sul piano
pratico i dettami. Una cosa non va comunque dimenticata: che, alla conclusione
del concilio, molti ritenevano in buona fede che stesse per iniziare una nuova
epoca della storia della chiesa.
Il concilio aveva formulato con chiarezza i capisaldi del dogma, respingendo
decisamente le innovazioni che i protestanti avevano cercato di introdurvi: in
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Riforma e controriforma
primo luogo aveva confermato che l'intervento della grazia, nella salvazione
del cristiano, non annulla l'efficacia delle opere; in secondo luogo aveva confermato il valore di tutti e sette i sacramenti; in terzo luogo aveva riaffermato l'essenzialità della funzione esercitata - nella storia della comunità cristiana dalla chiesa, perennemente illuminata dallo spirito santo e perciò custode sicura
della rivelazione e della salvezza. Esso aveva inoltre indicato alcuni provvedimenti indispensabili, per ridare vigore alla chiesa, per rimetterla in condizione di
presentarsi ai cristiani come vero centro di vita religiosa.
Di fatto vennero attuate alcune riforme disciplinari del clero, venne dato
nuovo impulso alle pratiche di pietà (preoccupandosi però di rinserrarle in una
rigida regolamentazione), vennero incrementati gli studi biblici e quelli filosoficoteologici; si appoggiò lo sviluppo degli ordini religiosi (di nuova o di antica
istituzione) assegnando loro il triplice compito di fronteggiare e fermare l'avanzata protestante, di riconquistare al cattolicesimo le popolazioni che avevano
accolto l'eresia, e infine di espandere (per mezzo di una coraggiosa azione missionaria) la religione cattolica nei paesi extraeuropei.
Oggi si dibatte frequentemente tra gli studiosi di storia, se l'insieme di tutte
le iniziative del genere testé accennato meriti davvero il nome di « riforma cattolica », e soprattutto se sia possibile tracciare un precisa linea di demarcazione
fra tale movimento riformatore e la cosiddetta controriforma che ben presto
finì per avere il sopravvento, irrigidendo e cristallizzando la vita di tutto il
cattolicesimo (sia pure su posizioni diverse da quelle antecedenti al concilio di
Trento).
Non intendendo entrare in tali dibattiti, abbiamo spesso parlato nelle pagine
precedenti di « controriforma, o riforma cattolica », senza voler negare con
ciò la possibilità di stabilire fra esse una distinzione. Il fatto è, però, che le fortissime pressioni politiche esercitate sulla chiesa dagli stessi monarchi rimasti fedeli
al cattolicesimo, le resistenze frapposte ad ogni iniziativa autenticamente riformatrice da parte di molti prelati conservatori, l'irrigidimento delle nuove chiese
protestanti e la stessa forma delle lotte apertesi fra esse e la chiesa romana,
incisero fin dall'inizio sul movimento riformatore cattolico, sì da fargli assumere
immediatamente (o quasi) molti caratteri tipicamente controriformistici (ricordiamo che la nascita del tribunale del sant'uffizio risale al 1 542). D'altra parte
bisogna riconoscere che, anche durante il periodo indiscutibilmente controriformistico, non mancarono nell'ambito della chiesa uomini fedelissimi a Roma,
i quali erano sinceramente convinti di lavorare per il rinnovamento del cattolicesimo.
Il motivo per cui rinunciamo a compiere una sottile distinzione fra « riforma cattolica » e « controriforma », è agevolmente spiega bile: ciò che interessa
- dal nostro punto di vista- non è il riuscir a differenziare fra loro gli elementi
validi e gli elementi reazionari presenti nel complesso fenomeno, ma è il riuscir
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Riforma e controriforma
a spiegare la nuova atmosfera che esso creò nella cultura di paesi cattolici, e che
senza dubbio condizionò in notevole misura lo sviluppo del pensiero filosoficoscientifico.
Se - come abbiamo più volte ripetuto - non riteniamo lecito scindere
questo sviluppo dal parallelo sviluppo della società, entro la quale vengono via
via sollevati i problemi filosofici e scientifici, sarà necessario tenere costantemente
presenti nel nostro studio le trasformazioni obiettive di tale società, indipendentemente dal giudizio che possiamo pronunciare su di esse.
VI
· CONSEGUENZE DELLA CONTRORIFORMA
NEL CAMPO DELL'EDUCAZIONE. I GESUITI
Avremo parecchie occasioni, nei capitoli seguenti, di soffermarci sulle profonde influenze esercitate dalla controriforma nel campo generale della cultura.
Qui vogliamo però subito accennare, come si è fatto per la riforma, alle influenze
del movimento controriformistico nell'ambito dell'educazione, ambito a cui esso
dedicò senza dubbio molte energie, come era del resto ben naturale dati gli scopi
che la controriforma si proponeva.
Già si è fatto cenno nel paragrafo precedente all'impulso che la chiesa cattolica diede, durante e dopo il concilio di Trento, alla rinascita degli studi teologico-filosofici; ora vale la pena di precisare in quale senso si orientò tale impulso, che immediatamente si rifletterà nel campo dell'istruzione.
Sappiamo dai capitoli precedenti che la cultura umanistica aveva diffuso
in larghi ambienti un senso di vivo scontento nei confronti della filosofia scolastica, tuttora dominante nelle università. Orbene la controriforma non vuole,
né può, negare la fondatezza, almeno parziale, di tale scontento; sa tuttavia che
le critiche degli umanisti sono state specificamente dirette contro gli ultimi
indirizzi della scolastica, e si vale proprio di ciò per rinnegare esclusivamente
tali indirizzi rivalutando - contro di essi - i classici della prima scolastica
(Anselmo, Tommaso, Bonaventura, Duns Scoto). Questa intelligente operazione
le consente di abbandonare il nominalismo e le troppo sottili ricerche logiche,
che davano tanto fastidio agli umanisti, cercando invece negli autori testé accennati le linee di una metafisica organica, capace di venire sviluppata criticamente onde collegarsi ai nuovi problemi dell'epoca. Il filosofo medievale che meglio risponde a questa esigenza è Tommaso; perciò il suo pensiero diventa la base della rinascita filosofico-teologica promossa dalla controriforma. Già abbiamo detto che
nel I 56 5 il papa Pio v lo proclama dottore della Chiesa; da quel momento in
poi il tomismo diventerà la filosofia ufficiale delle scuole organizzate dall'autorità
cattolica.
Quanto ora detto ci porta ad illustrare un secondo punto di contatto fra
la controriforma e l 'umanesimo. Sappiamo che questo aveva sostenuto la ne-
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La mano di colui che prega: illustrazione da un manuale di preghiere del periodo della controriforma.
Chantilly, Scuola dello Scolasticato.
cessità di ritornare allo studio dei testi nella loro autentica purezza. Ebbene anche
la controriforma sostiene la necessità di un accostamento diretto alle fonti della
dottrina cristiana; promuove pertanto lo studio dei testi sacri, delle opere degli
antichi padri della chiesa, dei deliberati dei primi concili, ecc. dando avvio alla
cosiddetta «teologia positiva» che si colloca degnamente accanto alla teologia
filosofica. Si potrà in tal modo parlare di un vero e proprio « umanesimo cristiano » che prosegue ed estende le indagini dell 'umanesimo quattrocentesco.
Quanto alle opere dei classici greci e latini, non ne rinnega affatto l 'importanza,
ma ne limita il valore, proponendoli, non più come modelli di pensiero filosoficamente valido, bensì come modelli di stile limpido e perfetto. In questi limiti
essi costituiranno - accanto alla filosofia tomistica - uno dei cardini dei rinnovati programmi scolastici.
Abbiamo fatto cenno, nel paragrafo precedente, al pullulare di nuovi ordini
religiosi nel Cinquecento: barnabiti, teatini, somaschi, gesuiti, ecc. Fra essi,
quello di gran lunga più importante fu senza dubbio l'ordine dei gesuiti, nato
nel I 534, con propositi apertamente riformistici (ben inteso di « riforma cattolica »), ad opera di Ignazio di Loyola e di alcuni suoi compagni di studi; un abbozzo di regola venne approvato nel I 540 dal papa Paolo n r. Già nel I 556 l'or73
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Riforma e controriforma
dine annoverava circa un migliaio di membri. In conformità col passato militare
del suo fondatore esso prende il nome di « compagnia » e assume il carattere
di un vero e proprio strumento di guerra (in un primo tempo diretto a convertire i musulmani, poco più tardi alla difesa della cattolicità e alla sua espansione in ogni paese). La struttura della compagnia è rigidamente gerarchica,
animata da spirito di combattività e, soprattutto, di obbedienza. I gesuiti non
riconoscono come superiore nessun principe della chiesa; sono esenti dalla giurisdizione di ogni prelato che non sia del loro ordine. Loro capo supremo è
il preposto generale, soggetto alla costituzione, alle leggi dell'ordine e in base
ad uno speciale vincolo, direttamente al papa. Essi svolgono nel modo più
conseguente i principi della restaurazione cattolica. Da un lato appaiono ottimisti nei riguardi dell'umanità, nella cui iniziativa e nelle cui opere scorgono
una vera e propria collaborazione con l'opera di dio, collaborazione indispensabile perché la grazia possa a sua volta intervenire e compiere l'azione salvatrice.
D'altro canto rivelano un sostanziale pessimismo nei riguardi della personalità
individuale, alla cui autonoma iniziativa negano la capacità di raggiungere la
perfezione morale e religiosa. Questo li porta per un lato a respingere la interpretazione del cristianesimo come libertà interiore ed esaltazione della soggettività,
interpretazione già cara allo spirito francescano e portata alle sue estreme conseguenze dal protestantesimo; per l'altro ad accettare, del cristianesimo stesso,
una interpretazione che possiamo definire « politica ».
Secondo le direttive generali della controriforma, poco sopra accennate, i
gesuiti accettano in linea di massima il tomismo, quale strumento di recupero
dell'egemonia culturale della chiesa. Non hanno tuttavia difficoltà, per poter
attuare una certa apertura verso istanze più moderne, ad apportarvi alcune rettifiche, purché non tali da scalfire comunque i principi del dogma. Fra tali tentativi di apertura, ricordiamo: quello di Francisco Swirez (I548-I617) autore di
un grande trattato di metafisica scolastica (ricca di corollari sulla dottrina politica
e giuridica) con qualche interessante concessione al nominalismo occamista per
quanto riguarda il riconoscimento dell'individualità del reale, e quello di Luis
Molina (I 53 5- I 6oo) che, preoccupato di trovare un accordo (in funzione antiprotestante) fra libertà e prescienza divina, giunge a talune posizioni ove i suoi avversari riscontreranno germi di semipelagianesimo (dottrina questa, come si
ricorderà, vivacemente combattuta da Agostino).
Un'apertura ancora maggiore essi dimostrano nei problemi scientifici e in
quelli morali. Rinviando ad altri capitoli la discussione della posizione assunta
dai gesuiti su certi problemi di fondo del pensiero scientifico, come il copernicanismo, qui ci limitiamo a ricordare che la compagnia annoverò per lungo tempo
dei cultori senza dubbio valenti di parecchie scienze speciali. Quanto all'apertura
morale, va menzionato il loro lassismo, mediante cui cercarono di richiamare entro il grembo della chiesa uomini dai più discutibili costumi. È rimasto celebre
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Riforma e controriforma
l'acrobatismo della loro casistica, che tutto riesce a giustificare (tranne, ben inteso, l'eresia o lo scisma) mediante una sottile distinzione fra morale minore e
maggiore.
Lo strumento pratico più efficace per la costruzione di un nuovo tipo di cultura (moderna ma assolutamente fedele alla chiesa) è fornito dai« collegi» che essi
fondano numerosi in ogni paese cattolico. L'educazione vi è impartita, secondo
precise regole fissate dalla Ratio studiorum ( 15 99), in base a un programma di insegnamento che rispecchia in sé la tendenza generale (già da noi accennata) della
controriforma a far propri alcuni motivi dell'umanesimo, integrandoli però con
una concezione del mondo e di dio ricavata dalla filosofia tomistica.
I collegi dei gesuiti non sono aperti al popolo (l'educazione popolare ed
elementare è affidata ad altri ordini), ma appositamente istituiti per la formazione
dei ceti dirigenti. Si prevede che gli allievi ivi formati continueranno, anche dopo
concluso il ciclo scolastico, a mantenere stretti legami con la compagnia, tramite l'opera del «direttore spirituale», che impartirà loro consigli e prescrizioni
adeguati alle varie circostanze della vita.
Non si può negare l'efficienza di tutta questa complessa organizzazione, che
plasmerà molte coscienze, e riuscirà ad esercitare una notevolissima influenza sui
costumi sociali dell'epoca nonché sulla stessa politica degli stati cattolici. Se però
ci domandiamo in che misura essa riuscirà davvero a dirigere la cultura, riconducendola nell'alveo del cattolicesimo, dobbiamo francamente riconoscere che non è
stata in grado di raggiungere il suo scopo. Gli è che l 'autentica cultura non si
lascia imbrigliare da alcuno schema precostituito, né illudere da alcuna maschera.
Proprio dalle scuole dei gesuiti uscirono, non di rado, i più severi critici della
loro concezione politico-filosofica; coloro che denunciarono con maggior vigore la reale inconsistenza della loro apertura al mondo moderno.
Nuovi problemi si affacciarono all'umanità, per la cui soluzione fu necessario elaborare nuovi indirizzi di pensiero. Di fronte ad essi il movimento controriformista si trovò perlopiù disarmato, malgrado la sua efficientissima organizzazione, e finì per essere sconfitto.
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CAPITOLO SESTO
Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
I
· CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
SUL MOLTIPLICARSI DELLE RICERCHE SCIENTIFICHE
Non è certo possibile fornire in poche pagine un quadro completo dei numerosi progressi conseguiti, durante il XVI secolo, dalle singole scienze; purtuttavia riteniamo indispensabile segnalare alcune fra le più significative scoperte
che risalgono a tale periodo, poiché dovremo fare di frequente riferimento ad
esse nel seguito della nostra esposizione, sia trattando di problemi filosofici
generali sia trattando di problemi più specificamente metodologici.
Ciò che va, comunque, posto bene in chiaro è che questi progressi, malgrado
il loro numero rilevante e la loro incontestabile importanza, non segnano ancora,
di per se stessi, la vera e propria nascita della scienza moderna. Essi costituiscono
senza dubbio una premessa essenziale per tale nascita, uno dei fattori determinanti per il suo avverarsi; non l'unico, però, come cercheremo di spiegare nel
capitolo IX. Il fatto è che il trapasso delle varie ricerche dalla fase prescientifica
a quella autenticamente scientifica non è tanto contrassegnato dal moltiplicarsi
dei risultati particolari, quanto da una svolta metodologica, che muta nelle sue
più profonde strutture l'impianto stesso della ricerca.
Questa constatazione, però, fa subito sorgere un problema. Poiché la grande
svolta metodologica che segna l'inizio della scienza moderna venne realizzata solo
nel Seicento (in pratica con Galileo), e poiché di conseguenza essa può venire
invocata solo per spiegare l'accresciuta produzione scientifica di tale secolo e
dei successivi, che cosa potrà spiegare il moltiplicarsi dei risultati raggiunti (mediante vie talvolta assai discutibili) dai ricercatori del Cinquecento in pressoché
tutte le scienze particolari?
Le cause di questa rinascita della scienza, che precede la sua rivoluzione metodologica, vanno cercate in alcuni fatti di natura generale verificatisi durante
il Cinquecento, oltreché in talune circostanze particolari che possono aver favorito questa o quella singola disciplina (tra queste circostanze particolari va
collocata ovviamente la « fortuna » di avere trovato dei cultori di eccezionale
ingegno).
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
Limitandoci alle cause del primo tipo, che spiegano la rinascita generale
delle ricerche scientifiche nel Cinquecento, riteniamo opportuno richiamarne subito tre.
La prima di esse è senza dubbio costituita dal progresso economico dell'intera società, che favorì il risveglio di tutta la cultura in ogni sua manifestazione:
artistica, filosofica e scientifica. Poiché di questo argomento ci siamo già occupati a lungo nel capitolo I, non è qui necessario dedicarvi ulteriori considerazioni.
La seconda causa va probabilmente cercata nelle sempre più precise e pressanti richieste che venivano da ogni parte rivolte ai tecnici per rendere più
efficienti i mezzi di produzione, di comunicazione, di distruzione, ecc.; e nella
impossibilità - da parte dei tecnici - di risolvere i nuovi, ognor più difficili,
problemi senza l'ausilio di meditate riflessioni, sistematicamente condotte con
tutti gli strumenti teorici e pratici allora posseduti. Su questo interessante tema
rinviamo il lettore a quanto detto nel capitolo III.
La terza causa, di cui pure abbiamo già fatto cenno in tale capitolo, va connessa al rinnovato risveglio delle ricerche filologiche, che misero a disposizione
degli studiosi rinascimentali molte opere greche (tradotte in latino o in lingue
moderne) e latine - fino allora ignote o mal note - di argomenti scientifici e
tecnici.
A tal proposito possiamo aggiungere a quanto detto nel capitolo m qualche indicazione più precisa sulle traduzioni eseguite e pubblicate nel Cinquecento.
Questo ci confermerà quanto fosse vivo e diffuso, nel secolo in esame, l 'interesse
per gli scienziati antichi, da cui i moderni sapevano di poter attingere tanti
preziosi insegnamenti.
Com'è facile comprendere, gli Elementi di Euclide furono l'opera scientifica che venne pubblicata in maggior numero di edizioni. La prima, che risale
al I482 (Venezia), è una traduzione latina (dall'arabo) dovuta a Giovanni Campano, vissuto nel XIII secolo; essa fu ristampata nel I49I (Vicenza). Nel I 505 ne
venne pubblicata, pure a Venezia, un'altra traduzione latina, a cura di Bartolomeo
Zamberto, assai migliore della precedente. Al I 5 33 risale l' editio princeps del tes~o
greco, pubblicata a Basilea, che rimarrà a lungo la fonte principale delle edizioni
posteriori. Nel I 543 Nicolò Tartaglia diede alle stampe una traduzione italiana
degli Elementi, non molto soddisfacente ma ampiamente commentata. Nel I 562 ne
uscì la prima traduzione tedesca, limitata ai primi sei libri; nel I 564 la prima traduzione francese, essa pure limitata ai primi sei libri, seguita però nell'anno successivo dalla traduzione dei libri VII, VIII, IX. La prima traduzione inglese, basata su quella del Campano, venne pubblicata nel I 570; la prima spagnola (limitata ai libri I-VI) nel I n6. Non potendole ricordare tutte, ci limiteremo a segnalare due versioni latine particolarmente curate sia dal punto di vista filologico che da quello scientifico: una uscita a Pesaro nel 15 7 2 a cura di Federico
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
Commandino (tradotta in italiano nel 1575) e l'altra a Roma nel I574 a cura del
gesuita padre Clavio. 1
I quattro libri allora noti delle Coniche di Apollonia vennero pubblicati a
Venezia nel I 53 7 in traduzione latina a cura di Giambattista Memo. Nel I 566 Commandino ne pubblicherà un'altra versione, assai migliore, arricchita di alcuni testi
di Pappo e di altri matematici dell'antichità.
La prima importante traduzione latina di alcune opere di Archimede (fra
cui il primo libro del famoso trattato Sui galleggianti) venne pubblicata, a Venezia,
nel I 543 da Tartaglia. Nel I 544 uscì a Basilea un'accurata edizione greca di
quasi tutte le opere allora note del siracusano, con acclusa traduzione latina di
Jacopo da Cremona (un discepolo di Vittorino da Feltre); nel I 55 8 Commandino
ne farà una nuova più soddisfacente traduzione latina. Intanto era uscita nel
I 55 7 una traduzione commentata dell'Arenario a cura del francese Pasquier
Duhamel. Nel I 588 Guidobaldo del Monte pubblicherà una traduzione dei
suoi scritti di S fatica.
Per quanto riguarda gli altri matematici greci, basti ricordare che nel I 57 5
il tedesco Wilhelm Holzmann pubblicò una traduzione latina completa delle Cose
aritmetiche di Diofanto.
Fra le traduzioni di scritti di Erone segnaliamo quella italiana degli Pneumatica-ad opera di Giovan Battista Aleotti (dal titolo Gli artifttiosi et curiosi moti
spirituali di Herone) e quella pure italiana degli Automa/a ad opera di Bernardino Baldi (Di Herone alessandrino degli automati overo machine se 1noventi), entrambe
del I 589.
Numerose furono pure le edizioni di testi di medicina e di scienze naturali.
Uno dei primi libri mandato alle stampe fu il trattato De medicina di Celso, riscoperto nella prima metà del xv secolo; la prima edizione di esso risale al I478
(Firenze) cui ne seguirono varie altre: nel I492, nel I495, nel Ip6, ecc. Non si
ebbe invece, nel Quattrocento, alcuna edizione di Ippocrate; la prima risale al
I 52 5 (Roma) ed è una traduzione latina di tutti gli scritti ippocratici allora noti,
curata da Fabio Calvi. L'anno successivo uscirono: un'altra traduzione latina
(Basilea) dell'« intera» opera di Ippocrate e il testo originale greco (Venezia).
Una nuova edizione del testo greco, notevolmente migliorata, verrà pubblicata
nel I 59 5 a Francoforte.
Più immediata diffusione delle opere di Ippocrate conobbero invece i numerosissimi scritti di Galeno, sia di medicina che di anatomia e fisiologia, alcuni
dei quali vennero stampati in traduzione latina già nell'ultimo quarto del xv secolo. Basti ricordare l'edizione del I49o (Venezia) che ambiva presentarsi come completa. Nel I525 (Venezia) e nel I538 (Basilea) uscirono due edizioni «complete»
r Clavio dimostrò con fondatezza l'impossibilità di confondere l'autore degli Elementi con
il filosofo Euclide di Megara, discepolo dì Socra-
te. Tale confusione compariva nello stesso titolo
di molte edizioni dell'epoca, per esempio nelle traduzioni di Zamberto, di Tartaglia, ecc.
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
delle opere galeniche nell'originale greco. Durante tutto il Cinquecento Galeno
sarà uno degli autori più letti in Francia, Inghilterra, Italia. Basti ricordare che
nel I 528 furono pubblicate a Parigi le traduzioni latine di vari suoi trattati, fra
i quali il famoso De usu partium; nel I 55I venne pubblicata a Lione la traduzione
latina, curata dal medico umanista tedesco Johannes Giinther, del trattato De
anatomicis administrationibus (Sui procedimenti anatomici).
Ancora più numerose furono le edizioni della Naturalis historia di Plinio
il vecchio: non meno di quindici in latino e. tre traduzioni italiane nella seconda
metà del Quattrocento; più di quaranta in latino nel Cinquecento oltre a varie
traduzioni in tutte le lingue dell'Europa occidentale.
L'elenco delle edizioni rinascimentali di opere scientifiche dell'antichità (e
anche del medioevo) potrebbe proseguire per pagine e pagine; ma i titoli riferiti sono sufficienti a dimostrare che i testi greci tradotti e pubblicati- malgrado
la prevalenza di opere matematiche e mediche- riguardavano all'incirca tutte le
discipline. Possiamo concluderne che la rinascita delle ricerche scientifiche nel
Cinquecento costituisce un proseguimento diretto della scienza greca: è un
fatto che va tenuto presente se v_ogliamo spiegarci l'alto livello rapidamente raggiunto da tali ricerche.
Il
- ASPETTI NON SCIENTIFICI DELLE INDAGINI
SCIENTIFICO-TECNICHE RIN ASCIMENTALI
Come si è ribadito nel paragrafo precedente, lo studio accurato e sistematico
della scienza antica costituì senza dubbio un elemento fondamentale della rapida
rinascita delle ricerche scientifiche durante il XVI secolo. Non fu l'unico, però;
e il fatto singolare è che un altro elemento di questa rinascita fu invece costituito
dall'accresciuto interesse per un gruppo di indagini che oggi noi qualifichiamo
senza ombra di dubbio come antiscientifiche mentre nel Cinquecento erano da
tutti ritenute strettamente affini alla ricerca scientifica. Intendo riferirmi alle indagini di astrologia, di alchimia, di magia.
Anche di esse è necessario tener conto, per comprendere i caratteri della
scienza cinquecentesca; per non rimanere malamente sorpresi quando si leggerà
che un dato personaggio (ad esempio Cardano) era nel contempo grande matematico, medico e mago. Il fatto che la medesima persona si dedicasse con pari
serietà a ricerche che oggi noi consideriamo autenticamente scientifiche e ad
altre che consideriamo estranee alla scienza, sta semplicemente a confermare che
la rivoluzione scientifica non era ancora stata condotta a termine, e cioè che la
vera e propria scienza (nel senso moderno del termine) a rigore non era ancora
nata.
La critica odierna tende tuttavia ad annettere un valore in certo senso positivo anche all'astrologia, all'alchimia, alla magia, riconoscendo che esse hanno
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
compiuto una funzione assai importante nel laborioso processo che ha preparato
l'anzidetta rivoluzione. 1
Dell'astrologia abbiamo già più volte fatto cenno, osservando che essa era
generalmente ammessa dagli aristotelici padovani mentre era considerata con
sospetto dai platonici (era per esempio combattuta da Giovanni Pico della Mirandola). Gli è che quelli non avevano nulla, in via di principio, da obiettare
contro la tesi dell'interconnessione generale dei fenomeni e, nell'ambito di
questa tesi, erano disposti ad ammettere l'esistenza di ben determinate influenze
degli astri sulle vicende del nostro mondo (in particolare sulla vita dell'uomo);
Pico si rifiutava invece di ammetterla, non perché avesse dimostrato l'inaccettabilità scientifica di tale influenza, ma solo perché riteneva che essa comportasse
una troppo grave limitazione alla libertà dell'uomo.
Dall'ammissione dell'astrologia fra le discipline scientifiche era poi naturale passare a quella dell'alchimia: le stesse cause occulte che presiedono agli influssi astrologici presiedono anche agli influssi fra elementi. La famosa tavola
astrologico-alchimistica consacrava l 'interdipendenza delle due discipline stabilendo precise corrispondenze di pietre e metalli con gli astri.
Le ricerche alchimistiche possedevano però una caratteristica specifica (potremmo dire di «attività») assente da quelle astrologiche. L'astrologo infatti
non può intervenire operativamente sul moto dei corpi celesti per produrre o
impedire questa o quella combinazione astrale; egli potrà tutt'al più consigliare
che una certa impresa venga o non venga tentata in un certo momento perché la
posizione degli astri è o non è ad essa favorevole. L'alchimista invece può fare
ben di più: può sforzarsi di isolare certi elementi, per combinarli o ricombinarli
con altri, al fine di creare certi composti che - in virtù delle forze occulte in
essi operanti ·- dovranno risultare capaci di diffondere intorno a sé proprio le
«influenze>> da noi desiderate. Così vi è chi accetta l'alchimia, mentre respinge
l'astrologia, tale accettazione o rifiuto dipendendo peraltro dalla teoria filosofica
che si accoglie per l 'interpretazione generale della natura.
Quanto alla magia, essa non è una disciplina chiaramente circoscritta: il
termine « mago » denota, in generale, chiunque riesca a provocare eventi singolari, agendo in modo più o meno misterioso sulle forze occulte della natura (uno
strumento prezioso per tale azione sarà, appunto, fornito dai procedimenti alchimistici).
Il principio fondamentale di gran parte della magia cinquecentesca è che
il mondo della natura sia mosso da forze spiritiche, intrinsecamente simili a
quelle dell'anima umana: le principali tecniche per intervenire su tali forze
dovranno quindi avere, esse pure, un carattere spiritico: Il nesso fra tale princirispetto alla magia medievale, si ritornerà, da un
diverso punto di vista, nel paragrafo II del capitolo VIII della quarta sezione.
1 Sui motivi che favorirono la reviviscenza
della magia nell'umanesimo e nel mascimento,
nonché sul nuovo significato che questa assunse
So
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
pio e la concezione animistica, sostenuta da molti umanisti neoplatonici, è così
evidente che non vale la pena fermarsi ulteriormente su di esso.
Né questo intromettere forze occulte o forze spiritiche in indagini che pretendevano essere a loro modo serie deve costituire un motivo di eccessivo stupore. Nel Cinquecento tutti vedevano la natura interamente pervasa da forze di
tipo siffatto: popolo e preti parlavano continuamente di miracoli compiuti da
dio o dal demonio, streghe e stregoni eseguivano ogni giorno i più strani esorcismi; nulla di più comprensibile, dunque, che anche studiosi autentici ricorressero senza alcuna ripugnanza concettuale a tipi di forze che oggi non potrebbero
venire invocati se non da persone in mala fede o visionarie.
La magia seria, però, ossia la « magia naturale », dava alle proprie ricerche
una impostazione ben diversa da quella che stava alla base dei vari generi di
esorcismi. Il mago ammetteva sì l'esistenza di fenomeni «strani» (cioè non rientranti nelle solite norme dell'esperienza quotidiana), e riteneva di poter intervenire sulla loro produzione, ma li considerava in ogni caso come « naturali », cioè
come effetti di forze occulte di carattere naturale e non sovrannaturale.
Bisogna d'altra parte tener presente che l'interesse per tali fenomeni «strani» proveniva esso pure - come l'interesse autenticamente scientifico - da
una curiosità perfettamente legittima: dal desiderio cioè di osservare la natura
in tutti i suoi aspetti, più o meno reconditi. E se il mago, per cercare di darne
una spiegazione « naturale », non faceva ricorso alle categorie che potevano venirgli fornite dalla «scienza ufficiale» dell'epoca (che era poi la scienza aristotelica), si trovava in ciò perfettamente giustificato dal fatto che tali categorie
non risultavano sicuramente in grado di spiegare i fenomeni anzidetti (per esempio i « parti mostruosi », certe illusioni ottiche, certi effetti magnetici, per non parlare delle grandi catastrofi, delle pestilenze, e financo di taluni fenomeni celesti
come comete, apparizioni di nuove stelle, ecc.). Il tentare di connettere fra loro
tali fenomeni (poniamo, la comparsa di una cometa con il verificarsi di una particolare catastrofe) rientrava abbastanza bene nel quadro di un'indagine, se
non scientifica, almeno ipotetico-scientifica (e le ipotesi usate da maghi, astrologi,
alchimisti apparivano, in quel secolo, perfettamente plausibili).
È infine comprensibilissimo il legame tra la magia e la tecnica. Già abbiamo
detto che il mago non si accontenta di contemplare passivamente i fenomeni della
natura, ma vuole modificarli (favorendo il verificarsi degli uni e impedendo il verificarsi degli altri). La sua non è una disciplina puramente speculativa; vuole
essere attiva, operativa, capace di accrescere in concreto la potenza dell'uomo. Ed
è presumibile che le tecniche del mago qualche successo (reale o apparente) riuscissero a conseguirlo, se tanto profonda e tanto diffusa era la fiducia in esso riposta. Egli osservava pazientemente (se pure senza sistematicità) il corso dei
fenomeni, tentava di compiere autentici esperimenti (ovviamente senza condurli
con «metodo scientifico»), si sforzava di dare una qualche interpretazione dei
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
pochi e disorganici risultati scoperti (interpretazione per lui plausibile, anche se
per noi pazzesca); nulla di sorprendente, quindi, se le sue indicazioni per intervenire sulla natura (per correggerla, trasformarla, ecc.), dovessero, almeno in qualche
caso, risultare più efficaci delle azioni istintive dell'uomo comune non fondate
su alcuna forma di « sapere » !
Fino a che punto possiamo dire che gli artifizi ideati dal mago e dall'alchimista fossero veramente degni del nome di tecniche? Oggi noi sappiamo, per
esempio, che gli alchimisti avevano scoperto molte proprietà effettive di talune
importanti sostanze chimiche, e che in qualche caso queste proprietà si erano
rivelate assai utili nella preparazione di medicinali, nella lavorazione di metalli,
ecc. Ma spesso ritroviamo, accanto ad esse, altre nozioni alchimistiche assolutamente inaccettabili, cui veniva tributata altrettanta fiducia. Dove passava la linea
di demarcazione effettiva fra tecniche serie e tecniche non serie, fra nozioni fondate e nozioni cervellotiche?
È tutt'altro che facile rispondere a questa domanda. E forse è inutile, o
almeno storicamente erroneo, tentare di rispondervi. L'unica cosa da fare è prendere atto che la ricerca in quell'epoca si svolgeva veramente così, e che- bene o
male - essa costituì l'humus dal quale nacque l'autentica osservazione scientifica. Per studiare seriamente la « scienza cinquecentesca » bisogna tener conto
anche dei fattori irrazionali (non scientifici) in essa presenti; e invece di discutere
fino a che punto i loro risultati fossero veri o falsi (nel senso che lo scienziato
di oggi attribuisce a questo termine), bisogna cercare di chiarire quale fu il
« fatto nuovo » che a un certo momento intervenne a separare, nel complesso
delle indagini sulla natura, quelle autenticamente scientifiche da quelle puramente
magiche. Gli odierni storici della scienza ritengono che tale fatto nuovo fu la sistematica alleanza di essa con la meccanica; di qui l'importanza centrale - per
tutta la scienza- della rivoluzione delle ricerche meccaniche maturatasi nel Cinquecento e portata a termine da Galileo.
Comunque, non sarebbe esatto ritenere che magia e astrologia siano state
d'un tratto respinte fuori dal campo delle ricerche «serie». Al contrario, molti
continuarono a lungo a prestar loro una certa fiducia. Furono soprattutto i risultati pratici a sgretolare questa fiducia: si vide infatti che, mentre le ricerche
scientifiche razionali erano feconde di applicazioni via via maggiori, le arti occulte non portavano ad alcun effettivo successo. Fu così sempre più chiara la frattura tra scienza e non-scienza, e l'uomo finì col considerare la ricerca scientifica
come unico strumento efficace per la conoscenza e il dominio dei fenomeni.
Fatte, a titolo di semplice chiarimento introduttivo, tutte queste considerazioni, possiamo ora finalmente passare alla nostra breve e schematica rassegna dei
più notevoli progressi conseguiti, nel Cinquecento, dalle scienze e dalle tecniche.
Cominceremo dalla matematica, la scienza meno sottoposta al pericolo di infiltrazioni non scientifiche.
82.
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III
· MATEMATICA
Gli studi matematici del Cinquecento furono anzitutto diretti ad approfondire la conoscenza della matematica greca, onde assimilarne metodi e risultati;
in secondo luogo a cimentare su nuovi problemi le capacità così acquisite.
Il settore ove le ricerche si rivelarono più feconde fu quello dell'algebra.
I progressi ivi conseguiti (il cui merito spetta per la maggior parte ad autori
italiani) riuscirono veramente a iniziare una fase nuova nella storia di questa
scienza.
Il problema algebrico di fronte a cui avevano dovuto fermarsi sia i matematici
greci (che avevano trattato la questione soprattutto per via geometrica) sia quelli
arabi, era l'equazione generale di terzo grado. Proprio esso fu affrontato e risolto
dai matematici italiani del Cinquecento. Il successo delle loro indagini ebbe un
valore tanto più grande, in quanto dimostrò che 'i moderni erano in grado di oltrepassare, in qualche campo della scienza, il pur altissimo livello raggiunto dagli
antichi.
La risoluzione dell'equazione algebrica di terzo grado fu intravista, per la
prima volta, da Scipione Dal Ferro (I465-15z6); la moì:te gli impedì tuttavia di
perfezionare la propria scoperta. Qualche anno più tardi il problema venne riesaminato a fondo da Nicolò Tartaglia (1506-15 57), cui servì di sprone la notizia
dei successi ottenuti da Dal Ferro. Questo riesame condusse Tartaglia a scoprire la regola, assai complicata, che permette di risolvere il problema in tutta la
sua generalità.
In quel tempo, i matematici non usavano rendere immediatamente pubbliche
le loro invenzioni, ma si limitavano a darne implicita notizia attraverso i cosiddetti « cartelli di matematica disfida ». In questi cartelli lo sfidante proponeva ai
dotti dell'epoca qualche problema di particolare difficoltà dando assicurazione di
possedere - per proprio conto - la regola per risolverlo. Fu durante lo sviluppo
di una di queste disfide che Tartaglia comunicò, in forma del resto assai velata, la
propria regola al medico, astrologo, filosofo e mago Girolamo Cardano (I 5o II 57 I).
Questi seppe immediatamente rendersi conto del funzionamento della regola, e anzi vi apportò notevoli sviluppi. Intuita l'importanza dell'eccezionale
scoperta, si affrettò a renderla pubblica, inserendola esplicitamente nella sua celebre Ars magna data alle stampe nel 1545, 1 senza fare cenno ai meriti di Tartaglia. Com'è naturale, la pubblicazione suscitò subito, da parte di costui, la più
energica protesta. Ne sorse, così, un'aspra e lunga polemica che ebbe il merito
di rendere sempre più vivo l'interesse per i problemi algebrici. Furono pertanto
affrontate le equazioni di quarto grado, la cui risoluzione venne ben presto
I Questo è il motivo per cui la formula,
pur essendo stata senza dubbio inventata da Tar-
taglia, passò di fatto ai posteri col nome di formula cardanica.
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
scoperta per opera di Ludovico Ferrari (1522-1565), discepolo e amico di Cardano.
Si trattava però di una scoperta abbastanza facile, una volta risolte le equazioni di terzo grado. La vera difficoltà era contenuta nella formula di TartagliaCardano, anche perché essa faceva riferimento a strane entità, pressoché incomprensibili per i matematici dell'epoca: vogliamo dire le radici quadrate dei numeri
negativi. Oggi sappiamo che, effettivamente, queste radici non esistono nel
campo dei numeri reali, bensì soltanto in quello dei numeri complessi. La regola
di Tartaglia-Cardano godeva però di una singolare fortuna: di essere cioè combinata in modo che, nei successivi passaggi, le predette entità finivano per eliminarsi, e il risultato ultimo tornava a contenere soltanto numeri reali.
Il delicato argomento venne ripreso, qualche decennio più tardi, da Raffaele
Bombelli (di cui sono ignote le date di nascita e di morte) che, nella sua celebre
Algebra del I 572, ebbe il coraggio di parlare esplicitamente delle nuove strane
entità. L'opera di Bombelli costituì il testo principale, fino ai tempi di Leibniz,
per tutti coloro che volevano affrontare gli studi algebrici.
Un'altra difficoltà delle ricerche ora accennate era costituita dal linguaggio
seguito per la loro trattazione. Questo era, sostanzialmente, il linguaggio comune,
con qualche abbreviazione già introdotta dal Pacioli, e con l'uso costante di
determinati vocaboli per indicare certi termini del problema (per es. il vocabolo
«cosa» era usato a indicare l'incognita). Fu solo verso la fine del XVI secolo che
il linguaggio algebrico venne interamente rielaborato, ad opera di un matematico
francese, François Viète (I540-I6o3), autore di un fondamentale scritto dal titolo: In artem ana!Jticem isagogé, pubblicato nel 1591.
Le innovazioni più significative introdotte da Viète sono fondamentalmente
due: la legge di omogeneità, che esclude ogni possibilità di confronto fra grandezze geometriche aventi un numero diverso di dimensioni, e il sistema notazionale che segue il definitivo trapasso dall'algebra sincopata a quella simbolica.
Per la prima volta vengono prese in considerazione equazioni algebriche con
coefficienti letterali anziché numerici, e formulate in tutta la loro generalità le
regole che ne forniscono la soluzione. Da un punto di vista matematico la trattazione è assai rigorosa, ma lo stile è notevolmente oscuro; proprio per questa oscurità l'opera fu compresa da pochi e non esercitò sui contemporanei tutta la influenza che avrebbe meritato di esercitare.
Per quanto riguarda altri campi della matematica, ricordiamo le ricerche di
Guidobaldo del Monte (I 545-I6o7) intorno ai metodi di rappresentazione geometrica già studiati con tanto successo dai pjttori e architetti del Quattrocento
(come spiegammo nel paragrafo m del capitolo m). Ricordiamo inoltre le ricerche, suggerite dall'approfondito studio delle opere di Archimede intorno al calcolo di aree e volumi: esse porteranno i matematici del secolo successivo all'invenzione del calcolo infinitesimale. Qui basti segnalare gli studi di Luca V alerio
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
(I 55 z- I 6 I 8) in applicazione del metodo di esaustione e quelli di S1mon Stevin
(I 548-I6zo) sulla ricerca dei centri di gravità e in genere sul problemi della sta-
tica. Essi costituiscono una magnifica prova dell'energia stimolatrice che l'epoca
moderna ricavò dall'assimilazione del pensiero del grande siracusano.
Va fatto cenno, in ultimo, a un gruppo di problemi che appassionò parecchi
studiosi dell'epoca: essi scaturivano dal confronto tra le argomentazioni usate
in matematica e quelle analizzate e sistematizzate dalla logica classica. Già sappiamo da quanto detto nei capitoli precedenti che la tesi della superiorità delle
argomentazioni matematiche era unanimemente sostenuta dai platonici, mentre
quella della superiorità delle argomentazioni sillogistiche era caratteristica degli
aristotelici. Alcuni di questi ultimi giunsero a sostenere che, per provare il rigore delle argomentazioni matematiche, sarebbe stato necessario dimostrarne la
traducibilità in termini di logica tradizionale. Fu il carattere estremamente artificioso e la sostanziale sterilità degli sforzi diretti a questo fine ciò che ebbe l'effetto di scoraggiare i difensori di tale tesi. È degno di nota che fu proprio un
gesuita tedesco- precisamente il padre Christoph Clau (Clavio, I 573-I612, già
citato nel paragrafo I) - a dimostrare, in uno scolio alla sua traduzione di Euclide, l'inutilità di tutti i tentativi diretti a ridurre i procedimenti matematici
in forma sillogistica. Così la scienza dell'epoca venne a trovarsi di fronte a due
tecniche inferenziali, diverse tra loro eppure entrambe rigorose: quella matematica e quella logica. Se ciò poteva sicuramente dare dignità e autonomia alla
matematica, non poteva non costituire motivo di scandalo per quanti percepivano l'esigenza del carattere unitario della ragione. Il tema verrà ripreso varie
volte nei secoli successivi, e ancora nel nostro sta al centro di molti seri dibattiti
intorno alla natura della matematica (l'integrale riconducibilità di questa disciplina alla logica viene per esempio sostenuta dal cosiddetto indiriz~o « logicista » di cui parleremo a lungo nel capitolo v del volume vm).
IV
· ASTRONOMIA
L'importanza delle ricerche algebriche e infinitesimali testé accennate, per
quanto notevolissima nell'ambito scientifico, non va al di là dei limiti della matematica. Ben diverso è l'interesse della rivoluzione compiutasi - nel medesimo
periodo - entro l'ambito delle teorie astronomiche. È un interesse che oltrepassa di molto i confini della pura e semplice astronomia, e investe direttamente
le più alte questioni filosofiche intorno all'uomo e al mondo.
Lo sviluppo della grande rivoluzione si impernia su quattro nomi: Copernico, Tycho, Keplero e Galileo. Rinviando al capitolo x1 l'esame dell'opera di
Galileo e del drammatico urto di culture che si accese attorno ad essa, ci limiteremo qui ad un'esposizione molto schematica delle principali scoperte di Copernico, Tycho Brahe e Keplero. La discussione del significato filosofico generale
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
della rivoluzione copernicana verrà svolta nel capitolo VIII, in riferimento al pensiero di Giordano Bruno; lo studio dell'opera di Keplero sarà invece ripreso nel
capitolo XI della sezione IV, ove si porrà in luce, tra l'altro, il suo importante
contributo al rinnovamento, non solo della scienza astronomica, ma della stessa
cosmologia.
Nikolaus Kopernicki(Copernico) nacque a Thornin Polonia nel I473 da famiglia agiata. Compì i primi studi di umanità, matematica e astronomia nella fiorente università di Cracovia. Nominato canonico, venne in Italia ove frequentò
le università di Bologna, Padova e Ferrara, completando la propria cultura specialmente in matematica. Tornato in patria, si dedicò in prevalenza a studi astronomici. Fu verso il I 505-6 che ideò le linee fondamentali del suo sistema. Impiegò tuttavia molti anni per stenderne e limarne l'esposizione. Nel I 530 pubblicò un breve estratto di essa, ottenendo l'approvazione del papa Clemente vn,
che anzi lo incitò a pubblicare l'opera in extenso. Malgrado questo incitamento,
attese ancora dieci anni prima di darla alle stampe. La prima copia stampata gli
fu portata alletto di morte nel I 543, quando ormai la sua coscienza si era pressoché spenta. L'opera, che avrebbe dovuto acquistare tanta celebrità, portava per
titolo: De revolutionibus orbium coelestium libri VI (Sei libri sulle rivoluzioni dei mondi
celesti).
In Italia Copernico aveva subìto l'influenza del platonismo matematizzante
di Pico della Mirandola, e, attraverso ad essa, aveva assorbito vari elementi dell'antica concezione pitagorica. Posto sull'avviso dai matematici di Bologna delle
molte difficoltà insite nel sistema tolemaico, aveva avuto la geniale idea di cercarvi
una soluzione nelle dottrine astronomiche dei pitagorici. Furono queste a suggerirgli di sostituire l'ipotesi geocentrica con quella della mobilità della Terra.
Il teologo luterano Andreas Hosemann, detto Osiander, supervisore della prima edizione dell'opera di Copernico, vi antepose una prefazione per spiegare che
la nuova teoria voleva soltanto essere un'ipotesi matematica, senza alcuna pretesa
di rispecchiare la verità fisica. In parte, la spiegazione trovava conferma nella struttura dell'opera: molte pagine erano infatti dedicate a calcoli, nel preciso intento di
provare con essi che l'ipotesi della mobilità della Terra avrebbe apportato un'enorme semplificazione nei confronti della teoria tolemaica troppo impacciata dall'artificioso ricorso agli epicicli. Accanto a tali calcoli, Copernico ·sviluppava, però, parecchi argomenti di carattere non puramente matematico, per risolvere le varie
obiezioni sollevate da Tolomeo contro la mobilità della Terra. All'obiezione, per
esempio, che la Terra - sottoposta ad un rapidissimo moto rotatorio - avrebbe
dovuto sfasciarsi, egli rispondeva che ciò dovrebbe accadere a maggior ragione
per le sfere celesti le quali, avendo un raggio assai più lungo di quello della Terra,
si muovono ovviamente con velocità maggiore.
Malgrado l'esattezza di questa e altre risposte, è un fatto che l'ipotesi copernicana doveva apparire - nel Cinquecento - tutt'altro che esente da serie
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
difficoltà di ordine scientifico. A quell'epoca infatti non erano ancora note le
leggi della meccanica moderna, e si poteva quindi pensare che l'ipotesi della mobilità della Terra fosse incompatibile con parecchi fatti della vita quotidiana, come
per esempio la caduta dei gravi secondo la verticale (saranno le scoperte di Galileo sulla dinamica, a togliere ogni base scientifica a questo tipo di difficoltà).
Va inoltre osservato che Copernico non sapeva far altro che ricorrere a motivazioni teologiche, per rendere ragione del moto dei pianeti attorno al Sole e per
giustificare la pretesa circolarità delle loro orbite. Ed infine, mentre da un lato
invocava l'argomento della semplicità a favore della propria ipotesi, mostrava
dall'altro di non saper spiegare perché mai la natura debba seguire proprio le
vie più semplici anziché quelle più complesse.
Più temibili, comunque, di tutte le difficoltà ora accennate, erano quelle connesse alle conseguenze filosofiche che l'ipotesi copernicana racchiudeva in sé.
È chiaro, infatti, che essa veniva a privare l'uomo della posizione di privilegio,
riconosciutagli dal pensiero tradizionale col collocarlo al centro dell'universo.
Queste difficoltà, che saranno sollevate in modo concorde da cattolici e luterani,
non assunsero però - nel Cinquecento - il tono esasperato che caratterizzerà
l'anticopernicanismo del secolo successivo. È probabile che nemmeno Copernico
abbia avuto di esse una chiara consapevolezza: toccherà ai filosofi della natura,
che accoglieranno la teoria eliocentrica, porne in luce tutte le capitali conseguenze,
e attrarre con ciò l'attenzione sul suo carattere profondamente rivoluzionario. 1
Il maggiore astronomo della generazione immediatamente posteriore a Copernico fu Tycho Brahe (1546-I6oi), che- vale la pena ricordarlo per caratterizzare l'epoca di cui ci stiamo occupando - scelse di dedicarsi alla disciplina
alla quale avrebbe poi recato tanto lustro, muovendo proprio da interessi astrologici, e non abbandonò mai la sua preoccupazione per l'astrologia. Egli non
accettò nella sua interezza il sistema copernicano, ma sostenne una teoria intermedia tra quella di Copernico e la concezione tradizionale. Da un lato, infatti,
rimase fedele all'immobilità della Terra, dall'altro affermò che i pianeti ruoterebbero intorno al Sole, pensato come moventesi esso stesso attorno alla Terra.
Era, nelle sue linee essenziali, l'antica teoria di Eraclide Pontico, arricchita soltanto di un più moderno apparato scientifico.
Più che un teorico, Tycho Brahe fu, però, un grande osservatore. Riuscì
infatti- pur senza avvalersi ancora del cannocchiale - a descrivere con mirabile precisione i movimenti della Luna e dei pianeti. Le tavole dei suoi dati di
osservazione costituirono, qualche anno più tardi, un materiale preziosissimo
per Keplero.
I Malgrado le difficoltà testé accennate, la teoria di Copernico trovò non pochi sostenitori tra
gli scienziati del xvi secolo. Ci limiteremo a ricordare i matematici inglesi Robert Recorde (m. I 55 8)
e Leonard Digges(morto verso il I 570). Quest'ultimo merita di venire menzionato anche come costruttore di ingegnosi strumenti astronomici, alcuni dei quali basati sulla combinazione di lenti.
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
Johann Kepler nacque nel I 57 I a Weil nel Wiirttenberg. Dapprima studiò
teologia, filosofia, matematica e astronomia a Tubinga. Qualche anno più tardi,
nominato professore di matematica al ginnasio di Graz, abbandonò la teologia
per dedicarsi interamente all'astronomia, nell'intento di conciliare il sistema copernicano con l'antica teoria degli spiriti planetari. Nel I 597 scrisse la sua prima
opera, Mysterium cosmographicum, di evidente ispirazione pitagorica. A vendo la
sottoposta al giudizio di Tycho Brahe, ne ottenne un parere abbastanza favorevole e riuscì in tal modo a cattivarsene l'amicizia. Allorché Tycho si stabilì a
Praga, anche Keplero si trasferì in tale città e lavorò assiduamente con lui, ereditando poi il ricchissimo materiale d'osservazione che egli aveva raccolto. Trascorse gli ultimi anni della sua vita in mezzo alla sorda persecuzione del fanatismo protestante e cattolico esercitando la professione abbastanza remunerativa
di astrologo; pubblicava, infatti, gli almanacchi astrologici allora in gran voga.
Morì nel I63o.
Pur staccandosi a poco a poco dall'animismo che aveva ispirato la sua prima
opera, testé menzionata, Keplero mantenne per tutta la vita una concezione del
mondo sostanzialmente improntata al pitagorismo e al neoplatonismo, nella quale
sono chiare le tracce dell'influenza di Ficino. Considerò pertanto l'armonia come
legge generale dell'universo, pensando che essa si esprima in rigorose proporzioni
numeriche. Non si nascose la necessità di appoggiare la scienza ai dati sensoriali;
cercò tuttavia di giustificare questa concessione all'empirismo, affermando che
già le sensazioni contengono un fattore matematico, sia pure allo stato embrionale. Interpretò la matematica, non come scienza di concetti astratti, ma come studio di rapporti reali e delle configurazioni effettive degli oggetti.
È nella celebre opera Astronomia nova, pubblicata nel I6o9, che egli formulò
le prime due leggi intorno al moto dei pianeti, ancora oggi note col suo nome.
Solo nel I6I9 pervenne alla formulazione della terza, nell'opera Harmonices
mundi. Elaborò pure con notevole chiarezza, relativamente alla sua epoca, il
concetto di forza e quello di massa, e definì arditamente la gravità come attrazione reciproca del grave da parte della Terra e della Terra da parte del grave.
Prese in considerazione l'ipotesi (più tardi elevata da Newton a legge universale)
che la forza di attrazione fra due masse sia inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza; ritenne però di doverla respingere. Fu pure competentissimo ottico e matematico geniale.
Per quanto riguarda l'ottica, ricordiamo le sue due opere fondamentali:
Ad Vitellionem paralipomena (Prolegomeni all'ottica di Witelo, I6o4), che l'autore
presentò come un semplice ausilio all'astronomia, ma che in realtà era la prima
trattazione veramente moderna dell'ottica geometrica, e la Dioptrica (I6I I) ove è
esposta la teoria completa del cannocchiale.
Per quanto riguarda la matematica, va segnalato l'interessantissimo scritto
Nova stereometria doliorum (Nuova stereometria delle botti, I6I 5) ove è provata, con
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
brillanti esempi, la possibilità e anzi l'utilità di applicare al calcolo delle aree e dei
volumi metodi infinitesimali di carattere intuitivo.
Ebbe frequenti rapporti epistolari con Galileo e mostrò sempre una grande
stima per lui. Resistendo alle forti pressioni che da varie parti gli venivano fatte
ad opera dei molti avversari del pisano, convalidò con la sua grande autorità in
campo astronomico la scoperta, compiuta da Galileo, dei celebri pianeti medicei. Eppure fra le due personalità di Keplero e Galileo esisteva un profondo divario; diremmo quasi, una impossibilità di intendersi. Lo conferma, per esempio,
il fatto che Galileo non fece mai ricorso - nelle sue molte speculazioni astronomiche - alle leggi di Keplero sui pianeti.
Sarebbe inesatto spiegare questo divario, limitandosi a fare appello ad una,
pur innegabile, gelosia di mestiere che essi potevano nutrire uno per l'altro.
Tale divario aveva radici più profonde: era dovuto alla loro posizione filosofica
nettamente diversa. Keplero, infatti, rimase per tutta la vita un neoplatonico
(o, se vogliamo, un pitagorico); Galileo, invece, fu sensibile non solo alle istanze
platoniche, ma pure a quelle aristoteliche, e riuscì a superare le une e le altre mediante una concezione filosofica radicalmente nuova. Se pertanto è giusto riconoscere a Keplero una genialità di scienziato senza dubbio eccezionale (per taluni
lati anche superiore a quella di Galileo), è però doveroso prendere atto che, sotto
alcuni aspetti, quest'ultimo realizza meglio del primo il tipo dello scienziato
moderno. Per tale motivo Galileo occupa, nella storia del pensiero, una posizione in certo senso superiore a quella di Keplero.
V
· MECCANICA
Già ricordammo alla fine del paragrafo n l'importanza che ebbe- per tutto
il pensiero scientifico del rinascimento e dell'età moderna - il trasformarsi
della meccanica in vera e propria scienza. Questo processo, che sarà concluso da
Galileo, compì nel Cinquecento alcuni notevoli passi, soprattutto per l 'impulso
fornito agli scienziati dai tecnici (con i loro ben precisi quesiti di stati ca e dinamica applicate).
Le teorie del moto, dominanti in tale secolo, erano principalmente due: la
vecchia teoria aristotelica e la teoria dell'impetus difesa dai «fisici parigini» del
Trecento e poi fatta propria (sia pure con sostanziali rettifiche) da Leonardo da
Vinci. La teoria aristotelica non poté reggere a lungo di fronte alle obiezioni dei
tecnici, che ne avevano constatato più e più volte la non corrispondenza ai fatti.
Ben più resistente si rivelò la teoria dell'impetus.
I tre autori che diedero il più notevole contributo allo sviluppo della meccanica (statica e dinamica) nel Cinquecento sono: Nicolò Tartaglia, Giambattista
Benedetti (r 530-1 590), e Simon Stevin (il primo e il terzo dei quali vennero già
ricordati nel paragrafo rn). Le loro opere più rilevanti da questo punto di vista
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
sono: per Tartaglia, La nova scientia (15 37) e i Quesiti et inventioni diverse (1546),
ave sono trattati anche vari problemi di algebra; per Benedetti, il trattato Diversarum speculationum mathematicarum et physicarum liber (I 58 5); per Stevin, Gli elementi dell'arte del pesare ( 15 86, in lingua fiamminga).
Mentre i contributi di quest'ultimo riguardano soprattutto la statica e l 'idrostatica (assai originale è per esempio la sua dimostrazione della legge di equilibrio di un corpo appoggiato a un piano inclinato), quelli di Tartaglia e di Benedetti concernono proprio la teoria del moto, e meritano quindi dal nostro
punto di vista una maggiore attenzione.
La nuova scienza, cui Tartaglia fa cenno nel titolo del primo dei suoi due
scritti or ora citati, è la balistica, della quale viene unanimemente considerato il
fondatore. Già la natura stessa di questa scienza - rivolta a studiare « scientificamente » un problema pratico come il moto dei proiettili - è enormemente significativa; come scrive molto bene Adriano Carugo, Tartaglia è il primo che sottopone« a una trattazione teorica, di carattere matematico-geometrico, un'" arte ",una
tecnica, rimasta fino ad allora puramente empirica ». Sappiamo, da quanto più volte cercammo dÌ spiegare, quale importanza abbia poi avuto per lo sviluppo della
scienza questo nuovo legame che per merito di Tartaglia essa viene ad assumere
con la tecnica. Assai interessante è pure il metodo con cui il nostro autore conduce la trattazione, basato su una astrazione semplificatrice della realtà empirica,
che - così idealizzata - si presta assai bene ad una elaborazione matematica.
I concetti dinamici usati da Tartaglia sono ancora di tipo aristotelico; i risultati raggiunti contengono parecchi errori. Ma nella trattazione riscontriamo
un fatto nuovo, assai importante: che il moto viene studiato nelle sue caratteristiche cinematiche, e non più - come accadeva in Aristotele- nella sua presunta
natura metafisica. Questo mutamento (che verrà sviluppato nell'opera successiva)
costituisce già un notevole passo verso la tipica trattazione del medesimo problema svolto qualche decennio più tardi da Galileo.
Benedetti prosegue lo sforzo di matematizzazione iniziato da Tartaglia. Partendo dalla teoria dell'impettts egli compie una critica radicale della teoria aristotelica del moto, e dimostra l'infondatezza dell'argomento con cui Aristotele riteneva di provare l 'impossibilità di qualsiasi movimento nel vuoto. Affronta poi
il problema della caduta dei gravi, giungendo ad alcuni risultati veramente notevolissimi (come per es. l'affermazione che, nel vuoto, due gravi di diverso peso
ma costruiti col medesimo materiale devono cadere con un'identica accelerazione).
Assai interessante è anche la sua scoperta di uno degli elementi costitutivi del
principio d 'inerzia: la rettilineità del moto inerziale (questa tesi viene da lui
espressa, com'è naturale, in termini della teoria dell'impetus). Tutto sta a dimostrare che siamo ormai alle soglie della meccanica galileiana; ma per giungere davvero ad essa, occorrerà abbandonare definitivamente i principi della teoria dell'impetus per sostituirli con principi non più filosofici ma soltanto matematici. È
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un passo di grande significato concettuale, che Benedetti non riesce a compiere,
onde la sua trattazione, pur così ricca di risultati particolari senza dubbio validi,
resta ancora - come è stato acutamente scritto - al di là della linea di demarcazione «che separa la scienza del rinascimento dalla scienza moderna».
VI
· MEDICINA. ANATOMIA
Tra le discipline scientifiche, quella che fu in più stretto contatto con la magia
e l'astrologia, è senza dubbio la medicina. Medico e mago fu, per esempio, Cardano, già ricordato nel paragrafo nr per i suoi importanti contributi all'algebra;
medico e mago oltreché poeta fu l'italiano Gerolamo Fracastoro (1483-1533);
medico e mago fu lo svizzero Philipp Theofrast von Hohenheim, latinizzato in Paracelsus (1493-1 541), valente studioso anche di mineralogia e di arti
meccaniche. È interessante ricordare che Paracelso si proponeva di riformare
la medicina proprio per mezzo della magia. Con ciò egli si rendeva interprete
della grande esigenza innovatrice della scienza rinascimentale; a questo fine,
però, indicava una via destinata a rivelarsi ben presto profondamente sterile.
Data la corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo, Paracelso sosteneva
la necessità di indagare il primo per agire sul secondo; le forze magiche, che reggono il macrocosmo, sarebbero infatti - secondo lui - le più idonee ad agire
anche sul microcosmo, domandone le infermità. Altro strumento indispensabile
per la medicina era, a suo parere, l'alchimia, intesa come arte di scegliere e combinare le sostanze che meglio condensano in sé le virtù degli astri (sull'impulso da
lui dato alla costruzione di una medicina a base chimica, ritorneremo nel prossimo
paragrafo). Se oggi noi possiamo sorridere della base teorica di questa medicina,
non abbiamo però diritto di dubitare - tante sono le testimonianze in merito della capacità dimostrata da Paracelso nel sedare e guarire varie infermità con i
suoi strani medicamenti.
Anche il filosofo Andrea Cesalpino, di cui abbiamo parlato nel capitolo IV,
fu convinto della stretta connessione tra medicina e magia. Medico illustre,
nonché autore di un trattato di medicina tra i più diffusi dell'epoca, non disdegnò di compiere egli stesso numerose pratiche di magia nelle quali nutriva la
massima fiducia.
In Andrea Cesalpino noi troviamo però, come già ricordammo nell'anzidetto
capitolo IV, accanto alle credenze medico-magiche ora accennate, anche un fortissimo spirito di osservazione che egli aveva appreso dalle famose scuole anatomiche di Padova e Bologna, su cui ritorneremo fra breve.
Per comprendere l'ansia di rinnovamento dei medici-maghi testé citati, bisogna ricordare che la medicina ufficiale, imperante nelle università europee
dell'epoca, era ancora quella di Galeno, il quale costituiva nel suo campo una
auctoritas altrettanto indiscutibile quanto Aristotele nelle facoltà filosofiche (di
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
qui l'interesse di uno studio diretto dei suoi trattati, pari all'interesse dello studio
diretto alle opere aristoteliche). A rendere la concezione galenica più rispondente
ai gusti culturali del secolo aveva, d'altra parte, magistralmente provveduto il
francese Jean Fernel (I497-I 55 8), chiamato dai suoi ammiratori «il Galeno di
Francia », fondendo il galenismo con motivi neoplatonici e con dottrine astrologiche.
Che cosa è che gli innovatori rimproveravano a Galeno? La sua teoria troppo
rigida e sistematica dell'organismo (di essa abbiamo fatto cenno nel capitolo XIX
della sezione I), fondata sulla distinzione gerarchica dei tre famosi « spiriti »
(naturale, vitale e animale): teoria così perfetta ed esauriente che sembrava
rendere inutili ulteriori ricerche. Questa accusa di immobilismo era certo tutt'altro· che priva di fondamento; è un fatto, però, che le vedute contrapposte
a Galeno dai medici-maghi come Paracelso erano troppo generiche per poter
offrire una vera e seria alternativa al galenismo. La strada che doveva condurre
(nel Seicento) alla sconfitta scientifica di esso fu aperta da ricercatori di tutt'altro
orientamento, voglio dire dai maestri delle scuole anatomiche di Padova e di
Bologna. Essa si basava in ultima istanza sul principio che, per rinnovare la
scienza medica, occorre rivolgere le nostre indagini non al macrocosmo, bensì
al microcosmo (cioè all'uomo, o meglio al corpo umano) per stabilire innanzi
tutto con esattezza l'anatomia dei suoi organi.
È interessante notare che gli anatomisti di Padova e di Bologna erano ancora
fedeli, in fisiologia, al sistema galenico; modificando ne radicalmente la base anatomica, essi ne preparavano però la prossima definitiva sconfitta. Il fatto nuovo,
nel loro modo di procedere, è che, per descrivere l'anatomia umana, non fanno
più appello ai testi galenici, bensì alla sola osservazione.
Con questo metodo, in cui possiamo riscontrare il medesimo spirito che aveva
animato Leonardo, essi riescono in breve tempo a ottenere notevolissimi risultati,
correggono errori degli antichi, integrano e precisano numerose teorie consacrate
dalla tradizione. In un primo tempo vi può essere chi nutre dubbi, se per rinnovare la medicina siano più utili questi studi sul microcosmo o le dissertazioni di
Paracelso sul macrocosmo: man mano, però, che gli studi del microcosmo riescono effettivamente a perfezionare le conoscenze anatomiche, e le nozioni così
raggiunte riescono a suggerire alla medicina nuovi metodi di cura, le incertezze
scompaiono e la vera strada si impone. Non è, insomma, un complesso di considerazioni teoriche a distinguere il metodo giusto da quello sbagliato; è il successo dell'uno e l'insuccesso dell'altro che finiscono per eliminare ogni prevenzione.
La scuola di anatomia di Padova, che fu senz'altro la più gloriosa delle scuole
anatomiche dell'epoca, può considerarsi fondata dal belga André Vésale (Vesalio, I 514-1564) che, dopo aver studiato medicina a Parigi, si trasferì a Padova
nel I 53 7, attrattovi dalla libertà di cui godeva questo famoso ateneo. Reso ce-
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lebre dalle dissezioni di cadaveri che sapeva eseguire con eccezionale maestria,
tenne pubbliche lezioni a Padova, a Bologna, a Pisa, riscuotendo ovunque successi ma anche creandosi parecchi nemici per le critiche sollevate contro l'anatomia di Galeno. A trent'anni interruppe la carriera di professore essendo stato
nominato medico personale d eli' imperatore Carlo v (che dovette seguire nei
suoi vari spostamenti attraverso l'Europa). La sua opera più famosa è il trattato
De humani corporis fabrica (pubblicato nel I 543), ricco di splendide tavole disegnate da un allievo di Tiziano.
Attenendosi alla più scrupolosa osservazione, Vesalio rettifica numerosi errori
tramandati dalle scuole medievali (dimostra, fra l'altro, che il setto interventricolare del cuore non è traversato da minutissimi pori, come aveva sostenuto
Galeno). Ma ciò che più conta non sono le sue scoperte, be1;1sì l'entusiasmo e
l'acume con cui Vesalio difende il proprio metodo, basato sull'esperienza e non
sull'autorità di Galeno o di altri.
Quando egli lascia l'università di Padova, la sua cattedra viene coperta da
Realdo Colombo ( 15 20- I 559) che eseguì notevoli ricerche sul movimento del
sangue, giungendo a scoprirne la piccola circolazione (descritta anche - come
sappiamo - da Cesalpino). 1 A Colombo succede - nella cattedra di anatomia di Padova- Gabriele Falloppio (I523-I562), celebre per le sue ricerche
sul sistema urogenitale; ed a Falloppio succede un altro valente anatomista,
Girolamo Fab:dci d'Acquapendente, le cui lezioni vennero seguite da William
Harvey, lo scopritore della circolazione del sangue, del quale parleremo nella
sezione IV.
Fra i maestri di anatomia dell'università di Bologna, ci limitiamo a ricor,.
dare Giulio Cesare Aranzi (I no-q 89) e Costanzo Verolio (I 543-I 575)·
All'incirca contemporaneo ad essi fu Bartolomeo Eustachi (nato fra il I 500
e il I 5Io, morto nel I 575), professore a Roma. Egli è celebre per la scoperta delle
tube che vanno dall'orecchio alla retrobocca, e che ancor oggi portano il suo
nome.
VII
· FISICA E ALTRE SCIENZE
Anche nella fisica (intesa come non includente in sé la meccanica), e così pure
nella chimica, nella botanica, ecc., il rinato interesse per la natura fece sorgere
vivaci fermenti di ricerca, senza dubbio assai significativi, sebbene meno profondamente innovatori e meno ricchi di conseguenze generali di quelli, delineati
nei paragrafi precedenti, concernenti l'astronomia, la meccanica e la medicina.
Il minor rilievo di queste innovazioni per la storia del pensiero filosofico-scientiI Prima che da Colombo e da Cesalpino,
la piccola circolazione era stata scoperta da Michele Serveto (I 509-I 55 3), celebre medico spagnolo
che fu condannato al rogo da Calvino. Serveto
però vi era giunto partendo da considerazioni di
tutt'altro genere (era stata in fondo la sua posizione antitrinitaria a fargli respingere i « tre spiriti» di Galeno).
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fico ci autorizza ad essere ancora più schematici di quanto siamo stati finora, !imitandoci a ricordare qualche opera o qualche personalità particolarmente rappresentativa delle trasformazioni in atto nella cultura del xvr secolo.
Una figura di scienziato-mago, che non può fare a meno di attirare la nostra
attenzione, è quella di Giambattista della Porta (r 54o-r6r 5), autore di una famosa
Magia naturale (prima edizione in quattro libri 1 558, seconda edizione in venti libri
15 89). In quest'opera egli intende trattare, come dice il titolo stesso, la « magia
naturale » basata sullo studio diretto dei fenomeni, e non quella « infame » basata
sul commercio con gli spiriti immondi. Per verità anche il primo tipo di magia
conteneva non poche stranezze, ingenuità e fantasticherie; eppure si deve riconoscere che accanto ad esse vi erano (specialmente nella seconda edizione dell' opera di Della Porta) alcune osservazioni assai interessanti, alcune intuizioni
di autentico valore scientifico. Vi si parla di mille argomenti: dal magnetismo
all'ottica, dai prodotti di bellezza agli afrodisiaci. Sono di particolare interesse le
pagine dedicate agli strumenti ottici, nelle quali Della Porta descrive la camera
oscura, vari tipi di specchi e di lenti, prendendo anche in considerazione la possibilità di combinare più lenti fra loro (così egli potrà sostenere di aver inventato
- non però costruito - il cannocchiale astronomico molti anni prima di Galileo). Il libro settimo della Magia, rivolto ai fenomeni magnetici, sviluppa l'argomento con un certo ordine e una certa sistematicità, onde qualcuno è giunto a
vedervi il primo « trattato » italiano sul magnetismo.
Anche volendo condividere questa tesi, dobbiamo però riconoscere che un
semplice raffronto tra le pagine del nostro autore sull'ottica e le opere dedicate
pochi anni più tardi a questa scienza da Keplero (delle quali abbiamo fatto
parola nel paragrafo rv), o un raffronto tra le sue pagine (testé accennate) intorno
al magnetismo e l'opera De magnete pubblicata nel r6oo dall'inglese William
Gilbert (154o-r6o3), ci dimostra quale sia la profonda differenza che corre tra
la magia (sia pure «naturale») e l'autentica fisica (sia pure del xvr-xvn secolo).
Quanto a Gilbert, ci limiteremo a notare che egli fu un valente sperimentatore,
capace di procedere nelle sue ricerche con vero e proprio metodo induttivo.
Nell'opera testé citata egli studia le proprietà magnetiche e quelle elettriche
dei minerali, raccogliendo e rielaborando criticamente tutto ciò che si sapeva in
passato sui due argomenti, eseguendo egli stesso nuove osservazioni, introducendo nuove concezioni di notevole portata scientifica e filosofica (interessantissimo
è il paragone che egli stabilisce tra le calamite esaminate in laboratorio e la « gran
calamita» costituita dalla Terra). A titolo di curiosità si può menzionare che
fu proprio Gilbert a coniare il termine « elettricità » dal greco électron che significa
ombra.
Il De magnete diede pure un valido contributo alla elaborazione del concetto
di massa, introdotto dall'autore nella descrizione dei fenomeni magnetici. Egli
lo inserisce tuttavia in generalissime speculazioni filosofico-cosmologiche di
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impronta neoplatonica, di cui non possiamo trovare una spiegazione se non
inquadrandole nella mentalità dell'epoca.
L'opera di Gilbert fu ampiamente studiata e apprezzata da Keplero, Bacone
e Galileo. È tuttavia significativo che Bacone, pur elogiando Gilbert per le sue
osservazioni sull'ago calamitato, non mostri per lui un'eccessiva simpatia a causa,
per l'appunto, delle anzidette speculazioni cosmologiche.
Passando dalla fisica alla chimica occorre premettere che questa rimase, assai
più a lungo di quella, in uno stato prescientifico. Basti segnalare che il maggior
«teorico» della chimica durante l 'epoca rinascimentale fu il mago Paracelso,
del quale abbiamo già fatto parola nel paragrafo VI. Le sue idee su questa disciplina sono estremamente fantasiose, e più vicine all'alchimia che non alla chimica
moderna. Egli fu tuttavia un autentico innovatore.
Paracelso ritiene che ogni sostanza racchiuda in sé un principio essenziale,
che però è spesso mascherato dalla presenza di materie estranee. Si tratta dunque
di eliminare queste materie per enucleare l'essenza (o meglio « quintessenza »)
di ogni sostanza: tale è appunto il compito del chimico, che all'uopo si servirà
di tutti gli strumenti della vecchia alchimia, di volta in volta perfezionati sulla
base di attentissime osservazioni dell'esperienza.
Alla teoria della quintessenza, Paracelso collegava anche la spiegazione della
genesi delle malattie, e l'indicazione di metodi curativi basati appunto su preparati chimici. Con ciò egli diede inizio alla iatrochimica che troverà per oltre un
secolo accesi sostenitori. Malgrado il carattere tutt'altro che scientifico dei medicamenti applicati, non si può negare - come già osservammo nel paragrafo VI che in taluni casi questi ottenevano un relativo successo.
Più legata all'esperienza, e più controllata nei metodi, fu quella parte della
chimica che potremmo chiamare « chimica tecnica ». Basti ricordare l 'importante
trattato De la pyrotechnia dell'italiano Vannoccio Biringuccio (1480-1539?) e
quello De re metallica del tedesco Georg Bauer, detto Agricola (1499-1 55 5).
Il primo fornisce ampie notizie sulle miniere e sull'arte mineraria; sulla preparazione dei metalli e delle leghe metalliche; sulla costruzione e sull'uso delle
armi. Le molte edizioni, che se ne fecero in pochi decenni, dimostrano il grande
successo dell'opera. Anche lo scritto di Agricola tratta dell'arte mineraria e metallurgica, rivelando che l'autore ne possedeva una conoscenza sicura e diretta
(infatti aveva lavorato a lungo come medico nelle miniere di Boemia). Esso
verrà letto da Francesco Bacone ed eserciterà su di lui una profonda influenza.
Le opere di Biringuccio e di Agricola sono assai importanti anche per la
storia della tecnica; perciò ritorneremo brevemente su di esse nel paragrafo VIII.
Passando infine dalla chimica alle cosiddette scienze naturali, ci limiteremo
a ricordare la generale rinascita degli studi di botanica e di zoologia, senza dubbio
sollecitata dalle singolari notizie portate in Europa dagli esploratori, su nuovi
tipi di piante e di animali che vivevano nelle terre recentemente scoperte. La
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
fondazione dei primi orti botanici presso varie università testimonia l'accresciuto
interesse per l'argomento.
Fra i cultori di botanica meritano una particolare menzione: l'italiano Andrea
Cesalpino, di cui già parlammo nel capitolo IV, il tedesco Leonhart Fuchs
(I 50 I-I 566), autore di un grosso volume dal titolo De historia stirpium commentarii
insignes, che può venir considerato una delle migliori opere dei primordi della
botanica, e il francese Jacques Daleschamps (Ip3-1588) nella cui opera Plantarum seu stirpium historia si trovano i primi tentativi di una classificazione delle
piante che si discosta da quella tradizionale.
Fra i cultori di zoologia ricorderemo: i francesi Pierre Belon (rp7-1564),
autore di numerose opere sui pesci e sugli uccelli, e Guillaume Rondelet (I 5o7I 566), egli pure studioso di pesci e altri animali acquatici; e gli italiani Ippolito
Galviani (1 514-1 572), autore di una notevole opera, Aquati/ium animalium historia,
e Ulisse Aldrovandi (I 522-I6o5), professore a Bologna e fondatore di quell'orto
botanico, autore di un'opera enciclopedica sugli animali in dodici volumi.
VIII
· LA TECNICA
Le opere di Biringuccio e di Agricola, delle quali abbiamo fatto cenno nel
paragrafo precedente, pur costituendo due documenti assai importanti per la storia
della chimica, rientrano a rigore più nella storia della tecnica che in quella della
scienza. Esse infatti non si soffermano soltanto ad esaminare le proprietà chimiche
dei metalli, delle leghe metalliche, ecc., ma dedicano ampio spazio anche alla
descrizione del macchinario usato nelle miniere, al suo funzionamento, ai suoi
difetti; al modo di correggerli, cioè a problemi di carattere prettamente ingegneresco. Né esse sono le sole opere del! 'epoca dedicate a questo tipo di argomenti
(anche se sono fra le meglio riuscite); al contrario, si inseriscono in una trattatistica scientifico-tecnica che vede gradualmente accrescersi il numero dei collaboratori e soprattutto dei lettori. Ricordiamo per esempio il Thédtre des instruments mathématiques et mécaniques (Teatro degli strumenti matematici e meccanici, I 579)
di Jacques Besson, Le diverse e artificiose macchine (1588) di Agostino Piancelli, il
Novo theatro di machine et ediftcii (r6o7) di Vittorio Zonca.
.
In molti di questi trattati (anche di autori non italiani) riappaiono disegni di
macchine già abbozzati da Leonardo, eventualmente precisati e ritoccati per
renderli di più facile costruzione. Ciò dimostra per un lato che gli appunti del
grande scienziato-pittore dovevano effettivamente circolare in larghi strati, per
l'altro che la sua ingegnosità era da tutti riconosciuta e apprezzata. A questo
proposito va menzionato che, proprio sotto l 'influenza di Leonardo, si formò,
nell'ambito degli studi tecnici, una vera e propria «scuola italiana» che riuscì
a fornire i migliori e più ricercati ingegneri dell'epoca.
Ciò che caratterizza il trapasso dalla fase quattrocentesca a quella cinque-
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
centesca delle ricerche tecniche è che, in generale, i ritrovati conseguiti da tali
ricerche non vengono più custoditi segretamente dalle singole aziende industriali,
ma diventano argomento di trattati, cioè vanno a costituire e via via arricchire
un patrimonio di nozioni, comune a tutta la società. Così ha origine una vera e
propria cultura di tipo nuovo, non più filosofico o scientifico, ma espressamente
tecnica o meglio tecnologica. Non è il caso di sottolineare che ciò accresce, insieme con la diffusione, anche il prestigio della tecnica.
Non è questa la sede per elencare i singoli progressi delle varie tecniche. Ci
limiteremo a ricordare che essi investono tutti i rami dell'attività umana e incidono sempre più profondamente sull'organizzazione stessa del vivere civile.
Importantissimi furono, ad esempio, i progressi compiuti nel campo delle
pompe; dapprima esse vennero ideate per agevolare lo sfruttamento delle miniere,
ma col trascorrere del tempo furono largamente usate per rendere più efficienti
gli acquedotti e quindi migliorare l'approvvigionamento idrico delle città. Come
spiega molto bene Umberto Forti, gli impianti a tal fine costruiti a Toledo,
Brema, Londra, Gloucester «furono guardati con ammirazione dai contemporanei, specie dai viaggiatori stranieri, quali meraviglie della nuova tecnologia ».
Uno dei campi ove le innovazioni della tecnica fecero sentire più prontamente la loro influenza fu, com'è ovvio, quello dell'arte bellica. Per quanto riguarda
la guerra terrestre il fatto più significativo è l'accresciuta potenza delle artiglierie
(è proprio essa a sollecitare la nascita della balistica, di cui parlammo nel paragrafo v), che ben presto richiese, come conseguenza, la trasformazione delle opere di
difesa. Per quanto riguarda la guerra sul mare, il più importante progresso riguarda la sostituzione di navi a vela in luogo delle vecchie galee: navi di grandi
dimensioni che possono venire armate di cannoni via via più numerosi e pot.::nti;
sulla fine del Cinquecento la presenza di questi cannoni assumerà un valore decisivo per l'esito delle battaglie.
Anche le varie industrie di pace cercano di applicare gli ultimi ritrovati della
tecnologia per accrescere la loro produttività e battere la concorrenza. Già abbiamo fatto cenno alla importanza, per lo sfruttamento delle miniere, dell'uso di
pompe ognor più perfette. Altrettanto dicasi per le industrie tessili, ove l'introduzione di un nuovo tipo di telaio può raddoppiare la produzione diminuendo i
costi. L'aumento delle dimensioni, e quindi della stazza, delle navi da trasporto
facilita, e quindi incrementa, il commercio.
Un'invenzione destinata a grandi sviluppi fu la sostituzione, negli orologi,
della molla al peso. Essa fu realizzata per la prima volta a Norimberga (all'inizio
del Cinquecento); e poiché i nuovi tipi di orologi avevano la forma di sfere un
po' allungate, si applicò loro il nome di «uova di Norimberga ».
I progressi conseguiti nell'arte del vetro portarono a un miglioramento delle
lenti, il che renderà possibile (nei primi anni del Seicento) la costruzione di cannocchiali e microscopi, che rivoluzioneranno la ricerca scientifica. Ma tali pro-
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Progressi delle scienze e delle tecniche nel Cinquecento
gressi ebbero anche notevoli conseguenze per l'organizzazione della casa, in
quanto resero possibili notevoli miglioramenti nella chiusura delle finestre.
Si tratta di innovazioni ora piccole ora grandi, che concorrono tutte insieme
a trasformare le condizioni di vita, sia pur solo per una parte della popolazione.
Esse diffondono la sensazione che il mondo stia rapidamente mutando; e cioè
l 'uomo stia sul serio avviandosi verso una nuova era. A ben riflettere sul corso
reale della storia, il rinnovarsi della tecnica è uno dei fattori determinanti per il
risveglio generale della società rinascimentale; non l 'unico, senza dubbio, ma
pur sempre un fattore di enorme rilievo. Che cosa sarebbe stato, senza di esso, il
puro rinascimento filosofico-letterario? Tutti sono disposti oggi a riconoscere il
peso decisivo della tecnica entro la nostra epoca; sembra tuttavia necessario tener
conto di essa (delle sue trasformazioni e innovazioni) anche per comprendere le
grandi tappe attraverso cui si giunse al mondo contemporaneo.
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CAPITOLO SETTIMO
L'arricchimento della !ematica filosofica
I
· LA NUOVA STORIOGRAFIA E LA SCIENZA DELLA POLITICA
Come sappiamo, la civiltà occidentale è scossa, nel Cinquecento, da profondi
sommovimenti che investono la vita economico-politica, l'organizzazione della
comunità religiosa, il mondo delle arti, delle scienze e delle tecniche. Non c'è
quindi da rimanere sorpresi se nuovi problemi - direttamente o indirettamente
filosofici - si affacciano all'orizzonte, dando luogo ad appassionati dibattiti e a
nuovi indirizzi. Noi ci limiteremo ad un semplice sguardo panoramico su tale
composito e variamente articolato processo di ampliamento della tematica culturale; non ci è infatti possibile addentrarci in un esame analitico dei singoli elementi che lo compongono, poiché questo ci porterebbe troppo lontano dal problema specifico su cui abbiamo accentrato la nostra indagine.
Del fervore di appassionate discussioni e di vivace operosità che infiammò gli
animi degli uomini del rinascimento è specchio fedele la storiografia. Abbandonata l'idea che in tutte le vicende umane vi sia un intervento provvidenziale,
come pensavano gli uomini del medioevo, per gli uomini del rinascimento fare
della storia significa ripercorrere le azioni umane cercando di coglierne il senso e
di ritrovarne l'insegnamento nascosto. È merito degli storici di quest'età l'aver
sostituito alla credenza dell'intervento provvidenziale divino l'acuta analisi dei
caratteri e degli interessi degli individui, sicché essi possono a buon diritto essere considerati i più precisi interpreti della nuova mentalità e della nuova concezione della vita e del mondo. Un altro carattere dominante della storiografia
dell'epoca, in stretta connessione con la tendenza generale del tempo, è la vicinanza dello storico ai fatti e alle azioni che deve esporre e giudicare: infatti, per
la maggior parte, coloro che si accinsero a scrivere opere di storia, furono uomini politici, ambasciatori, cancellieri, governatori e capi di città e di corporazioni, i quali narrano le vicende cui presero parte, allo scopo di definire, con la
propria posizione personale, quella dei diversi personaggi e dei gruppi politici.
Questo tipo di storiografia fu definito « prammatistico », per la sua tendenza
a spiegare le azioni storiche attraverso le vicende dei diversi individui che ne furono autori, senza collegare in modo profondo le persone con i fatti. Sono evi99
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L'arricchimento della tematica filosofica
denti i limiti di questo genere di storiografia; mancando la possibilità di unificare il complesso degli avvenimenti, non si poteva esprimere un fondato giudizio storico e, più che di storie, si può parlare, in molti casi, di « memorie e ricordi»;
inoltre, l'intenzione di narrare i fatti passati allo scopo di trarne un insegnamento
per le azioni presenti viziava la serenità dell'autore. Tuttavia anche attraverso
questi difetti e questi limiti, forse inevitabili, si aspirava al raggiungimento della
consapevolezza critica di sé e del passato: lo stesso intento dell'imitazione e il
concetto della storia come magistra vitae non miravano ad una piatta e meccanica riproduzione degli avvenimenti, ma alla libera costruzione del futuro. Se
con questi intenti si rileggono le opere storiche di Machiavelli, di Guicciardini,
di Leonardo Bruni, di Poggio Bracciolini, sentiremo ancora oggi la loro vivacità
e ne comprenderemo l'importanza.
Fra questi autori occupa una posizione del tutto particolare Nicolò Machiavelli (I467-15z7), le cui indagini oltrepassano di molto i limiti della semplice storiografia per impegnarsi in considerazioni di carattere filosofico, che aprono la
via a una nuova scienza: la scienza della politica.
Come già accennammo nel capitolo rv, negli scritti di Machiavelli sono rintracciabili parecchie concordanze con l'aristotelismo eterodosso, non soltanto per
il modo di considerare la religione, ma più in generale per il modo di impostare
l'indagine intorno al mondo sotto l'aspetto della naturalità (quello studiato da
Machiavelli è, come noto, il mondo umano). Non intendiamo negare, con ciò,
che siano presenti in Machiavelli anche altre ben diverse influenze; è certo, tuttavia, che il collegarlo al modo di filosofare del suo contemporaneo Pomponazzi
può essere utile a chiarire taluni lati particolarmente caratteristici del suo pensiero.
Se è vero che Machiavelli porta alle estreme conseguenze la valorizzazione
umanistica dell'intelligenza, vero è però che egli non la vuole unicamente diretta
a cogliere i principi universali dell'essere, bensì ad osservare e comprendere i
fatti concreti. In altri termini: di essa si serve per indagare la natura umana, non
solo nella sua generalità, ma proprio nella sua realtà integrale, mista di energia e
di debolezza. È per l'appunto questa integralità che gli sta a cuore; è per riuscire
a sviscerarne tutti i fattori, a illuminarla con la ragione, che egli costruisce una
rigorosa scienza politica, consapevolmente realistica, capace di penetrare in ciò
che vi è di più autentico nella storia e nella politica, senza veli religiosi né veli
morali.
Se il ricorso costante e intransigente di Machiavelli alla spiegazione razionale
presenta, come abbiamo detto, delle indubbie analogie con l 'impostazione razionalistica dell'indagine filosofica propria degli aristotelici eterodossi, molto più
matura però è, rispetto alla loro, la sua metodologia scientifica. Il metodo, infatti, che egli segue per la costruzione della scienza politica non è ostacolato da
schemi a priori di alcun genere, ma unicamente basato sull'osservazione dei fatti
nella loro concreta realtà (e perciò può dirsi, a ragione, antintellettualistico).
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L'arricchimento della tematica filosofica
L'essenziale è, per lui, non già riuscire a inserire i fatti in forme logiche predeterminate, ma penetrare il fondo di essi, ricavandone le leggi che regolano la
vita della collettività. Chi avrà saputo cogliere, con questo metodo, le autentiche
differenze che corrono fra stato bene ordinato e stato corrotto, conoscerà
« scientificamente » in che cosa consiste la virtù politica.
Il razionalismo di Machiavelli ha, inoltre, questa caratteristica: di non essere
puramente contemplativo, ma rivolto all'azione per instaurare praticamente il nostro dominio sulla realtà conosciuta. L'idea direttrice che guida tutta la sua indagine è la ferma convinzione che l'intelligenza possa forzare la natura, anche quella
umana, dirigendo gli eventi verso fini da noi stessi predeterminati.
Personalmente, egli si propone il fine di creare in Italia una forte compagine
statale. Il mezzo indispensabile a questo scopo è l'esame obiettivo dei principi
dello stato; l'analisi spietata dei fattori su cui esso si regge (inclusa la violenza,
necessaria per fondare i principati) e la conoscenza, razionalmente attuata, della
sfera dell'utile entro cui operano (ed entro cui vanno giudicate) le istituzioni politiche. A tal proposito è bene osservare che le crudeltà, di cui Machiavelli fa
spesso parola nel Principe, non vengono affatto da lui presentate - come potrebbe
sembrare a prima vista - quali « valori » umani, bensì quali realtà che fanno parte
della vita politica e delle quali pertanto occorre tener conto. La tesi di Machiavelli non mira a difendere siffatte crudeltà, ma a dimostrare che anch'esse possono
venire razionalizzate mediante un rigoroso utilitarismo, e, di conseguenza, dominate dalla ragione umana.
In altre parole: sotto il freddo realismo si nasconde in Machiavelli la fervente
passione di spiegare ai suoi connazionali la struttura di uno stato perfettamente
efficiente e di indicare la via per giungere anche in Italia alla formazione di una
di quelle monarchie nazionali che unificarono sotto un unico stato le nazioni di
Francia e di Spagna e la cui assenza in Italia era ritenuta, a ragione, da Machiavelli
la causa delle sventure della nostra terra. Le sue stesse opere vanno considerate,
più che come una riflessione su questi problemi politici, come un diretto e personale contributo del loro autore alla soluzione concreta di essi; quindi, più che
come opera storiografica, il Principe, i Discorsi, le /storie fiorentine e gli altri scritti
vanno considerati come veri e propri atti storici. Ciò spiega quindi il carattere
prammatistico di esse e alcuni evidenti loro limiti.
Uno degli aspetti più tipici di queste opere è la trasformazione che in esse
subisce il concetto di « virtù » e, parallelamente, quello di « fortuna ».
In tutto l'umanesimo, col termine «virtù» si intende umanità, operosità,
attività saggia e prudente, non aliena dal calcolo sottile dell'utile, abilmente inserita nel gioco delle forze mondane. Virtù significava cioè l'agire dell'uomo,
visto in tutta la pienezza del suo valore etico e politico e in tutta la sua autonomia:
e~a un significato analogo a quello classico, quando si riteneva « virtuoso » l 'uomo
intrepido, valoroso, coraggioso, quando potevano considerarsi virtuosi sia Achille
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L'arricchimento della tematica filosofica
che Ettore. Per Machlavelli, questo significato è troppo ristretto: nel termine
«virtù» deve venir compresa secondo lui anche l'azione scellerata, l'astuzia della
volpe e la violenza del leone purché intelligentemente rivolte al raggiungimento
del fine perseguito. Da questo punto di vista anche Cesare Borgia può venire considerato virtuoso.
Quando però si intende prendere in considerazione anche il problema del
successo - e non si può fare a meno di tenere conto di esso - allora interviene,
accanto al concetto di «virtù», quello di «fortuna». Per gli umanisti (ad esempio
per Leon Battista Alberti) la virtù non è in alcun modo limitata od ostacolata
dalla fortuna: essa mantiene intatto il suo carattere di virtù anche se è sfortunata;
l'uomo sfortunato ma virtuoso finisce sempre per trionfare, almeno per l'esempio
altamente educativo che riesce a dare col proprio sacrificio. Agli occhi di Machlavelli questa rassegnazione stoica è inaccettabile. E poiché la realtà degli eventi
storici - così come l'esperienza ce li presenta - dimostra incontestabilmente
che la virtù non è sempre fortunata, bisognerà concluderne, con assoluta obiettività scientifica, che accanto alla « virtù » esiste anche la « fortuna » e
che questo secondo concetto è irriducibile al primo. In altri termini: la nostra
ragione deve tenere seriamente conto dell'esperienza, deve cioè prendere atto
che al « virtuoso » sfugge talvolta una parte della fortuna, e cioè sfugge il controllo sul nesso effettivo delle diverse circostanze e delle diverse azioni umane,
onde il risultato finale, mentre per una parte dipende certamente dalla destrezza
dell'uomo «virtuoso», per un'altra parte viene a dipendere, in ultima analisi,
dal caso. Poiché - secondo Machlavelli - le cose stanno incontestabilmente
così, l'autentico scienziato dovrà attribuire lo sviluppo e il corso delle vicende
storiche per metà alla fortuna e per l'altra metà alla prudenza umana; pur cadendo
l'accento sulla prudenza, non si riesce ad eliminare la forza dell'altra, della fortuna, che resta misteriosamente inaccessibile e inesplicabile.
Questo pensiero di Machiavelli è segno evidente di una mutata situazione
spirituale, di un diverso convincimento sulle capacità dell'uomo, la cui causa è
da ricercare negli stessi avvenimenti politici in cui l 'Italia si trovò coinvolta verso
la fine del xv secolo e che portarono, con l'affermazione politica delle signorie,
alla riduzione e anche alla soppressione delle libertà cittadine. Per questo, mentre il
primo umanesimo fu tutta una esaltazione della vita civile, la fine del Quattrocento
è determinata da una forte tendenza ad evadere dagli impegni mondani, a rifugiarsi nella riflessione e nella contemplazione. Così, mentre nasceva l'epoca del
platonismo.ascetico e misticheggiante, che si incentrò soprattutto nell'accademia
fiorentina, si spegneva l'ideale di quella libertà civile e morale che aveva animato
il primo umanesimo.
Analogo realismo e cioè analoga aderenza ai fatti empirici si ritrova pure in
Francesco Guicciardini (148z-1 540), non unita, però, ad una pari capacità di elaborare razionalmente i fatti, né tanto meno ad una pari passione politico-nazioIOZ
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nale. In lui ha il sopravvento il punto di vista del « particulare », cioè dell 'interesse personale, inquadrato in una visione essenzialmente pessimistica. Il suo
ideale umano infatti è quello di un uomo che è riuscito a dominare ogni impulso di
generosità e a controllarsi in nome della più oculata prudenza e del più sottile
calcolo dell'utile suo, un uomo cioè dominato soltanto dalla preoccupazione di
emergere sempre in ogni situazione della vita. Questo è per Guicciardini il savio. Anche attraverso questo schema della vita pratica e mentale dell'uomo,
Guicciardini mette in evidenza la capacità della intelligenza umana di agire efficacemente sul mondo, purché ci si affidi alla guida della prudenza e ad una rigorosa osservazione dei fatti.
La nostra breve esposizione del pensiero di Machiavelli può essere sufficiente,
pur nella sua schematicità, a porre in luce il carattere schiettamente razionale, modernamente scientifico e proprio perciò non intellettualistico, delle sue indagini
intorno alla politica. Da quel momento in poi la scienza della politica troverà molti
cultori, e diventerà una delle discipline più caratteristiche dell'epoca moderna.
Limitandoci qui al Cinquecento, basterà ricordare il nome del francese Jean
Bodio (I 530-I 597), autore di un importante trattato, ]..,a République, pubblicato
nel I 576 in francese e dieci anni più tardi in latino. Bodio, il quale si colloca sulla
via aperta da Machiavelli, è un deciso sostenitore della potenza assoluta che deve
spettare allo stato, affinché esso possa compiere la sua funzione essenziale nella
storia. La sovranità dello stato non conosce limiti, tranne quelli che provengono
dalla legge di dio o della natu.ra."l cittadini sono tenuti ad obbedire al potere sovrano, che è inalienabile e perpetuo; non possono tentare di limi tarlo perché
ogni tentativo del genere comprometterebbe la stessa esistenza dello stato.
Non è il caso di sottolineare il profondo significato che aveva una difesa siffatta del potere sovrano, proprio nel momento in cui la compagine dello stato francese era gravemente minacciata dalle lotte religiose, e mentre la controriforma pretendeva di subordinare tutti gli stati cattolici alla direzione suprema della chiesa.
Sintomatico è il fatto che, all'incirca nei medesimi anni, l'italiano Giovanni
Botero (1544-I6I7), il cui pensiero si muoveva nell'orbita della controriforma,
prendesse invece netta posizione contro Machiavelli. La sua opera fondamentale,
La ragion di stato (I 589), presenta tuttavia un notevole interesse, per le acute
indagini che svolge Sl,l problemi particolari economico-politici. La concretezza
di tali indagini conduce non di rado il nostro autore a ricuperare, suo malgrado,
parecchi temi caratteristici del pensiero di Machiavelli.
II
· SVILUPPI DELL 'UMANESIMO
Abbiamo visto nei capitoli precedenti che il grande tema umanistico del « ritorno ai classici » esercitò una profonda e duratura influenza su tutta la cultura
dell'epoca rinascimentale: sul pensiero _filosofico come su quello scientifico, sul
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movimento della riforma come. su quello della controriforma. Ora però vogliamo aggiungere qualche breve parola su quei particolari autori del Cinquecento
che si inseriscono più direttamente nel filone umanistico in quanto attingono da
esso, non solo il più sincero culto della classicità, ma anche talune caratteristiche
impostazioni filosofiche come il netto rifiuto della logica aristotelico-medievale.
Inizieremo la nostra rapida rassegna dai paesi d'oltr'alpe, per concluderla con i
continuatori dell 'umanesimo in Italia.
Cominciando dalla Francia, ci limiteremo a ricordare Charles Bouillé (Bovillus, 1470-15 53), autore di vari scritti tra cui particolarmente significativo il
De sapiente, e Pierre de la Ramée (Ramus, 15 q-1 572) il cui scritto più famoso
porta il titolo lnstitutionum dialecticarum libri tres. Al movimento umanistico
francese si ricollegano pure Rabelais e Montaigne, ai quali però - data la loro
particolare importanza - dedicheremo due speciali paragrafi.
Richiamandosi a ben noti temi neoplatonici, Bovillo attribuisce all'uomo la
funzione di mediatore e sintesi dell'universo. Egli distingue però l'uomo puramente naturale dal sapiente: questi è l 'uomo che si fa vero uomo mediante virtù
e arte, rispecchiando nella propria coscienza soggettiva la totalità del mondo
oggettivo.
Pietro Ramo accentrò la propria polemica antimedievale contro la logica di
Aristotele, proponendone una radicale riforma. Il primo passo di questa riforma
consiste nel prendere atto che esiste nella mente umana (impressavi da dio stesso
con caratteri eterni) una logica originaria o naturale: quella che informa il comportamento normale di ogni uomo allorché discute con i suoi simili di uq,_qualsiasi
argomento scientifico o no. Di qui l'interpretazione della logica come ars bene
disserendi. La dialettica artificiale rappresenta solo un secondo momento della
logica, che nasce dalla riflessione sui ragionamenti naturali: essa è un'arte che
deve rispecchiare nelle proprie formule i procedimenti della logica naturale.
In quanto tale, dovrà suddividersi in due parti: logica dell'invenzione e logica
della sistemazione, risultando chiaro che la sillogistica occupa solo in quest'ultima una posizione preminente. A proposito dei legami inferenziali mediante cui più giudizi vengono raccolti in un sistema, Ramo sostiene che la forza
delle inferenze non va cercata nei principi generalissimi dai quali i logici medievali volevano farli dipendere, bensì soltanto nell'evidenza del nesso inferenziale stesso.
Non potendoci addentrare più oltre nel complesso e interessante edificio
della logica di Ramo (ove si intrecciano influenze nominalistiche, influenze della
logica stoica, e dottrine caratteristicamente umanistiche) ci limiteremo a due ultimi rilievi: per un lato, a sottolineare l'importanza che il nostro autore attribuì
alla matematica, da lui interpretata come scienza-tipo, su cui dovrebbe modellarsi la stessa dialettica artificiale; per l'altro, a ricordare il notevolissimo impulso
che diede allo spirito enciclopedico, ossia alla delineazione dell'albero del sapere,
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inteso come complesso di tutte le varie conoscenze, diramantesi in base a successive biforcazioni (che richiamano il famoso principio della dicotomia svolto
negli ultimi dialoghi platonici).
L'indirizzo ramiano raggiunse ben presto una larga diffusione nel Cinquecento, onde parecchi studiosi moderni vi scorgono una delle componenti essenziali della cultura di tale periodo. È fuori dubbio, per esempio, che esercitò
una profonda influenza su Francesco Bacone.
Passando ora dalla Francia alla Spagna, ricorderemo Luis Vives (14921 540), autore di vari scritti, fra cui meritano particolare menzione il De disciplinis
e il De anima et vita. Ricollegandosi alle polemiche dell'umanesimo, Vives sviluppò un'accanita lotta contro Averroè, da lui considerato come rappresentante
caratteristico della mentalità medievale. Questa polemica contro la metafisica
averroistica, e più in generale contro tutta la metafisica, si connette in modo
manifesto alla posizione assunta da Vi ves (come da parecchi altri umanisti) in
logica: è una posizione apertamente antirealistica, secondo la quale gli universali non posseggono alcuna realtà, ma sono soltanto parole che denotano classi
di individui effettivamente percepiti. Poiché gli individui denotati da un universale risultano infiniti, ne segue - secondo Vives - che la conoscenza di un
universale non potrà mai essere completa. Nel secondo degli scritti poco sopra
citati egli rivela una profonda esigenza empiristica, sostenendo che l 'uomo va
studiato nella sua concretezza di anima e corpo, non da un punto di vista astrattamente metafisica (punto di vista che caratterizzava le discussioni degli aristotelici sull'unità dell'intelletto e sull'immortalità dell'anima). Proprio questa
esigenza porta il nostro autore a interessarsi attivamente di pedagogia e di psicologia, tanto che suol venire considerato come il fondatore della psicologia
empirica.
Il maggior rappresentante dell 'umanesimo in Inghilterra fu Thomas More
(Moro, 1486-15 3 5), valente letterato e statista, ben noto per la sua opposizione ad
Enrico vm che lo fece decapitare. Fra le opere di Moro ci limitiamo a ricordare la
celebre Utopia, in cui sono esposte, in forma romanzata, le sue vedute filosofiche
e politiche. Egli prende le mosse da un'aperta critica della società inglese dell'epoca, a cui contrappone l'ordinamento che vige nell'isola di Utopia; questo
si regge su tre punti. fondamentali: inesistenza della proprietà privata, carattere
elettivo dei magistrati, completa tolleranza religiosa (solo gli atei e coloro che
negano l'immortalità dell'anima non possono tentare di diffondere fra i concittadini la propria dottrina).
Per quanto riguarda la diffusione dell 'umanesimo in Germania possiamo
ritenere sufficienti il cenno compiuto nel capitolo u all'opera di Rudolf Agricola, e quanto abbiamo detto nel capitolo v circa il contributo di Melantone all'inserimento, nella cultura protestante, di alcuni temi caratteristicamente umanistici.
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Alla complessa figura di Erasmo da Rotterdam verrà dedicato il prossimo
.
paragrafo.
Fra i continuatori italiani dell 'umanesimo basterà ricordare tre nomi: quello di
Mario Nizolio(1488-1 576), quello di Gian Francesco Pico della Mirandola (q ozI 533) nipote di Giovanni Pico, e infine quello di Francesco Patrizi ( 1529-15 97).
Mario Nizolio condusse una serrata polemica contro la logica aristotelicoscolastica, riprendendo e approfondendo le critiche già elevate contro di essa da
V alla, Agricola e Vives; egli riprese in particolare la critica di V alla contro l 'uso
dei numerosi termini artificiali, che facevano del linguaggio logico - così come
era stato costruito dagli studiosi medievali - qualcosa di totalmente diverso dal
linguaggio comune. Nizolio si dichiara disposto ad introdurre termini nuovi,
solo quando essi servano a denotare cose nuove (sotto l'esplicita condizione che
queste risultino vere, o utili, o necessarie, o dilettevoli). Di speciale importanza è
la sua posizione rispetto agli universali: posizione radicalmente nominalistica,
secondo cui un universale non è altro che una classe di individui, onde il passaggio da un giudizio universale a un giudizio singolare sarà soltanto l'applicazione di una proprietà- riconosciuta vera per tutti gli elementi di una classe a qualche particolare elemento di essa. Se la realtà è sempre individuale mentre gli
universali sono unicamente nomi, ne segue che un'autentica scienza potrà essere soltanto scienza di individui; gli universali che essa usa per collegare più
individui dovranno venire considerati come meri strumenti, e non ipostatizzati.
La scienza potrà pertanto valersi, nella determinazione dei nessi fra un oggetto
e l'altro, di tutti i risultati di un serio studio del linguaggio (cioè potrà valersi
della retorica), ma non dovrà fare ricorso alle vane sottigliezze dei logici, che ci
allontanano dalla realtà concreta per farci inseguire inesistenti astrazioni. Così
impostata, la ricerca scientifica sfocerà in sistemi di autentiche conoscenze, libere dalle diatribe dei filosofi. 1
Gian Francesco Pico della Mirandola subì profondamente l'influenza dello
zio, ma più ancora quella del Savonarola. Dalla predicazione savonaroliana trasse
infatti la convinzione dell'inconciliabilità della vera filosofia cristiana con quella
greca; dallo zio, invece, la convinzione della sua inconciliabilità con i principi
dell'astrologia. Polemizzò con particolare vivacità contro l'aristotelismo e contro
tutte le filosofie ad esso ispirate, compresa la scolastica. Trasformò l'eros di
Platone e dei platonici nell'eros cristiano, rivestendolo di un forte misticismo,
non scisso tuttavia da una sincera fede nel progresso dell'ingegno umano.
Francesco Patrizi dedicò gran parte della sua produzione alla lotta contro
Aristotele, giungendo a porre in dubbio l'autenticità di varie sue opere. I conI V aie la pena ricordare che la principale
opera di Nizolio, De veris principiis et vera ratione
I 55 3), esercitò una profonda influenza su
Leibniz, il quale ne curò due edizioni, corredandole di note esplicative e critiche.
ftlosoft,
philosophandi contra pseudophilosophos (Intorno ai veri
principi e al vero metodo di filosofare contro gli pseudo-
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cetti aristotelici da lui più energicamente combattuti sono quelli di materia inerte
e di fine trascendente. Al primo contrappose il concetto di natura come una totius
mundi vita (unica vita dell'intero mondo); al secondo il concetto di armonia immanente all'universo. Lo sviluppo di questi concetti lo portò a dare una spiccata
tendenza panteistica al proprio platonismo, o meglio neoplatonismo. Ebbe pure
alcune interessanti polemiche con Telesio, di cui subì l'influenza malgrado la diversità delle posizioni filosofiche.
III
· ERASMO DA ROTTERDAM
Il maggiore e più originale umanista del Cinquecento fu senza dubbio Desiderio Erasmo da Rotterdam l (I467-1536), uno degli uomini più influenti dell'epoca, in relazione con tutto il mondo dei dotti, unanimemente riconosciuto
come la massima autorità nel campo degli studi filologici. La sua personalità
occupa una posizione di notevole rilievo nella storia del pensiero filosofico, sia
in se stessa, sia per la luce che riesce a gettare sui complessi rapporti (dei quali abbiamo già più volte discusso) fra umanesimo e riforma.
L'umanesimo acquista nelle opere di Erasmo, quali la Stultitiae laus (Elogio
della pazzia, I 5I I) e i Colloquia familiaria (Colloqui familiari, I 5I 8), una nuova
sensibilità e consapevolezza morale. Vengono sferzati con finissima ironia la grettezza della pura erudizione e gli eccessi del razionalismo; ad essi è contrapposta
la «follia», cioè l'immediatezza della vita nella sua irrazionalità creatrice. Accanto a quest'ironia emerge però uno sdegno veramente nobile contro l 'immoralità dell'epoca, la superstizione, il mercato delle indulgenze, ecc. Animato da
questo sdegno, Erasmo ci presenta le humanae litterae soprattutto come mezzo per
combattere l'immoralità, gli abusi della chiesa, le astruse e dogmatiche argomentazioni dei teologi, l'ignoranza monastica, l'intolleranza, le imposture.
Nelle critiche ora accennate sono ovviamente contenuti molti germi di quelle
che saranno - come abbiamo visto nel capitolo v - le principali obiezioni dei
protestanti alla chiesa cattolica nel campo etico. Ma i punti di contatto fra Erasmo e la riforma non si limitano a queste critiche. È chiaro, infatti, che l'applicazione, da lui iniziata, della critica filologica ai testi sacri (con le edizioni di
Girolamo, Ambrogio, Agostino, con la versione critica del Nuovo testamento, ecc.)
può considerarsi come l'antecedente diretto del metodo che sarà propugnato da
Lutero per l'interpretazione della parola di Cristo.
Eppure, quando nel I 5I9 Lutero chiederà ad Erasmo di pronunciarsi apertamente a favore della riforma, questi - come già si è detto - gli rifiuterà il suo
appoggio. Anzi, cinque anni più tardi, entrerà in aspra polemica con le tesi teologiche protestanti, nello scritto Diatriba de libero arbitrio (Dissertazione su/libero
arbitrio, I 524). ~
I
Il suo vero nome era Geer Geertsz.
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Il rifiuto di Erasmo non è un fatto che riguardi soltanto le sue vicende personali, ma un fatto di notevolissimo rilievo per tutta la cultura europea. Esso
pone nella massima evidenza la reale, insuperabile antitesi che effettivamente esisteva, malgrado ogni apparente convergenza, fra concezione umanistica e concezione protestante della religione. La prima infatti tendeva ad avvicinare sempre
più dio al mondo e ad esaltare il valore dell'uomo, concepito come natura libera, fornita per se stessa delle forze necessarie onde elevarsi a dio e raggiungere
la beatitudine (si pensi all'interpretazione ficiniana della religione); la seconda,
invece, tendeva a mettere in risalto via via maggiore la dipendenza dell'anima
umana da dio, l'origine divina di ogni nostro impulso veramente buono. È
vero che la convinzione di questa dipendenza dava all'uomo una forza nuova (se
la grazia deriva direttamente da dio, chi possiede la grazia dovrà pure possedere
il sostegno divino per attuare il bene); tale forza però, che non trae origine dall'uomo, era qualcosa di interamente estraneo alle linee del pensiero umanistico.
Il contrasto fu posto in luce, con tutta la sua asprezza, dalla risposta di Lutero
ad Erasmo; essa aveva per titolo De servo arbitrio, e non faceva che sviluppare ed
approfondire il principio della « giustificazione per fede ». 1
Sarebbe tuttavia erroneo attribuire all'opposizione Erasmo-Lutero un significato puramente teologico-filosofico; essa celava in realtà anche un'altra grossa
questione di ordine politico-sociale. Erasmo era un dotto filologo, un aristocratico umanista, non uno spirito rivoluzionario. La sua mentalità cosmopolita lo
portava a sentirsi vicino a tutti gli spiriti colti dell'epoca ed a condividere con
essi i più raffinati problemi filosofico-letterari, non a mescolarsi nelle lotte concrete
tra paese e paese o fazione e fazione, dominate da interessi tutt'altro che puramente
culturali. Se pertanto sostenne apertamente - come gli uomini più illuminati
del secolo - la necessità di una riforma della chiesa, lo fece soltanto da un punto
di vista morale, senza rendersi conto delle gravissime questioni di altro genere
che essa avrebbe sollevato. Ciò che egli vagheggiava era una riforma lenta,
graduale, senza sovvertimenti: completamente diversa, insomma, dall'azione
decisa e concreta di Lutero, basata sulla stretta connessione tra aspirazioni religiose e problemi politico-economici della Germania. Posto di fronte alle conseguenze storiche di quest'azione, Erasmo si sgomentò e volle scindere completamente la propria responsabilità.
Il rifiuto di Erasmo può davvero considerarsi - come abbiamo detto uno dei fatti più significativi della storia culturale del Cinquecento. Esso dimostra
incontestabilmente l'avvenuto divorzio tra cultura e politica. Dimostra, cioè,
che l'azione in cui si trovava impegnato l'umanesimo e quella in cui si trovava
impegnata la riforma, si svolgevano ormai su piani ben distinti e tra loro in1 Erasmo replicherà immediatamente a Lutero con lo scritto Hyperaspùtes adversus servum ar-
bitrium Lutberi (Difesa contro il servo arbitrio di Lutero, Ij2j).
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confondibili: muovendosi la prima nelle astratte sfere della cosiddetta « repubblica letteraria », e la seconda, invece, nel campo ben più complesso dei problemi
vivi e reali. Agli umanisti mancò il coraggio di spostarsi da un piano all'altro;
perciò il loro movimento si rinchiuse a poco a poco in se stesso e finì per isterilirsi completamente.
IV
· RABELAIS
Nella corrente umanistica possiamo anche far rientrare lo scrittore francese
François Rabelais (I493 ?-I 563), per quanto la sua posizione riveli parecchi
spunti che vanno al di là del puro umanesimo.
Il suo famoso romanzo Vie inestimable du grand Gargantua père de Pantagruel
(Vita inestimabile del grande Gargantua padre di Pantagruel, I 534) è di contenuto essenzialmente pedagogico; esso risulta tuttavia così ricco di pensiero, così penetrante nell'analisi del grande conflitto fra cultura umanistica e cultura medievale,
che merita senza dubbio un posto di rilievo anche in una storia della filosofia,
almeno come viene da noi intesa.
I due protagonisti del romanzo sono il gigante Gargantua e suo figlio Pantagruel. Rabelais ci narra la nascita e la giovinezza sia dell'uno che dell'altro, e in
entrambi questi racconti il tema più significativo (dal nostro punto di vista) è la
contrapposizione fra l'insulsa educazione scolastica impartita nelle vecchie università e un nuovo tipo di educazione, che l'autore vuole basata sull'immediato contatto con la natura e sullo studio dei classici. Dato l'interesse del problema, e data
l'efficacia del metodo satirico con cui Rabelais lo tratta, vale la pena accennare a
qualche punto particolarmente caratteristico della sua trattazione. Riferiremo
dunque, a titolo d'esempio, le tipiche vicende dell'educazione di Gargantua.
In un primo tempo questi è affidato ad uno scolastico, il quale lo educa secondo il più rigido metodo tradizionale. I libri vengono letti e riletti finché l'alunno è in grado di ripeterli a memoria, anche partendo dall'ultima parola. Infiniti
esercizi di grammatica e di logica formale; filze interminabili di sillogismi; dispute cavillose su argomenti del tutto privi di contenuto concreto. Nessuna
cura per il corpo: né ginnastica, né pulizia e, sotto questo disinteresse ammantato
di falso ascetismo, il trionfo della pigrizia e della trivialità.
In questa caricatura dei maestri scolastici, e dell'assurdo metodo adottato
nelle scuole dei conventi, Rabelais sfoggia una abilità satirica veramente eccezionale, pari a quella dei numerosi narratori che, a partire dall'ultimo medioevo,
hanno, da Boccaccio a Machiavelli, scelto la via monastica come uno dei bersagli favoriti.
Il risultato di questo processo di diseducazione progressiva è che, quando
il giovane Gargantua viene condotto davanti a suo padre, altro non sa fare che
nascondersi il viso dietro il berretto, piangendo come un vitello e dando a pensare di essere diventato pazzo e scimunito.
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A questo punto avviene il cambiamento. Gargantua è affidato a Ponocrate.
Costui comincia col sottoporre il cervello del nuovo alunno a un lavacro medicinale, allo scopo di liberarlo dalle incrostazioni dannose. Da questo momento per
Gargantua ha inizio una nuova vita. Il cielo, i campi, i boschi, i fiumi, gli animali,
sono i migliori libri. Anche la lettura dei libri antichi deve servire soprattutto per
le cose, le nozioni concrete che in essi sono contenute, non per la loro forma letteraria, che Rabelais considera del tutto secondaria.
Comunque, anche il testo classico deve essere considerato non come un deposito di sapere definito, ma come uno strumento che insegni in primo luogo
il metodo della ricerca. Perciò il commento al testo non sarà un altro libro di
carta, ma la natura. Si stabilisce così quel circolo dialettico fra cosa e interpretazione della cosa in cui è l'essenza del progresso scientifico moderno.
Lo stesso mondo del lavoro, oltre la natura fisica, costituisce campo di ricerca. Gargantua visita le botteghe di pittori e scultori, gioiellieri, tessitori e operai d'ogni specie, «apprendendo e meditando sull'industria e l'invenzione delle
arti».
Grande importanza è attribuita alla educazione fisica. Caccia, corsa, nuoto,
canottaggio, esercizi con le armi: il medico Rabelais mette la sua profonda conoscenza dell'anatomia e dell'igiene a servizio dell'educazione.
In questa contrapposizione del libro della natura al libro di carta, Rabelais
si trova in polemica non solo con la scolastica, ma anche con la pedanteria libresca dell 'umanesimo degenere, del formalismo ciceroniano, del grammaticismo. In
tale senso egli è sulla strada di Galileo e procede ben oltre i letterati della rinascenza.
Quanto all'educazione morale e religiosa, Rabelais è assai vicino allo spirito
della riforma. Le Scritture vanno studiate sui testi religiosi. Dio va onorato non
ascoltando decine di messe o infilando litanie su litanie, ma con un atto di adorazione intimo e sincero. Quel che conta è amare ed aiutare il prossimo a mettere al
massimo profitto i mezzi che dio ci ha forniti. Per un giovane il primo dovere è
quello di progredire nello studio e soprattutto nella virtù, giacché sapere senza
virtù è rovina dell'anima.
Non occorre aggiungere altro per illustrare l'enorme interesse dell'opera, la
sua eccezionale apertura verso un tipo di educazione, e quindi di cultura, che andava molto al di là anche di quella umanistica.
Se c'è un aspetto del programma rabelaisiano che gli storici siano concordi
a criticare, esso consiste nel suo prevedere che il giovane debba apprendere una
quantità veramente smisurata di cose. Ma anche questo è un difetto molto indicativo, poiché pone in luce come si profili ampia (direi sconfinata) la nuova cultura che in tale programma avanza le proprie esigenze. Qui Rabelais si rivela
davvero figlio della grande epoca rinascimentale; di quell'epoca in cui l'uomo,
dopo secoli di umiliazione, si erge quale copula mundi e ritiene possibile riprodurre
IlO
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in quel microcosmo che è la sua mente, l 'infinità e la ricchezza dell'intero macracosmo.
V
· MONTAIGNE
Michel de Montaigne (15 33-1592), nobiluomo della Francia meridionale,
formò la propria raffinata cultura sulle medesime opere che avevano entusiasmato
tutti gli umanisti. Non conservò tuttavia, per esse, la fanatica ammirazione che
aveva caratterizzato gli uomini del Quattrocento; ebbe invece chiara coscienza
dei loro limiti e delle loro debolezze: per esempio, fra tutti gli antichi filosofi, soltanto Socrate gli apparve un uomo effettivamente superiore, per la nobiltà del suo
carattere morale e per il suo spirito sottilmente ironico. Una delle letture alle quali
Montaigne si applicò con maggiore attenzione furono - 01la cosa è assai significativa - gli Schizzi pirroniani di Sesto Empirico: essi costituivano una delle più
profonde lezioni di scetticismo che la cultura classica poteva fornirgli.
Fra il 1 5So e il 15 88 Montaigne pubblicò il proprio capolavoro, che è una
delle più affascinanti opere della letteratura filosofica francese: trattasi di tre volumi di Essais (Saggi), i quali espongono con stile agile ed elegante le sue esperienze di studio e di vita, e i frutti delle sue riflessioni morali.
Con Montaigne ci troviamo completamente fuori del platonismo; i problemi
che lo appassionano non sono più quelli religiosi e metafisici; ma innanzi tutto
quelli morali; il metodo che egli segue per risolverli è l'analisi dell'animo umano,
rivolta a coglierne con mirabile precisione tutte le sfumature. È pertanto allo
stoicismo, all'epicureismo e al pirronismo che egli rivolge il proprio interesse,
e ne ricava un ideale di saggezza che accentua tutti i pregi e i difetti della concezione umanistica. Trattasi infatti di una saggezza eminentemente aristocratica e
raccolta, la quale accoglie, sì, il carattere integralmente umano della virtù (intesa,
non già come mortificazione dei piaceri, bensì come consapevole moderazione di
essi) e identifica tale virtù con la libertà, ma dimostra palesemente di intenderla,
non come energia rivolta a trasformare la cultura dell'umanità bensì come ricerca
di una pura e semplice indipendenza dell'individuo, chiuso nella propria vita
interiore e indifferente di fronte al mondo. L'antitesi fra questa posizione in
fondo rinunciataria e quella, piena di energia rinnovatrice, di un Salutati o di
un Valla, non potrebbe essere più completa.
L'ideale di saggezza aristocratica e chiusa di Montaigne non poté non riflettersi anche sulla posizione da lui assunta nei confronti del valore da attribuirsi
alla filosofia e alla scienza. Il risultato cui egli giunge è una forma di raffinato scetticismo letterario, tendente a limitare l'eccessiva fiducia dei precedenti umanisti
nella nostra conoscenza. « Se da un lato la ragione ha il compito di controllare i
dati dei sensi, dall'altro però,» osserva Montaigne, «essa stessa avrebbe bisogno
di un controllo. » Nessuna forma di conoscenza - né razionale né sensoriale ·può dunque condurci ad una verità assolutamente certa. È un segno di rozza
III
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ingenuità giurare in un sistema filosofico o accogliere, senza discussione, tutto
ciò che è stato detto da un autore, per quanto autorevole. L'uomo saggio dubita
di tutto: il dubbio è l'espressione della sua saggezza.
Si ricorderà che anche da taluni autori medievali era stata sostenuta l'impossibilità, per l'uomo, di raggiungere, con la ragione o con i sensi, una conoscenza
assolutamente certa. Di questo risultato, però, essi si valevano per affermare l'esigenza di una conoscenza di altro tipo (di un'intuizione mistica), cioè per proclamare la superiorità della fede rispetto alla ragione. Nulla di tutto ciò in Montaigne;
nessun appello a forme sovrarazionali di conoscenza. La consapevolezza dei limiti
del nostro sapere non costituisce, per lui, nulla di umiliante e di insopportabile;
al contrario, è la via per giungere all'autentica saggezza.
Possiamo anzi dire qualcosa di più: tale consapevolezza è, in ultima istanza,
la migliore garanzia di libertà: solo essa, infatti, è in grado, secondo Montaigne,
di garantirci contro la presunzione di sapere; solo essa riesce a porre il nostro
animo nella condizione di piena apertura culturale.
Qui di nuovo però va osservato - come poco sopra, a proposito della libertà - che l'apertura culturale predicata da Montaigne interessa soltanto il
saggio, senza oltrepassare in alcun modo l 'intimità del suo animo. Libertà teoretica (cioè scetticismo) e libertà pratica non hanno bisogno di esplicarsi in azioni
esterne. L'atteggiamento esterno del saggio non può consistere in altro, che nell'attenersi alle leggi costituite, e rispettare i costumi esistenti. Questa remissiva
accettazione del mondo costituisce l'ultima parola dell'umanesimo, e segna irrimediabilmente i limiti della sua azione rinnovatrice.
L'indirizzo di Montaigne fu proseguito dal suo amico Pierre Charron (r 541r 6o 3), canonico di Condom. Egli sviluppa il motivo della saggezza, come liberazione da tutti i presupposti dogmatici e indipendenza da ogni pregiudizio, e
quindi come sprone a regolare le nostre azioni in base alla «equità» e alla «ragione
naturale ». Si preoccupa tuttavia di salvare la religione, che, provenendo direttamente da dio, non può non approvare le regole della saggezza; ed inoltre si
preoccupa di evitare che il dubbio scettico coinvolga gli ordinamenti giuridici.
Così lo scetticismo finisce per profilarsi come un'elegante, raffinata difesa di posizioni sostanzialmente conservatrici.
VI
· IL MOVIMENTO LI BER TINO: VANINI
I pensatori rapidamente esaminati nei paragrafi precedenti ci hanno fatto
senza dubbio intravedere, nella cultura del Cinquecento, forti aperture verso
nuovi orizzonti. Ma l 'indirizzo di cui ora ci accingiamo a parlare rappresenta,
malgrado la sua estrema debolezza teoretica, qualcosa di assai più sconcertante:
un'autentica rottura entro la tradizione del pensiero occidentale, un preciso tentativo di fare a pezzi il patrimonio di idee e di valori che - sia pure in forme diIIZ
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L'arricchimento della tematica filosofica
verse - era sempre stato accolto da tutti i maggiori indirizzi culturali. Per questo motivo esso verrà giudicato estremamente pericoloso anche da menti aperte
come quella di Mersenne (che dedicherà alla sua confutazione una notevole parte
delle proprie ricerche) e persino dal maggiore filosofo della prima metà del Seicento : Cartesio.
L'influenza, diretta o indiretta, dell'aristotelismo eterodosso è chiaramente
rintracciabile (secondo alcuni autorevoli storiografi moderni) nel movimento
libertino come già nel pensiero di Machiavelli. Essa risulta connessa, non alla
metafisica aristotelica, ma all'idea di naturalità, faticosamente elaborata e vigorosamente difesa da tale indirizzo (fatto questo che può venire considerato - se
ve ne era bisogno- come incontestabile riprova dell'importanza di tale idea).
Nel caso del movimento libertino l'idea di naturalità viene applicata, non più
al campo dei fenomeni fisici come facevano per esempio gli aristotelici padovani,
e neanche a quello delle istituzioni politiche come faceva Machiavelli, ma al
campo ben più delicato dei fatti religiosi. Si trattava, in altri termini, di considerare le religioni, e in particolare quella cristiana, come puri e semplici fatti
naturali, cercando di spiegarli senza fare il benché minimo appello ad alcunché
di estraneo alla natura.
Partendo da questa esigenza, il movimento libertino - che si ricollega a una
lunga tradizione di miti anticristiani 1 già viva nel medioevo - giunge, attraverso un complicato sviluppo, all'esplicita difesa dell'ateismo ed all'aperta beffa
del dogma e della morale cristiana. La vasta diffusione di tale movimento costituisce, però, un fenomeno che oltrepassa i limiti della storia del pensiero filosofico-scientifico; per trovarne una spiegazione bisogna riferirsi al fatto che il
libertinismo costituisce una spontanea reazione alla pesante atmosfera prodottasi,
non solo nella filosofia, ma in tutta la cultura, con il trionfo della controriforma.
Il principe dei libertini italiani fu Giulio Cesare Vanini. Nato in Puglia nel
1585, entrò da giovane nell'ordine carmelitano: studiò prima all'università di
Napoli, poi in quella di Padova; caduto in sospetto dei suoi superiori, fuggì nel
1612 in Inghilterra ripudiando il cattolicesimo per abbracciare la confessione
anglicana; due anni più tardi, fuggì dall'Inghilterra per tornare nel continente e
fare un nuovo atto di sottomissione al cattolicesimo. Nel 1615 pubblicò una
grossa opera - Amphitheatrum aeternae providentiae (Anfiteatro dell'eterna provvidenza)- che, sotto l'apparenza di difendere il dogma cattolico, ne costituiva una
evidente canzonatura. Nel 1616 giunge a tal punto di spregiudicatezza da pre1 Come esempi di tali miti ricordiamo:
a) il famoso De tribus impostoribus, d'oscura origine, forse islamica e attribuito da taluni a Federico n di Svevia (secondo esso, Mosè, Cristo e
Maometto sarebbero ingannatori di popoli e la
loro predicazione volgare impostura); b) alcune
redazioni, più violente, della parabola de « i tre
anelli» (cfr. G. Boccaccio); c) la concezione della
religione come puro e semplice instrumentum regni,
che si collega alla leggenda dell'empietà di Averroè; d) alcuni aspetti dell'« oroscopo delle religioni », secondo cui la comparsa di nuove religioni dipenderebbe dall'influenza di particolari
combinazioni astrali.
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L'arricchimento della tematica filosofica
sentare alla facoltà teologica di Parigi un volume di dialoghi - De admirandis
naturae reginae deaeque mortalium arcanis (l meravigliosi arcani della natura, regina e dea
dei mortali)- per averne l'autorizzazione e, attenutala, pubblicare poi il volume
in un testo profondamente rimaneggiato, avendovi a bella posta introdotte varie
eresie. Costretto a fuggire anche da Parigi, riparò sotto falso nome a Tolosa, ove
riprese a diffondere le proprie teorie. Arrestato nel 161 8 e processato come bestemmiatore e ateo, fu, nel 1619, condannato al taglio della lingua e alla morte sul
rogo. Affrontò la pena con coraggio, mostrando fino alla fine il suo totale disprezzo per chi lo aveva condannato.
L'artificio a cui il Vanini ricorre, per esporre le sue teorie libertine, è di presentarle non come proprie, ma come apprese da qualche immaginario miseredente: egli finge, sì, di esserne rimasto scandalizzato, ma dal modo con cui le
riferisce e dalla debolezza degli argomenti che vi contrappone, non vi ha dubbio
che concorda con esse. In questo modo affronta le questioni più varie, da quelle
di schietta teologia a quelle di morale spicciola, e vi sostiene le tesi più sconcertanti, dall'affermazione che Gesù e Mosè non furono che abili impostori alla celebrazione del libero accoppiamento sessuale. Quando, poi, discute qualche problema filosofico serio, non ha difficoltà a spacciare come proprie teorie attinte
dalle opere altrui.
Un esame serio e obiettivo delle opere di Vanini non può non !asciarci delusi,
tanto è scarso il loro valore scientifico-filosofico. Eppure questa constatazione
non ci autorizza a sottovalutarne l'importanza e tanto meno a sottovalutare l'importanza del movimento che in esse si esprime. La realtà è che Vanini riuscì a
enucleare, portandoli al parossismo, alcuni caratteri senza dubbio tipici di una
mentalità largamente condivisa dai suoi contemporanei. È certo infatti che non
pochi atteggiamenti libertini possono venir riscontrati, come ha dimostrato la critica odierna, in filosofi di ben altra tempra, quali Cremonini, Bruno, Campanella.
Il fatto può a prima vista stupire, ma si spiega assai bene, tenendo conto della crisi
che travagliava la cultura europea del Cinque e Seicento durante la difficile fase
di trapasso dall'epoca rinascimentale a quella moderna.
Una volta compiuto questo trapasso, alcuni temi della polemica libertina potranno venire ripresi - con ben altra serietà - dal movimento illuministico, e
allora riveleranno una validità e un'efficacia che certo non riscontriamo nelle
opere di Vanini o dei suoi seguaci diretti. Il fatto è che l'illuminismo non costituirà
soltanto uno sviluppo del movimento libertino, ma - come vedremo nella sezione v - un complesso fenomeno culturale, in cui convergeranno profonde
istanze, scaturite vuoi dai libertini vuoi da altri movimenti, assai più agguerriti
da un punto di vista filosofico.
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CAPITOLO OTTAVO
La filosofia della natura
I
· RAPPORTI DEI FILOSOFI DELLA NATURA
CON ALTRI INDIRIZZI DEL PENSIERO RINASCIMENTALE
Nel XVI secolo l'Italia meridionale diede i natali a tre interessantissime figure
di filosofi: Telesio, Bruno e Campanella. Sarebbe eccessivo affermare che essi
abbiano formato una vera e propria scuola filosofica; è indiscutibile però, che le
loro filosofie furono legate da rapporti abbastanza stretti. Particolarmente chiara
è l'influenza esercitata dal primo sugli altri due. Si tratta, comunque, non di una
identità di dottrine filosofiche, ma di un comune orientamento; di una sensibilità
presente in tutti e tre per i medesimi problemi, in ispecie per quello naturalistico.
Il primo, più appariscente, carattere di tale comune orientamento è un aperto
antiaristotelismo. Pur nella sua genericità, questo carattere permette di distinguere ben nettamente l'indirizzo di Telesio, Bruno e Campanella da quello seguito,
nei medesimi anni, dalle scuole dell'Italia settentrionale in gran parte dominate
da Aristotele, sia pure interpretato in modi diversi, e cioè ora secondo il commento
averroistico ora secondo quello alessandrista.
L'atteggiamento apertamente polemico dei nostri tre autori nei riguardi
dell'aristotelismo, non esclude però che l'aristotelismo abbia esercitato, di fatto,
un'influenza abbastanza profonda su di essi, sia pure in forma indiretta. Se ne
ha una prova indiscutibile nella sostanziale continuità riscontrabile tra il naturalismo sostenuto da Telesio e quello che era stato propugnato dal maggiore aristotelico del secolo, cioè da Piero Pomponazzi.
Su Bruno e su Campanella l 'influenza dell'aristotelismo giunge inoltre attraverso il movimento libertino, da cui i due autori attingono alcuni temi filosofici
e alcuni orientamenti. È, per esempio, evidente una certa analogia tra la distinzione bruniana del piano filosofico da quello religioso, e la dottrina della doppia
verità, condivisa dagli averroisti e dagli alessandristi e portata alle conseguenze
estreme dai libertini.
Accanto alle influenze testé accennate sono però riscontrabili, in Bruno e in
Campanella, anche talune ben precise influenze controriformistiche. La cosa non
può stupirei, se ricordiamo il rapporto di complementarità esistente tra liberti-
Il5
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La filosofia della natura
nismo e controriforma. Senza dubbio in Bruno sono più evidenti le prime;
in Campanella le seconde. Il fatto è però (e si tratta di un fatto fondamentale per
comprendere il loro pensiero) che entrambe le influenze hanno lasciato una certa
impronta sia nell'uno che nell'altro.
Più stretti risultano senza dubbio i loro rapporti con il neoplatonismo, che
esercitò su di essi un'azione profonda, sia direttamente (in ispecie su Bruno, che
alcuni interpreti moderni amano senz'altro considerare come un neoplatonico),
sia indirettamente attraverso il magismo di Paracelso, Della Porta, ecc. Leggendo
le opere dei filosofi della natura si ha, tuttavia, l'impressione, che - criticando
Aristotele - essi tendano a risalire non tanto a Platone quanto ai presocratici
(Pitagora, Empedocle, Democrito), alle cui teorie fanno spesso riferimento, or
più or meno fedelmente.
Come dice l'appellativo stesso di «filosofi della natura», essi pongono in
primissimo piano il problema della natura; ed è certo che - anche se le soluzioni
che ne propongono vanno al di là del platonismo - i termini in cui lo impostano
sono molto simili a quelli che ritroviamo negli ultimi rappresentanti del platonismo (per esempio in Patrizi). L'impostazione che ne danno è, cioè, non scientifica ma essenzialmente filosofica.
Malgrado questa impostazione, e malgrado che non abbiano recato (salvo
in qualche argomento particolare) alcun autentico contributo alle ricerche scientifiche, hanno tuttavia dato un impulso di decisiva importanza al diffondersi
dell'interesse per la scienza, e soprattutto al riconoscimento della grande importanza delle nuove scoperte scientifiche sul piano della filosofia generale.
II
· TELESIO
Bernardino Telesio nacque a Cosenza nel I 509; studiò a Milano e Padova
subendo in notevole misura l'influenza dei medici patavini; poi ritornò nella città
natale, ove fu a capo dell'accademia cosentina (dopo di lui chiamata accademia
telesiana), che si proponeva il compito di raccogliere e descrivere il maggior
numero di fenomeni fisici, senza alcuna preoccupazione, tuttavia, per la loro elaborazione quantitativa e la loro rigorosa sistemazione. Fu autore di una celebre
opera, De rerum natura iuxta propria principia (Intorno alla natura delle cose secondo
i loro principi), i cui due primi libri uscirono nel 1565, gli altri nel 1586, l'anno in
cui il filosofo morì. Negli ultimi tempi della sua vita, e ancor più dopo la sua
morte, contro le idee da lui propugnate sorsero profonde opposizioni da parte
degli ambienti ecclesiastici.
Come si è detto nel primo paragrafo, Telesio è un implacabile avversario di
Aristotele, non meno di quanto lo erano stati i platonici, in un senso però ben
diverso da essi. La sua rottura con il sistema aristotelico risale, probabilmente,
agli anni da lui trascorsi a Padova. La prima fondamentale opposizione di Telesio
116
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La filosofia della natura
ad Aristotele investe il metodo stesso con cui studiare la natura. Per Telesio la
natura va studiata « iuxta propria principia » e non secondo concetti precostituiti,
come quelli di atto, di potenza, ecc. che traggono origine dal nostro intelletto,
anziché dalla natura stessa. « Coloro che prima di noi hanno scrutato la ricostruzione di questo mondo e la natura delle cose in esso contenute, » egli scrive,
« sembra che abbiano lavorato molto, con poco risultato. Che cosa infatti sono
riusciti a vederne, se tutti i loro discorsi contrastano gli uni con gli altri e con le
cose? ... Certamente però gli uomini non dovevano compiacersi di sé e insuperbire a tal punto, da dare essi stessi alle cose ... quei caratteri che non avevano osservati nelle cose e che avrebbero dovuto essere ricavati dalle cose stesse ... Noi
invece amatori e cultori di una sapienza affatto umana ... ci proponiamo di osservare il mondo e le sue singole parti e le passioni, le azioni, le operazioni e le
specie delle sue parti e delle cose in esso contenute. »
Osservare rettamente il mondo significa, per Telesio, seguire le indicazioni
dei sensi, ricavare da essi i principi interni dei fenomeni, enuclearne le nozioni
e le leggi generali che debbono stare alla base delle nostre scienze. Anche la
matematica deve fondarsi sull'esperienza, e non venire pensata come una costruzione aprioristica di concetti che l'intelletto imporrebbe, dall'alto, ai dati empirici.
V a comunque notato che la conoscenza scientifica resta, per il nostro autore,
essenzialmente qualitativa, non quantitativa.
Telesio non ha dubbi sull'esatta corrispondenza fra la testimonianza dei
sensi e i fatti di natura. Se i principi della scienza vengono davvero formulati
in modo da attenersi a tale testimonianza, la conoscenza scientifica potrà certamente cogliere la realtà naturale.
Nel quadro dell'antiaristotelismo testé delineato, i due concetti contro cui si
accende con maggior vigore la polemica telesiana sono quelli di materia e di
forma; ad essi Telesio sostituisce, nella spiegazione dei processi naturali, i due
nuovi concetti di massa materiale e di forza. La massa materiale è diversa dalla
materia di Aristotele, perché non è astratta potenzialità, bensì qualcosa di più
concreto e positivo: qualcosa di indistruttibile, che «non avendo facoltà di
agire e di generarsi, non può né aumentare né diminuire ». La massa materiale
è identica sugli astri e sulla Terra e la sua caratteristica fondamentale è quella di
occupare delle porzioni di spazio pur senza identificarsi con lo spazio (tanto è
vero che Telesio ammette l'esistenza di uno spazio assolutamente vuoto).
Mentre la materia è unica le forze invece - secondo Telesio - sono due:
una dilatante, che egli chiama « calore », ed una restringente, che chiama « freddo ». Calore e freddo sarebbero, dunque, non proprietà della materia, ma energie
che la mettono in moto; esse sono imponderabili perché penetrano in qualunque
punto, tuttavia non possono agire senza massa corporea.
Dalla lotta del calore e del freddo scaturirebbero tutti gli esseri del mondo.
L'analogia di queste due forze con l'amore e l'odio di Empedocle, è evidente.
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La filosofia della natura
La sede del calore è il Sole, mentre la sede del freddo è la Terra. Sole e Terra
vengono ad essere così i due corpi elementari che non mutano, mentre tutti gli
altri corpi sono soggetti al divenire. Su questo punto è evidente il legame di
Telesio con la concezione tradizionale del cosmo: Telesio infatti, diversamente
da ciò che farà Bruno, non abbraccia ancora la concezione copernicana né si
rende conto della sua importanza vuoi scientifica vuoi filosofica.
La natura dello spirito non è, secondo Telesio, nettamente distinta da quella
della massa materiale. Alla teoria aristotelica dell'anima come forma incorporea,
Telesio obietta che l'anima, se fosse effettivamente incorporea, non potrebbe
subire l'azione delle forze materiali né fungere essa stessa da centro propulsore
del movimento dei corpi. Ne conclude che l'anima deve risultar costituita di
materia; più sottile che quella dei corpi, ma pure sempre materia. Essa è lo
spirito vitale che pervade tutti i nostri organi e li rende capaci di compiere le loro funzioni; dalla sua sede centrale, che è il cervello, essa dirige i moti delle
membra, in cui si diffonde come calore.
Proprio questa conclusione permetterà al nostro autore di collegarsi a tutto
l'animismo rinascimentale, pur rovesciandone la posizione; poiché l'anima è
materiale, tutti i corpi sono animati; le stesse forze del freddo e del caldo sono
animate e, come tali, sono fornite di una certa sensibilità. Le vecchie filosofie
presentavano la coscienza come una prerogativa dello spirito, inteso come un
principio antitetico alla materia; ad esse Telesio oppone che la coscienza è una
facoltà primitiva e ineliminabile di tutta la materia.
Sarà ora facile rinnovare i termini stessi del problema della conoscenza.
Secondo Telesio, solo un'impostazione artificiosa e illusoria di questo problema
può farci credere che il processo conoscitivo si compia esclusivamente nell'uomo;
in realtà esso ha luogo in ogni essere, non potendo venir scisso dai processi che
costituiscono la vita del tutto. Esso trae origine dal contatto dinamico del percepito con il percipiente,. anzi è questo contatto (diretto, immediato, per la cui
attuazione non occorrono speciali organi di senso) : proprio perché i corpi sono
in contatto dinamico gli uni con gli altri, essi sono, tutti, forniti di una vera e
propria sensibilità.
Nell'uomo il contatto con gli altri esseri del mondo provoca i diversi atti
conoscitivi (i cui rapporti e le cui differenze hanno provocato tante discussioni
tra i filosofi); in ultima istanza, però, questi atti non sono che modi particolari
di percezione tattile. Dato, dunque, che ogni conoscenza è sensazione, bisogna
concludere - secondo Telesio - che tutte le nostre teorie debbono fondarsi,
se vogliono possedere un valore di verità, interamente sui sensi e soltanto su di
essi. Di qui l'energica lotta di Telesio contro l'intellettualismo aristotelico, e il
carattere empiristico di tutta la sua filosofia.
La sostanza spirituale possiede, secondo il nostro autore, una sola attività che
la distingue nettamente dalle altre sostanze: quella di poter conservare i movimenti
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La filosofia della natura
che vennero in essa impressi e di poterli in qualche modo riprodurre. Tale attività
costituisce la memoria, il cosiddetto intelletto non è altro che una ripetuta applicazione di essa. Poiché, tuttavia, la memoria è soltanto una sensazione prolungata,
non è lecito farne una facoltà contrapposta ai sensi.
Accanto alla concezione ora esposta dello spirito come materia, troviamo
però in Telesio una singolare riserva: l'ammissione, cioè, di una sostanza spirituale analoga all'intelletto attivo di Aristotele. Questo genere superiore di sostanza spirituale resta, comunque, privo di sviluppi, quasi un elemento estraneo
della sua filosofia, non collegato alle altre parti del sistema. È un'incoerenza
del suo materialismo, pressoché ingiustificabile dal punto di vista teoretico. Non
si può escludere che essa esprima solo un compromesso, con il quale Telesio cercò
di attenuare il contrasto fra il proprio pensiero e gli insegnamenti della chiesa.
Se l'ammissione testé accennata può venir invocata ad aprire una qualche
prospettiva religiosa, certo è comunque che essa non risulta in alcun modo collegata all'etica di Telesio, la quale ha un impianto prettamente naturalistico.
Anche nell'etica, il punto di partenza del nostro filosofo è costituito da una
presa di posizione antiaristotelica. Mentre Aristotele sosteneva che il fine supremo
dell'uomo risiede nell'esercizio della ragione, Telesio sostiene invece che il fine
dell'uomo, come di qualunque essere, è la propria conservazione (di cui è strumento la stessa conoscenza).
Poiché il piacere e il dolore sono il senso della nostra conservazione o distruzione, essi dovranno fornirci, in ultima istanza, il criterio del bene e del male.
L'esperienza ci insegna, però, che non tutte le azioni, che producono immediatamente piacere, sono veramente in grado di dare il massimo incremento alla conservazione. Ne s~aturisce la necessità di distinguere la virtù dal piacere.
La virtù così determinata avrà comunque, essa pure, un carattere essenzialmente naturalistico, sia perché ispirata - come si è detto - al fine della conservazione, sia perché tutta rivolta ai fatti del mondo umano nella sua naturalità:
cioè alla comunione di azione tra individuo e individuo ed alle virtù sociali,
di carattere consapevolmente terreno, che si sviluppano da tale comunione (fiducia,
benevolenza, fierezza, ecc.).
III
· BRUNO
Giordano Bruno nacque a Nola, in Campania, nel I 548. Entrato diciottenne
nell'ordine domenicano, vi rimase per una decina d'anni. L'insofferenza della
disciplina ecclesiastica e i timori suscitati in lui dai primi sospetti dell'autorità
per le sue dottrine filosofiche, lo indussero - nel I 576 - a gettare l'abito e fuggire
dall'Italia. Ebbe così inizio un lungo periodo di peregrinazioni per l'Europa.
Innanzi tutto fu a Ginevra, ove aderì, almeno formalmente, al calvinismo.
Ben presto però, urtato dalla chiusura mentale di questa chiesa e dall'intollerante
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La filosofia della n a tura
regime teocratico ginevrino, abbandonò anche la Svizzera. Il ricordo della triste
esperienza ginevrina suscitò, anzi, in lui un risentimento così aspro contro il
protestantesimo, da fargli più volte prendere in considerazione la possibilità
di rientrare nella chiesa cattolica. Dalla Svizzera passò in Francia, ove insegnò
filosofia e astronomia riscuotendo entusiastici consensi, ma incontrando pure vari
ostacoli soprattutto da parte degli aristotelici più intransigenti.
Gli anni più fecondi per la sua attività di scrittore furono quelli trascorsi
in Inghilterra (al servizio dell'ambasciatore francese), dal I 58 3 al I 58 5. Lasciata
l 'Inghilterra, visse di nuovo due anni a Parigi; poi fu in Germania, o ve insegnò
per qualche tempo a Wittenberg. Dopo varie altre peregrinazioni a Praga,
Francoforte, ecc., accettò nel I 59 I l'invito di tornare in Italia, ospite del nobile
veneziano Giovanni Mocenigo.
L'anno successivo, però, lo stesso Mocenigo lo denunciò come eretico al
tribunale dell'inquisizione di Venezia. Dopo un primo processo a Venezia,
durante il quale Bruno non ebbe difficoltà a sconfessare sul piano pratico le teorie
sostenute su quello filosofico, 1 fu consegnato all'inquisizione di Roma che iniziò
contro di lui un nuovo processo durato sette anni, dal I 593 al I6oo. Questa volta
il comportamento di Bruno fu completamente diverso. Compresa ormai con
chiarezza l 'impossibilità di una qualsiasi riconciliazione con il cattolicesimo,
non solo egli rifiutò con sdegno di rinunciare alle proprie teorie filosofiche e
di ritrattare le eresie di cui veniva accusato, ma neppure si preoccupò di tenere celato il proprio disprezzo per la chiesa che lo stava giudicando. Consegnato al
braccio secolare, fu arso vivo in Campo dei Fiori il 17 febbraio I 6oo.
Molti e assai diversi sono gli argomenti di cui Bruno ha trattato nelle sue
opere: dalla tecnica della memoria all'esame critico delle teorie di Aristotele,
dall'esaltazione del sistema copernicano ai problemi generali di una concezione
filosofica dell'universo. Ci limiteremo a ricordare qualche titolo: quelli dei dialoghi italiani scritti e pubblicati in Inghilterra, e quelli dei poemetti latini pubblicati a Francoforte. I primi sono: De la t"ausa, principio et uno; De l'infinito universo
et mondi; La cena de le ceneri, tutti del I 584, di argomento prevalentemente metafisica; Spaccio de la bestia trionfante (I 584) e De gl' heroici furori (I 58 5), di argomento
prevalentemente etico. I secondi: Summa terminorum metaphisicorum (Somma della
nomenclatura metafisica); De monade, numero et figura (Della monade, del suo numero e
della sua forma); De immenso et innumerabilibus (Dell'immenso e degli innumerevoli),
tutti del I 59 r.
Data la complessità del pensiero di Bruno, qualche studioso ha ritenuto di
potervi distinguere tre fasi diverse: una prevalentemente neoplatonica; una
naturalistica (improntata alla filosofia di Telesio); ed una terza, di ispirazione
1 Pare che Bruno fosse così convinto della
completa separabilità dei due piani, pratico e filosofico, da illudersi di poter ottenere - partendo
da essa - una sorta di compromesso con le autorità cattoliche, accettabile da ambo le parti.
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La filosofia della natura
pitagorica e democritea, rivolta a cercare il fondamento dei fenomeni in una
infinità di atomi o « monadi ». Contro questa schematizzazione si è tuttavia
osservato che le concezioni ora accennate sono spesso presenti nella medesima
opera e rappresentano, quindi, più tre aspetti che non tre fasi del pensiero bruniano. Né va dimenticato che si trovano presenti, in Bruno, anche altri interessi,
non inquadrabili in alcuno dei tre stadi sopraddetti. Di particolare importanza
l'interesse per l'Ars magna di Raimondo Lullo, 1 appassionatamente studiata da
Bruno nella convinzione di ricavarne regole per il perfezionamento della nostra
memoria e il potenziamento della nostra capacità di scoprire sempre nuovi veri;
è all'Ars magna che si ispirano le opere di argomento mnemotecnico fra le quali
ricordiamo: De umbris idearum (Delle ombre delle idee, 15 8z), Sigillus sigillorum
(Il sigillo dei sigilli, 15 8 3), De imaginum compositione (Composizione delle immagini e
delle idee, 1591).
Comunque sia, dobbiamo prendere atto che un tema resta costante in tutta
la produzione di Bruno: l'antiaristotelismo. Esso è riscontrabile anche nelle
opere di argomento mnemotecnico, che mirano in ultima istanza a contrapporre
la fecondità dell'arte lulliana alla sterilità della logica aristotelica.
Il neoplatonismo ha influito su Giordano Bruno soprattutto attraverso le
opere di Nicola Cusano. Senonché, mentre il dio di Cusano è un essere che
trascende il mondo, quello di Bruno, invece, ne è l'artefice interno, causa e
principio di tutti i fenomeni naturali. Infatti, proprio l 'influenza neoplatonica
spinge Bruno a ricercare non la divinità come essere antologicamente separato,
ma piuttosto la presenza delle tracce divine nella natura, il « vestigio del primo
principio e causa ... in tutte le cose dipendenti ».
Partendo da questo atteggiamento Bruno scopre che dio si rivela nel mondo
innanzi tutto come intelletto universale, che è « uno e medesimo... empie il
tutto, illumina l 'universo ed indirizza la natura a produrre le sue specie come si
conviene ... Da noi si chiama artefice interno perché forma la materia e la figura
da dentro: come da dentro del seme o radice manda ed esplica il stipe; da dentro
il stipe caccia i rami; da dentro i rami le formate brance; da dentro queste ispiega
le gemme; da dentro forma, figura, intesse, come di nervi, le frondi, gli fliori;
gli frutti; e da dentro, a certi tempi, richiama gli suoi umori da le frondi e frutti
alle brance, dalle brance agli rami, dagli rami al stipe, dal stipe alla radice».
L'intelletto universale è per Bruno la causa efficiente dell'universo, la prima
e principale facoltà dell'anima del mondo; sulla base di questa visione della natura
Bruno può concludere affermando che tutte le cose sono animate perché « lo
spirito si ritrova in tutte le cose ed empie tutta la materia».
Come spiegammo nella sezione n, l' Ars
di Lullo mira a presentare la logica quale
Scienza assolutamente distinta dalla metafisica:
mentre quest'ultima studia l'essere delle cose, la
I
m~gna
prima sarebbe invece rivolta ai puri termini del
sapere. Dallo studio di tutte le possibili combinazioni di tali termini, la logica dovrebbe risultare
in grado di scoprire i principi di qualsiasi scienza.
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La filosofia della natura
Di conseguenza l'anima è assunta come la forma del mondo, forma che determina e dirige tutte le diverse trasformazioni dell'universo; tuttavia - osserva
Bruno -- la forma non è sufficiente a spiegare i fenomeni naturali; perciò accanto
ad essa è necessario postulare un altro principio: la materia. Infatti:« Non vedete
voi che quello che era seme si fa erba, e da quello che era erba si fa spica, da che
era spica si fa pane, da pane chilo, da chilo sangue, da questo seme, da questo
embrione, da questo uomo, da questo cadavere, da questo terra, da questa pietra
o altra cosa, e così oltre, per venire a tutte le forme naturali? ... Bisogna dunque
che sia una e medesima cosa che da sé non è pietra, non cadavere, non uomo,
non embrione, non sangue o altro. »
Pur accogliendo i due tradizionali principi della materia e della forma,
Bruno critica però la teoria aristotelica della separazione tra forma e materia.
Questa critica investe soprattutto il concetto di materia inteso dall'aristotelismo
come pura potenzialità: Bruno osserva che la materia non può essere un prope
nihil, perché in tal caso non si spiegherebbe la sua unione con la forma. Nella
realtà - rileva Bruno - non si può dare una materia senza forma (che risulterebbe
inesistente) e viceversa non ha senso concepire una forma senza materia. Alla
potenza aristotelica Bruno sostituisce una materia intesa come principio attivo,
tensione interna, vera e propria energia produttrice.
La negazione della trascendenza divina e l'affermazione dell'unità materiaforma, si lega ad un'altra idea fondamentale della concezione monistica di Bruno:
il principio della coincidentia oppositorum. Sappiamo che per Cusano la coincidentia
oppositorum ha luogo soltanto in dio; la mutata prospettiva di Bruno lo porta
invece ad affermare arditamente questa coincidenza non solo in dio ma nella
stessa natura: « Se ben misuriamo, veggiamo che la corruzione non è altro che la
generazione e la generazione non è altro che la corruzione; l'amore è un odio,
l 'odio è un amore.»
Da questo radicale mutamento del rapporto dio-mondo, discende una delle
idee più importanti della filosofia bruniana: quella dell'infinità del mondo giustificata con il celebre argomento che all'infinità della causa deve corrispondere
l'infinità dell'effetto.
Malgrado l'indubbio atteggiamento monistico che domina tutta l'opera bruniana, tuttavia bisogna osservare che si trovano in Bruno non poche concessioni
alla trascendenza: tale per esempio il riconoscimento di una mens super omnia,
oltre alla mens insita omnibus. Si tratta però di concessioni poco più che verbali.
Sta comunque il fatto che la mens, per cui l'animo di Bruno si accende di ardore,
è soltanto quella insita omnibus, raggiungibile mediante la ragione, non quella che
starebbe al di sopra di tutte le cose e che potrebbe venir appresa soltanto dalla
fede. Ne segue che le accese parole di Bruno nei riguardi di dio, non possono
venire interpretate - come vorrebbe qualche studioso moderno - quali espressioni di misticismo, bensì quali esaltazioni della meravigliosa potenza della ra12.2.
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La filosofia della natura
gione. Esse esprimono, in altri termini, la sua ammirazione per l'unità, che l'uomo
riesce a cogliere con la ragione nel complesso dei fenomeni, non per la mente
suprema che, secondo la fede, esisterebbe al di fuori di essi.
Su questa base teorica l'unità della natura diventa una delle "idee fondamentali
della filosofia di Bruno. Essa ~on va, però, interpretata in senso letterale, come
rigida affermazione dell'unità del mondo. Bruno pensa, al contrario, che esistano, non uno, ma più mondi; li immagina tuttavia immersi in un unico spazio
infinito, ave non esiste destra né sinistra, alto né basso, ma ogni punto può venir
considerato come centro dell'universo. È precisamente in questa concezione che
si inserisce l'entusiastica accettazione, compiuta da Bruno, del sistema copernicano.
È indubbio che Bruno cercò di studiare a fondo il sistema di Copernico,
anche se probabilmente non riuscì a seguire in dettaglio tutte le dimostrazioni
matematiche del De rivolutionibtts orbium. Intuì comunque molto bene che quest'opera non intendeva soltanto presentare un'ipotesi matematica per il calcolo dei
fenomeni celesti - come aveva suggerito il teologo Osiander - bensì intendeva
prospettare una nuova concezione fisica del mondo, una nuova cosmologia.
Proprio come tale egli la difese con tutte le proprie energie, abbozzando alcune
acute osservazioni di dinamica che in certo modo precorrono quelle di Galileo;
basti segnalare le bellissime pagine della Cena de le ceneri in cui Bruno dimostra
(sulla base di un esperimento mentale molto simile a quello che verrà poi sviluppato da Galileo) che « con la terra si muovono tutte le cose che si trovano in
terra», onde si deduce non potersi addurre a favore dell'immobilità della Terra
il fatto che i gravi, abbandonati a se stessi, cadono verticalmente. È questa
verità fisica che interessa al nostro autore, perché essa ed essa sola è in grado di
abbattere la vecchia concezione aristotelica che faceva dell'universo uno spazio
chiuso, limitato, fornito di un unico centro.
La stessa infiammata celebrazione delle scoperte di Tycho Brahe circa la
natura delle comete e circa la localizzazione delle loro traiettorie è compiuta dal
nolano essenzialmente per il significato filosofico cosmologico di tali scoperte.
Significato filosofico, dovuto al fatto che, col dimostrare che le comete attraversano le varie regioni del cielo, si pone definitivamente termine all'antica credenza
nelle sfere celesti, rinserranti il nostro mondo quali impenetrabili barriere. È,
come ognun vede, una difesa della nuova astronomia che ne approfondisce
assai poco il valore scientifico: è però una difesa che ha avuto il merito di attrarre
l'attenzione di tutti gli studiosi sull'importanza del copernicanismo, trasformandolo da problema tecnico in problema filosofico, da pura e semplice ipotesi
matematico-astronomica in porta di ingresso verso una nuova concezione del
mondo.
Anche nella terza fase della sua filosofia, la cosiddetta fase atomistica, Bruno
mantiene molte delle idee che abbiamo illustrato. È conservato per esempio il
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La filosofia della natura
principio della coincidentia oppositorum; infatti, mentre cerca di spiegare il mondo
per mezzo degli atomi e delle monadi, Bruno sostiene che in essi si realizza un
intimo nesso tra l'infinitamente piccolo e l'infinitamente grande, tra il minimo
e il massimo. Lo stesso può ripetersi per l'idea dell'unità, la quale diventa, in
questa terza fase, unità della forza che anima gli innumerevoli atomi; essa è
dio, cioè - nella terminologia bruniana - la « monade delle monadi ». Basta
questo a farci comprendere la radicale differenza fra l'atomismo di Bruno e
quello di Democrito. Mentre l'atomismo di Democrito era esclusivamente meccanicistico, quello di Bruno è fortemente permeato di motivi neopitagorici.
Saranno questi a spingere Bruno verso la ricerca di una matematica magico-simbolica, capace di spiegare la derivazione delle infinite monadi dalla monade divina. È
una delle parti del suo pensiero più lontana dalla mentalità scientifica moderna.
L'unità della natura è, senza dubbio, un'idea che avvicina profondamente
la filosofia di Bruno a quella di Telesio. Due differenze assai importanti separano,
però, le loro concezioni.
La prima riguarda la nozione di materia. Mentre, per Telesio, ogni essere
è materiale (compresa l'anima), per Bruno invece corpo e anima sono ancora
qualcosa di distinto. Non che esistano corpi animati e corpi inanimati (secondo
Bruno, tutti i corpi sono animati); data, però, l 'irriducibilità tra anima e corpo,
il puro materialismo telesiano sarebbe insufficiente a rendere conto della realtà.
La concezione del nolano è, su questo punto, così arretrata, che egli persiste nel
ritenere inconcepibile ogni azione diretta tra corpo e corpo; ricorre pertanto, al
fine di spiegare tale azione, ad un rapporto che intercorrerebbe fra le rispettive
anime. Accetta, di conseguenza, la magia e l'astrologia come indispensabili
strumenti di indagine.
La seconda differenza riguarda il problema gnoseologico. Mentre, per Telesio, ogni conoscenza si riduce in ultima istanza alle sensazioni, per Bruno
invece le sensazioni non sono in grado di farci cogliere l'unità del tutto. Questa
è raggiungibile solo dall'intelletto, che ci eleva al di sopra delle particolarità
afferrate dai sensi. Telesio potrebbe obiettare che l'opposizione tra sensi e intelletto rompe l'unità della natura, ma Bruno si sente troppo legato al platonismo
per essere disposto a rinunciarvi.l
Se l'unità e l'infinità costituiscono la base ultima del mondo, esse devono
anche costituire - secondo Bruno - l'aspirazione somma dell'animo umano.
Questa aspirazione viene chiamata « eroico furore » e collocata da Bruno al
vertice delle virtù. Nell'aspirazione ad una animazione dell'universo, l'attività
1 Ci si potrebbe chiedere se questa posizione
di Bruno esprima soltanto un ritorno al passato,
come pensano tal uni suoi interpreti, o non
costituisca invece un passo verso il futuro, cioè
verso il razionalismo cartesiano, come altri ritiene (trascurando o sottovalutando le differenze
tra l'atto intellettivo di cui parla Bruno e quello,
a carattere matematico, di cui parla Cartesio).
Il problema, di non facile soluzione, vale a confermarci la complessità della posizione di Bruno,
che non di rado oscilla fra due fasi assai diverse
del pensiero filosofico.
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morale, liberando lo spmto dell'uomo dalla schiavitù delle passioni, trasforma
la supina accettazione della natura in una riconquista spirituale cosicché, mentre
la metafisica non scorge altro che la immobilità dell'uno eterno e perfetto, la
moralità riesce a cogliere l'afflato spirituale che anima l'universo. In questo modo
essa trasforma la base animalesca - o l'« asinità» come dice Bruno - della
stirpe umana in vera e propria umanità o meglio in una divinità terrena; l'asinità
e l 'accettazione supina sono l'« essere cose nel mondo », e da esse ci si riscatta
con un atto imperioso di liberazione morale. Questo significa vittoria sulla passività (predominio della carne) e conquista da parte dell'uomo della consapevolezza
di sé. Bruno ritiene che le si possa raggiungere mediante la negazione della
propria individualità, l'annullamento dei limiti propri di quest'ultima e quindi,
mediante un atto di dedizione a dio, cioè al tutto. La storia di questa emancipazione dell'uomo è la storia della vittoria della moralità sulla naturalità, che si
conclude in quella unificazione tra dio e l 'universo per mezzo dell'uomo, posta
a conclusione della filosofia bruniana.
La forza che spinge l 'uomo a questa impresa è appunto l'« eroico furore »;
esso è insieme conoscenza e amore, e costituisce la più alta religiosità umana.
Il pensiero di Bruno infatti non sembra ammettere altra religione oltre quella ora
descritta, e cioè la religione dell'infinito. A parte infatti alcune pagine (delle
quali già parlammo) in cui egli parla di una mens super omnia raggiungibile per
fede, Bruno concede alle religioni comuni il solo compito, inferiore, di efficaci
strumenti per l'educazione e il governo delle incolte masse popolari.
È evidente, a proposito di questo delicatissimo punto, l 'influenza esercitata
su Bruno dal movimento libertino. Proprio ad essa è dovuto quel profondo equivoco, che gli fece ritenere possibile la pacifica convivenza, su piani diversi, di
ciò che egli chiamava « dogmatismo dei teologi » e « libertà dei filosofi », « perché
gli uni e gli altri sanno che la fede si richiede per l 'istituzione di rozzi popoli
che devono esser governati, e la demonstrazione per gli contemplativi che sanno
governar se stessi». Fu, probabilmente, questo equivoco che gli dettò molti
atteggiamenti della sua vita, che a noi possono sembrare inspiegabili; in particolare
il suo ritorno in Italia e il suo comportamento durante il primo processo davanti
all'inquisizione di Venezia. Toccò alla logica degli inquisitori romani dimostrargli,
con tragica coerenza, che la separazione del piano teologico da quello filosofico
era questione tutt'altro che pacifica sia per la religione che per la filosofia, e
che comunque essa non poteva dispensarlo, sul piano personale, dalla stretta
e completa osservanza dei doveri religiosi.
IV
· CAMPANELLA
Tommaso Campanella nacque a Stilo in Calabria nel r 568. Entrato ancor
giovanissimo nell'ordine domenicano, trascorse parecchi anni spostandosi da
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La filosofia della natura
una città all'altra d'Italia (Napoli, Roma, Firenze, Padova), sottoposto a vari
processi per sospetto di eresia, intentati contro di lui a causa della sua adesione
all'indirizzo filosofico di Telesio. Più volte imprigionato, torturato e liberato,
nel I 598 ritornò a Stilo. Qui vi organizzò una congiura contro gli spagnoli,
nell'illusione di poter dare inizio ad una riforma del cristianesimo e fondare
in Calabria una repubblica teocratica di cui egli avrebbe dovuto essere il legislatore. Scoperta la congiura venne di nuovo arrestato ( 15 99) questa volta sotto la
doppia accusa di sedizione e di eresia. Sottoposto a tortura, riuscì a salvarsi
fingendosi pazzo. Rimarrà in carcere fino al I6z6. Varie testimonianze ci provano
che negli anni giovanili subì l'influenza dei libertini.
La lunghissima prigionia non domò il suo forte animo, ond 'egli proseguì
- anche in carcere - i suoi studi filosofici e politico-teologici, scrivendo varie
opere che in parte gli vennero sequestrate e distrutte, in parte riuscì a far pubblicare, e in parte rimasero inedite fino a tempi recentissimi. Intanto inviava
suppliche al papa e a diversi prìncipi e sovrani per essere liberato, nonché per
impartir loro consigli sui grandi problemi concernenti l'organizzazione del
mondo: egli era sempre più convinto che si stavano maturando grandi eventi
storici, i quali avrebbero dato luogo all'instaurazione di un unico grande stato
e di un'unica religione. Nell'opera Monarchia di Spagna (scritta verso il I6oo e
pubblicata nel I6zo) esaltava questa monarchia, in quanto atta a porsi alla testa
di tale movimento rinnovatore (negli ultimi anni della sua vita riterrà invece
che il grande compito sarebbe spettato alla Francia).
Dopo i primi anni di carcere, l'approfondimento dei problemi filosofici
lo condusse ad una evoluzione spirituale, che alcuni recenti studiosi interpretano
come una vera e propria conversione dall'irreligiosità al cattolicesimo. Secondo
altri sembra più esatto vedervi una semplice crisi, che servì a rinvigorire la sua
fede: nulla ci garantisce infatti che, negli anni precedenti, Campanella abbia
davvero attraversato un periodo di effettiva e totale irreligiosità. La lettura dei
suoi scritti ci insegna che esiste una profonda continuità nella struttura del suo
pur complesso e tormentato pensiero, fra gli anni della giovinezza e quelli della
piena maturità. A buon conto, l'opera che rappresenta la conclusione della crisi
ha per titolo Atheismus triumphatus (L'ateismo debellato); essa venne composta nel
I6o5 e pubblicata nel I63 1.
Dopo il I 6z6 Campanella visse a Roma sotto la sorveglianza del san t 'uffizio;
la protezione di Urbano VIII gli valse a riottenere a poco a poco la piena libertà.
Essendo stato però coinvolto in una congiura contro il viceré di Napoli, fuggì
in Francia per consiglio dello stesso Urbano vm. A Parigi riuscì a guadagnarsi
i favori del re e del cardinale Richelieu, il che gli consentì di vivere in relativa
tranquillità, malgrado le sorde persecuzioni degli invidiosi. Così poté attendere
alla conclusione di alcune opere e alla pubblicazione di altre, come la Philosophia
realis, la Metap~sica, ecc. Morì nel I639·
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Fra gli scnttl pm significativi di Campanella ricordiamo: De sensu rerum
et magia (frutto delle conversazioni che aveva avuto con Della Porta); Philosophia
realis (la cui composizione durò parecchi anni, fin verso il I6I9) che comprende
scritti assai interessanti di fisica; La città del So le (composta nel I 6oz); Discorsi
ai principi d'Italia (composti nel I 6o7); Philosophia rationalis (composta fra il I 6o6
e il I 6 I 4) suddivisa in Poetica, Rethorica e Dialectica; Apologia pro Galilaeo (I 6 I 6);
Metaphysica (compiuta dopo lunga elaborazione nel I 6z 3); Theologia, in 29 libri
(iniziata a comporre verso il I6I 3 e conclusa a Parigi). Altri scritti, meno importanti dal punto di vista filosofico, trattano argomenti di astrologia, medicina, ecc.
Una sì vasta produzione dimostra anzitutto la straordinaria fecondità di
Campanella come scrittore. Dimostra anche, però, la complessità del suo pensiero,
in cui si intrecciano motivi diversi, ora di indubbia modernità e ora invece strettamente legati al passato. Per cogliere il senso profondo della sua filosofia bisogna
tener conto di questi motivi, nonché del graduale sviluppo delle sue concezioni (e talvolta anche dei compromessi che egli dovette accettare per sopravvivere). Certo è che ancor oggi permane viva la discussione sul filo conduttore
cui ci si debba affidare per la sua autentica interpretazione.
Comunque, per il problema assunto come centrale dal presente volume-- cioè
il problema dei rapporti fra pensiero filosofico e pensiero scientifico - la posizione di Campanella non sembra di particolare interesse, mentre è certo importantissima da altri punti di vista. Un semplice confronto fra il nostro autore e
il suo contemporaneo Galileo ci dimostrerebbe agevolmente quanto poco abbia
capito Campanella sia di ciò che veramente caratterizza la conoscenza scientifica
moderna, sia dei problemi nuovi che essa suscita alla filosofia e in generale alla
cultura. Per questo motivo siamo costretti a limitare la nostra esposizione a pochi
punti essenziali, evitando di entrare in qualsiasi dibattito interpretativo.
L'influenza del naturalismo telesiano sul pensiero di Campanella è chiaramente riscontrabile non solo nelle opere del primo periodo, ma pure nelle successive. Anche se col passar degli anni se ne aggiungono varie altre (particolarmente forte quella del platonismo), un punto sembra fermo in tutta la concezione
campanelliana: che alla natura e solo ad essa va riconosciuta la possibilità di fungere da base originaria delle nostre verità. Ad una natura animata, però, come
quella di Bruno; ad una natura la cui anima sia attività di senso. Questa concezione della natura come essenzialmente animata permette al naturalismo di Campanella di assorbire in sé (ancor più di quanto abbiano fatto Bruno e lo stesso
Telesio) i grandi temi del magismo del Cinquecento, inquadrandoli in una fantastica ricostruzione della natura a partire dal suo creatore.
L'ammirazione per Telesio e il netto rifiuto della filosofia aristotelica si inseriscono in un atteggiamento assai singolare di Campanella nei riguardi del pensiero
greco e di quello latino-italiano: mentre il primo gli appare sofistico e menzognero, il secondo gli sembra invece racchiudere la vera grande tradizione della
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filosofia di Pitagora, Filolao, Timeo, ecc. fino appunto a Telesio. Sarà proprio
questa fiducia nel senno latino che lo spingerà a scrivere - oltre l'apologia di
Galileo - una lettera a lui direttamente indirizzata, per incitarlo a perseverare,
malgrado ogni sorta di ostacoli, nelle libere ricerche astronomiche. Ciò che Campanella rimprovera agli avversari di Galileo, non è la loro opposizione scientifica al sistema copernicano (neanche Campanella lo condivide appieno), ma la
loro pretesa di impedire - in nome della Bibbia - che tale sistema venga seriamente studiato e difeso.
È stato dio stesso a darci i sensi e l'intelletto per conoscere le verità fisiche;
perciò noi abbiamo il dovere di valerci di essi superando qualunque pregiudizio.
L'ammirazione, sincera e completa, di Campanella per il naturalismo telesiano non gli impedisce però di elevarsi decisamente al di sopra di esso. Il distacco
fra le due posizioni è segnato dal modo con cui il Campanella interpreta il processo sensoriale. Questo, infatti, non è riducibile - secondo lui - a pura passività, ma contiene oltre ad essa la percezione della passività (perceptio passionis).
L'atto conoscitivo, in altri termini, è sempre costituito da un sensus abditus, o
conoscenza di sé, e da un sensus additus o conoscenza delle cose esterne al percepiente. Il primo risulta non di rado quasi nascosto dalla massa delle percezioni; ·
proprio esso però è il più sicuro. Il richiamo ad Agostino è qui evidente: anche
volendo dubitare di ogni cosa, non si può porre in dubbio l'esistenza del soggetto
che percepisce. 1
Il sensus abditus offrirebbe - secondo Campanella - la base sicura di ogni conoscenza. L'intus existens diventa così, per lui, la garanzia ultima, non solo dell'essere del soggetto percepiente, ma anche dell'essere di ciò che si trova al di là
del soggetto: «Noi sappiamo gli altri per questo, che sappiamo noi mossi e affetti dagli altri.» Proprio di qui prenderà l'avvio gran parte della filosofia moderna: essa, infatti, concepirà l'esteriorità essenzialmente come modificazione
dell'io che percepisce.
Il principio testé accennato costituisce, per il nostro autore, un punto fermo
che gli consente di andare molto al di là della conoscenza sensoriale, inizialmente
assunta - con Telesio - quale garanzia originaria di tutto il nostro conoscere.
A partire da tale punto fermo egli può ormai salire a una vera e propria metafisica
oltreché alla stessa religione.
Limitandoci alla metafisica, ci accontenteremo di menzionarne alcuni punti,
fra i più caratteristici. Campanella ritiene di poter scoprire nell'essere tre primalità (o principi costitutivi): potenza, sapienza e amore. Ogni essere è in quanto può
essere; ogni essere è in quanto sa di essere; ogni essere, in quanto è e sa, ama il
1 Un argomento analogo ricomparirà in
Cartesio; il significato attribuitogli dal filosofo
francese sarà, tuttavia, completamente diverso. In
Cartesio, infatti, costituirà il punto di partenza
per l'affermazione della realtà del pensiero; nel
Campanella invece costituisce solo il punto di
partenza per l'affermazione di un 'attività insita
nel percepire.
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La filosofia d ella natura
proprio essere. Il maggiore o minore possesso di queste primalità, permette, infine, al Campanella di stabilire una gerarchia tra gli esseri: al suo vertice sta dio,
che le possiede in misura infinita; sotto di lui stanno gli esseri finiti, nessuno dei
quali si trova nella condizione di potere, sapere e volere tutto. Con geniali ma
artificiosi argomenti Campanella ritrova, tra tali esseri - per una via che ritiene
« naturale» - tutte le distinzioni della metafisica e della teologia tradizionali.
L'interesse di questa metafisica non risiede tanto nei singoli passaggi in cui
si articola, quanto nel suo carattere generale: nel fatto, cioè, che per un lato essa
offre a Campanella il modo di concepire l'esistenza di dio in una forma ·- diremmo noi- abbastanza ambigua onde poter soddisfare nel contempo sia l'esigenza immanentistica che gli deriva dal naturalismo rinascimentale, sia quella
trascendentistica che gli deriva dalla tradizione cattolica; per un altro lato, gli
offre la possibilità di conservare sia l 'impostazione sensi tiva della gnoseologia telesiana, sia la concezione panteistico-animistica della natura, di marca neoplatonico-magica. In questa concezione si inquadra, infine, molto bene il compito
etico-metafisica che Campanella attribuisce ali 'uomo: il compito di costituire
- con la propria intrinseca libertà, con la possibilità di scegliere il bene - una
specie di collegamento magico fra dio e gli esseri finiti.
Senza insistere più oltre su questi argomenti possiamo ora aggiungere qualche
parola sulla concezione politico-teologica del nostro autore, che a ben guardare ha
sempre occupato il punto focale dei suoi interessi. Basterà a tale scopo prendere
in rapido esame la più nota fra le opere di Campanella: La città del Sole.
Vi è chi ha visto, in questo breve ma interessantissimo scritto, nient'altro
che una delle tante fantasiose esposizioni di città e stati ideali che sempre hanno
suggestionato le menti degli uomini, dal medioevo al rinascimento; chi l 'ha
collegata alla Repubblica di Platone, chi all'Utopia di Tommaso Moro, e chi nientemeno, per quest'opera, ha fatto del Campanella un precursore del comunismo
moderno. In essa si descrive l'ordinamento, la vita e le vicende di uno stato
ideale, la città del Sole, il cui scopo è soprattutto quello di educare gli uomini
ad una vita fondata esclusivamente sulla ragione. I cittadini di questo stato, i
cosiddetti Solari, debbono mirare ad una educazione enciclopedica: debbono sapere e fare tutto, debbono conoscere le lingue, le scienze, le arti e i mestieri. Un
programma educativo che nulla esclude, che impegna completamente l 'individuo
in ogni suo atteggiamento e in ogni suo pensiero.
L'ordinamento di questo stato ideale è fondato su un consiglio del popolo,
cui partecipano tutti i cittadini d'ambo i sessi, e che è convocato, normalmente,
due volte al mese, e su un consiglio minore, formato dagli ufficiali maggiori e dai
capi delle squadre di cittadini; poi vi sono tre prìncipi ufficiali, che sarebbero i
capi delle tre branche dell'amministrazione e che sono denominati: il Podestà
della guerra, il Sapienza delle scienze, e l'Amore della generazione (si noti la
coincidenza di questi tre nomi con le tre primalità dell'essere di cui abbiamo par-
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La filosofia della natura
lato poc'anzi); e, al di sopra di tutti, il capo supremo, il Metafisica, che nella
lingua del posto è chiamato Sole.
La vita della città del Sole è interamente regolata secondo ragione. I due canoni fondamentali che questa ha dettato ai cittadini sono: lavoro e abolizione
della proprietà privata. I « solari » lavorano, si nutrono, dormono in comune;
allevano i figli in comune; vestono tutti i medesimi abiti, che variano solo col
variare delle stagioni. La loro religione è una forma di cristianesimo naturalistico, che comporta l'adorazione dell'universo quale immagine di dio. Credono
nell'immortalità dell'anima, ma hanno forti dubbi sull'eternità delle pene che i rei
dovrebbero subire nella vita ultraterrena. Sono nemici di Aristotele, che accusano di pedanteria. Non accettano le teorie astronomiche di Tolomeo né quella
di Copernico. Accolgono invece l'astrologia, ammettendo però che le influenze
degli astri determinino soltanto il corso dei fenomeni e non le concrete azioni
umane. Noi «apparterremo alla provvidenza di dio, e non del mondo e delle
stelle, perché rispetto a loro siamo casuali; ma rispetto a dio, di cui essi sono
stromenti, siamo antevisti e previsti ». La proclamazione della fede nella libertà,
intesa proprio come capacità di resistere alle imposizioni e alle torture oltre che
all'influsso degli astri, costituisce la conclusione dell'opera: «E dicono che, se in
quarant'ore di tormento un uomo non si lascia dire quel che si risolve tacere, manco le stelle, che inchinano con modi lontani, panno sforzare. »
I pochi punti particolari, qui riferiti, dell'opera sono sufficienti a provare
che essa può venir compresa solo se la si pone in diretto rapporto con la vita e il
pensiero di Campanella: con la vita perché essa rappresenta la idealizzazione e,
anche, la giustificazione dei suoi tentativi di insurrezione e ài ribellione (si noti
che le deposizioni dei suoi seguaci al processo intentato contro Campanella sono
delle grossolane anticipazioni degli argomenti contenuti nella Città del Sole); e
con il suo pensiero, per i continui riferimenti ai principi della sua metafisica.
Essi inoltre pongono in luce le innumerevoli contraddizioni del pensiero di
Campanella, che si rispecchiano sinteticamente nelle credenze dei « solari »; contraddizioni che lo fanno oscillare fra l'ammirazione per le scoperte di Galileo e la
fede nella magia e nell'astrologia; tra la ferma difesa della libertà individuale e
la speranza di instaurare, in un mondo rinnovato, la monarchia papale universale.
Il fatto è che in Campanella confluiscono correnti di pensiero profondamente
diverse e pur tutte egualmente vive. La sua incertezza non fa che rispecchiare
l'incertezza stessa dell'epoca cui appartiene, travagliata da insanabili conflitti
culturali e sociali.
Malgrado le oscillazioni cui abbiamo fatto cenno, Campanella ha lasciato,
comunque, alla filosofia moderna una grande eredità: il suo tentativo di costruire
una religione universale, parallela alla scienza della natura e altrettanto solida
quanto essa. È un tentativo che, pur inserendosi nel movimento della controriforma, va senza dubbio molto al di là di esso. È vero, infatti, che Campanella
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crede di poter identificare questa religione con il cattolicesimo, e parla quindi
di rivelazione, di grazia, di trascendenza, proprio come i teologi tradizionali; ma
le parole che usa, hanno ormai cambiato significato. Il cattolicesimo non è,
per lui, che la religione dell'umanità, volta a superare la propria limitatezza con
uno slancio verso l'infinito.
Il futuro sviluppo del pensiero europeo dimostrerà l'inconsistenza della sua
illusione controriformistica. In realtà la religione campanelliana eserciterà la
sua influenza ben più sui sostenitori della religione naturale, come Herbert di
Cherbury, che non sui rappresentanti ufficiali dell'ortodossia cattolica.
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CAPITOLO NONO
Confluenza di fattori diversi
nella nascita della scienza moderna
I
· FATTORI ECONOMICO-SOCIALI. TECNICA E SCIENZA
Abbiamo esaminato nei capitoli precedenti i principali indirizzi del pensiero
rinascimentale e ci siamo costantemente preoccupati di porre in luce l'apporto,
che ciascuno di essi recava alla graduale ma sempre più profonda trasformazione
dell'atteggiamento dell'uomo nei confronti della natura. Sembra ora opportuna
una breve riflessione di carattere globale che metta a fuoco la complessità del
grande processo storico, conclusosi con la nascita della scienza moderna. Il medesimo argomento verrà ripreso da un altro punto di vista nel capitolo VIII della
sezione IV, per meglio sottolineare le profonde trasformazioni concettuali implicate dalla rivoluzione scientifica.
I mutamenti di fondo dell'economia europea costituiscono- come abbiamo
accennato nel capitolo I - la base ultima di tutto il movimento di rinascita del
xv e xvi secolo; essi hanno avuto riflessi ben evidenti in ogni campo di attività (dall'arte alla filosofia, dalla religione alla politica), determinando il sorgere di nuove prospettive per ciò che riguarda la funzione stessa dell'uomo
nel mondo. È pertanto ovvio che a tali trasformazioni faccia capo, direttamente
o indirettamente, anche la rivoluzione scientifica.
È stato il generale incremento della produzione e dei commerci a provocare
un nuovo assetto delle classi sociali, che ha favorito l'accesso agli studi di un
numero crescente di giovani; è stato esso a sviluppare l'interesse per la vita terrena, lo spirito di iniziativa, la fiducia dell'individuo nelle proprie forze. Il processo di laicizzazione della cultura, che costituisce lo sfondo della rivoluzione
scientifica, nasce in questo ambiente e in esso si consolida.
Ma per individuare un'azione diretta delle nuove energie economiche sulla
nascita della scienza, abbiamo soprattutto considerato le richieste sempre crescenti che privati e stati rivolgono ai tecnici per migliorare le industrie, i mezzi
di trasporto, gli armamenti, le fortificazioni, ecc. A loro volta i tecnici sono costretti - per rispondere a queste pressanti richieste - a impostare in forma nuova
i lavori di progettazione e fabbricazione, per l'innanzi affidati all'abilità di uomini senza cultura. Debbono elevarsi dal campo pratico a quello teorico, dal
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Confluenza di fattori diversi nella nascita della scienza moderna
campo ove imperava la spontaneità delle ingegnose invenzioni a quello ove è
richiesto lo studio razionale dei problemi. L'alleanza dei tecnici con gli scienziati diventa una necessità: assume l'aspetto di un fenomeno sempre più diffuso
e imponente.
Abbiamo visto nel capitolo VI quali effetti innovatori questo fenomeno produca nelle scienze: le aggancia a problemi ben delimitati, ove le varie teorie debbono mettere alla prova la loro validità; le sollecita a uscire dal vago delle affermazioni puramente qualitative, le costringe a prendere interesse per il mondo
dei tecnici. Favorisce nel contempo la formazione di una nuova categoria di
scienziati-ingegneri, che possono aspirare ad alte retribuzioni perché sono in
grado di fornire pareri e consigli di indiscussa utilità pratica.
Si sblocca il tradizionale isolamento dello scienziato, aumenta la sua reputazione sociale, cresce la fiducia del pubblico nelle sue capacità.
Si affacciano alla cultura due grandi problemi di non facile soluzione: quello
di elaborare teorie scientificamente serie (e quindi astratte, generali) che pur tuttavia si rivelino capaci di incidere nel progresso tecnico, e quello di tracciare una
linea di netta demarcazione fra l'opera della scienza e l'opera della magia nel vastissimo campo dei problemi pratici.
I due problemi sono fra loro strettamente connessi, perché anche il mago
pretende di ricavare dalle sue fantastiche concezioni della natura le formule segrete con le quali risolvere i problemi della vita quotidiana. Si tratta di provare
che queste formule - pur promettendo risultati miracolistici - sono in definitiva sostanzialmente sterili, mentre le soluzioni suggerite dalla scienza, che non
fuoriescono da campi ben delimitati, rivelano in questi campi un'autentica efficacia. La grande vittoria dell'alleanza fra tecnica e scienza nasce proprio dal
pieno riconoscimento - definitivamente acquisito all'inizio del xvu secolo dell'efficacia pratica della scienza e della sua incomparabile superiorità (anche
da questo punto di vista) nei confronti della magia.
Uno dei cardini dell'era moderna sarà costituito da tale riconoscimento, e
dalla ferma convinzione che i progressi delle più rigorose ricerche potranno estendere, gradualmente ma sicuramente, il campo di validità pratica della scienza, accrescendo sul serio la potenza dell'uomo sulla natura. L'azione determinante
esercitata dalla società rinascimentale sulla nascita della scienza si trasformerà
in un legame dialettico fra progresso scientifico e progresso sociale, ove ciascuno
dei due si rivelerà nel contempo causa ed effetto dell'altro.
E attraverso l'alleanza fra tecnica e scienza la ragione potrà imporre i propri
diritti al mondo moderno. Non vi è infatti motivo di ritenere che solo per motivi
ideali l'umanità sia oggi più propensa di una volta a riconoscere questi diritti;
essa li riconosce, perché vi è costretta dall'esigenza stessa del proprio sviluppo
economico, che non può più fare a meno degli apporti della razionalità tecnicoscientifica.
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II
· CONTRIBUTI DELLE SCUOLE FILOSOFICHE RINASCIMENTALI
ALLA NASCITA DELLA SCIENZA MODERNA
Come abbiamo spiegato nei capitoli precedenti, i maggiori indirizzi filosofici
del rinascimento (neoplatonismo, aristotelismo, filosofia della natura) hanno
senza dubbio contribuito in modo notevole a far emergere l'importanza centrale
del problema della natura. Da questo punto di vista è dunque certo che tutti e tre
hanno preparato efficacemente l'atmosfera culturale che doveva rendere possibile
la nascita della scienza moderna. Essi però hanno anche fatto qualcosa di più,
qualcosa cui conviene rivolgere brevemente la nostra attenzione.
I neoplatonici hanno ritenuto di scorgere nella natura l'espressione della
divinità, e perciò hanno impresso allo studio della natura un carattere misticoreligioso. L'impronta della divinità nella natura era, secondo essi, rintracciabile
soprattutto nelle regolarità matematiche che noi possiamo riscontrare entro il
mondo dei fenomeni. Di qui l 'importanza fondamentale della matematica per la
conoscenza della natura. Non importa - secondo l'indirizzo in esame - che
la matematica si lasci sfuggire le qualità dei fenomeni; essa fa qualcosa di più: ne
coglie l'essenza, l'autentica realtà.
Abbiamo più volte sottolineato che non tutti i pensatori del rinascimento
interpretarono la matematica nel senso testé menzionato; altri la interpretarono
infatti in senso ben diverso: non mistico-religioso, ma tecnico-operativo. È comunque innegabile il contributo del « divino Platone » ad orientare in direzione
matematica gli studi intorno alla natura.
Un orientamento mistico-magico si ritrova anche negli autori che abbiamo
qualificato come « filosofi della natura » (pur con notevoli differenze fra l 'uno e
l'altro di essi). Ciò che li caratterizza nei confronti della corrente neoplatonica è
l'accentuazione dell'immanenza di dio nell'universo, onde lo studio della natura
assume un valore più autonomo: non appare più come via per salire alla conoscenza mistica di dio, ma come studio che realizza già in se stesso tale conoscenza.
Anche questo è stato un passo di notevole importanza nella preparazione
della rivoluzione scientifica: e infatti ha posto in chiaro che l'oggetto della scienza
non è una realtà inferiore -la cui unica funzione sarebbe quella di rinviarci a
un'altra, più profonda, realtà- ma che è una realtà piena e completa, la quale
ha in sé i propri principi e deve quindi venire studiata alla luce di null'altro fuorché
questi principi.
Quanto all'aristotelismo, sappiamo che esso costituì per tutti gli innovatori
della scienza, come della filosofia, l'avversario più diretto e più tenace. Eppure,
malgrado questa costante polemica antiaristotelica, la scienza moderna è stata
fortemente debitrice anche nei riguardi dell'aristotelismo. Proprio a tale indirizzo,
infatti, essa deve la fiducia nella piena conoscibilità della natura (con mezzi
razionali, e con l'ausilio dei sensi, senza il benché minimo ricorso ad intuizioni
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Confluenza di fattori diversi nella nascita della scienza moderna
0 illuminazioni di carattere sovrarazionale). Pur con le sue mille pedanterie,
l'aristotelismo fu inoltre il custode intransigente dei diritti sovrani della «ragione
scientifica » contro ogni sopraffazione da parte della fede; la scienza moderna
dovrà riempire tale « ragione » di nuovi più ricchi significati, ma- nel difenderne
i diritti - sarà proprio l'erede diretta dei più seri maestri aristotelici. Né va
infine dimenticata la continuità ideale, esistente fra gli aristotelici e i creatori
della nuova scienza, per quanto riguarda il netto rifiuto (da parte degli uni come
degli altri) di una interpretazione puramente nominalistica delle teorie scientifiche:
quando Galileo respingerà il suggerimento del cardinale Bellarmino, di esporre il
copernicanesimo solo come ipotesi matematica e non come verità fisica, egli si
comporterà da coerente aristotelico, pur nell'atto di difendere una concezione
cosmologica antitetica a quella di Aristotele.
Questi brevi richiami sono sufficienti a farci concludere che la nuova scienza
ha effettivamente e palesemente desunto alcuni motivi ideali assai importanti,
vuoi dai neoplatonici, vuoi dagli aristotelici, vuoi dai filosofi della natura (pur
senza legarsi per intero all'uno o all'altro di tali indirizzi), e che pertanto non
ha affatto preteso di rompere ogni legame con la filosofia.
Se è vero, come abbiamo sottolineato nel paragrafo precedente, che la scienza
ha ricevuto un impulso di decisiva importanza dalle richieste dei tecnici, vero è
però che la rivoluzione da essa attuata non si esaurisce nel campo della pura tecnica. È una rivoluzione che intende affrontare e risolvere in modo nuovo problemi di grande rilievo filosofico, e che proprio perciò non disdegna di avvalersi
degli ultimi risultati acquisiti dai dibattiti dei filosofi.
Lo scienziato del Cinque e Seicento è fermamente convinto che la conoscenza della natura sia un problema essenziale per la filosofia, e quindi ritiene
che l 'introduzione di un nuovo metodo per attuare tale conoscenza non possa
non avere un peso decisivo anche sul piano filosofico. Tale convinzione gli proviene dall'unanime consenso dei filosofi di tutti gli indirizzi testé ricordati; questi potranno dissentire fra loro sui motivi in base a cui giustificare l'importanza
attribuita al problema della conoscenza della natura - e lo scienziato non si
pronuncerà a favore dell'una o dell'altra giustificazione - ma il loro pieno
accordo circa l'impossibilità di elaborare una seria concezione della realtà senza
includervi una ben precisa concezione della natura, basta ad elevare il problema
della conoscenza scientifica a un rango di primo piano nel quadro culturale dell'epoca. La filosofia, come studio dei soli problemi dell'uomo e di dio, o come
studio dei soli problemi etici, è un non-senso per l'uomo del rinascimento. Si
potranno discutere i rapporti fra conoscenza scientifica della natura e conoscenza religiosa di dio; si potrà discutere se l 'uomo faccia, o no, integralmente
parte della natura; ma ciò che resterà fuori discussione è che la natura esiste e
che costituisce un problema essenziale per qualunque filosofo. Né basta: ciò
che ve~rà pure ritenuto indiscutibile - soprattutto per merito dei filosofi della
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Confluenza di fattori diversi nella nascita della scienza moderna
natura - è che essa vada studiata in base ai propri principi. Quali siano poi questi principi, e quale sia il metodo più efficace per scoprirli, sarà un altro problema,
su cui i. creatori della scienza moderna riterranno di poter dire una parola nuova,
per l 'innanzi sfuggita a tutti i filosofi.
III
· IL CONTRIBUTO DELLE SINGOLE SCIENZE
ALLA RIFORMA DEL METODO SCIENTIFICO
Come abbiamo visto nel capitolo VI le scienze che realizzarono più significativi progressi nel Cinquecento, furono senza dubbio l'astronomia, la matematica, l'anatomia e la meccanica.
Sull'importanza dell'ipotesi copernicana per lo sviluppo generale della cultura abbiamo già parlato varie volte. La nuova cosmologia, che privava l'umanità
della sua posizione centrale nell'universo, non poteva non incidere profondamente
sulla concezione filosofica dell'uomo e dei suoi rapporti con la natura; essa costituiva inoltre una tappa neces&aria per liberare lo scienziato (ogni scienziato)
dal peso del « sapere » tradizionale, « sapere » che la scienza deve poter mettere
in discussione come qualunque altra ipotesi, rifiutandosi nel modo più assoluto di
vedere in esso una barriera invalicabile alle proprie indagini. Per questo motivo
Galileo sarà convinto che la nascita della scienza moderna non poteva non passare attraverso il copernicanesimo, e che l'opposizione delle autorità religiose a
Copernico implicava la loro opposizione a tutto il rinnovamento della ricerca
scientifica.
Se il De revolutionibus orbium aveva ancora un prevalente carattere teorico, si
vedrà presto tuttavia che l'accettazione della tesi ivi contenuta costituiva una premessa indispensabile alla franca accettazione dei dati dell'esperienza. Il grande
astronomo Tycho Brahe, pur ritenendo che le proprie osservazioni celesti non
richiedessero l'immediata adesione. all'eliocentrismo, aveva però riconosciuto
la loro totale incompatibilità con le teorie aristotelica e tolemaica. Nel r610 Galileo, d'accordo con Keplero, non avrà dubbi sul fatto che le nuove scoperte rese
possibili dall'uso del telescopio portavano direttamente all'accettazione della nuova cosmologia.
Anche le famose scoperte anatomiche delle scuole di Padova e di Bologna
ebbero anzitutto il significato di una decisa ribellione contro il peso del « sapere »
tradizionale. Questo si imperniava, nel caso presente, sul nome di Galeno anziché su quelli di Aristotele e di Tolomeo; ma il risultato metodologico era identico
a quello testé accennato a proposito di Copernico: la scienza non può ammettere
nessuna limitazione aprioristica alla propria indagine, deve essere libera di ripudiare qualunque teoria - per quanto antica e autorevole - qualora i fatti
osservati non si inquadrino in essa. L'essenziale sarà sviluppare al massimo l'osservazione; persegui da con scrupolo e sistematicità, senza prevenzioni di sorta;
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Confluenza di fattori diversi nella nascita della scienza moderna
non mescolare inavvertitamente i dati con un'interpretazione precostituita di
essi. Da questo punto di vista la coraggiosa lezione, impartita dalle grandi scuole
anatomiche del Cinquecento, fu veramente un modello prezioso per tutto il
successivo sviluppo della scienza.
Il contributo della matematica cinquecentesca alla preparazione della rivoluzione scientifica va innanzi tutto cercato nella perfetta assimilazione dei teoremi e dei metodi di Euclide, di Archimede e di Apollonia, che costituiranno gli
strumenti essenziali per lo sviluppo della meccanica, dell'astronomia, della
ottica, dell'ingegneria, ecc. Un notevole peso va anche attribuito, però, alle
grandi scoperte degli algebristi, soprattutto perché esse provarono che la matematica moderna era in grado di superare quelle stesse difficoltà da cui erano stati
fermati i greci. Nel Seicento questa lezione di coraggio verrà seguita da altri
valentissimi matematici, i quali ne trarranno impulso per andare oltre Archimede, dando inizio a quelle ricerche infinitesimali che costituiranno (già per Galileo) l'indispensabile strumento della scienza moderna.
Ma la disciplina i cui progressi costituirono, senza alcun dubbio, la svolta determinante da cui prende inizio la scienza moderna fu la meccanica. Possiamo
anzi a buon diritto affermare che, se Galileo suole venir considerato - e ben a
ragione - il padre della scienza moderna, ciò è soprattutto dovuto al nuovo
decisivo passo che egli ha saputo far compiere alla meccanica. I valenti cultori
di questa disciplina, che incontrammo nel capitolo VI, contribuirono certamente,
e molto, a renderlo possibile, ma il merito di averlo realizzato spetta a Galileo.
Come spiegheremo diffusamente nel capitolo XI, gli studi galileiani di meccanica ebbero anche una fondamentale importanza metodologica, perché riuscirono - per la prima volta nella storia del pensiero umano - a offrire un esempio
del tutto soddisfacente di combinazione sistematica fra « certe dimostrazioni » e
« sensate esperienze ». Il nuovo tipo di « razionalità scientifica », che si attua in
questa feconda combinazione, costituisce il nerbo del metodo sperimentale.
I progressi realizzati da tutte le scienze con l'applicazione rigorosa di questo
metodo (adattato di volta in volta alle particolari condizioni delle singole discipline) dimostrarono ampiamente che la via da esso aperta era quella giusta: era
una via capace di farci penetrare i segreti della natura, incomparabilmente meglio sia della scienza tradizionale di tipo aristotelico sia di qualunque magia o
stregoneria.
Senza dubbio i vigorosi, ripetuti, richiami di Bacone alla necessità di rinnovare completamente i vecchi metodi di indagine della natura hanno compiuto
una funzione essenziale nella storia del pensiero, illustrando la portata culturale,
filosofica, sociale di tale rinnovamento. Essi avrebbero avuto però un'efficacia
ben minore, se nel frattempo alcuni serissimi studiosi, personalmente impegnati
nella ricerca scientifica, non avessero già indicato in concreto la via per realizzare
la svolta auspicata.
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IV
· LA SCIENZA COME NUOVO MODO
DI STUDIARE LA NATURA
Abbiamo richiamato nei paragrafi precedenti i tre principali fattori che confluirono nella nascita della scienza moderna: la nuova collaborazione fra tecntci
e scienziati, il rilievo preminente dato dai filosofi al problema della natura; i successi concretamente conseguiti dalle principali discipline scientifiche, sulla base
di uno studio spregiudicato e sistematico dei fatti, al di fuori dei quadri del sapere tradizionale. Per porre in luce il significato rivoluzionario di tale nascita,
sarà ora opportuno aggiungere qualche parola su ciò che esso rappresentò per
la cultura dell'epoca in esame.
La conoscenza della natura era sempre oscillata fra due poli opposti: elaborazione di teorie generali, dirette a cogliere i principi primi della realtà, dai
quali dedurre una spiegazione razionale di tutti i fenomeni; semplice descrizione
di un settore limitato dall'esperienza, onde ricavarne - con ingegnosi tentativi,
ora più ora meno fortunati - qualche orientamento pratico per le nostre azioni.
Nel primo tipo di conoscenza era la ragione ad avere una prevalenza assoluta
sull'esperienza, anche se- almeno in via teorica - si riconosceva pure a quest'ultima, da parte di alcuni autori (per esempio Aristotele), un compito rilevante nel dare inizio al processo conoscitivo. Nel secondo tipo, le posizioni
erano rovesciate, e il fattore « elaborazione razionale » era sostituito dal ricorso
all'ingegnosa fantasia del singolo ricercatore.
La nascita della nuova scienza dimostrò che era possibile un terzo tipo di
conoscenza, in cui l'elaborazione teorica e l'osservazione dei fatti si intrecciano
inscindibilmente fra loro, con straordinario vantaggio di entrambe. I risultati
di questo nuovo tipo di conoscenza sono ancora autentiche teorie (la cui razionalità è garantita dal forte apparato matematico), legate però - costantemente e
sistematicamente - all'esperienza, sia pure, come vedremo, non in ogni loro
singola posizione ma soltanto nella globalità della teoria stessa.
Ovviamente, questo loro costante legame coll'esperienza fornisce alle conoscenze così acquisite un carattere di ineliminabile provvisorietà, perché l'emergere di fatti prima non osservati, potrebbe in un qualunque momento - se tali
fatti non risultano spiegabili all'interno della teoria - costringerci a rettificarla,
modificarla e forse abbandonarla. Il fatto è, però, che, nella storia ormai lunga
della scienza moderna, queste modificazioni hanno sempre (o quasi sempre)
costituito, non un abbandono completo della teoria incriminata, ma un suo inserimento come caso particolare in una teoria più articolata e più generale.
Senza dubbio affiora qui un nuovo concetto di conoscenza che, pur potendosi
dire « vera », in quanto garantita dalla sua logicità e dall'accordo con i fatti realmente osservati, non pretende di essere né assoluta né onnicomprensiva. Conoscenza che ha questa singolare prerogativa: di risultare essenzialmente dinamica,
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Confluenza di fattori diversi nella nascita della scienza moderna
cioè di cercare ininterrottamente nuovi confronti con i fatti, nuove estensioni a
settori per l 'innanzi non presi in esame; e inoltre di non considerare come una
sconfitta l'eventuale scoperta di qualche fatto che ponga in crisi le antecedenti
costruzioni, ma al contrario di considerarla come un elemento preziosissimo per
autocorreggersi, per impostare nuove ricerche. A ben esaminare i caratteri di
questa conoscenza, si vede che essa consiste assai più in un processo di continue
interrogazioni del~a natura e di continui tentativi di interpretare il senso delle
risposte ottenute, che non in una serie ben definita di atti destinata a concludersi
con la scoperta di una verità definitiva (o presunta tale); processo sempre incompleto, e che malgrado questa incompletezza ci pone in grado di fare ben precise
previsioni, estremamente utili per orientarsi nell'esperienza.
I problemi filosofici suscitati da questa nuova forma di conoscenza sono
senza dubbio molto grossi e di ardua soluzione. Essi possono in ultima istanza
riassumersi nella domanda: è o non è, questa forma di conoscenza, un autentico
sapere? Come può esserlo, se non giunge mai, né pretende giungere, a verità
assolute? E se non è un autentico sapere, come mai trova innumerevoli, sempre
nuove, applicazioni? Come mai ci porta a risultati, anche teorici, che possono sì
venire corretti e perfezionati dal proseguimento della ricerca scientifica ma non
da alcun altro tipo di conoscenza (metafisica, teologica, mistica)?
Pochi pensatori si resero conto, nell'epoca che stiamo considerando, della
complessità e difficoltà delle domande testé accennate. Ma nei secoli successivi
questi problemi si collocheranno sempre più al centro dei dibattiti filosofici, e
ancor oggi vi occupano una posizione di cruciale importanza, come spiegheremo
nel capitolo vn del volume IX.
Una cosa, comunque, apparve certa fin dall'inizio: che questa nuova forma
di conoscenza era l 'unico modo serio di studiare la natura. Filosofi, scienziati,
metodologi saranno liberi di discutere sui caratteri, i fondamenti, le garanzie
della conoscenza scientifica; anzi, avranno il dovere di farlo (tra l'altro perché
le loro discussioni, se ben impostate, avranno il risultato di rendere tale conoscenza
via via più efficiente). In ogni caso però, l'uomo non potrà rinunciarvi: essa costituisce ormai uno dei patrimoni più preziosi della civiltà moderna.
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CAPITOLO DECIMO
Francesco Bacone
I
· VITA E OPERE
Francis Bacon nacque a Londra nel 1561 da un dignitario di corte; la prematura morte del padre lo gettò tuttavia, fin da giovane, in gravi difficoltà finanziarie. Dedicatosi alla vita politica, riuscì a poco a poco a far carriera, dimostrando - nella lotta per la propria affermazione - una spregiudicatezza assai
poco raccomandabile (si affrettò, per esempio, a rompere con il suo protettore
Essex, appena si accorse che questi stava cadendo in disgrazia). Coprì, sotto Giacomo 1, uffici molto importanti; fu nominato Lord cancelliere e barone di V erulamio. Nel 162I, accusato di corruzione, riconobbe subito la propria colpa;
dalla camera alta venne privato della dignità di Lord cancelliere, condannato
ad una pena pecuniaria ed all'incarcerazione a discrezione del re. L'appoggio
regio gli valse tuttavia a non pagare la multa e non scontare che pochi giorni
di carcere. Si ritirò, quindi, a vita privata, interessandosi solo di studi. Morì
nel 1626.
Senza voler anticipare un giudizio sul pensiero baconiano, che ci riserviamo
di delineare al termine del capitolo, dobbiamo avvertire fin d'ora che Bacone,
pur senza essere stato un metodologo autenticamente moderno (cioè senza aver
colto con chiarezza quali sono i punti più significativi e più complessi del metodo
scientifico) e tanto meno essere stato un vero e proprio scienziato, fu senza dubbio
uno degli uomini della sua epoca che più contribuì a diffondere la convinzione
che la scienza avrebbe potuto nascere solo da una radicale riforma del sapere e
che la sua nascita avrebbe avuto un significato rivoluzionario nell'ambito di
tutta la civiltà. In questo senso egli fu veramente un profeta dei tempi nuovi, ed
è ben comprensibile che a lui abbiano guardato - come a proprio maestro - i
filosofi dell'illuminismo, e che anche la famosa Royal Society (che, come vedremo
nella sezione IV, fu per secoli uno dei massimi centri propulsori del progresso
scientifico) si sia esplicitamente richiamata alla « filosofia sperimentale » di Bacone come ad ispiratrice e guida della propria attività.
Le opere filosofiche del nostro autore sono abbastanza numerose, ma pressoché tutte incentrate su di un medesimo tema. Lo ritroviamo già nel suo primo
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Francesco Bacone
brevissimo scritto, Discourse in praise of knowledge (Discorso in elogio della conoscenza,
I 592 ), che termina con queste significative parole: «Se ci lasceremo guidare dalla
natura nell'invenzione, noi la comanderemo nell'azione. » Lo stile, incisivo e
ricco di immagini, contribuirà non poco al successo della sua produzione, anche
di quella non propriamente filosofica. Agli anni I6o3-o8 risale uno degli scritti
più interessanti di Bacone (breve, in due soli capitoli), che però non venne pubblicato durante la sua vita: Temporis partus masculus sive instauratio magna imperii
humani in universum (Il parto mascolino del tempo o la grande instaurazione dell'impero
dell'uomo sull'universo). Nel I 6o9 egli pubblicò il De sapientia veterum (Della sapienza
degli antichi), che ottenne subito un largo favore di pubblico: è una raccolta di
trentun miti dell'antichità da lui interpretati secondo gli interessi della sua filosofia politica, morale e naturale. Nel I6zo viene alla luce l'opera più importante
di Bacone che porta il titolo assai impegnativo di lnstauratio magna (La grande
instaurazione). In realtà l'autore lo dà alle stampe in forma incompiuta: essa contiene infatti soltanto una lunga prefazione e il piano generale del lavoro in cui
si spiega la distribuzione della materia (che dovrà essere suddivisa in sei parti),
nonché i sommi capi (distribuiti in aforismi) della seconda parte, avente per titolo Novum organum sive indicia vera de interpretatione naturae (Nuovo organo o veri
indizi dell'interpretazione della natura). Mentre questa espone i principi generali
del metodo, la prima parte avrebbe dovuto fornire- secondo il piano anzidetto un'enciclopedia generale delle scienze. Le altre quattro parti avrebbero dovuto
esporre, nell'ordine: « fenomeni dell'universo cioè la raccolta delle esperienze
di tutti i generi, quella storia naturale che può servire a fondare la vera filosofia »,
« modelli della ricerca e della scoperta secondo il nostro metodo », « quanto
abbiamo scoperto noi stessi o verificato o aggiunto, anche al di fuori dei metodi
e delle regole di interpretazione », antecedentemente spiegati, e infine « quella
filosofia, che il nostro metodo di ricerca... ha preparato e diretto » intesa nella
sua pienezza di conoscenza attiva capace di trasformare il mondo obbedendo
alle leggi di natura. Nel I6z3 esce la seconda grande opera di Bacone, in nove
libri: De dignitate et augmentis scientiarum (Della dignità e del progresso delle scienze),
che rielabora uno scritto più breve (in due soli libri) pubblicato in inglese nel I Go 5,
il quale portava il medesimo titolo. Nel I6zz e nel I6z3 escono pure due volumi
che vogliono costituire la terza parte dell' lnstauratio; il loro titolo è Historia
naturalis et experimentalis, ad condendam philosophiam, sive phaenomena universi (Storia
naturale e sperimentale a fondamento della filosofia, ovvero fenomeni dell'universo). Infine nel
I6z 5 sono pubblicati gli Essqys (Saggi), in parte di argomento letterario, ove tro-
vasi esposta con particolare chiarezza la famosa classificazione baconiana delle
scienze (già delineata per altro in opere precedenti), che verrà poi fatta propria, nel
Settecento, dagli enciclopedisti. Essa è fondata sulla distinzione delle tre facoltà:
memoria, fantasia e ragione (vi ritorneremo nel paragrafo rv).
Nel I627 William Rawley, segretario di Bacone, pubblicherà una miscellanea
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Francesco Bacone
di appunti, concernenti più di mille esperienze, dandole il titolo di Sylva .rylvarum
or a natura/ history (Selva delle selve ovvero una storia naturale), e aggiungerà, al termine del volume, il celebre frammento intitolato New Atlantis (Nuova Atlantide),
che delinea la struttura di una società perfetta (presentandola come descrizione
dei costumi di un'isola immaginaria, abitata da un popolo felice) e adombra l'esigenza di una costante collaborazione fra gli scienziati.
II
· LA SCIENZA QUALE FULCRO
DEL RINNOVAMENTO DELLA SOCIETÀ
Come già abbiamo accennato nel paragrafo precedente, la grandezza di
Bacone non va tanto cercata nella sua opera di innovatore dei metodi scientifici,
e ancor meno in quella di autentico scienziato, quanto nella sua chiarissima percezione del peso culturale, e non solo culturale che la scienza era destinata ad assumere. Se è vero che tutti gli spiriti più illuminati della sua generazione e di quella
immediatamente successiva furono fermamente persuasi, come lui, che il rinnovamento della scienza e della tecnica avrebbe accresciuto in misura enorme il potere
dell'uomo sul mondo, è vero però che nessuno intuì con chiarezza pari alla sua
che questo rinnovamento avrebbe coinvolto, non solo una riforma generale della
filosofia, ma una profonda rivoluzione della stessa società.
Considerato sotto questo aspetto, egli ci appare effettivamente come una
delle personalità più rappresentative del nuovo ambiente in formazione nell'Europa del suo secolo (e soprattutto in Inghilterra); anzi una delle più consapevoli
di ciò che la società europea sarebbe diventata, sia pure in un futuro non immediato, in seguito alla rivoluzione scientifica.
Qualche studioso moderno, come per esempio il Farrington, giunge a presentarlo come l'autentico profeta della società industriale moderna. Anche la
polemica vivacemente condotta contro la « filosofia degli alchimisti » così diffusa nel Cinquecento, riconferma questa modernità del nostro autore. Ed infatti solo un esame superficiale ed estrinseco potrebbe farci credere che la rivoluzione industriale costituisca il coronamento dei sogni di potenza dei maghi
e degli alchimisti; in realtà essa è un'altra cosa, e cioè non il frutto del miracolistico
segreto strappato alla natura da un mago più fortunato degli altri, ma il frutto
di una interrogazione sistematica dei fenomeni, della collaborazione franca e
costante fra più ricercatori, dello sforzo comune per ricavare a poco a poco,
dalle sicure scoperte della scienza, un numero sempre maggiore di applicazioni
pratiche, veramente utili a tutti.
Particolarmente significativa ci appare, da questo punto di vista, l'utopistica
descrizione - che Bacone abbozzò nella Nuova Atlantide - del tipo di società
che egli considera ideale e perfetta. Se la confrontiamo con la società ideale
descritta da Tommaso Moro nella sua Utopia o con quella descritta da Tommaso
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Francesco Bacone
Campanella nella Città del Sole, vediamo che la società ideale di Bacone ha questo
di caratteristico: la sua struttura è interamente fondata sulla scienza e sulla tecnica e tutta rivolta a farle progredire per il bene dell'umanità.
Anche i rapporti tra scienza e religione vengono notevolmente illuminati
dall'opet'a anzidetta: la società ideale di Bacone non vuol essere, infatti, una società irreligiosa; la sua religione, però, è costituita in modo da non trovarsi in
contrasto con la scienza, e da assumere anzi fra le proprie funzioni più caratteristiche quella di appoggiare la scienza e garantirne il valore morale. Si tratta
comunque di un accordo, che non richiede alcun riferimento a presupposti metafisici generali, basandosi più su esigenze pratiche che su ragioni filosofiche.
È evidente che esso riflette la convinzione dei pionieri della rivoluzione economica in atto nell'Europa (convinzione particolarmente diffusa tra i protestanti),
che le nuove strutture sociali, necessarie per portare a termine tale rivoluzione,
avrebbero finito per trovare, non un ostacolo, ma un ausilio al proprio sviluppo
nella serietà di concezioni e di costumi predicata dal cristianesimo.
III
· LA POLEMICA CONTRO ARISTOTELE
Se Bacone, esponendo il suo programma di rinnovamento della società sulla
base della scienza e della tecnica, crede sinceramente di non intaccare la religione, è invece ben convinto di trovarsi in posizione antitetica nei confronti
della filosofia tradizionale. Questa- sull'esempio di ciò che pensavano Telesio e
i naturalisti italiani - viene da lui identificata con la filosofia di Aristotele.
In realtà Bacone conserva, su vari punti particolari della filosofia e della
scienza, alcune idee di carattere nettamente aristotelico: esse sono molto più
numerose di quanto egli non immaginasse. Malgrado questa indiscutibile realtà,
la polemica da lui condotta contro il pensiero antico e medievale è senza dubbio
fra le più energiche e intransigenti che la storia della filosofia ricordi; così energica
da apparire, non di rado, persino intemperante.
Essa si inserisce in una visione generale della storia, basata sulla considerazione del sapere umano come un complesso di energie in continuo sviluppo, che
percorrerebbero varie fasi analoghe alla vita dell'uomo. In questo secolare sviluppo, i filosofi antichi rappresenterebbero l'età infantile, i moderni invece la
piena maturità. È perfettamente naturale, quindi, che le concezioni dell'antichità
siano del tutto simili al balbettio dei bambini, senza confronto meno solide delle
nostre che sono il frutto di lunghissima esperienza.
Il laborioso movimento per liberare la ricerca scientifico-filosofica dalla
pesante autorità della tradizione (movimento di cui incontrammo i primi coraggiosi passi negli iperdialettici nel xrr secolo e di cui seguimmo poi i difficili sviluppi nella storia delle scienze particolari, dalla matematica alla medicina) raggiunge qui la sua piena attuazione. L'antichità di una dottrina non è più consi143
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Francesco Bacone
derata come garanzia della sua solidità. Al contrario: si prospetta arditamente la
concezione della verità come figlia del tempo. « In ogni caso, » leggiamo nel
Temporis partus masculus, « la scienza si deve cercare nel lume della natura, non
nelle tenebre dell'antichità. Non importa quello che è stato fatto; bisogna considerare quello che si può fare. Se ti venisse offerto un regno soggiogato con le
armi in una guerra vittoriosa, faresti tu questione se i tuoi antenati lo avessero
posseduto o no, andando a sollevare la polvere delle genealogie? »
Passando ora ad un esame più dettagliato della polemica di Bacone contro
Aristotele, diremo subito che il primo e più importante argomento affrontato dal
filosofo è la logica. L'obiezione centrale che Bacone solleva contro la logica aristotelica è l 'invincibile sterilità delle sue artificiose regole deduttive. Esse affermano di dedurre il caso particolare dalle premesse generali del sillogismo; si
tratta, però, di una pura e semplice illusione. Non ci dicono infatti la cosa più
importante, e cioè come sia possibile ottenere tali premesse; in altri termini, non
ci dicono nulla o pressoché nulla su quella parte della logica (dialettica dell'invenzione) di cui già molti studiosi del Cinquecento avevano cominciato a comprendere, e sottolineare, l'essenziale funzione entro la scienza.
A rigore, qualcuno potrebbe rispondere a Bacone che il problema non era
affatto sfuggito ad Aristotele: tant'è vero che lo stagirita aveva ideato, per risolverlo, il famoso processo di induzione. Proprio questo però è - a giudizio
dell'inglese -il punto più debole della logica aristotelica. Essa, infatti, non riesce in alcun modo a giustificare le proposizioni universali, lasciando fra queste e
i dati di osservazione un vuoto incolmabile. Illusorio è, dunque, ritenere che
essa giustifichi sul serio le premesse dei sillogismi, e sia in grado di fornire loro
un'effettiva solidità. L'errore di Aristotele è di balzare da pochi dati di osservazione ai pretesi principi generali, invece di servirsi di principi intermedi.
« Due sono, o possono essere, » scr~ve Bacone nel Novum organum, « le
vie per la ricerca e la scoperta della verità. L'una dal senso e dai particolari vola
subito agli assiomi generalissimi, e giudica secondo questi principi, già fissati
nella loro immutabile verità, ricavandone gli assiomi medi: questa è la via comunemente seguita. L'altra dal senso e dai particolari trae gli assiomi risalendo
per gradi e ininterrottamente la scala della generalizzazione, fino a pervenire agli
assiomi generalissimi : questa è la vera via, sebbene non sia stata ancora percorsa
dagli uomini. »
Aristotele ha scelto la prima via, la più spontanea; perciò la sua logica non
ci serve più. Noi dobbiamo invece crearci gli strumenti per imboccare con sicurezza la seconda, più difficile via. Dovremo sì, anche noi, prendere le mosse
dai dati empirici; ma sottoponendoli ad una più accurata elaborazione. Osservazioni casuali e imperfettamente analizzate, constatazioni disorganiche di singoli fenomeni, non sono in grado di fondare alcun principio scientifico. Occorre
sì appellarsi ai sensi ma soprattutto sapersi elevare alla experientia litterata.
144
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IV
· LA RIFORMA DEL SAPERE IN SENSO PRATICO-OPERATIVO
La polemica baconiana contro Aristotele non si arresta alla logica, ma investe
l'intero problema della conoscenza in tutta la sua complessità.
Secondo Bacone, la filosofia di Aristotele è macchiata, come in genere tutti
i sistemi filosofici dell'antichità escluso quello di Democrito, da un gravissimo
vizio d'origine: un autentico peccato di presunzione. Essa presume, infatti, di
ricavare la conoscenza del mondo dalla mente umana, invece di cercarla pazientemente nell'osservazione della natura.
Considerato da questo punto di vista, il ricorso all'esperienza, che viene contrapposto da Bacone al sillogismo aristotelico, acquista un significato più profondo e quasi religioso: il significato, cioè, di liberazione dall'anzidetto peccato
d'origine e dalle sue perniciose conseguenze. Per punire l'uomo della sua peccaminosa presunzione, dio lo aveva privato di ogni reale potere sopra le cose.
Volendo ora evitare questa punizione, non ci resta che un mezzo: liberarci dal
peccato originale di presunzione ora menzionato, ripudiando con esso tutta la
filosofia greca.
La riforma proposta da Bacone oltrepassa quindi, di molto, i confini della
logica. Essa non implica soltanto un'integrazione dell'antico modo di argomentare, ma una svolta decisa della filosofia, un totale capovolgimento di indirizzo.
Si tratta, in altri termini, di abbandonare il modo di procedere essenzialmente
teorico degli antichi filosofi, per instaurarne uno nuovo, essenzialmente praticooperativo, capace di tenere conto di ogni arte o mestiere che ci ponga a diretto
contatto con la natura.
Sono qui ben evidenti i riflessi di un atteggiamento comune a gran parte
degli scienziati e dei filosofi del rinascimento. Ma in Bacone vi è qualcosa di
più: vi è l'aperta dichiarazione che la filosofia non poté progredire a causa del
suo atteggiamento speculativo, mentre la tecnica - per il suo impegno pratico riuscì a perfezionarsi in modo pressoché ininterrotto: « Se queste scienze, » scrive nella prefazione dell'lnstauratio magna, «non fossero cose morte, non sarebbe
potuto accadere quello che per tanti secoli è accaduto, che esse siano rimaste
quasi immobili sulle loro stesse tracce, senza mai arrecare validi progressi all 'umanità... Nelle arti meccaniche vediamo accadere il contrario; quasi fossero
partecipi di qualche spirito vitale, s'accrescono e si perfezionano ogni giorno di
più; presso gli iniziatori erano rozze, quasi informi e pesanti, ma poi hanno preso
nuove forze ed una certa snellezza, tanto che verrà a mancare il desiderio umano
di sapere o muterà l'interesse prima che esse siano giunte al vertice della loro
perfezione. La filosofia, invece, e le scienze intellettive, come statue, sono adorate e celebrate, ma non son mai fatte avanzare. »
La necessità di abbandonare lo sterile speculativismo della vecchia filosofia è,
per ~acone, qualcosa che non ammette dubbi; la nuova scienza non dovrà pre145
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Francesco Bacone
sentarsi come continuatrice di quella antica, ma scaturire da un radicale mutamento di rotta, che le consenta di risultare, nel contempo, lucifera et fruct[fera.
« Vano è attendere un gran rinnovamento nelle scienze dalla sovrapposizione
e dall'inserimento del nuovo sul vecchio: bisogna compiere una completa instaurazione del sapere iniziando dalle fondamenta stesse della scienza, se non ci si
vuole aggirare sempre in un circolo, con un progresso scarso e quasi trascurabile. »
È per l'appunto questa esigenza di una svolta radicale, senza mezzi termini,
ab imis fundamentis, ciò che spinge Bacone a progettare la strutturazione della
scienza in una nuova enciclopedia (instauratio magna) totalmente diversa da quella
di Aristotele. Essa si fonda - come già accennammo nel paragrafo I - sulla
distinzione di tre gradi di conoscenza: a) conoscenza storica, basata sulla memoria, e cioè sulla pura raccolta di materiali d'osservazione; h) conoscenza
poetica, basata sulla fantasia, e cioè sulla libera costruzione di piacevoli sogni,
senza alcun contatto con i dati; c) conoscenza filosofica, basata sull'intelletto,
cioè sulla elaborazione razionale dei dati: questa comprenderà la teologia naturale, la fisica, la medicina, e culminerà nella philosophia activa ossia nella costruzione di strumenti utili ali 'uomo.
Lavorare per la costruzione di una philosophia activa non significa però - sia
detto ben chiaramente - cercare precipitosamente delle cognizioni che risultino
d 'immediata utilità. Significa invece cercare i principi dei fenomeni; significa
determinare con assoluta limpidità le leggi della natura; non però nell'intento
di !imitarci a contemplarle, bensì di ricavare proprio da esse efficaci regole di
azione, cioè di farne la base sicura delle nostre arti. « Il fine della nostra scienza non
è di scoprire argomenti, ma arti; non le conseguenze che derivano da principi
posti, ma gli stessi principi; non ragioni di probabilità, ma designazione e indicazioni di opere. »
Ma saremo noi in grado di realizzare una svolta così radicale, di intraprendere
sul serio quel complesso di indagini che ci porterà alla philosophia activa testé delineata? Bacone non ha dubbi in proposito. Egli è sicuro che potremo raggiungere
il fine voluto, purché sappiamo guidare bene la nostra ricerca: « Ci occorre un
filo conduttore per guidare i nostri passi, e tracciare la via fin dalle prime percezioni dei sensi. »
V
· LA LOGICA DI BACONE
Il filo conduttore, di cui abbiamo fatto parola nelle ultime righe del paragrafo
precedente, ci è fornito- secondo Bacone- dal novum organum. L'arte che esso
ci insegna è « una specie di logica, sebbene sia ben lontana, anzi immensamente
lontana, dalla logica volgare ».
La logica di Bacone si suddivide in due parti: la liberazione dall'errore (pars
destruens) e la costruzione del sapere (pars adstruens).
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Francesco Bacone
La prima parte è costituita dalla teoria degli idola. Errori e pregiudizi sono,
infatti, paragonabili - secondo Bacone - agli idoli che nascondono la visione
del vero dio.
Gli idoli, che celano all'uomo il vero sapere, sono di quattro tipi. Gli «idoli
della tribù» sono quelli comuni a tutti gli uomini, e richiedono quindi un esame
critico della stessa natura umana; tali, per esempio, la limitatezza e fallibilità dei
sensi, la tendenza della mente a vedere una uniformità e regolarità anche ove
essa non esiste affatto, ecc. Gli «idoli della spelonca» dipendono, invece, dalla
natura dell'individuo e debbono venir corretti cercando di superare le limitatezze
del singolo uomo, i suoi gusti, le sue tendenze particolari, le abitudini contratte
dall'educazione, dall'ambiente in cui è sempre vissuto, ecc. Gli «idoli del foro»
(cioè del mercato, o ve gli uomini vengono a contatto gli uni con gli altri) derivano soprattutto dal linguaggio, che crea parole vuote per cose inesistenti e viceversa non dispone di vocaboli specifici per indicare cose effettivamente esistenti; l'eliminazione di questi idoli implica l'eliminazione di tutti i concetti
puramente illusori e delle infinite controversie verbali che si accendono intorno
ad essi. Infine gli «idoli del teatro» sono quelli dovuti all'influenza delle teorie
tradizionali, che ingannano gli uomini proprio allo stesso modo degli istrioni, i
quali, recitando in teatro, ingannano il pubblico degli spettatori: la loro eliminazione coincide con la critica del sapere tradizionale, accennato nelle pagine
precedenti.
La pars adstruens consiste nella determinazione delle regole, che caratterizzano l'experientia litterata (di cui poco sopra parlammo), unico serio fondamento
del sapere. Esse sono le regole dell'induzione baconiana, contrapposte a quelle
dell'induzione aristotelica.
Come già spiegammo più sopra, anche l 'induzione baconiana, non diversamente da quella aristotelica, prende l'avvio dai fatti empirici, ossia dalla cosiddetta « storia naturale ». Questi fatti però non devono essere soltanto osservati,
contemplati, ma posti a confronto gli uni con gli altri mediante opportune
« tavole ». « Ma la storia naturale e sperimentale è tanto varia e sparsa, che confonde e disgrega l'intelletto, se non è fissata e disposta secondo un ordine idoneo.
Perciò si devono preparare "tavole " o "condizioni delle istanze ", disposte
in modo tale che per mezzo di esse l'intelletto possa lavorare attivamente. »
Possiamo schematizzarle in tre tipi: I) si tratta innanzi tutto di elaborare,
per ogni fenomeno studiato, la tabula presentiae, che registra con la massima precisione tutti i casi in cui tale fenomeno si verifica; 2) si elaborerà poi la tabula absentiae, registrando i casi in cui il fenomeno non ha luogo, mentre si sarebbe creduto di trovarlo; 3) si passerà, infine, alla tabula graduum, che studia i casi in cui
il fenomeno aumenta o diminuisce.
Soltanto la costruzione rigorosa di tutte e tre le tavole ci permetterà, secondo Bacone, di penetrare a fondo la natura del fenomeno. A tale scopo sarà
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Francesco Bacone
necessario un accurato esame comparativo delle tavole stesse, cui seguirà la formulazione di una ipotesi, e, in ultimo, la sua verifica empirica.
Bacone osserva, tuttavia, che la prima ipotesi (o prima vendemmia) non può
avere- in genere- che un valore orientativo. Essa è quindi nulla più che un 'ipotesi provvisoria, destinata a venire smentita, nel momento stesso in cui cercheremo di verificarla. Proprio quest'errore, però, chiarirà le nostre idee, e faciliterà
la formulazione di altre ipotesi più approssimate.
Senza fermarci più oltre nell'esame delle nuove istanze che Bacone suggerisce
per il graduale perfezionamento delle nostre ipotesi (determinazione dei casi
eccezionali, studio dei fenomeni sul loro nascere, ecc.), basti sottolineare l'acume
di questa teoria, la sensibilità che essa rivela per lo sforzo tenace e prolungato,
indispensabile in ogni ricerca veramente scientifica.
VI
·
LE FORME DEI FENOMENI
Se l'induzione baconiana si presenta fin qui ben articolata e con molti caratteri di novità e di concretezza, da questo punto in poi essa rivela, invece, alcuni gravissimi difetti, che ne sottolineano i pesanti legami col passato.
Per porre in luce tali difetti basterà chiederci: qual è il risultato che Bacone
si propone di raggiungere con l'esame dei fenomeni, rigorosamente condotto
secondo le regole logiche or ora delineate?
Diversamente da ciò che potremmo attenderci, il risultato, cui mira l'induzione baconiana, è molto simile a quello cui mirava la ricerca scientifica intesa
nel senso tradizionale. Bacone ci dice infatti con parole molto esplicite che il
risultato della ricerca scientifica deve essere costituito dalla « forma » dei singoli fenomeni studiati. Per esempio, il risultato di un'indagine logicamente rigorosa intorno al calore - egli stesso si sofferma a lungo su questa esemplificazione - deve essere la « forma » del calore, ossia la determinazione della nota
caratteristica, effettivamente comune a tutte le cose calde.
Si è discusso a lungo, dagli interpreti moderni, sull'esatto significato da
attribuire alle « forme » baconiane. Taluno ha voluto vedere in esse qualcosa di
molto simile a ciò che noi chiamiamo le « leggi naturali » dei fenomeni. Questa
interpretazione sembra, tuttavia, alquanto artificiosa e dettata da eccessiva benevolenza verso il pensatore inglese. Contro di essa stanno: da un lato l'evidente
analogia tra le forme baconiane e quelle ricercate dai fisici aristotelici; dall'altro,
le profonde differenze tra le forme baconiane e le « leggi di natura » nel senso
che la scienza moderna attribuisce a questa parola.
Sarà opportuno spiegare, pur molto in breve, queste differenze; esse riguardano in particolare il carattere matematico delle leggi fisiche. Mentre, come vedremo, questo carattere sarà pienamente riconosciuto da Galileo e dai grandi
scienziati dei secoli successivi, esso sfugge nel modo più totale a Bacone, sicché
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Francesco Bacone
la scienza che dovrebbe costituire la grande conquista della sua nuova logica,
risulta una scienza puramente qualitativa non dissimile dalla fisica aristotelica.
Né basta: l 'indifferenza di Bacone di fronte alla matematica, la sua incomprensione
per il valore di questa scienza (vuoi in se stessa, vuoi nella sua funzione strumentale per tutte le altre scienze) lo porta a un punto tale di cecità, da fargli trascurare il problema di una precisa collocazione di essa nella sua nuova enciclopedia
del sapere. Per comprendere la ·gravità di questa posizione, basti riflettere all'enorme influenza progressiva esercitata su gran parte degli scienziati del rinascimento dalla lettura dei testi di Archimede; non afferrando il significato e il
valore di questa influenza, Bacone si collocò inconsciamente fuori dell'indirizzo
più fecondo del pensiero scientifico-filosofico rinascimentale.
La sordità di Bacone per la matematica trova perfetto riscontro nella sua
incomprensione del gravissimo conflitto culturale venuto alla luce nelle grandi
controversie astronomiche dell'epoca. «Nessuno,» egli scrive, «può sperare di
risolvere il problema, se il cielo oppure la terra debbano subire una rotazione
quotidiana, qualora prima non abbia compreso la natura dello spontaneo movimento circolare. » È una posizione agnostica, che nasconde una vera e propria
arretratezza scientifica. In effetti, Bacone non cerca la natura del movimento
circolare nell'analisi matematico-meccanica del movimento stesso, cioè nelle
«misure» e nei «periodi dei moti celesti», ma nella gioia o nell'orrore che i
corpi proverebbero per tale moto. Questo ritorno a concezioni prescientifiche,
nei medesimi anni in cui Keplero e Galileo conducevano con metodi quasi interamente moderni la loro battaglia in favore dell'ipotesi copernicana, non può
che confermarci l'esistenza di molti lati equivoci nella concezione dell'inglese.
Bacone sostiene che la forma dei fenomeni scaturisce, non dall'esame quantitativo dei fenomeni stessi, ma dalla composizione interna delle cose (cioè dallo
schematismus latens) e dagli intimi processi che stanno alla base di tale composizione (cioè dal processus latens). Anche di questi due concetti- dello schematismus
latens e del processus latens - si è tentato di dare interpretazioni molto lusinghiere
per il loro autore, quasi che costituissero geniali intuizioni di quelli che saranno
gli sviluppi più recenti della scienza moderna. Si tratta però, ancora una volta, di
interpretazioni prive di fondamento, non potendosi attribuire a Bacone il dono
di intuire gli sviluppi lontani della scienza, quando egli si mostrava incapace di
comprendere i più basilari progressi della scienza del suo secolo. In realtà i due
concetti ora accennati non sono altro che semplici residui dell'alchimia rinascimentale, cioè di una dottrina che proprio Bacone aveva energicamente combattuto come arretrata ed esecrabile. L'appello ad essi in funzione esplicativa dei
fenomeni, dimostra soltanto il permanere in lui di una concezione sostanzialistica
del mondo che, a ben guardare, non si accorda affatto con le linee generali della
sua filosofia. È una incongruenza grave, che ci conferma quanto fosse difficile
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Francesco Bacone
- anche per un pensatore come Bacone - rinnovare a fondo la filosofia senza
tenere seriamente conto dei progressi scientifici oltreché di quelli tecnici.
VII
· VALORE E LIMITI DELL'OPERA DI BACONE
Può essere utile riassumere i punti essenziali, gradualmente emersi dalla
nostra pur sommaria esposizione, cui occorre far riferimento per una valutazione
critica dell'opera di Bacone.
I motivi che ci hanno fatto riconoscere il grandissimo valore di tale opera
sono fondamentalmente i seguenti: I) la ferma convinzione, ripetutamente espressa da Bacone, dell'assoluta necessità di operare una frattura completa entro la
vecchia filosofia e la vecchia metodologia per dare inizio a un tipo di sapere
scientifico veramente nuovo, esente dagli impacci che ostacolavano le precedenti
indagini sulla natura; 2) la chiarissima intuizione che questo nuovo tipo di sapere non potrà essere né puramente speculativo né solo preoccupato delle immediate applicazioni tecniche, ma volto a cogliere i principi che regolano il corso
dei fenomeni nell'intento di ricavarne i mezzi per dominare questi fenomeni,
cioè per modificarli e dirigerli a vantaggio dell'umanità (sarà proprio questa capacità dei principi di diventare base per l'azione ciò che ne garantirà, secondo
Bacone, l'effettivo valore di verità); 3) la piena consapevolezza che la nuova forma
di sapere dovrà risultare essenzialmente basata sull'osservazione, ma che questa
non dovrà consistere in una semplice registrazione dei fatti via via presentatisi
dall'esperienza, bensì in una elaborazione attiva di essi; 4) la sicura previ~ione
che le conquiste realizzate dal nuovo tipo di sapere condurranno l'umanità a
trasformare profondamente la propria cultura e firianco le proprie strutture sociali, onde il progresso scientifico diverrà la molla più efficace di tutto il progresso
del mondo moderno, e dovrà quindi stare al vertice degli interessi di ogni stato
civile, realmente preoccupato del bene dei suoi cittadini.
I punti nei quali abbiamo invece dovuto riconoscere i limiti dell'opera di
Bacone sono: I) le sue proposte per il rinnovamento della metodologia scientifica; 2) il fine che egli ritenne di dover attribuire alla conoscenza scientifica.
Tali proposte infatti, pur facendo appello alla giusta esigenza di non ridurre la
induzione a una semplice registrazione dei fatti, non ci sono parse in grado di
uscire dal generico e soprattutto di comprendere (e precisare) il compito spettante alla matematica nell'elaborazione dei dati empirici. Quanto al fine che Bacone attribuì alla conoscenza scientifica, quello cioè di cogliere la « forma » dei
fenomeni, ci è parso non discostarsi sostanzialmente da quello attribuitole dalla
vecchia concezione aristotelica, e quindi inadeguato a caratterizzare le spiegazioni dei fenomeni ricercate dalla scienza moderna.
Se ci proponessimo di individuare le ragioni profonde dei limiti testé accennati, dovremmo probabilmente cercarle nel fatto che Bacone, pur intuendo
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Francesco Bacone
così chiaramente il significato e la portata della rivoluzione scientifica, restò al
di fuori del laborioso e complicato processo storico che stava di fatto attuando
tale rivoluzione, e che all'inizio del Seicento l'aveva condotta pressoché a compimento. Egli fu molto attento ai numerosi progressi della tecnica cinquecentesca
(sappiamo che riconobbe la grande importanza dello scritto di Agricola, da noi
accennato negli ultimi paragrafi del capitolo v1); si interessò pure vivamente dell'ampia letteratura magico-alchimistica (delle opere di Paracelso, di Cardano,
ecc.), contro la quale scagliò - e gliene va dato merito- numerose e ben circostanziate accuse; ma si lasciò sfuggire l 'importanza scientifica e filosofica
della nuova meccanica, della nuova astronomia e della nuova matematica, cioè
per l'appunto di quelle discipline i cui rapidi progressi stavano dando (nel Cinque e Seicento) i contributi più decisivi alla nascita della scienza moderna (nel
senso rigoroso di questo termine).
È un limite, quello ora accennato, che non impedì a Bacone di prender parte
- sia pure dall'esterno - alla grande rivoluzione scientifica che segna l'inizio
dell'era moderna, e anzi di occuparvi un posto eminente (posto di autentico profeta che riuscirà a far giungere la sua autorevole voce a generazioni e generazioni di studiosi, impegnati nella piena attuazione del nuovo programma scientifico). E tuttavia è un limite grave, che gli impedì di essere un diretto protagonista di tale rivoluzione.
Esso va tenuto presente da chi voglia comprendere e spiegare tal uni pericolosi
equivoci sorti, in tempi non molto lontani dai nostri, intorno al pensiero di Bacone. È probabile, infatti, che sia stato proprio tale limite a suscitare intorno a
Bacone l'interesse entusiastico di studiosi, il cui indirizzo filosofico (a impronta
idealistica) sta agli antipodi di quello baconiano. Così è accaduto che il più acceso
difensore del valore della scienza finì per diventare - col trascorrere dei secoli uno degli autori prediletti da chi nutriva per la scienza un sostanziale disprezzo
e nulla conosceva dell'autentica, complessa, storia della rivoluzione scientifica.
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CAPITOLO UNDICESIMO
Galileo Galilei
I
· VITA, OPERE E PERSONALITÀ DI GALILEO
Galileo Galilei nacque a Pisa il I 5 febbraio I 564 da antica famiglia fiorentina,
appartenente alla buona borghesia (un antenato paterno « magister Galilaeus de
Galilaeis » era stato, nella prima metà del Quattrocento, medico illustre e gonfaloniere di giustizia), ma alquanto decaduta da un punto di vista finanziario. Il
·padre Vincenzio, che era un valente musicologo oltreché un ottimo suonatore di
liuto, gli impartì fin dalla prima giovinezza un'educazione molto aperta, a carattere nettamente umanistico.
Immatricolato, nel I 58 1, all'università di Pisa come studente di medicina, si
dimostrò assai poco interessato a questa scienza e cominciò ben presto a coltivare,
in luogo di essa, la matematica studiandola con molto impegno - sotto la direzione di un amico del padre, Ostilio Ricci, già discepolo di Nicolò Tartaglia sulle grandi opere dei greci, in particolare di Euclide e di Archimede. Né soltanto
alla matematica teorica rivolse le sue cure; dimostrò al contrario, fin da quegli
anni, una grande propensione per la matematica applicata, la tecnica, e in genere
l'osservazione dei fatti empirici. Basti ricordare, a conferma di ciò, la celebre
scoperta dell 'isocronismo delle oscillazioni del pendolo, da lui compiuta nel I 58 3.
Dell'isocronismo continuerà a occuparsi per tutta la vita, cercando di dimostrarlo
per via matematica.
Mentre per la matematica, pressoché trascurata all'università di Pisa, aveva
dovuto cercarsi un maestro nell'ambiente di Firenze, non altrettanto accadde per
la fisica. Questa veniva infatti insegnata in tale università da un dotto professore
di formazione aristotelica, Francesco Bonamico; Galileo ne seguì i corsi e ne subì
per qualche tempo una certa influenza, come risulta dai suoi appunti risalenti a
quegli anni, che sono raccolti nell'edizione nazionale degli scritti galileiani sotto il generico titolo di luvenilia. Dal Bonamico apprese la cosmologia generale
di Aristotele e la centralità del problema del moto per tutta la scienza fisica.
Ritornato a Firenze nel I 58 5, trascorse quattro anni in famiglia, cercando di
arricchire le proprie conoscenze nei campi più diversi - matematico, filosofico,
letterario - in fecondo contatto con il vivace ambiente culturale frequentato dal
IjZ
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Galileo Galilei
padre. Nel I 586 inventò una bilancetta idrostatica per determinare il peso specifico dei corpi, scrivendo sull'argomento un breve ma interessante opuscolo che
porta appunto per titolo La bilancella. Nel I 587-8 8 si occupò del baricentro dei
corpi, dimostrando su di essi alcuni teoremi che verranno poi pubblicati nel
I638 in appendice ai Discorsi intorno a due nuove scienze. Sempre nel q88 tenne all'accademia fiorentina due Lezioni circa la figura, sito e grandezza dell'Inferno di
Dante per difendere l 'ipotesi del Manetti sulla topografia dell'Inferno dantesco;
tale difesa gli fornisce l'occasione di trattare alcuni precisi problemi geometrici,
nel cui esame Galileo dimostrò, per un lato, una rigorosa perizia matematica,
per l'altro, una perfetta padronanza del testo da interpretare.
Finalmente nel I 589 riuscì a ottenere, per l'appoggio di alcuni illustri scienziati dell'epoca che avevano appreso ad apprezzare il suo vivace ingegno (in particolare del matematico Guidobaldo del Monte), un posto di lettore di matematica presso l'università di Pisa. Così poté ritornare, come professore, in questa
gloriosa univerf>ità, che quattro anni prima aveva dovuto abbandonare senza avervi concluso alcun ciclo di studi.
L'insegnamento affidato a Galileo era, però, di carattere complementare, e
gli procurava una scarsissima retribuzione a mala pena sufficiente per vivere.
Due anni dopo, le ristrettezze finanziarie si fecero ancora più gravi per la prematura morte del padre e la conseguente necessità di aiutare la famiglia (Galileo era
il primogenito).
Intanto continuava a interessarsi vivamente di problemi letterari. Molto probabilmente risalgono a questo periodo pisano le Considerazioni sul Tasso o almeno
una parte di esse. Queste Considerazioni, come le Postille all'Ariosto (di data incerta), consistevano di varie annotazioni, ora aggiunte da Galileo a margine dei
volumi da lui posseduti della Gerusalemme liberata e dell'Orlando furioso, ora
scritte su fogli sparsi, intercalati fra le pagine di tali volumi. Inserendosi nel dibattito, allora di grande attualità, circa la superiorità artistica dell'Ariosto o del
Tasso, Galileo prende nettamente posizione a favore del primo, esaltandone la
meravigliosa fantasia e spregiudicatezza che non turbano l'armonia delle immagini e l 'unità organica del poema pur così vario, mentre rimprovera al secondo la
scarsezza di immaginazione e la lentezza dei versi.
Sempre al periodo pisano risale pure un « capitolo», Contro il portar la toga,
in cui il giovane professore sferza, con versi mordaci e irriverenti, i costumi accademici tradizionali e la mentalità retrograda che si cela sotto di essi.
Nel I 592 riuscì a migliorare notevolmente la propria situazione, ottenendo la
nomina a professore di matematica presso l 'università di Padova. Ben presto, però,
anche la nuova retribuzione si rivelò insufficiente, soprattutto a causa delle continue richieste di aiuto da parte della madre, delle sorelle e del fratello. Dovette
varie volte rivolgersi al governo veneziano, dal quale dipendeva l'università,
per avere anticipi di stipendio e anche veri e propri aumenti; pur avendoli atte153
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Galileo Galilei
nuti, non riuscì tuttavia a quadrare il proprio bilancio che facendo ricorso al
provento di lezioni extrauniversitarie, frequentate da numerosi e illustri discepoli, attratti a Padova dalla sua fama crescente.
Malgrado queste persistenti difficoltà, i diciotto anni trascorsi da Galileo a
Padova (159z-I6Io) furono senza dubbio i migliori della sua vita, sia a causa della
grande libertà di pensiero di cui poté godere - come del resto tutti i docenti di
quell'università - per la garanzia fornita dalla protezione della repubblica di
Venezia (si pensi al sicuro appoggio che questa diede al Cremonini, contro i vari
tentativi di incriminarlo per eresia, compiuti dal tribunale dell'inquisizione), sia
a causa del pieno vigore delle sue energie fisiche e mentali che gli permisero di
dedicarsi con tenacia ed entusiasmo alle più difficili ricerche scientifiche, senza
rinunciare perciò alle gioie della vita. In questo periodo Galileo convisse, pur
senza giungere a regolari nozze, con Marina Gamba da cui ebbe due figlie e un
figlio, verso i quali nutrì sempre il più grande affetto. Tra i molti amici veneziani
di Galileo ricordiamo, in particolare, il gentiluomo Gianfrancesco Sagredo (immortalato nei dialoghi galileiani) e Paolo Sarpi.
Le principali opere scritte da Galileo fra il I 592 e il I 6o9 sono le seguenti:
una Breve introduzione all'architettura militare e il Trattato di fortificazioni (composti
verso il I 593-94); Le mecaniche (composte probabilmente nel I 593 ma pubblicate
solo nel I634 in una traduzione francese dovuta al Mersenne); il Trattato della
sfera o Cosmografia (I 597) che espone il sistema tolemaico; Le operazioni del compasso geometrico e militare (I6o6) che diede luogo a un'aspra polemica da parte di
un certo Baldassarre Capra, il quale tentò di presentarsi come il primo inventore
dello strumento; la Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldassar Capra (I6o7),
con cui Galileo dimostrò l'infondatezza della pretesa del suo avversario.
A questi anni risalgono pure le prime dichiarazioni di Galileo a favore del
sistema copernicano; esse sono contenute in due lettere private del I 597, una diretta a Iacopo Mazzoni, professore di filosofia all'università di Pisa, l'altra a
Keplero. Anche le famose ricerche sulla caduta dei gravi, e la formulazione delle
leggi ad essa relative, vennero in gran parte compiute in questo periodo, come
è testimoniato da parecchie lettere private di Galileo datate appunto dai primi anni del Seicento; tali leggi verranno in seguito da lui rielaborate e precisate, formando uno dei principali argomenti esposti nei già citati Discorsi
del I638 ..
Al I6o9 risale infine la scoperta del cannocchiale, indubbiamente suggerita a
Galileo dalla notizia che strumenti del genere stavano diffondendosi nei Paesi
Bassi e in Francia. Questa circostanza non diminuisce affatto i meriti del nostro
autore, che vanno riferiti non tanto alla priorità dell'invenzione (è certo, del resto,
che il telescopio di Galileo riuscì assai più potente degli altri), quanto al fatto che
egli fu indubbiamente il primo ad attribuire al cannocchiale un effettivo valore
scientifico. Ricordiamo che vetri a forma di lenti erano noti da molto tempo agli
I
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Galileo Galilei
artigiani occhialai e da essi usati per la correzione dei difetti della vista, ma fino
a Galileo tutti i rappresentanti della scienza ufficiale li avevano sempre guardati
con sdegnoso disprezzo. Galileo invece ebbe il coraggio e l'intelligenza di servirsene per le proprie ricerche astronomiche, combinandoli con perizia sì da ottenere una potenza di ingrandimento per quei tempi veramente notevole. 1
Puntato il suo telescopio al cielo, Galileo ebbe la fortuna e la gioia di scoprirvi nuovi meravigliosi fenomeni, dei quali capì subito l'eccezionale importanza:
i quattro satelliti di Giove (da lui chiamati « medicei » in onore del granduca di
Toscana), le macchie della luna, le fasi di Venere. Era tutto un mondo nuovo
che per la prima volta giungeva a conoscenza degli uomini; Galileo diede la grande
notizia nel Sidereus nuncius (Avviso astronomico), pubblicato a Venezia il I2 marzo
I6Io. (Nello stesso anno si accorse che «l'occhiaie» poteva anche venire adattato alla visione da vicino, rivelandosi in grado di farci scoprire « minuzie »
altrimenti invisibili; riuscirà così, nel I 6 I 4, a compiere alcune osservazioni del
massimo interesse sulle mosche.)
Il carattere delle scoperte galileiane doveva, evidentemente, suscitare ostilità e diffidenza fra i pensatori più ligi alla tradizione. In breve volgere di tempo
ne sorse infatti un'aspra polemica, nella quale gli avversari di Galileo fecero ricorso contro di lui ad ogni sorta di armi: dall'accusa di aver semplicemente riprodotto un apparecchio già costruito da altri, a quella di avere cercato in cielo le cause
di luci e macchie che erano semplicemente dovute alla struttura difettosa delle
lenti (è un fatto, che queste erano allora assai difettose, e producevano immagini
ben lontane dalla chiarezza di quelle prodotte dai telescopi moderni). In breve,
però, Galileo riuscì a sbaragliare gli avversari e ad ottenere il riconoscimento
delle proprie scoperte da parte dei più autorevoli scienziati dell'epoca, prima di
tutti da Keplero, e in seguito anche dai potentissimi astronomi e filosofi della
compagnia di Gesù.
Le grandi scoperte comunicate nel Sidereus nuncius accrebbero enormemente
la sua fama e gli procurarono l'offerta di un magnifico posto da parte di Cosimo n
de' Medici: il posto, cioè, di «matematico straordinario dello studio di Pisa»
senza obbligo di lezioni, e di « filosofo del serenissimo granduca ». Era finalmente
la risoluzione del problema pratico di Galileo, da lui invano cercata per tanti
anni; il posto gli avrebbe consentito una notevole larghezza di mezzi finanziari,
senza la necessità di disperdere le proprie energie in lezioni pubbliche e private
(energie che stavano rapidamente declinando per gli anni e la malferma salute).
Galileo accettò, pur senza nascondersi la gravità del passo, che lo obbligava a
trasferirsi dalla libera repubblica di Venezia in una città ove la potenza dell 'inquisizione era enormemente maggiore.
I primi anni del periodo fiorentino furono molto intensi per l'attività scienti1
Maggiori notizie storiche sulla scoperta del cannocchiale verranno fornite nella sezione
I
55
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IV.
Galileo Galilei
fica di Galileo. Nel I 6 I I egli scrive, in polemica con gli aristotelici, il Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua o che in quella si muovono pubblicato nel I612.
Deve intanto affrontare una polemica con il padre Cristoforo Scheiner, che vantava la priorità della scoperta delle macchie solari (delle quali per verità Galileo,
pur avendole osservate, non aveva dato notizia che privatamente ad amici): su
di esse e sulla loro interpretazione egli scrive nel I6IZ a Mare Welser decunviro
di Augusta tre famose lettere pubblicate nel I 6I 3 e raccolte in un volumetto
dal titolo !storia e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti.
Nei due scritti ora citati la guerra fra Galileo e i sostenitori della cultura tradizionale è ormai condotta in modo aperto e intransigente. Gli è che il nostro autore,
rafforzato dalle proprie scoperte in campo astronomico e in meccanica, non ha
più dubbi sulla verità del sistema copernicano, e sulla rivoluzione che esso comporta in tutta la vecchia concezione del mondo. Proprio in quegli anni, però,
incominciano a diffondersi le prime accuse di eresia contro il copernicanesimo
galileiano: l'accusa è pubblicamente lanciata nel I612 da un padre domenicano,
Nicolò Lorini, e verrà ripetuta due anni più tardi da un altro domenicano, Tommaso Caccini. Galileo decide subito di intervenire contro queste voci minacciose,
e scrive in proposito le famose lettere copernicane, che pur essendo inviate a privati
vengono fatte appositamente circolare fra numerosi amici e conoscenti. Queste
lettere sono quattro: una indirizzata al frate Benedetto Castelli, discepolo di
Galileo e lettore di matematica a Pisa (I 6 I 3), due a monsignor Dini (febbraio e
marzo I6I 5) e infine una a madama Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana
(I6q). Esse affrontano il problema dei rapporti fra scienza e fede sotto aspetti
differenti: la prima sulla base della diversità fra il linguaggio scientifico e quello
biblico, la seconda e la terza con esplicito riferimento all'opera di Copernico, la
quarta con argomentazioni fondate sull'interpretazione del testo biblico.
Alcuni potenti amici di Galileo, assai vicini al sommo pontefice, lo avevano
avvertito che le massime gerarchie ecclesiastiche si stavano orientando contro il
copernicanesimo. Malgrado i loro consigli a trattare l'argomento con la dovuta
cautela, egli volle affrontarlo con la massima decisione. Donde derivava questa
sua imprudenza?
Per comprenderne l'effettivo significato, dobbiamo tenere conto di tre circostanze: I) Galileo era assolutamente certo della verità fisica del sistema eliocentrico e non era quindi disposto a considerarlo quale pura ipotesi matematica
(come veniva suggerito dal potente cardinale Bellarmino); z) non era filosoficamente disposto ad ammettere, come gli aristotelici padovani, la coesistenza di
verità tra loro antitetiche; 3) ancor meno era disposto a considerare (come i libertini) la religione quale puro e semplice complesso di regole pratiche, inventate
per dominare i popoli e ingannare gli ingenui. Al contrario, egli era convinto
della possibilità di dimostrare che i testi sacri non contengono - se bene interpretati- alcuna affermazione in reale antitesi con la verità copernicana.
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Galileo Galilei
Questo stato di cose non basta, però, a spiegare perché mai egli non si sia
accontentato - come gli consigliavano gli amici - di tenere per sé la propria
convinzione, analogamente a ciò che facevano altri scienziati dell'epoca, discorrendone tutt'al più in una ristretta cerchia di conoscenti, senza discuterne in pubblico e senza sfidare quasi apertamente le ire degli inquisitori romani. È evidente
che a decidere l'atteggiamento di Galileo intervennero altri fattori.
Da un lato i successi organizzativi della controriforma dovevano averlo
convinto dell'enorme peso dell'organizzazione cattolica nel campo culturale e
della necessità di impedire che questa organizzazione si ponesse erroneamente
contro la scienza. Dall'altro, il riconoscimento ottenuto - da parte delle autorità
ecclesiastiche più elevate - delle proprie scoperte astronomiche (esistenza dei
satelliti di Giove, ecc.) doveva avergli fatto sperare che un riconoscimento analogo sarebbe stato ottenibile anche per altri risultati scientifici. Infine, la coscienza
della propria grande autorità in campo scientifico, ormai universalmente riconosciuta, doveva fargli sentire l'imprescindibile dovere di esporre le ragioni della
scienza nella grande controversia.
Ecco dunque delinearsi, nell'animo di Galileo, l'ambizioso programma di
evitare l'irrigidimento della chiesa in una posizione scientificamente sbagliata.
Bisognava, evidentemente, non fermarsi alle prime difficoltà sollevate in buona o
mala fede dagli inquisitori, persistere con cautela nell'opera di chiarificazione,
appoggiarsi agli uomini di mente più aperta esistenti anche nelle maggiori gerarchie della chiesa. Alla fine - pensava Galileo - la forza delle argomentazioni
avrebbe ottenuto il sopravvento, e la scienza avrebbe trovato nella potenza della
chiesa, non un ostacolo, ma un appoggio al proprio sviluppo.
Nel dicembre I 6 I 5 si recò a Roma per difendere personalmente la propria
tesi. Era pieno di fiducia, sia perché sicuro del valore scientifico della teoria copernicana, sia per gli autorevoli appoggi che era riuscito a procurarsi. Le cose
si svolsero però in modo ben diverso da quello sperato. La sua appassionata difesa non fece che accelerare la decisione contraria dell'autorità ecclesiastica. La
teoria copernicana fu dichiarata incompatibile con la fede cattolica e i libri che
ne sostenevano la compatibilità vennero condannati; l'opera di Copernico «sospesa » fino a correzione. Le lettere copernicane di Galileo, essendo private,
non furono incluse nell'elenco dei libri colpiti dalla condanna; egli· fu però ammonito a non interessarsi ulteriormente della questione. Un verbale - sulla cui
autenticità storica si possono tuttavia sollevare molti dubbi - dice che gli fu ufficialmente ingiunto di non più accogliere la teoria copernicana, né insegnarla, o
farla oggetto di dimostrazione in qualsiasi modo, a parole o con scritti; secondo
tale verbale, Galileo avrebbe acconsentito e promesso di obbedire.
La sconfitta appariva dunque completa. Essa non era però tale da far desistere Galileo dalla prosecuzione, sia pure più cauta, del programma di «politica
culturale » poco sopra delineato.
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Galileo Galilei
Nel 1619 comparvero in cielo tre comete, e questo fatto straordinario riaccese le discussioni sulla loro natura. Nel 1619 il padre gesuita Orazio Grassi pubblicò sull'argomento un'opera in cui riprendeva e sosteneva l'interpretazione di
Tycho Brahe. Galileo volle approfittarne per entrare in polemica con lui; egli
era convinto che la colpa dell'atteggiamento anticopernicano assunto dalla chiesa
risalisse sostanzialmente al potente ordine ed ora intendeva gettare il discredito
scientifico su tutti i gesuiti. Così nacque Il sa,ggiatore, pubblicato nel 1623. L'interpretazione del fenomeno delle comete ivi proposta da Galileo era sbagliata
(essa riprendeva una vecchia tesi della fisica aristotelica), ma lo spirito innovatore
che pervade tutto lo scritto, la chiarezza della visione metodologica, l'acume delle
argomentazioni ne fanno ciò malgrado un vero capolavoro.
Nel medesimo anno l'elezione alla cattedra di Pietro del cardinale Barberini
(Urbano vm) fece sorgere nello scienziato pisano nuove speranze, sembrandogli
naturale che un uomo di mente così aperta come il Barberini, a cui egli era legato
da una certa dimestichezza, avrebbe appoggiato il suo sforzo per far uscire la
chiesa dalla posizione reazionaria che i gesuiti le avevano fatto assumere. (A dimostrazione dello spirito aperto del nuovo papa, si ricordi la benevolenza che egli
usò- fra il 16z6 e il '3o- verso il Campanella.)
Ripreso l'antico programma, Galileo si decise pertanto a condurre a termine
una grande opera, diretta a porre a confronto gli argomenti scientifici a sostegno
delle due tesi contrastanti, geocentrica ed eliocentrica. Per dare alla trattazione
un'apparenza di neutralità, scelse la forma dialogica, immaginando che un aristotelico (Simplicio) e un copernicano (Salviati) fossero stati invitati ad esporre
ciascuno la propria concezione, da un terzo interlocutore (Sagredo) non desideroso di altro che di conoscere a fondo i termini esatti della grande controversia.
Ottenuta, con questo stratagemma, l'autorizzazione ecclesiastica, il Dialogo sopra
i due massimi sistemi del mondo poté uscire nel 1632.
Ma i gesuiti attendevano al varco il loro avversario e subito scatenarono
contro di lui la più dura battaglia. Allo scienziato vecchio e malaticcio venne ingiunto di recarsi a Roma per comparire dinanzi al tribunale del sant'uffizio. Invano
egli cercò di difendere, con ogni mezzo, la propria posizione; invano cercò di
evitare che la chiesa pronunciasse una sentenza, che avrebbe pesato per secoli e
secoli contro di lei. I suoi avversari sostenevano con accanimento che il libro
era «esecrando e più pernitioso per la chiesa delle Scritture di Lutero e di Calvino ». Galileo fu processato, riconosciuto colpevole e costretto ad abiurare. Fu
inoltre condannato alla prigione a vita, immediatamente tramutata in isolamento
dal mondo, prima a Siena (nell'abitazione dell'arcivescovo della città, suo amico),
e poi nella propria villa di Arcetri.
La vittoria dei gesuiti non poteva essere più netta; essa segnò la fine del programma, tenacemente coltivato da Galileo per anni e anni, di indurre la chiesa
a riconoscere la libertà della scienza. Ai futuri scienziati cattolici non restava or-
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Galileo Galilei
mai altra via, che quella di evitare con la più scrupolosa cautela qualunque dibattito con l'autorità ecclesiastica. Il fallimento del proprio programma gettò nell'animo di Galileo una profonda amarezza, che non lo abbandonò più fino alla
morte. Unica consolazione rimase, per lui, l'affetto dei familiari, soprattutto
della figlia Virginia (suor Maria Celeste). Essa tuttavia mori nel I634 ed un
nuovo gravissimo dolore si aggiunse all'animo, già affranto, del grande scienziato.
Col trascorrere del tempo, i divieti dell'inquisizione vennero a poco a poco
attenuati. Galileo ottenne il permesso di scendere qualche volta da Arcetri a Firenze, e poté anche ricevere la visita di qualche straniero (per es. di Hobbes nel
I636). Ma la salute peggiorava irrimediabilmente; soprattutto grave fu la perdita
pressoché completa della vista. Malgrado tante disgrazie, egli trovò tuttavia la
forza d'animo di proseguire con immutato acume scientifico le proprie ricerche,
pubblicando nel I638 (in Olanda, presso il celebre editore Lodewijk Elzevier)
quella che è forse - dal punto di vista scientifico - la maggiore delle sue opere:
Discorsi e dimostrazioni matematiche itttorno a due nuove scienze.
Anche quest'opera, come quella del I6p., presenta forma dialogica fra i
medesimi interlocutori (Simplicio, Salviati, Sagredo); e reca, come già sappiamo,
un'appendice sui baricentri. Essa si svolge in quattro giornate; una quinta e una
sesta verranno pubblicate postume (nella sesta non comparirà più Simplicio, comparirà invece un nuovo interlocutore, Paolo Aproino, che fu discepolo e amico
di Galileo). Le due nuove scienze di cui parla il titolo sono: la resistenza dei materiali e la dinamica. Particolare importanza hanno le giornate terza e quarta, dedicate a quest'ultima; esse riprendono argomenti già studiati da Galileo a Padova,
approfondendoli notevolmente e dando loro una elevata forma matematica.
Da un punto di vista formale, i Discorsi non discutono più il sistema copernicano; in realtà, però, ne costituiscono un 'ulteriore validissima difesa, in quanto
eliminano definitivamente le obiezioni di carattere meccanico che gli avversari
elevavano contro di esso. Come ha scritto il Timpanaro, i Discorsi « non sono
meno copernicani del Dialogo dei massimi sistemi. I teologi non li condannarono
perché non li avevano capiti ».
Anche dopo il I638 Galileo continuò a occuparsi attivamente di problemi
scientifici, nei limiti concessigli dalla sua salute; coadiuvato, a partire dal I639,
da Vincenzo Viviani e negli ultimi mesi anche da Evangelista Torricelli. Si spense
1'8 gennaio I 642.
II
· COMPITI E CARATTERI DELLA SCIENZA FISICA
Compito essenziale della scienza fisica è, secondo Galileo, la conoscenza della
natura. Questa però non dovrà consistere, come ritenevano gli aristotelici, nella
conoscenza delle essenze dei fenomeni, bensì nella determinazione delle leggi che
regolano il loro corso.
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Galileo Galilei
La conoscenza delle essenze era ritenuta necessaria, perché si pensava che
esse costituissero le cause (nel senso metafisica di questo termine) degli eventi
naturali; e la scienza doveva proprio distinguersi dalle conoscenze volgari, in
quanto non rivolta unicamente, come queste ultime, alla descrizione di ciò che
accade nel mondo, ma rivolta a cogliere i motivi profondi del perché i singoli
accadimenti avvengono in un certo modo anziché in un altro. La scienza, insomma, poteva meritare il nome di scienza solo in quanto era una conoscenza per
causas.
Il distacco fra le due posizioni non poteva risultare più netto. Ecco per esempio le parole che Galileo fa pronunciare a Salviati (terza giornata dei Discorsi)
nell'atto in cui legge e spiega agli interlocutori un trattato in latino, dal titolo
De motu locali, del « nostro accademico », cioè di Galileo, e precisamente spiega
il modo seguito in tale trattato per studiare il moto naturalmente accelerato dei
gravi che cadono verso terra: «Non mi par tempo opportuno di entrare al presente nell'investigazione della causa dell'accelerazione del moto naturale, intorno
alla quale da varii filosofi varie sentenzie sono state prodotte, riducendola alcuni
all'avvicinamento al centro, altri a restar successivamente manco parti del mezo
da fendersi, altri a certa intrusione del mezo ambiente, il quale, nel ricongiungersi
a tergo del mobile, lo va premendo e continuamente scacciando; le quali fantasie
con altre appresso, converrebbe andare esaminando e con poco guadagno risolvendo. » Invece di perdersi a discutere tali « fantasie », lo scienziato si limiterà
a studiare le «passioni», cioè il comportamento del moto in esame, qualunque
abbia ad essere la causa che lo produce. « Per ora basta al nostro Autore che noi
intendiamo che egli ci vuole investigare e dimostrare alcune passioni di un moto
(qualunque si sia la causa che lo produce) talmente, che i momenti della sua velocità vadano accrescendosi, dopo la sua dipartita dalla quiete, con quella semplicissima proporzione con la quale cresce la continuazione del tempo, che è quanto
dire che in tempi eguali si facciano eguali additamenti di velocità. » Si osservi
che quel « per ora » è puramente pleonastico, perché Galileo non vorrà mai trovare il tempo per aggiungere, all'indagine sulle« passioni» del moto, anche quella
sulle sue cause.
La svolta testé accennata è così importante, che ne verrà fuori una nuova
concezione - scientifica, non più metafisica - del rapporto causale, inteso come
successione necessaria tra due fenomeni: il fenomeno-causa e il fenomeno-effetto
(tale cioè che, tolto il primo, debba venir meno anche il secondo). Come vedremo
nel volume m, questa definizione starà alla base della critica humiana del concetto
di causalità. Qui possiamo sottolineare due fatti: 1) che essa richiama alla mente
la concezione della causalità sviluppata e discussa dagli occamisti, con la differenza che questi la svolgevano su di un piano filosofico mentre Galileo la mantiene
su di un piano rigorosamente scientifico; 2) che la definizione galileiana ebbe tra
l'altro il merito di liberare il concetto fisico di causalità da ogni riferimento antrox6o
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Galileo Galilei
pomorfico e quindi da ogni indagine sui « fini » della natura, sul « significato »
dei singoli fenomeni nell'ordine complessivo dell'universo, ecc. (l'astronomia,
per es., deve indagare le leggi meccaniche regolanti il moto di Giove e Saturno,
non chiedersi a che cosa servano questi due pianeti, quale sia il loro scopo nei
piani generali del creatore).
Quanto ora detto non va inteso nel senso che la scienza dovesse avere, per
Galileo, il solo compito di « descrivere » i fenomeni. Al contrario, egli pensa che
la scienza debba anche « spiegarli », in un nuovo senso però del termine « spiegazione». Spiegare un gruppo di fenomeni significa, secondo il nostro autore,
costruire una teoria di tipo matematico (costituita cioè di definizioni generali,
assiomi e teoremi) dalla quale possa venir dedotto il comportamento dei fenomeni stessi. Ciò appunto egli è riuscito a fare per i fenomeni del moto locale.
Galileo sa molto bene che gli assiomi e le definizioni generali non saranno,
salvo casi eccezionali, ricavati dall'esperienza, anzi il più delle volte non potranno
neanche venire in essa controllati. Questo controllo risulterà impossibile, ad esempio, per la definizione generale di moto naturalmente accelerato, la quale usa concetti infinitesimali come quelli di velocità all'istante e di accelerazione (concetti
che gli epistemologi moderni qualificano come irriducibilmente « teorici »); anzi
l'assioma o la definizione generale potranno, a un primo esame, apparire addirittura contrari all'esperienza, come per l'appunto accade per la definizione testé
citata. «Mentre io mi v o figurando, » obietta Sagredo a Salviati, «un mobile grave descendente partirsi dalla quiete ... entrare nel moto, ed in quello andarsi velocitando secondo la proporzione che cresce il tempo dal primo istante del moto, ed
avere, verbigrazia, in otto battute di polso acquistato otto gradi di velocità, della
quale nella quarta battuta ne aveva guadagnato quattro, nella seconda due, nella
prima una, essendo il tempo subdivisibile in infinito, ne seguita che, diminuendosi
sempre con tal ragione l'antecedente velocità, grado alcuno non sia di velocità
così piccolo ... nel quale non si sia trovato costituito l'istesso mobile dopo la partita ... dalla quiete: tal che, se quel grado di velocità ch'egli ebbe alle quattro battute di tempo, era tale che, mantenendola eguabile, avrebbe corso due miglia in
un'ora, e co'l grado di velocità ch'ebbe nella seconda battuta avrebbe fatto un
miglio per ora, convien dire che ne gl'instanti di tempo più e più vicini al primo
della sua mossa dalla quiete si trovasse così tardo, che non avrebbe (seguitando
di muoversi con tal tardità) passato un miglio in un'ora, né in un giorno, né in
un anno, né in mille, né passato anco un sol palmo in tempo maggiore; accidente
al quale pare che assai mal agevolmente s'accomodi l'immaginazione, mentre che
il senso ci mostra un grave cadente venir subito con gran velocità. » Anche in tale
caso, però, la teoria fondata su assiomi così lontani dall'esperienza potrà - secondo Galileo- risultare un'autentica teoria scientifica, purché soddisfi alla condizione che le conseguenze rigorosamente dedotte dai principi anzidetti trovino
conferma nell'esperienza. In altri termini: non è necessario che tutte le proposi-
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Galileo Galilei
zioni della teoria risultino aderenti ai fatti; è necessario invece che tutti i fatti del
campo di fenomeni studiati risultino inquadrabili nella teoria.
Quanto ora detto ci fornisce l'occasione di fissare le differenze esistenti,
secondo Galileo, fra teoria fisica e teoria matematica pura. Quest'ultima non richiede alcun controllo dell'esperienza, continuando a valere indipendentemente
dal fatto che le figure studiate esistano o non esistano nella realtà; quella invece
si propone, in modo essenziale, di giungere ai fenomeni, e se le sue conseguenze
non trovano in essi conferma, cessa di avere valore scientifico.
Nel primo dei due lunghi brani poco sopra citati, Salviati- dopo aver chiarito
che l'autore del De motu locali non indaga le cause, ma solo le «passioni» del
moto antecedentemente definito in via del tutto astratta, cioè del moto in cui la
velocità risulti proporzionale al tempo- aggiunge: «E se s'incontrerà che gli accidenti che poi saranno dimostrati si verifichino nel moto de i gravi naturalmente
descendenti ed accelerati, potremo reputare che l'assunta definizione comprenda
cotal moto de i gravi, e che vero sia che l'accelerazione loro vadia crescendo secondo che cresce il tempo e la durazione del moto. »
Ma se questa fortunata circostanza non si verificasse? Se gli « accidenti »
che logicamente derivano dai principi della teoria non si verificassero nella realtà?
Galileo non ha dubbi nel rispondere che, in questo caso, la teoria conserverebbe
soltanto un valore matematico, non più fisico; conserverebbe cioè un valore molto
grande nel campo delle idee astratte (un valore senza dubbio capace di giustificare
ampiamente la nostra fatica nel costruirla), ma non un valore esplicativo dell'esperienza. In altri termini, egli non ha difficoltà ad ammettere che la sua teoria del
moto è un 'argomentazione ex suppositione, e che in quanto tale (cioè in quanto
discorso teorico) non ha bisogno di verifiche: « Tornando al mio trattato del
moto,» scrive in una famosa lettera a Baliani del 1639, «argomento ex suppositione sopra il moto, in quella maniera diffinito; sicché quando bene le conseguenze
non rispondessero alli accidenti del moto naturale, poco a me importerebbe, siccome nulla deroga alle dimostrazioni di Archimede, il non trovarsi in natura alcun
mobile che si muova per linee spirali »; subito dopo aggiunge però di avere avuto la fortuna che le conseguenze della propria teoria trovino rispondenza nei
fatti, e così questa assume un autentico valore fisico: « Ma in questo io sarò stato,
dirò così, avventurato, perché il moto dei gravi et i suoi accidenti rispondono puntualmente alli accidenti dimostrati da me del moto da me definito. » Concludendo: il discorso ex suppositione possiede senza dubbio un altissimo valore matematico, ma non potrà mai portarci a trascurare i fenomeni, a credere che essi si comportino diversamente da come effettivamente si comportano; esso deve condurci
a capire l'esperienza, non a fare a meno di essa. Nel Dialogo Galileo aveva scritto:
«Quello che l'esperienza e il senso ci dimostra si deve anteporre ad ogni discorso,
ancorché ne paresse assai ben fondato. »
Ormai credo che risulti abbastanza chiara l'importante funzione spettante
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Galileo Galilei
alla matematica nell'elaborazione della scienza fisica: essa ci permette di formulare
con estrema esattezza i principi delle teorie, e di determinare con assoluto rigore
le conseguenze da essi deducibili. In tal modo ci pone in grado di non ripudiare
'una concezione solo per il fatto che a prima vista essa ci appare contraria all'esperienza; prima di decidere se essa corrisponda o no ai fatti, occorrerà precisare il
significato delle conseguenze particolari ricavabili dalla teoria stessa: più a fondo sarà condotto questo lavoro di precisazione, più sicura sarà la risposta all'ultima, decisiva, domanda: se esse risultino o no confermate dall'esperienza.
Alla precisazione testé accennata del significato e della portata delle proposizioni particolari, ricavabili da una teoria, deve però corrispondere una parallela
precisazione dei dati osservati. Potrebbe anche accadere, infatti, che l'esperienza
sembrasse smentire una di tali proposizioni, solo perché non siamo stati capaci di
registrare con esattezza i dati empirici. Di qui l'importanza di perfezionare la nostra osservazione, vuoi con l'uso di precisi strumenti di misura capaci di descrivere i dati quantitativamente anziché qualitativamente, vuoi potenziando i nostri
sensi con opportuni strumenti (per esempio con il telescopio e il microscopio),
vuoi ancora introducendo opportuni accorgimenti i quali ci permettano di ripetere l'esperienza in condizioni di più agevole controllo (per esempio facendo rotolare un grave lungo un piano inclinato, ove assumerà un'accelerazione minore,
anziché lasciando}o cadere a terra verticalmente).
Galileo è stato un incomparabile maestro nel fornire esempi efficaci di tutti
e tre i tipi di perfezionamento dell'osservazione, testé menzionati; con questi
esempi ha aperto una via che sarà arditamente seguita da tutti gli scienziati moderni e li condurrà a straordinari successi. È una via che richiede l'uso shìtematico,
in campo scientifico, dei più raffinati suggerimenti della tecnica, e che viene quindi
a stabilire un sicuro ponte fra il lavoro dello scienziato e quello del tecnico.
Il contatto fra scienza e tecnica non si riduce però soltanto a quello ora
accennato, che implica un dare da parte della tecnica e un ricevere da parte della
scienza. Al contrario, nell'epoca moderna, si verificherà ancora più spesso un
rapporto inverso: sarà cioè lo scienziato a fornire precise istruzioni al tecnico,
indicandogli la via per risolvere i più difficili problemi.
Ancora una volta, ciò che rende possibile questo ausilio dello scienziato al
tecnico, è l'aspetto matematico della scienza; è la capacità della scienza di ricavare - dai suoi principi generali - delle risposte estremamente precise, adeguate
alle circostanze specifiche in cui si presentano i singoli quesiti tecnici. Galileo comprese questo inestimabile merito della tratta~ione matematica, e comprese che
ogni successo applicativo delle teorie scientifiche avrebbe costituito una concreta
efficacissima conferma della loro validità. I successivi progressi della scienza e
della tecnica hanno ampiamente confermato la sua intuizione.
La grande eredità del rinascimento è qui presente in Galileo: essa gli insegna che la scienza non può rinchiudersi in sé, non può isolarsi dal mondo.
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Il vero scienziato deve saper utilizzare, nelle proprie indagini, le più vaste esperienze umane: deve saper razionalizzare i risultati dei più umili lavoratori, e
trovare conferma alle proprie verità in applicazioni che possano venire apprezzate
anche dai non-scienziati.
Teoria e pratica non risultano più separate da un abisso: esiste invece un continuo interscambio fra esse. Tanto più la scienza è radicata nella pratica, tanto
maggiore è la sua forza di conquista del mondo. L'idea di una scienza sterile, puramente contemplativa, è abbandonata: l'applicazione non è più considerata come un sottoprodotto della ricerca scientifica, ma inserita nella stessa scienza.
Hanno un valore particolarmente sintomatico, da questo punto di vista, i tentativi
(pur falliti) di Galileo al fine di trovare un'applicazione della sua stessa scoperta
dei satelliti di Giove per la determinazione della longitudine.
Possiamo dunque riassumere i caratteri della scienza galileiana in due punti
fondamentali: rigore dell'indagine scientifica e sua apertura verso il mondo
della tecnica. L'esigenza del rigore viene soddisfatta dall'uso sistematico della
matematica nello sviluppo teorico della fisica, e dall'uso sistematico di apparecchi
sperimentali sempre più potenti e precisi nel campo dell'osservazione. L'esigenza di apertura verso la tecnica viene soddisfatta dal doppio sforzo dello scienziato,
per un lato di utilizzare tutte le scoperte dei tecnici (esemplare per questo aspetto
l'utilizzazione compiuta da Galileo dei suggerimenti che gli provenivano dagli
artigiani occhialai), e per l'altro di utilizzare le proprie scoperte per la risoluzione
di problemi tecnici (tutti i Discorsi sono da questo punto di vista estremamente
istruttivi, tant'è che qualche studioso moderno ha voluto vedere in essi un vero
e proprio trattato di ingegneria). Sulla base di questi caratteri, Galileo è sicuro che
la scienza sarà in grado di risolvere ogni difficoltà, di superare ogni ostacolo:
« Quanto alla scienza stessa, » egli scrive, « ella non può se non avanzare. »
Ma donde traeva Galileo la sicurezza che l 'indagine scientifica, se svolta nei
termini e nei modi testé delineati, avrebbe effettivamente condotto la ragione
umana a scoprire le leggi che regolano i fenomeni naturali? E - quesito ancora
più grave - donde traeva la sicurezza che la natura sia veramente regolata da
leggi, non sia un insieme caotico e irrazionale di eventi? Discuteremo queste domande negli ultimi due paragrafi del capitolo.
III
· CRITICA DEL PRINCIPIO D'AUTORITÀ
Dalla concezione della scienza delineata nel paragrafo precedente si ricava
che essa non può sottostare ad alcuna autorità diversa da quella della ragione
(che le impone soltanto, come spiegammo, coerenza interna e scrupoloso rispetto
dei dati empirici). È ben comprensibile, dunque, che tutta la battaglia di Galileo
per il trionfo della scienza implicasse una parallela battaglia contro il principio
d'autorità.
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Galileo Galilei
Tale principio era soprattutto operante, nell'epoca di Galileo, lungo due direttrici: quella della tradizione religiosa e quella della tradizione filosofica. Due
sono dunque gli aspetti della lotta tenacemente combattuta contro di esso dal
nostro pensatore.
La lotta contro le intrusioni dell'autorità religiosa nella ricerca scientifica
costituisce il sottofondo della politica culturale di cui parlammo nel paragrafo 1. Come abbiamo cercato di spiegare illustrando tale politica, Galileo non
nega che l'autorità religiosa sia in possesso di un prezioso patrimonio di verità:
quellé rivelatele direttamente da dio. Ciò che egli nega, è che questo patrimonio
esaurisca tutta la verità, e che pertanto i testi sacri ci offrano l'unica via per
giungere al vero. Secondo lui oltre a questa via, e ben distinta da essa, vi è anche
la via della ricerca scientifica.
Ma chi può escludere a priori un conflitto fra le due? Galileo ritiene che esso
sia oggettivamente impossibile proprio perché entrambe le vie possono condurci
solo alla verità e non all'errore. In altre parole, egli sembra ammettere, con
Tommaso, che le verità raggiunte dall'una o dall'altra via, là ove riguardino gli
stessi argomenti, debbono in ultima istanza coincidere necessariamente fra loro.
Egli rovescia però la posizione del pensatore medievale: ritiene, cioè, che se
sorgesse tra le verità religiose e quelle scientifiche un apparente contrasto, l'uomo
dovrebbe partire ·- per risolverlo - non già dalla presunzione tomistica che sia
errata la scienza e vera la religione, ma dalla franca e completa accettazione dei
risultati della scienza, con la riserva di rivedere l'interpretazione dei testi sacri
sui quali si appoggiano i dogmi, potendo - proprio essa - risultare la causa del
loro contrasto con la scienza. Natura e Bibbia, spiega il filosofo nelle lettere copernicane, derivano dallo stesso verbo divino: la natura come osservantissima esecutrice degli ordini di dio, la Bibbia come libro ispirato dallo spirito santo. Senonché, nella Bibbia, la parola di dio ha dovuto adattarsi all'intelletto degli
uomini cui era diretta; nella natura, invece, la volontà di dio si attua con inesorabile necessità. È inutile, quindi, voler conoscere la natura attraverso la sacra
scrittura; più giusto è, se necessario, servirsi delle leggi naturali per comprendere
il vero significato di talune espressioni, necessariamente velate, della Bibbia.
Ecco per esempio le parole che Galileo scrive a Elia Di oda ti nel gennaio 16 33,
riferendosi alla lotta che il Framondo sta combattendo contro il copernicanesimo: « Quando il Framondo o altri haves se stabilito che il dir che la Terra si
muove fosse heresia, e che le dimostrazioni, osservationi e necessari riscontri
mostrassero lei muoversi, in che intrigo havrebbe egli posto se stesso e santa
chiesa? » E altrove ribadisce: « Se la Terra si muove de facto, noi non possiamo
mutar la natura e far che ella non si muova. »
A prima vista questa posizione può apparire moderata e anzi piena di rispetto verso la chiesa; in realtà essa esprimeva però il più franco e assoluto riconoscimento del valore della scienza e della sua piena autonomia di fronte al
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dogma. Se i teologi si rifiutavano di accoglierla, il loro rifiuto era tutt'altro che
immotivato: essi temevano che, una volta resa autonoma, la scienza avrebbe
finito per invadere anche il campo della morale e della religione, che Galileo
riteneva di poter riservare alle verità rivelate.
Passando al secondo aspetto della battaglia di Galileo contro il principio
d'autorità, basterà dire che egli rivendica alla ricerca scientifica una piena e completa autonomia, non solo rispetto al dogma, ma pure rispetto al patrimonio
tradizionale della filosofia e in genere della cultura. Autonomia significa, per lui,
«indipendenza», non« opposizione»; egli infatti non prova alcun senso.d'insofferenza verso i grandi pensatori dell'antichità. Li studia, anzi, con il massimo
scrupolo, e non solo Euclide ed Archimede, ma anche Platone ed Aristotele;
riserva, invece, tutto il suo disprezzo per i seguaci pedissequi di tali pensatori,
cioè verso quelli che considerano gli antichi (in particolare Aristotele) come
depositari assoluti della verità. In realtà - obietta loro - il vero discepolo di
Aristotele è lui (Galileo), non essi (i presunti aristotelici). Se infatti Aristotele
tornasse in vita, praticherebbe il suo metodo di indagine, non il loro: e cioè
per conoscere la natura, interrogherebbe direttamente i fenomeni naturali, non
i testi che parlano di tali fenomeni. « Voglio aggiungere per ora questo solo, »
scrive a Liceti, « che io mi rendo sicuro che se Aristotele tornasse al mondo,
egli riceverebbe me tra i suoi seguaci... molto più che moltissimi altri che, per
sostenere ogni suo detto per vero, vanno esplicando da i suoi testi concetti
che mai non li sariano caduti in mente. E quando Aristotele vedesse le novità
scoperte novamente in cielo, dove egli affermò quello essere inalterabile et immutabile, perché niuna alterazione vi si era allora veduta, indubitatamente egli,
mutando opinione, direbbe ora il contrario. »
In altri termini: per autorevole che sia il libro di un filosofo o di un poeta,
più autorevole di esso è il libro della natura, che, solo, può fornirci delle verità
realmente sicure quando sappiamo interpretarlo con rigoroso metodo scientifico.
Polemizzando con il Sarsi (pseudonimo di Orazio Grassi) Galileo scrive nel Saggiatore : « Parmi di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all'opinione di qualche celebre autore ... ; e forse stima che la
filosofia sia un libro e una fantasia d'un uomo, come l'Iliade o l'Orlando furioso,
libri ne' quali la meno importante cosa è che quello che vi sia scritto sia vero.
Sig. Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro
che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non
si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri,
ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli,
cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne
umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. »
La contrapposizione fra sapere scientifico e cultura ex libris non poteva venire
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Galileo Galilei
espressa in forma più efficace. Essa è uno dei temi che ritornano più frequentemente in tutte le opere di Galileo; la ricerca scientifica si vale di ciò che sta scritto
nei libri, ma va decisamente al di là di essi. Se tutti i libri del passato sostenessero
unanimemente una tesi, e l'esperienza ci mostrasse che questa tesi è falsa, noi
dovremmo attenerci ai dati dell'esperienza (letti attraverso la matematica), non
a ciò che insegnano tali libri. «Tra le sicure maniere per conseguire la verità è
l'anteporre l'esperienza a qualsivoglia discorso, essendo noi sicuri che in esso,
almanco copertamente, sarà contenuta una fallacia, » qualora sia in contrasto con
i dati empirici, « non essendo possibile che una sensata esperienza sia contraria
al vero; e quanto è pure precetto stimatissimo da Aristotele e di gran lunga
anteposto al valore et alla forza dell'autorità di tutti gli huomini del mondo.»
Lotta intransigente contro il principio d'autorità e lotta per l'attuazione di
una scienza autenticamente fondata sulle sensate esperienze e sulle certe dimostrazioni, non sono che due facce della medesima battaglia per il rinnovamento del
sapere.
IV · CONTRIBUTI SCIENTIFICI
Sarebbe ora giunto il momento di elencare i principali contributi effettivamente dati da Galileo al progresso del sapere scientifico. Trattandosi però di
contributi universalmente noti, perché facenti parte ormai da lungo tempo del
patrimonio culturale del mondo moderno, potremo !imitarci a brevissimi cenni.
Le sue principali scoperte scientifiche riguardano la meccanica e l'astronomia.
Per quanto concerne la prima di queste due scienze, spetta a Galileo l 'incomparabile merito di aver dato inizio alla dinamica nella sua struttura moderna
(i grc;ci, in particolare Aristotele e Archimede, avevano stabilito i principi scientifici della statica, ma non della dinamica). Fra quelli che oggi portano il nome
di «principi fondamentali della dinamica» (vedremo nella sezione IV che è stato
Newton a riconoscere loro questa funzione basilare nell'assetto di tale scienza),
i primi due vennero sostanzialmente scoperti da Galileo. Anche se egli non si
preoccupò .mai di dare l'enunciato generale del primo (il principio di inerzia),
è certo che ne afferrò la validità e l'importanza, vuoi parlando ripetutamente
della costanza della velocità iniziale di un qualsiasi mobile (qualora non intervengano forze esterne a modificare il suo moto), vuoi determinando come si
compone questa velocità iniziale costante con le velocità variabili prodotte da
forze acceleratrici estranee, sopraggiunte d~rante il corso del movimento. Galileo comprese la possibilità di applicare questa composizione anche ai casi in
cui le forze sopraggiunte non hanno la stessa direzione del moto iniziale; ne
ricavò, in particolare, la spiegazione del moto dei proietti.
Va tuttavia osservato che Galileo non si rese ancora perfettamente conto
che il moto circolare non è inerziale, richiedendo la presenza di una forza centri-
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Galileo Galilei
peta. Questo errore fu, però, almeno in un primo tempo, tutt'altro che dannoso:
esso eliminò infatti la tentazione di ricorrere, come facevano gli aristotelici,
a cause non fisiche per spiegare il moto dei pianeti (di ricorrere, per esempio,
al primo motore). Toccherà a Huygens il merito di studiare con esattezza le
forze centripete, ed a Newton quello di fare intervenire l'attrazione delle masse
celesti per spiegare il carattere non rettilineo del moto dei pianeti.
Altro fondamentale contributo di Galileo alla costituzione della meccanica
moderna, è la scoperta del cosiddetto secondo principio della dinamica, cioè la
scoperta che le forze applicate ai corpi non imprimono loro delle velocità, bensì
delle accelerazioni, e che queste accelerazioni risultano direttamente proporzionali alle forze che le hanno causate. Al secondo principio della dinamica sono
connesse: I) la determinazione del concetto di accelerazione come variazione di
velocità; z) la determinazione del concetto di massa di un corpo, come rapporto
di proporzionalità fra le forze ad esso applicate e le accelerazioni prodotte da
tali forze.
La forza presa in esame da Galileo è quella di gravità; essa - che nel medesimo luogo risulta proporzionale alle masse dei corpi - gli permise di provare
sperimentalmente le conseguenze del principio or ora riferito. Va segnalato che
il fatto stesso di considerare la gravità come una forza costituiva - ai tempi
di Galileo - una innovazione della massima importanza. Le leggi ricavabili dal
seconqo principio della dinamica nel caso che la forza applicata ai corpi sia
quella di gravità, suscitarono una particolare meraviglia tra i contemporanei di
Galileo: sono le leggi del moto naturalmente accelerato e dei moti composti che
ne derivano. Esse ebbero, fra l'altro, il grande merito di porre in luce l'esistenza
di esatte proporzioni matematiche anche nel campo dei fenomeni dinamici. La
loro scoperta segnò la definitiva sconfitta della teoria aristotelica del moto. Sebbene enunciate per un campo particolare di forze, non fu difficile comprendere
che esse rappresentavano le leggi generali del movimento.
Per quanto riguarda l'astronomia, già ricordammo alcune delle fondamentali scoperte compiute da Galileo puntando al cielo il suo famoso ·cannocchiale: ad esse va ancora aggiunta la correzione degli errori (in eccesso) commessi da Tycho Brahe nella valutazione del diametro apparente delle stelle fisse.
Tra le molte conseguenze, ricavabili dalle osservazioni celesti di Galileo,
basti sottolinearne tre: I) la confutazione della teoria aristotelica della incorruttibilità dei cieli, ovviamente incompatibile con l'esistenza di macchie sul Sole e
sulla Luna; z) la dimostrazione dell'esistenza di moti celesti aventi un centro diverso dalla Terra; 3) l'eliminazione delle obiezioni sollevate da Tycho Brahe alla
teoria copernicana, obiezioni che si basavano essenzialmente sulla eccessiva grandezza che dovrebbe venir attribuita alle stelle fisse, qualora, pur essendo a distanza
molto grande dalla Terra come vuole Copernico, esse avessero effettivamente il
diametro misurato da Tycho.
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È ovvio che le scoperte ora accennate costituivano altrettanti argomenti a
favore dell'ipotesi copernicana. Ma esse non avrebbero potuto avere alcun valore
probativo, se non si fosse riusciti ad eliminare le obiezioni mosse da Tolomeo
alla mobilità della Terra. Ebbene, l'eliminazione di queste obiezioni è una conseguenza diretta della nuova meccanica galileiana: tale meccanica spiega infatti,
con matematica chiarezza, la perfetta compatibilità del moto della Terra con i
fenomeni da noi osservati nella caduta dei gravi (compatibilità che Tolomeo
non aveva potuto comprendere, perché partiva da una teoria del moto decisamente erronea). Essa è dovuta al famoso principio, oggi universalmente noto come
principio deila relatività galileiana, il quale afferma che è impossibile decidere,
sulla base di esperienze meccaniche compiute all'interno di un sistema, se esso
sia in quiete o in moto rettilineo uniforme. 1
Eliminate anche le obiezioni di Tolomeo, e riconosciuti gli enormi vantaggi
matematici dell'ipotesi di Copernico nella descrizione dei fenomeni celesti, la
verità fisica del copernicanesimo era praticamente assicurata.
Va invece fatto presente che Galileo non prese mai in considerazione le
scoperte compiute in quegli anni da Keplero circa la forma ellittica delle orbite
dei pianeti; da questo punto di vista egli rimase ancora condizionato dall'astronomia tradizionale, che fra tutte le forme di moto privilegiava in modo inequivocabile il moto circolare.
Oltreché di meccanica e di astronomia egli si occupò con grande interesse
anche degli altri rami allora noti della fisica, accentuando ovunque l'orientamento
sperimentale della ricerca. Già abbiamo parlato delle sue indagini di ottica, che
lo condussero alla costruzione del cannocchiale e del microscopio; se esse non
raggiunsero una solida concezione scientifico-matematica dell'ottica, ebbero però
ùn'eccezionale forza innovatrice non solo per l'astronomia ma per tutta la scienza
(parleremo nella sezione rv della rivoluzione recata nell'anatomia dall'osservazione microscopica) ed ebbero inoltre il merito di far prendere in seria considerazione dagli scienziati i progressi dei tecnici. Altre importanti ricerche Galileo
compì nel campo dell'acustica, collegando lo studio delle vibrazioni sonore a
r Vale la pena, data la sua bellezza letteraria e la sua limpidezza scientifica, riportare per
disteso una delle pagine in cui Galileo spiega
l'argomento:
« Nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio rinserratevi con qualche
amico, e quivi fate di aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; pigliatevi anco un gran
vaso con acqua, e dentrovi de' pescetti; accomodate ancora qualche vaso alto che vada gocciolando in un altro basso e di angusta gola: e stando
ferma la nave, osservate diligentemente come
quelli animaletti volanti con pari velocità vanno
verso tutte le parti della stanza; i pesci, gli vedrete andar vagando indifferentemente verso
qual si voglia parte delle sponde del vaso; le
stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto ...
Osservate che avrete bene tutte queste cose, fate
muover la nave con quanta si voglia velocità;
ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante
in qua e 'n là) voi non riconoscerete una minima
mutazione in tutte le nominate cose, né meno
da cosa che sia in voi stesso, potrete assicurarvi
se la nave cammina o sta ferma... E se voi di
tutti questi effetti mi domanderete la ragione,
vi risponderò per ora: perché il moto universale
della nave, essendo comunicato all'aria ed a tutte
quelle cose che in essa vengono contenute, e
non essendo contrario alla naturale inclinazione
di quella, in loro indelebilmente si conserva. »
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Galileo Galilei
quello delle vibrazioni del pendolo; nel campo del magnetismo, ove subì l'influenza di Gilbert; in quello della termologia, ove ebbe il merito di ideare e
costruire il primo termometro (o, per essere più esatti, termoscopio) che verrà
poi notevolmente perfezionato dai suoi immediati discepoli. Si occupò anche
ripetutamente di problemi di ingegneria, fornendo alle autorità - prima di Venezia e poi di Firenze - utili consigli per la soluzione di importanti problemi
pratici. Meritano particolare menzione i suoi studi di ingegneria idraulica, soprattutto i pareri che egli diede a proposito della sistemazione del fiume Bisenzio
e dell'Arno.
Non rivelò invece un autentico interesse per le ricerche di matematica pura,
pur avendo il titolo di professore di questa disciplina. Ciò non va inteso - sia
detto ben chiaramente - nel senso che Galileo abbia trascurato o sottovalutato
gli studi matematici: già sappiamo, al contrario, che fin da giovane studiò con la
più grande passione le opere dei grandi matematici greci, e che nella sua concezione della scienza fisica attribuì alla matematica una funzione di essenziale importanza per l'interpretazione dei dati osservativi e l'elaborazione della teoria.
Il fatto è, però, che la matematica lo interessava quasi esclusivamente in questa
funzione, onde egli portò i più notevoli contributi allo sviluppo delle concezioni
matematiche proprio nell'applicarle alla definizione generale dei moti e alla rigorosa dimostrazione delle loro proprietà.
La sua genialità ebbe modo, comunque, di rivelarsi anche in problemi di
matematica pura, come per esempio nell'esame dei paradossi dell'infinito. Galileo si soffermò in particolare sulle serie di numeri naturali, sottolineando lo
strano fatto che essa risultava altrettanto numerosa quanto la serie dei quadrati
perfetti; mentre questa risulta ovviamente solo una parte di quella. Egli meditò
a lungo sulla scomposizione di un segmento finito in infiniti elementi indivisibili
(punti), dando- anche in riferimento a questo problema- notevoli contributi
al sorgere dell'analisi infinitesimale.
V ·
IL METODO SPERIMENTALE
Siamo ora in grado di riprendere, con maggiore consapevolezza, l'esame
già iniziato nel paragrafo n della concezione galileiana della scienza, soffermandoci
in particolare sul significato e sul fondamento del metodo sperimentale.
Gli interpreti del pensiero galileiano sono soliti oscillare tra due tesi opposte:
gli uni insistono sul carattere prevalentemente empirico del suo metodo di ricerca, gli altri invece sul carattere prevalentemente matematico-razionalistico di
esso. Queste oscillazioni dipendono dal fatto che Galileo non scrisse alcuna
opera direttamente rivolta allo studio del metodo, sul tipo del Novum organum
di Bacone. La teoria metodologica di Galileo deve dunque essere ricavata,
indirettamente, dalle descrizioni (a volte contrastanti) che egli compie del
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Galileo Galilei
proprio modo di procedere in questa o quella indagine e dalle critiche che
muove al modo di procedere altrui.
In realtà, come già spiegammo nelle pagine precedenti, sia l'istanza empirica
sia l 'istanza matematica sono presenti in Galileo; nessuna di esse, però, esaurisce
il suo metodo di indagine. Non l'esaurisce l'istanza empirica, che- già affermata
nell'antichità da Aristotele in antitesi a Platone- risulta soltanto in grado di produrre una generica fisica qualitativa; e neanche l'esaurisce l'istanza matematica,
che da sola non è in grado di farci discendere dal campo dei concetti astratti ed
inserirei nella realtà effettuale. Per comprendere il metodo di Galileo bisogna
dunque comprendere il modo con cui egli combina le due istanze predette,
trasformandole in un processo unico che è, nel contempo, razionale ed empirico.
L'atteggiamento iniziale di Galileo non differisce da quello di Bacone: la
natura non va soltanto « ascoltata », ma « interrogata ». Il più profondo divario
sorge però, tra l'italiano e l'inglese, non appena essi cercano di precisare il tipo
di questa interrogazione. L'interrogazione baconiana è, infatti, strutturata in
modo da cercare nei fenomeni la loro « forma », il loro « schematismo latente »,
le loro note comuni; quella galileiana mira, invece, a scoprire le leggi dei fenomeni, cioè le proporzioni matematiche tra fenomeno e fenomeno.
Per parlare di proporzioni matematiche tra fenomeni occorre ovviamente
trovare il modo di far corrispondere ad ogni fenomeno un particolare numero.
Le correnti neoplatoniche e neopitagoriche avevano tentato di giungere a questa
corrispondenza tra fenomeni e numeri, facendo appello al valore magico-simbolico posseduto - secondo esse - dalla matematica. In base a questo valore,
certi numeri o figure avrebbero la «virtù» di rappresentare simbolicamente certi
fenomeni; e tale « virtù » permetterebbe di ricavare senz'altro le proprietà dei
fenomeni dallo studio dei numeri che li rappresentano. Galileo risolve il problema
in modo completamente diverso: per far corrispondere i numeri ai fenomeni,
occorre, secondo lui, procedere alla misura dei fenomeni stessi. Soltanto la misura
è in grado di creare la compenetrazione di esperienza e matematica, indispensabile
al procedere scientifico.
Ma - come già sappiamo - l'intervento della matematica nella scienza
fisica non si esaurisce per intero nella misura; la matematica esercita una funzione
essenziale anche nella costruzione delle teorie, cioè nell'esatta enunciazione dei
loro principi e nella rigorosa deduzione, da questi principi, delle conseguenze
particolari da controllarsi empiricamente. (Notiamo, fni: parentesi, che solo nella
dinamica Galileo seppe giungere a una rigorosa e soddisfacente teorizzazione
dei fenomeni studiati; negli altri campi, invece, si limitò a osservarli con la massima
precisione possibile, valendosi all'uopo di tutti gli ausili che in quel momento
poteva fornirgli la tecnica.)
Una volta chiariti i punti in cui la matematica interviene nel processo sperimentale, resta ancora aperto il problema se Galileo scorgesse davvero nella
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verifica di una legge sui dati empirici (determinati nel modo più esatto possibile
attraverso opportuni strumenti d'osservazione e di misura) una garanzia sufficiente della sua validità. Il problema ci può lasciare alquanto perplessi sia per la
rozzezza degli strumenti che Galileo aveva a propria disposizione, sia per il fatto
che, in non pochi casi, egli « immaginò » dei dispositivi di verifica che in realtà
- con la tecnica della sua epoca - egli non era affatto in grado di costruire e far
funzionare (ricorse cioè ai cosiddetti esperimenti teorici o ideali, che anche in
epoche più recenti si riveleranno assai utili alla scienza). Proprio fondandosi su
questa motivata perplessità, alcuni interpreti - a tendenza platonica - del
pensiero galileiano sostengono che il nostro autore dovesse in realtà fare appello nel proprio animo a un'altra più sicura fondazione della validità delle leggi
di natura.
Ad essi si può tuttavia obiettare: 1) che se i mezzi di verifica sperimentale a
disposizione di Galileo erano ancora molto rozzi, anche le sue pretese di verificare esattamente l'accordo fra una legge e i dati osservativi erano senza dubbio
molto primitive (e cioè incomparabilmente meno esigenti di quelle dei fisici
moderni); z) che gli stessi esperimenti ideali da lui immaginati - e descritti
con una sorprendente dovizia di particolari - gli permettevano, sebbene provvisoriamente irrealizzabili, di formulare un effettivo confronto fra la singola legge
fisica e ben precise situazioni empiriche, cioè di calarla nel particolare, rendendo
palese a se stesso e agli altri la plausibilità di quanto asserito dalla legge in questione.
Con ciò non si vuol negare che Galileo nutrisse una fiducia istintiva nella
semplicità e nella conoscibilità della natura; essa gli proveniva senza dubbio dalla
filosofia rinascimentale (in particolare dal platonismo, per quanto riguarda l'esprimibilità in termini matematici delle leggi di natura), ma gli proveniva anche, ed
io credo in misura maggiore, dalla ripetuta constatazione dei successi conseguiti
dai tecnici (i quali stavano a dimostrare che la natura può venire effettivamente
dominata dall'uomo, quando questi cerchi di operare su di essa in certi modi anziché in altri), e soprattutto dalla constatazione che tali successi venivano conseguiti proprio imitando la natura che, per attuare le sue opere, suole far uso dei
mezzi più immediati, più semplici e più facili ( « uti consuevit mediis primis, simplicissimis, facillimis »). 1
Ma non è possibile che l'esperienza ci inganni, facendoci credere che la natura sia regolata da certe leggi (quelle appunto verificate sperimentalmente) mentre in realtà è regolata da leggi del tutto diverse? L'obiezione viene avanzata da
Simplicio, nell'ultima pagina del Dialogo e costituisce il cosiddetto argomento di
I A sottolineare le differenze fra Galileo
e il platonismo rinascimentale, possiamo ancora
ricordare la sua vivacissima polemica contro
la distinzione, tanto cara ai neoplatonici e ai
neopitagorici, fra numeri e figure perfetti e
numeri e figure imperfetti; egli ci dice invece
esplicitamente che, allorquando si tratta di matematica applicata alla fisica, l'unica perfezione o
nobiltà delle leggi matematiche consisterà nel loro
adeguarsi ai reali rapporti tra i fenomeni.
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Galileo Galilei
Urbano VIII. Essa può essere così riassunta: nulla d autorizza ad escludere che,
nella sua « infinita potenza e sapienza », dio abbia fatto in modo che tutte le
prove escogitabili dal nostro intelletto sembrino confermare una determinata
dottrina scientifica (nel caso specifico, la teoria copernicana) mentre in realtà essa
è erronea. Pertanto nessuna prova dovrà essere stimata « verace e concludente ».
Probabilmente questa obiezione venne suggerita a Galileo dal censore stesso,
che, volendo autorizzare la pubblicazione del Dialogo, desiderava che almeno
nella conclusione esso non apparisse così copernicano come in realtà era. Di fatto
il Dialogo termina con il riconoscimento che è impossibile trovare una risposta
alla suddetta argomentazione « mirabile e veramente angelica ». Tuttavia lo stratagemma - come già sappiamo - non riuscì a ingannare il tribunale dell 'inquisizione, e non inganna neppure noi. La realtà è che Galileo non era disposto a
prendere sul serio l'obiezione testé riferita; essa era in antitesi con tutto il suo
lavoro di scienziato e di metodologo. L'esperienza, intelligentemente interrogata
e scrupolosamente osservata, non d inganna. Lo scienziato serio non può perdere
tempo a dibattere sottigliezze così artificiose e capziose; egli ha ben altro da fare:
ha da studiare con metodo la natura così come essa si esprime nei fatti empirici,
non come potrebbe ipoteticamente essere in una « realtà » che sfugge per principio ad ogni controllo.
VI
· SCIENZA E FILOSOFIA
Con le ultime osservazioni del paragrafo precedente siamo ormai giunti ai
margini della filosofia. Può avere un senso, per Galileo, parlare di una realtà
non identificantesi in modo completo con quella da noi percepita? Il problema
trova una parziale risposta nella distinzione galileiana fra due tipi di qualità (cui,
alcuni decenni più tardi, Locke darà il nome di «primarie» e «secondarie»).
«Io dico,» scrive nel Saggiatore, «che ben sento tirarmi dalla necessità,
subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme
ch'ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch'ella in relazione ad
altre è grande o piccola, ch'ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo,
ch'ella si muove o sta ferma, ch'ella tocca o non tocca un altro corpo, ch'ella
è una, poche o molte, né per veruna immaginazione posso separarla da queste
condizioni; ma ch'ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o
muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla
apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi
non ci fossero scorta, forse il discorso o l'immaginazione per se stessa non v'arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc.,
per la parte del soggetto nel quale d par che riseggano, non sieno altro che puri
nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso
l'animale, siano levate ed annichilite tutte queste qualità ... Ma che ne' corpi ester173
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Galileo Galilei
ni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i nomi, si richiegga altro che grandezze,
figure, moltitudini e movimenti tardi o veloci, io non lo credo; e stimo che,
tolti via le orecchie le lingue e i nasi, restino bene le figure, i numeri e i moti,
ma non già gli odori né i sapori né i suoni, li quali fuor dell'animai vivente
non credo che siena altro che nomi, come a punto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse l 'ascelle e la pelle intorno al naso. »
La tesi qui enunciata, che verrà ripresa e svolta da molti pensatori del Seicento, costituisce la base di una vera e propria concezione del mondo, la cosiddetta concezione meccanicistica. Nell'antichità essa era già stata sostenuta dagli
atomisti, e non è escluso che una certa influenza del! 'indirizzo atomistico fosse
presente in Galileo, quando scrisse il brano testé citato. Come non è escluso che
fosse proprio questa concezione a rinvigorire in lui la fiducia sulla matematica
(che si occupa appunto di numeri e di figure) quale strumento efficacissimo per la
conoscenza del mondo. Tutto ci fa escludere però che egli intendesse - con
tale concezione - tracciare le linee di una vera e propria filosofia nel senso tradizionale del termine. Contro questa interpretazione stanno invero due fatti incontestabili: I) che, in contrasto con Aristotele, Galileo ha sempre rifiutato di
occuparsi dell'essenza della realtà; z) che egli non ha mai cercato di ampliare e
approfondire la tesi accennata nel brano testé riferito. In verità essa assume in
lui un carattere p rettamente scientifico, operativo: ci dice che la considerazione
delle qualità primarie risulta sufficiente a spiegare tutto intero il corso dei fenomeni, senza impegnarci sul problema se queste rappresentino o no l'essenza
metafisica della realtà.
Il meccanicismo come concezione filosofica del mondo, o perlomeno del
mondo materiale - fisico e biologico, - troverà ampi sviluppi e seri tentativi
di giustificazione in altri autori del Seicento (su di esso si ritornerà ampiamente
nel capitolo vnr della sezione rv); nelle opere di Galileo resta una semplice indicazione, un canone di ricerca rivolto più allo scienziato che al filosofo.
Né la cosa è difficile a spiegarsi. Se Galileo non ha sentito la necessità di analizzare i presupposti del meccanicismo, ciò dipende dal fatto che la filosofia, nel
senso specifico del termine, era sostanzialmente al di fuori dei suoi interessi.
Proprio per questo motivo troviamo nelle sue pagine tante oscillazioni fra posizioni filosofiche profondamente diverse. Galileo non si è mai proposto di creare
una nuova filosofia, da sostituirsi a quelle che gli venivano presentate dalla cultura
tradizionale. Il compito che egli aveva in animo era manifestamente un altro:
egli mirava a costruire una nuova scienza, a farne capire a tutti l 'importanza per
la concezione generale della natura, e nel contempo a fornirla di metodi efficienti, capaci di fornire soluzioni valide a problemi concreti e particolari.
Stando così le cose, sorge spontanea la domanda: ma allora, che peso ha avuto
Galileo nella storia del pensiero filosofico? Una prima, ovvia, risposta si ricava
dalla semplice riflessione sull'enorme peso che ha avuto ed ha la scienza per la
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cultura moderna, e quindi anche per il pensiero filosofico che dibatte i problemi
di fondo di questa cultura. Poiché la nascita della scienza moderna è inscindibilmente legata al nome di Galileo, va da sé che questi occupi una posizione importantissima sia nella storia del pensiero filosofico sia in quella del pensiero scientifico.
Vi è però anche un altro motivo, per cui a Galileo va riconosciuto un peso
determinante nello sviluppo del pensiero filosofico. Esso va cercato in quell' altissima fiducia nella ragione, che prorompe da tutte le sue opere, dalle sue polemiche,
dal suo stesso programma culturale.
È una fiducia che egli non si limita a coltivare nel proprio animo, o a diffondere in ristretti circoli scientifici; ritiene invece che vada predicata a tutti, che
debba pervadere ogni strato sociale, perché essa sarà una delle colonne fondamentali della futura società. Ed è proprio in vista di questo scopo, che Galileo scrive
gran parte delle sue opere in lingua volgare, affinché esse possano venire lette e
meditate anche da chi non appartiene al mondo dei dotti. «Io l 'ho scritto vulgare, »
spiega a Paolo Gualdo, parlando dell'!storia intorno alle macchie solari, « perché ho
bisogno che ogni persona la possi leggere, e per questo medesimo rispetto ho
scritto nel medesimo idioma questo mio ultimo trattato (il Discorso intorno alle
cose che stanno in su l'acqua) e la ragione che mi muove, è il vedere, che mandandosi
per gli studi indifferentemente i giovani per farsi medici, filosofi, etc., sì come
molti si applicano a tali professioni essendovi inettissimi, così altri, che sariano
atti, restano occupati o nelle cose familiari o in altre occupazioni aliene dalla litteratura ... ; et io voglio ch'e' vegghino che la natura, sì come gl'ha dato gli
occhi per veder l'opera sua ... gli ha anco dato il cervello da poterla intendere e
capire.»
È tutto un nuovo clima culturale che si riflette in queste dichiarazioni; è una
nuova visione dell'uomo e della civiltà. È quella nuova impostazione della cultura che, come abbiamo precedentemente spiegato, portava Galileo a concepire
la scienza inscindibilmente legata alla tecnica e gli permetteva di sostenere il valore pienamente scientifico di uno strumento non ancora spiegato scientificamente,
quale il cannocchiale. È l'intuizione del valore della scienza, come elemento propulsare e rinnovatore della società.
Per i caratteri testé delineati della fiducia di Galileo nella ragione, egli è stato
giustamente considerato come uno dei più validi precursori dell'illuminismo. E
ciò basta a fare di lui, anche a prescindere dai suoi grandissimi meriti di scienziato, uno dei punti nodali della storia del pensiero filosofico.
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CAPITOLO DODICESIMO
Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma
nez loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
DI RENATO TISATO
I ·CHIARIMENTI PRELIMINARI
Si è accennato più volte, nel corso di questa sezione, agli importanti riflessi che ebbero, sul problema educativo, le profonde innovazioni del pensiero
realizzatesi durante l 'umanesimo e il rinascimento (in senso stretto). La trasformazione della cultura promossa da tali movimenti non poteva non comportare
come diretta conseguenza anche una trasformazione dell'educazione e in particolare delle istituzioni scolastiche. È la stessa posizione centrale che l'uomo occupa
nella concezione umanistica, il concentrarsi degli studi filosofici sull'uomo, sul
valore e sul significato della sua vita, sulla sua storia, che conducono logicamente
ad attribuire primaria importanza al problema educativo. Queste osservazioni
valgono, a maggior ragione, per la riforma e la controriforma, nei cui programmi
il rinnovamento dell'insegnamento occupa una posizione di primissimo piano,
tanto che non è stato possibile discutere il significato politico-culturale dell'una
o dell'altra senza esaminare in breve le loro idee e le loro realizzazioni pedagogiche.
Sembra tuttavia opportuno - giunti alla fine della sezione - completare e
riordinare gli accenni contenuti nei capitoli precedenti, ricapitolando, in poche
pagine, quelle che furono le linee direttrici delle innovazioni pedagogiche elaborate dagli indirizzi in parola, cosa che ci ripromettiamo, appunto, di fare nei
paragrafi successivi del presente capitolo.
Non si tratta, evidentemente, di delineare, neppure sommariamente, una
storia della pedagogia del periodo in esame: se infatti è chiara, da un lato, l'inscindibilità di tale storia da quella del pensiero filosofico e scientifico, altrettanto chiaro - e, vorrei aggiungere, estremamente significativo - è dall'altro lato il
fatto che, mentre i filosofi dell'antichità e del medioevo avevano trattato dell'educazione solo nel quadro e in funzione del problema politico-religioso, parecchi
dei capolavori letterari del periodo in questione sono costituiti invece da trattati
d'argomento specificamente pedagogico. Un esame approfondito della problematica pedagogica nella formulazione datale dai maestri e trattatisti più insigni
verrebbe ad assumere dunque, a partire dal xv secolo, un'estensione incompatibile con la struttura e con l'equilibrio della presente opera.
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
Ci limiteremo, pertanto, a richiamare al lettore il significato e l'importanza
di alcuni nuovi temi affioranti nel xv e XVI secolo.
Il capitolo si concluderà con un paragrafo specificamente dedicato alla notevolissima figura di Comenio che, pur essendo vissuto in pieno Seicento, può
essere considerato in un certo senso il punto conclusivo dei più significativi indirizzi pedagogici dell 'umanesimo e della riforma. Proprio questa sua posizione
permette di avvicinare la figura di Comenio a quella di Galileo, nella quale venne
riscontrato il punto d'approdo di gran parte del pensiero filosofico-scientifico
del rinascimento (in senso largo).
D'altro canto a Comenio si deve una rivoluzione in ordine al problema dell'educazione che, pur non realizzando nel campo pedagogico quell'avvento di
un metodo rigorosamente scientifico promosso da Galileo nel settore dell'astronomia e della fisica, è comunque caratterizzata da grande modernità di impostazione generale e da profondità di parziali vedute.
II ·CARATTERI GENERALI DELLA PEDAGOGIA UMANISTICA
Il motivo essenziale della pedagogia umanistica è quello per cui l'educazione
deve mirare alla formazione dell'uomo completo: corpo ed anima, senso e ragione, intelletto e carattere. Tutte le virtualità dell'essere umano devono essere armonicamente sviluppate, senza che alcuna rimanga atrofizzata. Gli studi soltanto
professionali interessano poco i maestri ed i tecnici dell'educazione e, comunque,
la formazione dell'uomo deve precedere l'istruzione e la preparazione tecnica
dello specialista. D'altro canto si ritiene che per ottenere buoni risultati anche
in uno specifico campo professionale sia necessario aver prima equilibratamente
sviluppato le molteplici e varie attitudini, promossa la maturità del giudizio, la
capacità di autodominio, il senso dell'armonia. Sotto questo punto di vista, dunque, la« cultura generale» è esattamente agli antipodi dell'enciclopedismo erudito.
Scegliere una sola via, sia pure allo scopo di giungere per essa alla perfezione
in un singolo campo, sarebbe per l'umanista come sottoporsi ad una mutilazione.
L'educazione umanistica disdegna l'orientamento tecnico. Essa aspira a formare
l'uomo che, a suo tempo, potrà essere disponibile per qualsiasi compito, ma che
non si vuole anticipatamente limitato mediante una precoce specializzazione. Le
esigenze sociali o la vocazione personale assegneranno, più tardi, a ciascun individuo il suo compito particolare. Per ora l'essenziale consiste, come scrive efficacemente il Marrou, nel produrre « un tessuto umano indifferenziato, ma di altissima qualità intrinseca, pronto ad ubbidire a tutte le ingiunzioni dello spirito o
della congiuntura ... L'importante è d'essere un uomo intelligente che sappia
veder chiaro e giudicare rettamente. In quanto al mestiere, si tratta solo d'uno
sforzo d'iniziazione rapida; chiunque, purché sia un uomo di qualità, è capace
di fare qualunque cosa ».
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
Questa esigenza di impedire alla cultura di disintegrare l'unità armonica della
persona umana urta inevitabilmente contro due difficoltà pressoché insormontabili: da una parte, la crescente esigenza di specializzazione, che si farà sentire
tanto maggiormente quanto più progrediranno la scienza e la tecnica, dall'altra,
il pericolo di scivolare in una cultura superficiale e nozionistica, agli antipodi
rispetto allo spirito dell'autentico umanesimo.
Il modello dell'uomo che l'educazione umanistica aspira a creare è l'oratore
dell'età ellenistico-romana e un simile tipo d'uomo può formarsi solo mediante
l 'assimilazione dei frutti della più « perfetta » civiltà: quella classica. Gli autori
dai quali si attingono i principi pedagogici e le norme didattiche sono, in primissimo luogo, Quintiliano e Plutarco. La perfetta conoscenza delle lingue antiche è
indispensabile per l 'assimilazione dei valori universali della civiltà classica.
Ma c'è di più: restaurare il piano di studi della scuola classica vuoi dire attribuire valore fondamentale alla parola. Strumento di espressione dei concetti e
dei sentimenti, mezzo di contatto e di scambio tra gli uomini, essa non può non
assumere una funzione dominante nella nuova educazione.
Ancora una volta è l 'ideale di Isocrate che prevale contro quello, filosoficomatematico, di Platone. Questo, naturalmente, non vuoi dire rifiutare la filosofia
e la matematica. Solo che filosofia e matematica si rivelano, appena si superi il
loro grado elementare, inaccessibili alla maggior parte degli ingegni normali e
quindi atte a selezionare e formare più un ristretto gruppo di intellettuali ad altissimo livello che un'intera classe sociale.
Per realizzare la formazione culturale di un'intera classe non bisogna abbandonare il terreno proprio delle persone di normale intelligenza. Matematica e filosofia possono concorrere, purché conservino il valore di discipline formali e
preparatorie.
La lingua latina è considerata dagli umanisti italiani uno strumento di espressione incomparabilmente più perfetto del volgare e, conseguentemente, il suo
possesso appare condizione necessaria per un più vivo e, al tempo stesso, rigoroso discorrere intorno a ciò che pensiamo. Di qui il programma di restaurazione del latino quale lingua viva. Ne viene una serrata polemica contro il grammaticismo pedante degli scolastici. La grammatica, afferma il Valla, non è affatto,
come pretendevano i medievali, l'espressione delle leggi eterne ed immutabili del
pensiero, da esso inseparabile, ma un sommario dell'uso classico. Pertanto lo studio delle lingue deve farsi sui testi, eliminando il ciarpame delle vecchie grammatiche aride e noiose.
Riassumendo quanto siamo fin qui venuti esponendo, possiamo affermare
che l'assunzione del linguaggio, della letteratura e della civiltà classica quale
paradigma di una perfetta formazione umana fa nascere una serie di problemi
appassionanti, attorno ad alcuni dei quali il dibattito non può dirsi chiuso nemmeno ai nostri giorni:
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
1) si deve accertare se, entro quali limiti e come, la cultura classica possa
costituire un fattore formativo valido anche per i tempi moderni, in condizioni
storiche profondamente mutate;
z) è necessario chiarire come possa attuarsi l'armonizzazione di cultura pagana e di spiritualità cristiana;
3) è necessario risolvere l'antitesi tra formazione retorico-letteraria da una
parte e formazione filosofico-scientifico-matematica dall'altra.
Altri temi circolanti nella letteratura pedagogica umanistico-rinascimentale
sono: l 'aspirazione ad un addolcimento della disciplina, o meglio, al suo trasferimento dal piano del formalismo e della violenza fisica a quello del reciproco affetto tra maestro e scolaro, della stima, dell'interesse per l'oggetto di studio,
dell'equilibrio psicofisico; la coscienza della necessità di individuare i tratti essenziali del carattere di ogni scolaro allo scopo di adeguare ad essi il metodo e di
favorire l'orientamento. Sotto quest'ultimo punto di vista il pensiero pedagogico
dell'umanesimo si discosta alquanto dalla tradizione classica, della quale, come a
suo luogo abbiamo visto, era caratteristico il disconoscimento della psicologia del
fanciullo. D'altra parte non si deve dimenticare il fatto che le scuole umanistiche
si rivolgono essenzialmente agli adolescenti ed ai giovani fra i dieci-dodici ed i
diciotto-vent'anni e che assai scarso è, nel periodo del quale stiamo occupandoci,
l'interesse per quel grado di scuola che noi chiamiamo primaria o elementare
e per i suoi problemi.
Un ulteriore motivo di polemica contro la scuola medievale è costituito dalla
generale rivalutazione del mondo fisico, manifestantesi nella duplice direttiva
delle cure da concedere al corpo attraverso il gioco e la ginnastica, e della osservazione delle cose quale integrazione e commento dei testi.
Un cenno particolare merita l'attributo di «liberali» che gli umanisti danno
agli studi da loro coltivati. Il termine ha una duplice accezione. Da un lato vuoi
significare quegli studi che « liberum hominem efficiunt », in quanto lo guidano
a liberarsi dal servaggio della passionalità irrazionale, dell'animalità; dall'altro,
indica quel tipo di cultura disinteressata attraverso la quale l'uomo tende al sapere, alla virtù e, tutt'al più, alla gloria, senza aspirare al guadagno e, comunque,
al vantaggio materiale.
Questo secondo significato implica una interpretazione rigidamente aristocratica della cultura. Secondo un criterio valutativo che già abbiamo incontrato
ed esaminato nel pensiero greco, l'esercizio di una qualsiasi attività lucrativa è
giudicato indecoroso e tale da provocare gravi deformazioni psicofisiche in chi
vi si dedichi.
Naturalmente non manca, nel complesso quadro, chi reagisce contro questa
chiusura ed auspica una cultura che esca dalle torri d'avorio, dilaghi per le strade
e investa ed animi la vita quotidiana, l'industria, il commercio. Tale è l'atteggiamento di Leon Battista Alberti, di Matteo Palmieri, di Enea Silvio Piccolomini.
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
Quest'ultimo, per esempio, sostiene che, essendo il valore dei libri antichi nel
loro contenuto, tanto varrebbe tradurli: lo studio delle lingue morte da un lato
implica notevole perdita di tempo, dall'altro porta all'esclusione di moltissimi
dal possesso dei valori reali della cultura antica.
Nel suo complesso, però, l'ideale pedagogico rinascimentale conserva e
viene accentuando col trascorrere del tempo un carattere essenzialmente aristocratico.
Ci sembra inaccettabile la tesi secondo la quale alla valutazione in base alla
nascita, operata dal feudalesimo, ed a quella in base al censo, tipica della borghesia
cittadina, l'umanesimo sostituirebbe una valutazione fondata sulla cultura. In
realtà l'educazione umanistica, nella sua espressione più elevata, porta alla formazione di un ristretto ordine di dotti, minoranza privilegiata, libera da ogni impegno di lavoro che non sia lo studio. Ma tale minoranza di intellettuali ha ben
poco in comune con la classe dei filosofi della repubblica platonica. La sua funzione
va progressivamente svuotandosi di ogni contenuto autenticamente politico e
diviene a poco a poco decorativa.
Così, mentre il progresso della tecnica e le grandi scoperte geografiche danno
vita al capitalismo e la grossa borghesia si distacca dalla piccola e dà la scalata
alle posizioni della nobiltà di sangue, la cultura scava un abisso invalicabile fra
sé e il sapere comune. L'artista e l'artigiano si separano; il primo viene accolto
nelle corti, il secondo è relegato nella plebe. Il pittore non vuole più essere confuso con l 'imbianchino nell'ambito della stessa confraternita. Gli architetti si
vogliono differenziare dai capimastri (che pure avevano costruito le cattedrali).
L'esponente tipico di questa nuova aristocrazia, Lorenzo il magnifico, banchiere,
principe, umanista, può scrivere senza sollevare scandalo: « Solo chi è di sangue
nobile può portare le cose alla perfezione. Non v'è genio nella gente da poco che
lavora con le mani e non ha modo di coltivare la propria intelligenza. »
Attraverso i secoli sembra di riascoltare lo sdegno sarcastico di Pindaro!
Così, con l'avvento del dispotismo principesco, la cultura italiana si svuota
di ogni motivo « civile » e perde ogni contatto con quella realtà quotidiana che
pure l 'aveva generata. I suoi germi fecondi potranno fiorire e fruttificare solo in
altri paesi, come l'Inghilterra, la Francia, la stessa Germania, nei quali lo sviluppo
della realtà economica, sociale, politica e religiosa sarà più favorevole. Nel nostro
paese i migliori cercheranno nella poesia e nella filosofia un'evasione; i peggiori
trasformeranno l'erudizione e la fantasia in strumenti cortigianeschi, dando vita
ad una cultura puramente formalistica, ad una specie di nuova scolastica decadente
e pedante, raggelata in formule senza vita. E, come tale, cioè come un puro gioco
di forme, sterile ed inutile, l'umanesimo dominerà per secoli la cultura italiana.
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III ·LA PEDAGOGIA DEL TARDO RINASCIMENTO
Si è visto, nel capitolo rr, come il rinascimento, in senso largo, sia stato
fin verso la metà del xv secolo (cioè durante il primo umanesimo) un fenomeno
prevalentemente italiano; nel capitolo I avevamo accennato ai fattori di ordine
economico, politico, religioso, la cui convergenza doveva mettere in crisi l'Italia
avviandola ad un lunghissimo periodo di involuzione generale proprio nel momento in cui si consolidavano definitivamente le grandi monarchie nazionali e
specialmente la Francia e l'Inghilterra.
Questo fatto non poteva rimanere senza conseguenze nel campo della cultura in generale e della problematica pedagogica in particolare. Così, mentre in
Italia la più cospicua fioritura di opere dedicate specificatamente al problema educativo caratterizza principalmente il xv secolo, nei paesi d'oltralpe essa si verifica
prevalentemente nel XVI secolo.
Questo sfasamento di un secolo e la profonda divergenza delle linee tendenziali di sviluppo della storia rispettivamente dell'Italia e delle grandi potenze
europee fanno sì che la tematica pedagogica presentata dal rinascimento europeo (extraitaliano) si presenti alquanto diversa rispetto a quella strettamente
umanistica e precipuamente italiana di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente.
Non sarà ovviamente possibile, qui, seguire da vicino, nei singoli autori,
lo svolgimento del pensiero pedagogico dei vari paesi europei. Per alcuni di tali
autori qualche accenno alle implicazioni in ordine al problema dell'educazione
contenute nei loro scritti è già stato fatto là dove si è esaminato in generale il
loro pensiero filosofico. Ci limiteremo pertanto a tentare di mettere in risalto taluni punti, dal cui collegamento può emergere con maggior chiarezza un disegno
abbastanza persuasivo della pedagogia europea del rinascimento in senso stretto.
Abbiamo precedentemente messo in evidenza le difficoltà che si incontrano
allorché si cerca di stabilire un rapporto troppo stretto fra il rinascimento e la
trasformazione dell'assetto economico-politico della società europea. Tali difficoltà sono connesse, fra l'altro, ai noti aspetti degenerativi del J:I?-Ovimento umanistico, che sfociano nella sostituzione dell'autorità dei classici a quella dei dottori
della chiesa, nello svuotamento della cultura di ogni motivo «civile», nella riduzione della cultura a puro formalismo gelido e pedante, strumento di evasione
o di piaggeria cortigianesca. È chiaro che facendo questo discorso avevamo
avuto presente in modo precipuo la situazione italiana.
·ora il rinascimento europeo, quale risultato della diffusione di un fenomeno
inizialmente italiano, nasce, per dir così, già maturo ed ignora il travaglio rivoluzionario da cui trae impulso e caratterizzazione il primo umanesimo italiano.
D'altro canto, in Francia e in Inghilterra, proprio in questo momento sta iniziando quel periodo di prodigioso sviluppo economico-politico che farà di tali
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
paesi le massime potenze mondiali e le promotrici della rivoluzione capitalisticoborghese.
Sembra dunque che esistano, in Francia e in Inghilterra, le condizioni indispensabili per garantire, alla cultura in generale e all'azione educativa in particolare, quell'impegno «civile» che vien perso di vista, contemporaneamente, in
Italia. In realtà anche nei paesi in questione esistono limiti ben precisi ad uno sviluppo d'una cultura e d'un'azione educativa civilmente impegnate: limiti identificabili in primo luogo con la struttura ancora prevalentemente aristocratica della
società e con l'affermarsi, sul piano politico, del dispotismo principesco.
Per poter determinare con chiarezza i riflessi che l 'umanesimo ebbe nella
struttura sociale dei paesi europei, occorre distinguere due momenti. Nel primo
l 'insieme dei letterati di tutta Europa viene costituendo una specie di società di
spiriti raffinati, uniti, in mancanza di contatti personali diretti, mediante la fitta
rete dei legami epistolari. Successivamente questa società di spiriti raffinati si
dilata alquanto, fino a coincidere con quel complesso di persone ben nate e
bene educate, allontanate in tutto o in parte dall'attività politica a causa dell'invadenza monarchica, che occupano il loro tempo libero a gustare i piaceri dello spirito e che in Francia verranno chiamate /es honnetes gens.
Si tratta di una società ristretta, reclutata negli ambienti della nobiltà, tutt'al
più in quelli della borghesia più agiata e avente come suo centro e modello la
corte.
Osserva il sociologo francese Émile Durkheim che già nei secoli precedenti
nel mondo dei castelli, sotto l'influsso delle donne, i costumi erano caratterizzati
da un'eleganza e da una finezza che non si riscontravano altrove. Ma nel xvr secolo questo bisogno di raffinatezza, questo gusto per i piaceri più delicati si intensificherebbe e al tempo stesso si generalizzerebbe alquanto. Di qui un diffuso
orrore per la rusticità, la «barbarie», la violenza del medioevo. Il solo mezzo
per liberare gli spiriti dalla loro grossolanità, per ingentilirli e raffinarli sembra
essere il contatto assiduo, lo scambio familiare con una civiltà elegante come
quella classica, così com'essa si è espressa nelle opere dei grandi scrittori, poeti,
oratori.
Erasmo da Rotterdam (al quale venne dedicato un paragrafo del capitolo vn)
appare sotto questo punto di vista il più tipico esponente della pedagogia rinascimentale in senso stretto. Nei suoi scritti, termini quali barbarus, stoliditas, rusticitas, ritornano con grande frequenza. D'altro canto per lui non c'è dubbio che
il passaggio dalla rozzezza dell'età della pietra a forme di vita più propriamente
umane sia stato essenzialmente merito delle lettere. « Sono esse, » egli scrive,
« che formano lo spirito, addolciscono le passioni, spezzano gli slanci irruenti
del temperamento. »
La classicità ha, per lui, il carattere sacro di un modello ideale perfettamente
realizzato: non ci può essere progresso che non sia al tempo stesso restaurazione
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
dell'esemplare classico. Lungi dallo scorgere un contrasto fra l'antica cultura e
le esigenze del mondo cristiano, Erasmo ritiene che solo l'educazione umanistica
sia in grado di promuovere la formazione di una civiltà cristiana autenticamente
universale.
A chi gli obietti che un'educazione di tal fatta esclude le grandi masse dei
lavoratori poveri, egli risponde che non si può esigere dal potere di spingersi
così lontano come il volere e che al pedagogista si può chiedere dj descrivere il
migliore processo educativo, non di fornire i mezzi per attuare l'ideale.
Qui, come nota il già citato Durkheim, il grande umanista pecca non solo
di scarso impegno sociale ma anche di scarsa consequenzialità, giacché mostra
di non capire che il suo ideale educativo, quand'anche, per ipotesi, fosse generalizzabile, non risponderebbe ancora ai bisogni della maggioranza, che, ovviamente, non può risolvere i propri problemi vitali mediante il possesso dell'arte
oratoria e del più raffinato gusto estetico.
In tal senso ci pare assai più civilmente impegnato e tale da meritare una posizione centrale nel quadro della pedagogia rinascimentale, il pensiero che Baldassar Castiglione espone nel suo Cortegiano, 1 di gran lunga il più celebre fra
i trattati pedagogici del rinascimento italiano, tradotto ben presto in francese,
spagnolo ed inglese e destinato ad ispirare più generazioni di trattatisti fra i quali,
come vedremo, lo stesso John Locke.
I cortigiani, la corte, costituiscono, nella società che il Castiglione considera,
un gruppo di persone gravitanti attorno al signore e assolventi compiti non bene
differenziati ma costituenti l'impulso centrale e il modello riconosciuto di ogni
attività superiore della società stessa. Tutte le iniziative di qualche peso ricevono
il loro impulso dalla corte.
Per quanto si debbano considerare essenziali le doti naturali individuali, pure
è bene che il cortigiano sia di nobile famiglia, poiché la nobiltà di nascita infiamma
alla virtù, rende coraggiosi nel trattare con altri nobili e immunizza contro l'invidia popolare. Il cortigiano sarà uomo di lettere e d'arme, ma non sarà letterato
né soldato di professione; sarà coraggioso, ma non millantatore; sarà espertissimo in ogni sorta di giochi ed esercizi (equitazione, caccia, nuoto, salto, scherma,
scacchi, ecc.); saprà anche danzare, ma con misura. Il cortigiano compie ogni
gesto con abilità consumata, ma al tempo stesso con un distacco da gran signore.
Nella conversazione si fa apprezzare senza mostrarsi affettato, è spiritoso, ma sa
contenersi entro i giusti limiti e, soprattutto, sa adottare il tipo e la vivacità dello
spirito dell'ambiente nel quale si trova. Sa gustare la buona musica eseguita da
altri e sa anche eseguirla e in ciò trova il migliore riposo dopo il lavoro. Anche la
I Abbozzato in pochi giorni nel I 508, il
dialogo viene completato nel I 5I 6. Sottoposto ad
u?- ulteriore lavoro di lima, soprattutto dal punto
di vista linguistico, è stampato solo nel I 5z8.
L'autore immagina che, per quattro sere, nel pa-
lazzo di Urbino, alla presenza della duchessa Elisabetta Gonzaga, alcuni gentiluomini colti discutano per giungere a una descrizione quanto più
possibile completa e soddisfacente del perfetto cortigiano.
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
scultura, la pittura e il disegno debbono far parte del bagaglio culturale del cortigiano. Disegno e pittura hanno anche una funzione pratica in quanto permettono
di tracciare schizzi topografici, rilievi di fortificazioni, ecc. Essi però debbono soprattutto affinare il gusto e rendere possibile una più profonda comprensione dell'armonia del creato.
Il cortigiano veste dignitosamente, adeguandosi alle circostanze. La formula
dell'eleganza aristocratica consiste nel seguire la moda riuscendo a non attirare
l'attenzione su di sé. Ma tutto questo (l~ cultura, lo sport, l'eloquio elegante, la
finezza di spirito, ecc.) è, per il Castiglione, soltanto il fiore della cortigianeria.
Nessuno, fra i trattatisti del pieno rinascimento, sente come il Castiglione
il motivo, già essenziale in Vittorino da Feltre, della perfetta corrispondenza tra
il comportamento esteriore e l'intima vita spirituale.
Il portamento, il tono di voce, gli atteggiamenti signorili, non sono mera
forma, ma coinvolgono la sostanza medesima della personalità, il cui frutto consiste nell'impegno ad aiutare il principe a ben operare. Così la cortigianeria
assume il carattere di una vera missione pedagogico-politica e il cortigiano è
posto davanti al principe e alle masse popolari quale modello di perfezione.
Di fronte all'ideale educativo tratteggiato negli scritti di Erasmo e del Castiglione, 1 statico e formalistico, il rinascimento europeo produce l 'ideale dinamico
e realistico espresso plasticamente da Rabelais (cui abbiamo dedicato il paragrafo
IV del capitolo vn). Il romanzo di Gargantua e Pantagruel, fantasioso ed eroico,
sembra assai lontano da un'opera pedagogica e, invece, al di là delle facezie, delle
grossolanità e delle esagerazioni miranti a colpire l'immaginazione popolare,
contiene il primo abbozzo di una educazione moderna, basata sull'osservazione
della realtà più che sulla lettura dei libri, sul lavoro, sull'armonico sviluppo delle
facoltà conoscitive e pratiche.
Movendo dal presupposto della fondamentale bontà della natura umana, Rabelais dimostra orrore per tutto ciò che costituisce regola e disciplina, ostacolo
alla libera espansione dell'attività. Regolamentare la natura è imporle dei limiti
e, conseguentemente, mutilarla.
Ne consegue, nel campo pedagogico, che tutte le facoltà del fanciullo, spirito e corpo, debbono essere esercitate al massimo grado e portate al più alto livello di sviluppo di cui sono suscettibili. Ma questa amplificazione in tutti i
sensi della persona umana non può essere il risultato di mere esercitazioni formali: è indispensabile che l 'individuo si appropri nella maniera più piena e completa della scienza più progredita. Di qui quel gusto intemperante per l'erudizione, quella sete di sapere che nulla può appagare, che rischia di degenerare nell'enciclopedismo nozionistico e che tanti storici della pedagogia hanno rimproverato al Rabelais.
I Motivi analoghi sono contenuti nelle
opere dello spagnolo Luis Vives, cui si è fatto
cenno nel capitolo vn, allorché si sono esaminati
gli sviluppi dell'umanesimo.
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
È chiaro come Rabelais rappresenti, di fronte al mito della restauratio ed al
culto dell'umanità greco-romana quale momento-modello unico e definitivo, mito
e culto sfocianti necessariamente in un ideale metastorico e quindi statico, l 'altra
faccia del rinascimento: l'acquisizione della consapevolezza storica, la scoperta
della verità figlia del tempo, la meraviglia e l'entusiasmo per le nuove invenzioni
e le nuove scoperte, il rinnovato atteggiamento di fronte alla natura e, in generale,
di fronte al mondo delle « cose ».
Il pericolo di scivolare nell'enciclopedismo nasce non tanto, o non solo,
da un certo ingenuo, giovanile entusiasmo dell'autore, quanto dal carattere intimamente contraddittorio della cultura umanistico-rinascimentale, la quale, mentre
da un lato afferma la dignità della persona umana come unità armonica di tutte le
facoltà, dall'altro dà l'avvio a ciò che la civiltà moderna ha di più essenziale e al
tempo stesso di più conturbante: lo sviluppo e l'accentuazione illimitata della specializzazione.
Ci sembra che non si possa chiudere il presente paragrafo senza un cenno a
Michel de Montaigne, della cui importanza, nel quadro della cultura e della filosofia rinascimentale, è già stato detto nel capitolo vn, paragrafo v. Il suo rifiuto di inserirsi nel mondo di corte, il suo amore per la solitudine e la meditazione, il suo disprezzo per la retorica e la sua sfiducia nella scienza, collocano questo pensatore al di fuori dei due campi, conservatore e progressista, precedentemente tratteggiati e possono attirargli l'accusa di negativismo rinunciatario. In
realtà questo non impedisce al nostro autore di cogliere con occhio straordinariamente acuto alcuni dei problemi pedagogici che appaiono maggiormente scottanti ancora ai giorni nostri.
Nei Saggi gli spunti e i motivi pedagogici abbondano. Due di essi, poi, intitolati rispettivamente Della pedanteria e Dell'educazione dei fanciulli, sono intera-'
mente dedicati al problema educativo.
Nel saggio Della pedanteria Montaigne si domanda perché i maestri debbano,
in genere, essere disprezzati non solo dal volgo, ciò che dimostrerebbe soltanto
l'ignoranza di quest'ultimo, ma anche dalle persone colte e intelligenti. È purtroppo indiscutibile che molti precettori, pur conoscendo tante cose, rivelano
un'anima meschina, come se, per far posto agli altri, la loro personalità si fosse
quasi rimpicciolita e contratta. Ora, nell'autentico processo di assimilazione, la
nostra anima si allarga quanto più si riempie. Bisogna concludere dunque che,
in genere, i maestri di scuola possono conservare uno spirito rozzo e volgare,
pur albergando in sé le idee dei più eletti spiriti, in quanto si applicano alle scienze
in modo pessimo. Questo pessimo metodo consiste nel mnemonismo, nel gusto
dell'erudizione, nel riempire la testa di nozioni senza preoccuparsi del rafforzarsi
della capacità di giudizio e della virtù morale. Sappiamo citare le opinioni di
Cicerone, di Platone e di Aristotele come pappagalli, senza formarci un'opinione
nostra. Ma non basta riempire il ventre di cibo per crescere ed acquistare forza:
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
l'essenziale è digerire ed assimilare! Senza l'assimilazione lo studio riesce nocivo,
poiché fa perdere quella capacità di comportarsi naturalmente e di parlare semplicemente delle poche cose veramente conosciute che riscontriamo nei contadini
e negli artigiani, laddove gli pseudoeruditi s'impastoiano e s'imbarazzano di
continuo per quel sapere che galleggia alla superficie del loro cervello.
Montaigne biasima, conseguentemente, l'abuso dei libri e vuole che quel
poco che di veramente buono si legge divenga come il succo dei fiori che le api
colgono qua e là trasformandolo in saporoso e nutriente miele.
Quanto alla causa profonda della diffusa degenerazione del metodo educativo, essa consiste nel fatto che gli uomini più attivi si dedicano agli affari, i più
nobili alle carriere onorifiche, non dedicandosi affatto o dedicandosi per breve
tempo alle lettere.
Restano, per queste, individui di mediocre ingegno e di poca fortuna che
nelle lettere cercano i mezzi per campare e portano negli studi una mentalità disadatta, giacché, come gli zoppi non sono adatti alla ginnastica, così le anime
zoppe, cioè volgari, sono indegne dell'alta cultura.
Nel saggio Dell'educazione dei fanciulli Montaigne affronta una serie più varia
e copiosa di motivi pedagogici. Ci limiteremo a sottolineare il fatto che Montaigne vede chiaramente come per giungere a formare un nuovo tipo di uomo sia
indispensabile rinnovare il metodo, anticipando con finezza d'intuito eccezionale
tutta una seria di metodi fondamentali della moderna scuola « attiva ».
Il maestro deve seguire le attitudini del fanciullo, osservandolo ·mentre
agisce, ascoltandolo mentre parla. Egli deve far « trottare » il piccolo innanzi
a sé per determinare il ritmo del suo passo, altrimenti rischierà di andare troppo
in fretta o troppo adagio, con risultati disastrosi in entrambi i casi.
Non è possibile insegnare a tanti alunni diversi usando l'identico metodo:
saremmo seguiti da uno o da due al massimo; il metodo deve essere individualizzato.
Quanto alla valutazione, essa non deve poggiare sulla capacità del bambino
di ricordare, ma su quella di giudicare. La maturità di giudizio, poi, si rivela con
l'applicazione dei principi a casi diversi e nella traduzione della teoria in pratica.
Nulla sarà appreso in base al principio di autorità. Il fanciullo deve imparare a non valutare a priori Aristotele più di Platone, gli stoici più degli epicurei. Legga, mediti, confronti e scelga e se non si sentirà in grado di scegliere
rimanga nel dubbio, ché la libertà di giudizio è prova di uno spirito maturo. Essenziale è che il giovane sia sempre disposto a cedere di fronte alla verità, da qualunque parte essa venga. Abbiamo qualcosa da imparare da tutti, dai sapienti
come dagli operai e dalle cose.
Per la formazione di questa mentalità serenamente scettica ha un'importanza decisiva il commercio con gli uomini più diversi: quindi conversazioni,
viaggi, letture, specialmente di libri di storia che mettono a contatto coi grandi
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
del passato. Così il giovane imparerà a non vedere, come fa il vecchio parroco,
nella gelata delle viti l 'ira di dio o in una guerra civile il segno della fine del
mondo.
Bisogna osservare l'universo in tutta la sua immensa maestà: vedere come la
nostra vita e quella di un intero popolo altro non siano, in quel quadro, che un
segno tracciato da una punta sottilissima. La riflessione sulla varietà delle opinioni, dei costumi, delle leggi, ci insegna a riconoscere i limiti del nostro intelletto.
La meditazione sui rivolgimenti della fortuna ci induce a non far caso della nostra.
La considerazione delle migliaia di uomini sepolti prima di noi ci incoraggia a
non temere di andarci a unire con loro nell'altro mondo.
IV · RIFORMA E EDUCAZIONE
Come già si è detto nel capitolo v, il diritto-dovere che ogni cristiano ha di
interpretare liberamente la Scrittura presuppone, ovviamente, la capacità di
leggere. Pertanto il principio del libero esame implica la scuola, almeno nel suo
grado elementare, per tutti. Ma scuola per tutti vuoi dire scuola gratuita e obbligatoria. La gratuità e l'obbligatorietà, poi, esigono l'intervento dello stato, o,
comunque, di un'autorità pubblica la quale possegga mezzi e forza sufficienti
a fare della frequenza una realtà concreta e non una mera dichiarazione di principio.
L'obbligo di apprendere a leggere, pur avendo una dichiarata finalità religiosa, è destinato ad assumere, al di là delle stesse intenzioni dei riformatori, la
funzione di uno strumento di liberazione dell'individuo, di diffusione della stampa
e, in ultima analisi, di progresso scientifico.
Un'altra conseguenza dell'universale obbligo scolastico è l'affermarsi delle
varie lingue nazionali. Lutero traduce la Bibbia in tedesco, assolvendo nella
storia del suo paese un compito analogo a quello assolto in Italia dai grandi
toscani del Due-Trecento. Il latino cessa di separare il clero dal laica t o e di attribuire al culto un carattere misterioso, esoterico. La gerarchia ecclesiastica perde
il suo valore e la funzione sacerdotale viene estesa a tutti i credenti.
L'identificazione dell'attività religiosa con la normale attività economica,
civile, politica, nonché la rivalutazione del lavoro, aprendo la strada al formarsi
di una rigida morale professionale, impongono di affrontare il problema della
identificazione delle attitudini individuali e pongono le condizioni di ordine ideologico per il fiorire di scuole professionali.
Ma i motivi più tipicamente moderni sono quelli che la pedagogia deriva
dal principio del libero esame e dalla interiorizzazione del fatto religioso.
Indubbiamente il libero esame non è ancora la libertà di pensiero in senso
moderno, dal momento che viene pur sempre accettato il concetto di rivelazione;
però il fatto che al posto della chiesa subentri direttamente dio, la cui verità e la
cui legge parlano dall'interno del soggetto stesso; il fatto, soprattutto, che ven-
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
ga negato il diritto di dirigere il pensiero e di limitarne la manifestazione a una
qualunque autorità umana, crea i presupposti per la futura affermazione dell'autonomia della ragione.
L'interiorizzazione della fede, escludendo ogni possibilità di formalismo
farisaico e collegando la speranza nella salvezza con una interiore autentica
conquista di perfezione morale, pone l 'uomo di fronte a se stesso, in condizione
di realizzare la propria personalità in un'atmosfera di spietata sincerità finora
sconosciuta.
Sarà opportuno ricordare ancora una volta le già citate opere di Lutero che
hanno particolare interesse pedagogico. Esse sono: Lettera ai consiglieri di tutte le
città della Germania (1524); Grande e piccolo catechismo (1529); Sermone sulla necessità
di mandare i fanciulli a scuola (1 53o), oltre, naturalmente, la traduzione tedesca
della Bibbia. Da esse appare chiaro che, per il loro autore, l'educazione ha un
fine essenzialmente religioso. È necessario che tutti siamo messi fin dalla fanciullezza in grado di leggere la Bibbia, allo scopo di realizzare, sotto la guida della
Scrittura, il rapporto personale con Cristo. Lutero non ritiene che la Bibbia
presenti difficoltà eccessive per i fanciulli: le verità più alte, egli dice, finiscono
per essere le più semplici.
Il primo centro educativo è la famiglia. I rapporti tra genitori e figli hanno un
carattere sacro, in quanto analoghi a quelli intercorrenti tra dio e gli uomini.
D'altro canto il padre e la madre sono i migliori educatori, in quanto la loro
opera è illuminata e riscaldata dall'amore. «L'amore è il migliore maestro,» dice Lutero; «con l'amore si ottiene assai più che con una paura servile e con la
costrizione. »
Ma i genitori, assai spesso, non sono all'altezza del compito educativo o,
perlomeno, non possono assolverlo oltre un certo limite. Alcuni sono indifferenti; altri sono incapaci o indegni; altri, infine, sono tutti presi dagli affari.
È dunque necessario l'intervento del maestro o, meglio, della scuola. Lutero,
infatti, è sostenitore dell'educazione pubblica e comune, perché «il giovane
allevato lungi dalla società è simile all'albero piantato in un vaso troppo stretto».
La missione del maestro è altissima e la sua efficacia è forse superiore anche a
quella del pastore: nessuno dovrebbe, comunque, essere pastore senza essere
stato prima maestro.
L utero si preoccupa che il passaggio dall'atmosfera familiare a quella scolastica non abbia a risultare troppo brusco. Egli pertanto vuole messe al bando le
maniere aspre, rigide, crudeli. Il bambino ha bisogno di aria, ~i sole, di gioia;
perciò nella scuola luterana si fa posto alla ginnastica e ai giochi e si favorisce il
nascere di liete compagnie.
Un cenno particolare merita l'importanza attribuita alla musica. Il rinnovamento luterano in campo liturgico, chiamando direttamente il popolo ad officiare,
esige che anche i laici, oltre ai chierici, facciano sentire la loro voce. Ma la musica
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma_ nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
polifonica della chiesa cattolica è divenuta, attraverso i secoli, qualcosa di eccessivamente complesso. Inoltre il canto gregoriano, del quale essa è il monumentale
sviluppo, è ormai lontanissimo dalla sensibilità popolare. Lutero introduce audacemente nella liturgia, accanto alla lingua tedesca, il canto popolare, spontaneo,
melodico, atto al sincero esprimersi dello slancio interiore. Il nuovo tipo di
canto religioso tedesco prenderà il nome di «corale» e avrà un successo tale da
far esclamare a un gesuita: « I canti di L utero hanno ucciso più anime che non tutti
i suoi scritti e discorsi. » Nulla di più naturale, dunque, che venga attribuita
grande importanza alla musica e in particolare al canto corale anche nella scuola.
La musica rende gli uomini più indulgenti e più dolci. Un maestro che non sappia
cantare è inconcepibile.
Se il fine ultimo dell'educazione è religioso, non sfugge però a Lutero l'importanza dell'educazione stessa anche in rapporto alla vita terrena. «Quand'anche
non ci fosse né anima, né cielo né inferno, » egli scrive, « sarebbe sempre necessario avere delle scuole per le cose di quaggiù, come ce lo prova la storia dei
greci e dei romani. Che! Sarebbe indifferente che il principe, il signore, il consigliere, il funzionario fosse un ignorante o un uomo istruito, capace di soddisfare
ai doveri della propria carica? Il mondo ha bisogno di uomini e di donne istruite,
perché gli uomini possano governar bene il paese e le donne sappiano educare i
figli, vigilino sui servi e dirigano saggiamente la casa. »
Nelle citate lettere ai consiglieri ed ai magistrati di tutte le città tedesche,
L utero attribuisce allo stato l 'importantissimo compito della creazione e del
finanziamento della scuola per tutti. Lo stato, poi, come ha il dovere di creare
e finanziare le scuole così ha il diritto-dovere di costringere alla frequenza. Con
ciò, come abbiamo già detto, vengono gettati i pilastri fondamentali della scuola
moderna.
Come già si accennò nel capitolo v, Lutero si occupa pure della scuola superiore, ed è interessante notare - a conferma del! 'influenza esercitata su di lui
dall'umanesimo - che. prevede per essa, tra gli insegnamenti fondamentali,
quelli del latino, del greco, dell'ebraico, la cui conoscenza è reputata indispensabile
affinché almeno qualcuno sia in grado di risalire alle fonti della Scrittura. La lingua
materna deve invece venire usata per leggere la Bibbia e per cantare (ricordiamo
che nella liturgia luterana al canto popolare, spontaneo, melodico è assegnata
una funzione di grande rilievo, perché lo si ritiene atto al sincero esprimersi dello
slancio interiore).
Per quanto riguarda l'organizzazione della scuola non diretta al popolo,
venne pure segnalato nel capitolo v il contributo decisivo ad essa dato da Filippo
Melantone, dottissimo professore e umanista, la cui adesione al movimento
protestante incise profondamente - come già sappiamo - sui rapporti fra
riforma e umanesimo. Senza ripetere quanto venne spiegato nel predetto capitolo, occorre ribadire che proprio a Melantone si deve se un importante nucleo
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
del pensiero umanistico-rinascimentale riuscì, nei paesi riformati, a inserirsi in
larghi strati di popolazione e ad influire in modo decisivo sulla formazione di
una vera e propria cultura nazionale tedesca.
Accanto a Lutero e a Melantone vanno ricordati, fra i massimi rappresentanti della pedagogia della riforma, oltre, ovviamente, Zwingli e Calvino (i
quali, pur nella molteplicità delle loro cure, trovano modo di occuparsi del
problema educativo che sentono fondamentale), Valentin Trotzendorf (14901556), Johannes Sturm (1507-1589) e Johann Bugenhagen (1485-1558). Quest'ultimo è il solo che, nel corso del xvi secolo, si impegni con serietà e consapevolezza per realizzare la scuola popolare come la voleva Lutero.
Malgrado la serietà del suo impegno, egli non poté ottenere risultati sostanziali e duraturi. Onde si può concludere che la scuola popolare non riuscì
a trovare, nel xvi secolo, un solido assetto; i generosi tentativi dei pochi isolati
saranno poi frustrati dalla guerra dei trent'anni.
V · CONTRORIFORMA E EDUCAZIONE
Già sappiamo che tutta la cultura fu investita dall'ondata di ritorno della
controriforma. Rinascimento e riforma, pur partendo da considerazioni diverse,
avevano attaccato la filosofia medievale e in particolare l'Aristotele di Tommaso
d'Aquino. Ora si ritorna al medioevo e ad Aristotele; anzi si può dire che mai,
come in questo periodo, lo stagirita, nell'interpretazione tomistica, viene esaltato
ed innalzato a simbolo della filosofia perenne, ancella della teologia. Viene aggredito il Machiavelli, accusato d'essere il creatore di quella realtà ch'egli, di
fatto, si è limitato a descrivere ed interpretare, e si riafferma la subordinazione
della politica morale, giustificando ideologicamente la subordinazione dello stato
alla chiesa.
Come la tesi della filosofia per la filosofia e della politica per la politica,
viene respinta la pretesa dell'arte di avere come fine esclusivo il bello.
Tutto ciò che non s'inquadra nella visione cattolica del mondo e non serve
la religione è, in sostanza, spregiato e condannato. La letteratura è sotto stretta
sorveglianza. Il teatro specialmente, come quello che agisce con maggiore efficacia sul sentimento e sul pensiero delle masse, viene sottoposto, per iniziativa
di Carlo Borromeo, il più zelante fautore dell'« indice dei libri proibiti»,
ad un sistema di controllo così rigido da ridurre la tragedia ad uno spettacolo
riservato ad un pubblico ristrettissimo e selezionato, e da far degenerare la commedia nell'umile e volgare commedia dell'arte. Questo mentre in Inghilterra
fiorisce Shakespeare.
La controriforma è, dunque, nel suo insieme, un'immane, complessa iniziativa pedagogica. Nulla di più logico, pertanto, che al problema educativo 1n
senso stretto essa attribuisca importanza fondamentale.
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
Prima di tutto bisogna educare gli educatori, cioè i religiosi, scegliendoli
con i più severi criteri selettivi, formandoli ad una maggiore consapevolezza
della grave missione. Viene ribadito l'obbligo del celibato e della residenza; è
intensificata la sorveglianza; sono precisati i compiti. Sorgono i seminari, nuova,
fondamentale istituzione educativa dell'occidente europeo.
Si cerca di combattere l'influsso della riforma e del rinascimento sul loro
stesso terreno: quello della scuola. Si fa obbligo specifico ai sacerdoti di occuparsi
dell'istruzione, almeno elementare, dei fanciulli. Si concedono mezzi notevoli
agli ordini insegnanti. Si creano collegi universitari cattolici. Vedremo però nel
paragrafo successivo come questo programma di larga diffusione della cultura
elementare, proprio per la funzione strumentale che è attribuita alla cultura
stessa, rimanga in larga misura allo stato velleitario, risolvendosi perlopiù in
un mero programma di istruzione catechistica.
Alla pedagogia della controriforma manca il fattore indispensabile per essere
strumento di progresso: la fede nella cultura per se stessa, quella fede ch'è invece
l'essenza stessa del rinascimento e che ha tanta parte anche nella concezione
luterana della scuola.
Taluno sostiene trattarsi di « necessità strategica », di « pedagogia di guerra »,
ma, come altri ribatte acutamente, queste posizioni finiranno per cristallizzarsi in
forme definitive; ciò costringerà l'umanità a un lungo, faticoso travaglio culturale ed a nuove esplosioni rivoluzionarie.
Massimo scrittore di pedagogia della controriforma può essere considerato
Silvio Antoniano ( 1 540-160 3), autore dei Tre libri dell'educazione cristiana dei
figlioli ( 1 58 3), guida precisa e minuta messa a disposizione dei padri di famiglia
di tutte le classi sociali.
Il pensiero dell'Antoniano si svolge partendo da tre motivi fondamentali.
In primo luogo, la constatazione che i tempi presenti sono pieni di calamità e
di corruzione. In secondo luogo, la convinzione che le calamità e la corruzione
siano conseguenza del moltiplicarsi dei falsi profeti. In terzo luogo, la ferma
persuasione che per rimediare ai mali della società sia indispensabile agire sui
giovani mediante una precoce azione educativa.
Tutta la vita deve risultare subordinata, fin nelle sue più minute manifestazioni, alla finalità religiosa. Fuori della chiesa non c'è possibilità di salvezza e
rimanere nella chiesa non significa accettare solo, in linea generale, le definizioni
dei concili e del papato, ma anche tutto ciò che viene insegnato quotidianamente sulle singole questioni dal magistero ordinario della chiesa stessa. Così
l'Antoniano giunge ad affermare che non solo l'idiota e la femminella e l'artigiano, ma tutti i laici, in quanto tali, debbono rinunciare a « sottilmente discutere delle cose della nostra santa fede », a « ricercare curiosamente cose al di
sopra del loro intendimento » e devono, in materia, limitarsi a « credere semplicemente quello che la nostra santa madre chiesa ci propone ». E, perché
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nell'applicazione dei dettami della chiesa non ci sia posto per interpretazioni
soggettive, arbitrarie, il nostro autore dichiara « cosa importantissima e quasi la
somma della vita cristiana» l'affidarsi in modo « stabile e ordinario» ad un padre
spirituale che guidi tutte le azioni del fedele, ispirandosi alla scienza della verità
della fede che la sua posizione sacerdotale comporta, alla profonda cognizione
dell'anima umana, e soprattutto, al lume speciale che dio gli concede perché
egli possa condurre sicuramente in porto la vita di chi a lui si è rivolto.
Sul piano dell'attività organizzativa le figure più salienti sono quelle di
Filippo Neri ( 15 I 5- I 59 5), il fondatore dell'oratorio, primo esempio di istituzione
destinata ad un uso sano e sereno del tempo libero; Carlo Borromeo (I 538I 584), il cui nome è legato, oltre alla istituzione dell'Indice dei libri proibiti, alla
fondazione del grande seminario di Milano e di alcuni collegi universitari destinati
ad istruire giovani di predare doti intellettuali nella lotta contro il protestantesimo e l'eresia; Giuseppe Calasanzio (I556-I648), spagnolo, creatore delle Scuole
Pie, le prime scuole popolari dei tempi moderni e perciò accusato di essere il
«maestro dei lazzaroni »; Jean Baptiste de La Salle (I6p-I7I9), organizzatore di
quella che può essere considerata la prima vera scuola normale (Reims I 68 5).
Per quanto riguarda le congregazioni ci limitiamo a ricordare quelle dei
barnabiti e dei somaschi.
Di gran lunga più importante, però, e tale da imporre che ci si soffermi, sia
pure brevemente, è la compagnia di Gesù.
I gesuiti svolgono nel modo più conseguente i principi della restaurazione
cattolica. Come già si è detto nel capitolo v, essi appaiono da un lato ottimisti
nei riguardi dell'umanità, la cui iniziativa e le cui opere definiscono collaborazione
all'opera di dio, indispensabile perché la grazia possa a sua volta intervenire;
da un altro lato, però, rivelano un sostanziale pessimismo nei riguardi dell'individuo, alla cui autonoma iniziativa negano la capacità di raggiungere la perfezione morale e religiosa. Questo li porta a respingere l'interpretazione del cristianesimo come libertà interiore ed esaltazione della soggettività, per accettarne
invece una interpretazione « politica ».
Il singolo può trovare la salvezza solo mediante l'inserimento in una società
perfetta. Questa società, poi, non si riduce ad una collettività meramente spirituale,
ma assume il carattere di un sistema rigidamente organizzato, gerarchizzato e
accentrato, le cui norme positive rappresentano il solo criterio d'azione, seguendo il quale è possibile all'individuo di raggiungere la salvezza. Ne deriva, logicamente, che la via della restaurazione cattolica non è, per i gesuiti, quella della
riconquista dei singoli, del riaccendimento della religiosità nell'intimo d'ogni
singola coscienza, ma quella del successo terreno della chiesa. Il primitivo programma missionario si concretizza, per quanto riguarda l'Europa, nei seguenti
punti: materiale riconquista dei territori passati al protestantesimo, ferreo controllo della classe dirigente e di tutti i gangli vitali della società nei paesi cattolici.
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Dalla teoria della struttura organica della società i gesuiti derivano la convinzione che la discussione sui fondamentali problemi della vita e del mondo,
sulle grandi questioni politiche e religiose, esuli dalle possibilità intellettuali
come dagli interessi e dallo stesso mondo ideale degli individui normali. Solo la
chiesa possiede la verità assoluta, conosce i fini assoluti e può elargire la forza
miracolosa indispensabile per raggiungere tali fini. E, quando si parla di chiesa,
è ovvio che non si intende la comunione di tutti i fedeli, ma soltanto la gerarchia,
i successori degli apostoli e, in primo luogo, il successore del principe degli apostoli: il papa. Tutti coloro che esercitano il potere in nome dell'autorità papale
partecipano della funzione di « superiorità », divengono « anelli della catena di
autorità che governa il mondo ». La perfezione della condotta umana non può
consistere che nella perfetta obbedienza al papa quale unico diretto rappresentante
di dio in terra. È evidente come questa dottrina contenga in nuce il dogma dell 'infallibilità pontificia.
La compagnia di Gesù nasce non come ordine insegnante ma come ordine
missionario e solo sulla base dell'esperienza si viene formando e progressivamente rafforzando fra i suoi membri la convinzione che la più efficace forma di
attività missionaria sia precisamente l'insegnamento.
La legge organica in cui sono fissati i capisaldi del governo dei collegi,
dell'ordinamento degli studi, della formazione degli studenti, è la parte quarta
delle Costituzioni elaborate dallo stesso Ignazio fra il 1541 e il 1550. Sulle tracce
di questa legge organica sorgono ben presto numerosi collegi, in Italia, Austria,
Portogallo, Spagna, Germania, Francia, Boemia e viene elaborata la Ratio studiorum, promulgata nella sua forma definitiva dal padre Acquaviva nel I 599·
La Ratio, nei suoi trenta capitoli, costituisce un insieme organico di regole che
rimarrà, attraverso i secoli, lo strumento rigido di un'educazione governata da
regole fisse.
Il carattere militare della compagnia fa sì che la virtù essenziale sia l'obbedienza. Nelle Costituzioni ignaziane leggiamo: «La santa obbedienza sia sempre
in noi perfetta in ogni parte, nell'opera come nella volontà e nell'intelletto, sì
che mettiamo in effetto ciò che ci viene comandato con grande prestezza, gaudio
e perseveranza; persuadiamoci che tutto [quello che ci viene comandato] è giusto,
annegando in ciò con una certa obbedienza cieca quanto il giudizio e parere
nostro ci dettasse in contrario... Ciascuno si persuada che quelli che vivono
ubbidendo debbono lasciarsi guidare dalla divina provvidenza per mezzo dei
superiori, come se fossero un corpo morto [" perinde ac si cadaver essent "] che si
lascia volgere per ogni verso; ovvero a guisa di un bastone da vecchio [" vel
similiter atque senis baculus "], il quale serve a chi lo tiene in ogni luogo ed a
qualsivoglia uso.» L'obbedienza perfetta, dunque, non è mero agire secondo gli
ordini, ma conformare la volontà alla volontà dei superiori e l'intelligenza (che dirige la volontà) all'intelligenza di chi comanda. L'ossequio all'autorità pura for-
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male, all'autorità in quanto tale, diviene l'essenza stessa della virtù. L'educazione
deve quindi creare l'abito dell'obbedienza e, conseguentemente, dell'autodominio
come capacità di reprimere tutti gli impulsi che potrebbero spingere al rifiuto
d'obbedienza.
La mancanza di fiducia nell'uomo comune e la recisa negazione di ogni
egualitarismo democratico portano la compagnia a trascurare deliberatamente
l'istruzione popolare ed a puntare solo alla formazione dei ceti dirigenti.
La mancanza di fiducia nella capacità dell'uomo di raggiungere da solo la
perfezione morale si riflette anche sulla famiglia. I gesuiti sono assertori decisi
di un'educazione «totale», realizzabile solo mediante l'internato. Il fanciullo
deve essere alienato dalla famiglia. A tale scopo l'anno scolastico prevede vacanze
abbastanza frequenti ma brevi, specialmente per gli alunni dei corsi inferiori,
più sensibili all'influsso diseducativo dell'ambiente extrascolastico.
L'intero curriculum è suddiviso in tre corsi: l'umanistico, di cinque anni
(tre più due); il filosofico, di tre; il teologico, di quattro. Il passaggio da una classe
all'altra avviene sempre attraverso esami. La commissione è costituita dal prefetto
e da due insegnanti estranei alla classe. Il giudizio deve tener conto dei risultati
ottenuti dal candidato durante l'anno e del parere dell'insegnante di classe. La
prova può concludersi con la promozione, con l'ammissione sub judice alla
classe successiva (con possibilità di restituzione alla classe di provenienza), con una
bocciatura o, infine, con una dichiarazione di inettitudine e conseguente allontanamento del giovane dal collegio.
In ciascuno dei tre corsi c'è una sola materia di insegnamento. In ognuna
delle cinque classi del corso umanistico insegna un solo maestro. Attorno al
latino e al greco ruota la cosiddetta « erudizione » avente la mera funzione di
rendere intelligibili i classici. I testi vengono accuratamente purgati da tutto ciò
che potrebbe turbare la morale cattolica.
Dal punto di vista didattico il lavoro scolastico si articola nei momenti della
« prelezione » (« magister legendo praeit discipulis »), della composizione (basata
sul criterio fondamentale della imitazione dei classici), della ripetizione (la stessa
materia viene ripetuta, in varie guise, fino sette volte!), della declamazione (di
passi di autori o di composizioni degli stessi alunni), della disputa fra singoli
alunni o fra gruppi debitamente preparati e, infine, dell'« accademia», specie di
gruppo di studio costituito di alunni che si siano distinti per diligenza, profitto
e pietà.
La storia, definita « rovina di chi la studia », non trova posto nel piano
gesuitico e, se mai, è ridotta entro i limiti della mera erudizione. Quanto ai corsi
di filosofia è sufficiente sottolineare la rigorosa fedeltà ad Aristotele e a Tommaso d'Aquino.
Un cenno speciale merita la posizione che, nel quadro delle Costituzioni e
della Ratio, occupa il maestro. Indubbiamente i gesuiti attribuiscono grande
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impurunza alla ligura ddl 'insegnante. La stessa gratuità dell'insegnamento,
svincolando il maestro da ogni dipendenza economica nei riguardi degli alunni,
contribuisce ad attribuirgli maggiore dignità. Inoltre il maestro della scuola
gesuitica è un uomo che ha seguito un lungo e severo curriculum; si è formato
una buona cultura ed ha acquistato esperienza didattica con almeno tre anni di
tirocinio. È, soprattutto, un uomo dedito completamente all'insegnamento, che
considera come una missione.
Senonché, qualora si considerino più da vicino le regole della Ratio, questo
maestro, così seriamente preparato e severamente impegnato, si trasforma ai
nostri occhi in un mero ingranaggio privo di spirito di iniziativa, al quale è fatto
assoluto divieto di introdurre nella scuola alcunché di originale. Non deve
affrontare nessuna questione non prevista dai programmi, « neppure nelle cose
nelle quali non v'è pericolo per la fede e la pietà». Dev'essere parco anche nella
citazione dei dottori ed appoggiarsi preferibilmente alle sentenze dei pontefici,
dei concili, dei padri della chiesa. Insegnando filosofia, non solo non deve mostrare simpatie per qualche dottrina non perfettamente ortodossa, ma deve anche
evitare di intrattenersi troppo sulla tesi da confutare, per non fissare su di essa
l'interesse degli alunni.
Deve armonizzare il proprio insegnamento con quello degli insegnanti delle
classi precedenti e di coloro che eventualmente lo abbiano preceduto nella sua
stessa classe. Sia nelle cose riguardanti la disciplina, sia in quelle concernenti
lo studio non deve discostarsi dalle disposizioni del rettore e del prefetto, dai
quali, del resto, è costantemente controllato.
Ed eccoci ad affrontare, da ultimo, l'aspetto forse più interessante e controverso dell'educazione gesuitica: quello della disciplina.
Si afferma sovente che i gesuiti tingono di oro tutte le sbarre allo scopo di
rendere la gabbia più accetta a chi vi è rinchiuso. Indubbiamente la vita dei collegi della compagnia non è particolarmente pesante. La Ratio si preoccupa di
evitare qualsiasi forma di aggravio, intercalando al lavoro periodi adeguati di
riposo e ricreazione. A questo scopo sono previsti, accanto alle declamazioni,
alle dispute ed agli spettacoli teatrali, di cui già abbiamo fatto cenno, anche giochi
ed esercizi sportivi.
Per ottenere buoni risultati in clima di dolcezza, i gesuiti contano molto
sullo spirito di emulazione. Tutta l'attività scolastica è trasformata in gara. Gare
tra individui e tra gruppi. Ma il fattore principale di disciplina, quello che più
d'ogni altro rende possibile una disciplina dolce, è la vigilanza continua e reciproca e la delazione. L'alunno sa di essere continuamente spiato dai compagni
ed a sua volta continuamente li spia. La denuncia delle malefatte altrui è apprezzata
e stimata. Chi abbia commesso una colpa sarà perdonato, qualora denunci un
compagno reo della stessa mancanza!
Indubbiamente non troviamo qui nessun cenno a quella obbedienza pe-
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rinde ac cadaver che invece rappresenta il motivo fondamentale nella formazione
del futuro gesuita. Tanto nelle Costitttzioni quanto nella Ratio non si esige, in
materia di disciplina, nulla più che una moderata obbedienza qual è indispensabile in ogni ben ordinato collegio. Perciò quei critici i quali attribuiscono il
perinde agli esterni anziché ai futuri membri della compagnia confondono i due
piani educativi.
Ma la situazione del laico che esce dal collegio gesuitico è forse sostanzialmente diversa? L'individuo, nel collegio gesuitico, diviene un recipiente di informazioni e di capacità accuratamente selezionate e scelte da coloro che hanno
l'incarico di istruirlo. Anziché promuovere l'autonomo sviluppo della potenzialità individuale, si mira, come a massimo risultato, ad ottenere che tutti pensino
in identica maniera, almeno sulle questioni fondamentali. Si evitano gli argomenti
che possono far nascere discussioni sui principi, si sottolineano o si mettono in
ombra i fatti in modo da indirizzare il pensiero ed il sentimento dell'alunno in
un senso prestabilito. Ci si serve dell'istruzione come di uno strumento soggettivo, atto a far assumere ai ceti privilegiati, nei riguardi della chiesa, un atteggiamento essenzialmente identico a quello che si fa assumere alle masse per mezzo
dell'ignoranza.
Così l'ex alunno dei gesuiti sarà un uomo dall'atteggiamento a un tempo
fine e riservato; dotato di una certa cultura formale e strumentale; funzionario
abile, spregiudicato, ambizioso, pronto alla delazione e alla riserva mentale;
avvezzo a raggiungere i fini che gli vengono additati senza esclusione di mezzi;
pago di una religiosità estrinseca; disposto all'ossequio davanti ad un'autorità
che lo ripaga consentendogli un notevole lassismo morale.
VI · COMENIO
Jan Amos Komensky (latinamente Comenius) è indubbiamente il più grande
educatore fiorito nel clima della riforma ed uno dei più grandi in senso assoluto.
Figlio di un mugnaio, nasce in un villaggio ai confini tra Moravia e Ungheria
nel I 592. La sua famiglia appartiene alla comunità religiosa dei fratelli boemi,
derivata dal movimento hussita e caratterizzata da una radicale opposizione
alla chiesa di Roma. Comenio abbraccia la carriera di pastore e studia teologia
nelle università tedesche di Herbon e Heidelberg. Ritornato in patria, si dedica
alla duplice attività di predicatore e direttore delle scuole della sua comunità.
Ma sopraggiunge la guerra dei trent'anni. I boemi protestanti, sconfitti alla
Montagna Bianca, vengono costretti dai cattolici a convertirsi o ad emigrare.
Comenio ripara in Polonia, dove svolge attività di insegnante e si dedica alla
stesura di alcuni fra i più importanti dei suoi scritti. La fama comincia a circondare il suo nome, ma il destino avverso si accanisce ancora contro di lui privandolo della moglie e dei due figli. Dopo una permanenza in Inghilterra, Svezia ed
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
Olanda (dove conosce Cartesio), ritorna in Polonia nel I648. È l'anno della pace
di Westfalia i cui articoli, lungi dal sancire la libertà religiosa, si limitano a riconoscere lo status quo, applicando il criterio « cuius regio eius religio », in base al
quale è vietato il rientro dei fratelli boemi in patria. Così Comenio ed i suoi correligionari debbono rimanere esuli in Polonia. Qui sembra che l'intervento svedese fornisca agli evangelici libertà e possibilità di riorganizzazione; senonché
una feroce puntata delle forze aristocratico-cattoliche polacche assale e distrugge
(I 6 56) la città di Lissa, roccaforte dei riformati. Lo stesso Co meni o salva a stento
la vita ma perde nell'incendio tutti i suoi manoscritti, i preziosi appunti fissati
durante trent'anni e l'intera biblioteca. Ciononostante ha ancora la forza di
reagire, sia pure abbandonandosi ad una ingenua fede in taluni « profeti », i quali,
in mezzo alla tragica realtà, vanno qua e là vaticinando il prossimo avvento di
un'era migliore, destinata a durare un millennio. Finalmente, negli ultimi anni,
il grande pensatore gode di una certa tranquillità ad Amsterdam, dove riprende
alacremente il lavoro, che prosegue fin quando lo coglie la morte, nel I67o.
Gli storici attribuiscono a Comenio 42 opere di varia mole. Ci limitiamo,
qui, a ricordare quelle che per il nostro studio hanno importanza fondamentale:
Janua linguarum reserata (La porta delle lingue aperta, I6I8-28), Didactica magna
(I628-32), Linguarum methodus novissima (I644), Orbis sensualium pictus (Il mondo delle
cose visibili illustrato, I 639-6 5).
Comenio non vede nel problema educativo tmo dei tanti problemi che l'umanità deve risolvere per realizzare una forma di vita più perfetta e felice, ma il
problema essenziale, risolto il quale tutti gli altri risulteranno risolti e non risolvendo il quale ogni tentativo di dare agli uomini pace, benessere, felicità, è destinato inesorabilmente a fallire.
Insegnare, per Comenio, non è guidare all'apprendimento di una tecnica
particolare né fornire gli strumenti per una evasione contemplativa dal mondo
né formare una ristretta classe di dirigenti. Superando decisamente gli atteggiamenti aristocratici dell'umanesimo classico, egli svolge i motivi democratici
insiti nel nucleo dottrinale della riforma, realizzando al tempo stesso un nuovo
umanesimo, più moderno e più autentico. « Insegnare », per il nostro autore, è
«avvezzare tutti a vivere, senza che nessuno dimentichi mai più la dignità e
l'eccellenza umana».
Il sapere è la base della vita morale e religiosa; questo spiega perché alla
sua fondamentale opera pedagogica Comenio dia l'appellativo Didactica. Motivo di sdegno è per lui il dover constatare come, a un secolo di distanza, i
consigli di Lutero non siano stati ancora applicati e l'educazione sia lasciata in
uno stato di grande abbandono. Le poche scuole funzionano male; i maestri,
nella maggior parte dei casi, ignorano tutto circa il metodo e un razionale piano
di lavoro. Nella formulazione dei programmi non si sa sceverare il necessario
dall'utile; si studia disordinatamente; si impara non osservando le cose, ma con
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
la mediazione, talora corruttrice, sempre astratta e convenzionale, della parola.
Eppure, se l'errore e, conseguenza inevitabile, l'immoralità e l'irreligiosità,
imperano su tanta parte del genere umano, ciò non dipende dalla natura dell'uomo.
La grandissima maggioranza degli uomini, ai quali si dovrà rivolgere una
nuova scuola, se non è costituita di geni, non è neppure composta di idioti, ma
di ingegni normali. Se molti, oggi, incontrano gravi difficoltà nello studio, ciò
è dovuto da un lato alla brevità della vita, dall'altro all'immensa vastità e varietà
dello sci bile: Comenio vuole, con la sua Didactica magna, insegnare agli uomini a
prolungare la vita sfruttando bene tutto il tempo disponibile e afferrando tutte
le occasioni opportune per apprendere. Egli vuole inoltre dimostrare come sia
possibile abbracciare almeno i fondamenti di tutte le branche dello scibile, purché
si organizzi razionalmente il curriculum studiorum e si sveglino gli ingegni ad una
più acuta capacità di giudizio.
Comenio ha scarsa fiducia nell'educazione familiare e afferma la necessità
della scuola. Egli fa sua la tesi cara a tutti i pedagogisti dell'umanesimo, secondo
la quale l'ambiente scolastico è il più adatto all'azione educativa come quello in
cui maggiormente si fa sentire il benefico effetto dello spirito di emulazione. Ma,
al di là di questo argomento, egli sostiene la necessità della scuola in nome di
un argomento caro alla nascente civiltà capitalistica, quello della specializzazione.
Se uno ha bisogno di scarpe, egli osserva, si rivolge al calzolaio e se avrà bisogno
di un mobile, di una casa, di un vomere, si rivolgerà rispettivamente al falegname, al muratore, al fabbro. Perché non cercherà un maestro per l'educazione dei
figli? E, come ci sono chiese per il culto e tribunali per discutere le cause, perché
non ci saranno scuole per l'educazione della gioventù?
«C'è un bel risparmio di fatica e di tempo quando uno fa una cosa sola, senza
esser distratto da altre cose; perché in questo modo uno solo" può di mano in mano
servire molti e molti di mano in mano possono servire uno solo. »
Naturalmente, i maestri della scuola futura non dovranno essere come quelli
di oggi, privi di una chiara visione dei fini da perseguire, ignoranti del metodo,
incapaci di elaborare un piano organico di lavoro. Comenio vede chiaramente che
se il problema della scuola è problema di maestri, cioè di uomini, il nodo della
questione diventa quello della formazione degli uomini destinati ad esercitare il
magistero. E precisamente alla formazione dei futuri maestri egli dedica quella
grande« summa »che è la Didactica. Non ci si deve illudere di poter riformare la
scuola mediante un esercito di uomini eccezionali, animati dalla « vocazione »,
dotati di attitudini straordinarie. Bisogna dunque fornire ai maestri, anche ai
meno dotati, uno strumento ben congegnato, atto a far perseguire risultati se
non ottimi almeno buoni, sempre e dovunque. E tale strumento vuoi essere appunto il metodo comeniano.
Si suoi dire, da parte di molti storici della pedagogia, che Comenio avrebbe
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
applicato alla pedagogia le teorie filosofiche di Bacone. Orbene, se è vero che negli
scritti di Comenio risuonano spesso ampie lodi del filosofo inglese è altrettanto vero che negli stessi scritti è frequentemente usato il linguaggio aristotelico
e sono rintracciabili risonanze neoplatoniche. In realtà l'analogia fra Comenio
e Bacone va cercata prima di tutto nel singolare contrasto, presente in entrambi,
per cui l'uno e l'altro sono suscettibili di essere giudicati, di volta in volta, o un
precursore dei temi essenziali del pensiero moderno o un metafisica che non coglie neppure le esigenze più autentiche della ricerca sperimentale. D'altro canto è
difficile porre chiaramente in evidenza le linee fondamentali del pensiero comeniano, trovandosi in questo notevoli oscurità e numerose, almeno apparenti,
contraddizioni. In particolare, come nota il Piaget, nella concezione del grande
pedagogista c'è un profondo contrasto fra l'aspirazione alla speculazione generale
e quella alla fondazione di una scienza dell'educazione, fra la pretesa di dedurre il
sistema a priori e il riconoscimento, in definitiva prevalente, della necessità
di ricorrere all'esperienza sensibile.
In realtà Comenio si inserisce in quella corrente filosofica che ha le sue radici
nel rinascimento e che tende a superare la barriera posta dal pensiero medievale fra materia e spirito. Abbiamo già visto come il superamento di tale barriera
apra la strada a due soluzioni: da una parte, l 'intero universo può venir concepito
come qualcosa di animato, spiritualmente divino; dall'altra, lo spirito può venire
risolto in un complesso di fenomeni puramente fisici. Comenio ondeggia fra l'una
e l'altra soluzione, a volte riferendosi ad uno spirito che, dall'interno, animerebbe
la materia cosmica, a volte considerando la natura come qualcosa di inconsapevole
e meccanico. Nell'uno e nell'altro caso l'uomo è definito « microcosmo » che riproduce in sé il « macrocosmo » e, in certo modo, in sé lo comprende mediante
la capacità potenzialmente infinita del pensiero. Più che di intendere il mondo
partendo da un processo di introspezione ed applicando per estensione all'universo intero le strutture della persona umana si tratta, comunque, di applicare all'uomo le leggi scoperte mediante lo studio del macrocosmo ..
Lo sviluppo dell'uomo, la tecnica con la quale l'uccello costruisce il nido,
nutre e difende la prole, la crescita di un arbusto che si fa albero, l'alternarsi delle
stagioni, l'azione termica e illuminante del sole, questi e innumerevoli altri di
questo tipo sono i fenomeni naturali sui quali Comenio riflette, ricavandone altrettante norme pedagogiche con un rigore talvolta pedantesco ed eccessivo.
I due principi che reggono la natura sono: la fondamentale unità delle strutture e la gradualità dello sviluppo.
L'unità delle strutture porta alla conclusione che il processo educativo è
esso medesimo una manifestazione naturale, è uno degli aspetti di quel complesso
sviluppo che anima il processo di formazione di tutti gli esseri.
L'uomo, se da un lato costituisce un elemento di quel tutto che è il cosmo,
dall'altro costituisce, come abbiamo già detto, un microcosmo le cui strutture,
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pur rimanendo sostanzialmente identiche durante tutto l'arco della vita individuale, evolvono gradualmente verso forme più alte, in un processo che tende
all'infinito. La sostanziale identità delle strutture nell'evolvere delle forme, pone
Comenio fra i precursori della psicologia dello sviluppo e della didattica progressiva.
L'umanità è sempre completa, a tutte le età. La personalità del bambino non
è qualcosa di parziale che manca: è già intera, armonica, e la visione che del mondo
si forma il bambino non è tanto « inferiore » quanto «diversa » rispetto a quella
che se ne forma l'adulto. Movendo da questa premessa, Comenio giunge ad intuire che ai diversi livelli sono pur sempre necessari contenuti di conoscenza
uguali in quanto rispondenti ai bisogni permanenti e che l'unica differenza ammissibile è quella che riguarda il «modo » in cui tale contenuto è di volta in volta
rielaborato e ristrutturato.
Da queste premesse derivano i principi della « ciclicità » del metodo e della
« pansofia ». Il metodo ciclico prevede che nelle varie fasi della vita scolastica
non si insegnino successivamente discipline diverse, ma sempre le stesse, con
maggiore ricchezza di particolari e maggiore approfondimento. Il principio
pansofico è sintetizzato nella celeberrima formula « tutto a tutti » e stabilisce che
a tutti e quindi agli alunni di tutte le età e di tutti i gradi debbono essere insegnate
tutte le discipline ritenute essenziali. Ma il « tutto a tutti » non ha solo un significato metodologico; esso ne ha anche e· soprattutto uno sociale. Comenio, superando non solo la posizione aristocratica degli umanisti ma anche quella ben avanzata di Lutero, afferma la necessità di istituire almeno una scuola di primo grado
unica, comune ai fanciulli di tutte le classi sociali e d'ambo i sessi. Ciò perché
« chiunque è messo al mondo è messo perché faccia non solo da spettatore ma
anche da attore». Indubbiamente la concezione comeniana, introducendo la possibilità di fornire tutto a tutti, previa l'opportuna traduzione in linguaggi adeguati e nei limiti dei « fondamenti » delle « principali » conquiste della scienza,
costituisce un importante passo avanti, parallelamente al primo affermarsi della
borghesia capitalistica e all'avvento della concezione moderna-operativa del
sapere, rispetto alla concezione ellenistico-medievale di una scuola a struttura
« lineare », movente dalle discipline più semplici, elementari, strumentali per
giungere alle più complesse, ardue e finali, e quindi eminentemente selettiva.
Senonché la concezione comeniana è ancora inserita in una visione della
società come organismo costituito di parti diverse, tutte necessarie, ma alcune
più ed altre meno nobili. E se progressiva è l'affermazione per cui ogni giovane
deve essere avviato alla carriera per la quale appare più adatto, sostanzialmente
conservatrice è l'ignoranza del fatto che le attitudini possono essere profondamente influenzate dall'ambiente familiare e dal gruppo sociale nel quale il fanciullo è inserito. Comunque, la scuola unica renderà possibile un processo di
reciproco incoraggiamento e raffinamento; insegnerà ai fanciulli provenienti dai
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
ceti elevati a non disprezzare gli altri; rinvierà ad un'età più matura la selezione
e la destinazione delle varie carriere (selezione e destinazione che Comenio vuole
effettuate esclusivamente in base al merito); inoltre, e soprattutto, essa, in grazia
del metodo ciclico, farà conoscere a tutti, anche ai futuri lavoratori manuali, « il
fondamento, la ragione, il fine di tutte le cose principali », mettendoli in condizione di partecipare coscientemente, e quindi effettivamente, alla vita della società.l
Con ciò è chiarita anche la portata di quel « tutto ». Non si tratta di enciclopedismo deteriore. Nulla è più lontano dal programma del nostro autore. La
confusione fra necessario ed utile è, come abbiamo visto, una delle ragioni maggiori del pessimo funzionamento della vecchia scuola. Solo ciò che è utile va
insegnato e di tutto ciò che si insegna deve essere messa in chiara luce l'utilità.
Ma Comenio non identifica grettamente l'utile col vantaggio immediato. Utile
è, per lui, ciò che contribuisce a realizzare pienamente la persona umana secondo
le sue strutture e il suo fine. « Come nell'utero della madre si formano le medesime membra per ogni essere, che dovrà diventare un uomo, e per ciascuno si
formano tutte, le mani, i piedi, la lingua, ecc., benché non tutti abbiano a diventare artigiani, corridori, scrivani e oratori, così nella scuola a tutti si devono insegnare tutte quelle cose che riguardano l'uomo anche se dopo una sarà per tornare
più utile a uno e una ad un altro. »
Sulla base di questi argomenti poggia la suddivisione della scuola in quattro
gradi successivi: scuola materna; scuola di lingua nazionale; scuola di latino o
ginnasio; accademia. La scuola materna educa il bambino durante i primi sei
anni di vita. Già in questi anni il bambino segue, in forma intuitiva, spontaneamente sotto la guida amorosa dei genitori e specialmente della madre, un vero e
proprio corso generale di studi.
Comenio, in base alla sua premessa essenzialmente intellettualistica, pensa
di scrivere un opuscolo contenente consigli e avvertenze elementari, da far leggere ed applicare a tutti i genitori ed a tutte le balie. Inoltre pensa di creare per i
bambini un libro illustrato con figure atte a fissare le nozioni scientifiche elementari di cui si è detto. Questo libro avrà il vantaggio di familiarizzare il bambino
con i libri in genere e, poiché sopra ogni figura sarà scritto il corrispondente nome, rappresenterà anche un avviamento alla lettura secondo un procedimento
assai prossimo a quello che noi, oggi, chiamiamo «globale».
La scuola di lingua nazionale ha essa pure la durata di sei anni. Il suo scopo è
di insegnare a leggere e scrivere speditamente in lingua nazionale; a fare i conti;
a misurare dimensioni e distanze; a cantare melodie e inni sacri. Detta scuola darà
inoltre nozioni di storia ed economia politica (perché tutti possano « capire ciò
x Un cenno particolare merita la posizione
di Comenio di fronte al problema dell'educazione
delle ragazze. Scavalcando tutti i cosiddetti « precursori >> in materia fino al xx secolo, egli dichiara
esplicitamente che le donne sono atte a capire la
scienza quanto gli uomini c come questi disponibili per la politica, la medicina, ecc. Parimenti
degna di menzione è la difesa fatta da Comenio
dei tardivi, bisognosi di un aiuto superiore a quello
fornito ai normali.
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
che giornalmente vedono fare in casa ed in città»), di geografia e di cosmografia.
Alla fine della scuola nazionale unica tutti i giovani dovranno essere in condizione
di non imbattersi « mai in nessuna cosa tanto nuova da non averla già assaggiata
prima». Tutto ciò che capiterà loro di udire o di leggere dovrà risultare «o una
più ricca dilucidazione o una deduzione più particolareggiata delle cose già conosciute prima». Gli uomini saranno così stimolati a capire meglio tutte le cose.
Il metodo deve essere oggettivo ed attivo: l 'alunno deve vedere da sé (autopsia),
fare da sé (autopraxia) e applicare da sé (autocresia).
Il problema dell'apprendimento della lingua occupa un posto eminente nell'opera del nostro autore. Negli scritti intitolati rispettivamente Janua linguarum
reserata e Linguarum methodus novissima (che riprendono l'opera, intitolata anch'essa
Porta delle lingue, del gesuita Bateus) egli svolge il principio che le parole sono
soltanto segni delle cose. Perciò « le parole senza le cose sono dei gusci senza
mandorla, un fodero senz'arma, ombre senza corpo, corpi senz'anima ». Lo
studio della lingua deve camminare di pari passo con quello delle cose; si devono
imparare contemporaneamente le cose e le parole che le designano.
Quella che per molto tempo fu l'opera più conosciuta di Comenio, l'Orbis
sensualittm pictus, è il compimento delle opere precedenti e l'applicazione dei principi in esse contenuti all'insegnamento della lingua materna. È costituita da una
serie di vignette e da un testo che spiega il significato di ognuna. L'illustrazione
è provvista di numeri che si riferiscono da una parte ai singoli elementi delle figure, dall'altra alle parole o alle frasi del testo. L'Orbis pictus è il capostipite di
tutti i libri illustrati per fanciulli e costituisce un serio tentativo di fornire -alla
scuola uno strumento che possa eccitare l'attenzione e allettare l'immaginazione
degli scolari.
Ma i principi esposti nella Janua non sono validi esclusivamente nella scuola
di lingua nazionale; essi trovano applicazione pure nel ginnasio. Anche questo
grado ha la durata di un sessennio. Durante questo periodo gli alunni riprendono ·
ed approfondiscono via via tutte le materie già affrontate nella scuola nazionale.
Il latino, come ogni altra lingua, deve essere imparato più con la pratica che a forza
di regole. Ogni esercitazione in latino deve essere fatta su materia già conosciuta.
Dalla Didactica magna è possibile ricavare una serie di precetti metodologici
estremamente attuali anche per noi. In primo luogo la necessità di affiatare gli
alunni fra di loro e con l'insegnante. Poi l'unità di insegnamento, realizzabile mediante l'unicità del maestro per ogni classe, l'identità di metodo fra insegnanti di
classi successive, la connessione fra le varie materie in modo che l'una integri
le altre e viceversa; infine, la gradualità dell'insegnamento, per la quale non si
deve affrontare una difficoltà nuova e maggiore prima di aver accertato che siano
state effettivamente superate le precedenti e inferiori.
Comenio è contrario ad ogni forma di sovraccarico e all'apprendimento puramente mnemonico. Il maestro deve pianificare il proprio lavoro, non solo a
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Umanesimo, rinascimento, riforma, controriforma nei loro riflessi di ordine pedagogico. Comenio
grandi linee, anno per anno, ma giorno per giorno e quasi ora per ora, sicché nulla
rimanga abbandonato all'improvvisazione.
Alcuni capitoli della fondamentale opera comeniana sono dedicati alla didattica speciale delle varie materie. Non potendo qui riassumere tutti questi capitoli, ci limiteremo a sottolineare il punto di vista di Comenio riguardo alla disciplina, alla morale e alla storia. Circa la disciplina, Comenio fa suo il detto popolare «una scuola senza disciplina è un mulino senz'acqua ». La disciplina non
deve costituire una specie di vendetta (in quanto « il fatto è fatto e non si può
disfare »); essa deve tendere ad impedire che il peccatore pecchi ancora. Deve
essere esercitata senza debolezza, senza ira e senza odio, in modo che il punito
·si accorga che la pena è inflitta a lui per il suo bene, consigliata da affetto paterno.
Comenio esclude che sia legittimo usare mezzi disciplinari per stimolare allo studio; la disciplina riguarda solo il costume.
Per quanto riguarda la morale, Comenio è schiettamente intellettualista. Il
suo pensiero è efficacemente espresso dalle seguenti parole: «La prudenza s'attinge da una buona istruzione e da una buona educazione, imparando le vere
differenze delle cose e del valore delle cose. Il vero giudizio delle cose è il fondamento d'ogni virtù. »
Circa, infine, lo studio della storia, Comenio assume una posizione estremamente avanzata, così avanzata da costituire ancora oggi più un ideale cui tendere
che una realtà attuata. Superando decisamente la concezione umanistica che riduceva la storia alla biografia, vedendo nel celebre personaggio l'incarnazione
di questa o quella virtù, di questo o quel vizio, Comenio considera la storia come «l'occhio di tutta la vita» e vuole che il suo insegnamento sia distribuito
in tutte le classi. Inoltre - ed è questo, a nostro parere, il motivo di maggiore modernità - accanto alla storia politica e alla storia sacra, egli vuole introdotta nella
scuola anche la storia delle religioni, la storia delle scienze fisiche e naturali e quella
delle invenzioni tecniche.
Il curriculum studiorttm culmina nell'accademia, essa pure di sei anni. Ad essa
però Comenio dedica un solo capitolo, limitandosi ad auspicare il rinnovamento
dei metodi, la realizzazione di un piano di studi veramente universale 'e l'ammissione agli studi, e successivamente alle cariche pubbliche, in base non al privilegio ma al valore personale.
Infine Comenio vagheggia l'istituzione di una «scuola delle scuole», una
specie di società didattica, o società di persone istruite, consacrata a scoprire i
fondamenti delle scienze, ad applicare le scoperte a nuovi utili ritrovati ed a diffondere la luce della sapienza tra il genere umano.
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SEZIONE QUARTA
Il pensiero ftlosoftco da C arte sio a Ne wton
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CAPITOLO PRIMO
L'inizio dell'era moderna
I
·L'AVANZATA DELLA BORGHESIA
E L'AFFERMARSI DELLO STATO ASSOLUTO
Le vicende politiche dell'Europa durante il xvn secolo furono così complesse che non avrebbe senso tentare qui di riassumerle. Riservandoci di tornare
nei prossimi capitoli con qualche maggiore dettaglio su alcune di esse, più
strettamente collegate alle trasformazioni culturali dei singoli paesi, riteniamo
tuttavia opportuno richiamare fin d'ora alla memoria del lettore un gruppo di
eventi fra i più significativi della nuova epoca.
Trattandosi di fatti notissimi, basterà elencarli in forma schematica senza
nemmeno accennare ad una loro valutazione: rapido declino della Spagna per
l'aggravarsi della crisi economica interna nonché per il pesante scacco subìto
nella politica estera, in seguito al disastro della famosa « invincibile Armata »
(I 58 8); fallimento del tentativo absburgico di rilanciare in Germania la politica
controriformistica (fallimento confermato dalla pace di Westfalia nel 1648, con la
quale si chiudeva la guerra dei trent'anni); graduale affermarsi in Francia del
potere centrale dello stato, dopo la conclusione delle guerre religiose e l'editto
di Nantes (I 598); tra vagliate lotte fra parlamento e corona in Inghilterra, che
portarono alla prima e alla seconda rivoluzione; arricchimento dell'Olanda e
rivalità anglo-olandese per il predominio navale; consolidarsi del dominio
spagnolo in Italia e decadenza della repubblica veneta; avanzata dei turchi nei
Balcani e vittoriosa lotta degli Absburgo per arrestarli; grandioso emergere della
potenza russa con la vittoria dello zar sui boiari e la creazione di uno stato centralizzato efficiente; diverso sviluppo degli imperi coloniali spagnolo, portoghese, francese, olandese, inglese, e conflitti per la libertà dei commerci.
Entro un quadro politico così vario e aggrovigliato, sembra comunque
profilarsi con crescente chiarezza - per lo meno nei paesi economicamente e
politicamente più progrediti- un grande processo sociale di vastissima portata:
la graduale ma irresistibile avanzata della borghesia, in stretto parallelismo con
l'affermarsi dello stato assoluto.
Nel Seicento, «stato assoluto» significa stato moderno: cioè stato che sotto-
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L'inizio dell'era moderna
pone a sé le vecchie forze feudali, centrifughe e disgregatrici; che instaura in
tutto il paese un effettivo, e sostanzialmente uniforme, ordine giuridico e amministrativo.
Uno dei primi e più ardui compiti che nello stato assoluto il potere centrale
assume direttamente su di sé, è quello di trasformare la chiesa (non importa se
cattolica o riformata) in strumento di potere, mantenendo e ampliando le proprie competenze in materia religiosa già conseguite nei secoli precedenti. Di
fronte allo stato assoluto anche la supremazia di Roma, proclamata dalla controriforma, deve arrestarsi.
Altro compito fondamentale, cui lo stato assoluto dedica le proprie energie,
è quello di incrementare l'attività economica dei cittadini. Lo spinge a ciò la
chiara coscienza dell'intimo rapporto esistente fra potenza politica e ricchezza
economica. I produttori, dal loro canto, ritengono che solo un intervento statale,
dinamico e stimolante, possa promuovere e sorreggere l 'iniziativa industriale e
commerciale.
Si viene affermando la convinzione che la prosperità economica e finanziaria di uno stato vada considerata in funzione della sua bilancia commerciale,
del rapporto fra importazione ed esportazione: è l 'indirizzo che viene comunemente chiamato « mercantilismo ».
Sul piano della politica estera il mercantilismo si propone due fini: la realizzazione dell'indipendenza economica dello stato e l'espansione dello stato
medesimo attraverso la conquista di territori coloniali che riforniscano di materie
prime l'industria nazionale e costituiscano altrettanti mercati sicuri per i suoi
manufatti.
Quanto alla politica interna, il mercantilismo si concretizza in una serie di
misure tendenti a creare un vasto mercato, grazie all'abolizione di antiche barriere, la costruzione di strade e canali; ad abolire i dazi di esportazione, elevando invece quelli di importazione; a promuovere le manifatture locali con
privilegi e monopoli; a richiamare nel paese tecnici stranieri competenti; a comperare, o addirittura a rubare per mezzo di spie, segreti di fabbricazione. Anche
l'incremento della popolazione è favorito, allo scopo di assicurare alla produzione un grande numero di braccia a buon prezzo.
In una situazione siffatta, i motivi dell'alleanza fra classe borghese e stato assoluto sono evidenti: lo stato favorisce l'arricchimento della borghesia e nel contempo ha bisogno di essa, sia per farsi finanziare le proprie iniziative di politica
interna ed estera, sia per reclutarvi un numero via via crescente di funzionari
obbedienti ed efficienti. Nel xvm secolo la dasse borghese, ormai in pieno sviluppo, potrà aspirare a governarsi da sé, attuando fino in fondo la riforma dello
stato anche a costo di entrare in urto col potere del monarca; ma nel Seicento essa
intuisce con chiarezza di averne bisogno, non essendo sufficientemente forte per
sconfiggere, da sola, i numerosi difensori delle vecchie istituzioni feudali.
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II · RIFLESSI GENERALI
SULLA CULTURA FILOSOFICO-SCIENTIFICA
Anche la cultura subisce profonde trasformazioni in corrispondenza a
quelle economico-politiche menzionate nel paragrafo precedente. Il processo
di laicizzazione, già iniziato nel rinascimento, si accelera e si approfondisce
dando luogo ad un accresciuto interesse per la natura, da un lato, e per l'organizzazione statale, dali' altro.
Si cercano nuove vie nella filosofia, nella scienza, nelle teorie politiche, nelle
stesse discussioni religiose. Gli studiosi si fanno più arditi nel delineare ambiziosi
sistemi generali da sostituire a quelli che avevano costituito la base della vecchia
cultura.
Col definitivo tramonto delle istituzioni politiche tradizionali, anche gli
indirizzi di pensiero che avevano trovato in esse più diretto appoggio, perdono
gradualmente la loro autorevolezza. Si allentano i controlli del potere feudale ed
ecclesiastico: il creatore di nuove idee sa di poter trovare nella classe borghese
simpatie ed appoggi. Le nuove correnti del razionalismo e dell'empirismo raggiungeranno in tutta l'Europa una rapida, sbalorditiva, popolarità.
Ci si convince che spetta essenzialmente all'uomo decidere la validità di
questa o quella teoria, la superiorità di questa o quella organizzazione del vivere
civile. È nei mezzi di cui l'uomo dispone - la ragione e l'esperienza - che si
cerca il punto fermo per ricostruire la cultura, con i caratteri cui aspira la società
in formazione.
Se il nemico di fondo resta la vecchia metafisica e la vecchia scienza, un
nuovo nemico però si profila all'orizzonte: lo scetticismo. Esso riprende vigore
per il franamento generale delle vecchie concezioni, e non di rado sembra costituire, in taluni ambienti, un autentico gravissimo pericolo. La necessità di combatterlo accomuna i più vari pensatori: si tratta di difendere, contro di esso, la
fiducia nell'uomo e nei mezzi umani di conoscere la realtà. Si ricorre a tal fine,
per un lato al criterio dell'evidenza razionale, considerato come caratteristico
delle discipline matematiche ma estendibile a tutti i tipi di argomentazione
(perfino a quelli concernenti l'etica e la politica), per l'altro all'attento esame dei
fenomeni empirici, considerati nella loro purezza senza le usuali inframmettenze
del pensiero filosofico tradizionale. Particolare attenzione viene attribuita, da
questo punto di vista, alla nuova messe di fenomeni empirici resi osservabili
dai mirabili apparecchi via via ideati dalla tecnica, che, potenziando in modo
sorprendente i nostri sensi, rivelano aspetti del mondo fisico e organico rimasti
per l 'innanzi ignoti.
Gli stessi pensatori più fedeli al messaggio cristiano vanno alla ricerca di
nuove concezioni filosofiche, da utilizzare nella difesa di tale messaggio. Essi
comprendono che, per salvarlo, è necessario scinderne coraggiosamente le sorti
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L'inizio dell'era moderna
da quelle della vecchia filosofia scolastica; è necessario trovare la via per conciliarlo con l'avanzante cultura laica (in particolare con quella scientifica).
Uno dei maggiori ostacoli alla realizzazione di questo programma è costituito dalle lotte religiose, che danno luogo ad atti di indicibile ferocia da parte
di tutti i combattenti (sia cattolici sia riformati). Proprio in seguito a queste
lotte si diffonderà, verso la fine del secolo, fra i ceti più colti la convinzione che,
per salvare i grandi principi religiosi, occorra separarli non solo dalle vecchie
metafisiche ma anche dai vecchi dogmi sui quali si era incentrato il dissenso
tra le varie confessioni cristiane. Così si giungerà a convincersi che la vera religione è costituita dalla « religione naturale » di cui quelle « positive » sarebbero
soltanto parziali realizzazioni, tutte più o meno corrotte e sostanzialmente contingenti.
III
· IL PROGRESSO DELLA TECNICA
Il progresso della tecnica trasse, come è ben evidente, sempre nuovi impulsi
dall'avanzata della borghesia e a sua volta la favorì in modo notevole per l'indubbio incremento che diede alla produzione.
Si costruiscono per esempio nuovi tipi di telai, nuove pompe per le miniere, nuovi generi di mulini, nuove e più potenti armi da fuoco, nuove fortificazioni; si diffonde la professione di « progettante », cresce il numero di brevetti. Non tutte le invenzioni risultano valide, non tutti i progetti realizzabili,
ma nel complesso lo sviluppo della tecnica si impone ovunque, perfino nelle
opere ornamentali (per esempio, il capolavoro dell'ingegneria francese del
Seicento è proprio costituito dal sistema di pompe che regolano gli splendidi
giochi d'acqua nei giardini del palazzo reale di Versailles).
Un particolare rilievo acquista la strumentazione scientifica: telescopi,
microscopi, barometri, termometri, macchine pneumatiche, ecc. Tra le famiglie
più ricche - a partire da quelle dei sovrani - si diffonde il gusto per le collezioni di tali apparecchi, capaci di ottenere effetti di singolare interesse; viceversa
la possibilità di disporre di apparecchi via via più moderni stimola il desiderio
di compiere sempre nuove osservazioni.
Eppure, malgrado il peso crescente che la tecnica assume nel mondo scientifico e in quello produttivo, essa non riesce a compiere alcun passo in avanti
di importanza paragonabile a quelli che verranno realizzati nel secolo successivo.
Mentre dal punto di vista della ricerca scientifica il Seicento è una delle epoche
più feconde della storia dell'umanità, dal punto di vista del progresso tecnologico esso rappresenta un periodo di assestamento: ciò che si rinnova è soprattutto l 'organizzazione delle attività produttive, con l 'applicazione sistematica delle
conquiste operate durante il rinascimento. Non si può ancora parlare di una
vera e propria organizzazione industriale, ma senza dubbio di un notevole passo
verso di essa: è un passo che, almeno nei paesi ove la compagine statale ha rag2.10
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L'inizio dell'era moderna
giunto una solida unità, permette un immediato incremento della produzione e
del commercio.
Furono soprattutto l 'Inghilterra e la Francia a beneficiare di tale incremento:
la prima sulla base di libere iniziative individuali, la seconda per l 'impulso fornito alla produzione dal potere centrale (basti a tal proposito menzionare l 'illuminato protezionismo del ministro Colbert). Le industrie che realizzarono maggiori progressi furono: in Inghilterra quelle tessili, in Francia quelle del vetro
e degli specchi, dei merletti e dei tappeti (per incrementare l 'industria vetraria
la Francia favorì con ogni mezzo l'immigrazione di abili artigiani di Venezia,
in possesso dei più efficaci segreti di lavorazione in uso sul territorio della repubblica).
Il paese, invece, nel quale si ebbe un più cospicuo e rapido progresso nella
produzione metallurgica fu la Svezia, a causa della sua ricchezza mineraria e
delle fabbriche i vi impiantate da alcuni imprenditori provenienti da Liegi: fabbriche che utilizzarono in modo organico i processi di lavorazione che erano
già stati introdotti nel principato di Liegi fin dal xvr secolo. Furono esse a costruire le numerose e potenti artiglierie di Gustavo Adolfo, che lo posero in
condizione di ottenere nella guerra dei trent'anni successi bellici folgoranti.
Dal Seicento la Svezia fu sempre all'avanguardia nell'industria siderurgica; per
secoli essa riuscì ad esportare i suoi prodotti (utilissimi alla costruzione di armi
via via più perfette) in tutta l 'Europa, traendo notevoli profitti dalle guerre che
travagliavano il continente.
Passando al problema dell'energia, basti ricordare che le principali fonti
energetiche rimasero, per tutto il Seicento, quelle dell'acqua e del vento già
utilizzate da secoli. Ciò che invece subì notevoli perfezionamenti fu la costruzione degli ingranaggi per lo sfruttamento di tali energie. Come scrive Vittorio
Somenzi, «venne tentata anche la trasmissione a distanza dell'energia dell'acqua
e del vento, mediante sistemi di leve che collegavano l'impianto motore con gli
impianti utilizzatori ».
Se, come poco sopra si è accennato, non è ancora lecito parlare di vera e
propria rivoluzione industriale, se ne possono comunque riconoscere le sicure
avvisaglie. Né va del resto dimenticato, a proposito delle risorse energetiche,
che nei primi decenni del suo affermarsi la stessa rivoluzione industriale continuerà
ad utilizzare - per un buon tratto del Settecento - i medesimi mulini ad acqua
e a vento già in uso nel Seicento. Solo qualche tempo più tardi essa sfrutterà in
modo sistematico le nuove fonti di energia rese accessibili dalle grandi scoperte
tecnologiche del secolo (sulle quali ci soffermeremo nella sezione v), e allora il
progresso assumerà un ben diverso ritmo e una forza incontenibile.
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IV
· NUOVA ORGANIZZAZIONE DELLA VITA SCIENTIFICA:
LE ACCADEMIE
La trasformazione sociale a cui abbiamo poco sopra fatto cenno è anche
importante per ciò che riguarda il reclutamento dei giovani studiosi e la loro
successiva sistemazione. I ceti da cui essi provengono sono in genere quelli
della piccola nobiltà, della media borghesia cittadina, dei piccoli proprietari
terrieri; proprio perché si tratta di strati abbastanza vasti di popolazione, la
scelta può risultare assai migliore e permettere l'avvio alla carriera degli studi
a giovani particolarmente dotati. Anche la loro sistemazione pratica non va più
incontro a speciali difficoltà: aspirando soltanto ad una vita modesta ma dignitosa,
essi non hanno più bisogno di cercarsi un posto in qualche università (ove troverebbero colleghi di idee, non di rado, assai retrograde) o di ricorrere all'appoggio di qualche principe più o meno munifico; la loro massima preoccupazione
è di svolgere liberamente le proprie ricerche, tenendosi a contatto dei soli studiosi che a loro interessano. A tale scopo qualcuno (come Cartesio) si accontenta
di vivere con una piccola rendita, altri (come Fermat) esercita qualche modesta
professione amministrativa che non gli assorba troppo tempo, altri ancora (come
Spinoza) accetta di esercitare un mestiere umile ma non umiliante.
Così accade che gli autori più geniali del periodo in esame vivono, quasi
sempre, al di fuori delle università, le quali fungono per lo più da custodi fedeli
della vecchia cultura, opponendo talvolta una sorda resistenza al diffondersi delle
nuove idee, sia scientifiche che filosofiche.
Svolgendosi prevalentemente fuori delle università, la cultura deve crearsi
nuovi mezzi di scambio; ricorre quindi ai contatti personali fra studioso e studioso, attuati o direttamente o per il tramite di qualche comune amico. Non di
rado vari studiosi si riuniscono periodicamente in cenacoli privati, per ripetere
collegialmente qualche esperienza scientifica o per discutere di scienza e di fi:..
losofia. Tali contatti danno luogo a preziosi carteggi, talvolta più interessanti
delle stesse opere passate alle stampe.
In questo campo emerge, nella prima metà del Seicento, la figura del padre
Marin Mersenne ( 15 8 8-1 648), dell'ordine dei minimi,! del quale avremo varie
occasioni di parlare nei prossimi capitoli. Uomo di vastissimi interessi filosofici,
teologici, musicali, matematico-fisici (tradusse in francese alcune opere di Galileo), egli divenne il centro di collegamento di quanti si occupavano con serietà
di ricerche e dibattiti in largo senso scientifici. Di lui fu scritto da un uomo come
Hobbes: « La sua cella era migliore di tutte le scuole. »
La delicata funzione di collegare fra loro i vari ricercatori sollecitandoli a
impegnarsi in questa o quella ricerca fu anche uno dei compiti principali delle
I Quest'ordine era stato fondato, verso il
1436, in Calabria da Francesco da Paola, e
venne introdotto, circa mezzo secolo più tardi,
in Francia da Carlo VIII.
ZIZ
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accademie, le quali assumeranno verso la fine del secolo e poi -in tutto il Settecento un'importanza via via maggiore. Esse diverranno gli organi ufficiali per
il coordinamento della produzione scientifica, sviluppando l'opera che - in
forma privata- era stata appunto iniziata da uomini di intelligenza e animo aperto
come il testé ricordato padre Mersenne o come l'abate Nicolas Claude Fabri de
Peirex, consigliere al parlamento di Aix-en-Provence, grande amico di Gassendi.
Fu la difficoltà di proseguire su di un piano meramente personale iniziative del
genere, che rese necessario sostituire l'azione del singolo benemerito organizzatore con quella, più continuativa e sistematica, di veri e propri organi ufficiali.
Fu l'indiscusso riconoscimento, da parte dell'intera società, dell'importante
funzione compiuta dalla ricerca scientifica, a indurre i più illuminati sovrani a
finanziare e potenziare i nuovi istituti.
Il nome di « accademia » si ricollega ovviamente a quella platonica di Firenze resa celebre da Marsilio Ficino. Ma la struttura delle accademie del Sei
e Settecento è profondamente diversa. Esse assumono in breve tempo un carattere di ufficialità e di internazionalità che quella era ben lungi dal possedere. È
loro vanto reclutare i propri membri fra gli studiosi più eminenti di ogni disciplina e di ogni pa~se; e viceversa è vanto degli scienziati ottenere la nomina
a soci (ordinari o corrispondenti) dal maggior numero possibile di illustri accademie. Ciò dà luogo alla formazione di una classe di dotti, universalmente riconosciuti come tali da tutta la società civile, tendenti a considerare se stessi e i
propri colleghi come gli « eletti dal destino » a far progredire la scienza e la
cultura. È un tipo di mentalità di cui sarebbe facile sottolineare i gravi e numerosi difetti; va comunque notato che essa continuerà a dominare massicciamente
pressoché tutta la cultura settecentesca e - sia pure in minore misura - sopravviverà ancor oggi presso alcuni strati di studiosi (in particolare fra cultori di
discipline specialistiche).
Accanto alle accademie, per lo più come « atti » delle medesime, sorsero
pure le prime pubblicazioni periodiche di carattere scientifico; esse divennero
gli organi specifici per la comunicazione delle scoperte, per le loro discussioni,
per lo stesso sviluppo delle polemiche. Le accademie inoltre cominciarono a
bandire regolari concorsi a premio, su questioni specifiche esattamente formulate, e i dibattiti che ne seguirono esercitarono la maggior influenza sul progresso
della ricerca.
Nel Settecento alcuni eminenti scienziati, come per esempio Eulero e Lagrange, troveranno dignitosa sistemazione economica come segretari di potenti
accademie o anche solo di una sezione delle medesime.
Le prime accademie del xvn secolo sorsero in Italia ove però non ebbero
lunga vita. Nel 1603 fu fondata a Roma dal principe Federico Cesi- validamente
coadiuvato da G.B. della Porta, il celebre autore della Magia naturale - l'accademia dei Lincei, i cui atti vennero pubblicati in un apposito periodico dal
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L'inizio dell'era moderna
titolo « Gesta lyncaeorum ». Ne fece parte, come già sappiamo, Galileo Galilei.
L'attività di tale accademia venne interrotta nel I63o per la morte del suo fondatore; sarà ripresa per qualche anno nel secolo successivo, e poi su basi molto
più ampie alla fine del XIX secolo, dopo ricostituita l'unità italiana. Nel I657
fu fondata a Firenze, dai discepoli di Galileo, e con l'appoggio del granduca,
l'accademia del Cimento. La sua attività scientifica fu molto intensa, ma venne
interrotta dopo soli dieci anni dalla sua fondazione.
La più celebre accademia dell'epoca sorse in Inghilterra verso la metà del secolo. Dapprima cominciò a organizzarsi in forma privata (nel I645) come libera
associazione di scienziati; le sue riunioni - che solevano tenersi a Oxford - vennero però interrotte dallo scoppio della prima rivoluzione e ripresero soltanto
nel I 66o. Nel I 662 ottenne il riconoscimento ufficiale del re, e prese il nome di
Royal Society. Ne fecero parte sia Locke sia Newton, sotto la presidenza del
quale essa divenne una delle più importanti accademie dell'epoca. La sua pubblicazione periodica ebbe per titolo « Philosophical transactions of the Royal
Society » e venne edita, all'inizio, a spese personali del segretario della società.
In Francia Luigi xrv, salito al trono nel I66I, accolse favorevolmente la
proposta del ministro Colbert di creare un importante periodico scientifico
- il famoso « Journal cles savants » - e una grande accademia francese delle
scienze. Questa iniziò la sua attività nel 1666.
Seguirono, negli ultimi del Seicento e all'inizio del Settecento, le accademie
di Berlino, Vienna, Pietroburgo, Dresda, la fondazione delle quali ricevette il
maggior impulso dall'opera personale di Leibniz. Questi riuscì pure a dar vita,
nel r68z, agli« Acta eruditorum »,che divennero uno dei più efficaci strumenti di
collaborazione scientifica dell'epoca.
I significativi titoli dei due periodici testé menzionati caratterizzano molto
bene la concezione, di cui già segnalammo i difetti, della ricerca scientifica come
attività nobilissima, riservata però a un gruppo chiuso e ristretto di dotti, additati alla concorde ammirazione di tutto il mondo civile.
V
UNITÀ DI FONDO TRA SCIENZA E FILOSOFIA
Abbiamo sottolineato, rtel paragrafo u, la profonda fede nella ragione,
diffusa fra pressoché tutti i pensatori del Seicento: è una fede comune ai cultori di ricerche matematiche come a quelli di ricerche sperimentali, ai filosofi
razionalisti come agli stessi empiristi. Essa proviene dalla netta convinzione
che, in seguito ai più recenti sviluppi della scienza, l'umanità abbia finalmente
scoperto la via per conoscere la verità e che ormai si tratti solo più di seguitare
in essa con impegno e intelligenza. È la fede che si esprime nella generale venerazione per i dotti, e che corrisponde sul piano culturale, alla fiducia della società
nel nascente mondo moderno. Essa raggiungerà il suo vertice nel secolo dei
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L'inizio dell'era moderna
lumi, allorché si diffonderà la convinzione che la ragione possa anche indicare
gli strumenti sicuri per riorganizzare da cima a fondo le strutture sociali e per
guidare rettamente il corso degli eventi storici.
L'esigenza di discutere pregiudizialmente i limiti dell'intelligenza umana
affiorerà senza dubbio in Locke (per svilupparsi poi, in forma ben più radicale,
nel Settecento e costituire un primo germe di autentica crisi entro l 'illuminismo);
essa non lo condurrà tuttavia a porre in dubbio la potenza della ragione, bensì
a determinare la via, basata appunto sull'esatta conoscenza dell'origine delle
idee, onde far sì che la ragione pervenga a conclusioni valide e non illusorie.
Un'esigenza sostanzialmente analoga, sebbene assai più circoscritta, sorgerà
pure fra i matematici circa l 'effettiva validità di alcuni metodi dimostrativi;
anch'essa non pretenderà di negare il valore della ragione, ma solo la perfetta
razionalità dei metodi in questione (basati su procedimenti infinitesimali). Se è
vero che, col trascorrere del tempo, la fiducia nei metodi infinitesimali avrà il
sopravvento, vero è però che alla fine del Seicento le riserve contro di essi avranno ancora la forza di indurre Newton a non basare esplicitamente e unicamente
su tali metodi le proprie argomentazioni; ed inoltre è vero che, allorquando
- all'inizio dell'Ottocento - si cercherà di trovare per essi una base autenticamente razionale, ciò costringerà i matematici a rivoluzionare la loro scienza non
meno a fondo di quanto l'empirismo più intransigente abbia rivoluzionato la
filosofia.
A parte l'istanza critica testé accennata, il più urgente problema dei pensatori del Seicento sarà di scoprire una giustificazione metafisica alla comune fiducia nella ragione. Cartesio riterrà di trovarla - c?me vedremo nel prossimo
capitolo - nell'esistenza e perfezione di dio, il quale non può permettere che ci
inganniamo quando abbiamo fiducia nelle idee chiare e distinte; altri invece ne
cercherà assai diverse giustificazioni. Tutti però, o almeno tutti i pensatori
di maggior rilievo, saranno concordi nell'opporre allo scetticismo disgregatore
la loro fede nella conoscenza umana: conoscenza che, se guidat~t dalla ragione,
non può secondo essi non risultare in grado di portarci alla scoperta della
verità.
·
Le più gravi divergenze sorgeranno invece circa i risultati che le nostre indagini, condotte col massimo scrupolo razionale, sembrano farci conseguire;
gli uni ritenendo che esse ci permettano di concludere con una tesi, gli altri
con un'altra tesi profondamente diversa. È insomma il contenuto del sapere,
ciò che suscita le più accese discussioni; non la possibilità stessa di sapere. E,
sia detto ben chiaramente, questo contenuto verte sulla natura dei fenomeni celesti come su quella dei fenomeni terrestri, sulla natura del nostro organismo corporeo come su quella dei no!>tri sentimenti. Non esiste alcuna separazione fra
oggetto della conoscenza filosofica e oggetto della conoscenza fisica e biologica:
ciò che lo studioso del Seicento mira a conoscere è la totalità del reale, anche
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L'inizio dell'era moderna
se - per motivi contingenti - deve limitarsi a indagarne soltanto dei singoli
settori. Comunque, il risultato sicuramente conseguito in un settore non potrà,
secondo lui, non ripercuotersi direttamente o indirettamente su tutti i settori;
e proprio perciò dovrà in qualche misura interessare ogni persona che ami effettivamente la verità. Così tutti potranno sentirsi partecipi delle nuove straordinarie conquiste della conoscenza umana: sia che esse riguardino i costumi dei
popoli che abitano le terre recentemente scoperte, sia che riguardino il funzionamento dell'organismo animale, sia che riguardino i moti dei corpi celesti. Il carattere enciclopedico del sapere deriva proprio dalla convinzione dell'unità del
mondo, di cui il nostro intelletto vuole scoprire i principi.
Vero filosofo è ritenuto chiunque contribuisca in modo effettivo alla scoperta
di questi principi; non importa se lo si preferisca qualificare come fisico o come
matematico o come metafisica. Così vengono qualificati filosofi tanto Cartesio
quanto Newton, tanto Hobbes quanto Leibniz. Sarebbe un grave errore voler
separare, nell'attività di questi pensatori (persino in quella di uno spirito prevalentemente religioso come Malebranche), l'aspetto scientifico da quello filosofico: la loro cultura è incontestabilmente unitaria, sicché la concezione che ciascuno di essi elabora in un settore è inscindibilmente connessa a quelle che ha
negli altri settori.
Senza dubbio questa realtà può apparire difficilmente comprensibile allo
studioso moderno, che vive un mondo culturale completamente diverso. Ma i
nostri gusti e le nostre limitazioni non possono modificare lo stato reale dei fatti.
Per dei giustificatissimi motivi pratici, noi saremo costretti a fermarci più su
una teoria che sull'altra di ciascuno degli autori citati (tenendo conto dei fini
della nostra esposizione storica); ma non dovremo mai dimenticare che questa
scelta è unicamente dettata dal nostro particolare punto di vista, e quindi va almeno di principio corretta con qualche rapido accenno alle altre teorie ad essa
connesse.
Quanto ora detto ci spiega il carattere filosofico assunto nel Seicento da varie concezioni scientifiche (basti ricordare il meccanicismo ), e l'aspetto scientifico assunto da non poche teorie filosofiche. Ci spiega pure il motivo per cui
allo stesso dibattito (poniamo, intorno all'atomismo) partecipassero indifferentemente autori che oggi consideriamo soprattutto filosofi o soprattutto scienziati.
Ci spiega infine perché certe teorie prettamente scientifiche (come la teoria newtoniana della gravitazione) venissero inquadrate in ben determinate concezioni teologiche e perché tale inquadramento venisse considerato dal loro autore come
qualcosa di essenziale e indispensabile.
È stata proprio questa unità a far tramontare in modo definitivo parecchi
indirizzi di pensiero largamente diffusi nel Cinquecento (per esempio l'animismo)
dimostrandone l'inconciliabilità con le più recenti scoperte della scienza e della
tecnica. È essa che ha fatto sorgere l'esigenza di una religione razionale, capace
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L'inizio dell'era moderna
di adeguarsi - ben diversamente dai dogmi delle religioni positive - con il
progresso generale del sapere.
Abbiamo indugiato a lungo su questo carattere unitario della cultura scientifico-filosofica del Seicento per chiarire con franchezza al lettore le gravi difficoltà cui siamo andati incontro dovendo esporre il pensiero di autori che, nella
maggior parte dei casi, si occuparono attivamente di discipline diverse, trasferendo nell'una la consapevolezza metodologica e - se appena possibile - anche
i risultati maturati nell'altra.
Stando così le cose, si aprivano innanzi a noi due soluzioni, entrambe assai
semplici ma assai pericolose: di rinchiudere l'esame di ogni singolo autore in
un unico capitolo col rischio di porre in ombra i suoi strettissimi legami con
l 'ambiente culturale che stava dibattendo i vari problemi da lui studiati, e quella
invece di dedicare capitoli separati allo sviluppo storico delle diverse discipline
precisando di volta in volta per ciascuna di esse l'apporto dei singoli autori col
rischio di far perdere la visione unitaria della loro personalità scientifico-filosofica. Per evitare almeno in parte questi difetti si è optato per una terza soluzione
intermedia: quella di accentrare in qualche capitolo o paragrafo l'esposizione
della vita degli autori più significativi nonché delle linee generali del loro pensiero,
riservandoci però di riprendere in esame aspetti particolari della loro opera in
altri capitoli espressamente dedicati alla presentazione panoramica dei progressi
di fondo realizzati, durante il Seicento, in questo o quel gruppo di problemi
(politici, logici, matematici, ecc.). Questa via ci ha purtroppo costretti a qualche
ripetizione, ma ci ha consentito -cosa a nostro giudizio di estrema importanzadi porre in luce i grandi fili conduttori dei singoli settori della ricerca.
L'essenziale è che il lettore, reso consapevole di questa difficoltà, si sforzi
per proprio conto di colmare le inevitabili fratture emerse entro la nostra trattazione, tenendo ben presente che nel Seicento pressoché ogni scienziato ha avuto
profondi interessi filosofici e pressoché ogni filosofo ha avuto, in misura maggiore
o minore, precisi interessi scientifici.
La specializzazione delle ricerche, che già aveva cominciato ad affiorare nel
rinascimento, riprenderà un autentico rilievo solo in epoche successive: nel
Settecento per alcuni particolari settori della scienza, e nell'Ottocento per zone
sempre più vaste del sapere.
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CAPITOLO SECONDO
Cartesio
I
· NECESSITÀ DI UNA NUOVA FILOSOFIA
Come abbiamo visto nella sezione precedente, il rinascimento lasciò in
eredità al pensiero moderno un complesso veramente mirabile di ricerche scientifiche, ormai ricche di sicuri risultati e in via di rapido sviluppo. Non lasciò
invece alcun sistema filosofico, che fosse in grado di sostituire quello aristotelico,
sottoposto alle critiche più dure da parte di molti e valenti studiosi, pur tra loro
diversamente orientati.
Oggi gli scienziati non provano più la necessità di cercare fuori delia scienza
un fondamento per le proprie indagini; o, se la provano, danno solitamente a
tale ricerca un ben altro significato: quello, cioè, di chiarire ed eliminare i presupposti metafisici della scienza, acquistando una consapevolezza sempre maggiore dei suoi procedimenti e problemi. Nel Seicento la situazione era completamente diversa; l'indagine scientifica cominciava, sì, a fornire le prime dimostrazioni della propria efficienza, ma pareva ancora richiedere qualche garanzia,
esterna e superiore, per la verità assoluta della nuova via intrapresa. Pareva soprattutto necessario, di fronte al procedere frammentario delle ricerche particolari, trovare il modo di accertarsi a priori che esse non sarebbero cadute fra loro
in contraddizione, ma avrebbero dato origine a un sapere coerente e fecondo,
non più sottoposto al pericolo di nuove crisi e nuovi capovolgimenti.
Il maggior tentativo di soddisfare l'esigenza ora riferita fu rappresentato,
all'inizio dell'era moderna, dalla filosofia di Cartesio.
Essa venne interpretata dai suoi primi entusiasti seguaci come il « nuovo
aristotelismo», non meno accordabile dell'antico con la religione cristiana, ma
capace, nel contempo, di offrire alla nuova scienza quantitativa della natura una
base altrettanto sicura e generale quanto era stata quella offerta dall'aristotelismo
alla vecchia fisica qualitativa.
Con queste parole non intendiamo sostenere che il solo ed unico intento di
Cartesio sia stato quello di giustificare, da un punto di vista filosofico, la verità
delle nuove ricerche scientifiche; è certo però che proprio questo fu uno dei
motivi determinanti del poderoso sforzo metafisica compiuto dal grande fran218
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Cartesio
cese. E bisogna riconoscere che fu uno sforzo fecondo dei più brillanti risultati,
proprio nel campo scientifico, anche se la scienza moderna, una volta saldamente
costituita, non tarderà a lottare per liberarsi dalla metafisica cartesiana, come si
era liberata da quella aristotelica.
II
· VITA E OPERE DI CARTESIO
René Descartes (Cartesio) nacque il 3 I marzo I 596 a La Haye nella Turenna, da famiglia di piccola e recente nobiltà. Ragazzo di appena otto o dieci
anni, fu inviato al collegio di La Flèche, nell'Angiò, che - fondato qualche
anno prima dai gesuiti, con la protezione di Enrico IV - era senza dubbio una
delle migliori scuole dell'epoca. Quivi ricevette una solida istruzione classica e
scientifica, orientata secondo i principi della filosofia scolastica che, come sappiamo, sembravano all'autorità cattolica i più adatti alla difesa del dogma contro tutti i pericoli di eresia.
Uscito nel I6I4 dal collegio di La Flèche, e proseguiti per qualche tempo i
propri studi presso l'università di Poitiers, Cartesio decise nel I6I8 di dedicarsi
alla carriera delle armi. Si arruolò pertanto, al fine di apprendere l'arte militare,
helle truppe di Maurizio di Nassau, che in quegli anni combatteva contro la Spagna in favore della libertà olandese. Nel I6I9 lasciò l'esercito di Maurizio di
Nassau, per arruolarsi in quello che l'elettore di Baviera stava allestendo contro
i boemi da poco insorti.
In Olanda entrò in relazione con il fisico Isaac Beeckmann (1588-I637), noto
per i suoi studi di meccanica e di idrostatica. Le discussioni fra i due intorno a
vari problemi geometrici e soprattutto intorno ai principi del moto, valsero a
far rinascere in Cartesio l'interesse per gli studi. Riprese pertanto a occuparsi
seriamente di essi, approfittando del parecchio tempo libero che gli era consentito dal trovarsi arruolato non come militare effettivo, ma come semplice allievo
volontario. Nella notte del Io novembre I6I9 - mentre era accampato a Neuburg sul Danubio - ebbe una profonda crisi di esaltazione mistico-scientifica,
durante la quale, come egli stesso racconta, riuscì a intuire « pieno di entusiasmo ...
il fondamento di una scienza meravigliosa », da ricavarsi mediante una scrupolosa
riflessione dell'animo su se stesso.
Il giorno successivo, fece voto alla madonna di compiere un pellegrinaggio
a Loreto, se essa lo avesse aiutato a condurre a termine il piano scientifico-filosofico concepito durante la notte (anche se non adempierà mai questo voto, il
solo fatto di averlo pronunciato dimostra quanto fosse viva nel suo animo la
traccia impressagli dall'educazione dei gesuiti).
Dopo essere stato in Boemia e in Ungheria, tornò in Francia per dedicarsi
interamente allo studio (alcuni beni, ricevuti in eredità, gli permisero di condurre
da allora in poi una vita modestamente indipendente). Salvo quak~1e tempo tra-
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Cartesio
scorso in Italia, fra il I 62 3 e il '2 5, rimase a Parigi fino al I 628. Furono anni assai fecondi, durante i quali entrò in contatto con gli spiriti più colti dell'epoca,
in particolare con il padre Marin Mersenne, già da noi ricordato nel capitolo 1.
Nella primavera del I629 Cartesio si stabilì in Olanda, ove rimase, salvo brevi
interruzioni, fino al I 649. Pur amando vivere con estrema riservatezza (il suo
motto era: « Bene vixit qui bene latuit »), ebbe una corrispondenza assai vasta; basti ricordare il suo carteggio con la principessa Elisabetta, figlia dell'elettore palatino già re di Boemia, e quello con la regina Cristina di Svezia. Quest'ultima ottenne, nel I 649, che Cartesio accettasse il suo invito di recarsi a Stoccolma per
insegnarle personalmente la propria filosofia. La gracile salute del grande pensatore non resistette, però, al rigido freddo ed egli morì l'I I febbraio I65o.
La prima opera importante di Cartesio risale al I628-29 e porta per titolo
Regulae ad directionem ingenii; essa non fu mai condotta a termine, e venne pubblicata postuma nel I70I. Appe~a sistematosi in Olanda, Cartesio iniziò la stesura
di un grande lavoro di fisica: Monde ou traité de la lumière. Al I632-33 risale anche
la sua prima opera biologica, che ha per titolo De l'ho m me; essa è strettamente
collegata al precedente trattato, di cui costituisce una specie di appendice. Verrà
pubblicata nel I662 in traduzione latina e due anni dopo nell'originale francese.
Nel I633, quando il Mondo era pressoché finito, la notizia della condanna di
Galileo dissuase il nostro autore dal consegnare alle stampe il frutto del proprio
lavoro, che venne alla luce solo nel I 664. Questo atteggiamento di prudenza, che
ci può sembrare eccessivo, si accorda perfettamente al carattere di riservatezza
di Cartesio; esso sottolinea la diversità fra il programma culturale del pensatore
francese e quello del grande italiano. Mentre quest'ultimo è convinto - fino al
momento della definitiva condanna - di poter trasformare radicalmente la condotta della chiesa nei riguardi della scienza, Cartesio non nutre illusioni sull'efficacia della propria azione; egli sa che l'inquisitore ha sbagliato in questa
come in altre occasioni (per esempio a proposito degli antipodi), ma lascia
al tempo il compito di rimettere le cose a posto. Egli ha deciso di dedicare la
propria vita individuale alla ricerca della verità, e non vuole lasciarsi invischiare
in polemiche, che servirebbero soltanto a disperdere le sue energie ed a turbare
la serenità indispensabile ali 'indagine scientifica.
Non rinuncia tuttavia a far conoscere le proprie idee; si limita a dar loro
un'altra forma, meno ostica ai teologi. In realtà vi riesce solo parzialmente, tant'è vero che la sua filosofia verrà condannata con molta asprezza dai teologi protestanti dell'università di Utrecht; in modo sufficiente, comunque, ad evitare le
amarezze e le delusioni di Galileo.
Nel I637 vengono pubblicati tre saggi scientifici: la Dioptrique, le Météores e
la Géométrie, preceduti dal celeberrimo Discours de la méthode. Va sottolineato che
quest'ultimo, anche se viene spesso considerato come opera autonoma, fu in
realtà concepito dall'autore quale introduzione ai tre saggi predetti. Ciò vale a
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Cartesio
spiegarne alcuni caratteri abbastanza singolari :-1 'inizio autobiografico, la non sistematicità, l'evidente preoccupazione di condurre gradualmente il lettore a riconoscere l 'importanza della riforma metodologica proposta. Esso è suddiviso
in sei parti; la quinta costituisce una specie di riassunto ragionato del Mondo e
contiene inoltre un'interessante trattazione di fisiologia, ove travasi esposta la
dottrina della circolazione del sangue.
Nel I64I escono le Meditationes de prima philosophia, la cui prima composizione risale al I629-3o. Rielaborate una decina d'anni più tardi (cioè verso il
I64o) e fatte circolare, con l'aiuto del padre Mersenne, tra vari studiosi di filosofia e di teologia, anch'esse hanno suscitato molte obiezioni: Cartesio le ordina
in sette serie diverse e prepara per ciascuna un'attenta risposta; nel I647 uscirà,
a cura del duca di Luynes, la traduzione francese dell'opera (Méditations métaphysiques) seguita dalle obiezioni e dalle relative risposte.
Nel I644 si ha la pubblicazione di un'opera sistematica di fondamentale
importanza: Principia philosophiae. Essa è costituita di quattro libri: il primo di
argomento filosofico, gli altri tre di argomento fisico. Nel I 64 7 viene pubblicata
una traduzione francese dei Principia.
L 'ultima grande opera, T raité des passions de l'dme, uscì nel I 649; la sua stesura
era stata iniziata qualche anno prima, subito dopo la pubblicazione dei Pritzcipia.
Va ricordato che, nella terminologia cartesiana, passione significa: percezione
causata all'anima da un movimento corporeo. L'opera costituisce un tentativo
di presentare in forma sufficientemente sistematica i fenomeni concernenti l 'unione
dell'anima con il corpo. Oltre a questi problemi, essa tratta con una certa ampiezza
questioni riguardanti l'etica.
Assai interessante è pure il ricchissimo epistolario di Cartesio. Vi si ritrovano lettere di argomenti scientifici, filosofici e morali, che illuminano efficacemente il carattere e la posizione del nostro autore, nonché la natura delle obiezioni
che il suo pensiero sollevava nel più avanzato ambiente culturale dell'epoca. Meritano una particolare menzione le sue lettere sulla morale, indirizzate alla principessa Elisabetta del Palatinato e alla regina Cristina di Svezia.
III
· IL METODO DI CARTESIO E LE SUE REGOLE
Come viene condotta, da Cartesio, la ricerca di un fondamento assoluto di
tutto il sapere? Sulla base di due argomentazioni, entrambe essenziali: una negativa e l'altra positiva. Le troviamo esposte nel Discorso sul metodo in forma autobiografica estremamente caratteristica. Il momento negativo è costituito dalla
critica del tipo di istruzione ricevuta al collegio di La Flèche; quello positivo dalla
proposta di alcune regole fondamentali per compiere le indagini scientifiche.
La critica del vecchio tipo di istruzione è contenuta nella prima parte del
Discorso stt! metodo. Essa investe tutta la cultura tradizionale, di carattere prevalenZZI
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Cartesio
temente umanistico-letterario, basata più sull'esercizio della fanta~ia e sullo studio
delle grandi opere altrui, che non sulla ricerca diretta, razionalmente sviluppata.
Nelle Regulae Cartesio giunge a sostenere, come chiariremo meglio in seguito,
una tesi ancora più radicale: afferma cioè che anche la matematica tradizionale
risulta poco soddisfacente. Sono proprio le dimostrazioni di Euclide a non accontentarlo, malgrado la loro apparente perfezione logica. Egli accusa il procedimento dimostrativo dei greci di essere estrinseco, artificioso, capace, sì, di
provare la verità dei singoli risultati ma non di rivelarne l'origine profonda né
di farci scoprire nuove verità.
La scienza che Cartesio si propone di costruire, nella parte positiva della
sua ricerca, vuol essere più comprensibile alla mente umana, più chiara in tutti
i suoi minimi particolari, e perciò più feconda. A tale scopo dovrà essere una
scienza che ciascuno di noi conquista con le proprie forze, senza accettare nulla
sulla sola base dell'opera altrui. Dovrà risultare, insomma, uno strumento interamente nostro.
Il metodo che Cartesio propone per questa umanizzazione della scienza non
vuol essere qualcosa di meccanico, da imporre identicamente a tutti gli studiosi
come gli aristotelici imponevano le loro formule logiche; ciò lo renderebbe estrinseco al processo concreto di indagini e perciò inidoneo allo scopo voluto. Egli
è, sì, convinto fermamente del valore delle proprie regole metodologiche, ma
solo perché scorge in esse il frutto di una scrupolosa indagine personale, perché
- in altre parole - ha avuto innumerevoli occasioni di constatarne direttamente
l 'inesauribile efficacia. Ogni altro scienziato potrà, col metterle alla prova, convincersi altrettanto bene della loro fecondità, ossia della loro capacità a guidarci
nella ricerca di una nuova scienza e di una nuova filosofia.
Il metodo proposto da Cartesio si fonda su quattro canoni: .I) « regola dell' evidenza »: non accettare mai per vera alcuna cosa, che non sia da noi afferrabile
con perfetta evidenza; z) «regola dell'analisi»: scomporre le asserzioni complesse,
fino a giungere agli ultimi elementi che le costituiscono; ;) «regola della sintesi»:
ricomporre gli ultimi elementi in tal modo raggiunti, sì da scoprire in qual maniera
essi si colleghino fra loro nelle asserzioni complesse; 4) «regola dell'enumerazione »: percorrere con movimento continuo e ininterrotto tutte le singole verità conseguite nell'indagine, fino ad abbracciarle simultaneamente in un unico sguardo.
Si tratta di regole distinte più in apparenza che non in realtà. A rigore infatti esse mirano, tutte e quattro, àd un medesimo scopo: a farci cogliere con la
massima chiarezza e distinzione ogni verità di cui risulta costituito il nostro sapere, per quanto astrusa e complessa possa apparire. Tali regole non celano in
sé nulla di miracolistico; non portano automaticamente alla verità assoluta; ma
ci costringono ad acquistare una piena consapevolezza dei singoli passi in cui
si snoda la nostra ricerca scientifica. La garanzia che forniscono al nostro sapere
risiede per intero nell'evidenza dei risultati via via raggiunti.
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Cartesio
Sul significato di questa evidenza ritorneremo diffusamente nel prossimo
paragrafo, allorché esamineremo quali risultati del nostro conoscere Cartesio
ritenga, e quali non ritenga, davvero evidenti. Fin d'ora però occorre sottolineare la presenza, in essa, di un sostanziale riferimento al soggetto, riferimento
che imprimerà un incontestabile carattere soggettivistico non solo alla metodologia cartesiana, ma anche, per esempio, alla sua logica (per la quale rinviamo al
capitolo rx).
Taluni interpreti ritengono di poter affermare che Cartesio ricavò il metodo
ora spiegato dalla matematica. In parte essi hanno ragione, perché non v'ha
dubbio che Cartesio giunse alla formulazione ·delle anzidette regole soprattutto
dalla riflessione sul modo di procedere della matematica (ricordiamo, tra l'altro,
che già i matematici greci avevano parlato di «analisi» e di «sintesi»). Sarebbe
tuttavia erroneo supporre che Cartesio si sia limitato a ricavare il suo metodo dalla
matematica per applicarlo a tutta la scienza. La realtà è invece, come vedremo
nel paragrafo vnr, che Cartesio parte proprio da esso per elevare contro la matematica classica una critica non meno seria di quella mossa contro tutto il sapere ordinario, e per proporne una riforma non meno radicale di quella propugnata per
ogni altro ramo della scienza umana: riforma che deve rendere la matematica
più permeabile alla ragione, più limpida nei suoi principi e nei suoi procedimenti,
più perfettamente afferrabile dal nostro pensiero. «Con questo mezzo,» egli
spiega alla principessa Elisabetta, « io vedo più chiaramente tutto ciò che faccio. »
IV
· DAL DUBBIO ALLA PRIMA CERTEZZA
Cartesio non dice esplicitamente se il suo metodo valga soltanto per la scienza
o anche per la filosofia. È facile però riconoscere che egli lo applica sistematicamente ad entrambe. Ciò viene del resto a confermare quanto abbiamo detto nel
capitolo I circa l 'unità di fondo esistente, nel Seicento, tra scienza e filosofia.
Cominciamo, a buon conto, dall'applicazione che ne fa all'indagine filosofica.
L'atteggiamento più caratteristico in cui si riflette il metodo cartesiano è il
« dubbio metodico ». Volendo essere più espliciti, potremmo dire che questo
dubbio è la ricerca esasperata di quell'evidenza che abbiamo già illustrato.!
I L'attributo
«metodico» sta ad indicare, nel pensiero di Cartesio, che il dubbio da
lui propugnato non va confuso con il dubbio
degli scettici; è anzi diretto proprio contro di
essi, essendo d!.!stinato a dimostrare l'esistenza di
una verità superiore a qualsiasi critica. Come abbiamo fatto cenno nella sezione III, la cultura
francese aveva annoverato, nel Cinquecento, due
valenti sostenitori dello scetticismo (Montaigne
e Charron), e senza dubbio Cartesio pensa innanzi tutto ad essi nella sua polemica antiscettica. Egli è tuttavia preoccupato anche di un
altro nemico, ben più pericoloso: il movimento
libertino che - come sappiamo - si era fatto
sostenitore di alcune tesi scettiche, dirette a sovvertire tutta la tradizione culturale cristiana.
Della diffusione del movimento libertino in
Francia, all'epoca di Cartesio, fanno testimonianza
le molte opere scritte contro di esso da autorevoli studiosi; basti qui ricordarne due dell'amico
di Cartesio padre Mersenne: f}impiété des déistes,
athées et libertins de ce temps combattue(Contro l'empietà dei deisti, atei e libertini, x6z4) e La vérité des
sciences, con/re /es sceptiques ou pyrrhoniens (La verità
delle scienze, contro gli scettici o pirroniani, x6z5).
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Cartesio
Cercare l'evidenza significa prima di ogni altra cosa respingere con decisione tutto ciò che non è evidente, e cioè tutto ciò che viene erroneamente accolto come conoscenza vera, mentre è oscuro, incerto, illusorio. Tali sono, per
esempio, secondo Cartesio, i dati dei sensi, il cui carattere ingannatore è così
palese da poter spesso venire riconosciuto dalla stessa esperienza comune. Se
abbiamo constatato anche in una sola occasione che essi ci ingannano, con che
diritto potremo prestar loro fede nelle altre occasioni? Il nostro dubbio deve
investire, secondo Cartesio, non solo i singoli dati dei sensi, ma tutta la conoscenza
comune: non accade forse - egli si domanda - che gli oggetti empirici si
presentano con i medesimi caratteri tanto nella veglia quanto nel sogno? Nessuno di essi, dunque, gode di una effettiva evidenza; nessuno può venire accolto
come verità assoluta.
Ma vi è di più: vi è il fatto gravissimo che ali 'istanza del dubbio non si
sottraggono a rigore nemmeno le verità dimostrate dalla matematica. Chi ci
assicura, infatti, che i ragionamenti usati per dimostrarle non ci ingannino? Non
ci accade spesso, anche nella matematica, di commettere qualche errore senza a_;vedercene? La conoscenza discorsiva è necessariamente basata sulla memoria
(in essa, infatti, debbo servirmi di verità che attualmente non vedo, ma per le
quali mi limito a ricordare di averle viste altra volta con evidenza); ma quale
garanzia possediamo che la memoria non ci inganni? E infine: chi garantisce che
sia ancora vero oggi ciò che ieri si rivelò tale? Chi garantisce che l 'evidenza stessa
non sia illusoria?
Con quest'ultimo passo il dubbio metodico è diventato« dubbio iperbolico»,l
e giunge così a scuotere le basi dell'intera realtà, comunque conosciuta. Proprio
il suo coraggioso sviluppo fino alle estreme conseguenze ci porta però, secondo
Cartesio, a scoprire una verità che sfugge a qualsiasi dubbio, che è fornita cioè
di una evidenza tale, da resistere a qualunque obiezione.
Il mio dubbio, anche quello più esasperato, rivela direttamente il mio essere;
dubitare significa pensare, e pensare significa essere: «Cogito, ergo sum ».Anche
se io stessi sognando o farneticando il mio stesso sognare o farneticare sarebbe
incontestabilmente un essere.
Va subito notato che, malgrado la forma apparentemente discorsiva (malgrado, cioè, il termine ergo), non si tratta qui di un sillogismo. Non si tratta, in
altri termini, di ammettere in generale che « tutti gli esseri, i quali pensano, sono »,
e di dedurne come caso particolare che « io penso e dunque sono ». La verità
del cogito cartesiano è di altro tipo: è un'intuizione che si impone a noi con indiscutibile immediatezza al di fuori e al di sopra di ogni dubbio. È il primo, più
caratteristico, esempio di una verità assolutamente evidente.
I
È degno di nota che nel Discorso su! me-
todo Cartesio non fa cenno a questa forma iper-
bolica (o metafisica) di dubbio; ovviamente egli
riteneva che, in uno scritto di carattere prcvalcn-
temente introduttivo, essa avrebbe potuto disorientare il lettore, distogliendolo dall'attento
esame dei tre saggi scientifici di cui l'opera risultava composta.
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Cartesio
Con la scoperta del cogito Cartesio dà 1mzw alla metafisica soggett1v1st1ca
moderna: a una metafisica, cioè, che prende a proprio fondamento l'essere del
pensiero, non quello degli oggetti ideali o reali (come facevano Platone, Democrito e Aristotele). Con essa si riconosce al pensiero una situazione assolutamente
privilegiata, quale « sostanza » che non richiede nulla di altro da sé, cui venire
riferita o appoggiata. Il pensiero, così inteso, non risulta soltanto la prima verità,
ma il punto di partenza di qualsiasi ulteriore verità.
V
· DALL'ESSERE DEL SOGGETTO ALL'ESSERE DIVINO
L'impostazione soggettivistica della filosofia di Cartesio gli impedisce di
passare direttamente dali' essere del soggetto che conosce a quello d eli' oggetto
conosciuto. Per giungere dall'io al mondo, la strada percorsa da Cartesio attraversa una tappa intermedia di fondamentale importanza: l'essere divino.
Che nell'io pensante si trovi una vasta molteplicità di idee (di oggetti empirici, geometrici, ecc.), non può- secondo Cartesio- venire posto in dubbio; il
dubbio sorge, però, appena si cerchi di passare da queste idee alla realtà.
Sarà opportuno, per spiegare il ragionamento di Cartesio, fermarci anzitutto
sulla distinzione da lui compiuta nel campo delle idee. Questa distinzione non
può venire, per ora, interamente giustificata, in quanto occorrerà proprio, per
giustificarla, invocare l'esistenza di un mondo esterno; può tuttavia venire ammessa senza difficoltà, in quanto si attribuisca alle parole « mondo esterno» il
puro e semplice significato, non rigoroso né metafisicamente fondato, attribuitogli dal linguaggio comune.
Cartesio distingue, dunque, nel vasto campo di idee esistenti nel soggetto,
tre tipi fondamentali: le idee « avventizie », quelle « fattizie » e quelle « innate ».
Sono « avventizie » le idee che provengono dal mondo esterno e che risultano
estremamente fallaci; tali, per esempio, le rappresentazioni degli oggetti, come il
sole, che ci appare quale un piccolo disco luminoso mentre senza dubbio è qualcosa di ben diverso. Sono « fattizie » le idee da noi stessi fabbricate, in modo arbitrario, come le sirene, gli ippogrifi, e altre simili chimere. Sono « innate » le idée
che non procedono né dagli oggetti esterni, né dalla nostra volontà, ma dalla sola
facoltà di pensare; idee, cui lo spirito non può togliere né aggiungere alcunché,
ma che gli si impongono in modo necessario (Cartesio non pensa affatto, come lo
accuseranno i critici dell'innatismo, che le idee innate si trovino in noi fin dalla
nascita, anteriormente a ogni esperienza).
Spieghiamo ora come l'idea di dio costituisca, per Cartesio, un'idea innata.
Il nostro pensiero non è perfetto: tutta la sua struttura è una prova inconfutabile
di questa imperfezione. L'esistenza di conoscenze imprecise, illusorie, erronee
-diciamo di più, l'esistenza stessa del dubbio- ce ne fornisce continue dimostrazioni. Eppure è un fatto che noi possediamo l'idea della perfd~one: la stessa
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Cartesio
consapevolezza della nostra imperfezione d prova che noi sappiamo che cosa è
un essere perfetto. Come potremmo sostenere, altrimenti, di non essere, proprio
noi, perfetti? L 'idea di perfezione è dunque innata in noi: essa è l 'idea di dio.
Dal riconoscimento che questa idea esiste in noi al riconoscimento della reale
esistenza di dio, il passo è breve, secondo Cartesio. È chiaro - egli osserva - che
l 'idea di dio non può provenire da noi; il perfetto non può, infatti, provenire dall'imperfetto. Bisogna dunque riconoscere- ne conclude -che esiste in realtà
un essere divino, capace di far sorgere in noi l 'idea della perfezione assoluta.
All'argomento ora accennato, che implica l'uso del concetto di causa, Cartesio ne aggiunge un altro, provvisto, secondo lui, di una forza persuasiva
ancora maggiore, perché connesso soltanto ali 'idea di perfezione senza alcun
riferimento al mio stato di essere imperfetto. È l'antico argomento antologico,
già da noi esposto nella sezione n parlando di Anselmo d'Aosta. Qui, però,
esso assume un nuovo rilievo. Per Anselmo l 'idea di dio era prevalentemente un
concetto di ordine logico, e la difficoltà della sua argomentazione consisteva nella
pretesa di passar dali' ordine logico ali' ordine antologico; per Cartesio, invece,
l'idea di dio è - come tutte le idee vere - una effettiva realtà, una certezza immediata che non possiamo far a meno di pensare. « Non è in mia facoltà pensare
dio senza esistenza, come lo è immaginare un cavallo con o senza ali. » In altre
parole: io mi trovo obbligato a pensare dio fornito di esistenza; questo pensiero
è in me una realtà effettiva, innegabile. Non può essere altro fuorché l'esistenza
stessa di dio ciò che mi determina a pensarlo proprio così.
L'analisi ora riferita, ponendo fuori di ogni possibile discussione l'esistenza
di dio, ci rivela - secondo Cartesio - che egli è una sostanza nel più pieno e
completo significato della parola. Dio infatti, non solo esiste, ma esiste proprio
per virtù interna, non potendosi concepire la sua perfezione senza la sua esistenza.
Così inteso, dio diventa il piedistallo fermissimo di tutta la filosofia cartesiana. Diventa, in particolare, la garanzia metafisica del criterio stesso di verità,
esposto nel paragrafo m. Ed invero : se dio esiste come essere perfetto, e quindi
verace, non può permettere che noi ci inganniamo; non può, cioè, permettere che
noi abbiamo idee chiare e distinte cui non corrisponda nulla di reale. Basta dunque prendere in esame le idee chiare e distinte esistenti nella nostra mente: esse
non potranno non rivelarci una vera ed effettiva realtà.
Senonché, obietteranno Arnauld e Gassendi,l non si cela qui un palese circolo vizioso? Il criterio dell'evidenza è stato, infatti, assunto come punto di partenza per giungere al riconoscimento dell'essere pensante e poi per salire da questo
all'essere divino: con che diritto si potrà, ora, sostenere che l'esistenza dell'essere divino fornisce una garanzia al criterio di partenza?
La risposta di Cartesio può venire riassunta così: l 'evidenza della verità, nell 'attimo in cui essa è intuita, costituisce certamente la base per l'esclusione di ogni
x Per una più ampia esposizione dell'obiezione di Gassendi si veda il capitolo m.
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Cartesio
dubbio; ma la scienza non si esaurisce in conoscenze immediatamente intuite, richiedendo pure l'appello al discorso logico, che implica- come si è accennato
nel paragrafo rv - il ricordo di verità già intuite con evidenza. Contro il discorso
logico, e in particolare quello matematico, si possono elevare, proprio perché
essi implicano l'appello alla memoria, dubbi tutt'altro che privi di efficacia:
ebbene, tutti questi dubbi saranno dissolti dall'appello all'esistenza di dio.
« Così ad esempio, » scrive Cartesio, « quando esamino la natura del triangolo,
io, un po' versato negli studi di geometria, conosco con evidenza che la somma
dei suoi tre angoli è eguale a due retti, e mi è impossibile dubitarne finché concentro la mia mente in questa dimostrazione. Ma appena io distolgo da essa la
mia attenzione, anche se continuo a ricordare d'averla chiaramente intesa, può
tuttavia facilmente accadere che io venga a dubitare della sua verità ... Ma, dopo
aver riconosciuto che c'è un Dio poiché ho in pari tempo riconosciuto anche che
tutte le cose dipendono da lui e che egli non è mendace, e ho, in conseguenza di
ciò, giudicato che non può non essere vero tutto ciò che penso con chiarezza
e distinzione; anche se non penso più alle ragioni per cui l'ho giudicato vero,
purché mi ricordi d'averlo inteso chiaramente e distintamente, non vi è obiezione che possa ancora farmelo porre in dubbio. E così ne ho una scienza vera
e certa.»
A noi, che ci troviamo a vivere in un tipo di cultura tanto diversa da quella
di Cartesio, la risposta testé accennata può apparire tutt'altro che persuasiva.
Essenziale è però comprendere che, per Cartesio, l'appello a dio costituiva la
premessa indispensabile di tutto il sapere filosofico-scientifico. Ed infatti, soltanto
l'esistenza di dio come essere assolutamente perfetto può- secondo lui- fornirci la garanzia reale e definitiva dell 'indiscutibile validità delle nostre più complesse argomentazioni razionali.
A questo punto si rende indispensabile un'ultima precisazione; proprio perché dio è, secondo Cartesio, il garante supremo delle verità evidenti (che potremmo anche chiamare «eterne» in quanto esprimono l'essenza immutabile
delle cose) egli ne è pure il creatore: creatore libero, cioè non vincolato da esse,
così come è il creatore libero del mondo, che - volendolo - avrebbe anche potuto non creare. Ma appunto perché tali verità non dipendono da altri che da dio,
la sua veracità (inscindibilmente connessa alla sua perfezione) può garantirci nel
modo più certo che egli le ha effettivamente create così come noi le intuiamo con
limpida evidenza.
Forti di questa assoluta garanzia noi possiamo dunque avviarci con fiducia
per la difficile via della ricerca scientifica, sicuri che non cadremo in errore se applicheremo con scrupolo i dettami della nostra ragione.
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VI
· DALL'ESSERE DI DIO ALL'ESSERE DEL MONDO
Prima di esporre il passaggio da dio al mondo, sarà bene chiarire più distesamente il concetto già accennato di sostanza. Per Cartesio dicesi sostanza « una
realtà che esiste in modo tale da non aver bisogno di nessun'altra realtà per esistere ». In senso assoluto, il termine di sostanza non conviene che a dio; in un
senso relativo, è applicabile anche alle realtà create, allorché esse non abbiano bisogno, per esistere, di null'altro fuorché del concorso divino. In questo secondo
senso, il termine di sostanza è contrapposto a quello di attributo: gli attributi,
infatti, non esistono di per sé ma solo in quanto attributi di una certa sostanza.
Come tali, essi rivelano la sostanza di cui sono attributi, ma non possono venire
identificati con essa.
Secondo quanto si è spiegato nel paragrafo precedente, dio non può - a
giudizio di Cartesio - venire concepito in altro modo fuorché come sostanza:
egli è la sostanza perfetta e increata.
Ma anche l'io, come abbiamo visto, è sostanza. Fu la scoperta del cogito a
provarcelo; essa ci provò pure - secondo Cartesio - che questa sostanza ha
un attributo fondamentale: il pensiero. La sua imperfezione dimostrò, poi, che è
una sostanza finita. Essa non può non dipendere dalla sostanza perfetta, cioè da
dio.
Si tratta ora di spiegare come Cartesio giunga a concludere che, oltre alle
anime (intese come sostanze pensanti), esiste pure un secondo ordine di sostanze
finite e create: quello dei corpi, provvisti di un nuovo attributo fondamentale,
l'estensione.
Innanzi tutto Cartesio ammette che il nostro intelletto trae motivo, dalla
testimonianza dei sensi, a formarsi un'idea chiara e distinta dell'estensione. Tale
idea è la base di una scienza provvista di perfetta evidenza, la geometria; questa
ci fornisce, insieme con l'idea dell'estensione (cioè dello spazio), anche l'idea del
movimento come spostamento da un punto all'altro dello spazio.
Orbene, un rigoroso confronto tra l'idea dell'io pensante e quella del corpo
esteso ci mostra indiscutibilmente - secondo Cartesio - che si tratta di due idee
« interamente e realmente distinte ». Si ha cioè, da un lato, l'idea chiara e distinta
dell'io pensante e non esteso, dall'altro, l'idea chiara e distinta del corpo esteso
e non pensante. Qualunque dubbio in proposito è privo di senso (salvo, ovviamente, il dubbio iperbolico, che però è stato eliminato una volta per sempre dall'esistenza di dio).
Che dovremo concluderne? Potremo ammettere che l 'idea del corpo esteso
provenga dall'io pensante? No certamente - risponde Cartesio - perché io
«in quanto sono soltanto cosa pensante» non posso produrre l'idea di una cosa
tanto diversa dal pensiero. Ma vi è di più: vi è il fatto, pur esso indiscutibile, che
io ho « una grandissima inclinazione a credere » che tale idea provenga proprio
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Cartesio
dalle cose materiali. Se, pertanto, le cose materiali non esistessero nella realtà,
«non vedo come non potrei accusare d'inganno» la divinità.
Già sappiamo però, dalle argomentazioni del paragrafo v, che dio, essendo
per sua natura verace, non ci inganna. Dunque non ci resta che una sola conclusione possibile: ammettere l'esistenza effettiva delle cose materiali.
Qui, come alla fine del paragrafo v, non è il caso di discutere il valore che
noi moderni possiamo attribuire a questa dimostrazione; importante è sottolineare che essa si fonda su due cardini fondamentali: l 'esistenza in noi dell'idea
di una realtà senza analogia con il pensiero, e l'esistenza di dio come essere assolutamente perfetto e quindi assolutamente verace. Da tali due cardini scaturisce
non solo l'esistenza del mondo dei corpi, ma l'irriducibile diversità tra la sostanza
corporale e la sostanza spirituale. In altri termini: l'esistenza dei corpi estesi risulta, nella concezione filosofica di Cartesio, inscindibilmente collegata al più
rigoroso dualismo.
Stabilita con l'argomentazione ora esposta l'esistenza dei corpi, non è difficile comprendere perché Cartesio attribuisca loro soltanto le proprietà dell'estensione e del movimento, affermando invece che le qualità sensibili che da Locke
saranno chiamate secondarie (colore, sapore, odore, ecc.) costituiscono semplici
modificazioni della nostra coscienza. Il motivo è palese: dell'idea chiara e distinta della sostanza corporale possono far parte soltanto le proprietà che noi
siamo in grado di concepire con chiarezza e distinzione. Ma le proprietà della
geometria speculativa possono venire chiaramente e distintamente concepite,
mentre non lo possono le proprietà oscure e confuse suggeriteci dalle qualità
sensibili come il colore, il sapore, ecc.; le prime dunque, e non le seconde, appartengono effettivamente alla realtà dei corpi. L'attribuzione ai corpi di tutto il
contenuto delle nostre percezioni sensibili sarebbe in netto contrasto con il criterio dell'evidenza.
L'attribuzione ora accennata è, per Cartesio, un tipico esempio di errore.
Esso trae origine dalla nostra volontà di affermare che i corpi posseggono le qualità sensibili come colore, sapore, ecc., senza che nessuna forza esterna ci costringa
a farlo. È un errore che non risiede nelle idee, ma nei giudizi che formuliamo su
di esse.
Secondo la filosofia di Cartesio il giudizio non è un atto dell'intelletto, ma
della volontà. In questa perciò, non in quello, va cercata la fonte dell'errore: e
cioè esso risulta di ordine pratico, non teoretico. In altri termini: la causa dell'errore va cercata nel fatto che la nostra volontà è più estesa del nostro intelletto.
Quando la volontà giudica su argomenti c:he oltrepassano la sfera della conoscenza
chiara e distinta, i suoi giudizi sono sbagliati ed essa è responsabile di questi errori.
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VII
· CONSEGUENZE DEL DUALISMO CARTESIANO
Le conseguenze del dualismo tra sostanza pensante e sostanza estesa si
riflettono su tutti i maggiori problemi della filosofia tradizionale. Ci limiteremo a
segnalarne alcune fra le più importanti.
Secondo la tradizione aristotelico-scolastica, il concetto di anima era intimamente legato a quello di vita, e, in corrispondenza ai vari tipi di vita, si avevano
vari tipi di anima (vegetativa, sensitiva, razionale). Per Cartesio, invece, l'anima
che è puro pensiero non ha nulla a che vedere con la vita. È vero che essa si separa dal corpo umano allorché questo muore; ciò non significa tuttavia che tale
dipartita sia la causa della morte del corpo (questa causa va unicamente cercata
all'interno dell'organismo corporeo); ne è piuttosto una conseguenza, perché,
con la morte, il corpo cessa di poter servire all'anima e diviene quindi, in certo
senso, ad essa inutile.
Occorre pertanto tenere ben distinti fra loro lo studio dell'anima, caratterizzata essenzialmente dall'intelletto e dalla volontà, e quello del corpo, caratterizzato essenzialmente dall'estensione; e ciò soprattutto in relazione al fatto che
non percepiamo in modo chiaro e distinto le nozioni di anima e di corpo. A vendo
identificato lo psichico con l'inesteso, Cartesio può comunque concepire l'anima
come connessa, non più a tutto il corpo, bensì a un solo organo di esso (precisamente alla ghiandola pineale). Egli insiste varie volte sull'originarietà della nozione di questa connessione, in base alla quale siamo in grado di sentire che
l'anima agisce sul corpo e viceversa, ma non di comprendere alla luce dell'intelletto tale reciproca azione. In realtà la comprensione non corretta della distinzione fra anima e corpo costituisce, secondo Cartesio, un autentico pregiudizio
radicato in noi fin dall'infanzia, che si prolunga gravemente in alcuni settori
del pensiero scientifico, come ad esempio nella filosofia scolastica tradizionale.
Per fare vera scienza è necessario liberarsi da tale pregiudizio, in base a una comprensione esatta di ciò che è proprio dell'anima e di ciò che è proprio del corpo.
Così, mentre nelle antiche concezioni della natura, largamente accolte ancora dai filosofi rinascimentali, si era soliti ricorrere alle anime dei corpi (degli
astri, per esempio) onde spiegare le connessioni causali fra fenomeno e fenomeno,
ogni appello del genere è bandito dalla concezione di Cartesio. La causalità è
pensata come rapporto che connette corpo a corpo, senza il benché minimo intervento di forze occulte. Non solo non si sente più il bisogno di concepire il
mondo quale animale fornito di propria vita, ma - come verrà chiarito meglio nel
paragrafo IX - si spiega la stessa vita mediante le leggi meccanico-matematiche
della sostanza estesa. Proprio perché strutturata in netta antitesi alle dottrine magico-occultistiche fiorite nel rinascimento, che tanti dubbi avevano osato sollevare contro la verità cristiana, la nuova scienza assume - nel pensiero del nostro autore - un'importante funzione per la difesa dell'autentica ortodossia.
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Cartesio
Nemmeno gli animali sfuggono, secondo Cartesio, alla concezione rigorosamente meccanicistica. Se avessero un'anima, egli scrive, la rivelerebbero usando
un « vero linguaggio », poiché « la parola è l 'unico segno e la sola prova sicura
del pensiero nascosto e rinchiuso nel corpo ». Mancando questa prova, bisogna
concluderne che essi sono dei puri e semplici automi.
Con la separazione assoluta del mondo dei corpi da quello delle anime, l'indipendenza delle scienze della natura è metafisicamente garantita. Esse possono
ormai sviluppare liberamente le proprie indagini, senza temere che i risultati
raggiunti abbiano a interferire comunque nelle questioni tradizionali concernenti
l'anima e dio. D'altra parte risulta anche definitivamente sconfitta la tesi dei libertini e degli atei, mirante a fare dell'uomo qualcosa di molto simile all'animale;
la comprovata diversità tra uomini, dotati di anima, e bruti, assolutamente privi
di essa, toglie a tale tesi qualsiasi fondamento.
VIII
·
GEOMETRIA
Una delle prime applicazioni essenzialmente scientifiche del metodo spiegato nel paragrafo m è fornita dalla geometria analitica.
Già accennammo in tale paragrafo che - proprio partendo dal metodo in
questione - Cartesio eleva alcune serie critiche alla matematica greca. Queste
possono così riassumersi: le indagini geometriche erano svolte dagli antichi con
procedimenti diversi, facenti uso di artifici variabili da un caso all'altro, non di
rado oscuri ed ambigui. Se siamo certamente in grado di seguirne passo passo
le argomentazioni controllandone l 'indubbia coerenza, non riusciamo però a
renderei conto del motivo per cui in un caso si facesse ricorso a un tipo di dimostrazione, in un altro caso ad un altro. Restiamo quindi disarmati di fronte a
un qualsiasi problema nuovo, dovendo procedere per tentativi, senza alcuna guida
sicura.
Per eliminare questi inconvenienti, Cartesio introduce l 'uso sistematico degli
assi coordinati (ancora oggi solitamente denominati« assi cartesiani») che permettono di :rappresentare i punti con coppie o terne di numeri e le relazioni geometriche fra punti con relazioni algebriche. Così i problemi geometrici possono venire
tradotti in problemi algebrici e risolti con le regole in certo senso automatiche
dell'algebra. Questa traduzione presenta due notevoli vantaggi: per un lato, di rendere pressoché uniforme la trattazione di tutte le questioni geometriche; per
l'altro, di far scomparire d'un tratto le differenze inessenziali tra figura e figura
permettendo così di raggiungere risultati di amplissima generalità.
La geometria diviene, in tal modo, una scienza essenzialmente analitica nella
quale ogni problema ben formulato diventa, se di grado non superiore al quarto,
automaticamente risolubile. Cartesio è tanto sicuro dell'efficacia del proprio metodo, da scrivere che non si sofferma a « spiegare minutamente » tutte le questioni,
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Cartesio
solo per lasciare ai posteri la soddisfazione di « apprenderle da se stessi ». « Ed io
spero che i nostri nipoti mi saranno grati, non solo delle cose che io ho spiegato,
ma anche di quelle che ho volontariamente omesso, allo scopo di lasciar loro il
piacere di inventarle. » Torneremo, nel capitolo VIII, su questa concezione della
geometria analitica, per confrontarla con la diversa interpretazione data di essa da
Pierre Fermat, che la inventò contemporaneamente a Cartesio.
Fra i risultati più importanti ottenuti da Cartesio con i procedimenti testé
accennati, merita una particolare menzione la determinazione generale della normale a una qualsiasi curva algebrica piana in un suo punto qualunque e la conseguente determinazione della tangente. Questa determinazione risolveva uno dei
problemi geometrici più discussi nel Seicento; essa si prestava inoltre a molte
applicazioni, nel cui studio Cartesio diede ripetute prove di una perfetta padronanza delle regole algebriche (contribuendo anzi a migliorarle in parecchi punti
di notevole interesse). Egli ebbe pure il merito di comprendere che il procedimento seguito nella determinazione della normale a una curva piana poteva
venire esteso a una curva gobba; commise tuttavia l'errore di non avvedersi che
una curva gobba ammette, in un punto generico, non una ma infinite normali.
IX
· FISICA E BIOLOGIA: IL MECCANICISMO CARTESIANO
Il fondamento ultimo della fisica e della biologia di Cartesio è costituito dalla
tesi filosofica generale, illustrata nei paragrafi precedenti, affermante che il mondo
della natura - assolutamente distinto da quello dello spirito - è costituito unicamente di materia (sostanza estesa), onde tutti i fenomeni naturali dovranno risultare spiegabili facendo riferimento alla materia e ai suoi movimenti.
La via seguita dal nostro autore per giungere ad una spiegazione effettiva dei
singoli processi fisici e organici, consiste nell'ideare ben precisi modelli teorici,
costituiti di elementi puramente geometrici e meccanici, capaci di riprodurre
con esattezza, nel loro funzionamento, quello che l'esperienza ci insegna essere
il funzionamento dei fenomeni del mondo reale.
Tre caratteri vanno subito rilevati in tale impostazione dei compiti della
fisica e della biologia: 1) essa implica una vera e propria collaborazione tra ra.gione e fantasia (quest'ultima interviene infatti nella combinazione di figure e
movimenti ideata dal modello, quella invece nella deduzione rigorosa delle conseguenze ricavabili da tale combinazione); 2) il risultato cui ci si propone di giungere è una ricostruzione ipotetica della natura (Cartesio afferma ripetutamente che
il mondo e l 'uomo dedotti dai suoi modelli, pur senza essere reali, funzionano
come il mondo e l'uomo effettivi, il che ci autorizza a presumere che dio li abbia
creati proprio in questo modo o in modo analogo); 3) la ricerca scientifica non
viene concepita quale semplice osservazione dei fenomeni naturali, ma quale attività costruttrice (analoga a quella del costruttore di macchine, seppure tenuta su
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Cartesio
di un piano puramente ideale), nel presupposto che il costruire possegga un'intrinseca evidenza non posseduta dal mero contemplare.
La concezione testé delineata della natura (e, di conseguenza, delle scienze
che hanno per oggetto lo studio dei fenomeni naturali) rientra in un grande indirizzo filosofico-scientifico, del quale dovremo parlare a lungo nel seguito della
presente opera: l'indirizzo meccanicistico. Già abbiamo fatto cenno ad esso nella
sezione nr, esponendo il pensiero di Galileo; nella presente sezione verrà ampiamente e specificamente ripreso nel capitolo vm, dedicato appunto a cogliere
i caratteri generali del meccanicismo. Ma anche nelle sezioni successive saremo
costretti a ritornare varie volte su tale indirizzo, perché i suoi sviluppi e le sue
crisi segneranno i punti nodali della storia del pensiero scientifico moderno.
Per quanto riguarda in particolare il meccanicismo di Cartesio, basti per ora
sottolineare che esso costituiva- per così dire -l'altra faccia del suo spiritualismo, onde uno dei più autorevoli critici del meccanicismo vissuto nella seconda
metà dell'Ottocento, Ernst Mach, sosterrà che, per sconfiggere lo spiritualismo,
occorre proprio liberarsi dalla concezione meccanicistica della natura basata sulla
presunta totale estraneità di spirito e materia. È una tesi che si presta, ovviamente,
a parecchie obiezioni, ma che serve assai bene a porre in luce l'enorme importanza
dell'argomento.
Volendo ora scendere dalle considerazioni di ordine generale, a quelle più
propriamente scientifiche (nel significato specifico di questo termine), cominceremo a ricordare che la fisica cartesiana si basava essenzialmente su due principi:
1) inesistenza del vuoto; z) costanza della quantità di moto.
La negazione dell'esistenza del vuoto è una diretta conseguenza della concezione cartesiana dell'estensione come attributo della sostanza corporea. Da
essa discende, infatti, che l'estensione, essendo un attributo e non una sostanza,
non può esistere di per sé senza appoggiarsi a qualche corpo. Cartesio ne deduce
l'esistenza di una materia primaria, entro la quale i corpi si muoverebbero come
pietre nell'acqua. Essi agirebbero, poi, uno sull'altro, solo in quanto entrano
in contatto tra loro. L'inesistenza del vuoto è il principale argomento adottato
da Cartesio contro i fisici atomisti.
Nella fisica cartesiana tutti i fenomeni si spiegano - coerentemente al programma poco sopra accennato - per mezzo del movimento. Questo sarebbe
caratterizzato dalla « quantità di moto », ossia dal prodotto della massa del corpo
in movimento per la sua velocità.
Cartesio ammette il principio di inerzia, sia come conservazione della velocità iniziale, sia come conservazione della direzione rettilinea del moto (o ve non
intervengano cause perturbatrici). I corpi però possono urtarsi, e cioè entrare
in contatto uno con l'altro, modificando ciascuno il proprio stato di moto; ,tale
modificazione consisterà nel fatto che uno dei due cede all'altro, in tutto o in
parte, la quantità di moto di cui era antecedentemente provvisto. Esiste tuttavia
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Cartesio
qualcosa che permane immutato in questa variazione: è la somma delle quantità
di moto dei due corpi che si sono urtati, cioè la quantità di moto risultante
del loro sistema. Partendo da questo risultato - che secondo il punto di vista
odierno della meccanica è esatto, quando e solo quando venga applicato a un
sistema di masse unicamente soggette alla forza che esercitano una sull'altra il nostro autore giunge, con un'ardita generalizzazione, ad affermare che in
tutte le innumerevoli trasformazioni dell'universo la sua quantità di moto complessiva resta costante. Egli ritiene anzi di poter inquadrare questo principio
nella concezione cristiana del mondo quale creatura di dio: questi infatti, nell'atto di creare il mondo materiale, gli avrebbe impresso una quantità di moto
destinata a rimanere immutata nel suo valore globale pur potendosi variamente
distribuire fra i singoli corpi.
Di particolare importanza è il fatto che Cartesio concepisce l'anzidetta permanenza della quantità di moto come la legge fondamentale che regola il passaggio dalla causa all'effetto. Ed invero, tenendo presente che la quantità di moto
è una grandezza prettamente matematica, egli può concludere che tutto il processo di causazione è esso pure esclusivamente matematico. Per questa via riesce
a concepire la nozione di causa in termini puramente matematico-meccanici, spogliandola di ogni oscura implicanza mistico-magica.
Oggi sappiamo che l'uno e l'altro dei due principi testé accennati (inesistenza
del vuoto e costanza della quantità di moto dell'universo) sono inesatti; è certo
però che, nel Seicento, essi esercitarono un'influenza decisamente positiva per
il progresso non solo della fisica ma anche della biologia e della fisiologia.
Partendo da tali principi, Cartesio formulò la sua famosa teoria dei vortici.
Come una pagliuzza che galleggi sull'acqua è attirata da un vortice formatosi
nella corrente, così una pietra è attirata verso la Terra da un vortice. Analogamente i pianeti (inclusa la Terra) roteano, con i vortici che li circondano, in un
vortice più grande attorno al Sole.
Newton dimostrerà matematicamente che la teoria dei vortici non regge.
Essa rappresentò tuttavia una tappa fondamentale nella storia del pensiero scientifico: un'ipotesi ardita, che tentava di unificare in una sola macchina tutti i
processi dell'universo. Come tale, esercitò un grande fascino su tutti gli spiriti
scientifici dell'epoca, finché non fu sostituita dalla ben più solida teoria newtoniana della gravitazione universale.
Tra le ricerche particolari di Cartesio, ricordiamo la scoperta delle leggi
della rifrazione della luce. Con queste e con le leggi della riflessione egli riuscì,
poi, a dare una spiegazione scientifica esatta del fenomeno dell'arcobaleno,
eliminando la vecchia teoria dei vapori.
Quanto alla biologia, per Cartesio essa fa interamente parte della fisica:
in questa concezione si inquadra appunto la teoria degli animali-macchina, già
accennata nel paragrafo vu.
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Cartesio
Il settore della biologia più particolarmente studiato da Cartesio fu la fisiologia. Anche se egli non riuscì a portarvi alcun risultato nuovo di speciale importanza (fu, ad esempio, preceduto da Harvey nella tesi della circolazione del
sangue), è certo però che diede un contributo decisivo a mutarne il quadro sistematico. Il suo meccanicismo segna, in questo senso, il vero inizio della fisiologia moderna: esso si oppone in modo risoluto, non solo alla fisiologia galenica
sostanzialmente accettata dai grandi anatomisti del Cinquecento, ma ad ogni
forma di finalismo (di impronta aristotelica) ancora presente in molti scienziati
del Seicento, per esempio nello stesso Harvey. Il principio generale su cui il
nostro autore fonda la sua fisiologia è quello della fermentazione (attinto dall'indirizzo iatro-chimico del quale parlammo nella sezione m), principio cui egli attribuisce un significato schiettamente scientifico, svuotandolo di ogni sottinteso
extrafisico.
Per ciò che riguarda il corpo umano, già sappiamo che Cartesio lo interpreta come una macchina, né più né meno che i corpi degli animali. Come tale,
esso funziona in base a principi puramente meccanici, che regolano - connettendoli uno all'altro - i moti (volontari e involontari) dei diversi organi. L'anima può agire su questi solo mediatamente, in base ai loro legami con la ghiandola pineale ove ha luogo il contatto tra essa e il corpo. È quindi possibile eseguire un completo studio fisiologico del nostro organismo, prescindendo da ogni
considerazione sull'anima.
X
· LA MORALE DI CARTESIO
Non abbiamo parlato finora della morale di Cartesio. Egli non dedicò
all'etica una trattazione sistematica, pur riconoscendo che essa costituisce uno
dei rami fondamentali della filosofia. Ne parlò, sì, nella parte terza del Discorso
sul metodo, ma soltanto come « morale provvisoria ». ·
« Ultimo e supremo grado della saggezza », la morale presuppone le altre
scienze e in particolare la metafisica; non è dunque possibile pretendere di costruirla, finché si sta lavorando per l'elaborazione rigorosa delle altre scienze.
Di qui la necessità di adottare per l'intanto, in via provvisoria, alcune regole di
vita fornite, se non di una certezza assoluta, almeno di una certa efficacia « per
vivere quanto più felicemente possibile ».
Le regole della « morale provvisoria » di Cartesio sono tre: I) obbedire alle
leggi e alle usanze del proprio paese « conservando costantemente la religione
in cui Dio mi ha fatto la grazia di essere educato sin dall'infanzia, e regolandomi,
in ogni altra cosa, secondo le opinioni più moderate e più lontane da ogni eccesso»; z) essere «quanto più fermo e risoluto» nelle proprie azioni, e seguire
le opinioni adottate « con non minore costanza che se fossero state certissime »;
3) sforzarsi sempre di cangiare i propri desideri «più che l'ordine del mondo»,
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Cartesio
e abituarsi a credere «che non v'è nulla che sia interamente in nostro potere
tranne i nostri pensieri ». Alla fine di esse, egli ne aggiunse una quarta che esprime la propria vocazione personale: di continuare a « impiegare tutta la vita a
coltivare la mia ragione e a progredire quanto più possibile nella conoscenza della
verità», seguendo il metodo dell'evidenza posto alla base della sua filosofia.
Se non dedicò alcuna opera sistematica alla morale, Cartesio tuttavia
- come già ricordammo nel paragrafo n - ritornò varie volte su di essa: nel
Trattato sulle passioni e in molte lettere. 1 La teoria svolta in queste riflessioni rinvia
esplicitamente alle tre regole, riferite nel Discorso sul metodo, e dimostra che esse
persero, col tempo, gran parte della loro provvisorietà. Ciò spiegherebbe, tra
l'altro, per qual motivo Cartesio non ritenne necessario dedicare un'opera specifica alla morale definitiva.
Sarebbe tuttavia ingiusto non prendere atto che, nelle riflessioni ora accennate, se vi è un riferimento alle regole della morale provvisoria, vi è pure qualcosa di profondamente nuovo. È qualcosa che rivela l'influenza dei filosofi
stoici, in ispecie di Seneca, e che corregge in parte il conformismo delle regole
provvisorie.
Si tratta di un'affermazione, via via più accentuata, della funzione-guida
spettante alla ragione. Essa finisce per condurre Cartesio a identificare la virtù
con l'accettazione della ragione, cioè con il proposito di «eseguire tutto ciò
che la sua ragione gli consiglierà, senza che le sue passioni o i suoi appetiti lo
distolgano ». Proprio per attuare tale proposito, Cartesio cercherà di studiare
con la massima cura le passioni umane, che secondo lui dipendono dal fisico;
e le studierà non già per liberarsene, il che sarebbe impossibile, ma per frenarle
e farne quindi un retto uso.
L'accettazione della guida della ragione e il conseguente retto uso delle passioni costituiscono i cardini della « saggezza », in cui va cercato uno dei fini principali della filosofia cartesiana.
XI
· SIGNIFICATO E LIMITI DEL RAZIONALISMO CARTESIANO
Abbiamo detto or ora che uno degli scopi della filosofia di Cartesio fu,
senza dubbio, la conquista della saggezza. Questo pone in luce l'interesse che egli
ebbe per il fattore della volontà. Tale importanza venne già da noi sottolineata
allorché, per spiegare l'origine dell'errore, ricordammo che, secondo Cartesio,
l'errore risiede nel giudizio e il giudizio è proprio opera della volontà, non dell 'intelletto.
I Notiamo ancora una volta che il termine
« passione » non ha, per Cartesio, il significato
ordinariamente attribuitogli dal linguaggio odierno. Come egli stesso spiega in una famosa lettera alla principessa Elisabetta del Palatinato, de h-
bono chiamarsi passioni tutti i pensieri « eccitati
nell'anima senza il concorso della sua volontà ...
dalle sole impressioni che sono nel cervello »,
sicché, in conclusione, « ciò che non è azione è
passione».
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Cartesio
Per comprendere appieno il peso attribuito al fattore della volontà nella
filosofia di Cartesio, occorre ancora ricordare il suo interesse per le applicazioni
pratiche del sapere. È un interesse che indubbiamente lo avvicina a Galileo e a
Bacone, e gli fa difendere, con energia non minore dell'inglese, l'ideale di una
scienza utile alla vita e capac;:e di assicurare all'uomo il dominio sulla natura.
La parte sesta del Discorso sul metodo contiene un'appassionata difesa di questa
concezione baconiana del sapere e una precisa esposizione del dovere, spettante
a ogni scienziato, di collaborare « ciascuno secondo la propria inclinazione e
il proprio potere » al progresso della scienza e della tecnica « affinché, cominciando
gli ultimi dove i primi hanno terminato, e riunendo così le vite e le opere di molti,
procediamo tutti insieme molto più lontano di quanto potrebbe fare ciascuno
in particolare».
Occorre tenere presente l 'interesse, ora menzionato, di Cartesio per la volontà e per le realizzazioni pratiche, se non si vuol correre il rischio di interpretare falsamente il suo razionalismo. Se è vero, infatti, che tutta la costruzione
filosofica di Cartesio si appoggia sul criterio dell'evidenza razionale, non è meno
vero, però, che il fine, cui è rivolta tale costruzione filosofica, non consiste nella
pura e semplice acquisizione di un'immagine chiara e distinta dell'universo,
ma nell'elevazione della ragione a norma di vita morale e nella trasformazione
delle verità teoretiche in strumenti pratici di azione sul mondo.
Esaminato il problema da questo punto di vista, pare dunque doveroso concludere che il razionalismo di Cartesio rappresenta soltanto un momento della
sua filosofia, fondamentale sì alla costruzione del sapere, ma subordinato a un
superiore volontarismo.
In altri termini, se è vero che nella storia del pensiero filosofico-scientifico
Cartesio esercitò soprattutto la funzione di energico assertore dei diritti della
ragione (ragione che non può venire sottoposta ad alcuna limitazione nella ricerca di una chiarezza assoluta e integrale delle idee), vero è però che egli inserì
questa ricerca di chiarezza in una concezione concreta dell'operare umano che
è, insieme, attività e razionalità. Trasformare la filosofia di Cartesio in un intellettualismo astratto significa, dunque, non comprenderne la reale complessità.
Non si tratta di negare il carattere razionalistico di tale filosofia, o di sottovalutare l'importanza storica e teoretica di questo carattere, ma di riconoscere
che il razionalismo cartesiano non può venire inteso se non si tiene presente
che il suo fine supremo (il fine cui tende lo stesso criterio dell'evidenza) è quello
di umanizzare la scienza, formando di essa qualcosa che non sta al di sopra
dell'uomo ma si immedesima talmente in lui, da costituire tutt'uno con la sua
attività teoretica e pratica.
Senza dubbio, in quest'opera di umanizzazione della scienza intervengono
molti temi dogmatici di carattere schiettamente metafisica (tale, per esempio,
il tentativo di ricorrere all'esistenza di dio per dedurne la realtà del mondo, in2.37
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Cartesio
vece di affidarsi direttamente all'esperienza concreta che l'uomo ha di questa
realtà); bisogna però tenere presente, per giustificarlo, che Cartesio ricorre a
questa deduzione della realtà del mondo, perché vuol dimostrare che il mondo
reale non è quello dell'antica metafisica, intessuto di forze che sfuggivano alla
conoscenza umana, ma è un colossale meccanismo interamente afferrabile dalla
nostra ragione e proprio perciò dominabile e plasmabile da una tecnologia non
di tipo magico ma scientifico. La filosofia e la scienza posteriori a Cartesio si
libereranno a poco a poco dei suoi dogmi metafisici, ma continueranno a far
tesoro della sua concezione dell'uomo, come essere capace di afferrare, con la
ragione, l'intima struttura di se stesso e del mondo, e di rivolgere questa conoscenza alla costruzione del regnum hominis.
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CAPITOLO TERZO
Gassendi e Hobbes
I
· CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Nel presente capitolo intendiamo esporre le concezioni filosofiche di due fra
i più significativi pensatori al cui esame il padre Mersenne sottopose le Meditazioni
metaftsiche di Cartesio. Le obiezioni che essi sollevarono, pur nella loro diversità, hanno alcuni caratteri comuni: esse denotano la presenza - nel primo Seicento - di esigenze molto serie che non si trovavano in alcun modo espresse
nell'opera testé citata e che anzi spingevano verso indirizzi di pensiero in certo
senso antitetici a quello cartesiano.
Sia Gassendi che Hobbes sono estremamente attenti, non meno che Cartesio,
ai grandi progressi delle scienze matematiche e naturali, anche se non riescono
a portare ad alcun ramo di esse contributi paragonabili a quelli del loro grande
antagonista. Collaborano però in misura pari alla sua all'affermarsi della concezione meccanicistica del mondo fisico, pur inquadrandola in filosofie di indirizzo
nettamente diverso. Ciò che essi respingono nel modo più deciso è invece la
presunzione di dover ricorrere ad una metafisica spiritualistico-religiosa come
appunto quella di Cartesio, per dimostrare la validità del sapere scientifico;
secondo Gassendi come secondo Hobbes il problema della validità di tale sapere
è un problema del tutto autonomo: il dogma religioso potrà trovare un accordo
con la scienza, ma non ne costituirà in alcun modo il fondamento.
L'antitesi fra i nostri due autori e Cartesio assume un rilievo particolare nel
campo della gnoseologia, poiché Gassendi e Hobbes, pur rendendosi conto dei
pericoli insiti nello scetticismo, non intendono affatto combatterlo alla stessa
maniera di Cartesio. Innanzi tutto si rifiutano di respingerlo nella sua totalità,
sembrando loro che gli argomenti degli scettici siano sostanzialmente validi nel
limite in cui colpiscono la metafisica (o per l~ meno la metafisica nella sua interpretazione tradizionale): l'unico vero pericolo si avrebbe quando tali argomenti
venissero estesi al sapere scientifico. In secondo luogo si rifiutano di ammettere
che lo scetticismo possa venire sconfitto con l'appello cartesiano all'evidenza,
criterio che appare ai loro occhi di incerta applicabilità e fondamentalmente
dogmatico.
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Gassendi e Hobbes
Ciò che soprattutto respingono è la pretesa cartesiana di « salvare » la validità dell'esperienza attraverso una lunga e contorta catena di argomentazioni,
che parte dal dubbio metodico per fare successivamente appello all'evidenza del
cogito, all'esistenza di dio e alla sua veracità. Pur dissentendo fra loro nella valutazione generale dei processi conoscitivi, Gassendi e Hobbes sono d'accordo nell'attribuire all'esperienza uno stattts completamente diverso da quello attribuitole
da Cartesio. Sono cioè concordi nel vedere in essa un primttm conoscitivo, una
attività originaria, che può fornire un materiale (forse discutibile) alla ragione,
ma che non può in alcun modo venire « fondato » con argomentazioni razionali.
Sarà eventualmente possibile porre in dubbio, con gli scettici, l'effettiva capacità
dell'esperienza di farci raggiungere il reale; ma non sarà mai lecito pretendere,
con Cartesio, di fornire una garanzia assoluta all'esperienza facendo appello
all'evidenza razionale o ad altre argomentazioni aprioristiche.
Ciò non comporta - sia detto ben chiaramente - alcuna svalutazione della
ragione. Al contrario, tanto Gassendi quanto Hobbes (particolarmente questo
ultimo) le attribuiscono una funzione determinante nell'elaborazione della conoscenza scientifica, che in ultima istanza è l 'unica forma di conoscenza che essi
vogliono ad ogni costo salvare dagli attacchi dello scetticismo. Ma ciò che, dal
loro punto di vista, va coraggiosamente rimesso in discussione - al di fuori degli
schemi cartesiani - è il problema dei rapporti fra ragione ed esperienza, è il
problema di delimitare i compiti dell'una rispetto all'altra, di precisare il loro
peso specifico nella costruzione e fondazione del sapere scientifico.
Prima di accingerci, nei prossimi paragrafi, ad esporre le linee generalissime
delle differenti soluzioni avanzate - per i problemi testé riferiti - dai due autori qui presi in esame, occorre dedicare un breve cenno ad una questione pregiudiziale. Noi ci troveremo in questo e nei successivi capitoli di fronte a indiririzzi spesso profondamente divergenti (come appunto quelli di Cartesio e dei
suoi oppositori), tutti seriamente impegnati nei dibattiti intorno al problema
della conoscenza, e in particolare della conoscenza scientifica. Orbene, quale
effettiva incidenza dovremo loro riconoscere sul processo costitutivo della grande
scienza del Seicento? Come è possibile ammettere che tutti abbiano esercitato
un'azione realmente positiva su tale processo, quando sono ben noti i profondi
contrasti filosofici che li contrapponevano l 'uno all'altro? In qual modo hanno
potuto tutti contribuire all'elaborazione di quella che suol chiamarsi la «concezione moderna » dell'uomo e della natura, quando le concezioni da essi concretamente ideate e appassionatamente difese divergevano proprio su temi essenziali?
La cosa può venire spiegata tenendo conto delle reali difficoltà insite nei,
problemi gnoseologici e metafisici emersi nel Seicento, e del « vuoto » che la
cultura dell'epoca trovava innanzi a sé, in seguito alla manifesta incapacità
rivelata dalle filosofie tradizionali di offrire una base adeguata alla nuova scienza.
In altri termini: i problemi generali, suggeriti dalla riflessione critica sul processo
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Gassendi e Hobbes
conoscitivo scientifico, si rivelavano così ardui e complessi, che ogni serio sforzo
di metterne a nudo un qualche aspetto, sia pure limitato, non poteva non riuscire della massima utilità. La chiarificazione di tale processo nella sua globalità
sarà proprio il risultato degli sforzi ora accennati nonché delle polemiche cui essi
diedero luogo; e sarà una chiarificazione preziosissima, indispensabile allo sviluppo delle ricerche generali come di quelle particolari.
Questo riconoscimento non deve d'altronde farci dimenticare che l'indagine
filosofica intorno al significato e ai fondamenti del conoscere fu soltanto uno,
ma non l 'unico fattore del processo costitutivo della scienza. Accanto ad esso
intervennero pure altri fattori, legati allo sviluppo più specificamente tecnico
delle singole discipline (in primo luogo all'arricchirsi degli algoritmi matematici,
in secondo luogo alla costruzione di sempre nuovi strumenti d'osservazione).
Le numerose innovazioni particolari, realizzate nei campi più diversi, costituiscono lo sfondo che va tenuto costantemente presente nello studio di quell'importantissimo fenomeno culturale che fu la scienza del Seicento. Esso ci fornisce
il punto sicuro di riferimento che accomuna tutti i pensatori « moderni » dell'epoca: è il glorioso patrimonio, in via di rapido sviluppo, cui gli uni come gli
altri guardano con orgoglio, nel preciso intento di chiarirlo, approfondirlo, potenziarlo.
Né si limitano a considerarlo come l'oggetto centrale dei propri dibattiti
intorno alla conoscenza; fanno anche qualcosa di più: cercano di ricavarne
preziosi suggerimenti proprio per lo sviluppo di tali dibattiti. Fra questi suggerimenti, il più caratteristico e in certo senso il più singolare sarà senza dubbio
quello costituito dai cosiddetti esperimenti mentali.
Sappiamo dal capitolo xi della sezione rrr, che già Galileo Galilei fece varie
volte ricorso a questo metodo, ideando parecchi esperimenti, non propriamente
eseguibili (a causa· delle difficoltà tecniche ivi implicite) ma senza dubbio utilissimi
alla chiarificazione di ben precisi fenomeni fisici. Ebbene, i filosofi del Seicento
si appropriano con entusiasmo di tale procedura galileiana facendone le più
ardite applicazioni. Nelle loro mani gli esperimenti mentali diventano sottili
accorgimenti della fantasia per evidenziare recondite difficoltà del sapere comune,
smascherando le ipotesi surrettizie su cui questo si regge. Ne troveremo un singolare esempio nella famosa annihilatio mundi di Hobbes, cui faremo cenno nel
paragrafo VI; altri esempi non meno istruttivi ci verranno forniti dagli stessi
empiristi del Seicento e del Settecento. È un metodo che pressoché tutti i pensatori dell'epoca ritengono incontestabilmente scientifico, malgrado il suo manifesto carattere speculativo; e che adoperano disinvoltamente nella dimostrazione
delle tesi più diverse. Il largo uso, che essi ne fanno, è una riprova di quanto
siano a volte artificiose le vie della ragione, di quanto sia tortuoso il progresso
del pensiero.
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Il
· VITA E OPERE DI GASSENDI
Pierre Gassendi nacque a Digne nel I 592, fu canonico in tale città, professore di filosofia ad Aix, e più tardi di astronomia e matematica al Collège de France.
Oltre alla filosofia, all'astronomia e alla matematica, coltivò con passione la fisica e le scienze naturali; studiò, fra l'altro, la composizione microscopica delle
cristallizzazioni saline, a ciò sollecitato dal già citato abate Peiresc (del quale il
nostro autore scriverà la vita a testimonianza dell'amicizia provata per lui).
Contrariamente a quelli che saranno i suoi impegni nell'età matura, Gitssendi aveva avuto, da giovane, una formazione prevalentemente umanistica.
Era stato infatti avviato agli interessi filosofici dalla lettura di Seneca, Plutarco,
Cicerone, Lucrezio, Erasmo, Montaigne, Charron, subendo specialmente l'influenza di quest'ultimo. Fu proprio questa influenza ad orientarlo verso un impianto empiristico-scettico dei problemi, impianto che lo guiderà in tutte le successive indagini, anche quando egli le orienterà verso nuovi temi, di carattere
prevalentemente scientifico.
Dai più vivi filoni del pensiero rinascimentale Gassendi aveva in particolare
ricavato una forte diffidenza nei confronti della metafisica aristotelico-scolastica,
contro la quale scrisse la sua prima grande opera filosofica Exercitationes paradoxicae adversus Aristoteleos (I624), frutto dei corsi di lezioni tenute ad Aix. Ma fu
ben lungi dall'accettare tutta intera l'eredità del rinascimento; ne respinse ad
esempio, con decisa intransigenza, le diffuse correnti magico-occultiste, polemizzando vivacemente contro il medico inglese Robert Fludd (I 574-I637)
che di tali correnti era, all'inizio del Seicento, uno dei più autorevoli prosecutori.
Fu invece sinceramente aperto verso la migliore scienza rinascimentale e grande
ammiratore di Galileo, dal quale ricevette perfino in dono un telescopio; se
non ebbe il coraggio di assumere pubblicamente la difesa del copernicanesimo,
è certo però che non nutrì dubbi circa la sua validità scientifica.
Legato da vivissima amicizia con il padre Mersenne, ebbe da lui le prime
notizie intorno al sistema che Cartesio. veniva gradatamente elaborando; non
rimase però affatto convinto dalla nuova metafisica cartesiana che giudicò non
meno dogmatica di quella aristotelica, cosicché, allorquando Mersenne sottopose al suo giudizio le Meditazioni metaftsiche, egli formulò contro di esse alcune
sottili obiezioni di chiara ispirazione empiristica. Ne nacque, fra il nostro aqtore
e Cartesio, un'aspra e lunga polemica, che ebbe termine solo nel I647 per la paziente opera di riconciliazione interposta da amici comuni.
Fu Gassendi ad assistere, con devoto affetto, il padre Mersenne nella lunga
malattia che lo portò alla morte (I 648). Merita di venire ricordato - a segnalare
la diversità dei due caratteri - che Cartesio, non solo non fece nulla di simile,
ma anzi partì da Parigi per fare ritorno in Olanda proprio cinque giorni prima
della morte di Mersenne. Egli era soprattutto preoccupato di evitare i disordini
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Gassendi e Hobbes
della Fronda, che avrebbero potuto turbare la serenità da lui ritenuta indispensabile alla ricerca scientifica.
Intanto l'originario orientamento empiristico-scettico aveva spinto Gassendi ad uno studio sempre più approfondito del pensiero di Epicuro. Già nel
I626 egli raccoglieva del materiale per scrivere un'apologia di Epicuro, che
nelle Exercitationes era stato ricordato come un seguace di Pirrone. Pare che in
un primo tempo egli si sia interessato soprattutto dell'etica di Epicuro, ma dal
I 6 3o cominciò ad affrontare direttamente anche la sua fisica, facendone propria
la concezione atomistica, in ciò confortato dalle numerose ricerche scientifiche che veniva personalmente svolgendo. Come scrive molto bene Tullio Gregory: « Gassendi, " restaurando " una filosofia obsoleta, vuole mostrare come questa possa accordarsi alle esigenze del nuovo spirito scientifico, offrendo un'ipotesi di lavoro capace di spiegare le recenti esperienze. »
Su Epicuro, Gassendi pubblicò, in vita, due interessanti lavori: Commmtarius de vita et n;oribus et placitis Epicuri (1649), che è un attento studio sulla personalità del filosofo greco, e Animadversiones in decù;;um librum Diogenis Laertii
(I649), ove si hanno numerosi riferimenti a problemi di fisica antichi e moderni.
Il canonico di Digne morì nel I 6 55. Tre anni dopo la sua morte uscì il
Syntagma philosophicum, che vuoi essere un'esposizione sistematica della concezione epicurea, rielaborata in modo da accordarsi con la rivelazione cristiana.
Per quanto si tratti di un'opera assai importante, nella quale Gassendi raccolse
molti risultati conseguiti in lunghi e pazienti studi, i critici più moderni ritengono
che essa non possa costituire l 'unica fonte per la ricostruzione del suo pensiero.
Si limita infatti a fornircene l 'ultima fase, ma non ci informa sul laborioso e
interessante processo che condusse il nostro autore dall'iniziale posizione empiristico-scettica all'appassionata difesa della filosofia etica e naturale di Epicuro.
III
· LA POLEMICA DI GASSENDI CONTRO IL DOGMATISMO
La polemica contro la metafisica, accusata di dogmatismo, trovava numerosi
antecedenti nel pensiero rinascimentale: non solo in Montaigne e in Charron,
ma più ancora nei libertini che - come si è visto nella sezione m - esercitarono, negli anni a cavallo fra il Cinque e il Seicento, una profonda influenza
anche su autori appartenenti ad altri indirizzi, sì da rappresentare un autentico
pericolo per la cultura europea. In tale situazione, l 'unico modo serio per combattere le conclusioni più pericolose dello scetticismo era di riconoscere con piena
sincerità la fondatezza delle sue critiche contro la metafisica, evitando però che queste assumessero un'ampiezza tale: da coinvolgere tutti i campi dell'attività umana.
La forza degli argomenti usati da Gassendi contro tutti gli indirizzi che egli
ritiene dogmatici (da quello aristotelico a quello magico-occultista, allo stesso
indirizzo cartesiano) è veramente notevole. Nei riguardi degli aristotelici riprende,
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Gassendi e Hobbes
ad esempio, le più sottili obiezioni sollevate dai nominalisti (in particolare da
Occam) contro la presunta realtà degli universali e contro la pretesa di dover
fare riferimento ad essi per dare un fondamento sicuro alle nostre conoscenze.
Egli si rende ben conto delle critiche cui travasi esposto per il fatto di ricollegarsi alla tradizione nominalistica, ma le affronta con assoluta calma e serenità: « Aderisci dunque, chiederai, alla dissennata opinione dei nominalisti, i
quali non riconoscono altra universalità se non quella dei concetti e dei nomi?
È proprio così; vi aderisco, ma credo con ciò di aderire ad una opinione del tutto
assennata. » E come i più conseguenti nominalisti Gassendi oppone al scire per causas
aristotelico un sapere interamente collegato all'esperienza, e cioè un sapere che
parta da essa e rimanga in essa: «Se dici poi che l'intelletto può, a partire dalle
cose che cadono entro l'esperienza o appaiono ai sensi, ricavarne altre molto più
interne, risponderò che ragionando non può giungere al di là di cose che risultino ancora esperibili o di cui risulti possibile esibire una qualche apparenza. »
Proprio questo legame ininterrotto con l'esperienza gli fa respingere con
pari energia il canone metodologico propugnato dall'indirizzo magico-occultista,
consistente nel cercare la spiegazione dei fenomeni in essenze occulte e artificialmente inventate, come pure la pretesa di alcuni teologi che volevano scorgere ovunque, nella natura, l 'intervento miracoloso della volontà divina. Ciò
che Gassendi oppone ad essi, e cioè il ricorso sistematico ad una spiegazione meccanica del mondo fisico, non vuole tanto essere una tesi di filosofia generale,
quanto un metodo efficace per eliminare definitivamente dai nostri discorsi l'appello al fantastico e all'irrazionale, e di conseguenza spingerei a ricerche concrete e feconde di risultati.
Anche le critiche a Cartesio provengono dall'impostazione nominalisticoempirista testé accennata. Per non diffonderci troppo a lungo, ci soffermeremo
su due sole di esse: la critica al criterio dell'evidenza e la critica alla dualità
delle sostanze.
Contro l'evidenza cartesiana Gassendi osserva anzitutto che, per poter basare su di essa un sapere assolutamente certo, occorrerebbe possedere un più
profondo criterio onde riconoscere se un'idea è davvero chiara e distinta o se
invece non ci appare soltanto tale, mentre in realtà la sua chiarezza risulta puramente illusoria. Poiché Cartesio non ci fornisce questo criterio, ne possiamo
concludere che, quando egli assume una verità come incontrovertibile perché
chiara e distinta, non fa altro se non compiere un'assunzione meramente dogmatica. In particolare ciò vale per l'idea di dio (inteso come essere perfettissimo,
creatore del mondo), che è senza dubbio vera perché ci viene garantita dalla
rivelazione, ma non è affatto così evidente come Cartesio pretende, tanto che
molti popoli non la posseggono affatto e molti filosofi la concepiscono in maniera
del tutto diversa da quella cristiana.
Contro l'esistenza di due sostanze fra loro totalmente diverse, quali la res
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Gassendi e Hobbes
extensa e la res cogitans, Gassendi obietta che essa si basa su una mera peti/io principii: se invero è già poco giustificata l'affermazione di una sostanza pensante in
base alla semplice constatazione che io penso, ancor meno giustificabile è l'affermazione dell'esistenza dei corpi come autentica sostanza e non solo come fenomeni. Che dire poi della presunzione che si tratti di due sostanze separate,
mentre l'esperienza ci mostra che il nostro pensiero è in continua comunicazione
con il nostro corpo il quale gli trasmette le percezioni ricevute dagli organi
sensoriali? Più evidente parrebbe, al contrario, supporre un'unica sostanza quae
extensa sit et cogitans sit; ma nemmeno questa conclusione è accettata dal nostro
autore, sembrandogli più prudente ammettere con franchezza l'inconoscibilità
di ciò che sottostà all'esperienza, e limitare le nostre affermazioni a quanto ci
viene fornito direttamente dall'esperienza.
È, come ognun vede, una conclusione che può a buon diritto venire considerata scettica; ma si tratta di uno scetticismo che Gassendi intende far valere
nei soli confronti del sapere metafisica, non nei confronti del sapere scientifico,
direttamente emanante- secondo lui -dai dati dell'esperienza. In altre parole,
è uno scetticismo che preserva l'uomo da qualunque sogno metafisica proprio
per poterlo indirizzare a un altro sapere, meno presuntuoso ma più utile. Come
scrive Tullio Gregory in un'opera che è stata qui largamente utilizzata (Scetticismo
ed empirismo, studio su Gassendi, 1961): «Quello che distingue la posizione di
Gassendi da quella di Charron, e lo porta ad approfondire e sviluppare il significato del suo pirronismo, è la pratica quotidiana della ricerca empirica unita ali 'intuizione che essa può adeguatamente soddisfare il " naturale desiderio " di conoscere dell'uomo: l'atteggiamento scettico si fa in Gassendi premessa indispensabile per la nuova scienza e vi trova il suo logico sviluppo. »
IV · L'ATOMISMO DI GASSENDI
Abbiamo ricordato nel paragrafo n che verso il 1630 Gassendi comincio
ad avvicinarsi, in forma sempre più accentuata, alla filosofia di Epicuro, sia
pure correggendone alcune tesi nel senso che fra poco chiariremo. Che ciò
abbia rappresentato una svolta nel suo pensiero è innegabile; ma non fu una
svolta completa e radicale, perché Gassendi non intese accogliere l'atomismo
di Epicuro come una verità assoluta, di carattere metafisica, bensì come una
teoria molto probabile, particolarmente utile a spiegare con rigore scientifico
i fenomeni fisici (rigore che mancava totalmente sia alla vecchia fisica aristotelica
sia all'astrologia e alla magia). Il ragionamento cui egli faceva appello per difendere la concezione atomistica era incentrato sulla difficoltà di concepire i
mutamenti fisici se non si postula l'esistenza in essi di qualcosa che permane:
tali sarebbero appunto gli atomi, che nessuna forza fisica risulterebbe in grado
di suddividere o di alterare.
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Gassendi e Hobbes
Le scoperte operate in quegli anni dalla microscopia gli parvero inoltre
costituire una seria (seppur non diretta) convalida dell'atomismo. Molto interessante, a questo proposito, è la netta distinzione che Gassendi fece tra gli atomi
(minima naturae), i punti matematici (minima mensurae) e i più piccoli oggetti percepibili col microscopio (minima sensus): questi ultimi non si identificherebbero
secondo lui con gli atomi potendone contenere parecchi, e gli atomi a loro volta
non si identificherebbero con i punti matematici poiché il più piccolo atomo può
contenere infiniti punti.
Coerentemente a questa posizione, Gassendi sostenne che la matematica
non va confusa con la fisica, in quanto quest'ultima opera nel regno della materia, mentre quella opera nel regno dell'astrazione. Proprio perché tratta di
astrazioni, la matematica deve procedere con particolare cautela, e - secondo
Gassendi - questa cautela non sarebbe sufficientemente rispettata dai procedimenti infinitesimali: di qui l 'accesa polemica che egli condusse contro i matematici innova tori, dei quali parleremo a lungo nel capitolo vm; di qui l 'accusa
di « vanità » che egli mosse contro tutte le « pretese » dimostrazioni basate sull'equivoco calcolo degli indivisibili.
La posizione di Gassendi nei confronti della matematica (scienza, ricordiamolo, da lui stesso insegnata) è molto significativa, perché pone in luce diffidenze e perplessità che erano comuni - nella sua epoca - a parecchi cultori,
pur modernamente orientati, di discipline fisico-naturali. È un atteggiamento
che va tenuto presente onde valutare le effettive resistenze incontrate dai più
fedeli continuatori della metodologia galileiana. Certo è che Gassendi esprime
ripetutamente nei riguardi della matematica numerosi dubbi, che vanno anche al
di là delle comprensibili riserve or ora accennate contro i procedimenti infinitesimali: sono dubbi che investono la struttura stessa dei ragionamenti matematici,
pericolosamente basati - secondo Gassendi - su ipotesi troppo astratte e generali. Egli giunge a sostenere che esiste una vera e propria affinità fra la scienza
dei matematici e quella degli aristotelici, onde riversa in parte sulla prima le accuse di dogmatismo valide per la seconda.
La concezione atomistica viene infine utilizzata da Gassendi non solo per
spiegare - come poco sopra ricordammo - i mutamenti che si producono nel
mondo dei fenomeni fisici, ma anche per spiegare gli stessi procedimenti conoscitivi. Ogni conoscenza deriverebbe, secondo lui, dai sensi e sarebbe prodotta
da atomi che si staccano dagli oggetti conosciuti per giungere all'organo del
senso. Ma gli atomi non sono soltanto causa delle nostre sensazioni; risultano
invece essi stessi forniti di sensibilità, onde si conclude che l'anima vegetativa e
sensitiva, presente negli esseri viventi, sarebbe per l'appunto costituita da atomi.
L'atomismo di Gassendi ottenne fra i suoi contemporanei un enorme successo, perfino superiore a quello della stessa filosofia cartesiana. Ciò fu dovuto,
da un lato, al sostanziale accordo fra la concezione atomistica e le più ammirate
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Gassendi e Hobbes
conquiste scientifiche dell'epoca (in particolare quella della microscopia), dall'altro alle rettifiche che egli cercò di apportarvi onde renderlo conciliabile con
il dogma cristiano. Queste possono riassumersi in tre punti fondamentali:
I) l'affermazione che gli atomi e il loro movimento vennero creati da dio; 2) l'affermazione che l'atomismo non esclude affatto la presenza nella natura di una
finalità impressavi dal creatore; 3) l'affermazione che negli uomini si avrebbe,
accanto all'anima vegetativa e sensitiva esistente in tutti gli esseri viventi, anche
un'altra anima incorporea e libera (anima rationalis o intellectus). Dio e questa
anima razionale farebbero eccezione al principio - valido, secondo Gassendi,
per il resto del mondo - che tutte le cause sono materiali.
V
VITA E OPERE DI HOBBES
Thomas Hobbes nacque a Malmesbury, in Inghilterra, nel I 588. Viaggiò
a lungo in molti paesi europei, e già abbiamo detto che nel I636 poté visitare
Galileo, malgrado l'isolamento in cui il grande scienziato era costretto a vivere;
trascorse, in particolare, vari anni in Francia, ove godette - egli pure - la preziosa amicizia del padre Mersenne.
Hobbes partecipò attivamente alle lotte politiche che travagliavano la società
inglese del suo tempo. Tenace sostenitore del re, dovette fuggire dall'Inghilterra nel I64o, rifugiandosi in Francia; ritornerà in patria nel I65 1. Malgrado
alcuni aspri urti sorti fra lui e i realisti di stretta osservanza, che lo accusavano
di aver difeso l'assolutismo in forma tale da poter venire interpretato a favore
di Cromwell anziché a favore del solo potere regio, fu, dopo la restaurazione
della monarchia, vivamente protetto dal re Carlo n, di cui vari anni prima era
stato insegnante di matematica. Morì ultranovantenne nel I 679.
Va subito fatto presente che l'accostamento, operato nel presente capitolo,
delle due figure di Hobbes e di Gassendi non intende affatto significare che i due
appartengano in qualche modo a un medesimo indirizzo filosofico (vedremo
anzi, fin dalle prossime righe, la profonda distanza che li separa nella valutazione
della matematica); esso ci è parso nondimeno opportuno per porre in luce
quanto fossero estesi gli ambienti in cui la metafisica cartesiana incontrava le
più tenaci resistenze, e quanto fossero articolate e varie le critiche sollevate contro la metodologia scientifico-filosofica posta alla base di tale metafisica.
Hobbes iniziò lo studio di Euclide all'età di quarant'anni circa, cioè verso
il I63o, e ne rimase affascinato a tal punto, che da quel momento in poi considerò
il tipo di argomentazione matematica come l'esempio più perfetto di razionalità,
da prendersi a modello di ogni discorso rigorosamente scientifico. Questo atteggiamento nei confronti della matematica lo avvicina, per un certo aspetto,
al suo avversario Cartesio, apponendolo a Bacone da cui peraltro era stato profondamente influenzato.
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Gassendi e Hobbes
Strettamente connessa all'atteggiamento testé accennato è l'enorme importanza che Hobbes attribuisce alla meccanica, in cui giunge a scorgere la base
autentica di tutta la fisica. Di qui la sua profonda ammirazione per Galileo,
che aveva saputo imprimere una forma rigorosamente matematica alla teoria del
moto. Di qui l'ambizioso programma di sottoporre ad analoga trattazione anche
le discipline del mondo umano.
Questo programma costituisce il presupposto della grande opera tripartita,
concepita da Hobbes nel I637. Essa avrebbe dovuto esporre le leggi della materia, dell'uomo e dello stato con metodo quanto più possibile deduttivo, sulla
base appunto delle leggi generali del moto. L'ordine logico delle tre parti subì
tuttavia un notevole mutamento in fase di esecuzione. La prima ad uscire fu
infatti la terza parte, De cive (I 642); in seguito venne pubblicata la prima parte,
De corpore (I65 5), ove è contenuta- nella sezione iniziale - un'ampia esposizione delle concezioni logiche di Hobbes; infine, nel I 6 58, uscirà la seconda,
De homine. Nel frattempo aveva pubblicato un'altra opera di argomento politico, il Leviathan (I 6 5I), che subito gli procurò la massima celebrità. Questo titolo, che richiama il nome di un mostro gigantesco ricordato nel libro di Giobbe,
doveva simbolizzare - nella concezione dell'autore - il potere assoluto dello
stato. Anche l'esposizione del Leviathan è svolta con metodo rigorosamente
naturalistico.
In tempi recenti si sono scoperti e studiati interessanti inediti di Hobbes;
fra essi ci limitiamo a ricordare varie redazioni del De corpore, la prima delle quali
risale probabilmente al I637. Va infine ricordato che già nel I64o egli aveva
elaborato un'opera generale, in cui erano delineate, a grandi tratti, le sue concezioni dell'uomo e del cittadino. Essa circolò manoscritta fra i contemporanei
e venne poi pubblicata nel I 888 col titolo originario di Elements of law (Elementi di diritto). Lo studio di questi scritti si è rivelato di grande utilità per la
ricostruzione della genesi della filosofia naturale del nostro autore e per la determinazione delle varie fasi da essa attraversate.
Dato tuttavia il carattere della presente opera, non riteniamo necessario
analizzare qui le trasformazioni subite dal pensiero di Hobbes e discuterne l'effettiva portata. Ci limiteremo pertanto ad esporre in forma molto schematica
le linee generalissime della sua filosofia, cercando soprattutto di porre in luce il
significato che essa ebbe nella storia del pensiero filosofico-scientifico del Seicento.
D'altra parte ci riserviamo di ritornare su Hobbes nei capitoli v e IX onde
prenderne in rapido esame il pensiero politico e, rispettivamente, logico. La
decisione di spezzare in tre parti separate la trattazione della filosofia hobbesiana
(decisione presa in base ai motivi chiariti alla fine del capitolo 1) può forse comportare qualche difficoltà al lettore, in quanto può influire negativamente
sulla chiarezza della nostra esposizione. Riteniamo tuttavia che queste eventuali
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Gassendi e Hobbes
difficoltà vengano in effetti compensate da un duplice punto di vista: da una parte
infatti il lettore viene agevolato dall'accostamento e raffronto diretto fra le più
autorevoli critiche sollevate contro Cartesio in sede di filosofia generale; dall'altra
gli viene offerta la possibilità - attraverso visioni d 'assieme, sia pure schematiche ed essenziali - di meglio comprendere le analogie e le differenze esistenti
fra i più caratteristici indirizzi del pensiero politico e logico del Seicento.
Come già si disse nel capitolo I, l'avere scelto di trattare in sedi separate
i vari aspetti del pensiero hobbesiano non deve comunque farci perdere di
vista la sostanziale unità della filosofia del nostro autore, per cui concezione
della logica, concezione del mondo naturale e concezione del mondo politico
si connettono e si integrano a vicenda. A conferma di tale sostanziale unità
basti richiamare fin d'ora l'attenzione sull'intransigente convenzionalismo che
sta alla base dell'interpretazione hobbesiana sia della logica, sia delle leggi scientifiche sia di quelle etico-politiche.
VI
· LA GNOSEOLOGIA HOBBESIANA
Uno degli argomenti più singolari della gnoseologia di Hobbes, argomento
che compare fin dalle prime redazioni del De corpore, è l'ipotesi dell'annihilatio
mundi: se d'un tratto l'intero mondo reale venisse annientato in modo però
che si salvasse un uomo, questi, operando sulle sole immagini conservategli
dalla memoria, ed elaborandole concettualmente come si sogliano elaborare le
immagini forniteci dal mondo presente, sarebbe in grado di ragionare nell'identico modo con cui noi ragioniamo nella vita quotidiana. La concezione generale
del conoscere, risultante da questa argomentazione, è ovviamente fenomenistica;
da essa si deduce che i nostri ragionamenti, ivi inclusi quelli scientifici, essendo
in ultima istanza elaborazioni di immagini (nel preciso senso che fra poco verrà
spiegato), non hanno nulla a che vedere con la realtà esterna, ma sono unicamente
collegati alle idee.
Una volta preso atto che la nostra mente ha a che fare soltanto con le idee,
Hobbes può sostenere che l'elemento basilare di ogni sapere è costituito dai
nomi, in quanto questi risultano direttamente collegati alle idee. Ne segue che
la verità riguarda proprio i nomi, non la realtà.
Tenuto poi conto che le idee possono combinarsi fra loro, onde più idee
semplici possono formarne una composta, se ne ricava che anche i nomi potranno sommarsi o sottrarsi gli uni con gli altri, sempre che ciò risulti attuabile
fra le idee corrispondenti. Somma e sottrazione sono pertanto le due operazioni
fondamentali per un lato della mente e per l'altro del ragionamento.
Quanto alla proposizione, essa non sarà altro che l 'unione di due nomi:
« La proposizione poi è un'espressione costituita di due nomi, mediante la quale
chi parla notifica che il primo e l 'ultimo nome sono nomi della medesima cosa. »
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Risulterà quindi vera, se il nome che vien dopo e quello che vien prima sono effettivamente nomi dello stesso oggetto (oggetto inteso, come è ovvio, quale insieme
di idee e non già quale realtà esterna); in caso contrario, risulterà falsa. False saranno per esempio le proposizioni che intendono copulare nomi di corpi con
nomi di accidenti, o con nomi di fantasmi o con nomi di nomi.
Il carattere nominalistico di questa logica è ormai evidente, come è evidente
la sua stretta connessione con l'anzidetto fenomenismo gnoseologico. Si può
anche parlare tuttavia di concettualismo, in quanto i nomi valgono, per Hobbes,
non in se stessi ma per il loro riferimento alle idee cui sono direttamente collegati.
Se per Hobbes ogni proposizione universalmente vera non può essere altro
che una definizione, o parte di una definizione, è chiaro che tale carattere dovrà
pure essere presente, secondo lui, nei primi principi di qualunque sapere autenticamente scientifico: « Sunt propositiones primae nihil aliud praeter definitiones
vel definitionis partes. » Partendo dai principi si dovranno poi dedurre con estremo rigore tutte le conseguenze ricavabili dalle combinazioni dei concetti ivi definiti; così la scienza verrà a trovare il proprio unico fondamento nelle definizioni iniziali, senza doversi preoccupare di apporti diretti o indiretti che le possano provenire dall'esperienza. Il modello di ogni sapere scientifico va cercato
nella geometria, e anche la fisica - se ha da essere autentica scienza - deve
procedere con metodo geometrico.
La convinzione di poter raggiungere una scienza assolutamente rigorosa
(nel senso testé accennato), non solo per ciò che riguarda il mondo fisico ma
anche per ciò che riguarda il mondo umano, è la base su cui si regge il grandioso
programma perseguito dal nostro autore con la stesura delle tre opere fondamentali - De corpore, De homine, De cive - cui abbiamo fatto cenno nel paragrafo
precedente.
VII
· LA «FILOSOFIA PRIMA»
Se la logica ci fornisce il metodo generale con cui ha da essere costituita
ogni autentica scienza, la « filosofia prima » ha invece il compito di formare le
definizioni dei concetti più semplici che stanno alla base della conoscenza dell 'intera realtà. Questi concetti sono lo spazio, il tempo e il corpo.
Mentre lo spazio è la considerazione delle cose nel loro generico essere fuori
di noi, e il tempo nel loro muoversi secondo il prima e il poi, il concetto di corpo
- che costituisce il fondamento dell'intera filosofia hobbesiana - denota secondo il nostro autore tutto ciò che, non dipendendo dal nostro pensiero,
occupa una porzione dello spazio. Proprio in quanto non dipende dal pensiero,
il corpo viene nettamente distinto quale sostanza dai suoi accidenti: l'accidente
non è altro, per Hobbes, che il modo con cui si concepisce il corpo; esso potrebbe mancare senza che il corpo cessi perciò di esistere.
Si tratta, come ognun vede, di definizioni cariche di profondo significato.
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Da esse si può fra l'altro ricavare: 1) che la nozione di sostanza incorporea è
contraddittoria; 2) che le proprietà essenziali dei corpi sono l'estensione e il
movimento 1 (onde, se vogliamo dare anche a queste due proprietà il nome di
accidenti, dobbiamo però aggiungere che si tratta di accidenti permanenti, cioè
accidenti che non possono non essere presenti nella sostanza).
L'importanza filosofica di queste tesi è così manifesta, che non occorre fermarci ad illustrarla. Possiamo comunque sottolineare che esse costituivano i
pilastri di una complessa concezione materialistico-meccanicista dell'universo,
in cui Hobbes riteneva di poter coerentemente inquadrare le più avanzate scoperte scientifiche della sua epoca.
Sulla base della « filosofia prima » testé accennata egli delinea infatti una
« geometria » intesa come dinamica cioè come studio delle leggi matematiche
del moto, e una « fisica », intesa come studio degli effetti del moto cioè come
spiegazione di tutti i fenomeni - per esempio della luce - a partire appunto
dalle leggi della dinamica.
Non potendoci soffermare, per ovvi limiti di spazio, sulle particolari spiegazioni che il nostro autore delinea dei singoli fenomeni, basti ricordare che egli
riconduce al movimento anche il fenomeno della vita nonché quello stesso della
conoscenza. Afferma pertanto che le sensazioni non sarebbero altro che movimenti verificantisi entro il corpo che percepisce. Così ad esempio - dopo aver
spiegato, in sede fisica, che la luce è solo un movimento prodottosi nel corpo
luminoso e di lì trasmesso fino all'occhio - Hobbes sostiene che la sensazione
luminosa non sarebbe altro che la continuazione di tale movimento attraverso
l'organo della vista fino al cuore (« usque ad cor sive sensionis organum ultimum »). Ne segue, fra l'altro, che le famose «qualità secondarie» costituirebbero soltanto gli effetti di alcuni particolari tipi di movimento, onde anche le
leggi che regolano i fenomeni osservati nell'esperienza andrebbero spiegate in
base alle leggi generali del moto.
Il nostro autore giunge così a sostenere che la stessa mente non è altro se
non movimento verificantesi in tal une parti del corpo organico: « Mens nihil
aliud erit praeterquam motus in partibus quibusdam corporis organici. >>
Se, come già risulta chiaro dai pochi brani testé citati, le singole spiegazioni hobbesiane ci appaiono il più delle volte fantastiche, l'indirizzo di indagine da esse delineato risulta tuttavia della massima importanza: è un indirizzo
che non si inquadra più nei vecchi schemi aristotelici né in quelli magico-occultistici, ma esige un nuovo impianto della scienza.
Né meno importante è l'impostazione data da Hobbes allo studio dell'uomo,
interamente basato sul tentativo di ricondurre a tipi speciali di moto i sentimenti
1 Per estensione di un corpo si deve intendere, secondo Hobbes, la porzione di spazio da esso
occupata; per movimento l'abbandono, da parte
di tale corpo, di un determinato luogo e l'acquisizione senza discontinuità di un altro (« loci
unius derelictio et alterius acquisitio continua »).
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più profondi dell'animo, nonché gli istinti e la stessa volontà. Particolare rilievo
viene attribuito, in questo quadro, all'istinto della conservazione, che starebbe
alla base dell'etica e - come vedremo - della politica. Il carattere naturalistico
e razionalistico di tutta la trattazione è una conquista altamente significativa;
è un carattere che ricomparirà dopo Hobbes - con varie sfumature - in parecchi indirizzi di pensiero, e che segna un'autentica svolta nella storia delle
discipline umane.
Ma come si accorda questa concezione materialistico-meccan!cistica del
mondo e dell'uomo con l'intrinseca ipoteticità di ogni sapere, della quale
abbiamo parlato nel paragrafo VI?
La risposta a questo grave quesito è uno dei problemi più difficili che si
presenti agli studiosi di Hobbes. Entro le sue opere vi sono infatti molti punti
che ci spingono a vedere nella concezione testé delineata una semplice se pur
grandiosa costruzione ipotetica atta a dimostrarci come tutto il mondo possa
venire razionalmente spiegato con un rigoroso sistema materialistico, senza però
alcun impegno diretto circa la verità di tale sistema. Esistono tuttavia anche altre
pagine le quali parrebbero invece suggerirei un'interpretazione alquanto diversa:
alcune di esse, ad esempio, sembrano attribuire una vera e propria autoevidenza al principio proclamante l'universale causalità del moto, onde non
risulterebbe più lecito considerarlo come puramente convenzionale (e perciò
ipotetico).
Se queste ed altre incertezze di Hobbes poterono far sorgere alcune perplessità tra i suoi contemporanei, onde la filosofia naturale da lui elaborata non
esercitò immediatamente un 'influenza pari alla sua filosofia della politica, ciò
non scalfisce però l'importanza del sistema che troviamo esposto nel De corpore
e nelle altre sue opere. Esso costituisce comunque uno dei più notevoli capolavori della filosofia del Seicento, e può venir considerato, come scrisse Hoffd.ing,
«il sistema materialistico più profondo dell'età moderna».
VIII
· LE DIVERGENZE TRA HOBBES E CARTESIO
Uno dei meriti principali della filosofia della natura di Hobbes fu di fornire
una seria alternativa al sistema cartesiano. Va notato che i due sistemi hanno senza
dubbio parecchi caratteri comuni: entrambi si oppongono nettamente alla vecchia fisica aristotelica e a quella magico-occultistica, entrambi attribuiscono il
massimo valore alla razionalità matematica, e, soprattutto, entrambi vogliono
fornire una seria base filosofica alla scienza più avanzata dell'epoca, orientata
in senso meccanicistico. Eppure esiste fra essi un profondo incolmabile divario,
che li contrappone in certo modo uno all'altro.
Questa contrapposizione si estende dalla gnoseologia alla concezione della
realtà.
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Gassendi e Hobbes
Per quanto riguarda il problema della conoscenza, va dato atto che tanto
Cartesio quanto Hobbes prendono le mosse da un dubbio iniziale, molto serio,
sulla effettiva corrispondenza delle nostre idee con la realtà, dubbio che secondo
l'uno come secondo l'altro può venire risolto solo con l'appello alla ragione;
subito dopo questo primo passo comune, le loro posizioni cominciano però a
divergere. Mentre per Cartesio esistono idee (come ad esempio quella dell'io)
che non derivano dai sensi, per Hobbes invece tutte le idee derivano dall'intuizione sensibile. Inoltre, mentre per Cartesio appellarsi alla ragione significa
imboccare una via la quale non ha nulla a che fare con la sensibilità, per Hobbes
invece significa elaborare il mondo dei sensi, affinandolo e precisandolo.
Ma è sul modo stesso di concepire la ragione e la sua funzionalità che emergono le differenze più profonde. Per Cartesio infatti la ragione trova il proprio
fondamento e la propria garanzia nell'evidenza di alcune idee chiare e distinte;
per Hobbes al contrario l'appello all'evidenza fuoriesce dai compiti veri e propri
della ragione. Questi compiti consistono essenzialmente nella rigorosa precisazione dei principi dei nostri ragionamenti, cioè nell'enunciazione esatta delle
definizioni da cui essi partono; e poiché ogni definizione è in ultima istanza
frutto di una convenzione, ne segue che il procedere della ragione è ineliminabilmente convenzionale. La garanzia assoluta, che Cartesio ritiene di avere scoperto,
risulta per il filosofo inglese puramente illusoria.
Se è vero, come abbiamo ricordato alla fine del paragrafo precedente, che
anche Hobbes sembra talvolta ammettere una sorta di autoevidenza dei principi
della fisica (mai, comunque, di quelli della metafisica), vero è però che queste
ammissioni non risultano facilmente conciliabili con il resto del suo sistema
e in ogni caso non ne costituiscono gli elementi più caratteristici. In altre parole:
non sono esse ciò che imprime al sistema di Hobbes il suo incontestabile vigore.
La vera scaturigine di questo vigore (nonché del fascino che il sistema hobbesiano
esercita ancora oggi su di noi) è un'altra: è il suo intransigente convenzionalismo,
è la sua fredda coerenza, è il rigore con cui tale convenzionalismo viene sviluppato fino alle sue estreme conseguenze.
Se oggi noi ci sentiamo spesso più vicini a Hobbes che a Cartesio, è perché
il nominalismo hobbesiano conserva a distanza di secoli una sua effettiva validità
(sicché occorrono le più serie argomentazioni per riuscire a superarlo), mentre
l 'intuizionismo cartesiano ci appare ormai lontanissimo dalle esigenze della cultura moderna, e comunque inconciliabile con i caratteri che la scienza è venuta
assumendo nel corso dei secoli.
Ancora più manifesto è il divario tra i due pensatori a proposito della concezione della realtà. Esso costituisce il punto nodale delle obiezioni sollevate
da Hobbes contro le Meditazioni meta.fisiche cartesiane. Ciò che l'inglese contesta
a Cartesio è in primo luogo l'esistenza di una sostanza spirituale, è la liceità
di passare dal cogito al sum res cogitans. Questo salto dal cogitare inteso come fatto
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Gassendi e Hobbes
d'esperienza, all'essere come sostanza che trascende l'esperienza è - per Bobbes- un vero e proprio errore di logica. Non è il caso di sottolineare l'analogia
di questa obiezione con le critiche di Gassendi a Cartesio, riferite nel paragrafo 111.
Hobbes osserva inoltre che, se ci limitiamo a quanto ci è autenticamente
dato dall'esperienza, non possiamo far a meno di riconoscere che il cogitare
risulta sempre collegato a un soggetto corporeo; perciò l'unica esistenza di cui
possiamo correttamente parlare è quella dei corpi. Solo dei corpi noi possediamo
davvero un'idea, non dell'anima: questa è unicamente frutto di un'argomentazione della ragione: «Quando penso un uomo, ho in mente un'idea o un'immagine costituita di figura e di colore, di cui posso dubitare se sia o no la :raffigurazione di un uomo ... L'idea di me stesso, se si considera il corpo, mi sorge dalla
visione: se si considera l'anima, non vi è assolutamente alcuna idea dell'anima,
ma con la :ragione :ricaviamo che esiste qualcosa di interno al corpo umano,
qualcosa che gli imprime un moto animale, e mediante cui egli sente e si muove;
e questo, checché esso sia senza idea, lo chiamiamo anima. »
Coerentemente alla posizione ora delineata, Hobbes respinge infine con la
massima energia l'argomento antologico, e cioè la pretesa cartesiana di passare
dall'essenza di dio alla sua esistenza. In quanto la si distingue da quest'ultima,
l'essenza non risulta altro che la connessione di nomi mediante la copula è,
perciò si :riduce ad una pura definizione verbale(« consta che l'essenza, in quanto
viene distinta dall'esistenza, non è altro che connessione di nomi mediante la copula è: e pertanto l'essenza, a prescindere dall'esistenza, è una nostra invenzione»).
È dunque vuoto di senso pretendere di dedurre da questo mero «nostro commento» qualcosa che dovrebbe possedere una :realtà indipendente da noi, cioè
l'esistenza di dio.
Quanto ora detto non significa che Hobbes negasse l'esistenza di dio; ciò
che egli negava era la pretesa di darne, con la prova antologica, una dimostrazione razionale a priori e di invocare poi - come voleva Cartesio - la bontà
di dio (l'impossibilità che egli intenda ingannarci) a garanzia dell'esistenza del
mondo. Meno netta è la posizione del nostro autore riguardo all'altra prova
«classica» dell'esistenza di dio, cioè all'argomento della causa prima; infatti nel
De corpore egli sembra contrario ad ammettere la necessità di chiudere la serie delle
cause con una causa incausata, mentre nel De cive sembra invece propenso a
riconoscere la possibilità di risalire dal mondo a dio. Una cosa è comunque certa,
che Hobbes non ammette mai la possibilità di conoscere razionalmente gli attributi divini. Quando noi affermiamo che dio è infinito, onnipotente, buono, ecc.,
queste nostre affermazioni hanno un solo significato: di esprimere la nostra ammirazione per lui ed escludere la possibilità di potergli applicare gli attributi
che valgono per gli esseri finiti. Ciò vale in particolare per l'attributo incorporeo,
che va inteso soltanto come un termine onorifico; infatti, se tutto ciò che esiste
è corporeo, anche dio dovrà essere tale.
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Gassendi e Hobbes
L'impossibilità di conoscere razionalmente gli attributi divini comporta la
necessità di escludere la religione dal campo delle indagini filosofiche; ogni
confusione fra regole della religione, che prescrivono il culto dovuto a dio, e
regole scientifiche che concernono il retto uso della ragione, è dannosa· ad entrambe. La fede religiosa non fa parte della scienza, ma della legge civile.
Nelle pagine dedicate alla filosofia della politica di Hobbes (capitolo v)
aggiungeremo qualche precisazione sul posto che egli assegna alla religione, o
meglio alla chiesa, entro la compagine statale.
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CAPITOLO QUARTO
Malebranche e Spinoza
I ·CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Uno dei più gravi e più importanti gruppi di problemi che il cartesianesimo,
inteso proprio nel suo aspetto filosofico, trovò innanzi a sé e su cui dovette
accentrare gran parte delle discussioni, concerne la determinazione della nozione
di sostanza e la conseguente possibilità di concepire due sostanze separate una
dall'altra (quella estesa e quella pensante). Se le due sostanze sono davvero, come
sosteneva Cartesio, assolutamente estranee l 'una all'altra, come si spiega che nei
processi conoscitivi la sostanza pensante riesce a cogliere alcuni messaggi provenienti dalla sostanza estesa e, viceversa, nei processi volitivi riesce ad agire su
di essa? Ed inoltre: quale rapporto avranno la sostanza estesa e quella pensante
con la sostanza divina, che sta alla base dell'una come dell'altra?
Le più significative risposte a questi interrogativi sono senza dubbio costituite dall'occasionalismo, dal panteismo e dal monadismo, collegati rispettivamente ai nomi di Geulincx e di Malebranche il primo, di Spinoza e di Leibniz gli
altri due. Rinviando al capitolo XIV l'esposizione del pensiero di Leibniz - che
richiede, per essere compreso in tutta la sua vastità, di venire riferito all'intero
sviluppo della filosofia e della scienza del Seicento - intendiamo qui soffermarci
sulle prime due risposte, segnalando subito, però, che nell'ambito dell'occasionalismo Malebranche occupa una posizione del tutto particolare per i legami singolarmente stretti che egli ha con la tradizione filosofica platonico-agostiniana.
Anche il pensiero di Spinoza - come vedremo negli ultimi paragrafi è ben lungi dal poter venire compreso alla sola luce dei suoi rapporti con quello
cartesiano; ci sembra tuttavia indubitabile che l'esame di questi rapporti possa
costituire un ottimo avvio per l'approfondimento della sua amplissima e originale
concezione. Quanto al suo pensiero politico, è parso utile - come già si fece
per Hobbes - rinviarne l'esposizione al capitolo v; è una decisione dettata dal
desiderio di presentare al lettore una visione unitaria dello sviluppo della filosofia
seicentesca della politica, che ne possa mettere in luce le linee direttrici fondamentali.
È bene avvertire fin d'ora che nessuna delle teorie filosofiche, prese in esame
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Malebranche e Spinoza
nel presente capitolo, ebbe un'incidenza immediata sullo sviluppo della scienza;
nel loro complesso, però, esse concorsero in misura notevole ad approfondire il
significato del razionalismo seicentesco ed a chiarirne i presupposti metafisici,
onde finirono per esercitare, sia pure indirettamente, una non trascurabile influenza sul costituirsi della concezione scientifica moderna, di cui tale razionalismo fu un fattore essenziale.
II
· GEULINCX
Arnold Geulincx nacque ad Anversa nel r6z4 da genitori cattolici. Dopo
aver studiato a Lovanio, che era già da tempo un autorevole centro di cultura
cattolica, insegnò alcuni anni in tale università, fortemente osteggiato però dalle
autorità accademiche a causa della sua adesione al cartesianesimo. Si trasferì
quindi a Leida convertendosi al protestantesimo. Morì di peste nel r669. Le sue
opere principali sono: una Logica (r66z), ove si rivela ancora sostanzialmente
cartesiano, un'Ethica (r665) che già delinea la dottrina occasionalistica, e infine
una Physica vera e una Metap~ysica vera pubblicate postume.
Elaborando e approfondendo il pensiero cartesiano Geulincx si convinse
che occorreva introdurvi una radicale modificazione per ciò che concerne il
rapporto fra la sostanza pensante e quella estesa. Come già sappiamo dal capitolo n, lo stesso Cartesio era convinto che noi non possediamo un'idea chiara
e distinta dell 'interazione fra esse: la loro reciproca alterità parrebbe anzi escludere una qualsiasi influenza diretta dell'una sull'altra. Né, certamente, l'avere
localizzato nella ghiandola pineale il contatto dell'anima col corpo poteva bastare
a farne qualcosa di perfettamente comprensibile.
Orbene, si chiede Geulincx, è possibile ammettere che l'anima agisca sul
corpo quando essa non sa come dovrebbe avvenire tale azione? Questa ammissione verrebbe ad urtarsi in modo evidente col seguente principio (che è in certo
senso un diretto ampliamento del cogito cartesiano) : « Impossibile est ut is faciat
qui nescit quomodo fiat. » Bisogna dunque concluderne che la presunta azione
dell'anima sul corpo è una semplice illusione. Come scrive molto bene Augusto
Del Noce, « la critica cartesiana della facoltà incosciente di produrre le idee
viene prolungata nella negazione del potere dell'anima di causare movimenti
fisici ».
Come spiegare, allora, che gli atti di una sostanza si svolgono in perfetto
accordo con quelli dell'altra? Come spiegare, per esempio, che se voglio muovere
il braccio, il braccio si muove effettivamente? Questo accordo, prettamente estrinseco, non può venire spiegato, secondo il nostro autore, che mediante l'intervento della volontà di dio. Dio, egli spiega, è come un orologiaio che abbia
costruito due orologi, diversi e indipendenti fra loro ma perfettamente sincronizzati: un osservatore esterno potrà immaginare che i movimenti dell'uno siano
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Malebranche e Spinoza
causa o effetto dei movimenti dell'altro; la realtà però è diversa: il sincronismo
tra i due dipende esclusivamente dal modo in cui li ha costruiti l'orologiaio.
La critica di Geulincx alla concezione cartesiana non si ferma qui. Eliminata
l'azione dell'anima sul corpo e viceversa, egli è condotto - dalla coerenza interna delle sue argomentazioni- ad escludere, per analoghi motivi, ogni azione
reciproca di un corpo sull'altro. In realtà, egli osserva, il concetto di un corpo
non implica in alcun modo la possibilità di una sua azione su qualcosa che risulti
ad esso esterna: dunque questa azione è inesistente. Non è un corpo che agisca
sull'altro, ma è soltanto dio che agisce su entrambi. Dio, dunque, è l'unica causa
di tutto. Le cause naturali (compresa l'azione umana) sono soltanto occasioni al
manifestarsi della causalità divina.
La conclusione potrà apparire assurda; proprio questa assurdità, però, ha
esercitato un compito assai importante nella storia della filosofia. Essa, infatti,
ha posto in luce l 'insostenibilità della concezione cartesiana della sostanza, e in
particolare l'insostenibilità dell'identificazione dei corpi reali con i corpi geometrici provvisti soltanto di estensione (con l'esclusione di qualunque forza che possa
spiegare una qualche azione reciproca).
È facile comprendere come, dalla conclusione poco sopra riferita (che dio
è l'unica causa di tutto), Geulincx ricavi un'etica interamente fondata su dio,
avente perciò un carattere prevalentemente mistico e ascetico. È un'etica che assegna ali 'uomo, quale suo compito fondamentale, quello di obbedire alla legge
che dio ha posto in noi, rifiutando invece ogni valore morale alla ricerca della
felicità (punto, questo, in evidente antitesi con l'etica aristotelica). Entro tale
quadro concettuale, la virtù principale diventa l'umiltà, in aperto contrasto con
la concezione rinascimentale dell'uomo.
III
· VITA E PERSONALITÀ DI MALEBRANCHE
Nicolas Malebranche nacque a Parigi nel I638 da famiglia borghese. Nel
66o entrò nella congregazione degli oratoriani, sostenitrice di una concezione
filosofico-religiosa di impronta agostiniana (su tale congregazione verrà aggiunta
qualche notizia nel capitolo VI); anch'egli resterà per tutta la vita fortemente
influenzato dal platonismo di Agostino.
Venutigli fra le mani alcuni scritti di Cartesio, il nostro autore rimase subito
avvinto dalla limpidezza delle argomentazioni ivi svolte, e non tardò a persuadersi
che la scienza e la filosofia cartesiana dovevano offrire la via più sicura per condurre l'uomo a quell'« unico necessario » che è costituito dalle verità della fede.
Ne accolse pertanto con entusiasmo la regola metodologica fondamentale ( « non
si deve mai dare, » ripete Malebranche sulla scia di Cartesio, «consenso completo
se non alle proposizioni che appaiono così evidentemente vere, da non poter
loro rifiutare tale assenso senza provare una pena interiore e i segreti rimproI
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Malebranche e Spinoza
veri della ragione»), ma non ritenne che ciò dovesse comportare di accettarne
anche le tesi filosofiche generali. Al contrario, si convinse che queste tesi non
potevano reggere ad un approfondito esame, condotto appunto secondo la regola metodologica testé riferita, e finì quindi per proporre una radicale modifica
di esse, analoga a quella già suggerita dalle opere di Geulincx (di cui peraltro pare
che non avesse conoscenza diretta).
Nel 1674 pubblicò a Parigi i primi tre libri della sua opera più famosa, La
recherche de la vérité (La ricerca della verità), che nel 167 5 uscirà presso lo stesso stampatore in edizione completa (sei libri).l Questa non tardò a procurargli grande
·notorietà, sicché Male branche, pur restando quasi sempre chiuso nella sua cella,
poté ben presto entrare in contatto con i maggiori scienziati e filosofi dell'epoca,
in particolare con Leibniz.
Va osservato che Malebranche, malgrado la conclusione mistica della sua
filosofia e malgrado la serrata critica condotta contro l'efficacia delle cause naturali (argomenti sui quali torneremo ampiamente nel prossimo paragrafo), si
interessa vivamente di tutti i grandi problemi scientifici dibattuti dai contemporanei e dà ripetute prove di saperli padroneggiare con indiscutibile competenza. 2
La sua cultura si estende dalla matematica alla fisica, alla biologia. Alla prima fa
riferimento ogni volta che deve esibire esempi di verità universali e necessarie;
gli esempi citati sono esatti e dimostrano che egli possiede un'ottima conoscenza
di parecchi problemi classici e moderni. In fisica si interessa soprattutto di meccanica e di ottica, ove scende spesso ad analisi circostanziate e rigorose di parecchi fenomeni particolari; difende, con qualche modifica, i grandi principi
della fisica cartesiana (suddivisibilità della materia all'infinito, esistenza di una
materia sottilissima - l'etere - che riempie tutto lo spazio, teoria dei vortici, ecc.) e ammette un unico principio organizzatore dell'universo: il movimento. In biologia si entusiasma per le grandi scoperte operate dall'osservazione
microscopica e partecipa con passione ai dibattiti sulla generazione.
A proposito di questi ultimi è degno di nota che Malebranche si schieri
decisamente a favore della dottrina preformista (su cui si ritornerà nel capitolo
xr) secondo la quale ogni essere vivente- animale o pianta- sarebbe stato contenuto, in dimensioni piccolissime, entro gli embrioni o i germi dei primi organismi creati da dio: «Questo tuttavia non significa,» egli precisa, «che l'embrione dell'animale, o il germe della pianta, abbia fra tutte le sue parti la stessa
esatta proporzione di grandezza, solidità, figura degli animali e delle piante,
ma vuol dire che tutte le parti essenziali dell'organismo degli animali e delle
piante sono così sapientemente disposte nei loro germi, che devono assumere,
col tempo e in conseguenza delle leggi generali del moto, la figura e la forma
_ ~ Nelle edizioni successive vi aggiungerà
van Eclaircissements (Chiarimenti).
z Va ricordato che Malebranche scrive di es-
sere debitore « a Descartes più che a tutti gli altri
assieme di quel poco di apertura che ho per le
scienze».
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Malebranche e Spinoza
che vi osserviamo in seguito. » Malebranche giunge a tentar di calcolare le dimensioni che doveva possedere, nella prima ape creata da dio, l'ape vivente
mentre egli scrive, e - di fronte all'enorme piccolezza di essa- spiega che la
cosa non deve stupirei se teniamo presente l'infinita divisibilità della materia:
« Capisco senza difficoltà, benché la mia immaginazione vi si rifiuti, che potendo si,
quello che noi chiamiamo atomo, dividere all'infinito, ogni parte dell'estensione
è in un senso infinitamente grande, e Dio vi può fare in piccolo tutto ciò che vediamo in grande nel mondo che ammiriamo. Sì, la piccolezza dei corpi non può
mai fermare la potenza divina ... Infatti, la geometria dimostra che non c'è unità
nell'estensione, e che la materia può dividersi senza fine.»
La lunga citazione testé riferita è interessante non tanto per la tesi ivi sostenuta, quanto perché ci mostra come si mescolino intimamente - nel pensiero
di Malebranche - le considerazioni che egli attinge dalle varie scienze, nonché
dalla filosofia e dalla stessa teologia: manifesta conferma, come ognun vede, di
quell'unità degli interessi conoscitivi, della quale abbiamo parlato nel capitolo I della presente sezione.
Ma nel nostro autore vi è, a questo proposito, qualcosa di più che nei suoi
contemporanei: la convinzione (assente, per esempio, in Cartesio) che la scienza
moderna possa offrirei, con le sue verità razionalmente dimostrate, validissimi argomenti a favore della fede cristiana; per esempio la teoria preformista, poco
sopra accennata, riuscirebbe fra l'altro a spiegarci il mistero del peccato originale,
secondo cui tutti gli uomini avrebbero partecipato della colpa commessa dal loro
antico progenitore. Vedremo, del resto, nel prossimo paragrafo, come uno dei
punti essenziali della concezione filosofica di Malebranche, e cioè la sua tesi che
non esistono effettive cause naturali, si collegasse proprio ad un'accurata analisi
« scientifica» del fenomeno meccanico dell'urto.
Già il padre Mersenne era convinto che la nuova scienza potesse avere un
significato apologetico, in quanto capace di sconfiggere il pensiero magico rinascimentale; Malebranche, affermando l'esistenza di un accordo intrinseco ed
essenziale tra la fede e la ragione, si presenta come iniziatore di una « scolastica »
moderna che parta proprio dalla scienza per giungere alla giustificazione del dogma
cristiano (non senza motivo venne da taluno definito «l'ultimo dei medievali»).
Parecchi suoi contemporanei compresero però che questa tesi era del tutto
insostenibile; ne nacquero così numerose polemiche, che afflissero profondamente
l'animo del nostro filosofo. Egli morì nel I 7 I 5, pieno di amarezza per vedere che il
suo programma scientifico-filosofico-religioso non otteneva i risultati sperati.
Fra le sue molte opere ci limiteremo a ricordare, oltre quella fondamentale
già citata, le seguenti: Conversations chrétiennes (Conversazioni cristiane, 1676), Traité
de la nature et de la gr/ice (Trattato della natura e della grazia, r68o), Méditations
chrétiennes et métapf?ysiques (Afeditazioni cristiane e metaftsiche, r683), Traité de morale
(Trattato di morale, r68 3), Entretiens sur la métapi!Jsiqtte et sur la religion (Dialoghi
z6o
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Malebranche e Spinoza
sulla metafisica e sulla religione, 1688) da cui è ricavata l'ampia citazione testé riferita,
e il significativo dialogo Entretien d'un philosophe chrétien et d'un philosophe chinois
sur l'existence et la nature de Dieu (Dialogo di un filosofo cristiano e di un filosofo cinese
sull'esistenza e la natura di dio, 1708) ove affiora la necessità di trovare un'effettiva
giustificazione della cultura cristiano-occidentale di fronte ai primi seri rapporti
sulla tanto diversa cultura cinese (non meno antica della nostra ed essa pure rispettabilissima).
IV
· IL PENSIERO FILOSOFICO DI MALEBRANCHE
La Recherche ha inizio con un'accurata indagine sulle sorgenti dei nostri errori e sui mezzi per liberarcene. Malebranche prende anzitutto in esame gli
errori dei sensi e della immaginazione (libri I e n). Per spiegarne l'origine, analizza
la struttura degli organi percettivi, in particolare della vista, rivelando un'ottima
conoscenza dei più avanzati risultati scientifici; lo studio del funzionamento dell'occhio gli dà, inoltre, modo di approfondire vari argomenti di ottica.
Ma vi sono anche errori specificamente connessi all'intelletto; essi derivano dalla nostra inesatta comprensione dell'effettiva origine delle idee (è questo
l'argomento del libro m). Dopo avere rapidamente criticato la vecchia teoria delle
species (secondo cui gli oggetti materiali ci invierebbéro delle «specie» ad essi
simili, muovendo dalle quali l'intelletto costruirebbe le idee), Malebranche
affronta l'errore più comune, quello di ritenere che le idee vengano direttamente prodotte in noi dai corpi. La critica di questo « errore » si inquadra in
una critica generale del processo di causazione come esso viene solitamente
inteso.
« lo credo che non si possa dubitare, » scrive il nostro autore, « che coloro, i quali assicurano che lo spirito può formarsi le idee degli oggetti, si sbagliano ... La causa del loro errore è che gli uomini non mancano mai di giudicare
che una cosa è causa di un qualche effetto quando l'una e l'altro sono congiunti
assieme e non si conosce la vera causa di questo effetto. È perciò che tutti concludono che quando una palla di biliardo che si muove ne incontra un'altra,
la prima risulta la vera e principale causa del moto che essa comunica alla seconda;
e analogamente concludono che la volontà dell'anima risulta la vera e principale
causa del muoversi del braccio, ecc.; il motivo è che accade sempre che una palla
si muova quando viene incontrata da un'altra che la urta, e che quasi sempre le
nostre braccia si muovono quando noi lo vogliamo, e che noi non scorgiamo
con i sensi quale altra cosa potrebbe essere la causa di questi movimenti. » Merita di venire sottolineata l'insistenza con cui Malebranche ritorna sull'esempio
delle due palle che si urtano; essa è dovuta ai lunghi studi dedicati dal nostro
autore al fenomeno meccanico dell'urto, uno dei problemi più studiati dagli
scienziati dell'epoca. Egli stesso vi dedicò un trattatello dal titolo Des lois de la
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Malebranche e Spinoza
communication des mouvements (Sulle leggi della comunicazione dei moti, I 7 I 2 ).l Gli uomini
« non devono giudicare che una palla in movimento sia la vera e principale causa
del movimento di un'altra palla da essa incontrata sul proprio cammino, perché
quella non ha nemmeno la potenza di muoversi. Essi possono soltanto giudicare
che questo incontro delle due palle fornisce all'autore del movimento della materia l'occasione per eseguire il decreto della propria volontà che è la causa universale di tutte le cose ... ».
Secondo Malebranche basta spingere a fondo la nostra analisi del processo
di causazione, per accorgerci che non esiste altra forza motrice se non la volontà
di dio: « Qualunque sforzo di spirito io faccia, non posso trovare forza, efficacia,
potenza fuorché nella volontà dell'Essere infinitamente perfetto. » In altri termini: « Causa vera è una causa tale che lo spirito colga un legame necessario
fra essa e l'effetto; orbene non c'è che l'Essere infinitamente perfetto ad essere
tale che lo spirito percepisca un legame necessario fra esso e l'effetto: dunque
non c'è che Dio, il quale sia vera causa, e abbia veramente la potenza di muovere
i corpi. » Noi potremo dunque determinare con esattezza le leggi che regolano
l'urto di due palle da biliardo, ma nulla ci autorizzerà a concludere che il moto
dell'una sia la vera causa del moto dell'altra.
Affiora qui un antico problema, che ebbe grande rilievo nella tradizione
ebraico-cristiana: il problema' di distinguere la causazione dalla creazione. Malebranche non riesce a stabilire nettamente tale distinzione, e perciò ne conclude
che il creatore è non solo la prima ma l 'unica vera causa del creato: le cause
naturali o « seconde » vengono ridotte al rango di mere cause « occasionali ».
Dio sarà dunque l 'unica vera causa anche delle nostte idee. In altre parole:
noi vediamo le cose in lui; da lui ci provengono direttamente le idee delle sue
opere. Anche quando ci sembra di percepire un oggetto, in realtà noi lo vediamo
in dio. È un esplicito ritorno alla teoria agostiniana del contatto immediato
fra l'anima e dio.
Una volta stabilito che dio, nella sua infinita potenza, è la vera causa di tutti
gli esseri finiti e di tutte le idee, nonché delle loro molteplici connessioni, è chiaro
che dovremo fare risalire a lui anche l'ordine razionale vigente nel mondo.
Sorge pertanto spontanea la seguente domanda: l'ordine razionale testé accennato costituirà una libera creazione di dio, oppure dio - nel momento in cui
creò il mondo - dovette sottostare alla razionalità come a un complesso di regole cui non poteva sottrarsi? La risposta di Male branche è in certo senso antitetica a quella che potremmo a prima vista attenderci da un pensatore mistico
come lui: la volontà di dio dipende da un ordine anteriore alla creazione; i principi che regolano il creato non sono prodotti liberamente da dio (come pensava
I L'interesse di questo opuscolo dipende
pure dalla sua parte negativa, e cioè: a) dalle
critiche che Malebranche solleva contro il Traité
de la percussion (Trattato della percossa) di Edme
Mariotte; b) dalle critiche cui sottopone il principio cartesiano della conservazione della quantità di
moto, che in anni precedenti Malebranche aveva
accolto ed ora invece respinge.
z6z
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Malebranche e Spinoza
Cartesio), ma sono verità eterne: « Se è vero che la ragione a cui tutti gli uomini
partecipano è universale; se è vero che è infinita; se è vero che è immutabile e
necessaria: è certo che essa non risulta affatto diversa da quella di Dio stesso,
poiché non vi è che l'essere universale e infinito che racchiuda in sé una ragione
universale e infinita. Tutte le creature sono degli esseri particolari: la ragione
universale non è dunque creata. Tutte le creature sono finite: la ragione infinita
non è dunque una creatura. Ma la ragione che noi consultiamo non è soltanto
universale e infinita, essa è anche necessaria e indipendente, e noi la concepiamo
in un senso più indipendente che Dio stesso. Dio infatti non può agire che
secondo questa ragione; egli dipende da essa in un senso: è necessario che la
consulti e la segua. Orbene Dio non consulta che se stesso: non dipende da nulla.
Questa ragione dunque non è distinta da lui: essa gli è dunque coeterna e consustanziale. »
Trattasi di una concessione estremamente significativa del misticismo al
razionalismo. Essa si inquadra perfettamente in quanto abbiamo accennato nel
paragrafo precedente, circa l'ausilio che la ragione è in grado di fornire alla fede;
ma dice anche qualcosa di più: che la razionalità costituisce un primum assoluto,
e che il nostro intelletto, quando riesce ad afferrarla, coglie davvero la struttura
più profonda dell'essere (quella struttura che il creatore stesso non può non dare
al creato). Come ognun vede, il platonismo prende qui il sopravvento su ogni
forma di volontarismo: esso deve sì garantire le verità della fede, ma deve nel
contempo garantire il valore delle verità razionali raggiunte dalla scienza.
Esso tuttavia, come osservarono a Malebranche parecchi suoi obiettori,
non è in grado di dimostrare l'effettiva realtà del creato. Se noi conosciamo
le opere di dio in dio, se « non possiamo vedere altrove che nella sua saggezza
l'ordine che dio stesso è obbligato a seguire», che necessità vi è che il creato
possegga una propria autentica esistenza? Poiché la realtà del creato non è necessaria alla nostra conoscenza, quali motivi potremo addurre per sostenere che
esso non costituisce una mera illusione?
Malebranche stesso ammette che « è molto difficile dimostrare che esistono
dei corpi». La dimostrazione che egli delinea in proposito è assai simile all'argomentazione cui aveva fatto ricorso, circa il medesimo problema, la filosofia
di Cartesio. « È assolutamente necessario, » scrive il nostro autore, « per assicurarsi positivamente dell'esistenza dei corpi esterni, conoscere Dio che ce ne
dà il sentimento e sapere che, essendo infinitamente perfetto, egli non può ingannarci. » Eppure, malgrado la validità di questo argomento, « si può dire che
l'esistenza della materia non è ancora perfettamente dimostrata, intendo con rigore geometrico ». « Per essere pienamente convinti che vi sono dei corpi, è
necessario che ci si dimostri non solo che vi è un Dio e che Dio non è ingannatore: ma inoltre che dio ci ha assicurati che egli ne ha effettivamente creati;
ciò che non si trova provato nelle opere di Descartes. »
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Malebranche e Spinoza
Le sole maniere, osserva Malebranche, con le quali dio ci obbliga a credere sono l'evidenza e la fede. Orbene, l'evidenza razionale ci fornisce senza
dubbio molti motivi capaci di rendere plausibile l'ipotesi che esistono dei corpi
(«noi abbiamo più ragione di credere che ve ne siano, anziché di credere che
non ve ne siano affatto»); ma non è in grado di darci in proposito una sicurezza
assoluta. Questa ci proviene invece dalla fede: da ciò che ci mostrano la sacra
scrittura e i miracoli « noi apprendiamo che Dio ha creato un cielo e una terra,
che il Verbo si è fatto carne, e altre simili verità che suppongono l'esistenza del
mondo creato. Dunque è certo per la fede che esistono dei corpi, e tutte queste
apparenze diventano - per effetto della fede - delle verità ». Qui il misticismo
prende il sopravvento sulla ragione: questa non riesce, secondo Male branche,
a dimostrare con rigore geometrico la realtà del mondo esterno (e neanche degli
spiriti finiti); solo la rivelazione è capace di tanto. Se per un lato tocca alla ragione fornirci la via onde giungere alla fede, per l'altro lato è proprio la fede a
fornirci la via onde sconfiggere definitivamente la tentazione idealistica. Ragione
e fede si sostengono dunque a vicenda; esse danno luogo a una costruzione che
è, nel contempo, razionalistica e mistica.
Anche l'etica di Malebranche si inserisce coerentemente in questo quadro
grandioso. Ogni nostra aspirazione non può essere, in ultima istanza, che una
aspirazione verso dio, verso la realizzazione dell'ordine che egli ha voluto (e
non poteva non volere): «La corruzione del cuore consiste nell'opposizione all' ordine. »
Come si concili l'onnipotenza di dio con l'esistenza del male e del peccato,
come questo sia qualcosa di reale oppure di non imputabile a dio, in che senso
si possa parlare di una effettiva libertà dell'uomo, sono problemi che riguardano
più la teologia di Malebranche che non la sua filosofia. Secondo lui, il male dipende dal considerare i beni finiti quali supremi, proprio come il più grave errore
dipende dal considerare gli esseri finiti quali vere cause di ciò che esperiamo intorno a noi. L'eliminazione radicale e completa di questa confusione costituisce il
presupposto di tutti i suoi scritti di argomçnto morale: il punto conclusivo cui intendono portarci è l'ascesa mistica verso il bene supremo, cioè verso dio.
V
· PERSONALITÀ DI SPINOZA
E SIGNIFICATO DELLA SUA OPERA
Abbiamo visto nel paragrafo precedente che Malebranche, pur sforzandosi
di mantenere la nozione tradizionale di creazione, vi introdusse alcune profonde
limitazioni, sostenendo che dio, nell'atto di creare il mondo, deve consultarsi
con la ragione e seguirne i dettami (a lui coeterni). Spinoza fece un ulteriore
importante passo sulla via aperta da Malebranche, sopprimendo la nozione stessa
di creazione e giungendo di conseguenza a una forma di panteismo, che si rias-
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Malebranche e Spinoza
sumeva nell'identificazione di dio con l'ordine razionale dell'universo. Per
questo motivo egli suscitò un vero scandalo fra i metafisici della sua epoca
(Malebranche lo chiamava «il miserabile Spinoza »), e viceversa otterrà - nei
secoli successivi - la più viva ammirazione di pressoché tutti i filosofi che sosterranno una qualche forma di immanentismo (idealistico o materialistico);
a lui si richiameranno, per esempio, i filosofi romantici, che invocheranno la
sua autorità per contrapporsi a Newton, e soprattutto per respingere la concezione -dovuta a quest'ultimo- di un dio (il famoso « architetto dell'universo »)i
legiferatore della natura ma ad essa trascendente.
Oggi, come fra poco vedremo, i giudizi sull'opera di Spinoza sono più
complessi e in certo senso più equilibrati. Per un lato si continua ad ammettere
che egli diede senza dubbio un contributo decisivo alla trasformazione del vecchio concetto del dio creatore, proprio della tradizione ebraico-cristiana; per
l'altro si sottolinea che, malgrado l'aspetto panteistico della sua filosofia, permangono in lui taluni motivi tradizionali, come la separazione tra l'essere divino, causa infinita di tutti i processi naturali, e gli esseri finiti che conseguono
da tale causa.
Baruch (Benedetto) Spinoza nacque nel r632. ad Amsterdam da una famiglia
di israeliti che si era trasferita in Olanda dal Portogallo, per sottrarsi alle persecuzioni religiose. Da giovinetto frequentò la scuola israelitica della città, ove
apprese l'ebraico e studiò sia l'Antico testamento sia il pensiero ebraico-medievale (cioè la tradizione talmudica). Ben presto, però, sentì la necessità di ampliare
la propria cultura accostandosi al pensiero filosofico rinascimentale, nonché a
quello del Seicento (in particolare alla filosofia di Cartesio), e cercando di assimilare il nuovo spirito scientifico dell'epoca. Nel 1656 venne espulso dalla comunità ebraica, a causa delle sue dottrine in materia di filosofia e di religione.
Abbandonò quindi Amsterdam per ritirarsi nei pressi di Leida e, più tardi, all' Aia, ove visse assai modestamente traendo i propri mezzi di sostentamento
dalla professione di tornitore di lenti, in cui aveva raggiunto una notevole abilità.
Il primo scritto pubblicato da Spinoza fu un'esposizione della filosofia cartesiana, dal titolo Principia philosophiae cartesianae (r663), assai interessante in vista
del futuro sviluppo del suo pensiero, anche perché costituiva un primo tentativo
di applicare la forma matematica alla filosofia. Esso fu seguito a breve distanza dai
Cogitata metaphysica (r663). Altro scritto giovanile di Spinoza è il Tractatus brevis,
che però non venne pubblicato né durante la vita né subito dopo la morte dell'autore; esso fu ritrovato dagli studiosi di Spinoza solo verso la metà del xrx secolo e pubblicato nel r 8 52.. È di grande importanza perché contiene un primo
abbozzo del sistema filosofico che verrà esposto nelle opere della maturità.
Le pubblicazioni testé accennate non tardarono a procurare al nostro autore
una larga notorietà e alcune solide amicizie (fra gli studiosi non disposti a lasciarsi influenzare dalla sua fama di ateo e di scomunicato): meritano in parti-
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colare di venire ricordate l'amicizia con il fisico Huyghens e quella con Jan
de Witt, capo del partito repubblicano olandese. Ricevette l'offerta di una cattedra presso l'università di Heidelberg, ma la rifiutò con ferma decisione, prefereqdo mantenere un tipo di vita che gli garantisse la più completa indipendenza.
Nel I 670 pubblicò anonimo, all'Aia, il Tractatus theologico-politicus, che contiene, fra l'altro, un esame critico acutissimo dell'Antico testamento. Esso suscitò subito molti aspri attacchi da parte dei teologi protestanti, e verrà ufficialmente proibito quando in Olanda assumeranno il potere gli Orange.
Intanto Spinoza lavorava alla sua opera più famosa, Ethica ordine geometrico
demonstrata, in cinque libri, che portò a termine nel I 675. Pur non avendola data
subito alle stampe, la fece circolare tra vari amici che godevano la sua particolare
fiducia e stima; è significativo che in un primo tempo si rifiutò di farla leggere
a Leibniz (vi acconsentirà solo dopo averlo meglio conosciuto personalmente).
Morì, a nemmeno quarantacinque anni di età, nel I 677, lasciando alcune interessanti opere incompiute: il Tractatus de intellectus emendatione, di argomento gnoseologico; il Tractatus politicus, cui stava attendendo negli ultimi anni della vita,
e un Compendium grammatices linguae hebraeae. Nello stesso anno della sua morte
gli amici più fedeli pubblicarono un volume di opere postume che includeva
l' Ethica, il De intellectus emendatione, il Tractatus politicus e alcune lettere.
Si è già detto che fin da giovane Spinoza studiò con grande impegno le opere
di Cartesio, ed anzi dedicò il suo primo scritto a stampa per l'appunto all'esposizione della filosofia cartesiana. L'influenza di Cartesio è chiaramente presente
sia nella strutturazione dei concetti-base della filosofia di Spinoza (per esempio
nel concetto di sostanza), sia nel compito da lui attribuito alla conoscenza razionale (riassumi bile nella doppia funzione di liberarci dall'illusione dei sensi e di
farci raggiungere la visione del vero essere che è anche il vero bene).
Gli studiosi moderni hanno tuttavia potuto rintracciare nel pensiero spinoziano anche altre influenze non meno importanti: anzitutto quella della tradizione
mistica ebraica; poi quella dei filosofi della natura del rinascimento; quella di
Hobbes (assai chiara nelle opere politiche ma anche nel libro m dell' Ethica);
e perfino quella della filosofia scolastica (ancora assai diffusa, alla sua epoca, nelle
università della Germania e dei Paesi Bassi).
Come abbiamo già accennato, Spinoza si interessò molto di scienza: ciò
risulta ampiamente dimostrato dalla ricca corrispondenza che intrattenne con
eminenti scienziati (ad esempio con Henry Oldenburg, segretario della Royal Society di Londra), nella quale il nostro autore dà notizia di avere ripetuto per proprio conto alcunè significative esperienze assai dibattute in quegli anni (come le
esperienze di Boyle sulla pressione dei gas) e di averne egli stesso ideate delle
nuove. Nell'ambito della matematica ciò che lo impressionò più di tutto fu il
rigore delle argomentazioni; il fascino di Euclide lo spinse a considerare il metodo
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geometrico come la più alta espressione della razionalità, tant'è vero che, per fornire un'impronta di indiscutibile serietà ai Principia phi!osophiae cartesianae e all'Ethica, volle dar loro una veste «euclidea», articolandone l'esposizione in definizioni, assiomi, teoremi, intercalati solo di tanto in tanto - nell' Ethica - da
qualche scho!ium, ove il pensiero dell'autore viene spiegato in forma più discorsiva.
Molto si è discusso sulla funzione compiuta da quest'ordine geometrico nel
sistema di Spinoza, se cioè esso costituisca soltanto un aspetto estrinseco della
sua filosofia o vada interpretato come qualcosa di intrinseco ad essa. A prima
vista appare più fondata la prima tesi, per il carattere manifestamente artificioso
dell'anzidetta suddivisione del discorso spinoziano in definizioni, assiomi e
teoremi. A favore della seconda tesi va però sottolineato che, per Spinoza, il
reale è essenzialmente razionale, onde segue che la filosofia, per essere in grado
di esprimere adeguatamente tale realtà, dovrà essa pure venire esposta nella
forma più razionale possibile (e tale forma è proprio, secondo il nostro autore,
quella deduttiva della geometria).
Come si è detto all'inizio del capitolo, noi ci limiteremo qui ad esporre la
parte più propriamente filosofica del pensiero spinoziano, rinviandone la parte
politica al capitolo v (o ve potrà venire meglio illustrata mediante il confronto
con il pensiero politico di Grozio e di Hobbes). Suddivideremo pertanto la
nostra esposizione in due paragrafi dedicati, l'uno, ai problemi teoretici generali, l'altro, ai problemi concernenti l'uomo e il significato della morale.
VI
· IL PANTEISMO
Già si è detto che uno dei compiti essenziali della filosofia consiste, secondo
Spinoza, nel liberarci dall'illusione dei sensi. Va subito precisato però che, a
suo parere, i dati dei sensi non sono falsi in se stessi; l'errore potrà sorgere solo
nel momento in cui, partendo da tali dati, ci permettiamo di pronunciare frettolosamente dei giudizi inadeguati che rivelano la carenza delle nostre conoscenze.
Le sorgenti di questi giudizi inadeguati sono parecchie, ma la più importante è,
senza dubbio, l 'immaginazione che concede esistenza anche a cose inesistenti.
Il risultato degli errori così commessi è di confondere la semplice esistenza degli
oggetti (percepita attraverso i sensi) con la loro autentica essenza (afferrabile solo
attraverso lo studio della concatenazione causale che li lega al tutto).
Data la natura testé accennata dell'errore, risulta manifesto che esso è sempre in ultima istanza di origine pratica, onde sarà necessario - per correggerlo
- educare la nostra mente a distinguere con cura ciò che è frutto di semplice
immaginazione da ciò che è frutto di effettiva intellezione, evitando di confondere idee false, finte o dubbie con idee vere.
Il Tractatus de inte!!ectus emendatione è appunto lo scritto in cui Spinoza si
sforza di compiere tale opera educativa, esponendo - attraverso dettagliate
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analisi - il processo con cui la mente umana può liberarsi dai vari tipi di errore
e giungere gradualmente alla visione della realtà, cioè di dio. L' Ethica segue
invece un percorso inverso, in quanto parte da alcune definizioni generalissime
e da alcuni assiomi la cui verità è colta per così dire intuitivamente, onde ricavarne deduttivamente le singole verità particolari.
Spinoza dichiara di essere, entro certi limiti, d'accordo con i veteres (ossia
con i filosofi scolastici) nel ritenere che la vera conoscenza scientifica debba procedere dalla causa all'effetto. In luogo della causa egli sostituisce però il concetto
o definizione della cosa considerata ( « conceptus seu definiti o rei »). Come in geometria si suol ritenere perfetta la definizione del cerchio, allorché risulti possibile
dedurne tutte le proprietà di tale figura, così egli ritiene perfetta la definizione di
un oggetto quando sia possibile dedurne tutte le proprietà di tale oggetto (ben
inteso le proprietà che questo ha in se stesso e non quelle che acquista per trovarsi in connessione con altre cose). La scienza dovrà consistere, secondo lui, di
definizioni esatte, capaci di fornirci idee chiare e distinte (« claras et distinctas
ideas ») di ogni oggetto, onde possiamo di esso comprendere razionalmente
« quomodo et cur sit aut factum sit» («come e perché sia o sia stato fatto»).
Nel quadro testé delineato è ben evidente che l' Ethica debba proprio iniziare con alcune precise definizioni. Esse sono le sei seguenti:
I) Per «causa di sé» (causa sui) intendo ciò la cui essenza implica l'esistenza,
ossia ciò la cui natura non può venire concepita se non come esistente.
z) Si dice «finita nel suo genere» quella cosa, che può venire limitata da un'altra cosa della medesima natura.
3) Per «sostanza» intendo ciò che è in sé e che per sé viene concepito:
ossia ciò il cui concetto non necessita del concetto di altra cosa, da cui debba
venir formato.
4) Per« attributo» intendo ciò che l'intelletto apprende della sostanza come
costituente l'essenza della medesima.
5) Per « modo » intendo le affezioni della sostanza ossia ciò che è in altro ed
anche viene concepito per mezzo di quest'altro.
6) Per« Dio» intendo l'essere assolutamente infinito, e cioè una sostanza che
consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna ed infinita.
Ad esse fanno seguito sette assiomi:
I) Tutto ciò che è, o è in sé o è in altro.
z) Ciò che non può venir concepito per mezzo di altro, deve venire concepito per sé.
3) Data una causa determinata, da essa segue necessariamente l 'effetto, e
per contro, se non viene data alcuna causa determinata, è impossibile che segua
l'effetto.
4) La conoscenza dell'effetto dipende dalla conoscenza della causa e la implica.
z68
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Malebranche e Spinoza
5) Le cose che non hanno fra di loro niente in comune, non possono neanche venire comprese una per mezzo dell'altra, ossia il concetto dell'una non implica il concetto dell'altra.
6) L'idea vera deve convenire con il suo ideato.
7) Di tutto ciò che può essere concepito come non esistente, l'essenza
non implica l'esistenza.
Fra le prime proposizioni ricavate con metodo geometrico da questo sistema alcune meritano di venire riprodotte letteralmente per la loro specialissima importanza:
(vr) Una sostanza non può venire prodotta da un'altra sostanza.
(vn) Alla natura della sostanza è pertinente l'esistere.
(vnr) Ogni sostanza è necessariamente infinita.
(xr) Dio, cioè la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei
quali esprime un'essenza eterna ed infinita, esiste necessariamente.
(xrv) Oltre a Dio non può venir data né concepita alcuna sostanza.
(xv) Tutto ciò che è, è in Dio, e nulla può essere né venire concepito
senza Dio.
(xvr) Dalla necessità della natura divina debbono seguire in infiniti modi
infinite cose (ossia tutte quelle cose che possono cadere sotto un intelletto infinito).
(xvn) Dio agisce in base alle sole leggi della propria natura e non costretto da alcunché.
(xvnr) Dio è causa immanente, non transeunte, di tutte le cose.
(xrx) Dio cioè tutti gli attributi di Dio sono eterni.
(xx) L'esistenza di Dio e la sua essenza sono una sola e medesima cosa.
(xxv) Dio non è soltanto la causa efficiente dell'esistenza delle cose, ma
anche della loro essenza.
Le proposizioni ora riferite non hanno bisogno di molti chiarimenti. La
vn, direttamente preparata dalla VI, fa aperto ricorso, per dimostrare l'esistenza
della sostanza, ad una considerazione aprioristica sul tipo dell'argomento antologico (invocato - come sappiamo - da alcuni filosofi medievali e poi da
Cartesio per dimostrare l'esistenza di dio). Su di essa si basano l'vni, la XI, la
xvu, la XIX rivolte a dimostrare l'infinità, l'esistenza, l'unicità, la libertà (o necessità interna), e l'eternità di dio; la xx ribadisce il fulcro dell'argomento ontalogico, riferito non più alla sostanza in generale ma specificamente a dio. Le altre
concernono il problema del rapporto fra dio e il mondo; la xvm in particolare
riprende una tesi già esplicitamente affermata nel Tractatus brevis, dove Spinoza
aveva scritto: « Dio è causa immanente, non transeunte, perché opera tutto in sé
e nulla fuori di sé; poiché fuori di Dio non vi è nulla. » Essa sintetizza in una breve
formula la concezione panteistica del nostro autore.
Riservandoci di riesaminare fra poco l'autentico significato di questo pan-
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Malebranche e Spinoza
teismo, qui ci limitiamo a osservare che - come risulta in modo ovvio dalle
proposizioni citate - il dio di Spinoza non ha nulla a che fare né con il primo
motore di Aristotele né con il dio personale del cristianesimo (Spinoza polemizza anzi vivamente contro tutte le concezioni antropomorfiche di dio e contro
la pretesa di attribuirgli azioni compiute in vista di un fine). 1 È, se mai, simile
al dio di Bruno, in quanto causa immanente del mondo che agisce internamente
ai fenomeni con assoluta necessità.
Per discutere con una certa serietà la portata del panteismo di Spinoza,
occorre soffermarci anzitutto, sia pure molto in breve, sul significato e sulla
funzione che egli assegna agli attributi e ai modi.
Già abbiamo visto che gli attributi della sostanza divina sono infiniti, e che
costituiscono autentiche manifestazioni obiettive di tale sostanza. Noi però
ne conosciamo, secondo Spinoza, due soli: il pensiero e l'estensione. Ciascuno
di essi è infinito come la sostanza di cui è attrjbuto; con la differenza, però,
che ogni attributo è infinito soltanto « in sé », ma esclude gli altri attributi, mentre la sostanza è assolutamente infinita. I modi sono invece gli esseri particolari
cioè le determinazioni (e quindi limitazioni) degli attributi. Così, per esempio, un
corpo è un modo della sostanza in quanto estesa, ossia ne è una limitazione, una
parziale negazione. Analogamente un pensiero è un modo della sostanza in quanto
pensante, ossia ne è una particolarizzazione, una determinazione.
Fra attributi e modi vi è questa differenza: che i primi sono la sostanza, i
secondi invece nella sostanza. Ogni attributo è, nel suo genere, coestensivo alla
sostanza e perciò deve stare con essa in rapporto di identità; invece ogni modo
è un depotenziamento della sostanza. La sua caratteristica è di stare in altro.
Possiamo a questo punto ricordare che Spinoza ammette oltre ai modi finiti,
di cui abbiamo testé riferito due esempi, anche altri modi che chiama necessari
ed infiniti. Si tratta di una fra le questioni più delicate della sua teoria, sulla cui
interpretazione vi è un certo disaccordo fra gli studiosi. Qui basti citare due
esempi di questi modi infiniti: l'« intelletto infinito » o « idea di Dio » che è
una determinazione della sostanza in quanto pensante, e il moto e la quiete che
sono determinazioni della sostanza in quanto estesa. I modi infiniti emanerebbero direttamente dalla sostanza, entro l'ambito di un attributo; i modi finiti invece, pur esistendo in un attributo come quelli infiniti, non trarrebbero origine
immediatamente dalla sostanza, ma da altri modi finiti che li condizionano. Il rapporto tra la sostanza e i modi infiniti è la causalità divina; il rapporto dei modi
finiti gli uni con gli altri è la causalità empirica, che appare svolgersi nel tempo.
Un risultato è comunque certo, secondo Spinoza: a rigore, tutti i modi esistono soltanto in dio, anche quando sembrano svolgersi nel tempo. Dio è im1 Straordinariamente interessante è, da questo punto di vista, l'appendice alla prima parte deiI'Ethica, diretta a confutare l'opinione di coloro i
quali affermano che « Dio ha fatto tutte le cose per
l'uomo, e l'uomo perché adorasse lui»; a questa
tesi il nostro autore oppone che « la natura non si
è prefissa alcun fine, e che tutte le cause finali non
sono che finzioni umane ».
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manente a tutti i modi e determina con assoluta necessità ogni loro rapporto.
Spinoza distingue tuttavia (riecheggiando Scoto Eriugena) natura naturans
e natura natura/a: la natura naturans è dio in quanto causa libera ed essenza infinita;
la natura natura/a è il mondo in quanto cosa che è in dio e non può esistere indipendentemente da lui. Non si tratta evidentemente di due realtà distinte, ma si
tratta comunque di due maniere diverse di considerare l'uno-tutto.
La concezione di dio come unica sostanza, causa immanente di tutta la
realtà, giustifica il famoso parallelismo spinoziano: se tutto è dio, allora pensiero
ed estensione non sono che due aspetti della medesima sostanza; sia che noi
consideriamo la sostanza divina attraverso l'attributo del pensiero, sia che la
consideriamo attraverso l'attributo dell'estensione, troveremo dunque un solo
e medesimo ordine, una sola e medesima connessione di cause. L'accordo tra
atti del pensiero e atti del mondo fisico, che a giudizio degli occasionalisti costituiva la massima difficoltà del cartesianesimo, perde nella filosofia di Spinoza ogni
carattere problematico, come asserisce la famosa proposizione settima della parte
seconda: « Orda et connexio idearum idem est ac ardo et connexio rerum » («L'ordine e la connessione delle idee coincide con l'ordine e la connessione delle cose»).
L'introduzione nella sostanza divina degli attributi e dei modi risponde
ovviamente allo scopo di giustificare il trapasso dall'unità di dio all'infinità dei
pensieri e degli oggetti. L'influenza di Cartesio è qui manifesta, sia per la speciale
importanza riconosciuta ai due attributi del pensiero e dell'estensione sia per la
completa separazione interposta fra essi (Spinoza accentua anzi tale separazione
negando decisamente che pensiero ed estensione possano entrare in contatto
fra loro nella ghiandola pineale); è altrettanto chiaro però che il problema dei
rapporti fra dio e mondo è impostato dal nostro autore in un quadro concettuale
del tutto diverso da quello di Cartesio (che risolveva tali rapporti ricorrendo a
un libero atto di creazione). La concezione spinoziana di essi sembra invece ricollegarsi alla grande tradizione neoplatonica, che indubbiamente era ben nota
al nostro autore, se non altro perché giuntagli attraverso il pensiero ebraico
medievale. Va subito rilevato, però, che fra il monismo dei neoplatonici e quello
di Spinoza sussiste un profondo divario nel modo stesso di concepire l'essere
divino. Per i neoplatonici, infatti; dio è l 'unità ineffabile, superiore alla ragione,
da cui procedono le successive emanazioni per una misteriosa e non chiaramente
comprensibile degradazione; per Spinoza, invece, dio è perfettamente razionale
e non emana la natura, ma si identifica con essa.
È poi vero, però, che il dio di Spinoza si identifichi effettivamente con il
mondo? Alcuni interpreti moderni sollevano in proposito parecchi dubbi,
non solo sulla base dell'innegabile oscurità dei rapporti fra sostanza, attributi e
modi, ma invocando la stessa distinzione poco sopra accennata fra natura naturans e natura natura/a, e sottolineando infine che nel sistema spinoziano si può
soltanto parlare di una «analogia», non di una perfetta identità, fra l'essere di
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dio e quello del mondo. « Lo studio del concetto di ente nell'opera di Spinoza, »
scrive Piero di V ona, « permette di concludere che in Spinoza rimase intatta
l'analogia entis di Dio e degli esseri altri da Dio, sebbene gli esseri altri da lui
derivassero da lui necessariamente. »
Trattasi senza dubbio di argomentazioni che possono valere a farci comprendere assai bene, per un lato i legami di Spinoza con il pensiero antico e medievale
(nessuno può negare, per esempio, che il concetto di analogia entis fosse stato
largamente utilizzato nel medioevo per illustrare le differenze fra l'essere di dio
e quello del creato), per l'altro lato il carattere equivoco di molti concetti di
fondo della filosofia spinoziana. L'autore del presente capitolo ritiene tuttavia
che non riescano tanto a porre in crisi il significato generale dello spinozismo (imperniantesi sulla tesi dell'identità, in dio, fra ordine logico e ordine esistenziale),
quanto a mettere in luce le difficoltà cui esso non poteva sottrarsi, data l'impostazione essenzialmente metafisica di tale tesi. È comunque incontestabile che,
pur nei limiti di questa impostazione (comune, del resto, a gran parte dei pensatori del Seicento), lo spinozismo riuscì ad aprire al pensiero moderno una via
estremamente feconda: cioè una prospettiva razionalistica, non più condizionata
dalla presenza di alcun essere, ipotizzato come superiore alla ragione.
VII
· L 'UOMO E IL PROBLEMA ETICO
Per quanto sia grande l'importanza della concezione teoretica di Spinoza,
non v'ha dubbio che il tema preminente di quasi tutte le sue opere fu quello
etico-politico. L' Ethica, come dice il titolo stesso, si presenta appunto quale
un trattato di filosofia morale: delle sue cinque parti solo le prime due prendono
in esame argomenti metafisici o gnoseologici (metafisici la prima dal titolo De Deo,
gnoseologici la seconda dal titolo De natura et origine mentis); le ultime tre invece
trattano argomenti in largo senso morali (la terza si occupa De origine et natura
affectuum, la quarta De servitute humana seu de affectuum viribus, la quinta De potentia
intellectus seu de liberiate humana). Ma anche le altre opere più significative appaiono
orientate nel medesimo senso: per esempio il Tractatus brevis considera la conoscenza sotto l'aspetto etico, nel fermo convincimento che essa sia la causa prossima di
tutte le passioni, e così pure il Tractatus de intellectus emendatione è impostato fin dall'inizio come un'indagine sui beni desiderati dagli uomini, sul bene vero e sommo, nonché su alcune regole del vivere (senza dubbio esso tratta anche della
conoscenza della natura, ma solo nei limiti in cui questa è indispensabile al raggiungimento della vera beatitudine). Quanto al Tractatus theologico-politicus e
al Tractatus politicus è manifesto che il loro tema risulta di ordine prevalentemente
pratico, non teoretico. Eppure non si può negare, dopo quanto abbiamo cercato
di spiegare nel paragrafo precedente, che il problema di definire con chiarezza
che cosa sia l'uomo risulta proprio uno dei più ardui del sistema spinoziano, per
2.72.
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Malebranche e Spinoza
la difficoltà di conciliare la capacità, incontestabilmente presente nell'individuo
umano, di agire (e perfino di errare) con l'esistenza di un ordine metafisicamente
necessario che regola tutto l 'universo.
Data la definizione su riferita della sostanza, come ciò che è in sé e che
per sé viene concepito, è chiaro che l'uomo non può risultare, secondo Spinoza,
una sostanza; alla natura della sostanza è infatti pertinente l 'esistere, mentre
«l'essenza dell'uomo non ne implica l'esistenza necessaria, ossia l'ordine della
natura può far sì che questo e quell'uomo esista come pure che non esista»
(assioma primo della parte seconda). Ne segue che l'uomo è un modo finito, separabile dall'unica sostanza divina, cioè che la sua essenza è costituita da certe modificazioni degli attributi di dio.
Di quali attributi? Del pensiero (inteso nel senso più ampio assegnato
a questo termine da Cartesio) e dell'estensione. Come modificazione del pensiero,
l'uomo è anima o mente; come modificazione dell'estensione, è corpo. Ne segue,
in particolare, che l'anima dell'uomo partecipa dell'intelletto divino, cosicché
«quando diciamo che l'anima umana percepisce questa o quella cosa, non diciamo altro se non che Dio ha questa o quella idea, non in quanto è infinito,
ma in quanto costituisce l'essenza della mente umana». Tenendo poi conto del
parallelismo esistente in generale fra i due attributi, Spinoza riesce a spiegare
abbastanza agevolmente il parallelismo fra la nostra anima ed il nostro corpo:
sia l'una sia l'altro obbediscono esclusivamente alle leggi vigenti nel proprio
ambito della natura (cioè alle leggi del pensiero o, rispettivamente, a quelle della
natura corporea) senza interferire in alcun modo tra loro («né il corpo può
determinare la mente a pensare, né la mente può determinare il corpo a muoversi
o a stare in quiete »); ma poiché le leggi del pensiero e quelle della natura corporea
esprimono lo stesso ordine razionale, l'anima rifletterà in sé tutta la serie dei movimenti del corpo e il corpo tutta la serie delle idee dell'anima.
Da questa concezione deriva che nessuna idea, la quale si presenti con
chiarezza alla mente umana, può essere falsa (la mente umana, infatti, partecipa
dell'intelletto divino); e in particolare non può essere falsa una singola percezione sensoriale. Ma, come abbiamo accennato all'inizio del paragrafo precedente, l'uomo può errare quando, con l'immaginazione, aggiunge all'idea qualcosa che essa non contiene, senza rendersi conto che ciò che le ha aggiunto è
privo di esistenza (come è privo di esistenza l'oggetto ad esso corrispondente
nella parallela natura corporea).
Mentre nel De intellectus emendatione il nostro autore aveva studiato concretamente il sorgere dei vari errori, nell'intento di educare la nostra mente a non
esserne vittima, nell' Ethica egli studia - per così dire - la natura metafisica
dell'errore, per concluderne da un lato che l'errore non è nulla di positivo ma
è solo una privazione (una limitazione), dall'altro che le idee non sono inadeguate
e confuse se non in quanto si riferiscono alla mente singola di un individuo
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Malebranche e Spinoza
(« nisi quatenus ad singularem alicuius mentem referuntur »).In altri termini: è l'individuo umano ad errare, in quanto non si rende conto della propria natura di
modo finito; e pertanto non si rende conto che, per la propria finitezza, egli è portato a fabbricarsi idee monche, isolate dall'ordine generale dell'universo. « Gli uomini errano in quanto si credono liberi; e questa opinione consiste in ciò solo,
che sono consci delle proprie azioni e ignari delle cause che le determinano. La
loro idea di libertà è dunque questa: di non conoscere alcuna causa delle proprie
azioni. Ciò che essi dicono, ossia che le azioni umane dipendono dalla volontà,
sono infatti parole, delle quali non posseggono alcuna idea. Tutti ignorano
invero che cosa sia la volontà ed in qual modo essa muova il corpo; quelli che
hanno altre pretese, e fingono sedi e dimore dell'anima, sogliono destare riso
o sprezzo. »
Questo isolare i singoli enti (idee o corpi) dal tutto si chiama, dal punto di
vista teoretico, « errore», dal punto di vista pratico, « male». Fra i tanti errori o
mali possibili, il più grave sarà ovviamente, secondo Spinoza, isolare dio stesso
dagli altri esseri, per fame qualcosa di simile a noi, provvisto di volontà personale
e di passioni umane.
L'introduzione - che, seguendo il nostro autore, abbiamo qui presentata
come ovvia e naturale - dei due punti di vista, teoretico ed etico, è in realtà
una delle tesi più oscure e più discutibili di tutto lo spinozismo. Ed infatti:
che giustificazione potrà essa mai trovare, entro una concezione filosofica che
identifica l'ordine logico con quello essenziale dell'universo?
A conferma delle gravissime difficoltà incontrate dallo spinozismo per giustificare razionalmente la distinzione fra «intelletto » e « volontà », è opportuno sottolineare che il nostro stesso autore è, su questo punto, quanto mai impreciso ed
incerto. Ora, infatti, egli sembra deciso a negare l'effettiva realtà di tale distinzione
(così, per esempio, quando scrive che « voluntas et intellectus unum et idem
sunt »); ora invece, sembra ammetterla (quando definisce la volontà come tendenza
consapevole alla propria conservazione). Senza fermarci qui a indagare il significato e l'origine di tale contraddizione, basti far presente che proprio questo punto
permette a Spinoza di sviluppare un'etica nel senso comune del termine.
Anche l'etica viene trattata da Spinoza con metodo rigorosamente razionale,
né più né meno di ogni altra disciplina; egli ci spiega infatti che - data la natura delle azioni e delle passioni, non diversa da quella di tutte le altre cose è possibile studiarle, esse pure, « proprio come si trattasse di linee, di piani, di
corpi». Alla base dell'etica spinoziana sta il concetto di affetto, inteso come
« affezione del corpo » e insieme come « idea di questa affezione », in quanto capace di accrescere o diminuire la sua capacità di agire; nel primo caso l'affetto
andrà inteso come « azione », nel secondo come « passione ». Partendo da questa
definizione il nostro autore compie nella terza parte dell'Ethica un'analisi estremamente rigorosa degli affetti, che ritiene riconducibili a tre affetti primari: la
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Malebranche e Spinoza
letizia, la tristezza e la cupidità (ove per letizia si deve intendere « il passaggio
dell'uomo da una minore ad una maggiore perfezione», per tristezza invece «il
passaggio dell'uomo da una maggiore ad una minore perfezione», e per cupidità
«l'essenza stessa dell'uomo, in quanto da una qualsiasi data affezione di lui si
concepisce determinata a fare qualcosa»). Compito della ragione è frenare e moderare le passioni, di cui va conquistata la piena consapevolezza, perché « un affetto che è passione cessa di essere passione appena ci formiamo l'idea chiara e distinta di esso»; l'uomo deve cioè mirare alla coscienza della necessità di tutte le
cose facendo sì che anche tutte le proprie affezioni si riferiscano alla sostanza divina.
Al problema etico è infine connesso quello della libertà. La causalità divina
è, come già abbiamo affermato, assolutamente necessaria perché agisce secondo
leggi logiche che non ammettono eccezioni. Essa tuttavia può anche venir considerata come libera, in quanto non è limitata da cause che le siano esterne.
L'uomo è schiavo quando, rinchiuso nell'immaginazione, isola i singoli oggetti
(e perciò i singoli beni) dall'unità della infinita sostanza divina; diventa invece
libero, quando riesce ad inserire ogni cosa nella universale necessità. Così facendo, egli comprenderà, in particolare, che « la perfezione delle cose va misurata dalla natura e potenza loro, perché esse non sono più o meno perfette per il
fatto di dilettare i sensi degli uomini, o di offenderli, oppure per il fatto che si
accordano o ripugnano all'umana natura».
L'uomo libero, avendo compreso la vera natura di tutte le cose e perciò
anche delle passioni, saprà, proprio per questo, agire indipendentemente da esse.
Afferrata la necessità dell'universo, egli godrà la pace perfetta. La sua conoscenza
di tutte le cose sub specie aeternitatis sarà un amore perfetto di esse coincidente
con l'amore razionale di dio («amor Dei intellectualis ») e potrà assicurare la
vera libertà dell'individuo.
Questo amore intellettuale di dio costituisce - secondo Spinoza - il terzo
grado (il più elevato) della conoscenza umana, essendo gli altri due la conoscenza
inadeguata di origine empirica e la conoscenza razionale dei principi universali
dell'essere. Non è una conoscenza innata, nel senso ordinario del termine, ma
è certo una conoscenza insita nell'uomo perché questi può giungervi con le sole
proprie forze (senza bisogno di alcuna rivelazione). Essa possiede un carattere
intuitivo, immediato, e costituisce il vero coronamento di tutta la più profonda
vita umana (sia dal punto di vista etico che teoretico): « Il supremo sforzo e la
suprema virtù della mente è il comprendere le cose secondo la conoscenza del
terzo genere ... Da questa conoscenza del terzo genere scaturisce la più alta serenità possibile della mente. »
2.75
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CAPITOLO QUINTO
Il giusnaturalismo
I
· CARATTERI GENERALI
Sappiamo dal capitolo 1 l'importanza che ebbe, nella storia politica e non
solo politica del Seicento, la formazione dello stato moderno. Questa pose tra
l'altro in primo piano il problema dei rapporti tra individuo e stato, due termini
che sembravano irriducibili tra di loro e, al tempo stesso, nella loro esclusività,
rimandavano incessantemente l'uno all'altro. Lo sviluppo delle dottrine politiche, che si succederanno in questo secolo e nel Settecento, si impernia essenzialmente sulla discussione di tale problema, elaborandone con chiarezza talune
fondamentali soluzioni tendenti a riconoscere una sostanziale preminenza ora
all'individuo, ora allo stato.
Il giusnaturalismo moderno è per l'appunto la corrente di pensiero che porta
innanzi questa discussione, prospettando l 'idea - che sarà poi ripresa e reinterpretata nei modi più diversi - che la costituzione delle comunità statali fosse
da far risalire ad un patto originario fra individui « per natura » liberi. Nel suo
intento sistematico e di perseguimento di una verità « oggettiva », il giusnaturalismo è profondamente connaturato al generale indirizzo filosofico del Seicento, come bene appare dalla seguente definizione datane da Norberto Bobbio:
«All'inizio dell'età moderna, quando la natura viene intesa come l'ordine razionale dell'universo, per diritto naturale s'intende l'insieme delle leggi della condotta
umana, che, al pari delle leggi dell'universo, sono iscritte in quest'ordine, contribuiscono a comporre quest'ordine, e sono, in quanto razionali, conoscibili attraverso la ragione. Ancora una volta questo diritto può dirsi naturale, nel senso
originario della parola, perché è un diritto " trovato ", non " posto " dall'uomo. »
Il giusnaturalismo moderno svolse una profonda funzione eversiva, dissolvendo definitivamente il pensiero medievale sullo stato: « La teoria giusnaturalistica dello stato fu una guida per tutti gli sforzi e le lotte politiche da cui nacque
lo stato moderno» (Gierke). Esso si distingueva dalla giurisprudenza positiva
-giurisprudenza che continuò a svolgere anche nel Seicento una funzione conservatrice di strutture politiche ed ecclesiastiche ormai superate dallo sviluppo
storico -per la propria radicalità: antistorico nella sua fondazione (che, appunto,
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Il giusnaturalismo
era « naturale », quindi universale ed eterna, non storica), esso si applicava con
tenacia non alla spiegazione del passato, ma alla costruzione di una nuova società.
Tra i caratteri distintivi del giusnaturalismo v'è quello razionalistico. Esso
comportava la costruzione di sistemi giuridici basati su deduzioni assolutamente
rigorose; di sistemi laici, che non facessero ricorso a dio per la fondazione del
diritto. Ed infatti, nonostante che i giusnaturalisti fossero in massima parte
protestanti o riformati, e quindi abbondassero di riferimenti alla Bibbia, tuttavia
essi deducevano il loro sistema con argomenti esclusivamente razionali a partire
da un concetto di società del tutto profano. Le parole della Bibbia « servono
solo di conferma e gli esempi storici, sacri o profani, soltanto come illustrazioni
per i risultati già prima raggiunti in base a conclusioni della ragione» (Gierke).
Queste costruzioni politiche giusnaturalistiche erano assai diverse tra loro,
ma avevano una radice comune: in esse lo stato veniva spiegato con se stesso,
senza il ricorso a dio. Questa spiegazione era il «contratto». Una società laica
e razionale poteva infatti reggersi su due punti: l'esistenza naturale di una societas
civilis intesa a soddisfare i bisogni della convivenza, e l'esistenza di un potere
sovrano (che poteva essere indifferentemente un re, l'imperatore, un'assemblea
rappresentativa, o una forma mista) il cui scopo era di reggere la società civile
per il conseguimento dei fini che essa si proponeva. Questo rapporto tra governante (depositario della sovranità) e governato (cittadini della società civile) poteva
assumere molte forme, che oscillavano tra due estremi: o l'assolutismo della
sovranità, o l'esaltazione dei diritti del cittadino, dell'individuo. In un certo
modo, lo stesso assolutismo poteva essere ridotto ali 'individualismo; la teoria
di Hobbes, ad esempio, era in certo senso un'esaltazione massima dell'individualismo, la sua reductio ad absurdum: anche la sua base infatti era esclusivamente
costituita da una interpretazione della natura dell'uomo individuale, valutata
pessimisticamente.
Un altro carattere proprio del diritto naturale è - come già poco sopra
accennammo - il radicalismo; carattere strettamente collegato a quello razionalistico. Per sua natura, il razionalismo non tollera compromessi, sviscera con
implacabile coraggio le estreme conseguenze dei suoi presupposti, e proprio
perciò giunge a conclusioni radicali. Inoltre esso, come si è detto, è più proiettato
verso il futuro che non ripiegato ed interessato al passato. Non per nulla il giusnaturalismo ispirÒ largamente la rivoluzione americana (I 776) e la rivoluzione
francese ( 1789).
II
· ALTHUSIUS, GROZIO E PUFENDORF
Come primo esponente del giusnaturalismo possiamo ricordare Johannes
Althusius (1 557-1638), la cui opera maggiore vide la luce nel 1603: Politica
methodice digesta et exemplis sacris et profanis illustrata. All'inizio del xvn secolo
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Il giusnaturalismo
Althusius ottenne anche una chiamata all'università di Leida - dove si formerà
Grazio - ma rifiutò, preferendo esercitare la carica di sindaco della cittadina
tedesca di Emden, ove si trattenne sino alla morte.
Il fondamento della dottrina di Althusius è il concetto della sovranità popolare. La sovranità è per lui « connaturata » al popolo, sicché il popolo non può
alienarla, neppure se volesse farlo. Essa trae origine dal modo stesso onde si è
costituita ogni società umana: società che non può venir concepita se non facendo
appello a un contratto espresso o sottinteso(« pacto expresso vel tacito») che ha
organizzato gli individui in un corpus .rymbioticum.
Il popolo, una volta costituito come tale, si troverà poi spinto - dall'esigenza di convivere in società civile- a delegare ad uno o più individui l'esercizio
effettivo della propria originaria e indivisibile sovranità. Ma il re o l'assemblea
rappresentativa che esercitano la sovranità sono depositari solo dell 'usufrutto
di un bene che spetta al popolo. Anche l'esercizio della sovranità viene revocato
a sé dal popolo non appena colui che ne era usufruttuario cessa dalla carica o
viene meno ai suoi compiti; chi volesse conservare il potere dopo la revoca
popolare, cessa di essere sovrano e diviene tiranno.
Althusius distingue due tipi di procuratori: gli efori ed un summus magistratus.
Gli efori sono le colonne dello stato, la sua infrastruttura: sorvegliano l'applicazione delle leggi ed assistono il sommo magistrato; lo sostituiscono nei periodi
di vacanza. Non si deve tuttavia sopravvalutare la democraticità di Althusius:
egli prevede sì che gli efori siano eletti con plebiscito, ma non esclude che poi
conservino la carica per via ereditaria o, addirittura, che ne vengano investiti
per iniziativa del sommo magistrato.
Al culmine dello stato è il sommo magistrato, la cui funzione è regolata dalle
leggi ed intesa all'utile della società. Egli è «sommo» rispetto agli efori ed a
tutti gli inferiori di grado, ma è solo « ministro » di un potere altrui: quello popolare. Anche qui però Althusius introduce sostanziali limitazioni al radicalismo
democratico, ed ammette che il sommo magistrato possa trasmettere la sua carica
per via ereditaria. Egli insiste anche sul fatto che se il contratto da un lato vincola
il sommo magistrato al rispetto delle leggi ed al perseguimento del bene pubblico,
dall'altro vincola i cittadini all'obbedienza.
Ma il vero e proprio fondatore del diritto naturale può essere considerato
Huig van Groot (latinizzato in Grotius) (1583-1645). Nato a Delft, in Olanda,
ancora giovanissimo venne ammesso all'università di Leida, che svolgeva allora
la funzione di fornire quadri dirigenti (sia amministrativi, sia letterari, sia scientifici e sia ecclesiastici) alle Province Unite. L'università di Leida era uno dei principali strumenti di cui la ricca borghesia commerciale riformata si avvaleva per
mantenere il potere; fondata nel 1575, mentre ancora durava la lotta con la Spagna,
aveva anche lo scopo di opporsi all'egemonia culturale cattolica, rappresentata dall'università di Lovanio. Di questa ricca borghesia sovrana Grazio faceva parte per
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Il giusnaturalismo
nascita e per censo, e tutta la sua opera culturale trova un centro unitario nello sforzo di modellare il diritto, la storiografìa ed anche la religione in modo da consolidare il potere della propria classe. Oltre alle molte opere di carattere giuridico, Grazio ci ha lasciato infatti anche scritti sto:riografìci, come gli Anna/es et historiae de
rebus belgicis (la prima stesura è del I6u) e l'opera De antiquitate rei publicae
batavicae (I 6 10), il cui intento era di mostrare il « diritto » e la « vocazione »
storica delle Province Unite all'indipendenza, ed opere di carattere teologico,
come il De veritate religionis christianae (I627).
Queste opere teologiche furono motivate, più o meno mediatamente, dalla
violenta crisi religiosa e politica che colpì le Province Unite all'inizio del xvn
secolo. Essa traeva origine da violenti contrasti dottrinari tra i liberali e tolleranti
arminiani da un lato, ed i fanatici ed ortodossi gomaristi dall'altro (il nome dei
due schieramenti derivava da Jakobus Arminius, q6o-I6o9, e François Gomarus,
1563-164I). Dal punto di vista esclusivamente teologico, la disputa riguardava la
dottrina calvinista della predestinazione; ma ciò che interessava Grazio erano soprattutto le sue implicazioni politiche. Gli arminiani sostenevano una predestinazione « condizionata »: ammettevano cioè che gli uomini fossero ab aeterno predestinati o alla salvezza o alla dannazione, ma negavano che gli atti dell'uomo non
avessero alcun peso in questo destino, giacché nel formulare il decreto di predestinazione dio avrebbe tenuto conto, sin dall'eternità, della perseveranza, della
fede di ogni singolo uomo. I gomaristi sostenevano invece la predestinazione
assoluta, rigorosa, senza nessun intervento da parte dell'uomo per condizionarla
o tanto meno modifìcarla. Dal punto di vista politico e dei rapporti tra stato e
chiesa, gli arminiani erano assai tolleranti, e riconoscevano allo stato il diritto di
dirimere questioni di carattere teologico, stabilendo una base dottrinaria comune
alle varie scuole e sette, al di sopra della quale poteva vigere una varietà di confessioni religiose. Indicativamente, per debellare i gomaristi, gli arminiani si rivolsero
all'autorità civile, esponendo le proprie tesi in una Rimostranza (donde il nome
di « :rimostranti » e « controrimostranti » con cui spesso si designano arminiani e
gomaristi).
Uscito dall'università, Grazio si era dedicato all'avvocatura ed aveva iniziato una intensa attività politica, svolgendo importanti mansioni pubbliche nell'ambito della élite dirigente delle Province Unite. Tra l'altro svolse importanti
missioni sia in Francia, presso Enrico IV, sia in Inghilterra, presso Giacomo r.
Grazio appoggiò il partito dei rimostranti, ma il suo scopo non era tanto di ottenere la vittoria della tesi della predestinazione condizionata contro quella della
predestinazione assoluta, bensì di mantenere le dispute teologiche entro un ambito di reciproca tolleranza, che non rischiasse di mettere in crisi la compagine
politica e sociale di cui egli era interprete e :rappresentante. Grozio e la classe
di ricchi e colti borghesi cui apparteneva erano ben coscienti del pericolo che le
divergenze teologiche paralizzassero la vita civile e tornassero a vantaggio della
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Il giusnaturalismo
vecchia aristocrazia feudale, favorevole ai gomaristi perché contraria ad ogni
liberalizzazione economica, giuridica, politica e sociale. Ma i rimostranti e la
borghesia liberale di Grozio vennero sconfitti: al sino do di Dordrecht (I 6 I 8- I 9)
agli arminiani fu imposto il silenzio; essi vennero banditi e perseguitati, e Grozio
condannato al carcere a vita. Dopo due anni riuscì fortunosamente ad evadere
ed a raggiungere Parigi, ove nel I6z5, facendo tesoro dell'esperienza politica
che aveva vissuto, dettò il suo capolavoro, De iure belli ac pacis.
La grande novità di quest'opera è soprattutto di carattere metodologico.
Prese una per una, molte delle norme proposte dal De iure belli ac pacis possono
essere trovate nel diritto romano, medievale e nella seconda scolastica spagnola.
Ma profondamente nuovo è l'atteggiamento di assoluto razionalismo con cui
Grozio tratta il diritto, ed a ragione, per questi motivi, il suo giusnaturalismo
viene chiamato « moderno». Di fronte alla constatazione della caducità e parzialità delle convinzioni giuridiche e politiche, caducità e parzialità prodotte dalle
divisioni fra gli uomini riguardo ai problemi della religione e della vita, Grozio
ritiene di dover ricercare altre basi, più solide e più costanti, sulle quali fondare
i principi del diritto; basi che egli pensa si possono « trovare » nella natura delle
cose e degli uomini. I concetti giuridici che così si possono enucleare sono indipendenti dalla fede e da qualsiasi ordinamento. teologico. Grozio è tutt'altro che
ateo, ed ha grande cura di evitare che gli possa esser mossa questa accusa; tuttavia
egli afferma con decisione che i fondamenti del diritto si trovano nella natura, e
come tali avrebbero validità anche se dio non esistesse: « Tutto ciò che abbiamo
detto sinora sussisterebbe in certo modo ugualmente anche se ammettessimo
- cosa che non può farsi senza empietà gravissima - che Dio non esistesse o
che Egli non si occupasse dell'umanità. »
Un altro importante corollario del razionalismo giuridico di Grozio è che
se il diritto ha un fondamento naturale, esso può essere dedotto in modo sistematico, secondo la sua intima coerenza e necessità. «Per essere una scienza,
il diritto deve fondarsi non sull'esperienza ma sulle definizioni, non sui fatti
ma sulle deduzioni logiche. Ne consegue che soltanto i principi del diritto di
natura possono propriamente costituire una scienza; e tale scienza deve essere
costruita lasciando da parte tutto quello che è soggetto a cambiamento e che
muta da un luogo ad un altro » (Passerin d 'Entrèves). Scrive infatti Grozio:
« Anzitutto mi sono preoccupato di ricollegare le prove del diritto naturale a
nozioni così evidenti che nessuno possa negarle senza far violenza a se stesso:
infatti i principi di tale diritto, se appena si guardi attentamente, sono manifesti
di per sé ed evidenti quasi come ciò che percepiamo per mezzo dei sensi esterni. »
Come tutto il razionalismo del Seicento, anche Grozio è portato a sottolineare
l'analogia tra il proprio metodo e quello della scienza ritenuta assolutamente
rigorosa, la matematica.
Come dio non può far sì che due per due non faccia quattro, così non può
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Il giusnaturalismo
far sì che le norme del diritto naturale siano altre da quelle che per natura sono.
La mia scienza del diritto, afferma Grozio, è, sotto questo riguardo, altrettanto
rigorosa, necessaria ed astratta quanto la matematica: « In verità io dichiaro esplicitamente che, come i matematici considerano le figure facendo astrazione dai
corpi, così io, nel trattare del diritto, ho distolto il pensiero da qualsiasi fatto
particolare. »
Premesso che la natura dell'uomo è la socialità, bisogna ammettere l'esistenza
di un istinto sociale nell'individuo, che è così spinto ad unirsi agli altri individui:
questa forma istintiva e spontanea di agglomerazione sociale, è appunto lo stato
di natura (di cui tanto discorreranno i filosofi posteriori), e la sua legge è il diritto
naturale: un diritto cioè che non comporta alcun atto imperativo o volontario,
ma che è fondato esclusivamente sul consenso spontaneo dell'individuo. Per la
complessità delle sue esigenze e dei suoi interessi, l'uomo costituisce, mediante
libero contratto con i suoi simili, lo stato; con il contratto sorge il diritto civile
che ha sempre come fondamento il diritto naturale, ma che presenta come sua
caratteristica la volontarietà e la obbligatorietà dei suoi precetti (s'intende che
questi precetti trovano la loro giustificazione nel diritto naturale, dal quale quello
civile non può allontanarsi, a pena di perdere la sua base). Con il patto stipulato,
gli uomini si impegnano all'obbedienza al potere politico e alla tutela delle reciproche proprietà.
Per quanto riguarda il patto originario, Grozio sostiene che esso, essendo
l'emanazione di un atto consensuale verificatosi nello stato di natura, non può
più essere messo in discussione, una volta stipulato, ed è pertanto superiore ad ogni
potere costituito, essendo di questo la fonte e la causa. Nei confronti del potere politico, Grozio non è molto chiaro e sicuro, poiché, pur ammettendo
che esso possa essere limitato o sottoposto a controlli, nega che ad esso ci si
possa ribellare.
L'insegnamento di Grozio ed Althusius verrà ripreso, nella seconda metà
del xvn secolo, da Samuel von Pufendorf (1632-1694), autore del De iure naturae
et gentium ( 167 z); egli si sforzerà di tener conto anche della rivoluzione portata
nel giusnaturalismo dalla teoria di Hobbes, che - come vedremo - sostenne
fermamente la necessità di riconoscere la preminenza del fattore utilitaristico e
volontaristico nella costituzione del contratto statale. Secondo il Pufendorf, nello
stato di natura si può rilevare uno sviluppo di forme associative elementari e
primitive, che precedono e preludono alla costituzione dello stato; tali forme
sono basate sul principio dell'eguaglianza dei loro membri, e sull'assenza di una
autorità più alta che ne regoli la vita, determinata soltanto dalla legge naturale.
Ma, poiché questo è uno stadio imperfetto e insoddisfacente della civiltà, si giunge
alla formazione dello stato mediante un pactum unionis, che unifica le diverse
societates aequales, e poi mediante un pactum subiectionis il quale, dando origine al
potere sovrano, divide i membri della societas aequalis unificata in sovrano e
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Il giusnaturalismo
sudditi: questi soggiacciono' al potere del sovrano, o imperium, che, pur potendo
essere condizionato dalle norme del pactum subiectionis e dagli organismi appositamente predisposti, non può essere ceduto o diviso.
III
· IL PENSIERO POLITICO DI HOBBES
Hobbes è il più coerente, il più spregiudicato ed il più conseguente teorico della supremazia del potere statale. Il suo pensiero politico è indissolubilmente ancorato a tutto l 'impianto materialista della sua opera, tanto che uno
dei suoi maggiori scritti politici, il De cive ( 1642.) fa parte - come sappiamo
dal capitolo m - della grande trilogia (insieme al De corpore e al De homine)
con la quale Hobbes ambiva dare una sistemazione scientifica rigorosa a tutto il
mondo naturale ed umano. Attento lettore di Tucidide e di tutta la pubblicistica
politica rinascimentale, nonché attivo partecipe della lotta politica del suo tempo
(quale convinto assertore dei diritti della corona contro il parlamento) nel De cive
e nel Leviathan ( 16 51) Hobbes elevò una poderosa costruzione a sostegno dello
stato centralizzato, assoluto, efficiente e retto da criteri esclusivamente utilitaristici.
L'età in cui Hobbes si formò fu sconvolta dalle più grandi, e anche atroci,
lotte che le forze nuove, sostenitrici dello stato moderno, dovettero combattere
per vincere gli ostacoli che si opponevano alla sua affermazione. Fra questi ostacoli il primo era costituito dall'autorità religiosa che, in nome dello spirito,
pretendeva di sottoporre l'autorità statale al suo controllo; un altro ostacolo
era costituito dall'educazione individualistica, risalente all'età rinascimentale,
che tendeva a contenere la giurisdizione dello stato, in modo che non fosse toccata
in alcuna misura l'indipendenza dell'individuo. Contro queste forze avverse,
Hobbes afferma perentoriamente l'unità del potere statale entro l'ambito del suo
territorio. Nessuna autonomia può rivendicare l'individuo, parte integrante della
compagine statale; nessuna indipendenza spetta alla chiesa, rigidamente subordinata al potere civile.
In questo atteggiamento, il nostro autore si ricollega direttamente a Machiavelli; da lui attinge infatti il concetto dell'autorità statale, la nozione dell'assoluta indipendenza di questa da ogni limitazione moralistica o fideistica, e la
spregiudicata dichiarazione dell'illimitatezza della sovranità dello stato sui suoi
sudditi. Senonché, mentre Machiavelli, per convalidare le sue asserzioni e comprovare i consigli sull'arte di governare dati al suo principe, si rifaceva all'autorità
della storia, magistra vitae (e in ciò non differiva molto dai suoi seguaci dell'epoca
della controriforma, che s'appelleranno all'autorità dei testi sacri, per dimostrare
l'origine divina del potere sovrano), Hobbes, invece, ripudiando il metodo
dell'autorità, si rifà apertamente al proprio razionalismo filosofico, e da questo
trae le conseguenze di carattere politico.
Le tesi giusnaturalistiche trovarono in Hobbes una notevole valorizzazione
e una grande estensione ma al tempo stesso vennero capovolte. Egli parte dalla
2.82.
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Il giusnaturalismo
considerazione dello stato di natura così come era stato esposto, nei suoi elementi
e nei suoi aspetti, da Grozio, ma - avendo accertato ed asserito, in concordanza
con i principi della propria gnoseologia, che l'uomo, fuori della civiltà, è pura
sensibilità - giunge alla conclusione che la sua condizione, nello stato di natura,
è quella dell'« homo homini lupus ». È, in altri termini, uno stato di « bellum
omnium contra omnes », fondato sull'istinto di aggressione, e, per converso, su
quello di paura: situazione palesemente contraddittoria, per cui, mentre da un lato
l'uomo è portato a nuocere al suo simile, seguendo il proprio istinto aggressivo,
per un altro lato è succube di uno stato di terrore, cioè della paura di restare a sua
volta vittima dell'altrui spirito aggressivo. Tale stato di guerra potrà aver termine
solo con la costituzione dello stato; di qui la necessità in cui vengono a trovarsi
gli individui di dare origine, mediante il contratto sociale, allo stato. Questo
consiste in un potere superiore agli stessi individui, dotato della capacità di reprimere e impedire il ricorso alla violenza individuale, capace quindi di por
termine allo stato di guerra e di instaurare la pace.
Si osservi, a questo proposito, che mentre lo stato di natura è una situazione
assurda di istintività (assurda per l'anzidetta contraddizione insita in esso), lo
stato civile, che è invece un'opera della ragione, è l'antitesi di uno stato di natura.
Perciò lo stato non può avere altra origine che quella derivante da una convenzione
stipulata dagli individui che lo compongono.
Rispetto ad Althusius e Grazio, Hobbes apporta però una fondamentale
innovazione alla teoria del contratto. Prima di lui il giusnaturalismo aveva sempre
ritenuto che quello tra governati e governante fosse un contratto tra « uguali »,
per cui, anche dopo la stipulazione di esso, al popolo restavano inalienabili diritti,
che potevano concretarsi nello scioglimento del contratto e nella revoca del potere
concesso (al sovrano, al sommo magistrato o all'assemblea). La base di questa
convinzione di Grozio ed Althusius consisteva nella assunzione che anche prima
del contratto gli uomini fossero riuniti in una « società civile », seppur meno efficiente e meno perfetta, e che la delega di poteri al sovrano o ad un'assemblea fosse
fatta da due persone giuridiche: il popolo costituito in società civile da un lato, ed
il delegato all'esercizio della sovranità dall'altro.
Secondo Hobbes, questa concezione dà luogo ad una diarchia di potere
che intralcia in modo pernicioso la vita dello stato, scatena la lotta delle fazioni,
induce continuamente gli ambiziosi e gli ecclesiastici a mettere in questione il
potere sovrano basandosi sulla supposizione che anche a loro, in quanto membri
del popolo contraente, spetti qualche diritto alla sovranità, o quanto meno al
controllo su di essa. Per scalzare dalle fondamenta questa diarchia, Hobbes
sottopone ad una analisi assai più attenta di quella svolta dai suoi predecessori
lo stato di natura anteriore al contratto, ed arriva alla concezione, veramente
rivoluzionaria per il giusnaturalismo, che lo stato civile non è affatto nato da un
contratto stipulato tra una società civile già esistente ed il sovrano. Scrive Hobbes
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Il giusnaturalismo
nel De cive: «Tutte le leggi si possono dividere in primo luogo, in base alla differenza dell'autore, in divine e umane. La legge divina è di due specie, secondo i
due modi in cui Dio può rendere nota la sua volontà agli uomini: naturale (o
morale) e positiva. Naturale è quella che Dio ha manifestato a tutti gli uomini
per mezzo della sua parola eterna, in loro innata, cioè per mezzo della religione
naturale. Positiva è quella che Dio ci ha rivelata attraverso le parole dei profeti ...
Tutte le leggi umane sono leggi civili. » La novità di Hobbes sta in questo:
nel rivelare come le leggi naturali, seppur poste negli uomini da dio, sono in
pratica inefficaci.
Nello stato di natura il singolo uomo avverte senza dubbio la legge naturale
« Tu non ucciderai ». Ma questa legge lo obbliga soltanto in coscienza, non di
fatto; per rispettarla di fatto, l 'uomo singolo dovrebbe essere certo che anche i
suoi simili la rispetteranno, cioè che egli non sarà ucciso. Ma poiché gli manca
questa garanzia di reciprocità, egli di fatto non è tenuto all'osservanza della legge
naturale, che resta allivello di una mera sollecitazione inefficace. Lo stato di natura
non è quindi affatto, come affermavano Grozio e Althusius, uno stato in cui già
vigeva una forma di convivenza civile tra gli uomini, una comunità che come tale
aveva la personalità giuridica atta a farle stipulare un contratto statale; esso è
fatalmente, come si è detto, uno stato di guerra totale.
Se dunque gli uomini naturali non sono una società civile, non hanno nemmeno la personalità giuridica per stipulare un contratto. Il contratto quindi
per Hobbes non è più tra due persone giuridiche (popolo come società civile e
sovrano), ma un contratto fatto fra molti individui « singoli ». Hobbes quindi « sostituisce al contratto tra popolo e sovrano un contratto tra ogni singolo e gli
altri. Solo per un istante, in forza di questa unione di volontà singole (che vogliono
sfuggire alla calamità della libertà naturale) la folla diventa persona (giuridica),
per perdere tale qualità immediatamente dopo e in quell'atto stesso, in forza
dell'inevitabile alienazione di ogni volontà e di ogni sovranità in favore del
sovrano. Costituito lo stato, l 'intera sovranità del popolo passa senza riserve in
quella del sovrano, sia questo la personalità fisica di un singolo, sia essa invece
la personalità artificiale dell'assemblea: soltanto in essa (personalità sovrana) e
per essa il popolo è persona, mentre senza di essa, è semplice folla e quindi non
può assolutamente essere pensato soggetto di un qualsiasi diritto di fronte al
sovrano» (Gierke). Il contratto hobbesiano è ovviamente indissolubile, dato che
potrebbe essere sciolto solo da un atto che riunisse di nuovo tutti gli individui
singoli e che ottenesse anche il consenso del sovrano, unico detentore di personalità giuridica.
In certo modo, Hobbes si è quindi avvalso del giusnaturalismo per abbatterlo.
Come ha rilevato Norberto Bobbio, «per Hobbes le leggi naturali sono quelle
leggi che nello stato di natura non vigono ancora e nello stato civile non vigono
più»; «la legge naturale mette tutta la sua forza al servizio del diritto positivo,
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Il giusnaturalismo
e così facendo muore nel momento stesso in cui dà alla luce la sua creatura ».
Nella società civile infatti ha valore solo la legge emanata dal sovrano, cosicché
si torna al principio « quod principi placuit, legis habet vigorem ». Il potere sovrano è assolutamente illimitato ed illimitabile, non responsabile di fronte a nessuno, onnipotente, libero da ogni obbligo o dovere nei confronti dei sudditi. Anche
affermare che il sovrano è sì il « sommo » potere, ma esclusivamente rispetto ai
sudditi presi singolarmente non rispetto al popolo nel suo complesso, è per
Hobbes una assurdità: «Vi è poco fondamento all'opinione di quelli,» scrive
nel Leviathan, « i quali dicono che i re, quantunque siano singuli majores, con più
grande potere che ciascuno dei loro sudditi, sono però universis minores, con potere
minore di tutti i loro sudditi insieme. »
Si noti il metodo assolutamente razionalistico di cui si serve Hobbes nel
suo ragionamento: egli applica alla scienza politica, o - come si diceva - alla
filosofia civile, il metodo delle scienze naturali, della composizione (o sintesi)
e della scomposizione (o analisi) e tutto con una logica stringente, con una serrata
argomentazione che sconvolge e smarrisce gli avversari. Ma la forza principale
del discorso hobbesiano sta nella sua assoluta spregiudicatezza e, se si vuole,
nel suo cinismo. Come in logica egli è nominalista, così nell'etica è un convenzionalista: non esistono verità eterne, che traggano forza dall'origine divina, o
verità naturali, ma solo norme convenute fra gli uomini. Ma il suo cinismo trae
motivo dalla necessità di affermare, in modo chiaro e senza mezzi termini, l'autorità indiscutibile dello stato, e di difendere questa autorità dalla minaccia di
soggezione all'autorità di una chiesa. Di fronte a tutti gli attacchi che venivano
mossi all'autorità dello stato in nome di altri principi (quali quello della libertà
dell'individuo o dell'autorità religiosa), Hobbes conclude che solo nello stato
vi è il trionfo della ragione, della pace e della sicurezza.
IV
· IL RAZIONALISMO POLITICO DI SPINOZA
Abbiamo già menzionato, parlando di Spinoza, il Tractatus theologico-politicus
e il Tractatus politicus, le due opere di argomento prevalentemente politico da lui
scritte. Se per un lato esse si inseriscono coerentemente nel complesso quadro del
pensiero filosofico spinoziano, per l'altro si legano strettamente allo sviluppo
generale del giusnaturalismo; ed è proprio per questo motivo che abbiamo preferito parlarne qui anziché nel capitolo precedente.
Il tema specifico che il nostro autore mutua dall'indirizzo giusnaturalistica
è la teoria hobbesiana dello stato di natura e del passaggio da tale stato a quello
civile. Vi introduce però alcune importanti innovazioni, derivate dalla concezione
generale che egli possiede della natura e dell'uomo.
« Poiché Dio ha diritto ad ogni cosa e questo diritto non è altro che la stessa
potenza di Dio, in quanto questa viene considerata come assolutamente libera,
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Il giusnaturalismo
ne segue, » scrive Spinoza, « che ogni cosa naturale ha per natura tanto di diritto
quanta è la sua potenza ad esistere e ad operare. » Ciò vale in particolare per
l'uomo; e poiché la potenza dell'individuo umano è connessa alla sua capacità
di vivere secondo ragione, ne segue che il diritto di natura risulta a rigore determinato per lui dalla sola potenza della sua ragione(« sola rationis potentia »). «Ma
gli uomini si regolano più in base alla cieca cupidigia che in base alla ragione; e
pertanto la " potenza naturale degli uomini ", cioè il loro " diritto ", deve venir
definita non mediante la ragione, ma mediante l'appetito, qualunque esso sia, da
cui sono determinati ad agire e sono indotti a conservare se stessi. » Ne segue che
essi, in quanto dominati dagli appetiti, agiscono nel proprio esclusivo interesse
senza badare a quello altrui, e cioè « sono per natura nemici » ( « homines ex natura
hostes »).In questo stato- che ricorda da vicino lo stato di natura di Hobbes- il
loro diritto naturale si rivela in realtà nullo, perché nulla è la loro sicurezza. Di qui
la necessità di uscire dal primitivo isolamento, per costruire una collettività cui
devolvere, mediante un patto, i propri fondamentali diritti. Lo stato civile, sorto
da questo patto, dovrà dunque avere un'autorità assoluta sui suoi cittadini, e
non dovrà esistere altra autorità al di fuori di quella statale.
Fino a questo punto Spinoza sembra non allontanarsi dal modello hobbesiano. A ben esaminare la questione, non è però difficile scorgere nel sistema
spinoziano un'intonazione nuova, che differenzia profondamente la sua concezione da quella del filosofo inglese: l'inserimento dei singoli individui nella compagine statale è esclusivamente dovuta, secondo il nostro autore, alla maggiore
sicurezza che l'organismo statale offre al benessere dei singoli; solo per questa
prospettiva essi sono disposti a rinunciare a quella libertà di cui godevano nello
stato di natura. In effetti, se tutti i cittadini si lasciassero guidare dalla ragione,
comprenderebbero agevolmente che soltanto nell'ordinamento dello stato essi
possono fruire della loro vera libertà, poiché liberi da ogni attrattiva della passione possono seguire la via indicata dalla ragione.
Da quanto ora detto risulta chiaro che Spinoza considera l'ordinamento politico come la causa strumentale per il conseguimento degli ideali etici della sua
filosofia. La differenza che egli stesso poneva fra le proprie idee e quelle dell'inglese Hobbes sta appunto nel fatto che, mentre lo stato hobbesiano assorbe in
sé i sudditi per annientare la loro autonomia, il suo mira invece a proteggere e
ad assicurare le prerogative dei cittadini, conglobandole nei fini per i quali è
sorto. L'attribuzione al potere statale di tutta la sovranità popolare fu fatta a
ragion veduta; sono quindi gli stessi sudditi che gliela conferiscono, per riceverne sicurezza e protezione. E del resto questo conferimento non potrà mai
essere tale che l 'individuo cessi in seguito ad esso di essere uomo: « Nemo unquam
suam potentiam, et consequenter neque suum jus ita in alium transferre poterit, ut
homo esse desinat » ( « Nessuno potrà mai trasferire ad altri le proprie potenze,
e di conseguenza neppure il proprio diritto, in modo da cessare di essere uomo»).
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Il giusnaturalismo
In altri termini lo stato, pur nella sua onnipotenza, non può - secondo Spinoza - rendere schiavo il pensiero individuale, non può assoggettare la ragione.
Perciò il cittadino che è capace di imporre a se stesso il dominio della ragione,
non sarà mai schiavo. La schiavitù è causata solo dal fatto che un individuo
esegua delle azioni che giovino non a lui ma a chi le ha comandate; poiché lo
stato comanda azioni utili a tutti, esso non può avere per fine la schiavitù dei
cittadini, ma la loro autentica libertà: « Finis rei publicae revera libertas est. »
Certo, possono esservi delle forme imperfette di stato, le quali non sono tali
da realizzare perfettamente i propri fini; fra le tre forme di governo - monarchico, aristocratico e democratico - dettagliatamente analizzate nel Tractatus
politicus, Spinoza preferisce quest'ultima, che è la più naturale, e insieme la più
sicura garante dell'uguale libertà dei suoi sudditi; le altre due sono considerate
deformazioni della forma democratica.
È comunque evidente che il nostro filosofo mira qui a comporre la discordanza tra la sua concezione monistica dell'universo, per cui ognuno è parte di
un'unica sostanza, e i suoi ideali di libertà, ideali per i quali egli affrontò diverse
rinunce nella sua vita ed ai quali si mantenne sempre fedele. Non è tanto importante che egli sia riuscito nel suo scopo, quanto che abbia saputo impostare il
problema con assoluta chiarezza. In questa parte della speculazione spinoziana,
come anche nell'etica, sono forse più evidenti che altrove le difficoltà che derivano dalla impossibilità di stabilire un effettivo accordo tra l 'ideale teoretico di
un universo ordinato (senza possibilità di eccezioni) in base al principio della
razionalità geometrica, e l'ideale pratico della libertà e dell'autonomia della persona umana. Non sarebbe giusto far carico a Spinoza di non averle sapute risolvere: solo nella successiva filosofia kantiana i due ideali riusciranno a raggiungere
un primo punto di contatto.
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CAPITOLO SESTO
Il problema dell'educazione nel XVII secolo.
Il giansenismo
DI RENATO TISA TO
CONSIDERAZIONI GENERALI
Lo sviluppo della cukura europea nel corso del xvii secolo presenta un andamento molto diseguale a seconda che lo si consideri nei paesi che si avviano
ad assumere una funzione di guida nel concerto delle potenze europee, quali la Francia e l'Inghilterra, oppure in quelli che, come la Spagna e l'Italia,
sentono maggiormente l'azione frenante della controriforma o, come la
Germania, vengono addirittura ributtati indietro dalla tragedia della guerra dei
trent'anni.
Il quadro che ci accingiamo a dare assume, pertanto, un carattere meramente
indicativo e comunque si ispira prevalentemente alla situazione francese. D'altro
canto alcuni elementi essenziali di tale quadro sono già stati introdotti nei capitoli della sezione m nei quali si è parlato della riforma e di Comenio, della controriforma, dei gesuiti e del La Salle; altri, viceversa, saranno presi in esame più
avanti, quando tratteremo delle ripercussioni, nel campo della cultura, della rivoluzione inglese ed esporremo il pensiero pedagogico di Locke.
Il XVII secolo è caratterizzato da un sensibile allargamento degli ambienti
intellettuali e, conseguentemente, dal carattere meno specialistico della loro preparazione media. Uno dei fenomeni più notevoli di questa età è costituito dal
progressivo affermarsi dei ceti borghesi e dal generale avvicinarsi e mescolarsi
delle varie classi. Vaste masse sono animate da ambizioni politiche e culturali.
La borghesia si nobilita; anzi si arriverà ad asserire che «un perfetto mercante
è quanto v'ha di meglio come gentiluomo nella nazione e che in fatto di cultura,
di buone maniere, di buon senso, il mercante è di gran lunga superiore a molti
nobili».
Con l'impetuoso affacciarsi della classe borghese laica al mondo della cultura
si registrano importanti mutamenti d'impostazione generale, come si è visto
nel capitolo I. La maggiore novità è l'imporsi di problemi pratici, legati al mondo
dei fiorenti commerci marittimi, della produzione agricola ed artigianale, delle
prime manifatture. Il nuovo pubblico al quale le opere culturali, sia filosofiche
sia tecnico-scientifiche, si rivolgono impone una sempre maggiore diffusione del2.88
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Il problema dell'educazione nel xvu secolo. Il giansenismo
l'uso del volgare, e grandi autori come Cartesio, Hobbes e Locke composero
in volgare parte dei loro capolavori. Alla mutata situazione politico-culturale
va in gran parte ricondotta anche l'esigenza di filosofare ed esporre in modo chiaro e piano, accessibile alla mentalità agile e pratica della classe sociale in ascesa,
per sua natura indifferente a sottili disquisizioni teologiche o metafisiche, ansiosa
di appropriarsi di strumenti culturali che le permettano di sopperire ai bisogni
della ricca e varia vita profana e di conseguire sempre maggiori successi economici e politici.
Sul piano strettamente pedagogico, vien fatto di chiedere quale sia l'influsso
esercitato dalla nuova scienza e, in particolare, dalla nuova metodologia. Qual è
l'influenza esercitata nel campo dell'educazione dal clima in cui sorgono e si
svolgono le grandi correnti dell'empirismo e del razionalismo?
Nota il Compayré che il Discorso sul metodo contiene parecchi dei grandi
principi che servono di base alla pedagogia moderna: l'affermazione della relativa eguaglianza delle intelligenze e, conseguentemente, del diritto di tutti
all'istruzione; il diritto di ogni uomo a costituirsi artefice delle proprie convinzioni, a pensare con la propria testa; l'opportunità di estendere al campo dell'educazione il procedimento di indagine adottato dalla scienza; la necessità di muovere da conoscenze certe prima di abbandonarsi alle sottigliezze della dialettica. Nota ancora, il suddetto storico della pedagogia, come su
questi punti si realizzi una convergenza del pensiero di Descartes e di quello
di Bacone.
Naturalmente, parlando di Descartes e del cartesianesimo, vien fatto di mettere in primissimo piano l 'importanza che la centralità della matematica non può
non assumere anche nel settore pedagogico. Orbene: è indiscutibile che tanto
fermento scientifico e filosofico non ha una ripercussione adeguata nel campo
dell'educazione. Invano cercheremmo, nel secolo di Galileo e di Descartes, una
radicale e generale riforma degli ordinamenti scolastici corrispondente al rinnovamento della coscienza scientifica. Sarà necessario giungere alla seconda metà
del Settecento per assistere ad un apprezzabile processo di rinnovamento.
Ciò non significa, ovviamente, che taluni importanti fermenti non costituiscano, già nel xvrr secolo, altrettanti sintomi del maturare dei tempi nuovi;
in tal senso deve essere considerata l'opera degli oratoriani, dei giansenisti e
dei pietisti che precisamente sotto questo punto di vista analizzeremo nei prossimi paragrafi.
Complessivamente, però, dall'università alla scuola primaria e popolare alle
iniziative per l'educazione della donna, prevale nettamente, ancora, lo spirito
della controriforma incarnato nelle istituzioni gesuitiche e lasalliane.
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II
· GLI ORATORIANI E L 'EDUCAZIONE SCIENTIFICA
L'influenza del nuovo clima culturale nel campo dell'educazione è specialmente ravvisabile nel programma della congregazione degli oratoriani, fondata
nel 16II dall'abate e futuro cardinale Pierre De Berulle.
L'ordine dell'Oratorio di Gesù Cristo nasce, in realtà, con lo scopo primario
di promuovere, mediante la vita di comunità, il perfezionamento di un certo
numero di sacerdoti, rendendoli atti a diffondere e consolidare la religione in
mezzo al popolo. Ben presto, però, assume il carattere preminente di ordine insegnante. Si ispira al principio dell'accettazione volontaria della regola e alla
libera pratica delle virtù cristiane. Non esistono voti irrevocabili: i religiosi possono abbandonare l'Oratorio senza essere accusati di apostasia. L'obbedienza è
basata essenzialmente sul potere dell'amore cristiano. Il superiore dell'ordine
risiede in Francia, è sottomesso alla giurisdizione dei vescovi francesi e la sua
autorità è subordinata a quella dell'assemblea generale. «La nostra politica, »
si vantano, « è di non far politica ... »
Questi propositi ed ordinamenti mettono in rilievo la profonda diversità
che separa e spesso contrappone gli oratoriani ai gesuiti. Questi ultimi, effettivamente, non perdonano ai concorrenti i loro successi e non perdono alcuna occasione per nuocere loro, giungendo, col padre Le Tellier, confessore di Luigi XIV, fino ad insistere per la radicale soppressione dell'ordine. Senonché la
già accennata sottomissione ai vescovi e la residenza del superiore in Francia
hanno fatto dell'Oratorio un'istituzione nazionale. Perciò a nulla approdano le
congiure gesuitiche: ed anzi, dopo l'espulsione dei gesuiti, cioè a partire dal
1 76z, toccherà ai seguaci del Berulle di assumere la pesante eredità lasciata dalla
compagnia.
Ciò non toglie che, non potendo e neppur volendo entrare in diretta ed
aspra concorrenza, gli oratoriani evitino le grandi città, impiantando i loro collegi in città medie o in semplici borghi. Questo fatto assume una grande importanza storica in quanto permette l'accesso allo studio secondario da parte di
ragazzi appartenenti alla piccola borghesia artigianale e contadina. In questa
direzione opera anche la creazione degli internati e di piccoli pensionati nella
casa degli stessi maestri.
A causa del numero limitato dei sacerdoti disponibili, le classi vengono spesso
affidate a « confratelli » laici, integrati nella congregazione in base a uno statuto
speciale. Si tratta perlopiù di giovani usciti di fresco dal collegio e attratti dal
desiderio di imitare e proseguire l'opera dei loro insegnanti. Dopo un anno di
formazione spirituale, essi vengono mandati nelle scuole dove cominciano a
svolgere la loro opera nelle classi inferiori.
Teorizzando l'opportunità di un simile procedimento, il padre Houbigant
scrive nel 1732 che la funzione insegnante giova ai giovani confratelli per tre
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Il problema dell'educazione nel xvu secolo. Il giansenismo
ragioni: appaga il loro bisogno di comunicare quello che sanno; prospetta loro
un fine sociale e concreto da raggiungere; li mette nella necessità di imparare e
di perfezionarsi per insegnare meglio. Un altro aspetto della formula oratoriana
relativa al reclutamento riguarda i frequenti cambiamenti di residenza dei giovani insegnanti, abitudine che viene considerata valida garanzia contro il pericolo
di cadere in una routine.
Durante i primi decenni i collegi oratoriani non usano un metodo uniforme.
L'unificazione disciplinare, programmatica e didattica verrà realizzata fra il 1634
e il I 64 5 con la Ratio studio rum a magistris et professoribus Oratorii Domini Jesu
observanda, opera dei padri Condren e Morin. Contrariamente a quella gesuitica
e alla Condotta lasalliana, la Ratio dell'Oratorio si limita a fissare delle norme essenziali. Per il resto non solo concede, ma addirittura raccomanda agli insegnanti
di sforzarsi di perfezionare il metodo sulla base di esperienze personali.
Gli storici della pedagogia sono soliti sottolineare l'amicizia del Berulle
per Cartesio e l'influenza cartesiana sullo spirito delle scuole oratoriane. A .
questo proposito è doveroso notare come la fondazione di dette scuole preceda
di parecchi anni la pubblicazione del Discorso sul metodo (1637) e delle Meditazioni
metaftsiche (1641). In realtà il pensiero del Berulle e dei suoi confratelli si muove
lungo la linea platonico-agostiniana, ciò che lo rende particolarmente idoneo ad
assimilare i motivi fondamentali della speculazione cartesiana, anch'essa influenzata da motivi platonizzanti.
Il fine del Berulle, nel campo dell'educazione, è l'attuazione di un piano
in cui l'amore sincero e disinteressato della verità, e quindi il metodo della libera
ricerca, si armonizzi con i principi della vita cristiana. Nelle scuole oratoriane si
studia in primo luogo la lingua nazionale. L'uso del latino è vietato fino al terzo
anno. Il padre Condren redige per il collegio di Juilly una grammatica latina in
lingua francese. Un altro motivo di originalità dell'insegnamento umanistico
nelle scuole dell'Oratorio è costituito dall'importanza attribuita alla spiegazione
dei testi, alle traduzioni orali e alla posizione di netta inferiorità imposta al greco.
Particolarmente curato è lo studio della storia, connesso, secondo un criterio
che resterà in vigore in parecchie scuole fino ai nostri giorni, con quello della
geografia. Le lezioni di storia e geografia sono impartite sempre in francese.
In taluni collegi esistono corsi di musica, danza ed equitazione.
Ma il punto più interessante è quello che riguarda l'insegnamento delle
scienze matematiche e naturali. Finora è stato quasi di prammatica, nelle storie
della pedagogia, fare abbondanti e appassionate lodi all'Oratorio in questo senso.
Attualmente, però, in base ad accurati studi fatti sui documenti, si è giunti a
ridimensionare tutta la questione. In realtà l'insegnamento propriamente detto
delle scienze matematiche, fisiche, chimiche e naturali, integrato nei due ultimi
anni di « filosofia », non è mai stato oggetto, ali 'Oratorio, di una codificazione
generale.
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
Se le direttive ufficiali tacciono, abbiamo però almeno tre testimonianze importanti: le esercitazioni pubbliche sostenute dai migliori alunni in occasione di
distribuzione di premi o di cerimonie straordinarie (molte di esse, poi pubblicate,
vertono su questioni scientifiche che spesso si dimostrano al corrente delle più recenti scoperte); l'esistenza, accertata, di gabinetti scientifici in tutti i collegi;
l'esistenza, nelle biblioteche dei collegi, di libri scientifici molto moderni. Comunque l 'insegnamento delle scienze varia da collegio a collegio in estensione,
intensità e orientamento, ed è evidentemente legato alle circostanze, alle risorse
locali e alla disponibilità di maestri. La prova migliore che, sia pure entro i limiti qui sopra accennati, l 'insegnamento delle scienze nelle scuole dell'Oratorio
deve, tutto sommato, essere considerato una cosa seria, è la pubblicazione 'degli
Entretiens sur /es sciences (1684) e degli Éléments de mathématiques del padre Lamy.
Sul piano più propriamente filosofico gli oratoriani seguono (fino al 1684,
anno in cui è rimesso ufficialmente in onore il peripatetismo) l 'indirizzo cartesiano,
che svolgono però in senso misticheggiante, ciò che aiuta a capire il fatto che dalle
schiere degli ex alunni dell'Oratorio possa emergere un Malebranche.
Assai mtnore è l'originalità dell'Oratorio per tutto quanto si riferisce all'organizzazione materiale e alla disciplina. Quest'ultima è nel complesso mite,
cosa resa più facile dal fatto che ogni insegnante, anziché essere legato ad una
unica classe, segue la propria scolaresca lungo tutto il corso di studi; ciò implica, dato che il piano di lavoro concentra lo studio delle singole materie in
questa e quella classe, il passaggio dello stesso maestro da una materia all'altra,
con evidente svantaggio della specializzazione, compensato però dal maggior
affiatamento fra maestro ed alunni.
III
· L'INDIRIZZO RELIGIOSO GIANSENISTA
L'indirizzo giansenista trae il suo nome da Corneille Jansen (latinamente
Jansenius), vissuto dal 1585 al I638, il quale fu vescovo di Ypres, cittadina dei
Paesi Bassi. Un fondamentale contributo a questo indirizzo religioso fu dato
anche dal teologo Antoine Arnauld(r6u-1694)- che nel 1643 pubblicò un trattato La fréquente communion- e dall'abate Saint-Cyran (1 581-1643), direttore spirituale della comunità benedettina femminile di Port-Royal, da qualche decennio trasferita a Parigi. L'opera di questi tre religiosi confluì in un unico indirizzo
nel corso di violente polemiche con la curia romana e con i gesuiti.
Giansenio, pur essendo vescovo cattolico, si distingueva nettamente dall 'indirizzo controriformistico, rappresentato soprattutto dai gesuiti. Egli affermava che la pietà cristiana non consiste in una serie di atti rituali stereotipati,
ma nella devozione interiore. Inoltre era risolutamente avverso alla famosa
« casistica » dei gesuiti, che consisteva in una minutissima classificazione dei
« peccati », in una causidica distinzione tra « atti » ed « intenzioni », e riduceva
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
di fatto la vita spirituale ad una sorta di commercio tra il penitente ed il confessore, per cui a tale peccato corrispondeva talaltra penitenza. Basandosi sulla
differenza tra «attrizione» (pentimento dei peccati per paura della dannazione)
e « contrizione » (pentimento dei peccati per il dolore che essi arrecano a dio),
i gesuiti in sostanza riducevano la vita religiosa a mera apparenza formale: essi
insistevano sulla tesi che per la salvezza basta l'attrizione che, unita alle opere
penitenziali, mette l'uomo in grazia di dio e gli assicura la vita eterna. Così,
essi prospettavano la salvezza dell'anima come una meta relativamente facile,
e facevano ampio ricorso ad indulgenze; a pratiche per la riduzione delle pene
del purgatorio, e simili.
Contro questa tendenza Giansenio combatté vigorosamente, anche se il
suo capolavoro teologico, Augustinus, venne pubblicato solo postumo (1640).
La tradizione agostiniana, profondamente caratterizzata dalla polemica antipelagiana svolta dall'antico vescovo di Ippona, aveva sempre insistito sui valori
dell'interiorità spirituale contro quelli del formalismo esteriore. Anche la riforma luterana era del resto in larga parte imbevuta di agostinismo (Lutero era
stato monaco agostiniano), come gran parte delle sette ereticali medievali. Di
Agostino, Giansenio accetta e svolge principalmente i seguenti temi: l'uomo è
sì libero « per natura », ma ciò significa solo che esso è uscito « libero » dalle
mani di dio all'atto della creazione, prima della caduta originale; con la caduta,
la natura dell'uomo è irrimediabilmente corrotta: egli ha perduto la libertà di
fare il bene, ed anche il battesimo, che gli restituisce l'innocenza, non lo reintegra
nello stato edenico e non lo preserva dalla corruzione. L'immediata conseguenza
di questa tesi è che l 'uomo non può sperare di salvarsi per mezzo delle opere
(e la salvazione per opere, ricordiamolo, è un punto irrinunciabile della confessione cattolica): solo la grazia di dio può dargli una salvezza sempre immeritata.
La grazia è quindi un dono che dipende esclusivamente dalla libera volontà di
dio, sulla quale l 'uomo non può sperare di influire in alcun modo. E giacché
dopo la caduta gli uomini sono necessariamente peccatori, possiamo legittimamente supporre che solo pochi eletti saranno salvati. Sperare che una condotta
virtuosa, una confessione dei peccati o altro possa determinare la libera decisione
di dio è blasfemità: le scelte del signore sono imperscrutabili, ed egli è il solo arbitro della salvezza dell'uomo.
Si tratta, come si vede, di una confessione influenzata dalla predestinazione
assoluta del calvinismo. Ma il giansenismo, contrariamente ai grandi movimenti
riformatori del xvi secolo, non cercava la rottura istituzionale con la chiesa di
Roma: esso accettava la dottrina della transustanziazione del pane e del vino nel
corpo e nel sangue di Cristo, riconosceva l'ordinamento sacerdotale romano,
accettava l'autorità del soglio pontificio, anche se riprendeva le tesi conciliariste di Erasmo da Rotterdam e di Nicolò da Cusa e negava la supremazia
assoluta del papa in materia dottrinale. Inoltre esso era fieramente avverso al
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
potere temporale del Vaticano, che giudicava gravemente lesivo dello spirito
evangelico.
All'opera di Giansenio seguì il trattato di Arnauld sull'eucarestia. I gesuiti
favorivano in ogni modo la frequenza della comunione, e l'ideale di perfezione
era addirittura accostarsi ad essa quotidianamente. Arnauld ravvisava in questo
ripetersi meccanico ed esteriore di un rito una svalutazione dell'interiorità spirituale della cena mistica. La vita religiosa, affermava, è soprattutto ascesi spirituale individuale, e l'eccessiva frequenza di atti esteriori e pubblici genera ottundimento della pietà ed è molto nociva. Non solo: l'eucarestia, essendo un contatto immediato con il corpo di Cristo, dev'essere consumata quando il nostro
animo sia pervaso da ispirato fervore. È inoltre da tenere presente che la pratica
gesuitica di una comunione molto frequente era ovviamente legata a quella di
una confessione molto frequente, sicché rafforzava la tendenza alla casistica, alla
causidica distinzione tra peccati « capitali » e « veniali », tra attrizione e contrizione, favorendo illassismo morale.
Come sempre, al contrasto teologico si accompagnava anche un contrasto
politico. La dottrina cattolica della controriforma esaltava l'obbedienza cieca
ed assoluta, il principio di autorità, l'inquadramento dell'uomo in un ordine di
pratiche e di riti che, anche se la sua fede era debole e i suoi peccati gravi e frequenti, lo avrebbe portato alla salvezza. Era, in sostanza, una dottrina profondamente avversa alla libertà ed all'autonomia individuali. Il giansenismo, al
contrario, esaltava la libertà interiore dell'individuo, pu:r facendo g:rava:re su di
essa la maledizione del peccato originale e della corruzione umana.
Ad un sereno giudizio storico la posizione dei giansenisti appare utopistica.
Far :rifiorire uno slancio mistico ed ascetico in un secolo che vedeva l'affermarsi
della borghesia, tendenzialmente disinteressata a questioni di carattere religioso
e tesa al conseguimento di beni profani, era impresa disperata. Certo Port-Royal
conobbe una splendida fioritura, anche scientifica e filosofica (soprattutto logica),
ma :rimase un fenomeno di élite. Nel :resto della Francia non mancarono grandi
e severe famiglie patriarcali che professarono il giansenismo, ma questo non
divenne mai, come era invece avvenuto per i movimenti luterani e calvinisti
del secolo precedente, un grande fenomeno di massa.
Con dò, non vogliamo far nostra la tesi di coloro i quali pretendono che !'.impulso dato dal giansenismo al progresso della civiltà moderna sia stato esclusivamente indiretto e involontario. Secondo questa interpretazione storiografica,
i giansenisti contribuirono allo sviluppo della scienza ed all'affermazione della
borghesia solo perché, predicando il ripiegamento interiore ed il disprezzo della
vita profana, contribuirono indirettamente a far sì che il mondo profano e scientifico fossero meno sottoposti all'oppressivo controllo ecclesiastico esercitato dai
gesuiti, veri paladini della controriforma. Certo questa interpretazione ha degli
elementi di verità, ma :resta parziale e setto:riale. Essa è avallata, ad esempio, da
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
molti Pensieri di Pascal e da passi del moralista e logico Pierre Nicole (16zj-1695),
il quale affermava che «nell'eternità non si conoscono più le piccole differenze
che tanto ci spaventano»; sempre Nicole s~rive che all'uomo che abbia a cuore
la salvezza « tutto apparirà uguale: ricchezza, povertà, salute, malattia, grandezza,
bassezza, gloria, ignominia ». Questa è certo una posizione molto distante da
quella della borghesia più dinamica ed attiva, ed anche da quella di quei calvinisti che nel successo mondano vedevano un segno della grazia divina ed un presagio di salvezza.
Ma c'è un altro aspetto del giansenismo, non meno importante, che limita
alquanto il pessimismo rinunciatario (rispetto al mondo terreno) delle proposizioni testé riportate, e rappresenta una esaltazione dell'individuo e del suo
spirito di libera iniziativa. Quest'altro aspetto è riassunto nella famosa massima:
« Bisogna pregare come se tutto dipendesse da Dio ed agire come se tutto dipendesse da noi. » Questa « azione » non riguarda solo le pratiche della pietà
religiosa, ma anche la vita dell'uomo nel mondo, giacché i giansenisti mostrarono di non ignorare che l'uomo deve pur passare vari decenni in questa vita,
seppur solo come viatico all'altra. Riappare così, anche se con minore energia,
un concetto tipico del calvinismo: la fede deve dimostrarsi anche nelle azioni
comuni: l'amore al lavoro ed alla vita ordinata, la capacità di amministrare il
patrimonio e di non dissiparlo per negligenza o per stolido amore del lusso,
la probità e la serietà morale, il disprezzo dei giochi d'azzardo, dei piaceri mondani, dei balli, ecc., e soprattutto un distacco «in spirito» dalla ricchezza (distacco che non esclude il possesso « di fatto » di grandi ricchezze che vengono
amministrate in modo saggio ed economo) sono virtù che aiutano il giansenista
a primeggiare anche nella parte profana della vita. Giustamente quindi i giansenisti sono stati definiti i « puritani della chiesa cattolica ».
Si può quindi concludere che, mentre secondo la morale dei gesuiti un uomo
è da ritenersi virtuoso « in quanto » osserva i propri doveri sociali e si sottomette
all'autorità, secondo la morale dei giansenisti l'uomo è da considerarsi virtuoso
se osserva i propri doveri sociali e si sottomette alla verità « in quanto » ciò
gli è comandato dalla coscienza, dall'interiorità. Una conseguenza è che quando
questa coscienza venisse a mancare, o suggerisse all'uomo che la ribellione ad
una determinata autorità è giusta e doverosa, il giansenista si ribellerà, e farà
consistere la virtù nel più radicale anticonformismo.
Proprio quest'apertura verso l'eterodossia e l'indocilità anche sul piano
politico spiega la violenza delle lotte tra giansenisti e gesuiti e l'appoggio deciso
dato da Luigi XIV a questi ultimi. Questo monarca, che revocò anche l'editto di
Nantes con cui Enrico IV aveva concesso la tolleranza agli ugonotti, vedeva
nei giansenisti dei possibili scismatici sul piano religioso e ribelli sul piano
politico, tanto più che il giansenismo aveva alcuni legami con gli esponenti dell'aristocrazia feudale, insofferenti dell'assolutismo di Luigi (che li aveva ridotti
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Il problema dell'educazione nel xvu secolo. Il giansenismo
a semplici valletti della reggia di Versailles), sensibili allo spirito delle « fronde »
antiassolutiste. Si forma così un'alleanza tra gesuiti, corona di Francia e curia
romana, e ad essa i giansenisti non possono opporre che una resistenza di carattere spirituale. Nel I 6 53 il papa Innocenza x condanna cinque proposizioni
attribuite all' Augustinus. I giansenisti si difendono osservando che le cinque proposizioni sono bensì eretiche, ma non sono affatto presenti nell'opera di Giansenio. Ma queste disquisizioni teologiche e legali non possono fermare un'ondata repressiva le cui motivazioni sono, come si è visto, soprattutto di carattere politico. Arnauld viene giudicato alla Sorbona, la sua opera viene condannata, egli stesso è espulso. In questo culminante momento, nella lotta· si gettò
con tutto il suo prestigio Blaise Pascal, sostenendo i giansenisti con le famosissime Let tres provincia/es (I 6 56-57), sulle quali ci si soffermerà nel prossimo capitolo. Ma anche questo non valse a nulla: le Lettere provinciali vennero condannate
e pubblicamente bruciate per mano del boia. Si ebbe poi un periodo di tregua, ma
i gesuiti aspettavano soltanto il momento opportuno per inferire un colpo decisivo: l'eliminazione del cenacolo di Port-Royal, la cui direzione venne assunta
da un gesuita.
Tuttavia nei secoli successivi il giansenismo continuò a serpeggiare nelle
file del cattolicesimo: sconfitto sul piano istituzionale, non lo fu mai altrettanto
radicalmente sul piano delle coscienze, tanto che persino in autori molto vicini
a noi, ad esempio Antonio Rosmini ed Alessandro Manzoni, si parlò di venature
gianseniste.
IV · LUCI ED OMBRE DELL'EDUCAZIONE GIANSENISTICA
Sul piano dell'educazione, se per i gesuiti il problema essenziale è la formazione di quadri dirigenti della società cattolica, per i giansenisti esso si identifica
con la formazione religiosa agente sulle corde più riposte dell'animo. L'uomo è
un decaduto; la sua natura è stata corrotta dal peccato originale. Il battesimo
gli ha ridato, è vero, l 'innocenza, ma le ricadute sono probabili e terribili: l'assoluzione, infatti, presuppone la grazia che dio concede solo per propria libera
scelta. È necessario dunque sforzarsi di conservare l 'innocenza restaurata dal
battesimo, e poiché il demonio attacca i fanciulli che sono deboli, dobbiamo combattere in loro difesa: questo è il compito dell'educazione, che si innalza pertanto
a servizio reso a dio e costituisce la professione più elevata, la più degna degli
uomini migliori (Saint-Cyran).
Un'azione formativa così intesa presuppone la conoscenza approfondita
di ogni alunno da parte del maestro e un'opera assidua, ininterrotta, di vigilanza,
assistenza, consiglio. Ne deriva che ogni maestro deve avere solo un piccolo
numero di educandi: cinque o sei al massimo. I giansenisti nutrono una profonda
sfiducia nei collegi, dove il gran numero dei fanciulli impedisce l'insegnamento
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Il problema dell'educazione nel xvii secolo. Il giansenismo
individuale e favorisce il diffondersi dei vizi. D'altra parte, l'opera educativa
dei genitori è falsata dal puerocentrismo, che comporta l'eccessiva tenerezza,
dalla vanità e dalle preoccupazioni utilitaristiche. Nascono così le « piccole
·
scuole ».1
I giansenisti esigono di poter disporre in modo totale ed esclusivo dei fanciulli: la famiglia deve rinunciare a qualsivoglia interferenza. D'altro canto sono
rigidamente intransigenti contro chiunque, alunno, maestro, domestico, possa
fornire esempi diseducativi. Trattandosi, infatti, di esseri ancora prevalentemente
assoggettati ai sensi, l'esempio acquista un'importanza fondamentale. I fanciulli non devono né vedere né udire nulla che possa guastare la loro innocenza. Il
comportamento degli adulti, assai più che il ragionamento, costituisce il fattore
primario della loro formazione.
Vincere il male è impresa che alla luce della teoria della predestinazione
potrebbe sembrare irrimediabilmente superiore alle forze umane. Ma i giansenisti applicano anche qui, anzi soprattutto qui, la formula « agire come se tutto
dipendesse da noi ». È vero che il bambino viene ghermito dal demonio mentre
-è ancora nelle viscere materne, che durante i primi anni di vita la sua mente
è quasi totalmente ottenebrata dalla ignorantia veritatis, che le sue facoltà
pratiche sono prese dalle vanae cupiditates; ma questa concezione non si risolve in severità sprezzante, bensì in profondo sentimento di pietà e in totale
dedizione ad impiegare tutte le energie per il bene degli educandi. Bisogna
afferrare i piccoli raggi luminosi che fendono le tenebre della mente infantile,
spiegando tutto e solo ciò che da essi viene illuminato: questo significa proporzionare le difficoltà alle capacità e non proporre alcuna nozione che non possa
essere autenticamente intesa. Ma bisogna anche promuovere l'aumento di quella
luminosità, cioè insegnare a ragionare.
I A Port-Royal, nei pressi di Chevreuse,
esisteva una comunità di religiose fin dal I2o4.
Nel I6z6 la superiora, Angélique Arnauld (sorella di Antoine Arnauld), tra~ferisce questa comunità a Parigi, nel faubourg Saint-Jacques. È a
questo punto che, sotto la direttiva di Saint-Cyran,
confessore delle religiose e amico di Giansenio,
si costituisce, nelle immediate vicinanze del convento, una << piccola ~cuoia » di educandi e di
maestri, dove riceverà la sua formazione anche
Jacqueline Pasca!. Le «piccole scuole» seguono
le alterne vicende del movimento giansenista: costrette ad abbandonare Parigi e a rifugiarsi nell'abbandonata casa di Port-Royal, tornano a Parigi
nel I646. Ricacciate di nuovo in provincia nel
I 6 5o, vengono definitivamente disperse tra il I 6 56
e il I66I: l'edificio di Port-Royal-des-Champs è
raso al suolo nel I7IO. Il periodo di maggior fiori~ura delle « piccole scuole » è quello compreso tra
Il I65o e il I656: sono gli anni dell'adesione di
Pasca! e della più intensa attività dell'Arnauld e
del Le Maistre de Sacy. Secondo il Buisson il
numero degli alunni non avrebbe mai superato i
cinquanta e, complessivamente, dalle « piccole
scuole» sarebbe passato poco più di un centinaio di
fanciulli. Il Compayré invece porta il numero complessivo a un migliaio: è chiaro comunque che
si tratta di entità trascurabili. Da un regolamento
riguardante la casa di Parigi nel periodo '46-'50
sappiamo che ventiquattro fanciulli sono suddivisi in quattro camere. Ci sono quattro maestri:
Nicole, Lancelot, Guyot, Caustel. È incerto se
ognuno dei maestri sia assegnato ad una sola
classe o se ognuno insegni una sola materia a
turno nelle quattro classi. Anche il criterio di
composizione delle classi è sconosciuto. La
giornata degli educandi inizia alle cinque e mezzo
del mattino e termina alle nove di sera. Le ore
di studio si alternano con quelle di ripetizione e
di correzione individuale. I ragazzi della stessa
camera vanno a tavola con il loro maestro. Dopo
i pasti ci sono le ricreazioni.
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
L'apprendere a ragionare non è visto in funzione di una finalità astrattamente
teoretica, tutt'altro: saper giudicare vuoi dire in primo luogo saper discernere
il bene dal male. Da questa premessa derivano alcune fondamentali conseguenze
di carattere pedagogico, prima di tutto l 'importanza attribuita allo studio. Lo
studio, afferma il Nicole, non deve essere considerato come una fra le numerose
e varie occupazioni dei fanciulli ma come il loro lavoro, tutto il loro lavoro.
In secondo luogo, il possesso delle scienze non è un fine ma uno strumento per
la formazione del giudizio. La misura e il modo dell'applicazione scientifica
saranno determinati tenendo conto di questo fine. Tanto più che la suprema verità sfugge alla pura ragione e solo un vivo spirito di carità cristiana è capace di
portarci fino ad essa. 1
Se questa tesi appare in contrasto col punto di partenza della filosofia cartesiana, l 'influsso cartesiano-agostiniano è viceversa indiscutibile là dove i
maestri delle «piccole scuole» sottolineano la necessità di giungere, nell'insegnamento, alla massima chiarezza e fanno appello al lume interiore che solo
rende possibile un'autentica partecipazione personale alla verità. Non sfugge ai
portorealisti che nell'infanzia il senso prevale sulla ragione. Pertanto, mentre
si preoccupano di favorire in tutti i modi lo svilupparsi del raziocinio, essi
ritengono utile e talora indispensabile l'appello al senso, all'osservazione, quale
unica fonte di rappresentazioni efficaci nell'ambito dell'imperfetta psiche infantile.
Le difficoltà devono essere semplificate ma non eliminate: lo studio non è
gioco. Il problema del maestro è quello di rendere piacevole, in quanto attivamente accettato, anche lo sforzo. Circa l'apprendimento mnemonico, i portorealisti ritengono di potersene servire solo per ciò che prima sia stato chiaramente
compreso.
Un cenno particolare meritano le ricerche fatte dai portorealisti circa il
metodo per l 'insegnamento del leggere e dello scrivere. Per secoli e secoli, dal
primo apparire della scrittura fino all'inizio dell'età moderna, aveva costantemente dominato, con trascurabili eccezioni, il cosiddetto metodo alfabetico,
secondo il quale si imparano anzitutto i nomi delle lettere, poi le loro forme ed
il loro valore, quindi le sillabe e infine le parole. Si tratta di un metodo profondamente erroneo in quanto attribuisce valore concreto all'alfabeto (che in realtà
è un'astrazione grammaticale, lontana dalla mentalità, e quindi dall'interesse,
del bambino) e in quanto confonde il suono delle lettere con il loro nome,
generando ovviamente una dannosissima confusione.
Abbiamo visto come Comenio si fosse preoccupato di elaborare un metodo
I Sul valore da attribuirsi all'insegnamento
a ragionare, ecco alcune significative affermazioni
di Nicole: «Formare il giudizio è dare a uno spirito il gusto del vero e la capacità di discernerlo;
è renderlo sensibile nel riconoscere i falsi ragio-
namenti un po' nascosti; è insegnargli a non
accontentarsi di parole o principi oscuri, a non
ritenersi soddisfatto se non sia penetrato fin nel
fondo delle cose. »
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
che, collegando le parole alle cose, rendesse l'apprendimento della lettura e della
scrittura più concreto e perciò più interessante. Tra i portorealisti il Guyot,
l'Arnauld e i fratelli Pascal giungono, all'incirca contemporaneamente, ad impostare il metodo fonico, secondo il quale si imparano prima le vocali e i dittonghi e successivamente le consonanti; queste ultime non vengono insegnate
isolatamente, ma solo nelle loro combinazioni con le vocali. È il metodo che si
affermerà nelle migliori scuole fino ai nostri giorni, quando cederà il passo, come
vedremo, al metodo cosiddetto globale.
L'insegnamento comincia dalla lingua materna. Per gli esercizi di lettura
si usano perlopiù testi latini tradotti. Per abituare alla composizione si fanno molti riassunti scritti ed orali, nonché narrazioni o lettere ispirate alla vita vissuta.
Anche le grammatiche latine sono scritte in francese. A Port-Royal però
le lingue si imparano essenzialmente con l'uso. Ciò non significa che si cada nell'equivoco, in cui era caduto il padre di Montaigne, di voler insegnare il latino
come lingua viva. L'unico «uso», trattandosi di lingue morte, può essere la
lettura degli antichi autori. Le regole grammaticali sono ridotte al minimo e
sempre derivate da casi particolari incontrati leggendo. La riduzione della grammatica al minimo, si badi bene, non significa però la sua eliminazione. La grammatica rende i fanciulli veramente padroni di quello che vengono via via apprendendo, fa loro imparare in una volta sola ciò che per via pratica richiederebbe
centinaia di ripetizioni e, soprattutto, sviluppa la facoltà di riflettere, universalizzare, ragionare.
Dopo la lettura, il migliore esercizio per imparare il latino è la versione.
Ci si serve molto della versione « a senso », con lo scopo di evitare il ripetersi
di meccaniche forme stereotipate. La composizione latina, tanto cara ai gesuiti,
è alquanto svalutata. I classici e le opere da leggersi vengono scelti con estrema
cautela. I giansenisti non seguono i gesuiti nel costume di cristianizzare e moralizzare gli autori con arbitrarie modificazioni dei testi, ma anche in loro l'esigenza
moralistica supera ogni criterio di valutazione puramente estetica.
Accanto alle lingue antiche trovano posto quelle moderne, la storia e la
geografia. Anche la filosofia rientra nel curriculum di studi. Essa però deve venir
affrontata con ponderatezza. Le simpatie dei portorealisti vanno prevalentemente ai moralisti. Ciò non impedisce loro di eccellere anche negli studi di
logica. È qui, anzi, che si rivela maggiormente l'entusiasmo dei giansenisti per
la filosofia cartesiana. La logique ou l'art de penser di Arnauld e Nicole può venir
considerata come il miglior trattato di logica cartesiana. Essa si fonda sopra
un serio tentativo di combinare Aristotele con Cartesio, come si potrà vedere
nel capitolo IX.
Il moralismo giansenistico si manifesta anche nella poca simpatia che i maestri di Port-Royal dimostrano per i viaggi, per gli spettacoli e, in genere, per
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Il problema dell'educazione nel xvii secolo. Il giansenismo
ogni forma di svago. « Il divertimento, » dirà Pascal, « è la più grande delle
nostre miserie, in quanto ci impedisce di pensare a noi stessi e fa sì che a poco
a poco ci perdiamo. » 1
Anche l'emulazione, vero cavallo di battaglia dell'educazione gesuitica, è
bandita dalle « piccole scuole ». Qui si ha invece il culto del silenzio, dei modi
controllati, della modestia. Anche le cerimonie religiose vengono celebrate
senza sfarzo. La disciplina è ottenuta con la vigilanza, con la pazienza, con la
dolcezza. Di fronte alle manifestazioni della malvagità umana è assai meglio affidarsi alla preghiera che ai castighi.
Pregi notevoli della scuola portorealista sono il profondo rispetto della
personalità umana, la subordinazione delle pratiche del culto a un sincero sentimento religioso, il fatto che la devozione sia consigliata e raccomandata, ma non
imposta. Tutto sommato, però, da questa concezione pedagogica emana un
senso di tristezza e quasi d'angoscia. L'amore non è tanto per il fanciullo quanto
per il Cristo ch'egli porta in sé. La grazia della fanciullezza, la tenerezza paterna,
la dolcezza poetica della famiglia sono sconosciute.
Il metodo di Port-Royal è per la sua stessa essenza aristocratico: non può
essere generalizzato. L'aumento degli alunni, infatti, ne corromperebbe lo spirito; d'altra parte, è impossibile trovare un gran numero di educatori di grande
valore. Per di più il tipo di struttura adottato dai portorealisti risulta estremamente costoso (l'odio implacabile nutrito verso di loro dai gesuiti non può derivare, pertanto, dal timore di una concorrenza, ed è invece dovuto ad un'autentica incompatibilità spirituale). Eppure, come osserva acutamente il Buisson,
quei pochi anni e quelle piccole scuole furono sufficienti per formare uomini
costituenti quasi « una razza a parte », per creare un tipo umano destinato a
distinguersi fra la gente del suo secolo ed a sopravvivere anche al di là di esso,
a lasciare una traccia profonda e duratura nella storia dell'educazione.
V · IL PIETISMO. AUGUST HERMANN FRANCKE
In quello stesso clima che nel mondo cattolico dà origine al giansenismo
sorge, nel mondo protestante, il pietismo, un fenomeno nel quale confluiscono
motivi calvinistici e luterani. Suoi presupposti fondamentali sono: la ribellione
ad ogni inquadramento entro rigidi schemi concettuali; la tolleranza, sia religiosa sia politica, tendente ad un rigorismo etico aconfessionale; l'esaltazione della
fede come unica forma di esperienza del divino, contro ogni ricerca intellettualistica di dio e dei suoi attributi; una forte diffidenza per la retorica e per l 'umanesimo letterario e una grande aderenza alla realtà. Decisiva importanza è atI Il Nicole giunge a definire gli autori drammatici «pubblici avvelenatori »; il de Sacy, per
esprimere la propria avversione ai viaggi, afferma
che « viaggiare è vedere il diavolo vestito in tutte
le possibili guise: alla tedesca, all'italiana, alla spagnola e ali 'inglese ».
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Il problema dell'educazione nel xvu secolo. Il giansenismo
tribuita al travaglio del pentimento, condizione indispensabile di una rigida vita
morale e della rigenerazione.
Fondatore del movimento pietista è considerato Philipp Jakob Spener
(I 6 3 5- q o 5), alsaziano, predicatore celebre a Strasburgo, Francoforte, Dresda,
Berlino. Perfetto catechista, egli riesce come nessun altro ad esporre, con la
massima semplicità e la più grande efficacia, la storia sacra e la dottrina cristiana
ai fanciulli che riunisce attorno a sé ogni domenica. Egli è convinto che l'essenza
del cristianesimo vada cercata non nel sapere dottrinale, bensì nella prassi stessa
dell'esperienza religiosa, e proprio perciò oppone alle complicate elaborazioni
razionalistico-filosofiche della concezione cristiana (Spener pensava in particolare agli scritti di Melantone) un'esposizione volutamente semplice di essa, soprattutto rivolta a infiammare i sentimenti più genuini che albergano in ogni
animo veramente puro, come per l'appunto quello dei fanciulli, onde riuscire per
questa via a porre il credente in contatto diretto con dio. 1
Ma la personalità dominante del pietismo è senza dubbio August Hermann
Francke (I663-I727). Nato a Lubecca, studia in un ginnasio organizzato secondo
i principi rdi Ratcke e di Comenio. A Dresda stringe amicizia con lo Spener.
Viene chiamato ad insegnare greco e lingue orientali nell'università di Halle,
ove soggiorna per ben trentacinque anni, fino alla morte; quivi crea una serie di
istituzioni educative che diverranno celebri sotto il nome di Fondazioni di
Francke.
Tali istituti sono:
I) la scuola dei poveri, gratuita, sostenuta dalle donazioni di pii benefattori, destinata a quei fanciulli che altrimenti sarebbero rimasti nella più completa
miseria intellettuale oltre che economica;
2) la scuola borghese o scuola tedesca, destinata ai fanciulli provenienti
dai ceti agiati. È caratterizzata dal fatto che in essa ha importanza fondamentale
l'insegnamento della lingua tedesca;
3) l'orfanotrofio, nel quale vengono non solo istruiti ma anche educati e
nutriti orfani e trovatelli;
4) la scuola latina, cioè una scuola media preparatoria all'università, di
tipo sostanzialmente tradizionale;
5) il Paedagogium, specie di liceo destinato ai giovani dei ceti superiori, mirante ad armonizzare la vita pratica con la cultura classica. È articolato in corsi
paralleli, nei quali prevale o l 'insegnamento linguistico-letterario, o quello
scientifico, o quello artistico o quello tecnico-pratico, allo scopo di offrire agli
studenti la preparazione adatta alla professione alla quale essi intendono dedicarsi. Nel Paedagogium gli alunni non sono divisi per classe ma a seconda del loro
rendimento nelle singole materie;
I
Per l'influenza che queste idee esercite-
ranno sulla cultura tedesca del XVIII secolo, rinviamo al capitolo xv della sezione v.
301
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
6) il seminario, o scuola normale, per la preparazione dei futuri maestri.
Accanto a queste istituzioni strettamente scolastiche il. Francke crea una
stamperia, una libreria, una biblioteca ed una farmacia. Quest'ultima diverrà
celebre e, insieme alla libreria, costituirà una cospicua fonte di finanziamento
per le altre iniziative. Alla morte del fondatore, nelle varie scuole di Halle sono
ospitati più di duemila studenti con oltre cento maestri.
Il Francke è assertore di una istruzione universale ma non uniforme: tutti
debbono essere messi in condizione di realizzare la loro missione nel mondo;
tutti debbono quindi essere istruiti, ma ognuno procederà negli studi a seconda
delle sue capacità. L'istruzione deve, comunque, essere subordinata alla educazione religiosa: su sei ore quotidiane di insegnamento tre sono destinate alla
religione. La cultura va congiunta con la vita: di qui la condanna dell'umanesimo
verbalistico-letterario. Oltre alla pietà ed alla devozione, anche il lavoro deve
essere considerato un essenziale fattore educativo. Quanto al metodo, a base
dell'istruzione è posta l 'intuizione.
Le scuole del Francke si servono, allo scopo di rendere possibile l'uso del
metodo intuitivo, di copiosi sussidi didattici: gabinetti scientifici, carte, modelli.
Inoltre, specialmente agli orfani e ai poveri, si fanno frequentemente visitare le
officine. La disciplina è assai rigida: il gioco e perfino il riso sono vietati. Si dà,
in compenso, molta importanza al moto.
È molto curata l'educazione della volontà e si ritiene che fattori importanti
per il rafforzamento della volontà siano il sentimento religioso e la preghiera;
naturalmente, non la preghiera biascicata a fior di labbra, ma la preghiera che fa
soffrire, che porta alla disperazione ma successivamente libera dall'angoscia e
rende sereni e sicuri di sé. L'uomo che sa pregare così, che vive così intensamente
la propria fede, non ha bisogno di nulla e di nessuno fuori di sé, e realizza l'autonomia e l'autodisciplina. La sua energia si realizza nel mondo come attività
produttiva, lavoro, secondo un motivo 'tipicamente calvinistico.
La diffidenza pietistica per il razionalismo si manifesta non solo contro la
pretesa di giungere per via di ragionamento a conoscere dio, ma anche contro la
pretesa di costruire su basi meramente razionalistiche la comunità sociale. La
ragione non può non rendere individualisti, egoisti. Essa può suggerire, per
motivi utilitaristici, la reciproca tolleranza, ma non potrà mai generare il rispetto,
la simpatia, l'amore. Questi sono opera del sentimento e su quest'ultimo, perciò,
l'individuo deve far leva per stabilire rapporti veramente umani col prossimo.
Le scuole del Francke costituiscono un modello che verrà ben presto imitato
in numerose città tedesche. Specialmente la creazione di scuole a indirizzo
scientifico-moderno o addirittura tecnico-professionale (Realschulen) sarà in
larga misura effetto del diffondersi dei principi educativi del pietismo. Anche il
Collegium Fridericianum di Konigsberg, nel quale studierà Emanuele Kant, sarà
profondamente influenzato dallo spirito pietistico.
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VI
· TENTATIVI DI RIFORMA NELL'UNIVERSITÀ FRANCESE
Già nel I 571 il protestante Hubert Languet scrive da Parigi al suo amico
Camerario: « I gesuiti eclissano in reputazione tutti gli altri professori e a poco
a poco fanno precipitare nel disprezzo i doce~ti della Sorbona. » Durante gli
ultimi decenni del xvi secolo le continue agitazioni della guerra civile non fanno
che aggravare il male e accentuare la crisi. Non si tratta solo di disorganizzazione
esteriore e di indisciplina ma anche e soprattutto di scarso livello degli studi e
di insufficienza metodologica; carenze inevitabili se si pensa che, ufficialmente,
l'università è retta ancora dagli statuti fissati nel 1452.
« Il rinascimento aveva compiuto la sua opera nel campo delle arti, delle
lettere, delle scienze, nel gusto generale della nazione, » scrive il Compayré,
« la riforma aveva profondamente modificato le condizioni religiose dello stato;
il mondo materiale s'era fatto più vasto con la scoperta dell'America; la stampa
aveva dato ali al pensiero; i gesuiti organizzavano le loro scuole con crescente
successo; Rabelais, Montaigne avevano scritto, Ramus aveva parlato; tutto nel
corso di un secolo si era trasformato: poteva l 'università sola, in mezzo ali 'universale cambiamento, rimanere immobile? »
Il problema è inteso da Enrico IV che instaura una commissione che elabora
un nuovo statuto per il 16oo. Dopo le riforme di Innocenza 111 e di Urbano v,
dopo la già citata riforma del 1452, realizzata da un cardinale in nome della
santa sede, per la prima volta l 'iniziativa è presa dal potere laico: gli ecclesiastici
non figurano nella commissione che a titolo consultivo. «Gli statuti del 16oo, »
dirà uno storico francese, « furono una clamorosa rivincita della ragione, del
diritto pubblico, della religione illuminata sulla follia e i principi sovversivi. »
In realtà la riforma corrisponde solo in parte a una simile interpretazione.
Per quanto riguarda il controllo statale si può notare da un lato che l'onnipotente
facoltà teologica della Sorbona continua ad essere dominata dalla chiesa e dall'altro che la crescente importanza dei collegi religiosi ridimensiona in partenza
qualsiasi velleità statale di ridurre il potere ecclesiastico nel campo dell'insegnamento medio e superiore.
In base alla riforma del 16oo l'università risulta così strutturata: un collegio,
articolato in cinque anni dedicati allo studio del latino e degli autori antichi e
due dedicati alla filosofia e alla lettura di Aristotele ed Euclide; facoltà delle arti;
facoltà superiori (medicina, diritto, teologia). Le facoltà superiori conferiscono i
gradi di baccelliere, licenziato e dottore. Il baccellierato delle facoltà superiori si
ottiene in cinque o sei anni~ ·11 dottorato in medicina in sette, il dottorato in teologia in dieci; non si è dottore in teologia prima dei trentacinque anni di età.
La qualità degli studi rimane però ancora scadente. L'insegnamento letterario continua ad essere impartito in latino; l 'insegnamento filosofico è immutabilmente aristotelico e accanitamente anticartesiano, pedantemente attaccato a
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
un formalismo rituale. La scienza moderna non trova cittadinanza all'università:
nessuno dei grandi scienziati dell'epoca, da Descartes a Pasca!, a Mersenne, a
Fermat, appartiene all'università. È proprio per ovviare a questa carenza e allo
scopo di fornire un minimo di strutture organizzative agli scambi fra scienziati
che, come abbiamo visto nel capitolo I, sorgeranno l'Accademia delle scienze,
quella di chirurgia e quella di medicina.
VII
· LA SCUOLA ELEMENTARE-POPOLARE
Circa l'esistenza di una rete abbastanza fitta di scuole popolari-elementari,
gli storici sono tuttora divisi. Anche se oggi tende a prevalere l'opinione che,
sotto la spinta combinata dell'invenzione della stampa, delle esigenze dello sviluppo commerciale e dei principi della riforma, il xvn secolo debba essere visto
come un periodo di accresciuta diffusione delle scuole a tutti i livelli, è indiscutibile che il fenomeno assume proporzioni e caratteri profondamente diversi nei
diversi paesi e nelle singole regioni e province di uno stesso paese. D'altro canto
gli studi storici approfonditi sono ancora molto rari, e spesso risultano del tutto
impossibili per mancanza di documenti. Lo stato, che in generale si occupa ben
poco delle scuole, non si interessa per niente di quelle di primo grado. Queste,
pertanto, sono in prevalenza sostenute direttamente dalle famiglie degli scolari.
Alcune si reggono sulle rendite di donazioni, e in questo caso possono accogliere
gratuitamente alcuni alunni. Altre, ma poche, sono istituite dalle municipalità.
Ci sono infine le scuole di carità, gratuite, organizzate perlopiù dai curati e
condotte da loro stessi o da qualche altro prete.
I maestri sono, di norma, scelti dalle autorità locali fra coloro i quali, avendo
la licentia docendi rilasciata dàll'autorità religiosa, dimostrino di possedere capacità sufficienti. Di solito la cultura di questi maestri è miserevole, trattandosi
di persone dedite soprattutto anche ad altri mestieri, prive di qualsivoglia preparazione specifica.
Così un certo Jean Merlier, maestro a Parigi in faubourg Saint-Marceau, può,
riprendendo forse inconsapevolmente un tema caro a Comenio (e, del resto,
anche ad Aristotele!), lamentarsi perché « mentre per fare delle scarpe, tagliare
dei vestiti, forgiare delle serrature e delle chiavi è necessario aver fatto apprendistato sotto qualche maestro durante parecchi anni e aver superato l'esame davanti
ai più esperti dell'arte, si dà a chicchessia il permesso di esercitare la prima istruzione dei fanciulli, che è cosa tanto importante». D'altra parte, le condizioni
di vita dei maestri sono misere, tanto che la maggior parte può campare solo
alternando l'insegnamento con un altro mestiere. Spesso, addirittura, è lo stesso
contratto col quale una comunità assume un maestro ad impegnare quest'ultimo
anche (se non principalmente) come sacrista, campanaro, chierico, pubblico banditore, ecc. I locali e le suppellettili sono ad analogo livello. Qualche volta il
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
maestro accoglie i fanciulli nella sua casa, ma può accadere che faccia lezione in
una stalla o in una scuderia.
Un cenno particolare merita il fatto che l'insegnamento è individuale. Mentre
il maestro insegna a leggere (la scrittura e l'aritmetica rappresentano già un grado
superiore che non sempre si raggiunge) a un bambino, gli altri giocano o studiano
liberamente sparsi nella stanza. Si deve notare però che non si tratta di un metodo
particolare qelle scuole popolari. L'insegnamento nelle piccole scuole digrammatica frequentate dai fanciulli dei ceti agiati, destinati al collegio, si svolge nello
stesso modo. Del pari, quando la scolaresca è numerosa, abbiamo l'uso di quello
che all'inizio del XIX secolo sarà definito « mutuo insegnamento ».
VIII
· IL PROBLEMA DELL'EDUCAZIONE DELLA DONNA
L'educazione femminile è ancora estremamente arretrata: e se non mancano
donne di eccezionale cultura (basti ricordare madame de Sévigné), l'opinione
dominante è sempre quella sintetizzata da un celebre personaggio di Molière:
« Per molte ragioni non sta bene che una donna studi e sappia molte cose. Educare
i suoi figli secondo i buoni costumi, curare la casa, sorvegliare i domestici, regolare
giudiziosamente le spese, questo è il suo studio e la sua filosofia. » Di fronte alle
poche eccezioni, la regola generale è rappresentata dalla moglie di Racine, che
certamente non ha mai visto rappresentate e probabilmente non ha mai letto le
tragedie del marito.
Le giovanette della buona società ricevono, quando la ricevono, un po'
di istruzione nei conventi. Fra le congregazioni che si occupano di educazione
femminile meritano di essere particolarmente ricordate, in Italia, quella delle
Orsoline, fondata intorno al I 540 da Angela Meri ci e quella delle Angeliche,
fondata (I 53 5) dalla contessa di Guastalla. In Francia il problema è affrontato
da Fénelon, dai portorealisti e da madame de Maintenon.
François de Salignac de la Mothe-Fénelon, noto col più breve appellativo
di Fénelon, nasce nel Périgord nel I65 I e muore nello stesso anno di Luigi XIV:
I 7 I 5. Appartiene a famiglia non ricca ma nobilissima. Prende gli ordini sacri
nel I675 e, dopo essere stato per qualche tempo vicino ai gesuiti, rivolge le
proprie simpatie ai giansenisti. Viene nominato dall'arcivescovo di Parigi superiore delle « nuove cattoliche » nella Saintonge e nel Poitou. È noto come fin
dai primi anni di effettivo esercizio del potere da parte di Luigi XIV sia cominciata,
nel quadro della realizzazione di uno stato integralmente assoluto, una lotta
implacabile contro ogni tendenza a una qualsiasi forma di autonomia, sia pure
sul piano meramente religioso. Ne fanno le spese i giansenisti, come abbiamo
detto, e gli ugonotti. Contro questi ultimi, tuttora protetti dall'editto di Nantes
(emanato da Enrico IV nel I 598), si cominciano ad applicare misure restrittive
per passare poi a forme aperte di violenza e di spietata persecuzione. Una delle
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
più odiose di queste misure persecutorie è costituita dallo stanziamento di truppe
n.elle case dei protestanti, col permesso, anzi con l'ordine, di perpetrare ogni
specie di soprusi. Un'altra è l'istituzione di case in cui si rinchiudono con la
violenza giovanette protestanti strappate alla famiglia e spose rapite ai mariti,
col duplice scopo di convertire le donne e di ricattare gli uomini. Il convento
in cui Fénelon può appagare le proprie aspirazioni missionarie è appunto uno
di questi luoghi creati dal fanatismo e dalla bricconeria. Però, anche in un ambiente così sinistro, egli dimostra un sincero spirito di carità, così che i « nuovi
convertiti » piangeranno quando lascerà l'incarico.
Nel 1689, su proposta del suo amico ed ammiratore duca di Beauvilliers,
Fénelon diviene precettore del duca di Borgogna, figlio del Delfino. L'incarico
dura otto anni, durante i quali Fénelon sogna di riuscire, attraverso l'azione
esercitata sul giovane principe, su alcuni consiglieri del re e sulla signora di
Maintenon, ad influenzare lo stesso sovrano. Senonché una vivace polemica
col Bossuet si conclude con l'intervento del papa e con la condanna di un libro
scritto dal nostro autore sull'abuso che spesso si fa delle massime dei santi. Prima
conseguenza di questa condanna è la perdita dell'incarico a corte. Nominato in
seguito arcivescovo di Cambrai, Fénelon dedica gli ultimi anni della sua vita
alle cure della diocesi e al tentativo di persuadere pacificamente alla conversione
giansenisti e protestanti. Ciò non gli impedisce di scrivere ancora alcune opere
importanti. Fra i suoi scritti hanno importanza pedagogica specialmente i seguenti:
Traité de l'éducation des .ftlles (1687); Fables (pubblicate postume nel 171 8); Dialogues
des morts ( qoo); Les aventures de Télémaque ( 1699).
Le Favole sono una raccolta di vere e proprie fiabe, di apologhi e di novelle,
scritte da Fénelon ogni qual volta il principe educando abbia commesso una
mancanza particolarmente grave o sia ricaduto in un vizio abituale. Ogni racconto
mira a richiamare l'attenzione del fanciullo sul fallo compiuto, a sottolinearne
il carattere odioso e la contraddittorietà rispetto alla posizione sociale del pupillo.
Le più riuscite sono quelle in cui prevale l'elemento fantastico e avventuroso.
Si tratta delle prime favole scritte veramente per bambini. L'elemento moralistico
non è quasi mai dichiarato; l 'immaginazione è viva; nel complesso si tratta di
autentica, buona letteratura.
I Dialoghi dei morti (essi pure dedicati all'alunno, quando ormai si era fatto
ragazzo) introducono personaggi illustri dell'oltretomba ed hanno, oltre allo
scopo di dare ammaestramenti morali, quello di insegnare in modo interessante
e divertente la storia e la mitologia e di giudicare il comportamento dei personaggi
sia dal punto di vista morale sia da quello della prudenza politica.
Il Trattato sull'educazione delle fanciulle, dedicato alla duchessa di Beauvilliers, è un libro scritto più per le madri che per gli educatori di professione. Il
libro lamenta l'insufficienza dell'educazione femminile, affronta il problema pedagogico (femminile e maschile) in generale e tratta dei difetti delle donne e della
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
loro educazione. L'opera, nel complesso, è asistematica e priva di una profonda
unità. Essa affronta il delicato problema senza uscire dallo spirito del tempo.
Fénelon pensa quasi esclusivamente a quelle ricche gentildonne che tanto contribuiscono a determinare l'atmosfera di corte e il costume dell'epoca. In verità
non mancano alcune considerazioni valide per l'educazione di donne di tutte le
classi, ma ogni qual volta accenna esplicitamente ai compiti più specificamente
sociali della donna, il nostro autore ce la presenta invariabilmente come :responsabile di una grande casa, alla testa di numerosi servi, in frequente contatto con i
grandi della nobiltà. Ma, anche prescindendo da ciò, il libro rimane entro lo spirito del tempo in quanto non accenna neppure al problema di una possibile parità
della donna. La donna ha indubbiamente una missione importante nella vita, ma
l 'ha proprio in quanto donna, vale a dire come madre, come massaia e come
ispirat:rice delle buone o cattive azioni degli uomini.
Dal punto di vista della pedagogia in generale, Fénelon mostra di non essere
entusiasta del puro sapere e dell'alta specializzazione, nemmeno pe:r gli uomini.
Il fine di quell'educazione che deve essere impartita a tutti è la realizzazione della
ragionevolezza, dell'assennatezza. Educazione formativa, dunque, senza però che
egli giunga ad attribuire una funzione speciale a quelle che ai suoi tempi erano
considerate discipline formative per eccellenza: il latino oppure la matematica.
Pe:r lui, si tratta solo di realizzare un certo equilibrio di vita sentimentale, una
certa compostezza del comportamento, di affinare il gusto, di realizzare quell'autodominio che è avviamento alla moralità: il complesso di tutto ciò è, pe:r
lui, la :ragionevolezza.
Una delle tesi più interessanti di Fénelon, anche se non esplicitamente svolta,
è quella secondo la quale il bambino non è un uomo in miniatura, debole, incapace ma pur sempre tale che a lui ci si possa :rivolgere con il linguaggio valido
per gli adulti. Il bambino ha una st:ruttu:ra psichi ca sua propria; in lui prevalgono
il sentimento, la memoria, la fantasia. Su queste attività psichiche bisogna dunque
far leva. Egli raccomanda pertanto un grande uso di stampe e quadri, possibilmente a colori.
Grande importanza Fénelon attribuisce alla conoscenza delle irripetibili caratteristiche personali del singolo educando; egli fa acute osservazioni sui vari
tipi di bambini, con i lo:ro pregi e difetti, indicando poi come l'educatore debba
adeguare al singolo alunno il metodo che, dunque, non può essere definito una
volta per sempre, ma deve variare di caso in caso, secondo l'agile inventiva del
maestro.
Un altro spunto interessante è quello che :riguarda l'educazione indiretta.
È bene che il fanciullo non abbia l'impressione che gli si stia facendo la predica
e che si pretenda di farlo agire secondo la volontà altrui. Fénelon, anticipando
Rousseau, ritiene che si debba «far credere» all'educando di essere libero, salvo
manov:ra:rlo indirettamente con opportuni accorgimenti, in modo da guidarlo
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Il problema dell'educazione nel
XVII
secolo, Il giansenismo
senza deprimere lo slancio della sua iniziativa e del suo interesse. Anche le lezioni
debbono perlomeno «apparire» improvvisate. Lo studio sia divertente. Non
si deve concentrare tutta la pena nel lavoro scolastico e tutto il piacere nel gioco;
bisogna che la gioia si comunichi anche allo studio. Quanto alla disciplina,
Fénelon raccomanda di non abusare delle punizioni e, soprattutto, di non punire
mai quando l'educatore o l'educando siano in preda alla collera.
Per i portorealisti e in particolare per Jacqueline Pascal, sorella del filosofoscienziato a cui verrà dedicato il prossimo capitolo, il punto di partenza teologicomorale dell'educazione è, naturalmente, lo stesso su cui si basa il programma
delle «piccole scuole» delle quali abbiamo parlato nel paragrafo IV. Senonché,
mentre nelle scuole maschili la coscienza religiosa si forma soprattutto attraverso
lo studio, in quelle femminili essa è suscitata con mezzi psicologici essenzialmente
esteriori, il cui :risultato a noi appare come una sostanziale violazione della persona umana. Va chiarito però che le alunne, cui la Pascal si rivolge, sono in prevalenza orfanelle destinate alla vita monastica.
Il silenzio regna sovrano nel collegio femminile di Port-Royal. Le alunne non
possono parlare tra loro che per giustificati motivi e tramite la maestra. Quando si
spostano, debbono camminare tra due monache, l'una davanti l'altra di dietro,
affinché, rallentando o accelerando, non possano raggiungere le compagne e comunicare con loro. Passano gran parte della giornata in meditazione e in preghiera.
Lavorano sempre isolate e in silenzio. La regola raccomanda inoltre che si eviti
un eccessivo entusiasmo della giovane per il lavoro che sta compiendo: l'opera
infatti è tanto più gradita a dio quanto meno piace a chi la fa. Anche il cibo deve
essere accettato quantunque non piaccia, per spirito di sacrificio. Il corpo « è destinato a servire di pasto ai vermi » e pertanto non merita alcuna cura. Ogni atteggiamento familiare è condannato, non solo nei rapporti delle alunne con le
maestre, ma anche in quelli delle alunne tra loro. La giornata delle educande dura
da quattordici a sedici ore, e ciò per sei oppure otto anni, in cupa solitudine, rotte
solo dal suono della campana che annuncia il cambiamento di attività. La scuola
femminile giansenistica non può dunque essere considerata che una delle più
tetre e malinconiche creazioni di un sentimento religioso esasperato fino all'aberrazione.
Tutt'altra atmosfera troviamo, perlomeno in un primo periodo, nell'istituto
di Saint-Cyr, fondato nel 1686 da madame de Maintenon. Si tratta di un collegio
mirante ad assicurare asilo ed educazione ad alcune centinaia di fanciulle della
nobiltà decaduta o figlie di ufficiali caduti in guerra, secondo una concezione
sociale che, nonostante la limitazione classista, rappresenta pur sempre un motivo
di modernità. Le alunne entrano a Saint-Cyr a sei o sette anni e vi rimangono
fino ai diciotto o venti. Coloro che si orientano alla vita monastica sono l'eccezione. L'istituto mira a formare delle buone mogli e madri di famiglia. Fra
le ex alunne si scelgono, di norma, anche le istitutrici del collegio.
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Il problema dell'educazione nel xvn secolo. Il giansenismo
Dal momento in cui è entrata nel collegio, la fanciulla deve considerarsi
definitivamente staccata dalla famiglia (in questo Saint-Cyr ricalca le orme dei
gesuiti): potrà vedere i genitori solo quattro volte all'anno, mezz'ora per volta,
alla presenza di una maestra.
Per quanto riguarda il piano di studi e, in generale, l'attività delle alunne,
bisogna distinguere due periodi storici: fino al 1692 lo spirito dell'istituto è
largo e liberale. Sebbene ci sembri eccessivo il giudizio di chi parla di educazione
«laica», è indiscutibile che a Saint-Cyr, in questi anni, domina un'atmosfera
anche troppo allegra. Il centro dell'attività del collegio è costituito dalle famose
rappresentazioni drammatiche, preparate dalle alunne sotto la guida di Racine
e di Boileau e messe in scena alla presenza del re e della corte. Ma a madame de
Maintenon parve che tutto ciò sollecitasse pericolosamente la vanità delle fanciulle; pertanto essa diede un energico, decisivo colpo di timone. Lo spirito della
casa venne riformato; Saint-Cyr diventa un monastero affidato alle suore dell'ordine agostiniano. L 'istruzione diviene una cosa secondaria: si impara a leggere,
a scrivere, a far di conto e poco più. I libri profani sono proibiti e la storia si riduce
alla serie dei re di Francia. La disciplina diviene più rigorosa e mira al perfezionamento della virtù dell'obbedienza, secondo il modello gesuitico, e grande importanza acquista il lavoro manuale. Si escludono però i lavoretti inutili, i ricami
troppo fini: le ragazze debbono soprattutto cucire biancheria e vestiti, fare la
calza, pulire i dormitori e le classi, preparare e sparecchiare la tavola; devono
insomma prepararsi alla vita domestica. La formazione religiosa, ovviamente,
è assai curata, ma in una forma semplice e realistica, senza eccessive ore di preghiera e, soprattutto, conservando un'atmosfera di giovanile serenità.
In complesso, l'opera della Maintenon, che per più di trent'anni non cessa
di visitare quotidianamente l 'istituto, contribuisce ad impedire che la corruzione
della corte si diffonda troppo rapidamente in provincia e fornisce ai vecchi castelli donne educate all'antica, di solide virtù e semplici costumi.
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CAPITOLO SETTIMO
Pasca/
I
· VITA E OPERE
Blaise Pasca! nacque a Clermont nel I623 da famiglia agiata, appartenente
alla piccola nobiltà di toga. Aveva due sorelle: Gilberte, di tre anni più anziana
di lui, e Jacqueline, di due anni più giovane. Morta la madre quando Blaise aveva
appena tre anni, l'educazione dei figli fu assunta con molto impegno dal padre,
Étienne, che era un magistrato di grande moralità e cultura, ricco di interessi
per le scienze esatte (godeva l 'amicizia del padre Mersenne ed era in relazione
epistolare col grande matematico Fermat). Da lui il nostro autore venne abituato,
fin dai primi anni, a cercare in ogni questione una piena evidenza intellettiva.
Di intelligenza estremamente precoce, Blaise rivelò subito una tendenza
eccezionale per la matematica. Essendosi il padre trasferito a Parigi nel 1631,
il giovane cominciò a frequentare con lui (dal I 6 3 5) le famose riunioni che si
tenevano presso il Mersenne; poté così seguire da vicino gli appassionati dibattiti
che contrassegnarono il rinnovamento scientifico della cultura europea di quegli
anni, traendone sprone ad approfondire i problemi di matematica e di fisica
allora di maggiore attualità.
Nell'autunno 1639-40, essendo appena sedicenne, scrisse un brevissimo ma
geniale Essai pour /es coniques et génération des sections coniques che venne stampato
a Parigi nel 1640. La trattazione del classico argomento veniva svolta nel quadro
di quella che oggi chiamiamo « geometria proiettiva »; essa conduceva il giovane
autore a un risultato nuovo del massimo interesse, che ancora oggi 'suoi venire
denominato «teorema di Pasca!», concernente l'esagono iscritto in una conica
qualsiasi.
Non ancora ventenne Blaise ideò la sua famosa macchina calcolatrice, capace di eseguire speditamente le principali operazioni aritmetiche (la caratteristica
nuova e fondamentale di questa macchina era l 'esecuzione del riporto automatico);
ciò che lo aveva indotto a dedicarsi a tale argomento, era il desiderio di agevolare
i conti del padre, che doveva occuparsi - per motivi di ufficio - della ripartizione delle tasse in Normandia. Il modello definitivo della « pascaline » risale
al 1645 e rappresenta, per l'epoca, un vero capolavoro.
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Pasca!
Intanto si occupava intensamente del problema del vuoto, che era allora di
grande attualità, come comprovato dalla celebre esperienza di Torricelli. Pascal
lo affrontò con metodo prettamente sperimentale, nel più schietto spirito galileiano. Non solo riuscì a confermare l'esperienza torricelliana, ma pervenne
inoltre a un fondamentale principio, noto appunto come « principio di Pascal »,
sulla uniforme trasmissione della pressione (entro i fluidi) in tutte le direzioni.
Nel 1647 pubblicò sull'argomento lo scritto Expériences nouvelles touchant le vide
(Nuovi esperimenti intorno al vuoto); ritornerà poi su di esso in alcune lettere scientifiche ( 1647 e 1648), dedicate alla difesa e ali 'approfondimento dei risultati raggiunti.
A diciotto anni la salute del giovane pensatore, sottoposta a prove eccessive
per l'intenso studio, aveva cominciato a destare serie preoccupazioni. Nel 1646
subì un ulteriore peggioramento. Proprio in questo anno egli entrò in contatto
con il movimento giansenista, che subito suscitò le più profonde simpatie sia in
lui che nei suoi familiari (in particolare nella s_orella Jacqueline). In questa caratteristica situazione Pascal ebbe le prime crisi religiose (in seguito alle quali
condusse vita ritiratissima), ricavandone la ferma convinzione di non dover rimanere chiuso nelle « scienze astratte », ma di doversi dedicare soprattutto allo
studio dell'uomo. Ciò non significa çhe da quel momento egli abbia perso ogni
interesse per le ricerche scientifiche; al contrario, continuerà ad occuparsene a
lungo e vi conseguirà ancora notevolissimi risultati. Ma i problemi etico-religiosi
finiranno per prendere il sopravvento, diventando negli ultimi anni la ragione
•
fondamentale della sua vita.
Al 1648 risale una nuova pubblicazione di Pascal sul vuoto e un nuovo
scritto sulle coniche ( Traité des coniques) che però è andato smarrito: di esso ci è
giunta solo la prima parte e un'analisi schematica fattane da Leibniz. Allo studio
dei fluidi dedicherà ancora due notevoli scritti dal titolo Équilibre des liqueurs
(Equilibrio dei liquidi) e De la pesanteur de la masse de l'air (La pesantezza della massa
dell'aria), composti tra il 1651 e il '54, ma pubblicati solo postumi nel 1663.
Il 1648 segnò pure il rientro di Pascal nella vita mondana; dapprima egli
riprende a frequentarla per ordine del medico, ma poi ci si appassiona e giunge
perfino a progettare « di acquistare una carica e di prendere moglie ». Intanto
nel 1651 muore il padre e nel 165 z la sorella Jacqueline entra nel convento di
Port-Royal ave ,rronuncerà i voti nel 165 3·
Al 1654 risalgono una importantissima lettera di Pascal a Fermat sul calcolo
delle probabilità (l'interesse per questo tipo di calcolo era stato suggerito al nostro
autore dalla sua viva e intelligente partecipazione ai giochi d'azzardo, molto
diffusi nei salotti mondani dell'epoca) e il Traité du triangle arithmétique che verrà
stampato postumo nel 1665 con altri brevi lavori su argomenti analoghi. In
tale anno però (1654) ha inizio una nuova crisi di misticismo, che si risolve nella
notte del z3 novembre: Pascal stesso descrive ciò che ha provato durante quella
notte, per lui tanto importante, in alcune celebri pagine solitamente note col
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Pasca!
titolo di Mémorial. Nel I65 5 trascorre qualche settimana nell'abbazia di PortRoyal e scrive La conversion du pécheur (La conversione del peccatore).
Acuitasi nel frattempo la polemica dei gesuiti contro i giansenisti, Pascal
interviene in difesa di questi ultimi, scrivendo fra il gennaio del I 6 56 e il marzo
del I 6 57 diciotto celebri lettere, le Provincia/es, raccolte poi in volume nello stesso
1657. Il suo scopo è di sferzare la morale dei gesuiti e di criticarne a fondo i presupposti filosofico-teologici. Esse suscitarono una dura e violenta reazione da
parte del potentissimo ordine: vennero inserite nell'Indice dei libri proibiti e
condannate ad essere pubblicamente bruciate per mano del boia.
Pascal progetta di scrivere una grande opera apologetica, rivolta a dimostrare la verità della religione e a convertire l'animo degli increduli. Ma proprio
nell'intento di rendere più efficace tale opera, decide di attirare su di sé, in forma
clamorosa, l'attenzione del mondo scientifico. Avendo scoperto, nel I657, alcune notevolissime proprietà della cicloide (o roulette) - curva che in quegli
anni aveva costituito l'oggetto di studio di parecchi matematici - all'inizio del
I658 indice (sotto lo pseudonimo di Dettonville) un pubblico concorso a premi
sopra sei quesiti intorno ad essa, con il proposito di rispondervi egli stesso nel
caso di insuccesso altrui. Nell'ottobre del medesimo anno pubblica una Histoire
de la roulette ove - sempre al fine di accrescere l 'interesse della sfida - espone,
con innumerevoli inesattezze cronologiche ed anzi alcune vere e proprie calunnie,
i precedenti e il complicato sviluppo del concorso. Infine, il I 0 gennaio I 6 59,
abbandonata ormai la veste dell'anonimato, rende finalmente nota la propria
soluzione dei sei quesiti. Il Traité général de la roulette fa parte di un volume dal
titolo Diverses inventions en géométrie, che raccoglie pure vari altri opuscoli, ove
sono dimostrati parecchi interessantissimi teoremi di argomento geometrico e
in fini tesimale.
Il carattere paradossale di tutta la vicenda, che suscitò innumerevoli e astiose
polemiche, non può venire spiegato in altro modo se non mediante il singolare
scopo poco sopra accennato, di ordine non scientifico ma pratico. Esso non
toglie nulla, però, al valore dei risultati raggiunti, che costituiscono un vero
capolavoro di indagine matematica.
Al I 6 58 risalgono pure (perlo meno secondo alcuni studiosi di Pascal mentre
altri li collocano nel I654) due brevi ma interessantissimi scritti di argomento
epistemologico e metodologico: De l'esprit géométrique e De l'art de persuader.
Essi hanno una forma frammentaria, e probabilmente costituivano la traccia
della prefazione che il nostro autore si proponeva di premettere all'anzidetta
opera apologetica. Vi si trovano esposte alcune assai importanti regole metodologiche, per le quali rinviamo al capitolo IX dedicato alla logica.
Quanto all'opera apologetica, essa non venne mai completata; ma le numerose pagine che Pascal ne lasciò scritte (a volte in forma di semplici appunti)
ci permettono di intuirne la struttura generale. Esse vennero pubblicate nel I67o
312.
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Pasca l
con il titolo Pensées de M. Pasca/ sur la religion et sur quelques autres st!Jets (Pensieri
del St;g. Pasca/ sulla religione e su alcuni altri argomenti). Pur nella loro frammentarietà
costituiscono il testo principale per l'esame della concezione filosofica pascaliana.
Dal 1659 in poi si dedicò pressoché interamente all'attuazione dell'ideale di
perfezione cristiana, delineato per l'appunto nei Pensées. Prese ancora parte però
alle lotte che si svolgevano intorno al centro di Port-Royal, non celando la propria vivissima amarezza per la persecuzione di tale centro ad opera delle autorità
politiche e religiose.
Morì, dopo lunghissima malattia sopportata con rara forza d'animo, nell'agosto 166z, a soli trentanove anni di età.
II
· MATEMATICA E FISICA
Quanto abbiamo accennato per sommi capi nel paragrafo precedente potrebbe già essere sufficiente a dimostrare la vastità dei contributi forniti da Pascal
allo sviluppo della scienza del suo secolo. Sarà tuttavia opportuno aggiungere
qualche ulteriore informazione che metta in luce la profondità e novità di tali
contributi, anche per poter poi discutere - sia pur molto brevemente - i
rapporti fra il pensiero scientifico e quello filosofico del nostro autore.
Per ciò che riguarda le sue ricerche giovanili di geometria, ci limiteremo a
osservare che il metodo adoperato da Pascal si ispirava a quello introdotto qualche
anno prima da Girard Desargues, di cui pochi contemporanei compresero l'importanza (tant'è vero che venne praticamente trascurato per oltre un secolo e
mezzo, onde solo nell'Ottocento darà i suoi grandi frutti). Il nostro autore non
si sofferma a discutere la portata generale del metodo, ma lo applica con eccezionale perizia, oltrepassando di molto i risultati raggiunti da Desargues. Sorge
quasi spontanea la domanda: che svolta avrebbe potuto subire la geometria se
Pascal avesse proseguito con impegno le sue ricerche? Ma è un problema
che non vale la pena affrontare perché priv,o di senso storico.
Di non minore genialità furono gli studi di Pascal sul calcolo delle probabilità
e sul calcolo combinatorio. Il più importante quesito probabilistico discusso
può venire così riassunto: se due giocatori interrompono la loro partita dopo
un certo numerp di giocate, come dovrà venire fra essi suddivisa la posta in gioco,
affinché tale ripartizione risulti « giusta », e cioè proporzionale alle probabilità
che ciascuno ormai possiede di vincere? Si tratta in altri termini di determinare
come varii, dopo ogni singola giocata, la probabilità di vittoria di ognuno dei
giocatori. Il metodo ideato a tal fine da Pascal è ingegnosissimo e di notevole
efficacia. Per quanto concerne il calcolo combinatorio, basti ricordare che esso
sta alla base della costruzione del « triangolo aritmetico » di Pascal, da lui esposta
nel trattato su questo argomento del 1654; è una costruzione assai interessante
anche per il largo uso che vi si fa del cosiddetto principio di induzione completa,
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Pasca!
che tanta importanza assumerà nelle più moderne sistemazioni assiomatiche
dell'aritmetica.
Ma il settore in cui Pascallasciò un'impronta più profonda, fu senza dubbio
quello che potremmo genericamente indicare col nome di « analisi infinitesimale ».
Riservandoci di tornare su queste sue indagini nel capitolo x, soprattutto per
porre in luce le feconde suggestioni che gli scritti pascaliani pubblicati nella citata
raccolta del 1659 fornirono agli «analisti» dell'epoca (in particolare a Leibniz),
basti qui precisare che i più geniali risultati conseguiti in qt;esto campo dal nostro
autore concernono la rettificazione di archi, il calcolo di aree, il calcolo di volumi
di rotazione, la determinazione di baricentri. Il metodo seguito per giungere ad
essi non risulta però esattamente determinato, oscillando spesso fra le due posizioni antitetiche degli innova tori e dei fedeli ad Archimede (che verranno illustrate appunto nell'anzidetto capitolo); non che Pascal non abbia intuito altrettanto bene quanto i più avanzati innovatori del suo tempo l'importanza dell'impostazione moderna dell'analisi (cui diede anzi un impulso di eccezionale valore)
ma si sente disarmato di fronte alle obiezioni sollevate da varie parti contro di
essa, cioè contro l'uso matematico dell'infinito; ne prova un vero sgomento,
giungendo a scorgervi una sorta di conferma della crisi metafisica finito-infinito.
È, come vedremo, un tratto caratteristico del suo spirito inquieto, ma è anche
una dimostrazione della sua serietà scientifica, poiché è fuori dubbio che, ai tempi
di Pascal, l'analisi infinitesimale non aveva ancora raggiunto una sistemazione
razionalmente soddisfacente.
Quanto alle ricerche di fisica, non occorre sottolineare - tanto la cosa è
nota - l'enorme importanza dei risultati da lui raggiunti sull'elasticità dei fluidi
e sulla loro capacità di trasmettere immutate, in tutte le direzioni, le pressioni
su di essi esercitate. Le principali esperienze che avevano condotto Pascal alle
sue celebri scoperte vennero scrupolosamente ripetute dall'accademia del Cimento, e il risultato fu una conferma completa della validità delle scoperte in
questione. La cosa che merita invece di venire più sottolineata è l'impostazione
delle ricerche stesse.
Pascal accetta pienamente da Cartesio il dualismo spirito-materia, e anzi vede
in esso, d'accordo con il èartesianesimo, la più soddisfacente giustificazione dell'autonomia assoluta delle ricerche fisiche (rivolte esclusivamente alla materia) rispetto agli studi intorno all'anima. Respinge però la pretesa cartesiana di ricostruire idealmente la macchina della natura, deducendo le proprietà concrete
del mondo fisico dai principi generali della materia e del movimento. Si· oppone
in particolare all'argomentazione con cui Cartesio vorrebbe dimostrare a priori
l'impossibilità del vuoto: contro di essa si appella all'esperienza che, opportunamente interrogata, ci prova in modo incontestabile che il vuoto può venire
realizzato.
La cosa importante è, per Pascal, che lo scienziato il quale si occupa di fisica,
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Pasca!
sappia concretamente interrogare la natura con accurati e precisi esperimenti e
inoltre sappia leggere le risposte che essa gli fornisce, risalendd dai dati particolari
ai principi semplici che regolano il corso dei fenomeni. Egli ha senza dubbio il
diritto, anzi il dovere, di formulare ipotesi, ma a patto di non confonderle con la
verità (può essere degno di venir menzionato che il nostro autore attribuiva un valore meramente ipotetico alla teoria di Copernico come a quelle di Tolomeo e di
Tycho Brahe). Se in un momento qualunque un'ipotesi venisse contraddetta
dai fatti, dovremmo essere immediatamente disposti ad abbandonarla. Nessuna
dimostrazione a priori può valere più dei fatti. L'elaborazione teorica, per quanto
importante, non può venire anteposta all'evidenza dei dati sperimentali.
Trattasi di un atteggiamento estremamente significativo, in cui l 'influenza
di Galileo appare manifesta; si potrebbe anzi aggiungere che questa influenza
assume un carattere di ribellione al cartesianesimo, tanto più interessante in quanto la cultura scientifica di Pascal si era formata in un ambiente dominato da tale
indirizzo scientifico-filosofico. Ma il fatto è che egli aveva una sensibilità per il
concreto (sia in fisica che in filosofia) più accentuata che non quella di Cartesio.
III
· VALORE E LIMITI DELLA CONOSCENZA SCIENTIFICA
Il fatto stesso che Pascal sia più e più volte ritornato alla ricerca scientifica,
dopo aver deciso di abbandonarla per una vita dedicata completamente ali 'interiorità (e ciò fino al I659), sta a dimostrare che tale ricerca rappresentava effettivamente per lui un grande valore: valore mondano, senza dubbio, ma pieno di
fascino; valore tanto più pericoloso, in quanto atto ad esaltare la nostra presunzione, facendoci dimenticare la nostra fragilità (e perciò facendo passare in secondo
piano il problema della salvezza dell'anima).
La polemica di Pascal contro la scienza - polemica che diventa via via più
accesa col trascorrere del tempo - si spiega proprio col fatto che la ricerca scientifica, e in particolare quella matematica, costituì per anni la sua più viva tentazione; egli solleva pertanto contro di essa alcune gravi critiche, accusandola di
essere inutile (certamente inutile alla salvezza dell'anima), astratta, incapace di
autentica certezza. Si direbbe che vuole soprattutto convincere se stesso del
dovere di abbandonarla.
« Per parlarvi francamente della geometria, » scrive
r
in una lettera a Fermat dell'agosto I66o, «io la trovo il più bell'esercizio dello
spirito; ma nel medesimo tempo la riconosco come così inutile, che faccio poca
differenza fra un uomo, il quale non sia che geometra, e un abile artigiano. Pertanto la chiamo il più bel mestiere del mondo; ma infine non è che un mestiere.»
E nei Pensées ribadisce: « A v evo trascorso gran tempo nello studio delle scienze.
Quando cominciai lo studio dell'uomo, capii che quelle scienze astratte non si
addicono all'uomo, e che dalla mia condizione mi sviavo di più io con l'approfondirne lo studio che gli altri con l 'ignorarle. »
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Pasca!
Nel muovere alla scienza l'accusa di non condurci ad un'autentica certezza
Pascal si ispira senza dubbio allo scetticismo di Montaigne e talvolta sembra
perfino indulgere ad alcune tesi dei pirroniani. Lo scienziato non può pervenire
alla certezza assoluta perché non può attingere gli elementi primi della realtà;
lo stesso perenne accrescersi della scienza ci conferma il carattere incompleto e
provvisorio delle sue tanto decantate conquiste. « Quanti astri che non esistevano per i filosofi del passato ci sono stati rivelati dal cannocchiale!. .. Sulla Terra
ci sono erbe: noi le vediamo - Dalla Luna non si vedrebbero - E su queste
erbe, peli; e in questi peli, piccoli animali; ma poi, più nulla - O presuntuoso!
- I corpi misti son composti di elementi; e gli elementi no -- O presuntuosi,
ecco un punto delicato! - Non bisogna affermare che esiste ciò che non si vede
- Bisogna, dunque, parlare come gli altri, ma non pensare come loro. »
Pascal tuttavia non si propone soltanto di umiliare la ragione. Egli vuole
anche dimostrare che proprio la scienza - malgrado i suoi limiti - ci porta a
riconoscere la presenza dell'infinito, sia pure di un infinito che essa non potrà
mai raggiungere. «Noi sappiamo che esiste un infinito, e ne ignoriamo la natura.
Dacché sappiamo che è falso che i numeri siano finiti, è vero che c'è un infinito
numerico. Ma non sappiamo che cosa è: è falso che sia pari, è falso che sia dispari,
perché, aggiungendovi l'unità, esso non cambia natura. Tuttavia, è un numero,
e ogni numero è pari o dispari (vero è che ciò s'intende di ogni numero finito).
Perciò si può benissimo conoscere che esiste un Dio senza sapere che cos'è.»
Né è solo una scienza particolare (la matematica) a provarci l'esistenza
dell'infinito; è tutto il complesso delle scienze che ci pone di fronte ad esso, facendocelo ritrovare nella stessa struttura dell'edificio che veniamo gradualmente
costruendo. « Così, vediamo che tutte le scienze non conoscono termine nell'estensione delle loro ricerche: perché chi può mettere in dubbio, per esempio,
che la geometria non comprenda un numero infinito di proposizioni? Le scienze
sono infinite altresì nella moltitudine e nella sottigliezza dei loro principi: perché
chi non vede che quelli che vengono proposti per ultimi non si reggono da sé,
ma ne presuppongono altri, i quali, presupponendone a loro volta altri ancora,
non ne ammettono nessuno che sia l'ultimo? Ma noi ci comportiamo con i principi che la ragione conosce per ultimi come con le cose materiali: dove chiamiamo
punto indivisibile quello di là dal quale i nostri sensi non percepiscono più nulla,
sebbene sia divisibile all'infinito, e per sua natura.»
Merita di venire sottolineata l'esattezza dell'osservazione contenuta nel
brano testé citato: è indubbiamente vero che la struttura del sapere scientifico
non può ammettere limiti né relativamente all'ambito degli argomenti trattati,
né relativamente ai principi invocati nelle spiegazioni. L'epistemologia moderna
svilupperà ampiamente l'analisi di questa doppia apertura della scienza, liberando la però da ogni velo di mistero e quindi lasciando cadere in modo completo
quel senso di meraviglia che Pascal sembra provare di fronte ad essa. L'averne
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Pasca!
rilevato la presenza e l'importanza è comunque un segno della straordinaria
perspicacia del nostro autore; è una conferma della serietà con cui egli cercò
di riflettere sui caratteri del sapere scientifico.
Proprio perché espertissimo nelle ricerche particolari, Pasca! si rende perfettamente conto della sostanziale diversità fra la struttura « aperta » del sapere
scientifico (sempre incompleto, sempre passibile di radicali ampliamenti) e
quella « chiusa » della metafisica (concepita come un sapere totale e definitivo).
Rifiuta pertanto qualsiasi confusione fra i due tipi di sapere, e respinge in particolare la pretesa cartesiana di ricavare la spiegazione scientifica del mondo fisico
da principi generali di carattere filosofico. Ma non sapendosi liberare dal mito
della totalità (« stimo impossibile conoscere le singole parti senza conoscere il
tutto, come conoscere il tutto senza conoscere le singole parti »), ne conclude che
la conoscenza scientifica è una conoscenza limitata, rozza, superficiale.
Il punto più interessante di questa conclusione è che essa non lo spinge dalla
scienza alla metafisica; ché anzi egli investe nella propria critica anche le nozioni
tradizionali con cui le varie me:tafisiche hanno preteso di spiegare l'universo
(«l'uomo non può intendere che cosa sia la corporeità e ancor meno che cosa
sia lo spirito, e meno di tutto come un corpo possa essere unito a uno spirito»).
Lo spinge invece a riconoscere la nostra debolezza, e a considerare questo riconoscimento come il risultato più profondo di ogni indagine scientifica.
L'opposizione fra esprit de fìnesse ed esprit géométriqtte trova qui la propria
radice. La geometria è senza dubbio la più eminente delle scienze perché sa
prendere in considerazione un gran numero di principi astratti deducendone
con rigore le conseguenze logiche (in ciò essa risulta superiore alla fisica, che si
basa su un numero assai più limitato di principi). Ma lo spirito geometrico non
è in grado di cogliere la situazione poco sopra accennata, che non emerge da
lunghe catene di ragionamenti, bensì da una presa di coscienza - immediata e
intuitiva - dell'effettiva realtà del sapere scientifico. E analogamente esso risulterà inidoneo a trattare tutte quelle questioni ove occorre «finezza», ove cioè
le cose « si scorgono appena; si sentono più che non si vedano; è molto difficile
farle sentire a chi non le senta da sé ». In tale tipo di questioni rientrano per eccellenza, secondo Pasca!, l 'uomo e le faccende umane.
Prima di passare ad esporre le concezioni elaborate dal nostro autore relativamente al campo (delle faccende umane) ove è più che mai necessario lo spirito
di «finezza», sarà comunque opportuno ribadire ancora una volta che l'opposizione dei due esprits non implica affatto, secondo Pasca!, una parallela opposizione fra il campo delle conoscenze umane e il campo indagato dalle scienze
matematico-fisiche. Anche in quest'ultimo infatti, come abbiamo visto, emergono
nozioni che possono venire colte soltanto mediante l'esprit de fìnesse. Tali soprattutto le nozioni concernenti l 'infinito, sia come infinita divisibilità sia come
infinita accrescibilità. Coloro che le avranno studiate seriamente «potranno
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Pasca!
ammirare la grandezza e la potenza della natura in questa doppia infinità che ci
circonda da ogni parte, e potranno imparare da questa considerazione meravigliosa a conoscere se stessi, vedendosi posti fra una infinità e un nulla di estensione, fra una infinità e un nulla di numero, fra una infinità e un nulla di movimento, fra una infinità e un nulla di tempo. Sulla base di ciò, l 'uomo può imparare a stimarsi al suo giusto prezzo, e può elaborare delle riflessioni che valgono
più di tutta intera la geometria ». Estensione, numero, movimento, tempo,
sono ovviamente oggetti specifici delle scienze matematico-fisiche; ma quando
riflettiamo su di essi con esprit de ftnesse, cessano di essere oggetti di un sapere
puramente astratto, per diventare parti integranti di una ben più valida conoscenza concreta.
IV
· LA CONOSCENZA DELL'UOMO
Abbiamo poco fa ricordato che nella conoscenza dell'uomo è più che mai
necessario - secondo Pascal - l'esprit de ftnesse. Non avrebbe senso infatti
voler applicare allo studio delle faccende umane lo stesso metodo deduttivo applicato nello studio della geometria « perché non se ne possiedono nella stessa
maniera i principi» e la ricerca di essi comporterebbe «un'impresa senza fine».
Per svolgere la sua analisi della realtà umana con esprit de ftnesse, Pascal
si richiama spesso agli insegnamenti di Montaigne (le cui opere erano, con quelle
di Epitteto, fra le sue più consuete letture): è la concretezza delle osservazioni
del grande saggista, è la loro penetrante sottigliezza, la loro serietà e profondità
appena mascherata da una scintillante veste ironica, ciò che più lo impressiona.
Pur opponendosi alle conclusioni di Montaigne, il nostro autore cerca di imitarlo,
e perfino giunge talvolta a ripeterne le medesime parole, perché è convinto che
solo questo tipo di trattazione è veramente in grado di farci intuire l'autentica
realtà della situazione umana.
Pascal condivide appieno la spietata denuncia, operata da Montaigne, del
fallimento cui va incontro la fiducia « diabolica » nelle capacità umane. A riprova di questo fallimento si sofferma, quasi compiaciuto, ad elencare con
estremo acume le minime circostanze che sono in grado di porre in difficoltà
le nostre più superbe azioni. Ecco per esempio due celebri « pensieri » di particolare efficacia: « Il naso di Cleopatra: se fosse stato più corto, tutta la faccia del
mondo sarebbe cambiata »; « Lo spirito di questo sovrano giudice del mondo non
è così indipendente da non poter essere turbato dal primo rumore che si faccia
intorno a lui... Non dovete stupire se in questo momento non ragiona bene:
una mosca gli ronza intorno all'orecchio, e ciò è sufficiente a renderlo incapace
di una saggia decisione. Se volete che possa trovare la verità, scacciate via quell'insetto, che tiene in scacco la sua ragione e turba quel possente intelletto, che
governa la città e i reami ». Potremmo senza difficoltà citare altri esempi altret-
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Pasca!
tanto significativi; l 'importante è però far presente come, nel pio intento di umiliare la « superba ragione », Pasca! riesca in verità a porre in luce - con eccezionale realismo - l'effettiva dipendenza, nell'individuo concreto, della mente dal
corpo, il quale viene così ad assumere un rilievo sfuggito per l'innanzi a molti
pensatori anche assai spregiudicati. Autorevoli studiosi moderni di antropologia
giungono a vedere, nelle realistiche analisi pascaliane della situazione umana
(se le leggiamo prescindendo dallo scopo di edificazione per cui egli le svolgeva),
un autentico contributo al sorgere della loro disciplina.
A differenza di Montaigne, il nostro autore inserisce però l'anzidetta denuncia della debolezza umana in un quadro più ampio, nel quale essa compare
come momento importantissimo, ma non unico, della nostra situazione. Accanto
ad esso sottolinea infatti la presenza di un altro momento, altamente positivo,
che dà luogo -insieme col primo- ad una dialettica molto simile a quella fra
infinitamente piccolo e infinitamente grande delineata alla fine del paragrafo
precedente. Nel caso della realtà umana come nel caso del tempo, dello spazio,
del movimento, ecc., è proprio l'esprit de ftnesse che ci conduce a questa scoperta,
quando ci affidiamo all'immediatezza dell'intuito per cogliere il nucleo più profondo dei problemi.
È il pensiero, è la coscienza, ciò che fornisce ali 'uomo questa nuova dimensione, essenzialmente contraddittoria con quella poco sopra descritta. «L'uomo
è solo una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa. Non occorre che l 'universo intero si armi, per annientarlo; un vapore, una goccia di
acqua bastano a ucciderlo. Ma, quand'anche l'universo lo schiacciasse, l'uomo
sarebbe pur sempre più nobile di quel che l'uccide, perché sa di morire e (sa)
la superiorità che l 'universo ha su di lui; mentre l 'universo non ne sa nulla. »
In questa contrapposizione fra il pensiero e il mondo corporeo è ovviamente
riconoscibile uno dei temi fondamentali della filosofia cartesiana: la distinzione
fra res cogitans e res extensa. Ma tale tema assume in Pasca! un aspetto nuovo:
diventa il drammatico contrasto fra la nostra dignità di esseri pensanti e la nostra
finitezza di fragili esseri corporei, circondati da un mondo infinitamente più
grande e più forte di noi. È ben spiegabile quindi che, nel riflettere su di esso,
Pascal preferisca ricollegarsi al mito biblico del peccato originale anziché all 'idea cartesiaM - chiara e distinta - della differenza fra le due sostanze: vede
pertanto, nella nostra miseria, l'effetto disastroso della caduta di Adamo e, nella
nostra dignità, la traccia indelebile della primitiva grandezza dell'uomo.
In tal modo la scoperta della realtà contraddittoria del nostro essere viene a
costituire, per Pasca!, il più serio avvio ad un'autentica meditazione religiosa.
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V
· L'APOLOGETICA PASCALIANA
Pascal non ammette in alcun modo che le cosiddette prove razionali dell' esistenza di dio siano veramente in grado di condurci al dio del cristianesimo.
Le sue dichiarazioni sull'argomento sono di una chiarezza inequivocabile. Egli
giunge anzi a riconoscere una vera e propria opposizione fra il « dio dei filosofi
e dei dotti » e quello della tradizione religiosa ebraico-cristiana, sicché il puro
teismo risulterebbe « altrettanto lontano dalla religione cristiana quasi quanto
l'ateismo». Nessun altro autore cristiano prima di lui aveva mai riconosciuto
con altrettanta franchezza e lucidità l'abisso che separa la filosofia dall'autentica
religione: nessuno cioè aveva sottoposto ad una critica così radicale l 'idea stessa
di una filosofia cristiana.
Le conseguenze che egli ricava da questa critica sono lineari: il vero dio
non può venire raggiunto con la mera ragione. La via che ci conduce a lui è
un'altra, ma non perciò meno sicura: è la via del cuore. Via che ce lo fa« sentire»
come essere personale, che ama e consola chi crede in lui. Col termine « cuore »
Pascal indica una nuova facoltà conoscitiva, non solo antitetica, all'esprit géométrique ma diversa dallo stesso esprit de .ftnesse: essa ha un carattere intuitivo come
quest'ultimo, ma è diretta, non più a cogliere la natura contraddittoria degli
esseri relativi, bensì ad afferrare l'essere assoluto. È la fede, che opera in noi
producendo una totale conversione del nostro animo.
Come bene scrive Vittorio Enzo Alfieri: « Nessun tentativo di dimostrare
Dio partendo dalla natura può giungere a risultati indubitabili, anzi accrescerà i
dubbi, fornirà armi agli atei, e insomma in nessun caso approderà alla religione
rivelata ... L'oggettivismo dei teologi e dei filosofi dà per posseduta e conosciuta
la realtà trascendente. E invece la trascendenza dev'essere riconosciuta come esigenza di ammettere ciò che sta fuori e al di sopra di noi, realtà correlativa al nostro
senso del limite e della finitezza. Bisogna partire dal soggetto e non dall'oggetto:
dall'uomo, dalla nostra realtà interiore, da ciò che ci è più noto e maggiormente
possibile conoscere, non già da ciò che presumiamo noto ma che solo afferriamo
sotto mille illusorie apparenze. »
Stando così le cose, l'apologetica di Pascal - manifestamente influenzata
dal pensiero agostiniano - consisterà soprattutto nella delineazione dell'itinerario che l'uomo ha da seguire per giungere alla fede, e proprio, come si è
detto, alla fede nel dio ebraico-cristiano.
Secondo il nostro autore, il primo passo di questo itinerario consiste per
l'appunto nella presa di coscienza della situazione contraddittoria dell'uomo,
rapidamente analizzata nel paragrafo precedente. Comprendere a fondo questa
situazione significa provare l'esigenza di un essere che ci trascenda, cioè di un
essere capace, proprio perché assolutamente superiore a noi, di risolvere la
nostra intima contraddittorietà. Sarà questa esigenza a farci afferrare l'assoluto,
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Pasca!
a farcelo amare, a farci scoprire in lui la sorgente della felicità totale cui aspiriamo.
« La vera natura dell'uomo, » scrive Pascal, « il suo vero bene, la vera virtù
e la vera religione son cose la conoscenza delle quali è inscindibile. »
Non è il caso di soffermarci ad analizzare i sottili (e artificiosi) argomenti
con i quali il nostro autore pretende di provare che proprio la tradizione ebraicocristiana, e solo essa, è in grado di soddisfare pienamente l'esigenza anzidetta.
Basti sottolineare che il nucleo della prova consiste, secondo Pascal, nei due
stessi misteri che stanno al centro di tale tradizione: il mistero del peccato (del
peccato originale come pure della sua trasmissione) e quello della salvezza:
« Le grandezze e le miserie dell'uomo son così evidenti che è necessario che la
vera religione ci insegni che è in lui qualche gran principio di grandezza e un
grande principio di miseria; e ci renda ragione di così stupefacenti contrasti. »
« Perché una religione sia vera, è necessario che abbia conosciuto la nostra natura. Bisogna che ne abbia conosciuto la grandezza e la miseria, e le cause dell'una e dell'altra. Chi, tranne la religione cristiana, l'ha conosciuta?» «Tutta
la fede consiste in Gesù Cristo e in Adamo. » « ... Appena la religione cristiana ci
rivela questa verità - essere la natura umana corrotta e decaduta da Dio subito i nostri occhi si aprono a scorgerne dappertutto i segni, perché la natura
è così fatta che attesta in ogni dove un Dio perduto, e nell'uomo e fuori dell'uomo, e una natura corrotta. » « Soltanto la grazia può far di un uomo un santo;
e chi ne dubita ignora che cosa sia esser santo e che cosa esser uomo. »
Ma come possono due misteri (per loro stessa natura superiori alla ragione)
fornirci la base di un'autentica prova, nel vero e proprio senso di questo termine? Non vi è un manifesto circolo vizioso nella pretesa di fare appello ad essi,
per convincerci di una dottrina il cui centro risulta proprio costituito dai due
misteri in questione?
Pascal si rende perfettamente conto della validità di questa obiezione sul
piano astratto della logica. Non ne resta tuttavia intimorito perché è proprio
questo piano astratto ciò che occorre secondo lui abbandonare. A che servirebbero, altrimenti, tutte le precedenti meditazioni sullo scacco della ragione?
Di fronte al quesito se dio esista o no, sarebbe assurdo voler ricorrere a pure
argomentazioni razionali, che già sappiamo inconcludenti; occorre invece assumere un altro ~tteggiamento, adeguato all'incertezza in cui di fatto ci troviamo
a vivere, e nel contempo capace di suggerirei una via d'uscita, la «più razionale»
possibile (il che non significa, come è ovvio, «via assolutamente razionale»).
È il nuovo atteggiamento che sta alla base del famoso argomento pascaliano del
«pari »(scommessa).
Molto si è discusso sul significato filosofico di questo appello alla scommessa, cioè a un tipo di certezza strutturalmente diversa da quella logico-matematica (basata- quest'ultima- su un rapporto necessitante e quella invece su
una semplice speranza, sia pure fortificata da serie argomentazioni). Vi è chi è
p. I
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Pasca!
giunto (Lucien Goldmann) a vedervi una svolta fondamentale del pensiero moderno, svolta che ricomparirà- sotto forma diversa ma con significato altrettanto
pregnante- nella filosofia di Marx. Non potendo soffermarci a discutere questa
interpretazione, che ci porterebbe troppo lontano dall'argomento del presente
capitolo, ci limiteremo a riportare il più fedelmente possibile i vari passaggi attraverso cui si articola il singolarissimo ragionamento pascaliano.
Il punto di partenza è - secondo il nostro autore - il tremendo quesito:
esiste o non esiste dio? Di fronte ad esso non si può che rispondere con un sì
o con un no. Orbene, si domanda Pascal, « da quale parte inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c'è di mezzo un caos infinito. All'estremo
di quella distanza infinita si gioca un gioco in cui uscirà testa o croce. Su quale
dei due punterete?». Mentre nei comuni giochi d'azzardo, la persona che non
sa o non vuole decidersi può rinunciare a giocare, qui tale rinuncia è impossibile
poiché il vivere stesso - comunque si viva - coinvolge una scelta fra le due
risposte (esistenza o inesistenza di dio). Bisogna allora mettere da parte la pretesa di una dimostrazione rigorosamente razionale ( « secondo ragione, non
potete puntare né sull'una né sull'altra; e nemmeno escludere nessuna delle
due»), e accingersi - come appunto fa il buon giocatore- a valutare con serietà i vantaggi e gli svantaggi di ciascuna delle due puntate: « Pensiamo il
guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate a favore dell'esistenza di Dio.
Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete
nulla. » E allora non possono esservi dubbi sulla conclusione: « Scommettete
dunque, senza esitare, che egli esiste. »
Il nostro autore non si nasconde che l'argomentazione ha in sé un fondo
ineliminabile di incertezza: ma egli ci ricorda che quando si lavora per il domani
si lavora forzatamente per l'incerto. Aggiunge però: «Avrei molto più paura di
ingannarmi e di trovare poi che la religione cristiana sia vera, che non di ingannarmi credendola vera. »
L'unico serio ostacolo che ci trattiene dallo scommettere a favore dell'esistenza di dio è costituito - secondo Pascal - dalle nostre passioni. « Adoperatevi dunque,» egli conclude, «a convincervi, non già con l'aumento delle prove
di Dio, bensì mediante la diminuzione delle vostre passioni... Imparate da coloro
che sono stati legati come voi e che adesso scommettono tutto il loro bene ...
Seguite il metodo con cui hanno cominciato: facendo cioè ogni cosa come se
credessero, prendendo l'acqua benedetta, facendo dire messe, ecc.»
Il significato sostanzialmente irrazionalistico di questa conclusione è così
evidente, che non vale la pena insistervi. Può invece risultare opportuno onde porre in luce il peso centrale della fede, nella concezione generale di Pascal
-ricordare che egli giunge a scorgere nella fede cristiana l'unica autentica base
della verità, cosicché per chi non fosse illuminato da tale fede, l'unica filosofia
seria sarebbe lo scetticismo pirroniano: « Il pirronismo è nel vero; perché, in
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Pasca!
fin dei conti, prima di Gesù Cristo gli uomini ignoravano come fossero e se
fossero grandi o miseri. E coloro che affermavano l'una cosa e l'altra non ne
avevano nessuna cognizione, e indovinavano senza ragione, per caso; e anzi,
erravano sempre, in quanto escludevano l'una cosa o l'altra.»
Come ognun vede, le parole testé citate costituiscono una conferma inequivocabile della diffusione che avevano - nel xvrr secolo - gli indirizzi scettici,
e delle gravissime difficoltà incontrate dai pensatori più seri a trovare una convincente risposta alle obiezioni da essi sollevate. Se l'appello pascaliano alla
«scommessa» sull'esistenza di dio (e proprio del dio cristiano) non troverà
molti seguaci nella grande filosofia del Seicento, e se il suo invito a seguire le
pratiche religiose prima ancora di aver acquistato la fede non tarderà ad apparire
qualcosa di assurdo, assai più efficace si rivelerà invece - col trascorrere del
tempo - il suo appello all'irrazionale, inteso come forma di conoscenza più
autentica di quella scientifica. Esso eserciterà una profonda influenza su vaste
correnti del pensiero moderno, tutte le volte che entrerà in crisi lo spirito scientifico. Ancora oggi costituisce una forte tentazione per molti pensatori, incapaci
di comprendere il valore delle conoscenze essenzialmente relative, quali appunto
quelle raggiunte dalla ragione umana e in particolare dalle scienze.
r
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CAPITOLO OTTAVO
Caratteri e prospettive del meccanicismo nel Seicento
DI GIANNI MICHELI
I
· CONSIDERAZIONI
PRELIMINARI
Il XVII secolo è il periodo in cui sorge e si afferma quel complesso di conoscenze scientifiche che si è soliti designare con il termine di scienza moderna.
Tale espressione tradizionale pone già di per sé nella massima evidenza il fatto
che in quel periodo la scienza ha acquisito una dimensione nuova, qualitativamente differente dall'antecedente, cioè quella dimensione considerata veramente
scientifica, che non si era riscontrata in forma esauriente prima e che poi non è
stata più abbandonata. Ciò è senz'altro vero. Ci si porrebbe però in una prospettiva storicamente inadeguata se si considerassero le ricerche sulla realtà naturale
ed umana antecedenti, nel loro complesso, come meramente « prescientifiche »:
ogni indagine sulla realtà fondata su osservazioni e dimostrazioni che sono in
grado di essere comprese e accolte da tutti perché si rifanno all'uso di una facoltà, la ragione, posseduta da tutti e vincolante per tutti, deve, in linea di principio, considerarsi scientifica. In questo caso non c'è un vero e proprio iato tra le
indagini razionali sulla realtà che si erano svolte fin dall'età greca classica in cui si
eta acquisita tale prospettiva, e quelle che si svolgeranno dal Seicento in poi. È però
anche evidente che le ricerche scientifiche effettuate nel corso del XVII secolo
esercitarono un'azione di rottura profonda: in tutte le discipline di fondo (dall'astronomia alla matematica, dalla meccanica alla biologia) si ebbero svolte radicali che costituiscono gli elementi di un generale e sostanziale processo di rinnovamento.
Il carattere rivoluzionario della scienza secentesca è innegabile, ma esso va
esplicitamente riaffermato e chiarito anche alla luce degli aspetti posti in rilievo
da quegli studiosi che, sottolineando gli elementi di continuità tra le ricerche
scientifiche compiute dagli uomini del Seicento e quelle anteriori, sono inevitabilmente portati a non dare il giusto risalto agli ele.menti di rottura insiti nella
scienza secentesca. Una precisa caratterizzazione del significato della scienza del
XVII secolo è problema di importanza cruciale in quanto è necessariamente
collegato con l 'interpretazione che si dà alle linee di fondo dello sviluppo ulteriore della scienza. Non a caso è la questione su cui si sono cimentati i più grandi
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Caratteri e prospettive del meccanicismo nel Seicento
studiosi e che ha dato origine ad un gran numero di scritti, di polemiche, di controversie.
Uno dei punti da tener fermo è comunque non solo il fatto che la scienza
secentesca è rivoluzionaria, ma anche, e principalmente, che essa è rivoluzionaria
essenzialmente per l'impostazione nuova che palesa e per i metodi nuovi di cui
si avvale e non tanto per i suoi contenuti, cioè per le numerose nuove acquisizioni e le importantissime scoperte cui ha pur dato luogo. Si tratta in sostanza
di un nuovo atteggiamento verso la realtà naturale ed umana che si è venuto
faticosamente elaborando fin dal XVI secolo in un rapporto che è di sviluppo,
ma anche di opposizione.
II · IL SIGNIFICATO
DELLE NUOVE PROSPETTIVE RINASCIMENTALI
È impossibile dare una valutazione adeguata della nuova scienza del xvii
secolo senza considerare direttamente le prospettive e le tendenze di fondo dell'età rinascimentale, in quanto la scienza secentesca è lo sbocco e la naturale
conseguenza di quella crisi della cultura scientifica e filosofica tradizionale che
si viene delineando nel corso del Cinquecento. In tale secolo le prospettive di
fondo delle dottrine tradizionali non esulano sostanzialmente dal quadro generale
del razionalismo qualitativo a sfondo finalistico che era prevalso su altre tendenze
nell'ambito della scienza greca, soprattutto per opera di Aristotele.
Per razionalismo qualitativo a sfondo finalistico, concezione che rimase dominante per tutto il medioevo e ancora durante il rinascimento, si intende, grosso
modo, una concezione generale in cui la realtà viene indagata e studiata a livello
della percezione, viene cioè sistemata e inquadrata entro schemi che tendono a
tradurla, così com'è, nella forma astratta della concettualizzazione. Il processo
di« traduzione» coincide con quello dell'astrazione, per il quale, dal flusso continuo delle percezioni si derivano quelle caratteristiche essenziali o forme concettuali che determinano le qualità sensibili: queste forme vengono sistemate in un
complesso gerarchico e costituiscono la base per un'organizzazione scientifica della
realtà, di carattere definitorio e classificatorio, ma ad un tempo causale. La dottrina aristorelica delle cause è adeguata a tale concezione: la costituzione di un
oggetto (e quindi la sua valutazione scientifica) è vista in relazione ad una serie
di nessi esplicativi che servono a dare una interpretazione funzionale ed organica dell'oggetto in questione. Le quattro cause stesse (materiale, efficiente, formale e finale) hanno un senso solo se viste in modo funzionale ed organico in
rapporto al singolo oggetto o al singolo essere di cui la forma o essenza concettuale (vista in stretta connessione con la materia) è l'elemento caratterizzante.
La causa formale tende pertanto ad identificarsi con la finale, in quanto, per la
realizzazione di un determinato oggetto, la natura, come l'artista, opera avendo
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Caratteri e prospettive del meccanicismo nel Seicento
in vista come fine l'attuazione, appunto, di quella determinazione formale specifica che, realizzandosi nell'oggetto che gli è proprio, realizza il suo fine costitutivo. L'esplicazione scientifica tende quindi a riprodurre l'atto creativo della natura: in questo senso va intesa la distinzione fondamentale tra la materia e la forma,
tra l'elemento attivo e l'elemento passivo, che, insieme, determinano la formazione
dell'oggetto. Anche dottrine come quella dei quattro elementi o quella dei luoghi
naturali risultano adeguate ad una concezione che tende a risolvere la realtà in
elementi qualitativamente differenziati·, connessi fra di loro in modo potenziale e
quindi già organicamente strutturati, e non in elementi costitutivi omogenei.
Questa visione essenzialistica o sostanzialistica dei fenomeni dominò la
ricerca scientifica nell'età medievale e costituì la struttura di base della scienza
tradizionale ancora operante nell'età rinascimentale e nel primo Seicento. Si
tratta di un atteggiamento di fondo cui è intrinsecamente connessa una visione
della realtà naturale ed umana permeata di finalismo, visione che trova il suo
adeguato correlato nella concezione antropocentrica di un cosmo finito e gerarchicamente costituito, con la Terra come punto centrale di riferimento. Il sorgere
della scienza moderna è ~ conseguenza diretta della crisi di questa impostazione
della ricerca. Tale crisi si manifesta già nel corso dell'età medievale ed è il frutto
di parecchi fattori che, combinandosi fra di loro, determinano una situazione di
rottura: scaturisce da essa una nuova concezione per la quale si tende ad operare non già una« traduzione» della realtà naturale ed umana in concetti che neriproducono la differenziazione qualitativa, bensì una « riduzione » di tale realtà ad
elementi univocamente determinati. Se si vuole, si può dire che la nascita della
scienza moderna coincide con il ricupero di un'altra tradizione scientifica, elaborata
anch'essa dai greci e rimasta viva per tutto il medioevo, secondo la quale la realtà
viene interpretata sulla base di entità materiali quantitativamente determinate (atomi o corpuscoli); è bene però tener presente che il ricupero di tale tradizione, che
comprende sia il platonismo che l'atomismo, cioè concezioni profondamente diverse fra di loro, è anche accompagnato da una trasformazione radicale.
I motivi che hanno provocato il profondo mutamento di questa impostazione
tradizionale sono molteplici, come si è visto, e si distendono ovviamente in un
periodo di tempo molto lungo. Si può dire che già le ricerche metodologiche della
tarda scolastica accentrate attorno al ruolo dell'esperienza e della matematica
nell'ambito delle scienze fisiche, nonché le critiche alla dottrina aristotelica del
movimento condotte dalla scuola dei fisici parigini del xrv secolo, portino alla
crisi di alcuni punti essenziali dell'aristotelismo: esse però non intaccano quella
prospettiva generale più ampia, quell'approccio ai fenomeni basato sulla concettualizzazione, di cui l'aristotelismo rappresenta solo l'espressione più tipica e
sistematica. Del resto il pensiero di Aristotele, come quello degli altri maestri
del pensiero scientifico greco (da Euclide a Galeno, da Ippocrate a Tolomeo),
almeno nella forma tradizionale in cui veniva insegnato nelle scuole, aveva asp.6
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Caratteri e prospettive del meccanicismo nel Seicento
sunto una notevole schematizzazione e un'altrettanto notevole elaborazione conseguita attraverso i tramiti arabi. Le ricerche sulla realtà erano pertanto condotte
in modo lato, generico, sulla base, più che delle opere degli autori, delle schematizzazioni tradizionali: vertevano prevalentemente sugli schemi formali del
discorso scientifico e avevano preso un andamento estremamente analitico ed
astratto. Si può capire come le critiche degli umanisti fossero volte soprattutto
contro le sottigliezze e le astruserie degli scolastici. Gli umanisti rivendicavano
una dimensione più concreta nella ricerca, ma perlopiù limitavano tale concretezza al ristretto campo dei rapporti civili e sociali tra gli uomini (i loro studi
erano prevalentemente di carattere retorico, linguistico e storico) e mostravano
un certo disinteresse per l'indagine sulla realtà naturale: ciò fu a lungo una caratteristica tipica della cultura umanistica.
Il movimento culturale dell'umanesimo tuttavia diede un efficacissimo
contributo alla crisi della cultura scientifica tradizionale e indirettamente allo
sviluppo della nuova scienza in quanto propugnò il desiderio di far rivivere i
fastigi della cultura classica e conseguentemente un rinnovato interesse per lo
studio dei classici greci e latini nell'originale, al di là di ogni schematismo e di
ogni deformazione ulteriore. La lettura diretta e appassionata di Euclide, Archimede, Galeno, Ippocrate, Aristotele provocò il ricupero di una massa enorme
di conoscenze scientifiche, la cui assimilazione si rivelò particolarmente ricca e
feconda di sviluppi. Si trattava in effetti di accogliere e di dare un senso operante
a tutta una serie di fatti, di asserzioni, di teorie: occorreva far collimare i testi
fra di loro, far concordare le asserzioni di un'autorità con quelle di altre, vagliare
i dati e le testimonianze alla luce dell'autorità delle proprie esperienze. Si può
dire che il ricupero dc::i testi scientifici classici, accolti e intesi in tutta la pienezza
dei loro effettivi contenuti, coincise con la scoperta della loro inadeguatezza,
della loro scarsa efficacia. Questa scoperta fu il risultato di gran lunga più fecondo di tutta la cospicua e rilevante ricerca rinascimentale, nella quale ebbe un
ruolo determinante il richiamo all'esperienza. L'insistenza con cui si sottolinea
la necessità di interrogare direttamente la natura, necessità alla quale l 'uomo
di scienza del xvi secolo fu spinto anche dall'esigenza di superare le discordanze esistenti nei testi del pensiero scientifico classico, è infatti uno dei temi
più caratteristiçi della cultura rinascimentale. 1,1 rifarsi all'esperienza diretta
nell'indagine sulla natura è una conseguenza di quell'atteggiamento di maggior concretezza rivendicato dagli umanisti che si estende, nell'età rinascimentale, oltre che al mondo storico e a quello dei rapporti civili e sociali tra gli
uomini, anche allo studio del mondo esterno. In verità, il rapporto che l 'uomo di scienza rinascimentale ha verso la natura è ancora abbastanza analogo
a quello puntuale, concreto dell'esperienza comune e senza quell'esigenza di
ordine e sistematicità che, nell'aristotelismo, aveva costituito un efficace correttivo a tale tipo di esperienza. La puntualità e la concretezza, ovviamente si
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accompagnano all'imprecisione e alla mancanza di rigore tipiche del linguaggio e
dell'esperienza comuni: il controllo critico è sommario e generico e le cose più
stravaganti o inconsuete, appunto perché tali, attirano maggiormente l'attenzione. L'entusiasmo e la passione con cui si propugnano e si conducono nuove
esperienze si connette con il fatto, tipico e caratteristico, che si hanno poche
esperienze effettivamente vincolanti, in grado di dirimere una questione. È q11indi
naturale che questa curiosità insaziabile, questa foga di nuove conoscenze, trovi
il suo naturale campo di indagine nelle scienze descrittive e pratiche: è il secolo
in cui prevale l'anatomia sulla fisiologia, la biologia descrittiva sulla sistematica,
l'aritmetica e l'algebra sulla geometria. «È la curiosità senza limiti, l'acutezza di
visione e lo spirito d'avventura che conducono ai grandi viaggi di scoperta e
alle grandi opere di descrizione. Ricorderò solamente la scoperta dell'America,
la circumnavigazione dell'Africa, la circumnavigazione del mondo che arricchiscono prodigiosamente la conoscenza dei fatti e che nutrono la curiosità per i
fatti, per la ricchezza del mondo, per la varietà e la molteplicità delle cose. Ovunque sia sufficiente una raccolta di fatti e una accumulazione di sapere, ovunque
non si abbia bisogno di teoria, il XVI secolo ha prodotto cose meravigliose »
(Koyré). Anche il notevole interesse che suscita la tecnica nel xvi secolo, pur
avendo contribuito a far cadere il tradizionale disprezzo dell'intellettuale per le
arti meccaniche, risente di questa tendenza eccessivamente concreta. Se pertanto
viene rivendicata la necessità dell'unione della teoria con la pratica e, conseguentemente, la necessità di una nuova valutazione del mondo degli artigiani, ciò
resta pur sempre una mera esigenza che non si traduce in considerazioni teoriche
generali sui principi delle macchine. Malgrado si possano già vedere in Leonardo
osservazioni specifiche sui singoli meccanismi, resta pur sempre vera questa
acuta considerazione di Reuleaux che ben caratterizza il mondo della tecnica
rinascimentale sottolineandone la concretezza e l'organicità. «Una volta si
considerava ogni macchina come un tutto costituito dagli organi che le erano
propri: quei " gruppi " di organi che noi chiamiamo " meccanismi " sfuggivano
del tutto all'occhio dello scienziato, od erano appena intraveduti. Un mulino era
un mulino, una pila una pila e null'altro. Ecco perché nei libri più antichi si descrive ogni macchina dal principio alla fine. Così, per esempio, Ramelli descrive
nel 1 58 8 diverse pompe mosse da ruote idrauliche, come se fossero sempre cose
nuove, dal canale motore della ruota, o perfino dal fiume, fino al tubo d'afflusso
della pompa. »
Tutti questi nuovi interessi intaccano, e solo parzialmente, l'antologia aristotelica, ma non quell'atteggiamento di fondo sostanzialistico e finalistico,
basato sull'esperienza comune su cui poggiava l'aristotelismo. Ne risulta che le
critiche anche radicali che i maggiori uomini di scienza rinascimentali rivolgono
ad Aristotele risultano puramente verbali o perlomeno poco centrate. È giusto
ribadire, come fa Cardano, che « se ad Aristotele fu consentito di lasciare Pla-
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tone per la verità, perché non sarà consentito anche a noi di lasciare lui per quella
stessa verità?», ma ciò che manca all'uomo rinascimentale è appunto un concetto
di verità saldo, sistematico, omogeneo. Dice molto bene Koyré: «Dopo aver
distrutto la fisica, la metafisica e l'antologia aristoteliche, il rinascimento si è
trovato senza fisica e senza antologia, cioè senza la possibilità di decidere anticipatamente se qualcosa è possibile o no ... Una volta che questa antologia è distrutta e prima che un'antologia nuova, che si è elaborata solamente nel xvn secolo, sia stata stabilita, non si ha alcun criterio che permetta di decidere se il rapporto che si riceve da tale o talaltro fatto è vero o no. Ne risulta una credulità
senza limiti. »
A questa fede cieca nei fatti concreti, a questo vivissimo interesse per le cose
nella loro molteplice e multiforme varietà, fa da naturale contrappunto una visione globale e unitaria in senso immediato. La grande diffusione delle dottrine
magiche e animistiche è un altro degli aspetti caratteristici della cultura rinascimentale: è connessa al ricupero della grande tradizione platonica a cui i testi
classici dell'occultismo si ricollegano. Risorge a nuova vita la teoria della corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo, quella dell'armonia del mondo, e,
in generale, l'idea di un universo animato in cui tutti gli elementi sono collegati
fra di loro da simpatie, da nessi nascosti, da colleganze misteriose che l 'uomo
può cogliere in virtù di pratiche occulte per soddisfare i suoi fini di potenza. La
reviviscenza della magia presenta, nell'uruanesimo e nel rinascimento, caratteri abbastanza diversi da quelli originari e da quelli formatisi nell'età medievale
in cui si accentuano le componenti ritualistiche e religiose in un senso che viene
ritenuto deteriore. « La distanza tra medioevo ed età nuova è la distanza medesima che corre fra un universo conchiuso, astorico, atemporale, immoto, senza
possibilità, definito, ed un universo infinito, aperto, tutto possibilità. Nell'ordine del primo, il mago è solamente la tentazione demoniaca che vuole incrinare
un mondo pacificato e perfetto. Per questo è combattuto, perseguitato, bruciato,
e la magia è relegata fuori delle scienze degne dell'uomo: è solo un precipitare
nell'informe, un ascoltare la seduzione del diavolo, che è la seduzione del mostruoso» (Garin). Ora invece nelle discipline magiche si fanno luce due diverse
tendenze. Una si può definire storica in senso lato in quanto la tradizione occultistica viene in;;erita in un quadro teologico molto ampio in cui è predominante
il tema della concordanza con la tradizione cristiana: basti pensare alla concezione
della prisca theologia e ai tentativi grandiosi di Marsilio Ficino e di Giovanni Pico,
le cui opere, tutte volte in questa direzione concordataria, assumono un valore tipico. L'altra tendenza, a carattere naturalistico, trova il suo più ampio sviluppo
nel pieno rinascimento e tende a contrapporsi alla magia cerimoniale e demoniaca
del medioevo: in tale senso la magia è l'apice della filosofia naturale ( « naturalis
philosophiae consummatio », Della Porta) e il mago è il ministro della natura,
colui che sollecita le forze oscure e misteriose che nella natura operano perché
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abbiano luogo quegli effetti meravigliosi che il volgo reputa miracoli. La distinzione tra magia e magia si trova già in funzione apologetica negli scrittori di
occultismo del rinascimento ed è stata ripresa dagli storici moderni che hanno
visto da un lato « già albori di ricerca scientifica», dall'altro « relitti di antiche religioni e spunti di superstizioni nuove ». Garin ha contestato la validità di tale
distinzione sostenendo che « la connessione fra magia e religione, intesa come
uso di forze spirituali in senso lato rimane indissolubile, solo che il mago " nero "
si serve delle forze inferiori o diaboliche, e quello " bianco " delle forze superiori
e divine. La magia, sempre, è dominio di forze capaci di inserirsi attivamente
entro la struttura ordinata e solidificata delle cose, modificandone le forme in
guise nuove e non ordinarie ». La distinzione tra magia cerimoniale e naturale conserva però ancora, a mio parere, un valore storico ben preciso soprattutto se si
sottolinea il fatto che, pur avvalendosi entrambe del medesimo tipo di apparato
concettuale (principalmente il mero rapporto analogico), nei maghi naturalisti
del xvr secolo il carattere religioso (in senso rituale) è meno avvertito. Se è certo
che ogni forma di magia ha un procedere religioso, nel senso sopra delineato
da Garin, tra una magia e l'altra c'è un elemento discriminante nei modi con cui
si attua tale procedere: che sono essenzialmente liturgici (e quindi meramente
pratico-volontaristici) nell'un caso e operativi (nel senso proprio del termine,
cioè come attive operazioni della mente umana aperta ad un contatto diretto con
la realtà) nell'altro.
Una« cattiva» empiria collegata ad una altrettanto «cattiva» generalizzazione sono quindi le caratteristiche essenziali della cultura scientifica rinascimentale:
gli intellettuali tipici del periodo sono dei maghi sperimentatori come Cardano o
Della Porta che attestano in sommo grado tale lacerazione.
Il tentativo più grandioso per superare questo dissidio e per dare ad un
tempo una sistemazione complessiva delle conoscenze scientifiche fu operato
da Francesco Bacone, personalità filosofica di grande rilievo, in cui le caratteristiche precipue del rinascimento che abbiamo testé delineato si riscontrano in
modo accentuato, ma contemporaneamente in una forma che viene già considerata moderna, almeno per le funzioni che assegna alla scienza e al sapere. Pochi
pensatori hanno insistito quanto lui sia sulla necessità di un ritorno alla concretezza, ad un sapere costantemente legato ai bisogni pratici, sia sulla necessità
di unire la teoria alla pratica, di dare una interpretazione plausibile e razionale
all'esperimento (si pensi alla immagine della formica, del ragno e dell'ape).
Ma la sua concezione della ricerca scientifica non esula sostanzialmente dal quadro
tradizionale di una « traduzione » della realtà entro schemi concettuali solo apparentemente omogenei: le sue simpatie per l'atomismo si tramutano sì in una concezione nuova dell'indagine scientifica mirante ad interpretare in forma riduttiva
la realtà, ma si tratta in effetti di quel medesimo approccio generico ai fenomeni,
tipico dell'atomismo antico, che del resto si amalgama in un complesso ed oscuro
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coacervo di dottrine che sfocia in una visione ancora sostanzialistica della realtà,
concepita come un insieme di forme o qualità assolute essenziali. Il suo metodo
induttivo, complesso, farraginoso, legato troppo alla concretezza dei fenomeni
(basti pensare alle complicate tavole delle istanze), la sua incomprensione dell'efficacia della matematizzazione della natura, si riverbera in una concezione
unitaria della scienza che è di tipo enciclopedico e non sistematico-deduttivo.
Lo stile stesso delle sue opere palesa in Bacone l 'uomo del rinascimento: il
linguaggio è spesso retorico, allusivo, fantasioso, la polemica contro la dittatura di Platone e di Aristotele è acre e violenta, l'aforisma brillante e la metafora incisiva ·prevalgono spesso .sull'osservazione metodica.
III · LA RICERCA DELL'ELEMENTO ESSENZIALE
NELLA COSTITUZIONE DELLA SCIENZA MODERNA
COME PROSPETTIVA STORIOGRAFICA DI FONDO
La discussione sulla nascita della scienza moderna verte oggi principalmente
su ciò che si ritiene l'elemento dominante o la prospettiva essenziale che ha causato appunto quel profondo rivolgimento che si manifesta nel corso del XVII secolo: la risposta che si dà a tale quesito si ricollega ad una interpretazione generale delle linee di fondo dell'evoluzione del pensiero moderno. Così, se si ritiene di importanza decisiva il fatto che in tale periodo si abbandoni il metodo
di autorità, cioè quella fiducia inveterata in dottrine depositate in testi classici
da una lunga tradizione con la conseguente esaltazione della capacità della ragione umana di esplicare autonomamente la propria attività, si collega direttamente
la nascita della scienza moderna al movimento dell'umanesimo che aveva divulgato, ma anche storicizzato, i maestri del pensiero greco, oppure, indirettamente e con diversa valutazione, all'attività degli artigiani, nelle cui botteghe
ed officine si crede si sia acquisita la nozione di un sapere collettivo e progressivo. Se invece si dà grande risalto all'idea di un universo infinito come concezione che, diffondendosi con l'opera di Copernico e soprattutto di Bruno e
contrapponendosi a quella classica di un cosmo finito, ordinato e gerarchicamente
strutturato, ha creato una dimensione nuova dell'uomo e della natura, ricca di
fecondi sviluppi appunto perché non più limitata, le nuove prospettive del
XVII secolo vengono connesse con la tradizione neoplatonica e magica, la quale
ha potentemente contribuito a rompere i rigidi schemi del cosmo aristotelico.
Ancora, se si accentra attorno all'idea della matematizzazione della natura il
rinnovamento che si è operato nel corso del xvii secolo, inevitabilmente si è
portati a considerare la scienza secentesca come la diretta conseguenza di tutte
quelle ricerche logiche e metodologiche iniziatesi nel tardo medioevo ed entro
le quali tale idea era a poco a poco maturata. Infine, si può anche ritenere che il
meccanicismo sia sorto in funzione apologetica come acquisizione di un punto
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saldo al fine di salvaguardare, mediante la riaffermazione di leggi stabili nella
natura, la possibilità del miracolo: in tal senso il meccanicismo è il fattore essenziale di un programma che nella sostanza riprende, contro le deviazioni irrazionalistiche della magia rinascimentale, che mettevano appunto in dubbio
il miracolo, la stessa linea razionalistica, propria dell'aristotelismo. Non è il
caso di analizzare qui da vicino tali tesi, sostenute da diversi ed importanti storici: basterà rilevare che ciò pone in luce ancora una volta la complessità dei problemi relativi ad una valutazione della nascita della scienza moderna.
A mio parere, una svolta così radicale nella storia dell'umanità non può
aver avuto luogo se non in virtù di un mutamento di ciò che di più generale v'è
nell'attività della ragione umana, cioè delle prospettive filosofiche di fondo alla
cui elaborazione hanno contribuito, oltre ai fattori indicati prima, il sorgere
di nuove condizioni intellettuali, sociali, economiche e civili. Quel che va sottolineato è il fatto che, se in ogni analisi storica è opportuno porsi dal punto di
vista più ampio possibile adottando un criterio di giudizio globale ed organico,
ciò risulta assolutamente necessario per valutare a pieno un periodo di crisi e
di rottura com'è quello della rivoluzione scientifica. Il punto di riferimento più
sicuro da questo punto di vista è costituito dal meccanicismo, che può essere
assunto come elemento catalizzatore di tutto il periodo, in quanto è il risultato
teorico in cui sfociano tutti i fattori di rinnovamento che si sono segnalati ed
è ad un tempo una concezione così generale da investire non solo tutte le discipline, scientifiche e no, ma da condizionare anche il modo di pensare e di vivere
di tutto un secolo. Il meccanicismo è infatti l'idea che rivendica e riafferma in
modo netto e incontrovertibile nell'indagine sulla realtà l 'autorità della ragione
sull'autorità storica e pone le basi, operanti e feconde, per la fondazione della
moderna nozione di progresso (si ricordano qui le bellissime e famose pagine
della Prefazione per il trattato sul vuoto di Pascal 1 che costituiscono forse la più
alta rivendicazione dei diritti della ragione nella ricerca scientifica operata da
uno scrittore del Seicento); è l'espressione più concreta dell'infinita potenza cox Si vedano, a mo' di esempio, i seguenti
passi estremamente significativi: « Nelle materie
in cui si cerca di sapere soltanto ciò che gli autori
hanno scritto - quali la storia, la geografia, la giurisprudenza, le lingue, soprattutto la teologia insomma, in tutte quelle che hanno per principio
o il fatto puro e semplice o l'istituzione, divina od
umana, bisogna necessariamente ricorrere ai libri
degli autori, poiché in essi è contenuto tutto ciò
che si può saperne: dal che segue evidentemente
che se ne può avere una conoscenza intera, cui non
sia possibile aggiungere nulla ... Non è lo stesso per
gli argomenti che cadono sotto i sensi o sotto il ragionamento: qui l'autorità è inutile e la sola ragione riesce a conoscerli. Queste due cose, autorità e
ragione, hanno i loro diritti separati: là aveva il so-
pravvento l'una, qui tocca all'altra di dominare.
Ma siccome gli argomenti di questo genere sono
proporzionali all'ambito della mente, questa vi
trova un'intera libertà di dispiegarvisi, la sua inesauribile fecondità vi produce continuamente e le
sue invenzioni possono essere senza fine e senza interruzione ... Perciò la geometria, l'aritmetica, la
musica, la fisica, la medicina, l 'architettura e tutte
le scienze che dipendono dall'esperienza e dal ragionamento per perfezionarsi devono venire accresciute. Gli Antichi le hanno trovate appena
sbozzate da coloro che li avevano preceduti, e noi
le lasceremo a quelli che ci seguiranno in uno s~ato
di maggiore perfezione di come le abbiamo rtcevute » (traduzione di Giulio Preti).
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Caratteri e prospettive del meccanicismo nel Seicento
struttrice dell'uomo che, come tale,· si estende anche al cosmo che viene interpretato in modo adeguato ad essa; è la nozione teorica che permette di accogliere
il tema della matematizzazione della natura, di dare ad esso una efficace generalizzazione su basi precise e rigorose; è una dottrina che implica e propugna un
nuovo razionalismo, che si riallaccia, se si vuole, alla grande tradizione dell'aristotelismo ma proprio per la sua dimensione umana e mondana (le preoccupazioni di ordine apologetico e il tema del miracolo non sono affatto elementi centrali, almeno nelle personalità che hanno dato un'impronta decisiva alla ricerca
filosofica e scientifica del Seicento). Nel meccanicismo trova la sua più compiuta
realizzazione una nuova formulazione dell'esplicazione scientifica, che rifiuta
programmaticamente quel tipo di approccio verso la realtà - basato sulla traduzione mediante la concettualizzazione - che abbiamo cercato di delineare
nel paragrafo n. Cartesio sottolinea in modo preciso che tale modo di procedere, di cui l'aristotelismo era l'incarnazione più autorevole, risultava difficile da sradicare non solo per il fatto di essere collegato ad una tradizione illustre,
ricca di autorità e di prestigio secolari, ma soprattutto perché basato su asserzioni di immediata evidenza insite nella natura dell'uomo fin dai primi anni di
vita. Per il nuovo scienziato meccanicista, preliminare doveva essere pertanto
il superamento di questo pregiudizio, che dall'infanzia si prolunga nell'uomo
adulto, sulla base del quale si proiettano i contenuti delle proprie percezioni
in enunciati scientifici. La radicalità delle posizioni che, in misura maggiore o
minore, si riscontra nei pensatori del Seicento, deriva in gran parte dalla precisa
consapevolezza del carattere profondamente innovatore del meccanicismo, proprio (prima di tutto), come modo di affrontare i tradizionali problemi dell'esplicazione della realtà.
IV · IL METODO DEL MECCANICISMO: IL MODELLO MECCANICO
È naturale che la disciplina scientifica che ebbe i maggiori sviluppi fin dagli
albori del mondo moderno sia stata la meccanica. Il carattere privilegiato che la
meccanica ha sempre avuto rispetto alle altre scienze fisiche risiede essenzialmente nel fatto che, trattando del movimento dei corpi in generale, in movimento o in eqmlibrio, è possibile in essa fare astrazione da ogni altra considerazione e ricondurre quindi l'analisi alle condizioni più semplici. Non per nulla
nella meccanica, già nell'ambito del mondo greco, soprattutto ad opera di Archimede, si erano conseguiti risultati notevoli (relativamente alla statica) basati
su postulati sperimentali e formulazioni matematiche; non per nulla la meccanica
fu la disciplina che contribuì in modo determinante alla fondazione della scienza
moderna, in quanto fu la prima a darsi un assetto rigoroso. Gli innegabili successi che si conseguirono in questo ambito di ricerche a partire già dal xvi secolo,
furono uno sprone per indirizzare in modo analogo altre ricerche, e furono di
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tale portata da condizionare tutto lo sviluppo ulteriore della scienza. L'aver
stabilito infatti in modo fermo i principi e ~lcune relazioni fondamentali in tale
disciplina, diede un carattere esemplare alla meccanica, e ciò fu il punto di partenza per quell'audace generalizzazione che fu il meccanicismo. Nella sostanza,
nel meccanicismo si diede una portata universale ai principi fondamentali della
meccanica, nel senso che la realtà naturale veniva ridotta ad una mera struttura
di corpi in movimento, interpretabile mediante le precise regole del movimento
dei corpi fra di loro. Fondamentale in questa direzione fu la scoperta del principio di inerzia; esso venne stabilito in forma precisa e rigorosa solo con Newton,
ma la sua grande importanza fu compresa dagli scienziati meccanicisti anteriori,
da Galileo che seppe sempre servirsene in modo appropriato, e soprattutto da
Cartesio che ne colse il valore di generalizzazione assoluta in esso implicito e
ne fece il punto centrale di riferimento di tutta la sua dottrina, che fu la più
organica, coerente e ampia sistemazione del meccanicismo. Il principio di inerzia,
così enunciato da Cartesio (ciascuna cosa, in quanto è semplice rimane per quanto
è in sé, sempre nel medesimo stato, e non è mai mutata se non da cause esterne),
permette appunto di valutare ogni singolo fenomeno, o gruppo di fenomeni,
nelle sue relazioni con gli altri sulla base di un unico parametro di riferimento.
Ogni fenomeno viene così risolto in una serie di operazioni complesse, ma definibili e comprensibili chiaramente: nel medesimo tempo si toglie ogni specificità di comportamento ai corpi, i quali vengono tutti interpretati secondo un
unico punto di vista. Una valutazione dinamica della realtà, correlata esclusivamente mediante il movimento (la causa del movimento non è più un fattore operante ai fini della singola analisi in quanto essa, riposta in dio, diventa un nesso
esplicativo generalissimo che coinvolge tutti i corpi), subentra alla tradizionale
interpretazione statica dei fenomeni correlati mediante rapporti organicamente
e gerarchicamente strutturati in vista dei fini generali della natura.
La scoperta della macchina come modello teorico di indagine, operata anche
essa nel xvn secolo, è connessa con la generalizzazione dei principi della meccanica. È evidente che la scoperta teorica della macchina ha il suo presupposto
nel grande sviluppo che hanno avuto le tecniche nel xvr e nel xvn secolo. In
questo periodo si scoprono nuove macchine (rilevantissime, le armi da fuoco),
se ne perfezionano altre (specie quelle idrauliche), se ne mettono a punto altre
ancora in grado di dare rilevazioni precise (orologi, telescopi, ecc.). L'uso di
tutte queste macchine, con gli effetti evidenti che arrecano nella vita reale degli
uomini, suscitano la convinzione che, proprio poggiandosi su di esse, si possa
instaurare un sapere non contemplativo, inserito attivamente nella vita pratica. In Bacone questa consapevolezza, pur rimanendo una pura esigenza, è
già diventata una convinzione ferma e sicura, ed assume un rilievo preminente per lo scienziato secentesco. Per i fondatori della scienza moderna, il
mondo della tecnica è ormai divenuto una parte integrante dei loro interessi:
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non è più un fatto che suscita curiosità o un interesse generico o parziale. Ma
quel che più importa sottolineare è che nel xvn secolo si riuscì a dare alla tecnica
una dimensione teorica adeguata, che fino ad allora non si era realizzata. I
maggiori scienziati di questo periodo, a partire, come si è visto, da Galileo,
compirono passi decisivi in questa direzione: riflettendo sul valore, il significato, l'utilità della macchina, giunsero ad una nuova concezione della realtà e
della scienza.
La scoperta della macchina come strumento teorico adempie alla funzione
di un vero e proprio principio operativo che dà concretezza alla struttura astratta
universale della realtà basata sui principi della meccanica (materia, movimento
e loro reciproco rapporto) e la rende ricca di conseguenze straordinariamente
efficaci. L'operazione di ricerca dello scienziato meccanicista equivale, in pratica, a trovare il modello meccanico che sostituisca il fenomeno reale che si vuole
analizzare. Trovato questo, il fenomeno è inserito in quella struttura generale
in cui è risolta tutta la realtà, è cioè spiegato. La macchina, intesa come modello
esplicativo, riunisce un insieme di elementi materiali che rimarrebbero di per sé
astratti e dà ad essi una correlazione significativa; è una unificazione totale della
realtà costituita di una serie infinita di unificazioni parziali (i modelli meccanici
particolari) varie e variamente modifica bili. Nella sostanza la macchina strumentoteorico ripete le caratteristiche essenziali della macchina strumento-tecnico nel
senso che in entrambi i casi si tratta di aggregare dei pezzi in modo che adempiano una funzione precisa, chiaramente determinata in virtù di fattori noti
(posizione, figura, rapporto dei pezzi). Ora, per rozza che sia, una macchina
strumento-tecnico deve essere costruita in modo che siano osservate alcune relazioni precise tra i pezzi: solo allora funziona, si hanno cioè le conseguenze
previste, quelle e non altre, in virtù del fatto che è stata costruita in modo univocamente determinato. Del pari, nel modello teorico esemplato su una macchina
strumento-tecnico, o su una macchina costruita appositamente o solo immaginata, l'adeguazione con il fenomeno deve essere fatta in modo tale che questo sia
ridotto ad una dimensione univocamente determinata, sia cioè semplificato
(poco importa il grado di semplificazione) stabilendo fra i vari elementi di esso
delle relazioni precise. Risulta in modo evidente che ciò che permette una elaborazione precic<>a del modello meccanico e quindi del fenomeno reale è il fatto
che esso è costruibile solo mediante elementi puramente quantitativi e quindi
solo mediante formulazioni geometriche. L'ausilio dello strumento matematico
è essenziale: un fenomeno sarà spiegato in modo tanto più rigoroso quanto più
preciso sarà il modello meccanico. Il modello meccanico per eccellenza è quindi
il modello puramente geometrico, che è il più elaborato, il più sicuro, il più
preciso. L'uso di tale metodo permise successi clamorosi (a partire dalla scoperta
della legge della caduta dei gravi operata da Galileo) e costituì la linea di fondo
di tutto l'ulteriore sviluppo della scienza; il suo successo e la sua efficacia si
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basavano essenzialmente sul fatto che il modello teorico matematico era pienamente adeguato al fenomeno, il quale, ridotto appunto alla semplicità del modello, possedeva la stessa incontestabile plausibilità di esso. Altrettanto importante dell'elaborazione puramente teorica del modello meccanico, fu per lo
scienziato secentesco la costituzione di un adeguato rapporto tra il modello e il
fenomeno reale: è proprio nel primo Seicento che iniziano le prime osservazioni
sperimentali nel senso moderno del termine. Allo scienziato meccanicista non
interessa il fenomeno nella sua peculiarità e nella sua concretezza immediata e
neppure il fenomeno strano e curioso: quel che gli interessa è ricostruire il
fenomeno in base ai propri postulati. Ne deriva un approccio alla realtà non più
generico, ma determinato: tale determinazione è soggetta, secondo lo scienziato
meccanicista, ad un progressivo perfezionamento in relazione alla sottigliezza
dello sperimentatore e alla capacità con cui sarà in grado di costruirsi macchine
strumenti-tecnici atte a fornirgli dati empirici più elaborati, proprio applicando
quelle conquiste teoriche di mano in mano acquisite, ma non è contestabile nei
suoi fondamenti.
La scoperta filosofica del modello meccanico come strumento di indagine
appartiene senza alcun dubbio a Cartesio che ne fece un'analisi ampia ed approfondita e ne colse, in tutta la sua generalità, gli aspetti essenziali. Egli, tra l'altro,
pose in rilievo il ruolo importante che gioca l'immaginazione nella formulazione
meccanicistica e nei metodi che usa. È ben vero infatti che il meccanicismo,
nel suo complesso, rappresenta il trionfo dell'immaginazione sulla ragione astratta di cui si serviva la ricerca tradizionale: in luogo di pure postulazioni razionali
astratte, come le forme sostanziali o le facoltà naturali, lo scienziato meccanicista
si avvale di modelli meccanici, comprensibili ed evidenti perché dotati di un
contenuto immaginativo concreto. La concretezza effettiva di cui il modello
meccanico è intrinsecamente dotato non è però immediata: è il frutto di lunghe
e laboriose operazioni della ragione, per le quali si riesce a dare all'immaginazione
quella evidenza figurativa, e quindi quella concretezza che è indice di effettiva
comprensione. È ovvio che l'immaginazione non opera arbitrariamente proprio
perché i modelli sono costruiti, esclusivamente, in base a precisi postulati, fissati
· dalla ragione. Con il meccanicismo si conquista quindi una nuova dimensione
della concretezza empirica e dell'evidenza razionale che contrasta in modo radicale sia con le concezioni tradizionali, sia con le nuove formulazioni rinascimentali. Si ha pertanto una nuova unità di esperienza e ragione, intimamente
compenetrate nella ricerca effettiva e un altrettanto proficuo connubio tra ricerca teorica e tecnica, fondate entrambe sulle stesse basi ed entrambe protese
verso le applicazioni pratiche.
Si comprende come il momento della verifica sperimentale fosse il punto
cruciale dell'esplicazione scientifica: l'attenzione degli scienziati meccanicisti
si rivolse, in effetti, alla ricerca di modelli meccanici adeguati per l'interpreta-
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Caratteri e prospettive del meccanicismo nel Seicento
zione dei fenomeni. L'enorme sviluppo che ebbe la ricerca sperimentale nel
xvn secolo e i notevolissimi risultati che conseguì sono la naturale conseguenza
di questa tendenza. Si venne pertanto sempre più accentuando l'esigenza di
rigore nell'indagine scientifica e quindi sempre più sviluppando l'uso del modello matematico. Si capisce come ciò abbia condotto alla crisi della fisica cartesiana, costruita con un apparato teorico matematico molto scarso. In effetti, il
rilievo dato all'immaginazione non rimase senza conseguenze nell'ambito delle
ricerche svolte da Cartesio e dalla sua scuola. La chiarezza con cui pose in evidenza i principi fondamentali della prospettiva meccanicistica, congiunta con la
forte esigenza sistematica, condusse Cartesio ad impostare in modo fecondo, rigoroso ed efficace la ricerca; ma nel contempo ad edificare in modo troppo <\ abbreviato » il nuovo mondo meccanicistico. Egli si avvalse molto spesso non dell'ausilio dell'immaginazione matematica ma della visualizzazione immaginativa,
accorrendogli solamente, per spiegare un fenomeno, immaginare un modello
meccanico (una macchina strumento-tecnico, oppure un'immagine sensibile
interpretata meccanicamente) spesso dotato di una inadeguata corrispondenza
con i termini reali del problema: la sola efficacia esplicativa, cioè il solo criterio
pragmatico del successo nella semplificazione del fenomeno, era sufficiente per
dare validità alla sua ricostruzione meccanica. Questo innegabile difetto, che portò
uno dei fondatori della moderna fisica-matematica al risultato paradossale di
scrivere un trattato completo di fisica (i Principia philosophiae) quasi del tutto
privo di formulazioni matematiche, non attenua però per nulla l'importanza del
lavoro di Cartesio, il quale seppe per primo non solo dare una portata universale al meccanicismo, ponendone in rilievo le implicazioni e le conseguenze filosofiche, ma anche cogliere le qualità essenziali del metodo meccanicistico. Le
numerose critiche, cui il cartesianesimo venne sottoposto nella seconda metà
del Seicento e nei primi decenni del Settecento, anche se di fondo, non intaccarono quella prospettiva generale, filosofica e metodica, che rimase esemplare e
di cui la ricerca ulteriore fu sostanzialmente uno sviluppo.
Da tutto ciò si può vedere come il problema della verifica sperimentale coincida con quello della costruzione di modelli teorici adeguati, e come il tema della
costruibilità dei mezzi della ricerca sia essenziale nella pro,spettiva meccanicistica. Lo scienzi~to secentesco è ben consapevole che il fatto di crearsi in modo
del tutto autonomo gli strumenti teorici per l'indagine, sulla scorta degli strumenti-tecnici, è un modo del tutto originale di affrontare la realtà. Come l'uomo,
per incidere più efficacemente sulla natura si avvale di strumenti tecnici, che egli
si costruisce tenendo presente certi criteri e le loro conseguenze e con un grado
di complessità adeguato alle proprie possibilità, così per conoscere la realtà
si serve di strumenti concettuali che « si è costruito » ripetendo gli stessi principi che presiedono alla costruzione degli strumenti-tecnici e che per ciò è in
grado di comprendere e di dominare.
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Caratteri e prospettive del meccanicismo nel Seicento
Ne consegue non solo la coscienza che il mondo della conoscenza è artificiale, nel senso che lo è quello della tecnica, frutto dell'arte dell'uomo, ma
anche quella, e vivissima, che il sapere ha valore e significato solo in relazione
alle possibilità di azione pratica che ha: conoscere la realtà vuoi dire pertanto
ricostruirla, renderla artificiale ma in modo tale che si possa modificarla. All'ideale speculativo del conoscere, volto a tradurre la realtà, nella sua organicità,
in schemi concettuali logici, subentra un ideale pratico, per il quale la costruzione
teorica che riduce la complessità del mondo alla semplice dimensione del rapporto quantitativo, tipico del mondo della meccanica e della tecnica, trova il suo
coronamento e la sua giustificazione nei risultati cui dà luogo.
V · LA CONCEZIONE DELLA MATERIA E DELLA NATURA
Accanto ai problemi di carattere più propriamente metodologico, gli scienziati secenteschi vennero sviluppando, in forma più o meno ampia e accentuata,
anche prospettive filosofiche generali volte a dare un significato antologico preciso al meccanicismo. La preoccupazione per un problema così squisitamente
metafisica che venne a mescolarsi con questioni di carattere puramente scientifico,
fu censurata da alcuni moderni critici della scienza come una colpa da cui la
scienza riuscì solo a fatica a liberarsi e che costò diatribe infinite, enormi sprechi
di energie con magri risultati, dato che le asserzioni metafisiche non erano
soggette a prove decisive analoghe a quelle che si potevano addurre per le asserzioni veramente scientifiche, e non potevano essere inserite in quella linea di
acquisizioni progressive, tipica della scienza.
È certo comunque che gli scienziati secenteschi poterono edificare la scienza
moderna solo a prezzo di un profondo mutamento della filosofia e della metafisica tradizionali, e proprio in virtù di una nuova filosofia. Se colpa fu, fu una
felice colpa quella che permise loro, mediante il meccanicismo, di considerare
i nuovi metodi introdotti dalla scienza in modo solidale con tutto il complesso
della realtà umana e civile, e che diede loro la volontà di vederli come un mezzo
per elevare la condizione dell'uomo, per renderlo più sicuro dei propri destini,
mercé una conoscenza più « reale» del mondo e di se stesso. In effetti la prospettiva
metodologica del meccanicismo è strettamente collegata con quella antologica
(almeno come tendenza di fondo), tanto che risulta molto difficile poterle separare. Anzi, ali' origine, il discorso sulla macchina è in stretta connessione con
quello sulla struttura della materia, dato che uno strumento teorico, costruito
nel modo con cui lo è il modello meccanico, postula necessariamente una struttura materiale adeguata. Ciò non toglie che alcuni dei maggiori filosofi del periodo abbiano avuto una piena consapevolezza del rapporto estremamente
delicato che sussiste tra il piano antologico e il piano metodologico e abbiano
cercato di risolverlo (massime Cartesio) in modo rigorosamente critico.
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Caratteri e prospettive del meccanicismo nel Seicento
Alla base della nuova filosofia del Seicento sta la dottrina della soggettività
delle qualità sensibili. La scoperta di questa grande idea filosofica (una delle poche veramente rivoluzionarie ed innovatrici) appartiene incontestabilmente al
xvn secolo: tutti i grandi pensatori di questo periodo, da Galileo a Cartesio, a
Hobbes, hanno ben viva la consapevolezza della centralità di questa dottrina,
cosa che sottolineano con particolare insistenza ed energia. La considerarono
come una sorta di presa di coscienza preliminare per il conseguimento di ogni
ulteriore conoscenza: occorreva infatti, prima di tutto, riconoscere che il mondo
concreto della sensibilità non era « reale », che cioè non aveva alcun riscontro
obiettivo. Non è affatto evidente che la dottrina della soggettività delle qualità sensibili sia stata formulata nell'ambito dell'atomismo antico; è certo comunque che
essa non si trova tra i molti esponenti di quella reviviscenza dell'atomismo antico che si ebbe nel xvn secolo.
Come giustamente osserva Frithiof Brandt, sarebbe incomprensibile che
Hobbes e Cartesio accentuassero il fatto di aver realizzato la soggettività delle qualità sensibili se tale teoria fosse già stata formulata da quei filosofi naturalisti che furono gli atomisti secenteschi. La novità della dottrina, che venne poi designata
con il termine di distinzione tra qualità primarie e secondarie, non risiede però
essenzialmente nel suo contenuto precipuo - nell'aver cioè osservato che qualità come il colore, l'odore, ecc. sono formate esclusivamente dalle nostre facoltà
sensibili, e che altre invece, come la figura, il movimento, ecc. appartengono in
proprio alla realtà materiale - bensì nel modo con cui è stata formulata la dottrina. Se si vuole, già Aristotele aveva distinto i sensibili propri dai sensibili
comuni (il movimento, il riposo, il numero, la figura, la grandezza). Del resto,
la grandezza di una teoria filosofica non sta nella scoperta di nuovi contenuti
speculativi, bensì nelle conseguenze che da essa si possono derivare, cioè nella
sua fecondità. Così i sensibili comuni aristotelici, intesi come le caratteristiche
essenziali di un mondo pienamente determinato, vengono trasvalutati e costituiscono il mezzo per creare una struttura antologica omogenea e non differenziata del tutto adeguata al solo tipo di valutazione che si vuole accettare, quella
quantitativa, che viene ad articolarsi in un sistema di relazioni di tipo matematico.
La grandezza filosofica e la straordinaria importanza storica della scoperta della
soggettività deJ,le qualità sensibili risiede quindi nel fatto che ha reso possibile
appunto la fondazione della scienza moderna.
Ciò che v'è di reale nel mondo naturale per lo scienziato secentesco è pertanto la materia con la sua sola determinazione essenziale, il movimento: ciò
implica naturalmente che essa si risolva in corpuscoli. Spiegare scientificamente
vuoi dire allora non solo descrivere la realtà, ma interpretarla in modo operativo
e non già in modo essenzialistico. Significa che la ricerca empirica delle qualità
sensibili del fenomeno che si vuole spiegare è il punto di partenza per una interpretazione funzionale di esse, sulla base di entità materiali situate oltre la soglia
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Caratteri e prospettive del meccanicismo nel Seicento
della sensibilità; la valutazione delle caratteristiche e dei movimenti dei corpuscoli permettono di derivare quelle determinazioni sensibili su cui verte l'analisi.
Logicamente la ricerca meccanicistica su di un fenomeno consta di tre operazioni essenziali: analisi o scomposizione degli elementi sensibili; semplificazione
meccanicistica, ossia riduzione a entità materiali subsensibili; interpretazione (almeno in linea di principio, matematica) sulla scorta del modello meccanico. Le due
ultime operazioni sono intimamente connesse e rivelano in modo evidente l'origine operativa che ha nel meccanicismo secentesco la concezione della materia. Non
c'è dubbio però che da esse risultasse per lo scienziato meccanicista una presunzione di carattere antologico molto forte, tale da instaurare una fiducia nella
« realtà » del meccanicismo che non venne mai meno. I discorsi ipotetici e pragmatici che spesso si trovano nei testi dell'epoca se sottolineano l'interesse preminentemente operativo che aveva l'uomo di scienza meccanicista, non attenuano l'importanza di una credenza antologica di fondo, anche se a volte non bene esplicitata.
Il discorso sulla materia implica necessariamente un riferimento preciso al
tipo di causalità cui fa ricorso la scienziato meccanicista, che è solo la causalità
efficiente. La scomparsa della considerazione organicistica del fenomeno comporta
pure quella del discorso organico sulle cause di tipo aristotelico. La generalizzazione meccanicistica, risolvendo l'universo in una serie di relazioni consequenziali univoche, ha reso infatti inoperanti schemi interpretativi speciali, interni
ai singoli fenomeni, come le forme sostanziali: la costituzione del fenomeno è
stabilita in base a nessi operativi ben determinati (movimenti della materia
opportunamente e rigorosamente interpretati), ma esterni al fenomeno stesso.
Del pari scompare, nell'analisi della natura, ogni considerazione finalistica, soprattutto a livello dei metodi di indagine. L'uomo non deve più riscontrare i
fini speciali che dio ha posto in ogni singola cosa, ma costruire esso stesso le
forme e i fini della natura: ciò facendo egli scopre le cose nella loro realtà più
vera, poiché operando mediante la ragione (che è una sua dote naturale) non fa
che sviluppare naturalmente la conoscenza del mondo esterno e di se stesso
che fino ad allora aveva avuto. Pertanto, facendo coincidere lo sviluppo nella
conoscenza dei fini della natura con il grado di appropriazione di essa da parte
dell'uomo, viene conseguita una nuova dimensione della finalità come prospettiva di sviluppo totale, il cui senso è riposto nella volontà infinita di dio.
L'immagine che di dio si fa lo scienziato meccanicista è del resto adeguata
alla concezione che ha della realtà. Dio è il costruttore della natura, il meccanico
per eccellenza, colui che, in virtù della sua infinita potenza, ha costruito le macchine di cui si compone la natura con grande sottigliezza, dotandole di straordinaria perfezione; l'attività conoscitiva dell'uomo non fa che ripetere, in relazione ai mezzi costruttivi limitati (ma perfezionabili) di cui dispone, l'attività
posta in opera da dio nella creazione del mondo. Il postulato che fa coincidere
la capacità conoscitiva con quella costruttiva, è uno dei punti cardinali della
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Caratteri e prospettive del meccanicismo nel Seicento
filosofia e della scienza secentesca: esso traspare anche nel nuovo rapporto tra
arte e natura che si instaura. L'arte non è più come nella concezione tradizionale,
la goffa imitatrice della natura, che tenta invano di adeguarsi a qualcosa che è
inimitabile e ineguagliabile; è invece un'attività umana che riproduce sostanzialmente l'attività della natura. Tra i prodotti dell'arte e della natura non c'è più,
infatti, una sostanziale differenza: l 'unica diversità sta nella grossolanità e rozzezza dei primi e nella grande elaborazione dei secondi, dato che i principi che
hanno presieduto alla loro costruzione sono i medesimi. Una volta che sia ammessa e provata la validità obiettiva del meccanicismo, si scopre allora una nuova
dimensione dell'imitazione della natura: le cose naturali costituiscono un punto
di riferimento di ineguagliabile perfezione su cui esemplare la ricerca dell'uomo.
VI · IL NUOVO SISTEMA DELLE SCIENZE
E GLI SVILUPPI DEL MECCANICISMO
L'elemento dell'operatività è quello che più di ogni altro caratterizza il
meccanicismo nel suo complesso, e si riverbera in tutti i suoi aspetti. Si manifesta
anche e particolarmente, come si è visto, nella concezione della materia e nella
conseguente idea che essa è interpretabile mediante la matematica; le origini
di tale dottrina hanno indubbiamente una matrice pratica, funzionale, che trovano il loro punto di riferimento più diretto e costante nel mondo della tecnica
in cui la tendenza operativa appariva nella maniera più evidente.
Il tratto più originale dei filosofi e degli scienziati meccanicisti è, come
si è cercato di porre in rilievo, quello di aver dato una dimensione teorica al
mondo delle macchine, di aver saputo compiere un'opera di generalizzazione
filosofica, rivoluzionaria soprattutto perché, conservando i principi operativi di
base della tecnica anche nella formulazione teorica, diede un nuovo senso .alla
scienza e alla filosofia collegandole direttamente alla vita reale degli uomini.
Vista in questa direzione non possono che apparire in una luce non molto adeguata, le discussioni sul platonismo nella fondazione della scienza moderna:
il solo fatto che Platone era stato il più noto ed autorevole rappresentante di
quella concezione « speculativa » della filosofia cui i meccanicisti si opposero
nel modo più À.eciso, costituisce di per sé un limite obiettivo per ogni valutazione « platonica » della scienza moderna.
Ciò non toglie che alcuni elementi costitutivi dei fondamenti logici e filosofici della scienza moderna siano di schietta derivazione platonica, come per
esempio l'uso del metodo ipotetico; tali temi però, inseriti in un contesto del
tutto diverso, assumono un carattere radicalmente nuovo. Anche la nozione
più caratteristica della nuova scienza meccanicistica, quella della matematizzazione
della natura, trova un riferimento immediato nell'ambito del platonismo tradizionale. Nei numerosi testi legati alla tradizione platonica e magica, che si
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Caratteri e prospettive del meccanicismo nel Seicento
pubblicarono e si diffusero nell'età rinascimentale, viene dato infatti rilievo e
grande importanza al numero e alle figure geometriche nell'indagine sulla realtà
naturale. Ma la concezione della matematica che traspare da questi testi è contemplativa e misticheggiante: tende a realizzarsi in una visione globale ed armonica e riflette nella impostazione del rapporto con la realtà la tradizionale
dicotomia tra inondo sensibile ed intelligibile. Anche quando in questo ambito
di cultura si parla di macchina del mondo, è alla tradizionale concezione armonica
che ci si riferisce: se si vuole, essa è il correlato cosmologico della teoria organicistica della macchina strumento-tecnico che hanno molti scrittori di macchine
rinascimentali. Il termine macchina è solo un'immagine che simbolizza la nozione del mondo come un tutto le cui parti sono organizzate in modo ordinato
e preciso: è una pura e semplice variante del termine organismo.
Oltre all'esigenza operativa è fondamentale nel meccanicismo anche quella
riduttiva che sfocia necessariamente in una nuova concezione dell'unità delle
scienze. Il sistema delle scienze non è più legato alla natura degli oggetti collegati fra di loro mediante l'analisi delle caratteristiche essenziali oppure mediante
una classificazione di tipo enciclopedico; è invece basato su di un solo postulato
fondamentale, puramente razionale, a cui si riconduce e ricollega tutta quanta la
realtà naturale ed umana. Tutto ciò dà un rilievo preminente alla facoltà unificatrice dell'intelletto umano che dà certezza e coerenza logica, mediante i collegamenti che opera, alle cose concrete. L 'interpretazione meccanicistica del reale,
tramite il modello, diviene così la chiave che permette di spiegare tutta la realtà.
Non solo il mondo dei corpi ma anche quello degli organismi viventi diventa
interpretabile meccanicamente. Lo stesso campo delle scienze umane viene indagato sulla scorta dei principi del meccanicismo; si hanno così una psicologia
ed un'etica meccanicistiche, e una teoria politica che fa della concezione dello
stato inteso come una macchina il punto nodale nello studio della vita associata
degli uomini.
Nel corso del xvn secolo si sono avuti diversi tipi di meccanicismo: se risultano diversi per certi aspetti (natura delle entità materiali subsensibili, affermazione circa l'esistenza o meno del vuoto), non esulano però sostanzialmente da
quel quadro unitario, per impostazione metodologica e filosofica, che si è cercato di delineare. Lo stesso sistema newtoniano si inserisce pienamente nella
prospettiva meccanicistica (l'introduzione di forze agenti a distanza non era
pensabile infatti senza la mediazione di qualcosa di materiale) anche se la tendenza
dello scienziato inglese a escludere dalla scienza ogni valutazione antologica
operò nel_meccanicismo una frattura profonda che ebbe ripercussioni di rilievo
sulla interpretazione generale della realtà. Dopo Newton il meccanicismo, come
formulazione scientifica, venne inteso sempre più come possibilità di ridurre
le altre scienze entro l'ambito esplicativo della meccanica; come formulazione
filosofica generale, si scisse sempre più dalla ricerca scientifica nel senso proprio
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Caratteri e prospettive del meccanicismo nel Seicento
del termine e subì nel corso del xviii secolo una evoluzione in senso schiettamente materialistico. Le conseguenze furono di non lieve entità. Gli elementi
materialistici, insiti nel meccanicismo, vennero utilizzati e sviluppati in funzione
di polemica politica contro le istituzioni e lé ideologie tradizionali, specie quelle
religiose, e in tal senso svolsero una efficacissima azione eversiva. La tematica
generale del meccanicismo risultò però impoverita e schematizzata nelle sue
prospettive filosofiche e metodo logiche; e di conseguenza, si ebbero concezioni
senza dubbio meno rigorose e meno critiche di quelle elaborate nel xvn secolo
da Cartesio o da Hobbes, appunto perché non direttamente connesse alla ricerca scientifica più avanzata.
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CAPITOLO
NONO
La logica nel Seicento
DI CORRADO MANGIONE
I
· CONSIDERAZIONI
PRELIMINARI
Nel corso della sezione II è stato ripetutamente accennato alle significative
conquiste del pensiero logico medievale che - come è stato messo in evidenza
nei primi decenni del nostro secolo - lungi dal limitarsi a un mero rifacimento
delle teorie sillogistiche aristoteliche, aveva sviluppato autonomamente (oltre
a quella peripatetica) anche la tradizione stoica giungendo a costituire un originale corpo di dottrine puramente formali (la cosiddetta« logica terministica »).Il
carattere formale e linguistico, tipico della logica medievale, agì indubbiamente
come catalizzatore nell'indirizzare il pensiero in senso razionalistico; ma si prestò
anche, in certo senso, a che la pratica logica degenerasse in molti casi in un vuoto
e sofisticato schematismo formalistico o fosse strumentalizzata in funzione delle
dispute e dei dibattiti più eterogenei. Avvenne così, come afferma il Moody,
che « mentre la logica continuava a essere insegnata su questa base formale nelle
facoltà delle arti, i teologi del tardo XIII secolo, influenzati dalla nuova letteratura
filosofica tradotta dal greco e dall'arabo, si impegnavano in dibattiti e speculazioni epistemologiche e metafisiche che davano origine a una sorta di "logica
filosofica ". Poiché la terminologia tradizionale della logica formale veniva regolarmente impiegata in quelle discussioni filosofiche, essa venne gravata da connotazioni speculative e ambiguità che l'hanno accompagnata fino al periodo moderno».
Avviene così che nella reazione umanistica alla scolastica la polemica si indirizza in particolare anche sulla logica formale, della quale appunto viene (e
giustamente) disprezzata la vuota e inutile sottigliezza, lo sterile barocchismo
fine a se stesso nelle dispute, senza peraltro che al di là di questo aspetto, per così
dire sovrastrutturale, ne venisse colto e apprezzato l'autentico spirito critico
e scientifico; tale reazione veniva condotta in nome di una logica che non si fermasse al mero aspetto formale e strutturale del discorso e risultasse così più
aderente al naturale evolversi del pensiero e della realtà. Essa si sviluppa essenzialmente in due direzioni: da una parte s'intende opporre alla logica medievale
un'ars disserendi che accentui le possibilità persuasive del discorso e che prenda
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La logica nel Seicento
quindi a proprio· modello - in aperta polemica con Aristotele - gli autori latini e in particolare Cicerone (vale a dire, la retorica); dall'altra parte invece si
è più preoccupati di costituire un'organizzazione del discorso che non si esaurisca
sul piano logico puramente formale, ma che, fondandosi sull'esperienza e a partire da essa, permetta di raggiungere la formulazione di verità generali; in altri
termini si sviluppa quell'aspetto della logica trascurato da Aristotele, ossia il
capitolo dell'inferenza induttiva.
Il rappresentante più eminente del primo indirizzo è Pietro Ramo di cui si
è parlato nel capitolo vn della sezione m (e del quale ricordiamo qui l'aggiunta
dei sei nuovi modi con termini singolari, due per ogni figura, che egli fa alla
sillogistica aristotelica); il secondo indirizzo viene invece notevolmente sviluppato nel xvr secolo dagli aristotelici padovani (Fracastoro, Zabarella, Cremonini). Il disinteresse per il formalismo logico si converte in vera e propria
drastica condanna per i fautori del primo indirizzo, mentre è piuttosto un fatto
marginale, ossia non riveste particolari accenti polemici, nel caso della scuola
padovana, dove invece l 'interesse è concentrato in una concezione e in uno sviluppo della logica come metodologia generale. Sarà proprio quest'ultimo aspetto
che - come si è visto nel capitolo x della sezione m - verrà portato alle estreme
conseguenze da Bacone, col suo Novum organum del 1620.
La prima opera in senso lato « logica » del Seicento testimonia quindi di
una concezione radicalmente mutata, rispetto alle tradizioni classica e medievale,
della logica stessa; e, in generale, «il problema del metodo» è problema schiettamente di questo secolo. Tuttavia vedremo che nelle diverse concezioni di tale
metodologia generale, i vari autori avranno posizioni notevolmente diverse nei
riguardi della logica. Dalle drastiche posizioni di Cartesio e (pur se, come vedremo, con modalità e spunti completamente diversi) di Pascal, per i quali il
«metodo» è sostitutivo in tutto e per tutto della «logica», si passa all'atteggiamento di Hobbes, che invece fa della sillogistica una parte integrante della propria filosofia, e infine alle vedute di Leibniz, il quale non solo difende la inderogabile e insostituibile presenza della logica nel suo momento formale in una
metodologia generale, ma ne proclama l'autonomia come scienza della dimostrazione e dell'invenzione.
Tratto comune ai pensatori di questo periodo, che verranno esaminati nelle
pagine seguenti, è che la tradizione logica è per essi rappresentata esclusivamente
dalla sillogistica (sono andate cioè praticamente del tutto perdute le acquisizioni
veramente originali della logica medievale), l'impiego della quale in vuote arguzie verbalistiche viene da tutti senza eccezione (ma naturalmente con atteggiamenti notevolmente diversi) decisamente condannata. Tuttavia non sarebbe
appropriato parlare tout court della « logica» di questo periodo senza opportune
specificazioni: se da una parte infatti - tramite quella che è considerata la tipica
opera logica del Seicento, ossia la Logique de Port- Ro_yal - ottiene enorme dif345
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La logica nel Seicento
fusione la « logica » metodologica cartesiana, dall'altra, attraverso le opere di
Hobbes, ml!. in sommo grado di Leibniz, si vengono impostando e precorrendo
i temi e le caratteristiche che saranno tipici della moderna logica formale.
Ci sarebbe anche da considerare il delicato problema del rapporto fra « logica » e matematica nel Seicento; ma esso verrà abbozzato nel capitolo successivo, e
cioè dopo aver riferito sullo sviluppo della matematica in questo secolo. Il presente capitolo si articola invece in tre paragrafi: il primo destinato alla logica
di Port-Royal (che richiederà necessariamente, per quanto detto sopra, un breve
cenno alle vedute logiche di Cartesio e di Pasca!), il secondo alla presentazione
della logica di Hobbes e il terzo infine al pensiero logico di Leibniz.
II · LA «LOGICA DI POR T-ROY AL»
Nel r66z viene pubblicata (anonima) La logique ou l'art de penser, contenant,
outre /es règles communes, plusieurs observations no11velles propres à former le jugement.
Ne sono autori Antoine Arnauld e Pierre Nicole ai quali già si è fatto cenno nel
capitolo VI parlando del giansenismo. Per quanto riguarda la logica, essi accettano
la teoria cartesiana della conoscenza, la sua metodologia e la sua tesi generale
sulla possibilità di una conoscenza scientifica della realtà. Converrà quindi soffermarsi dapprima sull'atteggiamento di Cartesio nei riguardi della logica, accennando pure alle vedute di Pasca! in proposito; anche quest'ultimo infatti,
come vedremo, ebbe notevole influenza sull'opera di Arnauld e Nicole, almeno
nella sua parte metodologica. Va detto subito comunque che la Logica di PortRoyal (come viene brevemente indicata l'opera in questione) rappresenta il
tipico frutto del disinteresse per il formalismo logico, caratteristico in generale
del Seicento preleibniziano; in essa si assiste d'altra parte a un eterogeneo frammischiamento di confuse osservazioni metodologiche, di abbozzi di teorie della
conoscenza, di tentativi di analisi dei concetti generali, che sarà destinato ad
avere una grande influenza sulla produzione logica posteriore, costituendone
una specie di cliché fedelmente seguito - secondo alcuni storici moderni - per
oltre duecento anni.
Ma veniamo alla posizione di Cartesio nei riguardi della logica. Nelle Regulae egli tocca con una certa frequenza il problema, a cominciare dalla prima
ove, dopo aver riconosciuto che solo l'aritmetica e la geometria sono scienze
cui conduca l'osservazione della regola in questione, prosegue dicendo di non
volere con questo condannare « quella maniera di filosofare che gli altri hanno
finora escogitato, e le macchine dei sillogismi probabili, adattissimi alla polemica, proprie degli scolastici: poiché esercitano, e stimolano per via dell'emulazione, l'intelligenza dei fanciulli, cui è di gran lunga cosa migliore dar forma con
opinioni di tale specie, sebbene appaia che sono incerte ... »; sicché alla « incerta »
sillogistica viene assegnato un valore al più didattico-pedagogico. Ma poche
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La logica nel Seicento
righe più avanti, considerato come si possa giungere alla conoscenza per la
duplice via dell'esperienza o della deduzione, rileva che quest'ultima, «ossia
la semplice illazione di una cosa da un'altra, può certamente venir omessa, se
non è scorta, ma non può mai essere fatta male da un intelletto che sia poco poco
capace di ragionare. E mi sembra che poco giovino al riguardo le pastoie dei
dialettici, con le quali essi reputano di governare la ragione umana, sebbene io
non voglia negare che esse siano adattissime ad altri usi »; sicché in effetti la
deduzione, questo fondamentale modo di conoscenza, viene considerata, assieme all'intuizione, un'operazione che nessun metodo può insegnare in quanto
operazione « fra le più semplici di tutte e primitiva ». Ma la polemica contro
la logica prende dimensioni ancor più precise nella regola decima, da cui conviene riportare per esteso la considerazione seguente: « Si meraviglierà forse
qualcuno, che in questo luogo, ove ricerchiamo in qual maniera ci possiamo rendere più atti a dedurre le verità le une dalle altre, noi tralasciamo tutti i precetti
con i quali i dialettici stimano di dirigere la ragione umana, allorché prescrivono
certe forme di ragionare, le quali concludono con tanta necessità, che affidandosi
ad esse la ragione, sebbene si disinteressi in certo modo dalla evidente e attenta
considerazione della stessa inferenza, possa tuttavia concludere in virtù della
forma qualcosa di certo: egli è che noi ci accorgiamo che la verità spesso si
sottrae a cotali vincoli, mentre coloro mede.simi che se ne servono vi rimangono
irretiti. Questa cosa agli altri non accade tanto di frequente; e sappiamo per
esperienza che un sofisma, anche acutissimo, non suole ingannare quasi mai
nessuno che usufruisca della schietta ragione, bensì i sofisti medesimi. » In
altri termini, l'arte di ragionare dei dialettici, oltre a non contribuire assolutamente alla conoscenza della verità, è cosa del tutto inutile, in quanto è naturalmente posseduta da chi faccia uso della «schietta ragione». D'altra parte la natura formale di tale logica è del tutto apparente, o passa comunque in secondo
piano, in quanto, prosegue Cartesio, « i dialettici non possono formare con arte
nessun sillogismo che concluda il vero, se prima non abbiano il contenuto di
esso e cioè se non abbiano conosciuto già da prima quella verità che in esso viene
dedotta ». Ne discende immediatamente che « mediante tale procedimento essi
stessi non vengono a conoscere nulla di nuovo e che pertanto la dialettica comune
è in tutto e per tutto inutile a chi brama indagare la verità delle cose, ma soltanto
può giovare talvolta a esporre agli altri più facilmente le ragioni già conosciute,
e perciò va trasferita dalla filosofia alla rettorica ».
Essenzialmente, quindi, la critica di Cartesio alla logica può riassumersi
dicendo, che egli la ritiene non necessaria per concludere rettamente e la ritiene
inoltre viziata da sterilità nel senso che non permetterà mai di raggiungere conoscenze nuove; sicché nel Discorso egli potrà affermare concisamente che « i
suoi sillogismi e la maggior parte delle altre sue istruzioni servono piuttosto a
spiegare agli altri cose che già sanno, ovvero anche, come l'arte di Lullo, a par347
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lare senza discernimento di quelle che si ignorano invece di impararle; e sebbene
essa logica contenga realmente molti precetti verissimi e ottimi, ce ne sono tuttavia, mescolati con quelli, tanti altri o nocivi o superflui che separarli è cosa
tanto difficile quanto trarre una Diana o una Minerva fuori da un blocco di marmo
appena sbozzato ». In luogo guindi di quel gran numero di precetti di cui la
logica è composta, Cartesio ritiene di poter proporre le sue quattro regole. Esse
sono state già illustrate nel capitolo II, ma è forse opportuno riportarle ancora
qui, e per esteso, allo scopo di agevolare il lettore nel confronto con le analoghe
regole proposte da Pascal e quindi dai portorealisti. Afferma quindi Cartesio di
proporsi come canoni quelli di:
« ... non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi evidentemente essere tale; cioè di evitare accuratamente la precipitazione e la prevenzione; e di non
comprendere nei miei giudizi niente di più di quello che si presentasse così
chiaramente e distintamente alla mia mente che io non avessi alcuna possibilità
di metterlo in dubbio. »
« .. . dividere ciascuna delle difficoltà da esaminarsi in tante piccole parti
quante fosse possibile e necessario per risolverle nel miglior modo. »
« ... condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più facili
a conoscere per salire a poco a poco come per gradi fino alla conoscenza dei più
complessi e supponendo pure un ordine tra quelli di cui gli uni non precedono
naturalmente gli altri.»
« ... fare ovunque enumerazioni così complete e revisioni così generali da es·
sere sicuro di non omettere nulla. »
È chiaro che la polemica di Cartesio contro la logica dei dialettici (che,
come si è già notato, per lui si riduceva praticamente alla sillogistica) ha radici
più profonde di quelle che non possano apparire da una generica condanna
dell'uso comune che di tale logica veniva fatto nelle dispute erudite sì da ridurla, per usare una felice espressione kantiana, a una sorta di « atletica dei dotti »;
si noti ancora che Cartesio non ha nulla da obiettare al sillogismo in quanto tale
se, rispondendo a uno dei suoi corrispondenti, sostiene che i propri scritti «fanno
ben vedere che io non disapprovo assolutamente i sillogismi, e anche che non ne
cambio né ne corrompo la forma, poiché io stesso me ne sono servito tutte le
volte che ne ho avuto bisogno ». La questione va quindi inquadrata nella contrapposizione di fondo fra il pensiero cartesiano e quello aristotelico; ma per
questo rimandiamo il lettore al capitolo II, !imitandoci qui a osservare che è
proprio l 'intrinseco carattere formale della logica quello che con ogni probabilità accende Cartesio nella sua polemica: Cartesio non concepisce un ragionamento
in cui lo sviluppo del pensiero non coincida con lo sviluppo della realtà, mentre
col sillogismo (secondo l'impiego che di esso tramandava buona parte della
tradizione scolastica) si correva il rischio di perdere il terreno del reale, per
cadere in un giro vuoto di parole, nell'esercizio sterile della disputa fine a se stessa.
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Si comprende anche, allora, perché nella dodicesima delle regulae per addestrarsi nel suo metodo deduttivo Cartesio consiglia, piuttosto che il sillogismo,
l'esercizio nell'aritmetica e nella geometria ove, malgrado la loro astrattezza,
non si correvano tali pericoli.
Resta però il fatto che se pure la deduzione viene riconosciuta come una
delle due fonti principali di conoscenza, essa viene risolta come una qualità
«naturale»: dai principi primi l'uomo deduce grazie a un lumen naturale proposizioni che in ultima analisi vengono garantite solo dall'evidenza. E cioè,
sebbene Cartesio assuma come modello di «rigore» la geometria, egli non è
per nulla preoccupato di precisare o illustrare quale sia la « logica» soggiacente
a tale tipo di argomentazione, assumendola appunto come «naturale » e « primitiva». Ora, si può tranquillamente concordare con Cartesio per quanto riguarda la critica all'impiego della logica ridotta ad atletica dei dotti; ma non si
può non restare perplessi di fronte alla vaghezza e all'esplicita natura soggettiva
delle quattro regole da lui proposte come sostitutive anche di quella logica;
qualora si volesse poi scoprire in esse un contenuto in certo modo « tecnico»,
questo risulterebbe esposto in modo così vago da rendere perlomeno assai
problematico l'impiego concreto delle regole in questione. Cartesio insomma
non coglie il valore intrinseco della struttura formale del discorso inferenziale;
va cioè annoverato come esponente principale fra i fautori di quel disinteresse
per il formalismo logico caratteristico di questo periodo.
Ben diverse ci sembrano, da questo punto di vista, le esigenze di Pascal.
Non che questi si faccia propugnatore di una tradizione logica o si professi
apertamente favorevole a un formalismo logico purchessia; vedremo anzi che
anch'egli si porrà in aperta polemica nei riguardi della sillogistica. Ma da una
parte propone delle regole nelle quali sono esplicitamente adombrati alcuni temi
che diverranno centrali nella moderna logica formale, dall'altra traccia un rapporto molto più preciso e delineato fra il suo proprio modello di rigore deduttivo, il modello geometrico, e la logica tradizionale. Non è cioè improprio che
i due trattatelli dai quali trarremo ora qualche citazione, ossia Esprit géométrique
e Art de persuader, siano stati da alcuni definiti come i primi trattati di logica
moderna non in simboli; Pascal li scrisse in data incerta fra il 1654 e il 1658,
ma essi vennero pubblicati, e solo parzialmente, nel 1728.
Proponendosi di far capire al lettore le regole da seguire « per rendere le
dimostrazioni convincenti » Pascal ritiene che il metodo migliore sia quello di
illustrare le regole che segue la geometria, la quale « senza soffermarsi sulle regole del sillogismo che sono tanto naturali che non si può ignorarle, si sofferma
e si fonda sul vero metodo di condurre il ragionamento su tutte le cose, il quale
è ignorato da quasi tutti ed è tanto utile da sapersi che vediamo come fra spiriti
uguali e in pari condizioni, colui che possiede un po' di geometria la vince e
acquista un vigore tutto nuovo». Ora, afferma Pascal, ci sarebbe un metodo «vero »,
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La logica nel Seicento
che va addirittura al di là della geometria; e tale metodo consisterebbe nel definire tutti i termini (ove per definizioni si considerino solo definizioni nominali)
e nel dimostrare tutte le proposizioni. Ma tale metodo non è concretamente
realizzabile, perché spingendosi sempre più a fondo nella ricerca si finirebbe
col trovare necessariamente parole primitive che non sappiamo definire e principi
così chiari «che non se ne trovano altri che lo siano di più in modo da servire
come una prova di quelli ». Ecco allora che il modello più prossimo a questo
«ordine ideale» è quello della geometria, il quale è tuttavia «inferiore nel senso
di meno convincente, ma non nel senso di meno certo ». Su questo modello si
uniforma l'arte del persuadere, la quale è essenzialmente il modo di condurre
prove metodiche perfette e « consiste di tre parti essenziali : nel definire i termini
di cui ci si deve servire con definizioni chiare; nel postulare dei principi o assiomi
evidenti per provare la cosa di cui si tratta; nel sostituire sempre mentalmente
nelle dimostrazioni le definizioni al posto dei definiti ».
Già questa concisa caratterizzazione è di natura nettamente diversa dalla
cartesiana; la sua portata è, se si vuole, molto più circoscritta e forse meno ambiziosa di analoghi argomenti cartesiani, ma è nel contempo assai più informata
a una concreta possibilità di fungere quale effettivo metodo per condurre dimostrazioni; in altri termini, qui il carattere tecnico-linguistico è del tutto evidente
e operante, mentre la possibilità di una sua applicazione generale e oggettiva viene
ancora più ribadita dalla struttura stessa delle seguenti otto regole nelle quali
Pascal compendia la costituzione del proprio metodo:
« a) " regole per le definizioni ": I) non cercare di definire nessuna cosa che
sia tanto nota di per se stessa che non si abbiano termini più chiari per spiegarla;
z) non lasciare senza definizione nessun termine un po' oscuro o equivoco; 3) non
usare nelle definizioni dei termini che parole già conosciute o già spiegate;
« b) " regole per gli assiomi " : I) non tralasciare di chiedere se venga
ammesso o no nessun principio necessario, per quanto chiaro ed evidente esso
sia; z) non postulare negli assiomi che cose perfettamente evidenti di per se
stesse;
« c) " regole per le dimostrazioni ": I) non cercare di provare nessuna
cosa che sia tanto evidente di per se stessa da non esserci nulla di più chiaro
per provarla; 2) provare tutte le proposizioni un po' oscure, e non usare nella
prova di esse che assiomi evidentissimi o proposizioni già accordate o dimostrate; 3) sostituire sempre mentalmente le definizioni al posto dei definiti per
non ingannarsi con l'equivocità dei termini di cui le proposizioni hanno ristretto
il senso. »
Queste regole potrebbero essere ridotte a cinque, secondo Pascal, eliminando
la prima regola di ogni gruppo. Si osservi che se esse vengono lette prescindendo
dall'indubbio «soffio» cartesiano che le pervade (l'evidenza, la chiarezza)
queste regole esprimono in modo non formale alcune fra le tipiche esigenze avan-
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La logica nel Seicento
zate dalla logica formale moderna: appello alla completezza e all'indipendenza
degli assiomi, criterio di eliminabilità delle definizioni, concetto rigorosamente
precisato di dimostrazione.
Anche i rapporti del suo metodo, della sua « logica » con la logica tradizionale vengono lumeggiati da Pascal meglio e più di quanto non abbia fatto Cartesio. La sillogistica, abbiamo visto, viene assunta come naturale, troppo elementare, insufficiente a fondare e costituire un metodo logico completo; tuttavia la
logica in quanto tale è «più ampia» della geometria, poiché contiene anche le
regole di quest'ultima; solo che non ne ha «capito la forza» e così, ponendo
queste regole a caso « fra quelle che le sono proprie, non ne segue che i logici
siano entrati nello spirito della geometria ». Ciò naturalmente non torna a vantaggio della logica, la quale appunto ha commesso un errore fondamentale:
non si è accorta di avere inglobato le regole dell'unica scienza, la geometria, che
insegna « il vero metodo di condurre la ragione ». Infatti, aggiunge Pascal,
«l'aver detto per incidenza, e senza essersi accorto che tutto è racchiuso là
[nella geometria], e il perdersi sconfinatamente dietro a ricerche inutili inseguendo
ciò che queste offrono e non possono dare invece di seguire quei lumi [della
geometrja], è veramente un mostrare poca chiaroveggenza, ben più che se non
si fossero seguite per non averle scorte. Il metodo di non errare è ricercato da
tutti. I logici fan professione di condurvici, i geometri solo ci arrivano; e, fuori
della loro scienza, non ci sono vere dimostrazioni. Tutta la loro arte è racchiusa
nei soli precetti che abbiamo esposti: essi soli bastano, essi soli provano, tutte le
altre regole sono inutili o nocive ».
Non meno pesante quindi che nel caso di Cartesio la polemica di Pascal
contro la logica tradizionale, che anche qui viene praticamente limitata alla sillogistica, trascurando la parte più originale, creativa e schiettamente formale dei
contributi elaborati dai medievali sulla tradizione peripatetica e stoica. Questo
atteggiamento che sarà comune anche alla logica portorealista (e che del resto è
ampiamente diffuso in tutto il '6oo) più che dimostrare una scarsa o superficiale
conoscenza storica dimostra a nostro avviso la presenza di un vero e proprio
giudizio totalmente negativo per questo aspetto della logica medievale: non
mancano infatti, come vedremo, parecchi manuali di logica contemporanei ai
nostri autori e che mostrano una competente conoscenza di tutta la logica medievale. Abbiamo già accennato d'altronde che questo atteggiamento svalutativo sarà destinato a permanere praticamente fino ai primi decenni del nostro
secolo.
Pascal comunque prosegue la sua polemica affermando che « per scoprire
tutti i sofismi e tutti gli equivoci dei ragionamenti capziosi [i logici] hanno inventato dei nomi barbari che stupiscono chi li ode; e, mentre non si possono
sciogliere tutti gli imbrogli di quel nodo così complicato che tirando uno dei
capi che i geometri insegnano, essi ne hanno elencati uno strano novero in cui
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La logica nel Seicento
quelli sono compresi, senza che sappiano qual è il buono »; e ancora, ribadendo
che le regole usate dalla geometria sono riassunte nelle proprie e sono le sole vere,
egli non si meraviglia che siano in effetti semplici, ingenue e naturali come realmente sono, e prosegue: «Non sono barbara e baralipton che formano il ragionamento. Non bisogna agghindare lo spirito; i modi sostenuti e penosi lo riempiono
di una sciocca presunzione con una elevazione eterogenea e una gonfiatura vana
e ridicola invece di un nutrimento solido e vigoroso. »1
Possiamo ora riferire in breve su quella che, come si è detto, viene considerata solitamente l'opera tipica della logica seicentesca preleibniziana, la Logica
di Port-Royal. È già stato fatto cenno alla chiara confessione cartesiana dei suoi
autori in materia di logica; essi dichiarano inoltre subito la loro « scarsa pazienza
per le sottigliezze medievali » e considerano peraltro sterile anche la reazione
ramiana alla logica aristotelica; Ramo infatti è essenzialmente un pedante, per
aver ammesso solo «suddivisioni con due membri» (dicotomie) e per essersi
preso « tanta pena per limitare la giurisdizione di ogni singola scienza ». Rifiutano anche la definizione ramiana della logica come ars bene disserendi, ritenendola
invece «l'arte di ben condurre la ragione nella conoscenza delle cose, per istruire
tanto se stessi, quanto gli altri ».
L'opera è divisa in quattro parti che trattano, nell'ordine, dei concetti
(idee), del giudizio, del ragionamento, del metodo, in relazione «alle quattro
operazioni principali dello spirito, concepire, giudicare, ragionare e ordinare »;
si noti che questa impostazione è significativamente chiarificatrice della profonda
differenza fra questa logica e quella tradizionale: alla scientia sermocinalis dei medievali, che ha per oggetto il linguaggio, viene qui contrapposta una logica
che oggi diciamo « mentalistica », che ha cioè per oggetto le operazioni dello
spirito pensante.
Nella prima parte della loro opera Arnauld e Nicole assumono la teoria
cartesiana delle idee opponendosi al sensismo e volendo dimostrare che le idee
« strettamente intellettuali » sono più chiare e distinte di quelle di origine sensibile. Le qualità di chiarezza e distinzione, che venivano definite separatamente
da Cartesio, vengono qui assunte globalmente, come un'unica qualità: noi concepiamo qualcosa chiaramente e distintamente quando sappiamo giustificare
con un'analisi intellettuale delle affermazioni determinate e strettamente pertinenti quella cosa. In questa parte gli autori effettuano la distinzione fra intensione
e estensione di un termine generale (una delle poche cose effettivamente interessanti della loro opera, dal punto di vista della moderna logica formale) e considerano quindi l'astrazione e le sue applicazioni. Per quanto concerne la teoria
della definizione, uno dei classici argomenti «logici» di quest'opera, gli autori
ribadiscono giustamente la necessità di distinguere le definizioni nominali da
I Per quanto riguarda i nomi « barbari » introdotti dai medievali ad indicare i modi sillogi-
stici, si veda ciò che è stato detto nel capitolo
della sezione 1.
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XIII
La logica nel Seicento
quelle reali, affermando inoltre che le prime non vanno considerate « rispetto
alla loro verità ».
Nella seconda e terza parte, pure in un'opera che presenta la logica non
come l'arte del discorso corretto ma come l'arte di ben pensare, di «ben condurre la propria ragione », non mancano tuttavia accenni e discussioni di carattere diciamo così linguistico-discorsivo. È caratteristico però che in genere ciò
viene fatto solo per una sorta di esigenza di completezza, perché è opportuno
trattare di «tutto ciò che è utile ai fini dell'arte cui appartiene» e che quando i
nostri autori riferiscono sui principali capitoli della logica classica (leggi: sillogistica) viene fatta una premessa ove si avverte il lettore che può tranquillamente
trascurare quelle parti senza pregiudicare la comprensione del resto.
La quarta parte è rivolta a presentare la metodologia portorealista, che viene
compendiata nelle seguenti otto regole: « r) N o n lasciare senza definizione nessun
termine un po' oscuro o equivoco; 2) non impiegare nelle definizioni che termini perfettamente noti o già spiegati; 3) non assumere come assiomi che cose
perfettamente evidenti; 4) assumere come evidente solo ciò che non ha bisogno
che d'un po' d'attenzione per essere riconosciuto come vero; 5) provare tutte le
proposizioni un po' oscure non impiegando nella loro dimostrazione che definizioni precedenti, e assiomi accordati, oppure proposizioni già dimostrate;
6) non abusare mai della equivocità dei termini, trascurando di sostituire mentalmente le definizioni che li restringono e li spiegano; 7) trattare le cose, nella
misura in cui ciò è possibile, nel loro ordine naturale, a cominciare dalle più
generali e dalle più semplici, e spiegando tutto ciò che appartiene alla natura del
genere prima di passare alle specie particolari; 8) dividere, nella misura del
possibile, ogni genere in tutte le sue specie, ogni tutto in tutte le sue parti e
ogni difficoltà in tutti i suoi casi. »
Se pure nel complesso di queste regole è evidente e predominante la « marca»
cartesiana, sarà tuttavia utile che il lettore le confronti con le regole pascaliane
sopra riportate per ritrovare anche con queste ultime notevoli analogie (gli autori avevano potuto leggere il manoscritto dei due trattatelli di Pascal sopra ricordati prima della stesura della loro opera). Osserva il Kotarbinski, a proposito di queste regole e del metodo che su di esse si fonda, che « essendo meno
vivo l'interesse per la forma delle dimostrazioni e, di conseguenza, meno strette
le esigenze relativamente a questa forma, diventa più facile costruire delle pseudodimostrazioni. Un esempio lampante a questo riguardo ... è l'Etica di Spinoza,
cartesiano per quanto riguarda le intenzioni metodologiche e l'esposizione,
la quale pretende di seguire un " ordine geometrico " ... ». Sempre nella quarta
parte gli autori conducono inoltre un confronto fra il metodo analitico, introdotto da Cartesio nella geometria, e il metodo sintetico fino ad allora usato dai
geometri. I portorealisti sono evidentemente a favore del primo; il fatto è però,
come osserva ancora il Kotarbinski, che « disgraziatamente i nostri autori illu-
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La logica nel Seicento
strano il metodo analitico ... applicandolo non a dimostrazioni precise, ma al
problema dell'immortalità dell'anima e dandone, invece di un esempio di ragionamento corretto, l'immagine di una pseudodimostrazione illusoria e scorretta>>.
Il nuovo spirito della logica portorealista, oltre a essere caratteristico per
la valutazione della logica seicentesca preleibniziana, entrerà stabilmente nella
concezione stessa della logica praticamente fino al sorgere della logica matematica nella seconda metà dell'Ottocento. Anche per questo ci siamo soffermati
più a lungo nella descrizione dell'opera di Arnauld e Nicole che inoltre, per la
sua « rappresentatività » del metodo cartesiano, abbiamo per così dire « spostata »
da uno stretto ordine cronologico rispetto ad altre opere di logica di questo periodo, e di fattura perlopiù manualistica, che ricorderemo ora brevemente.
Cominciamo col rammentare un Opus logicum (1633) di Christian Scheibler
(1589-1633) e una Logica vetus et nova (1654) del cartesiano tedesco Johannes
Clauberg (1622-165 5) « tematicamente quanto mai problematica, infarcita per
la prima volta con tutte le possibili questioni di psicologia e tecnica del processo
conoscitivo in generale» (Scholz). Il cartesiano belga Arnold Geulincx, che
è stato ricordato nel capitolo IV, pubblica una Logica a fundamentis suis a quibus
hactenus collapsa fuerat restituta, nello stesso anno in cui appare la Logica di PortRoyal. In essa l'autore si ripromette, come appunto afferma il titolo, di ricostituire
la logica dallo stato di decadimento nel quale gli sembrava essere caduta. L'opera
contiene l'esposizione competente di alcune dottrine medievali e della sillogistica; vi vengono espresse le condizioni di verità per una disgiunzione, e derivate
quelle che oggi chiamiamo leggi di De Morgan. Oltre agli Erotema/a logica pro
incipientibus (167o) del maestro di Leibniz, Jakob Thomasius (1622-1684), va
ricordato anche l'Essai de logique contenant /es principes des sciences et la manière de
s'en servir pour faire de bons raisonnements (SaJ!gio di logica contenente i principi delle
scienze e il modo di servirsene per compiere dei buoni ragionamenti, 1678) del fisico francese Edme Mariotte (16zo-1684). Particolare menzione merita la Institutio logica
(1686) del matematico inglese John Wallis (1616-1703) dove l'autore critica le
aggiunte ramiste alla logica aristotelica, sostenendo che esse si sarebbero potute
evitare pur di identificare formalmente le proposizioni singolari con le universali:
« propositio singularis, in dispositione sillogistica, semper habet vim universalis »,
pur se a giustificazione di questa sua tesi adduceva argomenti del tutto insostenibili. L'opera logica (formale, di tradizione medievale cioè) di maggior profondità
e originalità di questo periodo è però senza dubbio la Logica hamburgensis (1638)
di Joachim Jungius (15 87-165 5). Il volume conobbe numerose edizioni e venne
molto apprezzato da Leibniz; in esso la logica viene trattata con « raro acume intellettuale». Fra i contributi originali in esso contenuti, ricordiamo l'introduzione
di alcuni tipi di inferenza non sillogistica e un'acuta discussione e correzione della
teoria dei sillogismi obliqui.
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III · LA
LOGICA
DI
HOBBES
Degli autori del XVII secolo finora considerati, i filosofi tendono in generale
a sostituire la logica formale di tradizione medievale con una più generale e
feconda metodologia, mentre gli autori dei numerosi manuali in circolazione
in questo secolo si limitano perlopiù - salvo qualche rara eccezione - a tramandare la tradizione medievale, poco o niente aggiungendo di originale alle
elaborazioni dei logici che li avevano preceduti. Una profonda novità per quanto
riguarda l'impostazione dello sviluppo della logica formale moderna ci giunge
invece da un altro grande filosofo di questo secolo, quel Thomas Hobbes di
cui si sono trattate le idee filosofiche nel capitolo III, nell'ambito delle reazioni
seicentesche al cartesianesimo, e i principi politici nel capitolo v, nell'ambito
di una discussione generale sul giusnaturalismo.
In effetti, già nel capitolo III si è accennato abbastanza diffusamente alla
logica di Hobbes, nella misura in cui non è possibile prescindere, trattando della
sua gnoseologia, dalle sue vedute logiche che di quella gnoseologia sono parte
integrante. Qui vogliamo seguire più da vicino, basandoci sull'opera logica fondamentale di questo autore, l'articolazione della concezione hobbesiana della
logica, che metterà in luce la portata che i suoi tratti fondamentali hanno avuto
sugli sviluppi posteriori di questa scienza, a partire dalla riconosciuta influenza
su Leibniz, cui dedicheremo il paragrafo conclusivo di questo capitolo. Proprio
questo accostamento a Leibniz del resto ci ha consigliato di considerare la prima
parte del De corpore, che è del I65 5, dopo opere ad essa posteriori, in particolare
dopo la logica portorealista.
Le innovazioni fondamentali e significative portate da Hobbes in questo
campo sono le seguenti:
1) egli introduce la considerazione del « raziocinio » come « calcolo » ossia
come combinazione e trasformazione di certi « simboli » eseguite in genere in
base ad analogie puramente formali con le corrispondenti operazioni aritmetiche;
z) egli afferma una considerazione convenzionalistica del discorso e in
particolare dei principi fondamentali del discorso rigoroso, anche se poi, come
si accennava nel capitolo III, resta ancor oggi aperto alla critica hobbesiana
il problema di intendere in tutta la sua reale portata la natura di questo «convenzionalismo».
Va detto subito che i logici immediatamente posteriori a Hobbes assunsero, delle sue sopracitate innovazioni, solo la prima, ossia quella del calcolo,
mentre la seconda, relativa alla natura convenzionale degli elementi e delle regole
logiche, si ritroverà adottata fra i logici solo in tempi moderni.
Hobbes espone le sue idee logiche nella prima parte del De corpore, che
porta il titolo già di per sé significativo di Computatio sive logica. L'opera si compone dei sei capitoli seguenti (oltre a una lettera dedicatoria e una lettera al let-
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La logica nel Seicento
tore): la filosofia; i vocaboli; la proposizione; il sillogismo; l'errore, il falso e
gli inganni sofistici; il metodo.
Nel primo capitolo Hobbes inizia definendo la filosofia come « la conoscenza
per mezzo del retto ragionamento degli effetti o dei fenomeni in base alla concezione delle loro cause ... » e ribadisce qualche riga più avanti: « Per ragionamento intendo poi il calcolo. Calcolare è "cogliere la somma di più cose aggiunte l'una
all'altra" o" conoscere che cosa resta quando una cosa viene tolta da un'altra ".
Ragionare è pertanto lo stesso di " addizionare " e " sottrarre "; se uno volesse
aggiungere il moltiplicare e il dividere, non avrei nulla in contrario, perché la
moltiplicazione è addizione di termini uguali e la divisione è sottrazione di termini
uguali tante volte quanto è possibile. Sicché ogni ragionamento si risolve in queste
due operazioni della mente, addizione e sottrazione.» Naturalmente per Hobbes
ciò non va inteso in senso strettamente pitagorico, nel senso cioè che sia possibile il
solo ragionamento con i numeri; infatti, egli spiega, «si possono aggiungere e
sottrarre anche una grandezza a una grandezza, un corpo a un corpo, un movimento a un movimento, un grado di qualità a un altro grado, un'azione a un'azione,
un concetto a un concetto, una proporzione a una proporzione, un discorso a
un discorso, un nome a un nome; ed in ciò consiste ogni genere di filosofia ».
Il secondo capitolo, dedicato ai nomi, si apre col riconoscimento che per la
conoscenza sono necessarie tanto delle « note » ( « cose sensibili scelte a nostro
arbitrio con lo scopo che, mediante la loro sensazione, si possono richiamare
alla mente pensieri simili a quelli per indicare i quali esse sono state scelte »)
quanto dei « segni » ( « antecedenti dei loro conseguenti e i conseguenti dei loro
antecedenti, ogni volta che rileviamo che essi precedono e seguono perlopiù
nella stessa maniera»). Le note sono destinate a far sì che ognuno possa ricordare
i propri pensieri, i segni a far sì che egli sia in grado di comunicarli. Ora, osserva Hobbes, i nomi compiono entrambe queste funzioni, e precisamente un
nome è quella « voce umana adibita ad arbitrio dell'uomo ad essere una nota
con cui si possa suscitare nella mente un pensiero simile ad un pensiero passato
e che, disposta nel discorso e proferit