digital magazine gennaio 2010
N.75
Il suono
in cui
vivremo
Bachelorette
Pond
Shogu Tokumaru
Everybody Tesla
Twin Shadow
White Ring
Fauve! Gegen A Rhino
Numero 6
Die Antwoord
Gang of Four
Turn On
Top 40
2010
1 Gonjasufi A Sufi And A Killer
2 Richard Skelton Landings
3 Tame Impala Innerspeaker
4 Scuba Triangulation
5 Flying Lotus Cosmogramma
6 Ex (The) Catch My Shoe
7 Bjørn Torske Kokning
8 Books (The) The Way Out
9 Shackleton Fabric 55
10 Amor Fou I Moralisti
11 Villagers Becoming A Jackal
12 AA. VV. / Four Tet / Ramadanman Future Bass
13 Beach House Teen Dream
14 Joanna Newsom Have One On Me
15 Divine Comedy (The) Bang Goes The Knighthood
16 Non Voglio Che Clara Dei cani
17 Fursaxa Mycorrhizae Realm
18 New Pornographers (The) Together
19 Mulatu Astatke Mulatu Steps Ahead
20 High Places High Places vs. Mankind
21 Arcade Fire The Suburbs
22 Indian Jewelry Totaled
23 Francesco Tristano Schlimé Idiosynkrasia
24 of Montreal False Priest
25 Chicago Underground Duo Boca Negra
26 Four Tet There Is Love In You
p. 4
Bachelorette
6
Pond
8
Shogu Tokumaru
10
Everybody Tesla
11
Twin Shadow
12
White Ring
13
Fauve! Gegen A Rhino
Tune IN
p. 14
Numero 6
Die Antwoord
18
Drop Out
22
Gang of Four
32
Il suono in cui vivremo
Recensioni
44
Ensemble, Hanggai, Iron & Wine, John Vanderslice....
Rearview Mirror
84
Robyn Hitchcock
Rubriche
27 Field Music Measure
28 Natalie Merchant Leave Your Sleep
29 Sam Amidon I See The Sign
30 Caribou Swim
31 Barn Owl Ancestral Star
32 Calibro 35 Ritornano Quelli Di... Calibro 35
33 Ikonika Contact, Love, Want, Hate
34 Cairo Gang / Bonnie “Prince” Billy The Wonder
Show Of The World
35 Gil Scott-Heron I’m New Here
36 Crocodiles Sleep Forever
37 Mavis Staples You Are Not Alone
38 Jack Rose Luck in the Valley
39 Male Bonding Nothing Hurts
40 Erykah Badu New amerykah, part two: return of
the ankh
76
Gimme Some Inches
78
Re-boot
80
China Underground
90
Giant Steps
91
Classic Album
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Zampighi, Teresa Greco, Stefano Solventi, Luca Barachetti, Gabriele Marino, Andrea Napoli, Desiree Marianini, Marco
Boscolo, Gaspare Caliri
Guida
spirituale:
Adriano Trauber (1966-2004)
Turn On
Bachelorette
—Menestrella
sintetica—
Una persistenza freak-folk che
riaffiora attraverso l'ossessione
synth pop e le fregole electro vintage.
La splendida anomalia di Annabel
Alpers AKA Bachelorette.
D
alle parti di Drag City qualcuno deve essersi fregato ben bene le mani. Comprensibile. Soprattutto dopo i
buoni voti e i sempre più entusiastici riscontri “virali” riservati a My Electric Family, terzo opus a nome Bachelorette, moniker dietro al quale agisce la neozelandese Annabel Alpers. Non stupisce affatto quindi che l’etichetta
di Chicago abbia rilevato e rimesso in circolo i suoi primi due titoli, il mini album d’esordio The End Of Things e il
lungo Isolation Loops, rispettivamente del 2005 e del 2006. C’è di che rallegrarsene, perché la ragazza produce
cose davvero interessanti.
Procediamo con ordine: dopo un laurea in musica alla Canterbury University di Christchurch, Annabel si tuffa
4
nel surf-pop assieme ad un gruppo di cui nulla ci è
dato sapere, gli Hawaii Five-O. L’esperienza finisce
presto, troppa la voglia di soddisfare il proprio estro
senza scendere a patti con le propensioni altrui. Miss
Alpers non sente il bisogno di stare in una band, anzi:
si rinchiude nella proverbiale cameretta con chitarra,
basso, pianoforte e sintetizzatori e partorisce The End
Of Things (Arch Hill Recordings, luglio 2005, 7.2/10),
sette tracce che definiscono un enigmatico dissidio
tra la smania robotica e la fregola vintage folk-psych.
Due parole innanzitutto a proposito della voce: qualcosa a metà tra un ritratto pastello di Sandy Denny e
una Beth Orton posterizzata, il tepore differito in una
lunatica solennità che pure sa trasmettere un’immediatezza frugale, scolpendo melodie di luce colorata
su praticelli sintetici.
Love Is A Drug spedisce l’indolenza della ballad tra
struggenti brume elettroniche, quel senso di retrofuturismo rappreso prima che diventi nostalgia, ipotesi
di ciò che potrebbe essere (stato): oppure, se preferite,
un gran pezzo di canzone. Che realizza una sintesi già
sentita, certo (qualcosa tra i Grandaddy più eterei e
i Royksopp passando per Sparklehorse e un pizzico
di Delgados), ma con una convinzione rinnovata. E’ la
traccia più interessante in scaletta, quella più ricca di
segnali estetici e poetici, anche se gli sbuffi androidi
di My Electric Husband (con l’algida ironia del testo dai
sottili retrogusti angosciosi) da una parte e la flautata
pensosità acustica della title track dall’altra apparecchiano appunto degli estremi stilistici tra i quali non è
facile ipotizzare un congruo punto d’equilibrio. Senza
contare l’aria acidula e “murder” di Pebbles And Dirt,
elettricità cupa e voce ectoplasmatica su spartito neanche troppo vagamente Mark Lanegan (!).
Se non è facile inquadrarne intenzioni e prospettive, è però evidente il talento compositivo e l’intensa
disinvoltura delle interpretazioni. Capacità ribadite
dall’esordio lungo Isolation Loops (Electroplate, 2006,
7.5/10), tra le cui undici tracce molte cose si chiarificano. Bachelorette-Annabel conserva geni freak nel
DNA, lascia che si palesino attraverso le mutazioni
sintetiche eigthies, i recuperi vintage (filmici e spacey)
di certi Air, il respiro recuperato della folktronica e la
tenerezza digitale imbastita da gente come i Boards
Of Canada. Una menestrella sintetica che canta la solitudine dell’era iperconnessa? Può darsi.
Certo, pezzi come And The Earth Knew Absence (gospel liofilizzato come potrebbe una cuginetta diafana
di Bjork invaghita delle Cocorosie) o la struggente A
Lifetime (french-touch Stereolab stemperato con fatamorgane Yo La Tengo) realizzano ben più di un ibrido
da laboratorio, cogliendo il calore dell’immediatezza,
della semplicità come frutto di complessità risolte. A
tal proposito, il doo-wop letargico e stilizzato di Complex History Of A Dying Star suona più o meno come
una Bjork - ancora lei - prodotta da Brian Eno, mentre
Intergalactic Solitude disegna diafane traiettorie synthpop con spersa dolcezza Broadcast. D’altro canto,
ecco la vena folk sbilanciata vaudeville affiorare nella
graziosa Poppaccino, virata di esotismo onirico in Your
Magic Air, mentre tremori e languori smazzano dense
bradicardie errebì nella calorosa Doo-Wop.
L’enigma permane perché l’enigma è lo spettacolo,
il messaggio di solitudine rielaborata, fiera del proprio
isolamento che si nutre di segnali da un mondo così
pervasivo e distante. E’ il controcanto coscienzioso - se
mi è consentito dire - di quella Goldfrapp che invece va banalizzando la propria calligrafia in uno shock
mainstream che disperde le splendide radici electroavant. Torniamo così al punto di partenza, che poi è
quello di arrivo, almeno per il momento: My Electric
Family (Drag City, maggio 2009, 7.4/10) sposta l’ago
della bilancia verso un più acuto grado di robottizazione, pur senza rinunciare a stratificazioni timbriche
sempre più elaborate ed arrangiamenti mai tanto
ambiziosi. Insomma, il passaggio a Drag City vorrà
pur dire qualcosa. In primis il ricorso ad un pugno di
musicisti che le danno una mano con basso, chitarre e
batteria. Ed il respiro più ampio, di chi sa di dover abbracciare realtà globali. Non che prima non lo facesse,
ma adesso la consapevolezza lavora.
Il singolo Her Rotating Head dipana panneggi melodici da odalisca post-moderna su synth-pop iperottanta, preceduto dal funkettino iperboreo di Mindwarp e
seguito dalla frigidità kraftwerkiana di Technology Boy:
un trittico che sposta il baricentro della scaletta dalle
parti di un’elettronica sensibile ben realizzata ma non
proprio originale. Non a caso subito dopo la marcetta
di Dream Sequence - coi fiati della Royal New Zealand
Air Force Brass Band - arriva a sparigliare le coordinate,
schiudendo possibilità altre come la processione bucolica di Where To Begin o il rigurgito sixties latin-tex
di Donkey, per finire con la graziosa fragranza Stereolab sedata Young Marble Giant di Little Bird Tells Lies.
Passi in avanti verso la definizione di un sound più
strutturato, pagando un po’ di pegno in fase di scrittura. Resta netto però il senso di anomalia sonica in
corso, di cui sarà bene d’ora in avanti non farsi sfuggire
la traiettoria.
Stefano Solventi
5
Turn On
Pond
— With a little
help from my freak
friends—
Nick Albrook ci racconta di come
un gruppo di giovani sognatori stia
portando l’immaginazione al potere
dall’altra parte del globo.
V
erso la metà del decennio appena trascorso, cinque giovani freak di Perth, assolata capitale dell’Australia
Occidentale, si riuniscono in una band chiamata Mink Mussel Creek, iniziano a vivere insieme e condividono passioni comuni. Non sono ancora ventenni, ma per look e attitudine sembrano usciti da una bolla temporale
posta in qualche punto dei tardi 60s, in quella zona del crepuscolo in cui l’oscurità non aveva ancor inghiottito il
sogno hippy e forme di psichedelia evoluta davano origine ai primi embrioni progressive.
È un’esperienza breve ma significativa la loro, di cui, per la precisione, non viene decretata ufficialmente la
fine. Accade, piuttosto, che ciascuno dei membri inizi a intrecciare nuove relazioni artistiche, senza peraltro porre
termine alla reciproca collaborazione. Ognuno di essi da vita a nuove band, instaurando una proliferazione inarrestabile di nuovi progetti, dei quali, saremmo ancora all’oscuro se uno di questi, non avesse imposto il proprio
nome fra i più significativi dell’anno ancora in corso.
Stiamo parlando dei Tame Impala, autori dell’affascinante affresco pop psych conosciuto come Innerspeaker,
6
della cui maestosa bellezza i lettori di SA non dovrebbero essere all’oscuro. Tame Impala è il moniker con
cui Kevin Parker (l’originario batterista dei Mink Mussel Creek) realizza i propri album, ma la formazione,
dal vivo comprende anche il bassista Pasley Adams, al
secolo Nick Albrook, e il batterista Jay Watson, tutti ex
MMC.
In questa logica di band a geometrie variabili i
Pond, progetto di cui Albrook è la mente principale,
rappresentano l’alternativa funkedelica ai voli pindarici degli Impala. “Con i Pond generalmente cerchiamo
di suscitare emozioni gioiose ed edificanti – mi racconta il socievole Paisley Adams, contattato in occasione
dell’uscita del bellissimo Frond, primo album della
band ad essere inciso in un vero e proprio studio di registrazione – tuttavia non è detto che un secondo dopo
non si possa voler qualcosa di più aggressivo, malinconico oppure banalmente pop.”
Quando Albrook è in cabina di regia, dunque, ci
sono i Pond, incarnazione caotica e sexy di quello spirito che oggi aleggia dalle parti di Perth. “È difficile dire
a cosa si possa ricondurre il nostro sound, perché ci piacciono le cose più disparate. Magari ci rendiamo conto
di voler realizzare qualcosa di funky in stile Prince, ma
prima che tutto sia finito vogliamo che suoni ancora più
euforico e psichedelico, alla Flaming Lips per esempio.
In una prima fase delle registrazioni eravamo convinti di
voler fare un album country folk, ma arrivati a metà lavoro tutto si era già mescolato con sonorità ambient ed
elettroniche.”
L’eccitazione è palpabile, la confusione pure, sebbene quest’ultima sia facilmente imputabile alla
giovane età del nostro protagonista e a una sorta di
“incontinenza creativa”, corroborata da una versatilità
strumentale che permette ai membri di questa folle
combriccola di scambiarsi agevolmente i ruoli. Negli
ultimi show dei Pond alla batteria sedeva Kevin Parker,
in una sorta di versione 2.0 dei Mink Mussel Creek.
È proprio dal vivo che le cose si fanno più interessanti: “Durante gli show, questa nostra tendenza a
muoverci trasversalmente a parecchi stili, è ancora più
evidente. Siamo incapaci di concentrarci fino ad affinare
il nostro sound ma credo che emerga la voglia di divertimento che ci pervade e che vorremmo trasferire in chi ci
ascolta. Per questo ci piace portare sul palco un numero
di persone maggiore, rispetto a quelle che hanno partecipato alla stesura originaria dei brani. Tutto questo tende a condurre la nostra musica in direzioni impreviste.”
L’abbattimento delle barriere fra artisti e pubblico è solo un aspetto della dissoluzione dei ruoli che
rende così dinamica la scena cittadina. “Diciamo che è
come se la distinzione tra le band si stesse dissolvendo.
C’è soltanto un bel gruppo di musicisti, con una sensibilità molto affine e sonorità che cambiano secondo chi sta
suonando con chi in quel momento. Ogni gruppo ha un
nome che serve più che altro a distinguere chi scrive i brani, ma i membri della band sono quasi gli stessi. Ogni volta che qualcuno di noi ha una canzone e ha bisogno di
qualcuno che la suoni o la incida con lui, sa bene che gli
altri del gruppo sono gli elementi migliori a cui rivolgersi,
quelli che capiscono meglio di chiunque altro quello che
ha in mente.”
A questo punto la tentazione di immaginarsi Perth
come una sorta di terra promessa per hippy del ventunesimo secolo è molto forte. È lo stesso Albrook a
riportarci con i piedi per terra. “Mi piacerebbe dirti che
qui è tutto fantastico, ma purtroppo non è così. I locali che esistevano hanno chiuso o sono stati acquistati
da grandi compagnie. C’è rimasto veramente poco. Per
quanto riguarda le etichette, il discorso è leggermente
diverso. Ci sono parecchie label in città, ma l’unica veramente interessante è la Badminton Bandit: è quella che si
prende cura dei migliori artisti, gruppi e songwriter della
zona.”
E per quanto riguarda le band? “I gruppi interessanti
non mancano. I miei preferiti sono i Rabbit Island: fanno la musica migliore che abbia sentito da molto tempo a questa parte. Purtroppo Amber (Fresh, leader della
band, nonché poetessa e grafica di professione, ndr) è
sempre troppo occupata per dedicarsi a scrivere canzoni
a tempo pieno. È un’artista incredibile, sempre impegnata a realizzare cose creative ovunque e con chiunque. I
These Shipwrecks e i Growls sono altri due gruppi stupendi: sporchi, psichedelici ed emotivi. Come anche The
Silents, naturalmente.” Dei quali, peraltro, fa parte anche Jamie Terry, quarto membro “stabile” dei Pond.
L’impressione è che l’attenzione riscossa dal debutto dei Tame Impala abbia acceso i riflettori sulla scena neopsichedelica di Perth e che altre band, Pond in
primis, stiano per beneficiare di questo cono di luce.
Il problema, per gli infaticabili membri del collettivo,
nascerà quando l’infinito tour di Innerspeaker, in atto
ormai da mesi, andrà a cozzare con le tappe promozionali dei Pond.
Dal canto suo, l’ineffabile Albrook non si scompone: “Personalmente mi limito a prendere tutto come
viene. Se le cose si facessero troppo pressanti non avrei
problemi a lasciar perdere entrambe i gruppi. Per fortuna
al momento non è così. Di tempo ne abbiamo, lavoriamo
sodo ma è ancora tutto molto tranquillo. In fondo è solo
di musica che stiamo parlando!”
Diego Ballani
7
Turn On
Shugo
Tokumaru
— L’arte dal sogno—
Sol Levante e Albione, jazz e
progressive, punk e indie, tanto
indie, per una piccola grande perla di
artigianato pop
“C
redo che nemmeno i miei connazionali riescano davvero a capire di cosa parlano le mie canzoni”. Parole di
Shugo Tokumaru che dal Giappone con il suo recente Port Entropy ha sparso anche da noi le sue perle
di indie pop purissimo. Le sue sono a un crocevia tra le tradizione musicale del Sol Levante e il pop occidentale,
soprattutto britannico. Il quarto disco della sua carriera, iniziata nel 2004 con Night Piece, è giunto da poco nei
nostri lettori e ha colorato tutto in tinte pastello, sfruttando un linguaggio pop trasversale. Ad amplificare l’esotismo della sua proposta, l’uso esclusivo della lingua giapponese, che all’orecchio di chi non lo conosce ha la stessa
magia di una lingua inventata come l’elfico del Signore degli Anelli.
8
Oltre alla distanza linguistica che separa Italia e
Giappone, entrare nel mondo di Shugo Tokumaru non
è semplice perché si ha la netta impressione che le parole non siano proprio il suo forte. “Non sono bravo a
scrivere i testi per le mie canzoni”, ci confessa, “così sfrutto
gli appunti che prendo sui sogni che faccio quando dormo. In generale, credo che le mie canzoni non abbiano
punti di contatto con cose concrete o reali”. Ecco: sempre
il sogno e la fantasia a fare capolino nella poetica del
giapponese.
La forma privilegiata per esprimersi sembra proprio
quello della musica. Shugo Tokumaru è un polistrumentista versatile e nei suoi dischi tende a fare tutto
da solo, facendo esplodere nella sua fantasia l’estetica
tipica del genietto da cameretta tanto cara al mondo
indie di questi ultimi anni. “Scrivo tutti i giorni, in un sacco di modi diversi. A volte mi metto a suonare uno strumento e vedo semplicemente cosa ne esce fuori. Altre
volte, invece, ho in testa tutti i dettagli del brano e devo
solo mettermi lì a registrarlo come me lo sono immaginato”. In quest’ultimo caso, si tratterà probabilmente
dei messaggi che arrivano da band che popolano i
sogni di Shugo: “a volte, quando mi sveglio, cerco di ricostruire le canzoni che band sconosciute e immaginarie
hanno suonato nei sogni che ho fatto”. Il musicista come
Demiurgo che plasma una materia divina/onirica che
arriva direttamente da un altro mondo.
Che il lato onirico e fantasioso delle composizioni,
sia davvero trasmesso nel sogno a Shugo stesso o il
frutto del suo lavoro artigianale, fanno spesso venire
alla mente Il mio vicino Totoro, Il castello errante di
Howl e le altre opere cinematografiche del maestro
Hayao Miyazaki che hanno avuto successo anche qui
da noi, oltre ad averlo reso una leggenda vivente in
patria. I due sembrano condividere la giocosità dell’atto creativo e la capacità di far coesistere in maniera
del tutto plausibile elementi della quotidianità e del
mondo reale, con l’invenzione, il fantastico, l’altrove,
sia questo un luogo fatto di macchine volanti e strani
esseri, oppure una paesaggio sonoro basato sulla tradizione pop mondiale.
Che siano frutto della sua attività artigianale con gli
strumenti o che siano idee che provengono dal mondo
dei sogni, quelle di Shugo Tokumaru sono canzoni che
lasciano in bocca un vago retrogusto di John Lennon.
La sua è una presenza costante per tutte le composizioni di Port Entropy, tanto che ad ogni passaggio ci si
aspetta di sentirlo intonare Strawberry Fields vestito da
Peter Pan, mano nella mano con Wendy/Yoko Ono.
Un’altra presenza palpabile è quella del Robert
Wyatt solista. Una presenza che viene amplificata dal-
la vicinanza nella timbrica delle due voci. È questo il
lato bucolico, da pic nic nel parco che vena di spirito
canterburiano Port Entropy. Ma quello con Wyatt è
un accostamento che Shugo non accetta in toto: “non
credo che la mia musica sia stata influenzata da Robert
Wyatt. Dalla musica europea e americana ho sicuramente preso spunto”, ma dal mondo indie più che quello
dei classici di canterbury. E soprattuto spaziando senza confini di genere: “nel mondo indie prendo tanto dal
punk, quanto dal progressive e dalla psichedelia. E un po’
di jazz”.
L’esperienza live negli Stati Uniti ha messo Shugo
in diretto contatto con quel mondo indie da cui trae
ispirazione. Durante il tour del 2008 sono saliti sul palco con lui personaggi di primo piano del panorama
internazionale, come alcuni musicisti di casa Beirut
(“è un progetto musicale che sento vicino da un punto di
vista musicale”) e altri dei National (“un’altra band che
sento molto affine”). Non sarà americano, ma durante
l’ultimo tour europeo, Jens Lekman ha calcato il palco
per suonare con Shugo nelle tappe scandinave: “è un
personaggio che mi piace molto e mi sono trovato molto
bene”. Chissà come devono essere state le serate dopo
aver suonato, in una terra molto predisposta a fate e
incantesimi (Pippi Calzelunge e Babbo Natale sono
pur sempre di quelle parti).
Sul fronte compositivo, abbiamo già detto della
tendenza all’autarchia da cameretta. Autarchia che
non si traduce in un controllo assoluto sulla musica.
Certo, le influenze, dichiarate e non, sono talmente disparate e variegate che non ci si aspetta possano coesistere così facilmente. Eppure, il sound di Shugo è del
tutto personale e riconoscibile, e una volta ascoltata
una qualsiasi delle canzoni da uno dei suoi quattro
dischi (forse il primo, Night Piece del 2004, risulta più
derivativo dei seguenti tre) si riconosce subito qualsiasi sua altra composizione.
L’aspetto più sorprendente è l’assenza dell’aspetto intellettualoide che caratterizza molto indie pop di
oggi. Qui a regnare sono la fantasia e il sogno: “tutto
sommato non penso tanto a chi mi ha influenzato o a
che tipo di relazione ha la mia musica con la tradizione
del mio paese: mi interessa soltanto continuare a fare la
musica che mi piace”. Ecco, se vi è piaciuto Port Entropy
andate a ripescare gli altri episodi e cominciate a sperare che al prossimo tour europeo decida di includere
anche l’Italia. Nel qual caso, si accettano scommesso
su chi si porterà sul palco.
Marco Boscolo
9
—Epistemologia del
live looping—
—Black And White—
George Lewis ha azzeccato uno degli
esordi dell’anno con un misto di
sintetiche Ottanta e soul Settanta
senza perderci in cotonatura pop. Lo
abbiamo contattato.
Un duo sardo imbrigliato nei cavi di
un elettronica rumorosa, psichedelica
e atomizzata.
C
i volevano uno studente di Ingegneria elettrica
e uno di Fisica per concepire un progetto come
gli Everybody Tesla. O forse il curriculum scolastico
di Dario Licciardi e di Alessio Atzori è solo uno degli
elementi che vanno a comporre quel mosaico un po’
schizoide di stimoli musicali e non alla base del suono della formazione. Assieme, ovviamente, ai progetti
solisti che i due musicisti sardi portavano in giro fino
a qualche tempo fa, rispettivamente Gran.Farabutt.
Loop.Man. (“Sono sempre stato un patito dei grandi concept - floydiano praticante - e parallelamente dei blob televisivi e musicali. Ho dato il via al mio progetto cercando di
compenetrare queste due dimensioni”) e MyNerdPride
(“Ho scelto il GameBoy perchè con una simpatica cartuccia può diventare un vero e proprio sequencer. Ne ho presi
tre, assieme a un vocoder e a un kaoss pad e ho iniziato a
fare concerti”).
Certo è che un indole scientifica da se(le)zionatori di
suoni dovevano già averla innata i due, visti i buoni risultati ottenuti da un EP posizionato sull’asse Fuck Buttons/Silver Apples/Animal Collective/Black Dice che per
ora rappresenta l’unica testimonianza discografica della formazione. Un disco in bilico tra elettronica, tastiere
giocattolo e campionamenti che finisce per generare
un’idea di psichedelia fortemente ritmica, stratificata
10
Turn On
Twin
Shadow
Turn On
Everybody
Tesla
e perennemente in loop. L’immaginario del gruppo diventa un contenitore dalle dimensioni incerte che vive
di cambi di prospettiva, errori involontari capaci di suggerire soluzioni alternative, voci filtrate e riverberi. Alla
ricerca di un’originalità che è sommatoria delle parti ma
non solo: “Ci piacciono molto le contaminazioni. Il progetto, in origine, era basato solo sul campionamento di un
Didgeridoo, poi abbiamo iniziato a metterci dentro tutto
quello che avevamo a disposizione, in particolare giocattoli, tastierine, lo stesso GameBoy. Ultimamente stiamo lavorando con microfoni a contatto sul corpo. Ci piacerebbe
fare un pezzo che contenesse i nostri battiti cardiaci.”
L’Ep lo pubblica la On Two Sides su cassetta, un po’
per questioni emotive legate al supporto, un po’ perché
la natura stessa dell’operazione armonizza a dovere con
quell’estetica “nerd” da raccolta differenziata (di suoni)
del gruppo, un po’ perché il formato è economico e se
devi mettere in ordine le idee è quello che ci vuole. In
attesa di un esordio lungo previsto per la prossima primavera e di una collaborazione futura ma ancora ipotetica (“Abbiamo già qualche idea e durante queste vacanze di Natale vedremo di concretizzarla”) col conterraneo
Iosonouncane.
Fabrizio Zampighi
F
orget, l’esordio di Twin Shadow, aka George Lewis
Jr., dominicano, ma giunto a Brooklyn via Florida,
è stata una piccola sorpresa del 2010. Etichetta importante per un sound immerso negli Ottanta di Morissey
e compagnia, ma capace di guardare alle radici più profonde del decennio precedente, al confine tra musica
black e rock bianco. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con lui, mentre sta portando le sue canzoni nei
locali americani e registrando versioni speciali per i vari
blogger che contano.
George Lewis Jr. sembra voler dare contro alla critica
che lo ha messo tra gli innamorati di ritorno degli anni
Ottanta e dei suoi suoni sintetici. Sarà stata l’appartenenza all’etichetta britannica a guidare i critici musicali
di mezzo mondo o è una tendenza inconscia dello stesso musicista? Difficili dirlo. Di sicuro Forget suona come
un tentativo di proiettare più luci dei Settanta negli Ottanta di quanto normalmente non si voglia o tenda a
fare.
E se al pensiero, forse davvero peregrino, che una
versione acustica (come mostra una versione “naked di
Slow rintracciabile sul sito) dei di Forget sembrerebbe
portare da altre parti rispetto a quanto si può sentire
nel disco, George Lewis Jr. risponde piccato che “si tratta degli stessi brani, dicono le stesse cose” e chiude definitivamente l’argomento.
Il lato soul del disco e l’amore per la musica black
(“una delle cose più divine che esistano sulla terra”) tinge
di scuro e di Detroit il sound 4AD in grana grossa (vedi
il video di Castle in the Snow) di telefilm come Starsky
And Hutch e CHIPs, a bordo di Ford Gran Torino, Porsche 924 (1976), Chevy Corvette 454 (1971).
Dietro a Forget c’è un’anima almeno in parte da
crooner, da innamorato della musica degli endless seventies, quelli dei jeans a zampa, dai Ray Ban a goccia, del rock della tradizione, della Motor City, Donna
Summer e Bee Gees. Nel mondo di Twin Shadow c’è
un clash tra black e white, tra due immaginari più che
ambiti musicali, che pensiamo più separati di quanto
non siano stati davvero. O che forse oggi, a distanza di
decenni possiamo riscrivere come meglio crediamo.
Marco Boscolo
11
—Di bestie,
destrutturazioni e
contraddizioni—
—Grave Wave in salsa
esoterica—
Date un ascolto ai F!GAR se volete
sapere cosa significhi crescere a
pane e mp3. Electro-noise insieme
ambientale e tribale, cerebrale
e muscolare per un terzetto di
esordienti
Le rune e le brume della casa
infestata hanno nuovi adepti: i White
Ring, della chanteuse Kendra Malia,
la prossima Zola Jesus
U
no dei nomi di punta della nuovissima armata
witch è un duo di Brooklyn formato dal beatmaker Bryan Kurkimilis e dall’ultima chanteuse in salsa
goth Kendra Malia. Avvolti da un manto nebbioso e
circondati da immancabili simboli runici, i White Ring
hanno esordito lo scorso marzo con un 7 pollici condiviso con i sodali oOoOO (clickatissimo geroglifico) sulla
svedese Emotion, mettendo subito in chiaro di che pasta sono fatti: la loro Roses era un perfetto esempio di
“nuova onda funerea” con quattro minuti di bassi grevi,
rullanti affilati come fendenti, synth apocalittici su cui
si stagliava il mesto, confuso cantato di Kendra. Pochi
mesi ed è tempo per un secondo singolo. Suffocation, il
loro pezzo migliore, esce per la canadese Hi-Scores Recording Library e sposta ancora di più l’asse sonoro sul
versante electro, con un incalzante beat e frammentate
note di tastiera a far da supporto alla spiritata voce della chanteuse. Licenziato in due edizioni – una su vinile
corto e una in digitale con ben cinque remix aggiuntivi,
tra cui anche uno ad opera di un altro nome gettonato
del lotto, Mater Suspiria Vision – apre le porte al primo
tour europeo, solo in quel Regno Unito sempre così attento alle mode, e alla partecipazione alla compilationmanifesto Isvolt con quella IxC999 il cui video circola
già da qualche mese in rete.
12
Turn On
Turn On
White Ring
Fauve!
Gegen A
Rhino
Al netto delle aperture da hip-hop inacidito, l’ambiente di riferimento del duo newyorchese è quello del
witch-house alla maniera dei maestri Salem. L’anello
bianco però vira più verso una disgregazione ritmica
e una evanescenza che rimanda all’immaginario 4AD
post-Dead Can Dance o Cocteau Twins: rimandi esoterici e ambientazioni medievali, fanno da sfondo a pezzi
dilatati e più neri del solito, ma dotati di una grazia e un
incanto vocale in grado di battersela, in un futuro prossimo, con la reginetta Zola Jesus e, per ora, di attirare
l’attenzione dei fan della compagine esoterica tutta.
Ne è esempio il nuovo 12 pollici Black Earth That
Made Me, uscito ora per la casa madre di tutte le apprendiste fattucchiere, la texana Disaro. Ovviamente
il disco è sold out, complice la tiratura ridicola di sole
duecento copie di questa prima edizione, ma, ne siamo
certi, ne seguirà una seconda. In 25 minuti scarsi di musica l’ep raccoglie sei pezzi tra cui la sopracitata Roses
e dà la prima conferma della capacità dei due: tessere
incubi metropolitani in cerca di una ricollocazione nel
mondo pagano e pre-moderno. E’ quanto basta.
Andrea Napoli
E
ccola la generazione cresciuta a pane e mp3. Che
ha accesso a tutto lo scibile musicale “orizzontalmente”, privo di nessi di consequenzialità cronologica e
in cui l’hic et nunc è la somma del tutto. Humus immenso e atemporale che fa nascere progetti che se ne fregano di citare padri putativi perché questi non stanno
su un podio distante e algido ma seduti lì, al fianco di
ventenni spregiudicati che si scelgono nomi curiosi. Da
belve che combattono rinoceronti, metaforiche forze
brute, ancestrali che si scontrano però in discoteche venusiane, tra led e fiumi di azoto. Can, Chrome, Cabaret
Voltaire seduti accanto a Fuck Buttons, Aa, Black Dice;
Fennesz e Brian Eno a conversare amabilmente con
Autechre, Pan Sonic e Suicide.
Uno spazio-tempo dilatato e vuoto, quello dei F!GAR.
In cui tutto convive allo stesso tempo e in uno stesso
spazio (non)fisico creando frattali sonori che si diramano in ogni direzione possibile. Contemporaneamente.
Così Matteo Moca (chitarra, voce effettata e altro),
che insieme a Riccardo Gorone (chitarra, basso, theremin, oscillatori) e Andrea Lulli (synth, drum machine)
completa il terzetto: In questi anni, peer to peer e affini
hanno spalancato le porte della percezione, citando Huxley. La quantità di musica che in potenza possiamo ascoltare è infinita. Seppure non sia sempre un fatto positivo –
si pensi alla elefantiasi produttiva e spesso acritica che
va a scapito della qualità media –puoi scoprire qualsiasi
cosa, da qualsiasi posto della terra. Essere influenzati da
tutti gli artisti che hai citato, crea una voglia ancora maggiore di confrontarsi e di andare oltre, superare, ricercare e
non essere mai appagati.
Non esercizi di necrofilia scorretta, dunque, quelli
di Geben o Namegiver’s Avenue. Se il primo risultava
più muscolare e ritmico, e il secondo vive di una smaterializzazione sonora di stampo concettuale, ad accomunare entrambi è la rielaborazione di input tra i più
diversi messi al servizio di una sorta di ambient-noise
da discoteca del terzo millennio. Percussivismo, dilatazioni post-kraut, ossessività electro, destrutturazioni
art-wave dimostrano la dicotomica anima della band:
Una spensierata, che danza sul mondo, ne apprezza la
bellezza e le sue manifestazioni; l’altra sospettosa, poco
convinta della bellezza che si manifesta, ma certa della
bellezza nascosta. Una che apre gli occhi e fa brillare di
luce splendente ogni cosa rendendola diamante; l’altra
che raccoglie il carbone nell’oscurità e lo porge agli alchimisti. Una è la sfinge; l’altra è l’oracolo. In mezzo loro tre,
a sviluppare queste contraddizioni.
Stefano Pifferi
13
Tune-In
Numero 6
—Energici. Elettrici. Immediati.—
Testo: Stefano Solventi
Col terzo album I Love You fortissimo i Numero 6 hanno
realizzato il perfetto album pop rock in italiano. Di questo
e altro abbiamo parlato con Michele “Mezzala” Bitossi.
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Consentimi innanzitutto una domanduccia riguardo al titolo, I Love You fortissimo: i miei sensori avvertono ironia, ma potrebbe essere anche una seria
dichiarazione d’intenti. Che mi dici?
I tuoi sensori avvertono la cosa giusta. Trovare titoli a
canzoni e album non e’ mai stata una mia grande prerogativa. Solitamente lascio volentieri quest’ incombenza ai miei compagni di avventura. A ‘sto giro invece
il responsabile del misfatto sono io. Durante le registrazioni del disco girando per Genova in vespa mi sono
imbattuto in una scritta a spray su un muro che recitava “i love you fortissimo”. Non so spiegarti il perché
ma sono rimasto folgorato da ‘sta cazzata. Inspiegabilmente i miei “soci” mi hanno assecondato e abbiamo
trovato il titolo al disco. Devo dire che sta facendo piuttosto schifo in giro. Bene cosi’. Nella mia mente malata
dovrebbe esprimere il nostro essere naïf.
Veniamo alla sostanza: avete realizzato probabilmente il disco di perfetto pop-rock in italiano. Melodico ma grintoso, accattivante ma non banale,
intenso senza velleità poetiche o - peggio - sociopolitiche. Quello che, come si dice, ci piacerebbe
sentire alla radio in un mondo più giusto. E’ frutto
di una pianificazione o le cose sono andate come
dovevano andare?
Ti ringrazio molto per questi gratificanti commenti.
Questo album è frutto di una meticolosissima pianifazione, ci mancherebbe altro. Intendo dire che sia io in
scrittura che insieme agli altri quando si è trattato di
fare gli arrangiamenti e la produzione abbiamo focalizzato l’ambizione di realizzare un album che avesse
esattamente le caratteristiche che fortunatamente riscontri tu. A questo punto non ci resta che sperare che
molta gente la pensi nella stessa maniera. Quanto alle
radio italiane maistream sono ne più ne meno lo specchio del miserabile appiattimento culturale della nostra
povera patria. Nei corridoi che purtroppo contano non
esiste la minima parvenza di curiosità e voglia di scommettere su proposte che hanno sostanza e cose da dire
ma che non si rifanno alle coordinate preconfezionate
da reality show. Quando poi una radio nazionale come
radio 2 sembra aprirsi a una programmazione decente il sogno dura pochi mesi e tutto rientra nei ranghi
dai quali si era partiti. Amico mio, questo mondo non
e’ giusto.
Mi sembra che il vostro sound metabolizzi principalmente i novanta e un bel po’ di anni sessanta,
senza disdegnare quel che sta nel mezzo. Mi chiedo quanto venga elaborato dalla fonte (The Moody
Blues? Pavement? Husker Du? Sam Cooke? Weezer?
Sonics?) e quanto dalle controparti italiane, da Bat-
tisti a Ivan Graziani passando per Afterhours e Perturbazione...
Io sono del ‘75 e non posso prescindere dai miei tantissimi ascolti degli anni novanta molti dei quali sono
ancora oggi in cima alle mie playlist. Le anime anni sessanta della band sono Tristan e Stefano, da sempre beatlesiani convinti. Tristan soprattutto con la sua entrata
in organico ha portato una ventata “beat” che ha fatto
bene al sound dei Numero 6. Tutti gli artisti che hai citato sono effettivamente fonti di ispirazione significativa. E’ un po’ di tempo tuttavia che quando scrivo penso
a riferimenti italiani. Uno su tutti, appunto, e’ il grandissimo Ivan Graziani, che considero un vero e proprio
genio, purtroppo assai sottovalutato.
L’approccio mi sembra ancora più diretto rispetto a Dovessi mai svegliarmi... Quanto pensi abbia
influito e a che livello (estetico, contenutistico...)
l’esperienza con quel punkettone situazionista in
incognito di Enrico Brizzi?
L’esperienza con Enrico Brizzi e’ stata importante per
tante ragioni, sia sul versante live che per quanto riguarda il disco che abbiamo fatto insieme e che, fortunatamente, ha riscosso unanimi consensi. Uno degli
aspetti a mio avviso piu’ significativi e’ stato il fatto che
ne Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro abbiamo, senza fare molti calcoli per la verità, recuperato un approccio molto piu’ energico, elettrico e immediato rispetto
all’ ultimo album che era assai introspettivo e acustico.
A 35 anni abbiamo sentito nuovamente il bisogno di
alzare i volumi e di fare rock’n’roll. Questo spirito “plug
and play” lo abbiamo portato in dote anche al nuovo
disco dei Numero 6.
Inevitabile parlare dei testi. Sono punti di vista indomiti sulla normalità, squarci di lucidità nel quieto (e spesso inquieto) vivere, spasmi di neuroni non
privi - non del tutto, non ancora - di dignità. Tutta
roba presa dalla vita vera?
In linea di massima sì. Tengo moltissimo al versante testuale delle mie canzoni anche se non parto mai dalle
liriche quando compongo. Da sempre penso ai testi
una volta che ho la musica pronta ed è sempre una
sfida disagevole dal momento che il mio approccio è
assai poco “cantautorale” dal punto di vista delle metriche. Detto questo attingo quasi esclusivamente da ciò
che vedo e ascolto. Anche i testi più “narrativi” nascono
sempre da roba vera.
Pur evitando la retorica del cantautorato sociopolitico, vi capita di elargire qualche sentenza sullo stato delle cose. Perciò mi sbilancio a chiedervi: cosa
resterà di questi anni zero? Musicalmente oppure
non, fate voi.
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Intendi di “questi cazzo di anni zero”? Non saprei. Mi auguro fortemente che non resteranno i dischi oggettivamente brutti e disonesti di cui bisogna comunque parlare bene perché fa figo e perché se no non capisci un
cazzo. Vorrei che rimanesse almeno un po’ della rabbia
che in molti stiamo accumulando, potrà sempre servire.
Poi vorrei che restasse indelebile il ricordo di una domenica: quella in cui il Genoa vincerà il decimo scudetto
e, di conseguenza, la stella. In effetti in alcuni testi mi
piace inserire delle frasi “ad effetto”. lungi da me però
volermi ergere su chissà quale piedistallo, sia chiaro.
Una delle cose che mi piacciono è quel senso di composizione di gruppo, ovvero di canzoni che sbocciano e prendono forma e forza provandole nella
famosa cantina. E’ così oppure arrivate in studio coi
pezzi già scritti?
E’ molto affascinante e interessante che tu dica questo.
Ti spiego perché. Da sempre il processo creativo e produttivo delle band in cui ho militato (Laghisecchi e Numero 6) mi ha visto scrivere le canzoni per sottoporle
alla band già praticamente finite e, di conseguenza, con
margini di intervento piuttosto limitati da parte degli
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altri. Anche per questo disco ho scritto tutti i testi e le
musiche ma è stato fondamentale il confronto con Andrea, Stefano e Tristan. abbiamo arrangiato tutto insieme, partendo sempre dal mio materiale ma mischiando
spesso le carte, facendoci trasportare dall’entusiasmo e
dalla pulsione creativa durante ore e ore di prove.
Già che ci siamo, come siete messi a sala prove? Quali sono le difficoltà pratiche che deve affrontare una
band come la vostra per sfornare un disco?
Fortunatamente disponiamo di una sala molto grande
ed accogliente presso il Forte Castellaccio sulle alture di
Genova, un posto davvero ideale per scrivere e suonare.
Dal punto di vista produttivo abbiamo finanziato autonomamente questo album per quanto riguarda le registrazioni il missaggio e il mastering. Occorrono sacrifici
perché per fare le cose bene bisogna elargire somme
non indifferenti. D’altra parte abbiamo la fortuna di
avere addetti ai lavori amici che credono nel nostro lavoro e che gentilmente spesso ci vengono incontro.
Da Eclectic Circus a Supermota passando per Green
Fog: le piccole label sono più un riparo, una necessità o un’opportunità?
Possono essere un po’ tutte e tre le cose. Nel senso che
nonostante ormai sia pressochè un miraggio il fatto di
poter usufruire di budget per registrare o per promuovere gli album ritengo che sia conveniente per una
band collaborare con un’etichetta indipendente nel
caso in cui si incontrino persone capaci, volenterose,
appassionate e serie che dimostrino di lavorare come si
deve ai progetti, a prescindere da bieche logiche commerciali. Al giorno d’oggi non è più necessario fregiarsi
di un marchio se ad esso non corrisponde il lavoro reale di qualcuno. Detto questo bisogna riconoscere che
i media tendono a considerare diversamente a priori
album che escono autoprodotti rispetto ad altri griffati
da label più o meno alla moda.
Tenuto conto dei volumi di vendita - che ovviamente vi auguro di smentire - e la generale disaffezione
nei confronti del supporto fisico, non avete mai preso in considerazione l’idea di distribuirvi da soli?
Fortunatamente c’è ancora chi, come me, desidera
ancora possedere una copia fisica di un disco che gli
piace. Io non ho mai smesso di comprare vinili, e sono
davvero felice che questo fantastico formato stia tornando in auge. Il cd è praticamente morto, nonostante
i tentativi di sfornare confezioni accattivanti. Probabilmente questo è l’ultimo nostro lavoro ad uscire in
cd. In futuro credo faremo soltanto vinili e files digitali
da distribuire in rete. In ogni caso, nonostante siamo
distribuiti nei negozi da Audioglobe, puntiamo maggiormente sulla vendita dei dischi ai concerti, dato che
vogliamo suonare il più possibile in giro.
A proposito, Cristiano Godano in una recente intervista sul Mucchio e Francesco Bianconi su Sentireascoltare criticano piuttosto duramente lo stato
delle cose determinate dal web, con riferimento al
download selvaggio e all’autopromozione sistematica dei social network. Alla fine, sintetizzando
all’estremo, il problema è: se ne parla molto, ma
non si vende un cazzo. Che ne pensi?
Penso innanzitutto che i punti di vista di Godano e
Bianconi, per quanto sulla carta possano essere condivisibili, nascano da presupposti forse un po’ snobistici e
arrivino dall’alto di una notorietà piuttosto consolidata
data la quale, evidentemente, si può tranquillamente
evitare di autopromuovere il proprio progetto usando
la rete. E’ curioso, d’altra parte, che spesso chi si fa notare anche grazie al passaparola sul web tenda poi a
sparare a zero sulla rete, sui social network ecc. Non mi
pare un atteggiamento coerente e rispettoso per chi,
magari, ha contribuito al tuo successo diffondendo la
tua musica su blog, siti e quant’altro. Per un sacco di
artisti alle prime armi la rete è una risorsa fondamen-
tale, non è necessario che lo spieghi io in questa sede
perché è un fatto evidente. Se poi certi maestri di vita
la pensano diversamente beh, questo è un problema
loro. Comunque ho letto l’intervista di Francesco a cui
ti riferisci e devo dire che, come spesso accade, dice
cose interessanti. E’ vero, in generale, che si vende pochissimo, a parte alcuni casi isolati e comunque abbastanza incoraggianti. Sono tuttavia convinto che, stando così le cose, sia importante che un progetto goda
di diffusionae anche gratuita se poi ciò porta gente ai
tuoi concerti. Noi per esempio abbiamo avuto più di
diecimila download gratuiti per l’ultimo ep. Non li baratterei certo con 2000 copie vendute nei negozi.
L’ipotesi che la musica verrà fatta quasi esclusivamente da “dilettanti”, che si guadagnano da vivere
in altro modo, va presa in considerazione. Voi la
prendete in considerazione? Ad esempio, fate altri
lavori?
Tutti noi facciamo altri lavori, fortunatamente in campo artistico o, comunque, creativo. Detto questo non ci
consideriamo affatto dei dilettanti. Per noi la musica è
una faccenda importante, direi fondamentale. Per me
non sta in piedi il teorema che se non riesci a vivere
soltanto musica essa diventa automaticamente un tuo
hobby. E’ evidente che non si vive di aria e che alla fine
del mese bisogna provare ad arrivarci. Ciò non toglie
che puoi fare musica da professionista nonostante fare
il musicista non sia la tua unica occupazione. Ci sarebbe da fare un discorso lungo su come è considerata la
musica e come sono considerati i musicisti in questa
merda di paese ma lasciamo perdere. magari ne parliamo un’altra volta in un’intervista ad hoc.
Chiudiamo come abbiamo aperto, con una curiosità personale: perché quel soprannome calcistico
“Mezzala”?
Sono un tifoso del Genoa fanatico e ai margini della
pazzia. Nonostante da ormai trent’anni segua la mia
squadra in casa e (quando posso) anche in trasferta non
riuscendo assolutamente a disintossicarmi da un calcio
sempre più malato e corrotto, sono enormemente affezionato a un calcio che non c’è più, quello con cui sono
cresciuto, quello delle maglie da 1 a 11 senza nomi sulle spalle, quello degli stadi stracolmi, di novantesimo
minuto, del libero e della mazzala. Ecco, nonostante io
sia da sempre un pessimo calciatore adoro fantasticare
di essere una mezzala tutta estro e piedi buoni. Con lo
pseudonimo di Mezzala tra marzo e aprile prossimo
uscirà per Urtovox il mio primo disco solista, un progetto a cui tengo tantissimo e di cui spero di parlarti in
un’altra intervista. 17
Tune-In
Die
Antwoord
—The Great Zeff'N'Roll Swindle—
Testo: Gabriele Marino
18
Si presentano come il next level di tutto il baraccone,
come il mesh definitivo. Ma sono una studiatissima
presa per il culo. Ne abbiamo parlato con il membro
esterno e "uomo immagine" Leon Botha
P
er promuovere l’uscita del suo ultimo album negli
Stati Uniti, M.I.A. aveva programmato due megaeventi targati Hard Fest. Le cose però non sono andate
per il verso giusto: la data del 17 luglio a Los Angeles è
stata cancellata all’ultimo momento per “motivi di sicurezza” (una precisa presa di posizione da parte delle
autorità locali contro raduni, rave e quant’altro; solo
pochi giorni prima, infatti, una quindicenne era morta
di overdose all’Electric Daisy Carnival) e la data di New
York è stata funestata da continui problemi con l’amplificazione. In tutto questo casino, ci ha colpito un dato
forse marginale-forse no: c’era un unico nome, oltre a
quello della regina M.I.A., presente sui cartelloni di entrambe le serate, stampato a caratteri cubitali, ben più
grande di quelli di superstar acclarate come Flying Lotus e Skream. Ma chi cazzo sono ‘sti Die Antwoord?
Per rispondere alla domanda è necessario distinguere due livelli di descrizione. Quello della storia così
come ci viene raccontata e quello della storia “esterna”,
enunciato ed enunciazione insomma. I Die Antwoord
(“La risposta”) si presentano come un trio proveniente
dalla periferia di Città del Capo, Sudafrica. Ninja, il rapper stecco tutto tatuato e incazzato; Yo-Landi Vi$$er,
la lolita raver; Dj Hi-tek, il produttore tamarro e ciccione. Ninja è il frontman e la testa calda, fuma un sacco
d’erba e, giusto per dire, la sua mossa pro-legalizzazione sarebbe stata portarne un sacco intero davanti
a Nelson Mandela. I Die Antwoord vogliono portare il
fokken (fottuto) hip hop a un livello superiore, dicono
di fare Zef rap-rave, dove Zef - è Afrikaans - è qualcosa
di simile all’americano redneck (letteralmente significa white trash). Zef è qualcosa che è cheap, cheesy e
allo stesso tempo cool. Fucking cool. Il loro è un immaginario “contro” e a tinte forti, ma un po’ demente,
da ultrapop delle bidonville, fatto di sesso, soldi, cospirazionismo, vegetarismo, fantascienza ed esaltazione
della diversità. Dicono di rappresentare le diverse facce
del loro paese: “Blacks, Whites, Coloureds, English, Afrikaans, Xhosa, Zulu, Watookal: I’m like all these different
things, all these different people, fucked into one person”.
Così Ninja nella programmatica intro di Enter The Ninja,
groundbreaking video postato su Youtube nel gennaio
2010 e arrivato in pochi mesi a più di cinque milioni e
mezzo di visualizzazioni. Base cross/electrohop epica,
Yolandi a introdurre e puntellare con quella sua vocina
insopportabile, Ninja in totale valanga egotrip, scenografia d’impatto. E, soprattutto, una strana figura. Ma
su questo punto torneremo più avanti.
Ninja ha i denti d’oro e il corpo coperto di tatuaggi
blu scuro, come i carcerati (sul pene ha scritto “Wat Kyk
Jy?”, “che cazzo guardi?”). Yolandi è magrissima, sembra
sempre strafatta di qualcosa, ha una vocina all’elio tipo
Twetty. Di Dj Hi-Tek conosciamo solo qualche scatto
promozionale, opera del curatore ufficiale dell’immagine della band, Sean Metelerkamp (responsabile delle
scenografie alla “Keith Haring cattivo” che si possono
ammirare in Enter The Ninja). Hi-Tek ha paura di volare
e costringe la band a esibirsi spesso come duo, anche
se, alla bisogna, viene sostituto dal cugino di Ninja Vuilgeboost. Bah... Appartato Hi-Tek, sovraesposti Ninja e
Yolandi, di cui circolano in rete decine di video, studiatissimi off stage, in cui si vedono bere champagne
a casa di James Murphy, fanno casino dentro un taxi,
sciorinano - svaccati su un divano - fonti e simboli del
proprio immaginario: William Gibson, Eraserhead, i pupazzi di South Park e della Friends With You, un B-movie con Eric Bana, la biografia di Eminem scritta da sua
madre, dischi di Aphex Twin e PJ Harvey, poster con
pin up anni Cinquanta e così via. I Die Antwoord hanno
fan mica da poco nello stardom, musicale e non (M.I.A.
e la sua cricca, ovviamente, ma anche Katy Perry, Fred
Durst, la connazionale Charlize Theron, addirittura David Lynch e David Fincher), e sponsor potenti e danarosi come Jägermeister e Puma.
Questa la scena. Passiamo adesso al dietro le quinte. Ninja si chiama Watkin Tudor Jones Jr. aka Waddy
Jones, ha 45 anni, ed è un veterano della scena artistica
sudafricana, sulla piazza dal 1994 almeno, con diversi progetti musicali all’attivo e una carriera parallela
come artista grafico (ha creato alcuni “nasty toys” come
un simpatico temperamatite dove la matita va inserita
nel culo del pupazzo). Ninja è solo l’ultima di una serie
di impersonificazioni studiate da Jones, i Die Antwoord
solo l’ultimo di un serie di act via via sempre più complessi, sofisticati (in tutti i sensi) e multi-mediali. Solo
per citare i più importanti: il trio street-rap Original Ever19
green (due cd su Epic a metà anni Novanta); il collettivo “motivational rap”, leggi hip hop + situazionismo,
Max Normal (qui troviamo già Yolandi, che di Jones è
la compagna di vita con tanto di pargolo al seguito, e
quel Justin De Nobrega che è con buona probabilità il responsabile delle produzioni firmate Dj Hi-Tek); il
collettivo arty/Residentsiano Constructus Corporation
(con l’ambizioso concept Ziqqurat, favola urban-fantasy a fumetti orchestrata con tappeti ambient/posttechno e spoken word); senza contare svariati album
solisti (il debutto a nome Watkin Tudor Jones, Memoirs
Of A Clone, del 2001, è un interessante esempio di trip
hop eclettico e contaminato, dagli evidenti pruriti sperimentali, con un’interpretazione vocale molto caricata
e teatrale).
Ecco, con questo lungo curriculum alle spalle, per
alcuni Jones potrebbe essere il nuovo James Philips, talento rinascimentale (rocker, performer, politico, scomparso nel 1995) salutato da molti sudafricani come il
primo grande agitatore culturale dell’era post-coloniale.
Altri lo accostano invece a Sacha Baron Cohen e alla sua
parodia gangsta-rap Ali-G. Lui risponde sibillino: “Ninja
rappresenta per me quello che è Superman per Clark Kent.
Solo che io non mi tolgo nessun fottuto costumino”. Esplicita poi il concetto: “Sto solo sposando a pieno la componente Zef che c’è dentro di me, che ognuno ha dentro di
sé. Ninja non è un personaggio, è un’estensione del mio io,
una versione esagerata del mio io”. Come in una specie di
“metodo Staninjavskij”. Anche il buon vecchio Robert
Christgau, da sempre fan sfegatato del rap più tamarro,
testimone della data newyorkese del 24 luglio di spalla a
M.I.A., ha provato a sintetizzare a modo suo il profilo e le
intenzioni della chiacchierata band sudafricana: “Vogliono demolire tutte le nostre rassicuranti credenze su quella
che riteniamo essere la più controversa società multi-etnica del mondo. Il loro look è perfino più efficace dei loro beat
euro-rap: sono grezzi, offensivi, spaventosi, intelligenti, e
sono pronti a fare soldi a palate. Con l’unico bis della giornata, hanno anche fatto un’interessante chiosa filosofica:
Super-Io sono il tuo nemico”.
Noi restiamo dell’idea che, per quanto interessante sulla carta, il progetto Die Antwoord sia sostanzialmente una bomba inesplosa. Il radicalismo di cui
si fa profeta Jones ci pare poco aggressivo, molto di
facciata, molto radical chic insomma. Inquadrabile in
un situazionismo duttile e malleabile che si insinua nei
meccanismi del mainstream con la scusa di fare loro il
verso, finendo poi di fatto con l’esserne assorbito. I Die
Antwoord come i Sex Pistols? Non ci sembrano così
cattivi, così basici, così punk. Le luci della spettacolarizzazione e dell’entertainment - come già accaduto
20
per una certa M.I.A.- sembrano avere messo troppo in
ombra la strizzata d’occhio, il ghigno, il pugno alzato, e
cioè, qui, l’esposizione satirica degli stereotipi dell’identità culturale suburbana sudafricana così come filtrata
dai media. Jones come Baron Cohen? Troppo ibrido il
suo personaggio, troppo camaleonte, troppo integrato, privo di un vero scarto critico. Quella della cricca
Zef è una pagliacciata convinta, una satira che si fa
apprezzare anche e soprattutto da chi ne è oggetto.
Forse perché non così deformante, non così parodistica, sul piano squisitamente musicale. Per questo allora
una satira ancora più sottile? Non è detto. Forse solo
più opportunista. La cricca Zef ci sembra bravissima
soprattutto nello spillare $ a quegli stessi ragazzini HH/
rave che pure dice (e non dice) di voler prendere per il
culo. Ai tempi di Max Normal, Watkin Tudor Jones diceva in suo pezzo “Make Me Popular”. Adesso, dieci anni
dopo, c’è riuscito.
E nter L eon B otha
Torniamo al video di Enter The Ninja. E al suo protagonista - neanche poi tanto - occulto: Leon Botha.
Leon è nato a Città del Capo venticinque anni fa. A
quattro anni gli è stata diagnosticata una rarissima malattia genetica, la progeria, che causa un inarrestabile
e devastante invecchiamento delle cellule. A venticinque anni Leon ha l’aspetto di un nanetto deforme e
decrepito, è alto un metro e dieci, è senza capelli, ha la
pelle avvizzita, le ossa deformate (è costretto a girare
con il bastone), la voce come inacidita; non può non
ricordare - si vedano gli insulti finiti qualche tempo fa
sulla sua pagina Facebook - le donne-gallina di Freaks.
Ogni giorno passato e vissuto è per Leon una lotta e
una vittoria, dato che una persona affetta da progeria
riesce a vivere in media tredici anni. Pare anzi che Leon
sia (anche grazie a un intervento al cuore fatto cinque
anni fa) il malato di progeria attualmente più longevo.
In ogni caso, Leon prende la propria vita come una sfida, alla vita stessa e al senso comune. Fa il pittore, anche se non ha studi artistici alle spalle, ed è alle armi
della pittura che ha deciso di affidare la propria terapia
personale, l’esplorazione della propria natura e dei propri limiti (Leon starebbe per Learning Element Of Nature). Innamorato della cultura hip hop fin da piccolissi-
mo, Leon ne riversa l’immaginario (volti celebri, stilemi,
simbologie) nelle proprie tele, contaminando il tutto
con suggestioni esoteriche (l’antico Egitto) e naturalistiche. Ne viene fuori un flusso di coscienza fantasy-hip
hop raccontato con un tocco naif che lo avvicina molto - opportunamente - a certa street art. Leon si anche
è offerto agli scatti indagatori del fotografo Gordon
Clark, e quindi allo sguardo morboso dello spettatore,
divenendo egli stesso, da opera d’arte vivente(/morente) quale è, soggetto-oggetto della rappresentazione.
Come ogni b-boy che si rispetti, Leon è anche dj (con
lo pseudonimo di Dj Solarize). E, soprattutto, dal 2009
Leon è anche una superstar: da quando è apparso, suscitando sorpresa, repulsione, compassione e morbosa
curiosità, nel video dei Die Antwoord Enter The Ninja.
Lo abbiamo intervistato.
[Segue alla pagina http://www.sentireascoltare.com/
articolo/1272/die-antwoord-the-great-zeff-n-rollswindle.html]
21
Gang Of Four
—Back for Entertainment...—
Drop Out
L'ennesimo attesissimo ritorno
dall'albo d'oro del post-punk.
Cicli & ricicli rock e il sistemamusica oggi, il deflagrante
esordio e l'ultimo insipido album.
La nostra intervista a Andy Gill
Testo: Stefano Pifferi, Edoardo
Bridda, Gabriele Marino
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C icli
e ricicli
Il rock è una fantastica cosmogonia fumettistica, tutta reale però, in almeno un senso: chi non muore si rivede e anche e soprattutto chi era dato per
spacciato a un certo punto rispunta sempre fuori. Un grande fiume eracliteo, sempre in movimento, sempre uguale a se stesso. I grandi vecchi sono
sempre lì in pista a ballare, tra rendita, porcate e rari colpi di teatro, si riciclano, fanno comunella, oppure, semplicemente, si tirano indietro quando
ne hanno abbastanza e quando gli rigira si riesumano a favore dei nostalgici impenitenti e dei giovani che molto spesso conoscono la faccenda solo
per interposta persona, per derivazioni, per sentito dire, attraverso la mitologia dei bignami. Ecco allora che come in Spider Man torna sempre la zia
May, nel cosmo rock tornano sempre tutti quei nomi che possono tornare,
anche e soprattutto quelli che ai “bei tempi” erano un culto, che sono stati
poi sdoganati alla grande e che adesso sono praticamente dei classici da
mettere in salotto (Pixies?). Operazioni necrofile (Queen, Doors, Zeppelin)
e blockbusteroni a parte (Police), importanti fenomeni di costume e vero
specchio dei tempi, sono tornati in pista anche i re e i principi del punk e
del post-punk, dai Sex Pistols ai Wire al Pop Group. Ai Gang Of Four. Che
sono tornati sui palchi e in studio, con risultati alterni, e che cercano come
tutti di barcamenarsi in mezzo al grande casino che è il sistema-mercato
musicale d’oggi, tra major, indie, internet e fandom, in una dialettica necessaria, per quanto impossibile (perché inevitabilmente ingenerosa), tra
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Storia e presente. Abbiamo rapidamente ripercorso la succinta discografia
della band e parlato di tutto questo e di molto altro ancora con quel vecchio volpone di Andy Gill. S guardi
indietro e slanci in avanti
Pochi album e un solo capolavoro. Questa, a voler sintetizzare, la storia discografica dei quattro inglesi almeno nella prima (e unica, verrebbe da dire
visti gli sviluppi successivi) fase: dal 1978 dell’uscita del 7” Damaged Goods
(Fast Products) al 1984 dell’indecoroso live At The Palace (Phonogram), ultima testimonianza della ormai ex Banda dei Quattro nella “fase uno”. Quella cioè della formazione iniziale, basata sul quadrilatero di studenti d’arte
d’ispirazione marxista Andy Gill, Jon King, Hugo Burnham e Dave Allen, anche se quest’ultimo si sarebbe smarcato a breve – subito dopo l’uscita di un
non disprezzabile secondo album (Solid Gold, Emi, 1981) – seguito nel 1983
da Hugo Burnham, tanto che all’altezza del terzo album erano rimasti i soli
Andy Gill e Jon King a dividersi onori (pochi) e oneri (moltissimi).
Certo, liquidare così la carriera discografica di una della band più influenti dell’intero panorama odierno potrebbe sembrare limitativo, ma
non siamo poi così distanti dal vero. Un nome, quello dei Gang Of Four da
Leeds che è irrimediabilmente legato ad un’unica release: Entertainment.
Un album epocale che, con le sue dissonanti ruvidezze chitarristiche, i suoi
ritmi spezzati e singhiozzanti, quell’insana fusione tra l’irruenza del postpunk e il calore algido del funk bianco al servizio di un’anima riottosamente
pop e di un messaggio politicamente schierato, si riverbera a distanza di
decenni. Influenzando cioè band geograficamente e stilisticamente tra le
più varie (dai Fugazi ai Big Black) e finendo col segnare una pietra angolare
per il fenomeno del p-funk d’inizio terzo millennio (da !!! ai Rapture è un
florilegio di citazioni al limite del plagio).
Per comprendere il portato di una band del genere, a questo punto bisognerebbe infilarsi in un imbuto ideologico che ci allontanerebbe
dall’aspetto puramente musicale. Chiamarsi in piena guerra fredda e sotto
l’ala più dura del tatcherismo britannico come la “banda dei quattro” postrivoluzione culturale cinese non era cosa da poco e faceva il paio con altri
“dissidenti” politically uncorrect del calibro del Pop Group e di là dall’oceano Dead Kennedys. Avendo già sfiorato l’argomento nel nostro speciale di
qualche tempo fa e riprendendolo adesso nella nostra intervista, ci limitiamo qui a uno sguardo d’insieme sulla discografia dei marxisti from Leeds.
Dopo l’exploit di Entertainment, una manciata di 7” – un paio di pezzi,
Outside the Trains Don’t Run on Time e He’d Send in the Army confluiranno
nel full-length – incendiano gli stage inglesi e fanno da riempipista in attesa del sophomore. È il 1981, le strade bruciano ancora di sommovimenti
arty e post-punk così come di rivolte proletarie e scioperi bianchi, ma Solid Gold non attecchisce in pieno. Quello dell’appeal commerciale non è
sicuramente un parametro attendibile per una band come i GOF, ma se il
debutto aveva raggiunto il posto n. 45 nelle charts inglesi e il comeback si
superò il 190, un motivo dovrà pur esserci. Solid Gold è un buon album, che
mantiene i tratti caratteristici del suono GOF specie nell’opener Paralyzed,
nel citato singolo He’d Send in the Army (molto devono i Fugazi del secondo periodo a queste chitarre) e in altre tracce, ma che nel suo complesso
risulta meno d’impatto, poco vibrante e più cerebrale. Merito (o colpa) di
una produzione più curata e “laccata” che ripulisce le asperità e l’ala naif del
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suono del debutto. Pecca però forse più evidente è quella di non tentare
vie di fuga alternative, riproponendo un suono stabilizzato sulle coordinate
di Entertainment.
Ciò che a confronto con Entertainment risulta meno brillante, diventa oro
se paragonato ai passi successivi. All’altezza di Song Of The Free Dave Allen
se ne è già andato da un po’ e l’attacco di Call Me Up fa subito capire perché.
Concessioni al pop più becero, trovate che più assurde non si potrebbe (dai
coretti alle enfatiche voci in falsetto, i peggiori cliché dei patinati suoni 80s
ci sono tutti) e un impatto corrosivo vicino al nulla, segnano uno dei dischi
più brutti mai prodotti non solo dai GoF, ma dalla musica inglese del periodo in toto. L’ultimo vero “successo” (I Love A Man In Uniform, posto n. 27
per Billboard) o l’ultimo graffio (le chitarre affilate e il cantato da paranoia
urbana di It Is Not Enough) non possono però risollevare le sorti di un album
e una band ormai al tracollo. È possibile fare peggio?, ci si chiede al cospetto
di un album vuoto e innocuo. Sì, i quattro ci riescono con Hard (EMI, 1983)
insulso disco di pop anni 80 virato synth-funky che si ha vergogna anche a
recensire. Spetta però a At The Palace (Mercuri, 1984), testimonianza live
del farewell tour, mettere la parola fine sulla prima fase dei GoF.
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Le
Anticipata dalla release del Peel Sessions Album (Strange Fruit, 1990),
che colleziona le tre, ruvide sessioni avvenute tra ’79 e ’81, e dalla compila A
Brief History Of The Twentieth Century (EMI, 1990), la “fase due” comincia
con la realizzazione di Mall (Polydor, 1991) e prosegue quattro anni più tardi con Shrinkwrapped (Castle Face, 1995). La pochezza musicale di questi
due album, vergati su un pop synthetico, accessibile e deprimentemente
al guado tra slappati funky, coralità d’accatto e pomposità tardo-ottanta,
rende perfettamente l’idea di come una reunion possa essere intesa come
mero tornaconto economico: far fruttare cioè un “nome” guadagnato con
un passato di impegno politico e avanguardia musicale. Tutto ciò che manca in Mall e Shrinkwrapped.
Di tutt’altro spessore, ma - va detto - più per importanza storica che per
risultati intrinseci, la carriera di Gill produttore per altri, che proprio da metà
anni Ottanta si fa curatore di dischi per gente come Red Hot Chili Peppers,
Jesus Lizard, Killing Joke, Stranglers e Therapy?, mettendo insomma la
firma su un suono che ha brevettato e che risulterà imprevedibilmente efficace e influente per tutta una serie di band d’assalto come Minutemen,
Fugazi, Rage Against The Machine e Jane’s Addiction, e di cui saranno
debitori anche gran parte della scena metal rap e band diversissime come
Inxs, U2 e addirittura R.E.M.. Per non dire di tutta la scena nu-new wave
Duemila dai Franz Ferdinand in giù.
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botte live e la nostra intervista
Se dal vivo la Banda di Gill e King ci ha stupito con uno show (Ypsigrock
Festival di Castelbuono, Palermo, 6 agosto) sì da “vecchiacci che si comportano da ragazzini”, ma memorabile nel trasformarsi in un attimo da pagliacciata a sabba rock, devastato e devastante (merito di certo vino siculo e con
conseguente infinito repertorio di spintoni e cadute, cavi staccati, attacchi
sbagliati e chitarra massacrata, con i due giovani Thomas McNeice al basso
e Mark Heany alla batteria a mantenere - con molta difficoltà - il controllo
musicale della situazione), su disco il ritorno ha tutt’altro sapore. Si ribaltano le percentuali tra professionalità e sacro fuoco e Content ne viene fuori
come un lavoro freddo, stitico, sottotono, da sottofondo. Avremmo dovuto
incontrare Andy Gill prima o dopo il concerto estivo: ma è stato clamorosamente impossibile (chi ha visto il live ha la testimonianza autoptica
del perché). Lo abbiamo allora raggiunto telefonicamente qualche tempo
dopo, trovandolo insospettabilmente disponibile, loquace ed esplicito.
L’uscita di Content è stata posticipata da ottobre a gennaio 2011. Cosa
è successo, c’è un motivo particolare per questo rinvio?
Molto semplicemente, non volevamo dare l’album in mano a gente come
la Emi, gente che non fa bene il proprio lavoro e soprattutto si prende tutti
i tuoi soldi. Se vuoi agire così ed essere indipendente spesso sei costretto
a ingegnarti e a prendere tutto il tempo necessario per fare le cose per
bene. Il disco in pratica è finito, il master è già pronto, ma abbiamo rinviato
a gennaio per via di tutto il contorno e per la promozione. Vogliamo fare
un’edizione speciale, con un vero e proprio libro in allegato, pieno di foto, e
un artwork molto elaborato la cui realizzazione è abbastanza complessa.
Avete scelto di lavorare con Pledge, una piattaforma musicale basata finanziata dai fan e che promuove iniziative benefiche. Puoi dirmi
qualcosa in più su questa scelta...
Era una scelta quasi obbligata, per poter riuscire a fare un disco al di fuori
dei soliti circuiti. Si spendono tanti soldi se fai musica fuori dalla tua cameretta, con una vera band e in un vero studio di registrazione. Poi, oggi, se
fai un disco e basta, se stampi il cd e basta, nessuno lo ascolterà davvero,
si perderà in mezzo al resto. Tutto si muove attorno alla promozione, ed è
proprio la promozione che costa davvero, portare il tuo disco in giro per le
radio e cose così. Certo, se dai il disco alla EMI ci pensa lei a promuoverlo,
paga la EMI per tutto, ma poi si prende anche i soldi dei concerti, e sei a
tutti gli effetti ingabbiato. Devi essere fantasioso oggi per uscire da questo
giro, e Pledge è davvero ottimo da questo punto di vista. Attraverso questo social media abbiamo deciso di comunicare direttamente con la nostra
gente, con i nostri fan. E’ anche una specie di controllo sulla qualità, perché
il fan paga fin dall’inizio per quello che sa di voler ascoltare e ti controlla
passo passo. Un’ulteriore forma di garanzia.
Avete annunciato delle iniziative promozionali abbastanza peculiari
e stravaganti: giri con voi in elicottero, un walkman realizzato appositamente con dentro la musicassetta del bootleg del vostro primo
concerto di sempre. Sembra teniate molto ai vostri fan e li vogliate
coccolare.
Nel mondo dell’industria musicale è tutto così piatto e inflazionato, soprattutto nella promozione. Queste iniziative sono studiate e pensate per i nostri veri fan. E poi ci aiutano a tirare su soldi: 50 pound per vederci registrare
il disco in studio a Londra mi sembra onesto, è un’occasione unica tanto
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per i fan quanto per noi. E’ stato davvero eccitante far entrare la gente in
studio, spiegare cosa stavamo facendo, commentare e sottolineare certi
passaggi.
I giovani ascoltatori d’oggi, che siano nerd o meno, scaricano tonnellate di musica attraverso le piattaforme di file sharing e dai blog musicali. E’ una specie di industria musicale parallela e sommersa. Come giustificazione per questa pratica diffusa, si tira spesso fuori la retorica
della conoscenza condivisa. Ma gli artisti come dovrebbero vivere? Il
pioniere di internet Ted Nelson, per quanto utopista e anarchico, aveva teorizzato un sistema di retribuzione automatica per gli autori i cui
materiali fossero circolati in rete…
E’ una situazione molto complessa e difficile… Come tutte le altre persone che svolgono il proprio lavoro, anche i musicisti hanno bisogno di essere pagati. Se tutti finiscono col procurarsi la musica gratis scaricandola
da internet la questione si fa davvero seria. Nessuno sopravvivrà di questo
passo. Questa retorica del free a tutti i costi è pericolosa e i ragazzi particolarmente dovrebbero essere sospettosi, perché riflettendoci un attimo
è chiaro che qualcuno ci resta fregato, e il prossimo potresti essere tu. E’
una questione politica in fondo, e proprio in politica c’è la più completa
confusione o peggio ancora indifferenza al riguardo. E intanto c’è un intero
settore della società nella crisi più totale. E’ davvero fantastico che oggi si
possa mandare la musica ovunque, che tu possa mandare la tua musica
ovunque. Ma la parte in cui scopri che non vieni pagato per la tua musica,
quella non è fantastica. E poi la qualità degli mp3 non è buona!
Sono altri oggi i colossi dell’industria musicale. Il potere è passato
dalle major alle compagnia telefoniche e ai giganti tecnologici come
Apple e il suo iTunes. Quello che non è cambiato è che gli artisti sono
sempre tagliati fuori...
Hai assolutamente ragione. iTunes è di fatto un monopolista adesso, Apple
è la Microsoft di questo settore. Ti offrono una tecnologia eccezionale, dei
servizi eccezionali, ma se non stai con loro sei tagliato fuori.
Vendere e promuovere la propria musica da soli è un nuovo - necessario - trend. Vedi anche il proliferare di edizioni speciali, di packaging
speciali, che fanno ri-apprezzare le qualità materiali, fisiche dell’oggetto-disco... Sempre in opposizione alla digitalizzazione e delocalizzazione della musica, c’è la questione dei concerti. E’ fondamentale
farli, per tenere il rapporto con un pubblico sempre più chiuso nella
propria cameretta, ma anche per guadagnare. Oggi è stimato che il
60% degli introiti di un artista provenga dai live. Ma è sempre stato
così?
Assolutamente no. Prima si tirava perfettamente avanti con i dischi e i diritti, prima concerti non erano così importanti dal punto di vista economico.
Oggi è esattamente il contrario.
Passiamo a questioni più squisitamente musicali. Come è stato il tuo
primo approccio al funk. Ho parlato con Mark Stewart qualche tempo
fa e lui dice di avere avuto 14 anni quando è stato folgorato dal funk,
è stata una botta. A Bristol si ballava il funk ed era una cosa rivoluzionaria, nelle sue parole.
Del funk mi interessava il groove. I Heard It Through The Grapevine e altri
classici della Motown erano veramente roba cool e hip. Io ero e sono innamorato di quel groove. Semplicemente eccitante. Tutta l’american stuff di
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quando ero un ragazzino per me era roba magica, James Brown su tutti.
Allo stesso tempo però capivo anche che gli Stones erano cool e così pure
i Velvet Underground con le loro textures e il loro vero e proprio noise
ante-litteram. Io e Jon [King; il cantante dei GoF] siamo amici da quando
avevamo 13 anni e siamo cresciuti con questa musica. Anche con il reggae
di Desmond Dekker, che a quel punto era già ska. La cosa bella è che gli
unici che in Inghilterra nei primi anni Settanta ascoltavano quella musica
erano gli skinhead, quindi se l’ascoltavi anche tu, anche tu passavi per stupido e rozzo come loro. Dopo Marley ci fu la mia infatuazione per il reggaedub di Lee Scratch Perry, ma anche per cose come Kool & The Gang, e quel
suono divenne per me un’ossessione. Non potevo più interessarmi al solo
vocabolario del rock bianco. E d’altra parte non volevo semplicemente copiare il vocabolario nero. Volevo creare un innesto tutto mio, qualcosa di
personale e di nuovo, trovare una mia via. Fare di tutti i suoni che erano
dentro la mia testa un nuovo linguaggio.
Il funk come rivoluzione… E la politica? E’ sempre stata importante
per te.
Sì, ma in un modo nuovo, e a modo mio. L’elemento politico nei nostri testi
non è mai stato orientato a strombazzare in giro il punto di vista della sinistra parlamentare. Cosa significa politica? non significa niente di preciso. Ti
dico cosa abbiamo cercato di fare come GoF: volevamo parlare non soltanto
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di emozioni e di sentimenti personali come ha sempre fatto la musica pop
usando il contesto amoroso. Abbiamo cercato di abbandonare in maniera
radicale questa idea a una sola dimensione e proporre canzoni che fossero
dialoghi interiori a due voci, che esponessero e analizzassero ciascuna il
proprio punto di vista. Analizzare come e perché la gente si trova costretta
e si costringe a fare qualcosa, si sottomette a qualcosa. Non abbiamo mai
voluti essere noiosi, seriosi, freddi, intellettuali, accademici. Abbiamo sempre e solo cercato di seguire il nostro modo di vedere le cose, anche con un
certo humour, giocando alle volte con l’ascoltatore.
Molti jokes inseriti nei testi però possono essere colti quasi soltanto
da un ascoltatore pratico di un certo slang di East London…
Guarda, Cheeseburger è un pezzo sull’american way of life. Una presa i giro
vista con gli occhi dell’uomo della strada inglese, quindi abbiamo dovuto
adottare un certo linguaggio. Abbiamo cercato di dire alcune cose molto
serie in maniera divertente, di fare un ritratto di una porzione di società.
Nel 2005 avete pubblicato Return The Gift, un doppio disco celebrativo
in cui ri-suonavate in studio alcuni dei vostri classici e in cui artisti e
band vostri fan remixavano e coverizzavano vostri brani. Tutti si sono
chiesti perché non c’erano Rapture, LCD Soundsystem e !!!, cioè gli artisti più fortemente influenzati dal vostro suono...
Noi ovviamente li abbiamo contattati e ci hanno detto molto semplicemente “No, grazie”. Credo per non fare troppa pubblicità alla cosa. Insomma, forse semplicemente non volevano che i giovani capissero il giochetto
e dicessero: “Hey, ma sono uguali! Andiamoci ad ascoltare gli originali!”. Per
dire, i Bloc Party hanno sempre negato nelle interviste anche solo di conoscerci. Ma ragazzi, non vi abbiamo mica chiesto indietro i nostri soldi!
Almeno diteci la verità! [ride]
Anche i Liars sono fortemente influenzati dai Wire. Ecco, secondo te
perché gruppi come il vostro, i gruppi di tutta quest’ondata funk-punk
Settanta, sono ancora oggi un’influenza così forte?
I Wire sono una band influentissima... Guarda, capisco perfettamente che
la gente sia tornata ai Gang Of Four, ma sinceramente non so perché. Forse
in un’epoca di stasi musicale hanno trovato nei GoF qualcosa di interessante, di genuino, di genuinamente nuovo. C’è troppa roba nelle radio davvero
inoffensiva. E noi sicuramente non siamo stati e non siamo inoffensivi.
Ma il vostro stile è stato catapultato in un altro contesto, non siamo negli anni Settanta, non siamo nel post-punk. Adesso siamo in un mondo
completamente diverso eppure lo stile ritorna.
[ride] Il nostro è stato un modo di fare musica inaspettatamente fortunato.
Andiamo all’Andy Gill produttore. Conosciamo molto bene le tue produzioni “storiche”, dai Red Hot Chili Peppers ai Jesus Lizard. Per adesso
di chi ti stai occupando?
L’ultima band che ho curato è una band di Dublino, Fight Like Apes, esce
fra poco il disco, al momento sono al numero uno su iTunes. Suonano completamente senza chitarre, sono fantastici, solo batteria, basso, synth e
voce, molto molto orientati al ritmo.
Il tuo metodo come produttore per altri è diverso da quello che adotti
quando lavori come GoF?
E’ sempre diverso. Ci vuole la giusta esperienza per trovare ogni volta il
giusto approccio. Per esempio, questi Fight Like Apes sono bravi musicisti
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ma magari hanno bisogno di una mano anche per costruire la canzone,
proprio a livello di composizione, di struttura. Produrre non è quasi mai
soltanto infiocchettare dei pezzi già pronti, per questo il produttore è così
importante.
Ma ti chiedono proprio “Voglio il suono GoF”?
Sì, sì. Ricordo quando ero al lavoro con i Futureheads. “Vogliamo quel suono, quella cattiveria, quell’intensità”.
E’ di poco tempo fa anche la reunion del Pop Group. Voi e loro eravate i due grandi gruppi funk-punk, il loro Y è uscito pochi mesi prima
del vostro, nell’aprile 1979. Quando lo hai sentito, che hai pensato? E
adesso che ne pensi?
Mi è piaciuto molto. Ma il suono del Pop Group era troppo da jam. Noi
volevamo un clear groove, come in I Heard It Through The Grapevine [ride],
loro invece avevano un groove più scomposto, indefinito, impastato. Il che
va benissimo, ma non è quello che volevo io.
E dei Wire che mi dici? Mi sembrano più simili al vostro mood...
Sinceramente non saprei...
In Content ci sono pezzi nuovi di cui sei particolarmente orgoglioso?
Alcune delle cose che stiamo già testando dal vivo sono molto buone. You
Don’t Have To Be Mad è interessante, parla di ubriachezza, di un rapporto
fatto di sesso e alcol. E’ in qualche modo una celebrazione, ma anche un avviso contro una società che ti costringe a fare certe cose e allo stesso tempo
ti fa credere di essere libero. Mi sembra una cosa importante da dire.
Com’era e com’è vivere adesso in Inghilterra?
E’ in atto un grande cambiamento, anche se in generale qui in Europa occidentale sembra esserci una strana stasi. Il “blocco occidentale” sembra
interessato solo ai cambiamenti tecnologici, non a quelli sociali. Un possibile paragone tra Inghilterra e Italia? Per quanto siano molto diversi credo
pure che ci siano persone in entrambi i paesi che non si trovano bene e
preferirebbero di magari fare uno scambio. Londra è una metropoli incredibile che si spande per tutta l’Inghilterra, non è una città, è molto di più,
è cosmopolita, la metà della gente che incontri per strada parla polacco,
italiano, turco, è una società veramente mista e non sempre questa cosa
viene tenuta in conto.
Ti interessi di musica elettronica? Che ne pensi dell’hardcore continuum teorizzato da Simon Reynolds?
L’elemento culturale e meglio ancora sotto-culturale è centrale in musica.
Oggi la cosa mi pare persino più evidente che negli anni passati, perché
musica e pubblico sono sempre più frammentati. E questo oggi è inevitabile.
E l’influenza della disco-music nella musica dei Gang Of Four?
I GoF sono sempre stati influenzati dalla dance. I nostri ritmi sono heavy
disco beat, in un certo senso. Tutta la nuova musica elettronica, intendo
quella realizzata al 100% al computer, mi piace molto, ma non credo che
nella nostra musica ci sia spazio per questo tipo di influenza. E poi non voglio invadere territori che non mi appartengono. Non voglio mai far perdere quelli che sono i caratteri di base della nostra musica:l’interazione delle
voci, la mia cutting guitar, il basso e la batteria che pulsano belli tosti. Magari però mi metterò a pasticciare qualcosa di elettronico per i fatti miei...
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Il suono
in cui
vivremo
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Drop Out
Opportunità vs. catastrofe, legale
vs. illegale, pirateria vs. nostalgia,
apocalittici vs. integrati. Timori,
entusiasmo, nostalgia, ipotesi e
confusione: l’indie-rock ai tempi
del post-web
Testo: Stefano Solventi
La
sindrome del grisù
Avete presente la storia dell’uccellino in gabbia nelle miniere di carbone? Ce lo portavano perché, prima che
esistessero i moderni rilevatori, era il modo migliore per accorgersi della presenza del micidiale grisù. L’uccellino, grazie alla sua fragilità, moriva per primo. Smetteva di cantare e schiattava. I minatori avevano così qualche
chances per cavarsela. Se fuggivano in tempo. Se niente andava storto.
Stavo raccogliendo le idee per buttare giù il presente articolo e mi è venuta in mente questa storia che non
c’entra nulla, o forse sì. Mettiamo che la musica sia l’uccellino del caso, il nervo sensibile che lancia per primo (o
tra i primi) l’allarme, quando la situazione inizia a precipitare. Ed il resto segue a ruota: cinema, tv, letteratura,
informazione...Ok, è una visione romantica e perciò distorta, parziale. Del resto, siamo rockofili impenitenti.
Tendiamo a mettere sempre la musica al centro e prima di tutto. A farne una questione vitale. Figuriamoci invece chi la musica la fa. Vedi le quasi contemporaneee e convergenti dichiarazioni di due pesi massimi del rock
più o meno indipendente italiano: Cristiano Godano sul Mucchio Selvaggio e Francesco Bianconi sulla nostra
webzine.
Il rocker di Cuneo, chiosando l’ultimo lavoro dei Marlene Kuntz, ha sostanzialmente condannato il free
download che compulsivamente fa stivare negli hard disc pacchi di mp3 che non verranno mai ascoltati come
dovrebbero e meriterebbero. Il leader dei Baustelle si colloca sulla stessa lunghezza d’onda, allargando il discorso ai social network fino a chiudere un’argomentazione che sa di condanna: “negli anni Novanta, prima
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che esistessero i nuovi mezzi di comunicazione, band come i Non Voglio Che
Clara o Le Luci Della Centrale Elettrica sarebbero forse anche più famosi di
adesso, anche senza il tam tam mediatico di internet. Voglio dire che tutto questo gran parlarne, questo circolare di informazioni serve, fa bene, ma non agli
artisti. Sui blog e sui social network si parla molto di una band, ma questa, se
vuole far uscire un disco, deve pagarselo coi propri soldi. I dischi venduti sono
pari allo zero. Le etichette indipendenti chiudono.”.
E ntusiasmo
e timori
Due uscite di questo tenore nel volgere di pochi giorni ci hanno, per
così dire, insospettiti. Le coincidenze non sono mai davvero casuali. D’un
tratto quei due musicisti ci sono sembrati gli esponenti di un mondo forse
sul punto di evaporare, con nessuna intenzione di farlo senza combattere.
Godano proveniente dai Novanta pre-internet; Bianconi dal giro di volta
del millennio che tra un’esplosione e l’altra di bolle new economy ha visto
il web propagarsi nel quotidiano: testimoni emblematici di una transizione
che farà - sta già facendo - morti, feriti e prigionieri. Che stiamo vivendo,
nella quale galleggiamo entusiasti e anche un po’ intimoriti. Spaesati. All’alba degli anni dieci, augurandoci che non ci sarà bisogno di chiamarli “questi cazzo di anni dieci”, ci siamo chiesti: di cosa stiamo davvero parlando?
Possiamo fin da adesso ipotizzare una nuova situazione con codici e valori
accettabili da tutte le parti in gioco?
Innanzitutto, a proposito di codici: con buona pace dei fautori del copyleft, il copyright è tutt’altro che in disarmo. L’Organizzazione Mondiale del
Commercio (WTO) si è mossa per tempo, promuovendo nel 1994 l’accordo
TRIPS (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights), tutt’ora in vigore, che vincola i paesi firmatari a tutelare le leggi sul copyright. Proprio
così: da questo punto di vista, le multinazionali ebbero lo sguardo lungo e
si pararono il culo per tempo. Le leggi ci sono, sono blindate, e qualificano
come illegale il comportamento pressoché quotidiano di milioni di persone.
E’ questo che stiamo chiosando, l’inadeguatezza di una situazione che provoca dissidi a molti livelli: ideologici, morali, economici e - appunto, ovviamente
- legali.
Però, gettando cuore e mente oltre l’ostacolo, è giusto fare il tentativo di
guardare a ciò che accade per ciò che accade. Per come lo stiamo vivendo e
come ci sta cambiando. Lo abbiamo fatto chiedendo in giro, a chi come noi
lo sta vivendo sulla propria pelle ma da un’altra angolazione, quella degli
“addetti ai lavori”. Quella che si prende in faccia oneri, onori e tutti i ceffoni
del caso.
Tra i musicisti regna la diversità di vedute. Questione - chissà - di retroterra, di scelte di vita, di aspettative. Enrico Molteni, bassista dei Tre Allegri
Ragazzi Morti, la butta sul nostalgico dichiarandosi “d’accordo con Bianconi, forse perché, come lui, ricordo bene com’era prima. Compravi un mensile ed
imparavi ad avere fiducia in una firma. Ascoltavi alcuni programmi radio ed il
giorno dopo ordinavi il disco in America. A scuola ci si passava i dischi sottobanco. Guardavi tanti video in tv alla ricerca di nuovi stimoli. Andavi ai concerti con una curiosità maggiore. C’era una preselezione, è vero, ma mi sembra di
ricordare che fosse tutto più bello. La situazione attuale è molto eccitante, c’è
una possibilità maggiore di arrivare alla gente, ma non ci sono più regole e a
volte i nuovi successi sono solo fuochi di paglia. Sono uno di quelli che sostiene
che Artic Monkeys avrebbero comunque avuto successo, anche nel 1987”.
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U no
spettro
( vuoto )
si aggira
Si stava meglio quando si stava meglio, insomma. Che è un po’ il solco
nel quale s’incanala il discorso di Fabio De Min dei Non voglio Che Clara:
“da adolescente compravo i dischi e li ascoltavo fino a farmeli piacere, per la
paura di aver buttato i soldi. Può sembrare sciocco e romantico oggi, ma era
un processo che in fondo asseconda la natura del nostro cervello, che non può
accontentarsi di un ascolto frettoloso ma ha bisogno di più tempo per relazionarsi con la novità. Oggi l’ascolto è distratto, superficiale proprio a causa
della sua gratuità”. Per quanto riguarda il download “selvaggio”, ci va giù
durissimo: “è un po’ lo spettro di quello che siamo diventati: dei contenitori
vuoti, senza una vera coscienza critica, da riempire con informazioni spesso di
dubbia importanza. Siamo la generazione del file under. Assomigliamo sempre più a degli hard disc, dove il materiale salvato non conta nulla se non si è
capaci di risalire alla cartella che lo contiene”.
Mentiremmo se sostenessimo di non esserci mai posti questioni simili.
Ma non possiamo fare a meno di sentire un retrogusto d’idealizzazione
del passato. La pratica degli ascolti ripetuti e approfonditi era una scelta
o una costrizione? Probabilmente entrambe le cose. Ovvero: quanti dischi mediocri o pessimi ci siamo fatti piaciucchiare solo per mancanza di
alternative? Chiunque stia leggendo queste righe con in tasca una carta
d’identità che indica all’incirca i 40 anni, probabilmente ricorderà un amico o magari se stesso che rinunciava di buon grado a rifarsi il guardaroba o alle cene con gli amici per garantirsi i due o tre vinili settimanali. E
poi, altrettanto cari anzi di più, i cd. La rinuncia era implicita nella passione. Ogni rockofilo sapeva di non poter accapararsi che un frammento
dell’Eden, e a caro prezzo. Ma andava bene così perché era un sistema ad
isole, ognuno faceva i conti col proprio immaginario, pasturato a riviste
cartacee e rinvigorito dal confronto con quello degli amici compagni di
merende rockettare.
Oggi quel sistema è esploso. Fare parte di una comunità è una norma
da cui è difficile esentarsi. Prima i forum e poi i social network hanno ritessuto la maglia delle relazioni interpersonali rendendola formidabilmente
più complessa e potente. Questa appartenenza “virale” comporta un costante aggiornamento delle proprie conoscenze provocato dal feedback
continuo tra gli “utenti”. Da questa angolazione, il “download compulsivo”
assume un aspetto diverso, senz’altro meno patologico. Puoi vederla come
un’esperienza socializzante. Tu chiamala, se vuoi, cultura. Ed è anche una
potentissima piattaforma promozionale, ovvio.
“Per un sacco di artisti alle prime armi la rete è una risorsa fondamentale,
non è necessario che lo spieghi io in questa sede perché è un fatto evidente”, sostiene Michele Bitossi dei Numero 6, fresco d’intervista su SA. “Sono convinto che, stando così le cose, sia importante che un progetto goda di diffusione
anche gratuita se poi ciò porta gente ai tuoi concerti. Noi per esempio abbiamo avuto più di diecimila download gratuiti per l’ultimo ep. Non li baratterei
certo con 2000 copie vendute nei negozi”. E allora, le affermazioni di Godano
e Bianconi? “Per quanto sulla carta possano essere condivisibili, nascono da
presupposti forse un po’ snobistici e arrivano dall’alto di una notorietà piuttosto consolidata data la quale, evidentemente, si può tranquillamente evitare
di autopromuovere il proprio progetto usando la rete”.
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pre-web. Ma di fatto è accaduto attraverso la rete, che non è una struttura
accidentale o estemporanea, ma sarebbe, tra le altre cose, “l’attuale frontiera della musica. Di fronte a questa evidenza occorre prendere parte”. Chi parla
è Alessandro Calzavara, musicista indipendente in senso totale. Fa musica
in perfetta autarchia sotto il moniker di Humpty Dumpty, distribuendola
gratuitamente dal proprio blogspot. “Mi pare di poter dire che internet sia un
mezzo fantastico di diffusione. Certo, molto difficile è che si possa diventare
delle star. Questo ci dispiace?”.
Ma c’è di più. Non è possibile limitare l’argomentazione alla musica. Secondo Calzavara, l’avvento di internet ha provocato “un rivolgimento qualitativo dell’esistenza. Una sostanziale modifica qualitativa del tempo: l’uso
quotidiano del pc ci modifica nella nostra essenza di uomini. Internet funziona
proprio perché è internet; un suo uso dimidiato non è ipotizzabile, perché al di
là del mezzo fisico è proprio la mentalità della gente ad esser stata modificata.
La musica, da sempre immateriale, ha compiuto l’ultimo passo di separazione
dalla materia del suo supporto. Il musicista che aspiri a una qualche forma di
permanenza dovrà saper accogliere in sé questo mutato spirito dei tempi, e
adattarsi ai canali disponibili come essi si presentano. Modificandoli, se se n’è
capaci, a partire da ciò che è, non da ciò che dovrebbe essere. Perché poi ciò
che dovrebbe essere non appartiene a questo millennio”.
O bsolescenze
S figati
e star
Il punto è proprio questo: la promozione. Parola chiave che scardina i
lucchetti della raggiungibilità nella rete, che è sì interconnessa ma anche
immensamente dispersiva. Non è certo un gioco ad armi pari, malgrado
l’uniformità delle piattaforme. “Internet non è un luogo di libertà”, sentenzia
Alberto Scotti, membro dei Maisie e patron - in entrambi i casi assieme
all’impagabile Cinzia La Fauci - dell’occhiuta etichetta siciliana Snowdonia. “Chi era sfigato prima (piccoli musicisti, piccole etichette) sarà sempre più
sfigato, sempre più marginale. Sono i potenti che riempiono di merce questo
scintillante scatolone. A te, sfigatello, concedono gli scaffali in fondo, in basso,
di là. Fila nello sgabuzzino, rospaccio!”. Concetto ribadito da un laconico che
più laconico non si può Giuseppe Laricchia, in arte Superfreak, musicista
e socio fondatore della free netlabel Lepers Produtcions: “si avvicinerebbe
un futuro grandioso per le netlabel (leggasi noi), se non fosse che l’obesità e
l’assenza di sport nella scuola italiana hanno creato esseri che risentono della
stanchezza digitale (leggasi delle dita), e cliccare su nomi sconosciuti è una
fatica non da poco”.
Tuttavia, è pur vero che ogni tanto, oltre il desolante quadro della situazione, qualche sfigato riesce ad alzare la testa. Galleggia sulla spuma del
“mormorio virale” della rete e s’impone all’attenzione dei più, finché da fenomeno virtuale non esonda nel reale. E’ il caso del già citato Vasco Brondi
da noi o degli Arctic Monkeys in Gran Bretagna. I quali forse, è vero, possono vantare numeri che gli avrebbero garantito di sfondare anche in era
36
e profezie
Uno che ha accolto il mutato spirito dei tempi con notevole disinvoltura
è Umberto Palazzo, musicista, insegnante e DJ, leader dei Santo Niente e
degli El Santo Nada. Attivissimo su Facebook, ha praticamente distribuito
gratuitamente tutto il suo repertorio alla vasta corte di “amici” sul grande
social network blu. “Non si può che essere realistici: l’industria discografica,
come la conoscevamo, è finita per sempre. Le stesse multinazionali che possiedono le case discografiche producono e vendono lettori mp3 e telefoni ‘intelligenti’, il che la dice lunga sulle loro previsioni di mercato. I dischi sopravvivono
come feticci, come oggetti da collezione, come souvenir, però in compenso i
lettori cd stanno molto peggio. Sono oggetti praticamente scomparsi dai negozi e mio nipote che ha undici anni non ne ha mai usato uno e probabilmente
mai lo userà. Per lui e per i suoi coetanei la musica si ascolta con l’iPod, ma è
prevedibile che anche questa sia una situazione transitoria”. Sì, perché se è
vero che iTunes domina il mercato del download, secondo alcuni osservatori è una situazione destinata a mutare presto. “La notizia è che in molti
paesi l’mp3 sta diventando obsoleto e viene rapidamente sostituto dallo streaming istantaneo di Spotify. Non c’è neanche più bisogno di scaricare: devi solo
compilare la tua playlist oppure scegliere quella già fatta da un altro e la musica scorre nel tuo smartphone come se venisse da un hard disc interno”.
Sarà “cloudcast” la parola chiave del nuovo decennio? Lo scopriremo
solo vivendo. Casomai, si tratterebbe di una profezia che si autoavvera, caldeggiata da tempo e da più parti. State a sentire cosa si augurano quelli
dello Staff Trovarobato, dinamicissima label alternativa bolognese: “il futuro? Speriamo arrivi il celestial jukebox, una piattaforma online in cui tutte le
etichette mettono a disposizione tutti i propri brani e l’utente paga un piccolo
abbonamento annuale/mensile in modo tale da poter accedere in ogni momento ad un archivio totale di tutta la musica disponibile al mondo. iTunes è
uno strumento interessante in generale ma il prezzo imposto diventa una limitazione per le piccole e medie etichette che vendono normalmente il CD fisico
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ad un prezzo che varia tra i 10 e 12 euro. Come possiamo chiedere all’utente
di comprare a circa 9 un album digitale quando può, con un euro in più, comprarsi la stessa cosa in formato fisico e poi digitalizzarla?”. Messa così assomiglia anche ad una ricerca (disperata) del metodo migliore per far quadrare
i conti, perché c’è qualcosa di intrinsecamente - oserei dire moralmente
giusto - nel farli tornare. “Il rientro economico è una componente importante.
La musica non può e non deve diventare un’attività solo per coloro che possono permetterselo”.
Questo imperativo categorico paventato dall’etichetta felsinea trova
agile sponda nel pensiero di un illustre quasi-conterraneo, Max Collini degli Offlaga Disco Pax. “Pagare meno e pagare tutti sarebbe un bel modo di
ripensare la faccenda. Quando puoi avere qualcosa gratis, scegliere di pagare
diventa un gesto a suo modo ‘politico’. Ai nostri concerti, come a quelli di qualunque altro gruppo di area indipendente viene gente che il cd o il vinile se lo
compra anche se potrebbe evitarlo, perchè sa perfettamente di sostenere un
progetto che gli piace e che non gode di alcun altro tipo di aiuto economico,
se non quello del concerto e del supporto fonografico”. Si torna così al senso
di appartenenza, capace di determinare (e risolversi in) una partecipazione
vitale. Ovvero, si conta sul fatto che il pubblico sia pronto a sostenere la
musica ed i musicisti che ama pagando per un contatto concreto, il biglietto del concerto o il “feticcio” del gadget e del cd, acquistati sotto il palco o
via web.
Al
capezzale
( denaro
incluso )
Detto che il metodo dell’up to you sperimentato tra i primi dai Radiohead funziona giusto se ti chiami Radiohead, dal pianeta USA ci giungono
tuttavia segnali incoraggianti: negli ultimi anni il fatturato dei circuiti live ha
registrato un incremento impressionante, pari a circa tre volte rispetto agli
anni Novanta. Un balzo provocato soprattutto dall’aumento del prezzo dei
ticket. Sorte simile ha avuto il commercio dei gadget a seguito di un processo di “industrializzazione”, controllato e diretto dalle stesse compagnie
discografiche. Dati macroeconomici che trovano puntuale conferma in una
provincia d’impero come la nostra. “I ragazzi sono ancora interessati a vedere
le band sul palco e a vivere il concerto al 100% e i biglietti venduti in prevendita
aumentano sempre di più. Ultimamente abbiamo confezionato infatti un bel
po’ di sold out. E non solo di artisti affermati, anche di giovani rivelazioni”. A
parlare è Rosario Leo, promotion manager di Live Nation. Ci conferma che
è vero, i biglietti costano sempre di più, e la causa sta nell’aumento del
cachet da parte dei gruppi. “Dicendola molto semplice, vuol dire questo: se
vendi meno dischi, allora ti rifai sui live e aumenti il tuo compenso”.
D’altronde è vero che “i gruppi con contratto discografico e con un CD
pubblicato nei negozi europei (ormai) trovano maggior reddito nei tour anziché nella vendita dei dischi”. E’ una dinamica a doppia spinta, offerta e richiesta, che sta provocando la crescita del circuito dei live club. “Noi lavoriamo
storicamente con i locali più importanti di ogni regione, ma quotidianamente
riceviamo richieste da parte di altri locali nuovi appena aperti ed in crescita”.
La gente accorre eccome al capezzale del rock, quella stessa che non compra più dischi ma è disposta a sobbarcarsi viaggi chilometrici e sostenere
spese ragguardevoli per vivere l’evento live e indossarne testimonianza.
Situazione solo apparentemente idilliaca, per uno come Scotti: “Dicono che il vero artista viene fuori dal vivo. Cazzate, cazzate, cazzate. Una delle
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conseguenze, a mio modo di vedere, più tragiche è la morte del disco, non inteso
come oggetto/feticcio ma come opera, come testimonianza sonora del percorso
di un artista (vogliate scusare la volgarità del termine). Il disco è un’opera d’arte
perché è artificio, manipolazione, genialità e artigianato. Il concerto è un festa.
Può essere una bella festa, una brutta festa ma sempre una festa resta”. Il punto
è decidersi dove rivolgere lo sguardo. E’ facile per chi è cresciuto senza l’idea
della musica come un manufatto acquistabile. Per i più attempati - che restano pur sempre un target significativo - esiste assieme la consapevolezza di un
presente di straordinarie opportunità e d’un passato meritevole di rimpianto.
“Il sistema che dovrebbe bruciare e scomparire”, si rammarica Scotti, “è quello
che ha prodotto i Pere Ubu, i Throbbing Gristle e i Talking Heads. E’ il sistema
dei grandi dischi, dei grandi fonici, delle grandi etichette. Quel sistema produceva
molti capolavori, buona musica leggera e anche spazzatura. Un disco diventa un
capolavoro anche perchè è ben registrato, ben curato, perchè dietro c’è un lavoro.
Un lavoro che oggi nessuno (o quasi) si può permettere di fare, perchè non ci sono
rientri”.
L’appassionato grido d’allarme di Scotti contiene molti elementi di verità.
Ma è altrettanto vero che pure gli autarchici con budget di pochi euro sono in
grado di produrre buone scosse sonore. Spesso migliori di tante produzioni
blasonate, che con gli anni hanno subito un processo di raffinazione e inevitabilmente di formattazione, confezionando sonorità impeccabili e anche
iperstrutturate ma spesso prive di una vera ragion d’essere. Detto fuori dai
denti: lo stesso sistema che ha prodotto i dischi imprescindibili di cui sopra
è responsabile di una montagna di dischi di merda, spesso firmati da autori
degni di tutta la nostra fiducia.
Come al solito è possibile interpretare la crisi come un’opportunità. Di rifondare la naturalezza degli intenti, ad esempio. Sentite Calzavara/Humpty
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Dumpty: “io dico che realizzare un’opera d’arte in musica è possibile anche
senza vendersi a chi ti fornisce i mezzi di produzione e diffusione. E me ne rallegro. Mi sono convinto che chi vuol fare l’artista pensi a ciò come all’equivalente
di un lavoro in banca, e ciò non mi piace. Mi piace pensare che un artista vero
non possa fare a meno di fare arte e viverci dentro. Il che implica cercare i mezzi
per sopravvivere con e della propria passione”.
E terni
ritorni
( al
futuro )
Una posizione che riecheggia nelle parole di Palazzo, che si chiede: “quello che c’interessava una volta più d’ogni cosa non era forse la libertà artistica? Oppure per qualcuno il punto d’arrivo era il salario garantito? Dovremmo
chiarire questo punto una volte per tutte e accettare il fatto che le case discografiche, fra un po’, non pagheranno più salari a nessuno, e neanche recording
budget e promozione”. Certo, tutto diverrebbe più facilmente ipotizzabile
con un piccolo aiuto da parte di chi - lo Stato - dovrebbe incaricarsi della
cosa con l’importanza e la dignità che merita. Esiste anche una difficoltà
peculiarmente italiana, che sconta il non aver mai davvero fornito cittadinanza culturale alla cosiddetta musica leggera. “Noi crediamo che perno
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della questione sia la gestione della musica come entità culturale importante,”
suggeriscono quelli di Trovarobato. Quindi, in pratica, sovvenzioni. Sulla
forma delle quali il dibattito è aperto. “La legge francese che impone un minimo di musica ‘nuova’ nella programmazione radiofonica nazionale potrebbe
essere una buona partenza”. Altra ipotesi su cui abbiamo ponderato ed è
giusto continuare a farlo.
Il quadro resta tuttavia confuso, stante tutta la sua complessità. Paolo
Naselli Flores è il titolare della Urtovox, etichetta che può vantare un premio ricevuto al MEI 2009 quale miglior label indipendente italiana. Sostiene che in pochi scorgono il vero punto della questione, “che è e sarà sempre
di più - data per ormai imminente anche se progressiva la morte del cd - quella
delle edizioni musicali. Oggi si ascolta musica come mai prima, e se ne utilizza
altrettanta tra spot, suonerie e via discorrendo. La musica continua a muovere
un sacco di soldi. Chi deterrà le edizioni continuerà ad avere in mano il pallino della situazione”. Si tratterebbe di una sorta di ritorno ad una situazione
antica, in realtà. Il boom delle società di edizioni musicali fu infatti un fenomeno precedente l’industrializzazione. L’azienda proprietaria delle edizioni
deteneva i diritti di sfruttamento del repertorio musicale, inizialmente con
la vendita degli spartiti (ciò che caratterizzò l’epoca aurea di Tin Pan alley),
quindi con le royalties vere e proprie, affidandone l’interpretazione a musicisti spesso al soldo, un tanto a canzone. Le major, una volta costituesi,
ovviamente si impadronirono del meccanismo, emanando proprie società
di gestione delle edizioni.
Oggi sarebbero quindi spinte a portare a termine la metamorfosi, trasformandosi in enormi - onnivore, pervadenti - società di edizioni musicali,
nella cui orbita graviterebbero - satelliti o antagonisti? - un nugolo di piccole battagliere aziende col compito di scovare i talenti al dettaglio, più
un più vasto e disperso nugolo di cani sciolti padroni di se stessi, tra i quali
magari ogni tanto pescare il futuro peso massimo capace di scalare le gerarchie fino a consegnarsi alle case madri, spuntando il prezzo più alto possibile. Che poi sarebbe mutatis mutandis più o meno come adesso, salvo
la pressoché totale vaporizzazione del mercato discografico, ridotto a lussuose produzioni di nicchia - vedi gli iper-feticci tipo il recente box deluxe
Darkness On The Edge Of Town di Springsteen - o rivolto ai reduci delle
fascinazioni viniliche.
D iscontinuità
e reazioni
Resterebbe da considerare il mercato “brevi manu”, già ampiamente in
auge, destinato forse a diventare l’unica forma di commercializzazione diffusa di compact disc. “Gli unici clienti delle case discografiche sono i musicisti
stessi e gli artisti sono gli unici finanziatori dell’industria discografica minore”,
ci ragguaglia Palazzo. “L’artista paga la produzione, il discografico stampa il
cd, l’artista compra dal discografico i dischi da rivendere ai concerti. E finisce lì
dove è iniziata, con l’artista che rientra nel suo investimento iniziale e ci guadagna, se è capace, una piccola cifra. E’ una rivoluzione copernicana e a me
va bene così e dovrebbe andar bene a tutti quelli che sono indipendenti per
scelta, non per convenienza o impossibilità di essere ‘dipendenti’”. Forse il futuro, quello che tanto ci fa incazzare, quello che ci esalta e intimorisce, è più
vicino di quanto non si creda. Forse è già moneta corrente.
E se abbiamo già parlato di ritorni a situazioni pre-industriali, possiamo
farlo di nuovo, più dettagliatamente. Possiamo permetterci di tornare col
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pensiero alle figure leggendarie di musicisti be-bop ed errebì, per i quali
l’incisione del disco era l’anello di una catena di prestazioni, un espediente
tra gli altri per stare a galla con la propria arte. Era poco prima che la scossa
elettrica del rock’n’roll innalzasse su montagne di 45 giri e denaro la figura della star. Va detto che l’esplosione dell’industria discografica negli anni
cinquanta fu dovuta principalmente ad un fatto tecnologico, la messa a
punto cioè delle tecniche di incisione e l’alta fedeltà di riproduzione. Prima di allora la musica incisa poteva considerarsi un’eco debole ancorché
suggestiva della musica eseguita (e ascoltata) dal vivo. Non a caso i musicisti jazz consideravano il disco un’esperienza poco eccitante, “un po’ come
leggere il giornale di ieri”. Quando divenne manufatto hi-tech, le prospettive
si rovesciarono: il disco conteneva una dimensione d’ascolto spesso inarrivabile - perché aliena, perché altra - in sede di esecuzione live. Infine, il
disco poteva arrivare ovunque, e ovunque arrivò. Acquistarlo significava
tra le altre cose pagare un ticket tutto sommato equo per un’esperienza di
partecipazione all’ultimo sogno collettivo.
La smaterializzazione del supporto è un balzo tecnologico altrettanto
significativo (forse molto di più), rispetto al quale è lecito attendersi una cascata di inevitabili cambiamenti. Uno dei quali sarà probabilmente la fine di
un’epoca, quella della rockstar. In questo ipotetico scenario, il musicista torna ad essere tale, implode in una dimensione un po’ più umana, per quanto
sempre baciata dalla specificità “sciamanica” del dono artistico. Individui
con l’esigenza di sbarcare il lunario, di cavarsela più o meno bene secondo
il talento. E comunque di lavorare - di recuperare il lavoro come componente irrinunciabile e continuativa - per sostenere la possibilità di esprimersi.
Intendendo come lavoro anche una costante promozione di sé, del proprio
messaggio. I grossi calibri continuerebbero a campare di rendita, come e
più di prima, ultimi rappresentanti di un’epoca che glorificava il nome sulla
copertina. In ogni caso, nel lungo termine è prevedibile che prevalga una
“democraticizzazione” dell’immaginario, che significherà appiattimento soprattutto in ordine alla fenomenologia pop.
Sono ipotesi sconvolgenti per chi come noi pone l’ordine costituito del
rock in posizione centrale. Ma allargando la prospettiva al punto di vista
di uno storico, potrebbe trattarsi di una normale discontinuità tra le tante
di questo inizio millennio, e neppure tra le più significative: una parentesi
che si chiude dopo qualche decennio, un paragrafo appena a fine capitolo,
sezione costume. Sintomatologia ed avvisaglie di un processo più ampio e
profondo, che riguarda ogni aspetto della trama culturale che ci tiene uniti come specie senziente organizzata in comunità più o meno circoscritte.
Accadrà, sta già accadendo, anche per il cinema, per la televisione, per la
letteratura. Per l’informazione. Le recentissime novità introdotte dalle webTV, dalle piattaforme per e-book e soprattutto la deflagrazione del sistema
delle news operata da Wikileaks, sembrano i segnali convergenti di una rivoluzione che riguarderà ogni interfaccia tra noi ed il “mondo”. Sono sfide
culturali a cui i vecchi codici dovranno adeguarsi. Occorre riposizionarsi su
tutto, riposizionare tutto.
R ozza
utopia
Chi paventava una reazione in senso repressivo del sistema non ha sbagliato a profetizzare, ma forse ne ha sopravvalutato le possibilità. O forse
ne ha equivocato le procedure: se è ragionevole attendersi una repressio42
ne - una rivoluzione comporta sempre una qualche forma di reazione - che
aspetto avrà? Sarà più un gendarme o un PR? Somiglierà ai tanti “amici” che
collezioniamo su Facebook? O a un improvviso blocco della connessione?
Mentre scrivo, arriva la notizia di un’ennesimo giro di vite. L’AGCOM, la non
sempre puntuale Autorità garante delle comunicazioni, ha messo a punto
un testo che potrebbe obbligare siti e provider a rimuovere i contenuti non
legalmente autorizzati sulle piattaforme di download e persino di streaming. Annunci del genere si ripresentano ciclicamente. Che sia davvero la
resa dei conti?
In ogni caso, e comunque la pensiate, immaginarsi un domani prossimo
venturo in cui svanisca la possibilità di scaricare - o ascoltare in streaming
- illegalmente apre ad ipotesi interessanti. Ad esempio, i primi a rallegrarsene potrebbero essere quelli che già oggi e da qualche tempo mettono a
disposizione gratuitamente e legalmente materiale che qualitativamente
ha poco da invidiare alle medie produzioni indie. Un esempio? La “musica
collettiva italiana” dei Klippa Kloppa, da Caserta con estro imprevedibile,
una scossa di creatività scaricabile gratuitamente dal loro sito, dove è attivo
anche uno streaming. Oppure, se preferite, c’è il loro canale youtube con
centinaia di video. Una sorta di Tin Pan Alley (ah: cerchi che si chiudono...)
del sud-Italia. “In effetti abbiamo sempre diffuso le nostre cose gratis”, ci dice
l’ineffabile Prete Criminale, “a parte un cd per Snowdonia (Klippa Kloppa/
Soundish/Tottemo Godzilla Riders del 2003), anche in virtù del fatto che abbiamo venduto tante copie del cd Snowdonia quante me ne chiedono comunque dei cd che si possono scaricare gratis. Facciamo i cd anche se diffondiamo
le cose gratuitamente, chi compra compra comunque”.
Già: chi compra, compra comunque. Di che tipo di mercato stiamo
parlando? Può esistere un mercato affettivo, che giochi sulla solidarietà
emotiva? E, soprattutto, può sostenere un sistema come quello delle free
netlabel? Forse sì, visto che già oggi stanno in piedi, contando sulla sola
passione e sul pizzico di folle cocciutaggine di chi le gestisce. La più grossa
difficoltà con cui devono fare i conti è la promozione, riuscire a dimostrare
la propria esistenza nel web dominato dai soliti grossi potentati. Per assurdo, una stretta efficace sul download illegale - caldeggiato proprio dalle
major - potrebbe proiettarle d’improvviso al centro delle attenzioni degli
affamati rockofili alternativi, innescando un circolo virtuoso che sposterebbe - di poco, di tanto - il baricentro artistico della scena, compensando e
forse sbaragliando la “stanchezza digitale” cui accennavano da casa Lepers.
Siamo nel regno delle pure ipotesi, certo. Di contro, però, ipotizzare grossi
benefici per il mercato tradizionale, indie o mainstream, non sa di rozza
utopia?
La crisi è una questione industriale. Che si risolverà con i codici e i meccanismi propri dei sistemi economici complesssi. A noi basti la seguente,
semplice, quasi banale considerazione: il motivo per cui la fotocopiatrice,
il registratore e il videoregistratore non passeranno alla Storia come marchingegni-killer è che, in qualunque scenario, ci sarà sempre l’esigenza incontenibile di scrivere, di fare musica, di girare film. P.S.
Le dichiarazioni citate nell’articolo sono state per la maggior parte reperite
via Facebook. Un paio via mail. Una telefonicamente. Un’altra infine è frutto di
un colloquio faccia a faccia. Per quel che può significare.
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Recensioni
— cd&lp
highlight
4 fiori per Zoe - Musiche per film mai visti
(Garrincha Dischi, Novembre 2010)
Genere: strumentale
Terza release per i 4 fiori per Zoe che riassumono il
lato strumentale della loro musica: ventidue composizioni, quasi tutte brevi, scritte nel corso dell’ultimo
quinquennio per film, cortometraggi, documentari, installazioni e mostre. Il titolo si riferisce alla poca visibilità delle opere in questione, inaccessibili alla maggior
parte del pubblico, problema che affligge non solo
i lavori a cui il gruppo ha dato il proprio contributo e
che rende poco visibili queste stesse musiche. Una simile raccolta cade quindi a puntino e posiziona il trio
formato da Matteo Romagnoli (Le-Li), Nicola Manzan
(Bologna Violenta, Il Teatro degli Orrori) e Francesco
Brini (Pinktronix, Swayzak) lì da qualche parte lungo
le vaste lande che separano i Dirty Three da Gatto Ciliegia Contro Il Grande Freddo.
Bozzetti elettroacustici insomma, che si abbeverano a
seconda delle circostanze alle fonti del folk europeo,
del post-rock, della musica da camera e del rumorismo
(Nancy et sa cuisine), mescolando tango e klezmer, balafon africani (Il Mali migliore) e trucioli elettronici, archi
setosi e strepiti elettrici (Tuo padre non è tuo padre), e
arrivando perfino a virare su queste tonalità variabili
l’aria Un bel dì vedremo di Puccini. Il gradiente immaginifico è alto e il tutto viene condotto con perizia strumentale e senza eccessi. Da sottolineare il contributo
di Domenico Loparco al basso, Vincenzo De Franco al
violoncello, Enrico Gabrielli (Calibro35, Mariposa) ai
fiati, Pasqualino Nigro (Il Parto delle Nuvole Pesanti)
alla fisarmonica ed Alessandro Grazian alla melodica.
(6.7/10)
Luca Barachetti
7 Walkers - 7 Walkers (Response, Dicembre
2010)
Genere: Americana
Vecchi instancabili freak: i Sette Camminatori hanno
origine nel 2009 da una serie di collaborazioni all’inizio
informali tra Bill Kreutzmann - ex tastierista dei Grateful Dead, per i più distratti - e il chitarrista roots Papa
Mali. E’ accaduto, a un certo punto, che Bill fungesse
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da ospite di lusso alle esibizioni di Mali, suscitando in
modo spontaneo la voglia di un progetto divenuto realtà con l’inserimento di Matt Hubbard (già con Willie
Nelson, presente nella preziosa tessitura King Cotton
Blues) e Reed Mathis. Rodato da un paio di tour, il materiale che qui sfila in un’ora e spiccioli vede inoltre la
presenza di liriche vergate da Robert Hunter ed è un
secondo cerchio deadiano che si chiude.
Essendo il primo nonché principale quel guardare ad
American Beauty e Workigman’s Dead, allorquando la
psichedelia faceva spazio alla riscoperta delle radici
tuttavia trattenendo un sottile gusto per la dilatazione
strumentale e lo stupore acidulo impossibili da cancellare. Che per l’occasione avverti nella sbilenca Chingo!
e nell’oceanica Evangeline, negli omaggi a Dr. John
(notturno in una Louisiana Rain tra palude e cosmo; ripulito nel dì festivo all’altezza della squillante, fiatistica
New Orleans Crawl), tra le pieghe di un funk surreale in
scia ai Little Feat e negli echi di The Band. Con tutta
la personalità e l’ironia di chi con queste sonorità da
sempre vive ma, volendo, le sa rivoltare come calzini.
Cosa che sulle prime non t’aspetti e poi, in un lampo di
estasi oppiacea, afferri come del tutto naturale.
(7/10)
Giancarlo Turra
Ensemble - Excerpts (Fat Cat, Gennaio 2011)
Genere: chamber retro-pop
Mente e cuore che si parlano, il progetto Ensemble, gestito dal ’98 dal francese Olivier Alary come
ponte steso tra sperimentazione e organicità. Sai che novità, oggi che a ogni cosa abbiamo fatto il callo:
prima di liquidare la faccenda con un’alzata di spalle - e per comprendere meglio il valore di Excerpts vale però la pena riassumere le puntate precedenti. Trasferitosi a Londra dopo aver mollato la facoltà
di architettura (da lì la cura meticolosa del suono, mai a scapito di un più ampio e armonico quadro),
Olivier esordiva per la Rephlex a inizio millennio e Bjork lo teneva in rotazione fissa durante la registrazione di Vespertine.
Il passo successivo un paio di remix per l’islandese e la collaborazione
compositiva per Desired Constellation, su Medulla, laddove nel 2006 il Nostro aggiustava il tiro in un secondo lavoro che ospitava Cat Power e Lou
Barlow, il batterista dei Mice Parade e un’orchestra tedesca arrangiata da
Johannes Malfatti. Il quale ritorna a chiudere il cerchio in un’opera infine
risolutiva nei confronti di un artefice attento a mescolare tecnologia e sentimento. Forma adatta a rendere il contenuto, cioè una canzone di silicio e
nervi - prevalgono comunque questi ultimi: ascoltare per credere la Valse
des Objets Trouvés degna del miglior Yann Tiersen, se no il Momus ringiovanito ed emotivo da Mirages - che colma i vuoti della memoria tramite orchestrazioni sottilmente spigolose e costantemente
evocative.
Benissimo integrate alla composizione (la leggiadra complessità di Things I Forget, una Imprints sospesa
ed elegante) come gli echi di chanson rinnovata (En attendant l’orage, Envies d’Avalanches) e il senso di
“futuro antico” ereditato dagli Stereolab (Les saisons vienennt, la sublime title-track). Come il romanticismo, l’umanità e la classe di cui vive e respira la creatura Ensemble.
(7.4/10)
Giancarlo Turra
AA.VV. - La Leva Cantautorale degli Anni
Zero (Ala Bianca, Novembre 2010)
Genere: canzone d’autore
Club Tenco e MEI si uniscono per questa raccolta in
doppio disco che mira a rappresentare la nuova generazione cantautorale nelle sue varie sfaccettature. Trentasei i nomi coinvolti, tutti sotto i quarant’anni, e una
buona occasione per testare lo stato di salute del novello songwriting italico seppur con qualche inevitabile mancanza (Brondi in primis), anche se sono gli stessi
promotori a smentire qualsiasi pretesa di esaustività.
Scorrendo la tracklist i nostri lettori troveranno parecchie conoscenze, alcune protagoniste delle indiecronache degli ultimi anni (Brunori SAS, Samuel Katarro,
Dente, Dino Fumaretto, Patrizia Laquidara, Beatrice
Antolini, Ettore Giuradei, Mariposa, Amor Fou), altre
con ruoli mediatici più di contorno (Jang Senato, Pe-
trina, Denise, Giancarlo Frigieri, Simona Gretchen)
e altri ancora decisamente da scoprire. Non volendo
ridurre questa recensione ad un mero elenco segnaliamo fra gli appartenenti a quest’ultima categoria alcune
proposte da tenere d’occhio.
Vedasi in apertura di primo cd Roberta Carrieri in un
tre quarti folkeggiante dalla melodia ariosa intitolato Il
valzer dei tre giorni - migliore rispetto alle cose ascoltate
nel debole esordio - e più in là lo spaurito e lievemente
surreale Matteo Castellano con l’acustica e gli schizzi di korg della breve, a dispetto del titolo, Innamorato lungo; mentre la chiusa è di un tradizionalissimo ma
emozionale Alessio Lega con I baci.
Più fecondo il secondo disco, che contiene peraltro gran
parte dei nomi citati prima: l’apertura è di Piji, archeologo dei repertori di Natalino Otto e compagnia qui in
spleen Modugno-Bacharach con l’elegante Un vestito di
canapa; a metà scaletta Paolo Simoni stupisce a fronte
di un esordio scialbo con la dalliana Fiori su sassi - ovvero
quando l’intensità annichilisce l’essere derivativi; subito
dopo i Bastian Contrario, sotto l’egida di Maroccolo,
iniettano sensazioni ipnagogiche nella vibrante Parla tu
per me; non ultimo Alessandro Orlando Graziano, un
disco nel 1999, vibra anch’egli con la sontuosa Aiutami
a innamorarmi di te, piccola perla commuovente di una
controparte maschile della Patty Pravo più angelica e
disperante. Presa nel complesso, La Leva Cantautorale
degli Anni Zero paga qualche ancoraggio di troppo ad
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una tradizione satura(ta) e qualche scelta opinabile sul
fronte delle liriche, vittime di quel brutto corto circuito
che sacrifica l’urgenza ad una non meglio precisata idea
di Poesia - mentre la poesia è solo con la p minuscola,
un genere come gli altri, e maiuscole dovrebbero essere invece le parole: segni inattesi e trafiggenti. Tuttavia
il livello generale è buono e i due dischi scorrono piacevolmente, il secondo più che il primo. La canzone d’autore italiana sta vivendo una lunga fase di transizione,
nella quale è vitale che la classicità venga rimescolata
e rinnovata nei linguaggi. Plauso a chi ha organizzato e
promosso, seppur un filo in ritardo sui tempi in mutamento, un’opera che si rivela promettente senza essere
sconvolgente. E che il titolo degregoriano sia di buon
auspicio e non diventi una sempiterna zavorra.
(6.8/10)
Luca Barachetti
Alan Vega/Marc Hurtado - Sniper (Le Son
Du Maquis, Novembre 2010)
Genere: hypno-techno
Alan Vega lo ribadisce in ogni occasione: per fortuna
che ho imparato a usare il fiato suonando il sassofono; altrimenti non sarei riuscito a urlare per tutti questi anni. È dal primo atto come vocal che il nostro fa
la stessa cosa, ossia riempire di angoscia prettamente
umana gli incubi sonori di chi lo accompagna. È rauco
di maturità, Alan in veste 2010, ma sempre intenso nella declamazione, figlio e padre di se stesso, protagonista in primo piano e borborigmo intimista della società
industriale.
A Marc Hurtado degli Étant Donnés, in Sniper, è toccato il compito di acuire la tensione - anzi tenerla viva
dall’inizio alla fine - e di creare il tappeto su cui Vegababà possa planare sulle nostre teste. Noi, a testa bassa, Alan con lo sguardo assente (o concentratissimo?),
come un matto che si lamenta sull’autobus senza che
nessuno capisca con chi ce l’abbia. La techno ipnotica allestita da Hurtado centra l’obiettivo. Fungere da
base e da battito cardiaco per il flusso di linfa declamata da Vega. Farsi rave, procrastinarsi, in una maniera
che a volte risulta una versione tecnologico-androide
dei Silver Apples (come nella title-track). Nascondere
la propria personalità (nell’ultima traccia, Prison Sacrifice, forse la migliore, subire l’ombra di ben due pilastri,
Alan e l’amica strega tabaccosa Lydia Lunch). La questione è piuttosto quanto tale obiettivo sia oggi ancora
urgente da rincorrere, quanto riesca ancora a destare
attenzione e scuotere la sonnolenza. La risposta è nello
spirito e nella ricettività di chi ascolta, e non più nella
potenza del suono - a cui, a queste condizioni, siamo
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oggi immuni. Oppure, se lo vogliamo, malati volontariamente cronici.
(6/10)
Gaspare Caliri
Antonio’s Revenge - Times Square Lights
(Produzioni Dada, Dicembre 2010)
Genere: brit folk
Inizialmente erano un duo basso (Giovanni Boscaini) e
chitarra (Alessandro Razzi) con la voglia di fare i menestrelli brit-pop, desiderio concretizzatosi grazie anche
all’ingresso in formazione di Fausto Zanardelli (percussioni e tastiere) più Gianni Nuzzi alla batteria. Il risultato è appunto una sorta di indie folk che si rifà agli
struggimenti appassionati e consolatori di calibri quali
Stereophonics, Damien Rice o Travis. Lo fanno bene,
col giusto spirito e dimostrando un buon physique du
rôle a partire dalla voce.
Tuttavia non saremmo qui a parlarne non fosse per certe arguzie di tastiera e un piglio sopra le righe che animano rispettivamente Shining Star e Better Than Myself,
le due tracce centrali di questo mini d’esordio Times
Square Lights. Viene da pensare che oltre al cliché ci
sia di più, in forza del quale è lecito sperare in lavori
futuri che osino una calligrafia personale. E quindi interessante.
(6.2/10)
Stefano Solventi
Arthur’s Landing - Arthur’s Landing
(Strut Records, Gennaio 2011)
Genere: indie-funk
A forza di ristampe, documentari e soprattutto di un
recupero sistematico di inediti preziosissimi, pian piano lo sfortunato Arthur Russell s’è visto riconoscere il
ruolo di contaminatore sonoro totale. Di quelli sempre
irrequieti nell’accezione assolutamente positiva, capaci di passare da spartane, oblique ballate country a un
cantautorato visionario, da un funk splendidamente
mutant all’avanguardia colta senza perdere di vista il
gusto comunicativo, annullando con rara e amabile disinvoltura la distanza tra accademia e club. Roba possibile solo a New York e oggi neanche più col medesimo
spirito pionieristico, come dimostra il progetto Arthur’s
Landing, otto strumentisti e collaboratori di vecchia
data di Russel capitanati dal chitarrista Steven Hall e
dal fedele Peter Zummo che riprendono una dozzina
di pagine del nutrito romanzo.
Scriviamo strumentisti ed è lì la questione, nella differenza tra chi possedeva la visione e chi ha contribuito
ad attuarla: di fronte a materiale come pochi altri sin-
golare, l’ensemble (forse schiacciato dal compito?) si è
difatti spinto solo occasionalmente oltre una parata di
educate suggestioni funk e jazz intessute d’elettronica
di sottofondo, conferendo alle canzoni vere e proprie
una legnosa aura indie anni ’80. Pura e laccata forma
dove latita l’anima di Arthur, il quale viveva la sua epoca e al contempo immaginava il Duemila e un tributo
così non lo meritava, perché mai si sarebbe arreso al
mestiere. Del quale è viceversa colmo Arthur’s Landing,
a fronte di motivazioni lodevoli e nondimeno insufficienti ad assolverlo.
(5.5/10)
Giancarlo Turra
Atomika Kakato - Old Wave Prophets (Lo
Scafandro, Gennaio 2011)
Genere: nostalgia wave
La neonata etichetta Lo Scafandro da alle stampe un
disco molto diverso dal cantautorato pop di Fabrizio
Tavernelli e ci porta indietro di trent’anni, scagliandoci nell’Inghilterra degli anni Ottanta. Fin dal titolo gli
Atomika Kakato, anche qui c’è lo zampino di un ex
AFA, mettono in evidenza quali sono le loro intenzioni
e le mantengono per tutti i dieci episodi di questo album. In un periodo di grande (eccessivo?) revival delle
sonorità che hanno reso immortali band come i Joy Division (ma qui non c’è quel pathos), XTC (ma qui non
c’è quella scrittura tagliente), i Cure (ma qui non c’è
quell’atmosfera) gli Atomika Kakato sembrano voler
ricordare ai gruppi di oggi come si suonava allora.
L’operazione riesce solo in parte e si rischia l’effetto karaoke nostalgico, perché l’inglese è così così, perché si
atterra più che altro dalle parte dei Duran Duran e del
synth pop da Top of the Pops, perché non è vero che la
cover di Hello I Love You dei Doors ha lo stesso sapore
di quella - storica - che i Devo fecero di Satisfaction.
(5.5/10)
Marco Boscolo
Barbagallo - Quarter Century (24,
Dicembre 2010)
Genere: mutant rock
Barbagallo si è guadagnato da un pezzo un posto di
rilievo nel mio ventaglio di aspettative. Questo venticinquenne da Siracusa con un curriculum già corposo
(Suzanne’s Silver, Tempestine, Albanopower...) ebbe
modo di suscitare curiosità ed entusiasmo già coi lavori
precedenti, un EP e quel Floppy Disk che lo proponevano quale fratellastro zuzzurellone e genialoide dei
Jennifer Gentle, con evidenti filiazioni Syd Barrett e
Damon Albarn stemperate da affinità Richard Swift.
Un estroso totale insomma al cui repertorio il qui presente nuovo ep Quarter Century, disponibile in free
download sul suo bandcamp, introduce ulteriori sbalestramenti stilistici, azzardando rimandi art rock e come dire? - post prog in grana lo-fi, un po’ come se
Faust e Pere Ubu si dilettassero a destabilizzare siparietti Giant Sand (molto bello il rigurgito folk-rock nel
finale di Show), lasciando fluire liberamente memorie
Teenage Jesus e Nino Rota, ammiccando la destrutturazione lounge di Cibelle (splendida la rumba mutante
di Clouds Behind The Moon) e la dissacrazione lucida di
Frank Zappa.
Cinque pezzi per venti minuti circa come d’uopo per la
serie degli ep 24 della 42 Records, aventi l’intenzione di
omaggiare - anche da un punto di vista audio - le vecchie musicassette C25. Una stuzzicante follia cui hanno
partecipato una pletora di amici della scena siciliana,
membri sparsi e vari di Colapesce, Tellaro, Cpt. Quentin e Music For Eleven Instruments tra gli altri. Come
antipasto al nuovo lavoro lungo, previsto per le prime
settimane del 2011, è proprio niente male.
(7.1/10)
Stefano Solventi
Bardo Pond - Bardo Pond (Fire Records,
Dicembre 2010)
Genere: psichedelia
Partirei da un aneddoto, che mette insieme il buono,
il brutto e il cattivo della saga Bardo Pond, della promozione e del loro pensionamento post-lisergico agli
occhi e alle orecchie del pubblico nostrano - forse appartenente a una generazione già avanzata rispetto
agli ascoltatori più recenti, ma di fatto quella che da
sempre è l’interlocutore preferenziale del super-trip
ben oleato. Piero Scaruffi riceve in maggio 2010 un’email da un Gibbons, dove il Bardo Pond-iano gli intima di smettere di stroncare le ultime produzioni della
band di Philadelphia. Immediatamente il critico ormai
californiano pubblica la missiva in rete e la fa diventare
cosa nota. Sembra l’ultimo atto della vicenda del combo psichedelico, una grottesca conferma dello stato
di melma in cui le composizioni e le azioni del gruppo
versano da anni.
Ciò nonostante, ascoltando il self titled con cui Isobel
Sollenberger e soci timbrano il cartellino al fotofinish
del 2010 si sente solo tanta concentrazione e voglia
di replicare se stessi, e poca paura e pretesa di piacere
all’esterno. Se in Just Once Isobel ci prende per mano
nella pastoralità folk (temutissima, visti i trascorsi, ma
in questo caso riuscita) e ci conduce nella sabbatico
maelstrom che conosciamo, i venti minuti di Undone
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fanno da immobile karma, da baricentro pachidermico
di rumore psichedelico, senza l’intenzione di sperimentare nulla ma ricercando unicamente il trip rassicurante. Sembra impossibile, ma il viaggio della coscienza
può essere anche qualcosa di noto, un territorio dove si
vanno a ritrovare sensazioni conosciute. L’ultima frontiera della psichedelia oltranzista è un contratto con
l’ascoltatore.
Tu non ti preoccupare di nulla, non ti stupiremo né
cercheremo di mettere nulla fuori posto, e comunque pensiamo a tutto noi. Detto fatto: ecco The Stars
Behind, volenti o nolenti (altri) tredici minuti di passo
lento verso una landa fumosa e scura, senza novità ma
perfettamente allestita, crescendo al ralenti, di fatto un
non-crescendo. L’alternativa sono i toni da tarda cosmische finto-ingenua di Waynes Tune, e a questo punto
tifiamo per la prima mossa. Più che l’ennesima alterazione, la coscienza di un saper fare. Al ribasso, forse ma
di qualità rinnovata.
(6.8/10)
Gaspare Caliri
Blugrana - Self Titled (Autoprodotto,
Dicembre 2010)
Genere: rock
L’esordio dei Blugrana è una sorta di sussidiario piuttosto didascalico di quelli che sono stati i Novanta adolescenziali del sottoscritto (e credo anche di tanti altri).
Desmael rimanda a Jeff Buckley, Comemaledire e L’apparenza citano gli Afterhours di Non è per sempre (la
seconda arriva a parafrasare una Oceano di gomma fin
troppo riconoscibile), Babel ricorda i Jane’s Addiction,
Origami orbita dalle parti dei Pearl Jam, La verità della
carne passa in rassegna i Timoria più melodici e i vecchi Ritmo tribale. Con in più una tendenza all’impalcatura in crescendo un po’ à la Negramaro.
Va da sè che, viste le premesse, si tratta di materiale
con qualche limite, quantomeno dal punto di vista del
tempismo. Ciò che vent’anni fa avrebbe avuto un senso, infatti, ora arranca sotto la scure di un revivalismo
appassionato ma gratuito, con pochi spunti davvero
interessanti.
(5.4/10)
Fabrizio Zampighi
British Sea Power - Valhalla Dancehall
(Rough Trade, Gennaio 2011)
Genere: epic rock
Strana sensazione, ascoltando il quinto album dei British Sea Power. Bel disco, innanzitutto, che risolve gli
eccessi di pathos dei lavori precedenti sgranando at48
mosfere tanto ispirate quanto cangianti, mettendosi
per così dire al servizio di un’ispirazione che esige ora
impeto nevrastenico (la foga quasi Pixies di Thin Black
Sail) e ora enfasi adrenalinica (la cavalcata Manic Street Preachers di We Are Sound), rammentando il Billy
Corgan in fregola ciber-wave (Mongk II) o quello della
ballad oniriche (Cleaning Out The Rooms, Baby). Senza
scordare la tipica teatralità albionica capace di cucire
languori Patrick Wolf e David Bowie (Luna, Georgie
Ray), così come l’ardore springsteeniano di Observe
The Skies e i tremori post-pop (?) della lunga Once More
Now, tipo i Go-Betweens stregati Sigur Ros.
Strano, dicevo, perché questa mischia di rimandi sonici è carburata da un’attitudine che ce li fa collocare
direttamente in scia Arcade Fire, dei quali sono praticamente coevi. Quasi che nella parabola ascendente della band canadese avessero finalmente intuito la
propria direzione poetica, quella cioè d’un indie-rock
epicamente contemporaneo, appassionato e globale.
Di tutto ciò sono davvero felice: è un turbillon teso e
coinvolgente, questo Valhalla Dancehall.
(7.1/10)
Stefano Solventi
Bug (The) - Infected EP (Ninja Tune,
Novembre 2010)
Genere: dubstep
Due inediti e due remix firmati per questa nuova miniuscita targata The Bug. Kevin Martin sembra voler riposizionare il proprio progetto grime & Co. alla luce delle
stilizzazioni post-dubstep/soul brevettate con King
Midas Sound.
Non a caso, sul pezzo migliore del lotto, Catch A Fire,
canta suadente Kiki Hitomi. I Roots Manuva colorano invece il lento cerimoniale di Tune In. Gli Autechre,
glaciali e spietati come sempre, disinnescano completamente (esperimento interessante ma non riuscito)
Skeng. Scratcha DVA accentua le radici dancehall di
Poison Dart.
A detta di alcuni, Martin il dubstep lo avrebbe addirittura inventato, nel 1997, con un Tapping The Conversation che si voleva immaginare colonna sonora ideale de
La Conversazione di Coppola (da cui anche il moniker
The Bug); quel disco, seppure privo del tipico anticipo
di rullante dubstep, ne anticipava invece in pieno l’immaginario (metropolitano), le atmosfere (opprimenti)
e - in parte - anche il suono (con la combinazione fantasmi trip hop + industrial + rumori concreti/ambient
spettrale).
Qui la carne al fuoco è troppo poca e comunque non
sposta di una virgola l’approccio di Martin al genere.
highlight
Fauve! Gegen A Rhino - Namegivers’ Avenue (Tannen , Dicembre 2010)
Genere: ambient-noise
Un rumore bianco memore di brutture nippos o whitehousiane che si apre verso lande ambientali
dall’aroma classicista. Si presenta così il comeback dei Fauve! Gegen A Rhino, nome ambiguo per un
trio di ventenni irriverenti e ambiziosi che già con l’esordio autoprodotto
dell’anno scorso, Geben, aveva inaugurato un canale preferenziale nelle
musiche meno ortodosse. Citando qua e là rimasugli dello Smell sound e
della new tribal america - da Aa a Mahjongg, passando per Health - virati però elettronica multiforme - krauta, mitteleuropea, minimalista, alla
Kompakt, Moor, Mego e in ogni salsa - i tre imbastiscono anche nel comeback (o esordio ufficiale che dir si voglia) un suono originale, multiforme e
cangiante. Se la base di partenza è quella di Geben, in Namegivers’ Avenue
si va di dada-architettura e spazi borgesiani.
Minimal techno in modalità raga sciolta in arpeggi di chitarra liquidi e al sapor di post- (Work In Progress), atmosfere diafane e ambientali come un Brian Eno marcito e ossessivamente reiterato (A Bridge
For The Sky (To Yona)), idm rivoltata a botte di tribalismo industrial e Orbital in viaggio su Metropia,
slanci di disco-house liquefatta e imbastardita con la cerebralità del post-rock e la fisicità del noise, non
sono che accenni di ciò che offre Namegivers’ Avenue.
Musica concettuale e insieme fisica, innovativa eppure riconoscibilmente rock, che sceglie percorsi
meno battuti e di una avventurosa ambizione. L’unica definizione non banale ma onnicomprensiva degli zigzaganti orizzonti del terzetto, che ci viene in mente è quella che essi stessi ci offrono: tribal psych
noisetronica. Da seguire, senza alcun dubbio.
(7.3/10)
Stefano Pifferi
Aspettiamo sue nuove metamorfosi.(5.9/10)
Gabriele Marino
Casa - Peggioramenti (Dischi Obliqui,
Ottobre 2010)
Genere: rock/elettronica
I Casa scoprono le due carte delle loro anime, dividendo esattamente a metà il quarto disco della loro produzione: da una parte le canzoni, dall’altra l’elettronica.
Canovaccio - anzi, disegno architettonico - molto semplice ed evidente, forte come concept, come sempre,
nei vicentini, efficace nel produrre conseguenze, riflessioni, movimenti di ragionamento musicale. Nella prima parte di Peggioramenti, i Casa replicano le intenzioni del primo disco, Vita Politica Dei Casa, vale a dire
cercare quel riff. Epperò qui indulgono nel replicare i
risultati della ricerca, manifestando a volte le nervature
a vista, procrastinando una pratica di standardizzazione. Ci riferiamo all’elemento vocale dell’arrangiamento,
straordinariamente evidente, mobile, tecnico, raffinato
nei rimandi, ma anche, a voler vedere le cose da un al-
tro punto di vista, forse legato ad alcuni stilemi. Fanno
parte dell’eccellenza, i Casa, le lyrics lo dimostrano, le
composizioni, gli arrangiamenti, anche, ma allora forse Bordignon potrebbe essere il nostro Arrington De
Dyoniso, sulla strada della complessità, e sempre e comunque gli vorremmo veder evitare di “preferire l’ordine all’equilibrio”, come lui stesso si suggerirebbe.
Il passaggio alla seconda anima è il folk di Attraverso Le
Stagioni, non a caso più misurato, e apre il campo al B
Side dei Casa: i venti minuti di omaggio a quel mondo che tiene insieme Tony Conrad (Caltrano) e Juan
Atkins e Derrick May, minimalismo americano (scuola
NY) e cassa dritta. Basta guardare i nomi delle tracce,
luoghi vicentini (Pianezze, Villaga), tappe di un viaggio
palladiano, punti di una mappa continua, colonna sonora da automobile con occupanti che non chiacchierano. Un modo per mettere l’ascoltatore in un mondo a
sé, senza ancora mostrare una sintesi, dopo aver allestito, con Peggioramenti, tesi e antitesi.
(6.8/10)
Gaspare Caliri
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Cold War Kids - Mine Is Yours (Downtown,
Gennaio 2011)
Genere: Indie Rock
Bello scherzo a chi aveva creduto che Behave Yourself,
l’ep registrato dal combo californiano nel corso della tournée estiva, segnasse un ritorno alle atmosfere
waitsiane del classico esordio di tre anni fa.
“Volevamo fare qualcosa di ricco e classico” ha dichiarato Nathan Willet in occasione della presentazione del
nuovo Mine Is Yours. Detto fatto. I Cold War Kids perseverano pervicacemente ad esplorare le pieghe oscure dell’animo umano, ma la loro poetica della sconfitta
riluce di un sound epico ed estremamente levigato.
Le ambizioni, non certo celate, sono quelle di inserirsi nell’alveo della tradizione americana di band come
R.E.M., affiancarsi a quegli autori ispirati e dolenti
come i Buckley (papà Tim e figlio Jeff ). Lo fanno colorando di accese tinte pop il loro soul bianco, facendo
di brani come Louder Than Ever e Sensitive Kid il grimaldello melodico per scardinare le resistenze di chi non si
era lasciato irretire dalle asperità di Hang Me Up To Dry.
Sanno di giocarsi molto con questo album, per questo
ci mettono l’anima, in tutti i sensi: innalzando potenti
preghiere laiche, rilassando i nervi sulle ritmiche esotiche e liberatorie di Matt Aveiro, mostrando, in generale, un pò di quell’ottimismo e di quella pace interiore
senza le quali si fatica a vendere dischi.
Facile parlare di abdicazione al gusto popolare. La verità è che da un eventuale successo di Mine Is Yours sarebbe il mainstream a trarne giovamento, sollevandosi
almeno un pò da quella palude in cui giace.
(6.9/10)
Diego Ballani
Cristio - Adult Taste (Lepers Produtcions,
Novembre 2010)
Genere: math-funk neo-psych
Un duo che invita molti amici nella mischia sonica, i
Cristio. Tanto che a questo loro debutto alla fine hanno
partecipato altri otto musicisti, tra cui è d’uopo segnalare il buon Fabio Magistrali che si alterna tra microfoni e tastiera. I responsabili di questa riunione sediziosa
sono Cristiano Alberici, vocalist degli X-Mary, e Michele Napoli, batterista dei Peawees.
Un bel giorno di primavera del 2009 decisero di scozzare le idee e un anno più tardi è uscita questa congettura math-funk contagiata neo-psych con qualche colpo
di testa hardcore-pop che non ci sta affatto male.Sentiteli come fanno fibrillare estro Primus tra bailamme
Minutemen e - giuro! - indolenze catchy Belle And Sebastian in Granito, o intenti a fomentare la giga intossi50
cata e accomodante Jane’s Addiction via Soft Boys in
Above The Tree, e ancora alle prese con ruffianerie insidiose in Stereogirl e Magic Piper, con la mestizia armata
di So Sad o con gli aromi crepitanti di Violini.
Chitarre spasmodiche e crepitio d’ hammond, tromba e
corno francese, un senso di energia che si libera angolosa, premeditata e sferzante, come uno scherzo ridanciano giocato terribilmente sul serio. Dieci brani acidi sì
ma senza cupezza aggratis, perché affilati di prepotente vitalità. Ce li fornisce la benemerita Lepers in regime
di free download, ma se preferite potrete ordinarne la
versione fisica dal sito della altrettanto lodevole Hysm.
Un bel gesto, in ogni caso.
(7.4/10)
Stefano Solventi
Dargen D’Amico - D’ (parte seconda) (Giada
Mesi, Ottobre 2010)
Genere: poesia tamarra
Dopo avere confessato i propri peccati, avere recensito
Fabri Fibra, avere fatto innamorare Iosonouncane, Dargen ci toglie l’impiccio e si recensisce da solo.
Inspiegabilmente, se la (parte prima) suona decisamente più estiva (uscita il 2 giugno 2010), la (parte seconda)
suona decisamente più autunnale (in uscita l’8 ottobre
2010). Lo scarto tra le parti è quindi soprattutto nel - sarebbe inconsueto se fosse diversamente per un oggetto
che si ascolta - suono: se nella (parte prima) sfociava non senza vergognarsene - nel bassofondo del reggae
più miserabilmente abusivo passando per la dance più
giostresca, il suono vira nella (parte seconda) - seguitando a vergognarsene - verso l’elettronica più scura fino
alla nostalgia sudamericana passando per lo scremo
più emo. I temi sono però sempre quelli ormai familiari
amorosi, illustrati da un artista infelice che poi sono io,
che nessuno mi capisce quello che dico, che però quando cerco di farmi capire o in effetti si capisce e non sono
quindi più così bravo o non si capisce lo stesso e però
divento commerciale, che però sono più commerciale
degli altri perché con tuffo carpiato mortale rovesciato
riesco a essere commerciale senza nemmanco fare lo
sforzo di vendere i dischi e comunque ti rimane sempre
il dubbio di non aver capito comunque un cazzo e così si
riprende il giro dal via.
Odio Volare, amore e jetlag (e Dio), sole agrodolce; Anche se il mondo ha, apocalisse, rap a rotta di collo, refrain praticamente neomelo’; D’ cuore, cardiopatia totale, Annarella (superemo carillon e spernacchi), uno dei
capolavori di Jacopo D’Amico; L’amore è quell’intertempo, enfasi e ricordi di voci trip hop; In Loop, musica &
(non) dischi, rockelectroclash, un refrain che quasi qua-
highlight
Hanggai - He who travels far (World Connection, Dicembre 2010)
Genere: country mongolico
Dopo annate di bluesman e folksinger provenienti dal continente nero a riunire in splendide forme due
alvei separati alla nascita era inevitabile che ad un certo punto accadesse anche questo. C’è meno epica
antropologica nel suono degli Hanggai ma gli esiti dicono comunque di una musica dalla grande potenza narrativa ed evocativa, laddove è la globalizzazione ad avviare un paradosso che contrappone il
locale alla massificazione delle culture.
In poche parole: le ultime generazioni di cinesi ascoltano il rock d’importazione occidentale e lo riproducono. Ma se siete mongoli emigrati a Pechino e volete andare a recuperare (e salvaguardare) le vostre radici quando
il sistema riconosce tutte le culture per poterne imporre meglio una sola,
allora potete fare qualcosa di più. Ovvero unire il blues, il folk-rock, addirittura il country e il punk ai suoni tradizionali delle lande immense del Gobi.
Dunque le chitarre elettriche e il canto gutturale; il violino morin khuur e il
banjo; il basso e il flauto tsuur.
He who travels far è il secondo lavoro di questi sei musicisti mongolici e cinesi dopo l’Introducing di
due anni fa che li presentava come una sorta di epigoni asiatici del Morricone all’opera per Sergio Leone ma anche come fautori di un blugrass muscolare e alcolico, tutto chitarre impazzite e bordoni vocali.
Qui produce Ken Stringfellow (R.E.M., Neil Young) che assesta e rinvigorisce il suono, mentre Marc
Ribot mette la sua sei corde su una Dorov Moraril dall’impatto granitico come pedata di cavallo. Le
altre sedici tracce (tre di bonus-track) si muovono tra scampoli cinematici (Gobi road), country-folk caracollanti (Uruumdush) e anthem mistico-battaglieri (Hanggai), con liriche che spostano velocemente
il focus da una realtà pastorale ritratta con toni mitologici a un presente di immigrati in cerca d’identità
molto meno edificante. Se i Pogues fossero nati tra Ulan Bator e Pechino probabilmente suonerebbero
come loro. Fate spazio al country mongolico.
(7.5/10)
Luca Barachetti
si Gli Atroci; Mi piacciono le donne, Crookers-o-rama,
la mutazione tamarra è conclusa, autotune pimperia
e rullante, l’omicidio del buon gusto; Briciole colorate,
piano, archi, autotune. Spleen.
Nello spazio interstiziale tra distacco critico e innamoramenti privati, uno dei dischi dell’anno.
(7/10)
Gabriele Marino
De Curtis - Baciami Alfredo (Tannen ,
Novembre 2010)
Genere: oltre-rock
Eleganti e distaccati come il principe della risata da cui
apparentemente traggono il nome, dietro i De Curtis
non si nascondo debuttanti, ma solide realtà del rock
italiano. Bruno Vanessi, ad esempio, chitarra dei Rosolina Mar, o Riccardo Orlandi, batterista negli Hell Demonio, che insieme al pianista Andrea Gastaldello, e
Luca e Davide Bronzato (al sax il primo, al basso il secondo) completano l’organico veronese.
Un quintetto vario e mobile come il background dei
singoli componenti, abile nel muoversi in agilità tra
post-rock strumentale e imaginary soundtracks, atmosfere cinematiche e jazz-rock “adulto”, con eleganza, sobrietà e almeno un paio di ganci destri diretti in bocca:
la fanfaresca malinconia quasi Black Heart Procession
di Lugana Addio e il post-africanismo di Nigeria ’70 (The
Black President).
I cinque viaggiano liberi e non disdegnano di infarcire
il proprio suono di svarioni soul e capitomboli noir,
aperture bluesy, lounge e addirittura rimandi fusion,
a dimostrazione di una conoscenza della materia e di
capacità creativa che a queste latitudini non possono
non essere apprezzate. Soprattutto chi rimpiange il
versante Caboto et similia troverà in Baciami Alfredo
un gran bell’esordio, fuori da schemi prestabiliti, fiero
51
del proprio essere atipico e godibilissimo all’ascolto.
(7.1/10)
Stefano Pifferi
Dead C (The) - Patience (Ba-Da-Bing,
Novembre 2010)
Genere: free-noise
Un paio di lunghissimi minimal-raga in salsa kiwi-lo-fi
che si spappolano gelatinosi mano a mano che procedono nella loro reiterata fattanza (l’iniziale Empire e la
chiosa South), uno sgorbio di impro slabbrata da un
minuto e mezzo (Federation), un acido e incompromissorio movimento rock che si sfalda sotto i piedi (Shaft).
Si presenta così Patience, l’ennesimo passo del terzetto
neozelandese: roba sempre corrosiva e sfiancante, menefreghista e disturbante, seppur alleggerita in un impatto frontale non più incompromissorio come i tempi
che furono.
È forse però soltanto un errore di prospettiva, il nostro,
viste le tonnellate di rumore che emuli più o meno certificati stanno buttando ormai da qualche lustro nelle
nostre orecchie. A ben vedere i 3 vecchietti qui si fanno rispettare su un terreno che, volenti o nolenti, essi
stessi hanno contribuito a forgiare. Che è quello del
free-noise più dilatato e nichilista, fatto (anzi sfatto) di
lentezza, feedback, reiterazione, bassa fedeltà, destrutturazione, ecc. in cui l’attenzione, come nel precedente
Secret Earth, sta più nella grana del suono che altrove.
Una aurea e rumorosa mediocritas che tanto può ancora insegnare.
(6.8/10)
Stefano Pifferi
Dean McPhee - Brown Bear EP (Blast First,
Novembre 2010)
Genere: guitar solo
Chitarra sola di scuola evidentemente John Fahey-iana, ed elucubrazioni in loop e delay anche alla Robert
Fripp (la title-track) - secondo una formula che - su una
percorrenza ben più lunga - abbiamo ravvisato di recente anche in Dusting Wong. Un perfetto sfondo ai
pensieri, che lascia, come spesso in questi casi, una domanda aperta: in che modo può riaffiorare nella nostra
attenzione? Perché e come, se questa è l’intima espressione di un momento strappato al resto della vita, deve
e può essere altrettanto per noi?
Dean McPhee probabilmente non si è posto queste
domande, ma in maniera irriflessa ha imbracciato la
chitarra e ne ha tratto un prodotto che è espressione
sua e soltanto sua. Il mondo del fingerpicking di provenienza Fahey è oggi sovente un momento di pausa nel52
la carriera di un musicista. Nel caso di McPhee siamo invece in presenza di un primo atto (fatta esclusione per
uno split 7” con Chapters), e questo sposta un po’ le
cose. Eppure, suona come un intermezzo, apprezzabile, ma pur sempre come un’incursione nella vita altrui,
più che un’opera per un pubblico vasto. La replica, se
mai ci sarà, sconfesserà o confermerà quanto diciamo.
(6.5/10)
Gaspare Caliri
Death In June - Peaceful Snow (NER,
Novembre 2010)
Genere: Neo Folk
Certe saghe sembrano infinite e quella di Douglas P.,
indiscusso padre fondatore della musica neo-folk, è
senz’altro una delle più longeve e durature. Dai primissimi anni Ottanta il cantore inglese intreccia torbide
ballate folk e umori da desolante scenario post-industriale, amalgamando gli elementi con fascinazioni
pagano-militaristiche e il corredo iconografico per cui
è celebre. Innumerevoli gli episodi secondari, le collaborazioni, le deviazioni dal percorso durante gli anni
di carriera e, dopo l’onesto Rule Of The Thirds di due
anni fa, questo nuovo Peaceful Snow sembra andare
ad iscriversi proprio nella categoria collaterale appena
definita.
Una nuova manciata di brani in cui per la prima volta
viene abbandonata la storica chitarra acustica in favore
di un pianoforte suonato dal musicista slovacco Miro
Snejdr, in cui il piglio mesto ed intimista del Nostro
rimane sostanzialmente immutato. Certo alcuni potrebbero storcere il naso di fronte a questo inaspettato
cambiamento, ma l’idea in sé è lodevole, specialmente
dopo trent’anni di dischi spesso sostanzialmente simili. È piuttosto l’esito prettamente musicale a non convincere a fondo. Le melodie, semplici ma coinvolgenti,
sono da sempre il punto forte della musica dei DIJ, data
anche la sua innegabile scarnezza, e quando mancano
o sono poco efficaci il castello comincia a vacillare.
Esattamente la sensazione che traspare dai tredici episodi: non bastano le corde pizzicate del piano e gli spoken vocals di Douglas a fare di Peaceful Snow un lavoro
solido. Come non basta Lounge Corps, bonus CD allegato alle prime 3000 copie, in cui il pianista ospite rilegge
diversi classici della Morte In Giugno: un esperimento
carino, ma nulla più, che potrà catalizzare l’attenzione
dei soli fanatici del Totenkopf 6.
(6/10)
Andrea Napoli
Demon’s Claws - The Defrosting Of... (In
The Red Records, Dicembre 2010)
Genere: Garage Psych
Hai voglia ad accapigliarti sull’artista più importante
e/o innovativo di questo primo scorcio di secolo, quando in giro ci sono gruppi come Demon’s Claws, gente
che sforna album formidabili ed estranei a qualsiasi
concetto di evoluzione.
Questo, almeno, se li si guarda dal di fuori. A volersi
confrontare con il loro immaginario, o volendo usare
i loro paradigmi (codificati quasi esclusivamente nel
triennio 65-67), quello che avviene con quest’ultimo
album è una vera e propria rivoluzione copernicana.
Jeff Clarke e compagni inoculano quel tanto di acido
lisergico che basta a trasformare il loro garage sferragliante, in una psichedelia scheletrica. Con un meccanismo analogo a quello dei precedenti lavori, i brani
vengono scarnificati nella loro essenzialità e i meccanismi del rumore messi allo scoperto da una produzione
impietosa.
La novità sta nel fatto che questo procedimento è oggi
al servizio di composizioni meno convulse, in cui le
melodie trovano sbocco fra i detriti elettrici, gli spazi
vengono riempiti da riverberi lunari e le sonorità rese
meno ostiche da una registrazione, per una volta, degna di tal nome. Il risultato non è poi così lontano da
quanto ottenuto recentemente dai Fresh & Onlys,
sebbene l’approccio dei Claws sia più ortodosso e filologico.
Il blues atmosferico di Trip To The Clinic e il folk drogato di Anny Lou sono una versione ai raggi X della psichedelia texana dei 13th Floor Elavator; le ritmiche
elementari di Fed From Her Hand incontrano al minimo
comune denominatore tutte le band dimenticate dei
vari Pebbles e Back From The Grave. Nel finale, la ballad
Weird Ways sfodera un basso tondo e chitarre liquide
inedite per il combo canadese.
Lungi da rappresentare il suono del millennio in corso,
quello dei Claws è materia viva e pulsante: quanto basta a tenere inchiodati all’ascolto dal primo all’ultimo
minuto e a fare di Defrosting il pinnacolo della loro
esigua ma sfolgorante discografia.
(7/10)
Diego Ballani
Denise - Dodo, do! (Al-Kemi Records,
Ottobre 2010)
Genere: folk-pop
Più primaverile che zuccheroso, più incantato che infantile, l’esordio sulla lunga distanza di Denise Galdo
conferma quanto ascoltato nei due ep degli scorsi anni
e in una manciata di altre apparizioni sparse. La ragazza salernitana ama un immaginario bambino ed onirico, fatto di dolcezze e luccichii, di cui la voce da elfo seduto su una nuvola è diretta conseguenza, un timbro
che potrà piacere o meno ma che è caratteristica determinante (e dunque anche deterrente). La produzione
di Gianni Maroccolo per Al-kemi Lab raffina allora le
influenze note, che vanno dai Múm ad Emiliana Torrini, sbirciando da lontano Björk e Joanna Newsom,
mentre il folk-pop di Denise viene rivestito soprattutto
di corde acustiche (chitarra ma anche violino e ukulele)
con qualche importante intervento elettrico ad emanare bagliori (la chitarra di Lorenzo Corti su Ageless).
Traccia dopo traccia non mancano episodi notevolmente emozionali (Flowers in the drawer, Sunny Lovers
con referenza Bacharach), da metà in poi però Dodo,
do! risulta leggermente monocorde, sempre soleggiato, sempre gentile. E’ probabile che un pizzico di
sangue in più non avrebbe guastato, così scelte d’arrangiamento maggiormente multiformi. Si veda il pianovoce finale di Diamond, una possibilità da crooner al
femminile che andava perseguita anche altrove e che
potrebbe essere un innesto rafforzante per il futuro.
(6.3/10)
Luca Barachetti
Dimartino - Cara maestra abbiamo perso
(Pippolamusic, Novembre 2010)
Genere: indie pop
Pippola Music continua la sua opera di diffusione della
buona canzone italica con l’esordio di Antonio Dimartino, palermitano per l’occasione prodotto da Cesare
Basile, nome quasi sorprendente visto il contesto. Dimartino recupera infatti il pop nostrano dei Settanta
e Ottanta nella sua accezione più obliqua dando legittimità alle citazioni di Lucio Dalla, Rino Gaetano e
Franco Fanigliulo della cartella stampa e con citazionismi da tutta la storia del nostro cantautorato un po’
ovunque.
C’è Gaetano nel drumming irruento alla Arcade Fire di
Cercasi anima e c’è Dalla in Ho sparato a Vinicio Capossela, ballad morbida scontornata d’organo con punte
di sarcasmo comuni al compagno d’etichetta Brunori Sas. Ma Dimartino sa anche verseggiare punk-rock
in Cara maestra e accodarsi agli ultimi Mariposa in La
lavagna sporca, dove il riferimento ai bolognesi non è
dato solo dalla presenza di Alessandro Fiori alla voce
e di Enrico Gabrielli.
Altrove l’ospitata de Le Luci della Centrale Elettrica, con nuovo ritorno dalliano (Parto), è forse l’esempio migliore di un disco piacevole ma affaticato dalla
53
mancanza di una direzione precisa su cui innestare una
scrittura dalle ottime potenzialità (Marzo ‘48). Questione che torna nelle liriche, ennesima narrazione con discreto disincanto del no future odierno. D’altra parte se
cantare (con Basile) La ballata della moda di Tenco ha
ancora senso allora diamo ragione al titolo: abbiamo
perso, e da tempo.
(6.7/10)
Luca Barachetti
dios - We Are Dios (Buddyhead Records,
Giugno 2010)
Genere: pop-psych
Sembra facile, fare un disco così. Nascere a Hawthorne,
ricordare, riagganciare magistralmente ma con leggerezza i Beach Boys. I californiani dios partono di certo
da qui: fanno pop songs euforiche e lievemente psichedeliche, usano delle penne che tratteggiano solo
parole e disegni spesi bene, arrangiano divertendosi e
mantenendo la sostanziale supremazia della melodia,
quella vocale, che li accomuna tanto ai Flaming Lips
quanto ai migliori Blur (Ojay), così come alle varie british invasion.
Ma che la band dei fratelli Joel e Kevin Morales fosse
in grado di scrivere canzoni già era fatto noto, almeno
dall’esordio self-titled - strombazzato da Pitchfork - e
dalla questione legale successiva con Ronnie James
Dio, che li costrinse (fino a cause di forza maggiori, la
morte di quest’ultimo) a cambiare nome in dios (malos).
We Are Dios è una conferma della nonchalance con
cui i dios riescono a essere inequivocabilmente indie,
leggeri e frizzanti, mai banali, e scientifici a entrare
nei neuroni - quelli più scanzonati - e convincerci a fischiettare e a riascoltare il motivo killer. Dietro a tutto
questo, c’è una sicumera nella proposta, che non invecchia e anzi viene rinfrancata da esperienze vicine e
lontane (gli Akron/Family in Tell Me Thing) e riprende
un discorso interrotto cinque anni fa, con il sostegno
odierno della sgamata Buddyhead.
Esemplari e divertentissimi l’articolazione e il gioco di
temi (lievi, ma furbi) di I Don’t Wanna Marry You, pregevole nell’esplorare tutte le possibilità di ritmo, atmosfere e cuciture arrangiative che possono essere prese
a fronte di un’invenzione tematica “semplice” nella cosiddetta musica popolare. Niente di strabiliante, tutto
di guadagnato nella freschezza dell’ascolto; qui sta
l’esempio e la metonimia, e il motivo per cui recuperare
sul finire del 2010 un buon frutto dell’annata.
(7.3/10)
Gaspare Caliri
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Eighties Matchbox B-line Disaster - Blood
And Fire (Black Records, Novembre 2010)
Genere: Punk, dark
Mentre a Southend-on-Sea una scena di nuovi e creativi darkettoni doveva ancora fiorire (The Horrors, These
New Puritans, The Violets, Neils Children), nella ricca e
ridente Brighton di mod-iana memoria, giusto qualche
anno prima, si aggiravano codesti stilosi ragazzotti, forti di un solido punk rock innestato horror punk e psychobilly, che ne precorrevano, di fatto, le mosse.
Due album tra il 2002 e il 2004, tonnellate di aperture
per altre band britanniche e internazionali, proverbiali cambi di formazione e, infine il classico stallo con i
due chitarristi (Andy Huxley e Rich Fownes) a mollare la
nave fanno precipitare il resto della band in una spirale
di droghe e party (tanto più che Fownes se ne va per i
Nine Inch Nails...). Ne sono usciti soltanto ora, un lustro
dopo, con questo Blood & Fire, un album che li ritrova
affamati, ancora sanguinanti, eppure con il giusto nerbo per ristabilire il karma.
Nel 2010, gli EMBLD rappresentano una versione noelectronics dei Klaxons rivisti dall’angolazione cingolata di act come Killing Joke. Suonano un po’ cyber
(quasi) senza tastiere in pratica, e possiedono un frontman carismatico come Guy McKnight che, tra glamdark à la Bauhaus, certe prose medievaliste del metal
e aggiornamenti indie ’00, si muove piuttosto bene
senza scimmiottare pedissequo gli abusati stereotipi.
Molto buona, infine, la nuova sezione ritmica.
Anni di live act hanno ripagato, così come la discreta
varietà di stili, tempi e modalità d’esecuzione compressi nella breve ed efficace scaletta sono il perfetto tornaconto di come si possa condensare anche cose lontane
come i Guns’n’Roses più coriacei (Man For All Seasons),
il grunge plumbeo degli Screaming Trees in combutta Aerosmith (Dont Ask me To Love You) e dei Maxïmo
park (Homemade) cadaverici.
Ascoltate, infine, il tiro Scratch Acid/Horrors di una
Monsieur Cutts: così vorrei sentir suonare Il Teatro Degli Orrori ogni tanto. Unica pecca: dopo tutto questo
tempo avrebbero potuto pensarsi più in grande. Ora, a
livello di formula, sembrano degli esordienti promettenti.
(7/10)
Edoardo Bridda
Ettore Giuradei - La Repubblica Del Sole
(Novunque, Novembre 2010)
Genere: songwriting
“La Repubblica del Sole ci sarà per forza. Scomparirà
la vergogna e la vita scoprirà finalmente il suo senso di
highlight
Iron & Wine - Kiss Each Other Clean (4AD, Gennaio 2011)
Genere: avant folk
Ci ha pensato quasi quattro anni Sam Beam per dare un seguito al bellissimo Shepard’s Dog, e non lo
biasimiamo. Quando si azzecca così bene il fatidico terzo album, il gioco si fa duro. Coefficiente di difficoltà: altissimo. Come le probabilità di deludere. Ma il cantautore texano non sembra tipo da perdere la
bussola per certe piccolezze. C’è un sentiero da percorrere, in compagnia
di canzoni calde e sbrigliate, di folk che s’impastano di blues, di jazz, di
pulsazioni etno. Perché il mondo ci è dato in prestito tutto intero e una
trepidazione non sa - o serenamente se ne fotte dei - confini. La naturalezza è il segreto: una tradizione reinventata e credibile, come se accanto al
front porch ci fosse sempre stata un’accolita black fornita di ammennicoli
tribali - flauti atavici e percussioni a spalleggiare clavinet e sax - e ce ne
accorgessimo solo adesso.
Metabolizzati i moventi primari Will Oldham e Calexico, gli Iron & Wine
sono oggi una sintesi nuova e particolare, celebrano affinità e convergenze di coordinate musicali dalla psichedelia bucolica di David Crosby all’avanguardia serica dei Beach Boys, dal sincretismo dinoccolato Steely Dan all’errebì mercuriale di Stevie Wonder, sfiorando le intuizioni paniche di David
Byrne, l’estro ecumenico di Sufjan Stevens e certe retronostalgie blues dei migliori Gomez - che la
sensibilità di Beam fonde in una prospettiva lucida, visionaria e accogliente. Stemperata la mistura,
l’espressione esce calda e fluente, accesa e in qualche modo necessaria. Come può essere necessario
un raccontare capace di fare perno su se stesso, il punto d’appoggio su cui sai di poter contare.
Se Shepard’s Dog vantava una scrittura più intensa, Kiss Each Other Clean ha il merito di guadagnare
agli Iron & Wine il livello espressivo successivo. Se quello era un capolavoro, questo è una conferma che
non si siede sugli allori.
(7.6/10)
Stefano Solventi
gioco, d’assoluta perdizione nel piacere del pensiero e
dell’azione”. Ettore Giuradei arriva al traguardo del terzo album, presentato dal brano omonimo e qui commentato dall’autore bresciano. Un video eloquente accompagna questo singolo, in cui si omaggiano alcune
delle figure italiane (e non solo) culturalmente più rappresentative, da Pier Paolo Pasolini a Giorgio Gaber,
da Federico Fellini a Rino Gaetano, auspicando una
possibile rinascita.
Con La Repubblica Del Sole Giuradei torna a graffiare
alla sua maniera, raccontando come sempre la vita di
provincia con i suoi manierismi e tic, e riempiendo di
sarcasmo le sue canzoni. È questo un album più narrativo del solito, con un clima musicale da songwriter
piuttosto che da teatrante quale l’avevamo conosciuto
sin qua. La sua cifra stilistica resta intatta e le canzoni
acquistano ancora maggiore forza espressiva, sintomo
di una raggiunta maturità, di chi ormai somiglia solo a
se stesso.
Realizzato con la consueta collaborazione del fratello
Marco, l’album mantiene la vena surreale e onirica del
Nostro, che qui si fa più esplicita e viscerale. Un gran
bel ritorno.
(7.2/10)
Teresa Greco
Everybody Tesla - Self Titled (On2Sides,
Dicembre 2010)
Genere: elettronica
Il duemiladieci sarà ricordato come l’anno dei sardi.
Colpa del “botto” di Jacopo Incani con il suo progetto
di cantautorato sintetico Iosonouncane ma anche di
questi Everybody Tesla, che del “cane” sono pure compaesani. Oltre che affezionati cultori dello stesso immaginario, quello che fa capo ai vari Kaoss Pad, Microkorg,
SP404 e MPC 500. Loop stations e drum machines, insomma, con cui incrociare suoni e traiettorie, campionare e decontestualizzare spunti rumorosi, generare
nuova materia musicale grazie a tastiere giocattolo,
kazoo, Game Boy, ukulele e una miriade di altri stru55
menti. Alessio Atzori e Dario Licciardi tengono bene
a mente la lezione di Fuck Buttons, Animal Collective, Silver Apples, Black Dice e po’ di tutta quell’elettronica psichedelica che fa del collage schizoide una
ragion d’essere, arrangiandola nelle atmosfere sognanti di Sleep Here, nelle batterie acide di Be Twin Mountain,
nel funk “castigafannulloni” di Federico ha ragione e nei
Bran Van 3000 sotto LSD di Narvali. “In ultima analisi
consideriamo la psichedelia come l’ala “coraggiosa” del
pop”, ci dicono. “Ci poniamo sempre l’obbiettivo di scrivere qualcosa di nuovo, qualcosa di originale. A volte ci riusciamo, altre volte no. Ma l’importante è che sia sempre
presente un certo spirito di ricerca durante l’elaborazione
dei pezzi.”. Per ora ci basta.
(7.1/10)
Fabrizio Zampighi
Everything Everything - Man Alive
(Geffen, Novembre 2010)
Genere: indiepsychdiscopop
Dicevano gli antichi:”in medio stat virtus”, indicando
con questa locuzione che per ricercare la verità è sempre bene diffidare degli eccessi, sia positivi che negativi. Si tratta di una adagio che si adatta perfettamente
all’accoglienza dell’album di debutto degli Everything
Everything, arrivati su major dopo tre anni in cui si
sono fatti notare grazie a singoli e release minori varie. Alcuni lo hanno reputato una schifezza senza mezzi
termini, altri (anche in Italia) lo hanno incensato come
il pop del futuro. Ecco, la verità probabilmente sta nel
mezzo.
La band di Manchester è la creatura di Jonathan Higgs
che nella sua cameretta ha giocato con tutti gli strumenti, computer e amenità varie che hanno reso famosi nel mondo gli slacker di ogni latitudine. Evidentemente la fantasia di Higgs è più vicina alla bulimia che
alla sana fame di conoscenza musicale, così ogni brano
di Man Alive è un tale miscuglio di generi e suoni da
lasciare esterrefatti.
Ogni brano comincia in un modo, ma è difficile capire
dove andrà a parare, un po’ come se gli Of Montreal
avessero messo un turbo indie-disco travestendosi
da Bee Gees. Ma le influenze sono ancora molte e
ricordano la magniloquenza, anche se non centra
quasi nulla sul fronte musicale, dell’ultimo Sufjan
Stevens.
Se solo Jonathan HIggs capisse quando è il momento
di fermarsi, di chiudere i brani senza esagerare, avremmo di fronte un album di pop ultramoderno e futurista con un graffio che i Futureheads si sognerebbero
la notte. Per il momento Man Alive rimane una buona
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prospettiva per il futuro, ma non è detto che Jonathan
Higgs riesca a guarire dalla sua bulimia.
(6.5/10)
Marco Boscolo
Faun Fables - Light Of A Vaster Dark (Drag
City, Novembre 2010)
Genere: Alternative/Folk
Archiviati il lavoro più noto Family Album e le sperimentazioni della colonna sonora The Transit Rider, il ritorno
del collettivo mutante Faun Fables, cui fa capo essenzialmente il fortunato incontro tra Dawn McCarthy e
Nils Frykdahl, si presenta come una folle commistione
di derive neo-folk. Che, se da un lato non trascurano le
necessarie e ineludibili radici USA, dall’altro non sanno
slegarsi da un profondo sound dai tratti scandinavi e
dell’Europa orientale. Molteplici fascinazioni tra paganesimo e misticismo rendono così Light Of A Vaster Dark
un prodotto sfaccettato e di non facile fruizione ai non
cultori del genere, i quali, ben introdotti nelle sonorità
e nei riferimenti del caso, sapranno invece concepirne
ombre e più o meno riusciti tentativi di distacco.
I Faun Fables sanno infatti quello che fanno: trattano in modo articolato, disinvolto e ricco di sfumature
l’approccio a una strumentazione ottimamente assortita (dall’armonica agli archi...) e a strutture folk capaci
di sperimentare senza trascurare le tradizioni, pregio
che in parte deriva dalle numerose collaborazioni maturate nel tempo, su tutte quella con l’ultima Will Oldham. Accanto a inattesi momenti d’avanguardia come
Parade e la sinfonica Housekeeper, i suoni affondano le
proprie radici in una ben celata classicità folk, abile tavolta nel contaminarsi con ritmiche che guardano al
nuovo (Violet; la visionaria, archetipica Sweeping Spell.
Non sfuggiranno la perizia e la cura nella produzione
del disco, dal quale emergono un’ottima capacità di
concepire e strutturare le composizioni senza trascurare i particolari e la stratificazione sonora che rappresentano la cifra espressiva della band. Un buon lavoro
per cultori, in definitiva, che non strizza l’occhio a enfasi modaiole.
(6.2/10)
Giulia Cavaliere
Flying Lotus - Pattern+Grid World (Warp
Records, Settembre 2010)
Genere: wonkygame
Dovremmo un po’ tutti (musicisti, etichette, ascoltatori,
giornalisti) ricalibrare il nostro interesse verso il formato breve. Steven ha marchiato a fuoco il 2010 con un
album importante e ingombrante come Cosmogram-
ma, ma non è capace di starsene fermo un secondo,
non si accontenta mai (e menomale) e lo dimostra
ancora una volta con questo EP tardo-estivo, una delle sue prove migliori di sempre, bignami now del suo
mondo e piccolo passo avanti nelle sue ricerche. Per di
più, graziato dal perfetto bilanciamento tra sperimentazione e godibilità immediata.
Pattern+Grid World è il rovescio di Cosmogramma:
asciutto diretto conciso. Steven abbandona quella
jam-o-rama esagerata e torna a scrivere piccole canzoni elettroniche, concentrandosi non solo sui suoni ma
anche sulle melodie. Parola chiave incisività in un carosello wonky tutto gommine tastierine computerini figli
naturali della Nintendo e di Squarepusher (l’uptempo Kill Your Co-Workers, le contorsioni di PieFace). C’è il
wonky sinestetico e scuro di Los Angeles (Time Vampires), ci sono la percussività (la dispari Jurassic Notion/M
Theory), la fusion suonato/prodotto e le tastiere elettriche in odor di prog Settanta (Clay) di Cosmogramma.
C’è anche una nuova fortissima sensibilità melodica,
colorata e giocosa come forse non accadeva dai tempi
dei bumps per Adult Swim o dei cd-r di inizio carriera,
sensibilità che diresti pop (l’orientaleggiante Camera
Day) e che è capace di farsi così spinta e aggressiva da
trasformarsi addirittura in un assalto nu-rave (Physics
For Everyone!). Goduria.
(7.4/10)
Gabriele Marino
Gang Of Four - Content (Yep Roc, Gennaio
2011)
Genere: gangoffour
Abbiamo sviscerato altrove il contesto del ritorno su disco dei Gang Of Four, esplicitando anche alcuni nondetti importanti (la qualità della discografia post-Solid
Gold, i debiti non saldati degli alfieri post-punk teen Zerozero). E non nutrendo alcuna particolare aspettativa,
Content non si può neppure definire una delusione.
La sensazione di stanchezza, di fiacca, è forte, evidente,
esposta in primo piano: ben più del rullante schiaffeggiato da Mark Heaney (batterista asciutto, iper-tecnico,
godibilissimo) in una produzione essenziale e scoppiettamente dal suono supercompresso e iperrealista.
Ecco, il suono - che ad alcuni potrebbe non piacere perché effettivamente “troppo chiuso” - è una perfetta sintesi di domestico e industriale, a metà tra il montaggio
home recording e il lavorìo di studio su lunghi banchi
mixer. Il resto però non c’è. Mancano le canzoni (ma ci è
piaciuta particolarmente la ballad tutta sincopi di basso, voce inaspettatamente affusolata e schizzini di chitarra A Fruitfly In The Beehive), i pezzi tutti appiattiti su
una retroguardia post-punk/funk di mestiere ma mai
davvero impeccabile. Dicevamo della fiacca e, su tutti i
buoni cliché della band (chitarra grattugia o con effettistiche noisy, ritmiche a tratti marziali, intrecci vocali e
cantato monocorde-salmodiante, colpi di rimshot reggae), si impongono all’orecchio le novità e le storture,
soprattutto sul versante Jon King, da quelle stonature
che più che di stile sono proprio stecche, a certi falsetti
Ottanta esagerati (e mal controllati), a certi filtri come
l’autotune applicato al desert rock di I Was Never Gonna Turn Out Too Good. Ma ancora più dei dettagli, vince - facendo perdere - quel generico retrogusto come
di “U2 iper-muscolari” che resta nelle orecchie a fine
ascolto (retrogusto che, ruotando di almeno 180 gradi
la boccia di neve, intrigava invece in alcuni pezzi epici
degli ultimissimi Chemical Brothers). L’edizione speciale limitata è racchiusa in una scatoletta di metallo tipo
scatola di sardine...
(4.5/10)
Gabriele Marino
Gerardo Attanasio - Vivere lento
(Autoprodotto, Dicembre 2009)
Genere: canzone d’autore
Cantautore tradizionale non troppo smosso dai soliti
riferimenti (De André, De Gregori, Guccini ecc...), Gerardo Attanasio appartiene a quella vasta schiera di
nuovi songwriter che paiono intrappolati in una sorta
di gabbia temporale-espressiva i cui pregi e difetti - i
primi spesso saldamente legati ai secondi - sono arcinoti a tutti. Cura ossessiva delle liriche spesso sconfinante in un atteggiamento solo all’apparenza poetico
e al contrario scarso rilievo della parte musicale, infarcita di didascalie pop-rock prive d’inventiva e imprevisti.
Insistenza su tematiche amorose fotografate da punti
di vista linguisticamente ricorrenti o su tematiche socio-politiche ritrite. Infine poca rilevanza all’elemento
vocale, con interpretazioni senza nerbo e timbri anonimi.
Attanasio, presente nella cinquina degli esordienti
dell’ultimo Tenco, queste caratteristiche le ha quasi
tutte, fra una A colei che è troppo gaia che tira in ballo
senza troppi esiti Baudelaire (mentre altrove, ma con
gli stessi risvolti, è Dino Campana ad esser coinvolto),
fino a una In video veritas che rimastica uno spirito anticatodico certo legittimo ma non nuovo, passando per
una Billy the Kid con compitino folk-rock degregoriano
al seguito.
Tuttavia a salvarlo dal baratro è la consapevolezza, ancora sotterranea ma avvertibile, che è di un rinnovamento dei linguaggi lirici e non solo ad aver bisogno
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highlight
Hanno Leichtmann - The African Twin
Towers Suite (Dekorder, Novembre 2010)
Genere: psych soundtrack
Head Of Wantastiquet - Dead Seas
(Conspiracy Records, Novembre 2010)
Genere: weird-folk
Dismette temporaneamente i panni di componente
del collettivo Sunburned Hand Of The Man, Paul Labrecque, e riesuma il suo alter ego in solitaria col quale
aveva incantato un paio di anni addietro nell’esordio
ufficiale Mortagne.
Da poco trasferitosi in Belgio, nuovo e indiscusso eldorado delle musiche off, Labrecque a.k.a. Head Of Wantastiquet non si allontana dalle lande sonore della
casa madre e si muove in splendida solitudine sui terreni scoscesi e avventurosi di una nuova e rinvigorita
weird america. Primitivista e in totale comunione con
la natura, spirituale e fatata, a volte quasi posseduta dai
demoni delle foreste, la musica che esce dalle poche
corde toccate dal musicista americano è quanto di più
toccante ascoltato negli ultimi anni.
Inni psichedelici per solo banjo, space-folk dai toni apocalittici e crepuscolari, chitarrismo psych riverberato e
ipnotico sono di volta in volta gli strumenti usati dalla
mano di Labrecque: una mano e una sensibilità sincere
e sentite, mosse in una sorta di preghiera rituale alla
grandezza della natura che lo porta a dedicare l’album
alla memoria di Jack Rose e a immortalarsi in copertina mentre celebra un panico funerale per un albero
secolare abbattuto. Se ci si chiede cosa ne è della weird
America più intima e solitaria, in Dead Seas si troverà
una ottima risposta.
(7.3/10)
dola di un package tutto nuovo. A testimonianza il dub
della title-track, il Robyn Hitchcock in sbornia lisergica
di Enter Any Question o di B.J. Core, gli Arcade Fire di
Liza Show, gli Ottanta sintetici via Soft Boys di Rifles o i
Clash stile Rock The Casbah di Monochrome Elvis. Brani
che hanno l’indiscutibile pregio di sviluppare inedite
devianze verso il crooning Eighties più contaminato,
pur mantenendo una coerenza e una riconoscibilità di
fondo.
Se buona parte del merito è da ricondurre all’ottimo lavoro in fase di arrangiamento e produzione del decano
Giovanni Ferrario, il resto è da ascrivere a una scrittura - spesso responsabilità diretta dell’altra metà del
progetto, Andrea Fusari - che guadagna in elasticità e
credibilità ascolto dopo ascolto. Posizionandosi qualche passo in avanti rispetto a un esordio ugualmente
efficace ma decisamente meno personale.
(7.2/10)
Fino al 2005 Hanno Leichtmann si era fatto conoscere come Static e la sua era un’arte -tronica che poteva
essere declinarsi tanto nell’indie targato Morr quanto nell’electro di scuola Tarwater e To Rococo Rot. Il
progetto condivideva con questi ultimi un gusto propriamente germanico d’unire l’elettronico al suonato,
il pop urbano al folk campestre. Ma le capacità e i gusti
del compositore tedesco, come del resto quelli di tutta questa generazione “elettronica”, non si limitavano
certo qui.
Un anno dopo Re: Talking About Memories, ultimo album degli Static fino ad allora, Hanno stava lavorando al proprio esordio solista Nuit Du Plomb quando
il regista tedesco Christoph Schlingensief gli chiede di
musicare The African Twintowers, il suo ultimo film. Il
lungometraggio, girato in Lüderitz/Namibia dodici
mesi prima, era un trip psichedelico in piena regola
nello stile dei vecchi film hippie degli anni ’60, recitato
come attori protagonisti da Irm Hermann, Klaus Beyer,
Robert Stadlober e Patti Smith.
Al musicista Schlingensief commissiona l’equivalente
sonoro di quell’esperienza. Hanno si cimenta calandosi
esattamente nel modo in cui si sarebbe fatto in quegli
anni: dopo aver reclutato John Nijenhuis (Sir Henry) e
un non ben precisato trio di musicisti (alle tabla, sitar,
tampura), Leichtmann, con le immagini del film proiettate sul muro in loop, si chiude in studio per quattro
giorni e quattro notti e partorisce un viaggio ethnopsych virato sepia di sedici brevi tracce che, senza informazioni alla mano, ora potrebbero tranquillamente
passare per un album Ghost Box.
Se, all’epoca, sfortuna volle che il regista trasformò il
film in un’installazione per 18 monitor, con il pochissimo audio in secondo piano, oggi la lost soundtrack rivive attraverso la presente pubblicazione su Dekorder,
che comprende una selezione rieditata e rielaborata
delle registrazioni originali.
Più per i fan di Investigate Witch Cults Of The Radio Age
che per quelli appassionati ai lavori solisti di Stefan
Schneider a nome Mapstation (The Africa Chamber) o
all’estetica pulita e chic dei Lippok, The African Twin Towers Suite è un oscuro collage psych che a tratti ricorda
(nei dialoghi) il surrealismo dei primi Monty Python, ma
anche certe wave oscure di fine Settanta (vedi alla voce
falsi etnomusicologici à la Residents). Non imprescindibile ma decisamente affascinante (anche nei difetti).
(6.8/10)
Fabrizio Zampighi
Edoardo Bridda
John Vanderslice - White Wilderness (Dead Oceans, Gennaio 2011)
Genere: chamber pop
Bisognerebbe lasciarle ai padri padroni della farsa che la gente ancora chiama “gioco del calcio”, la fretta di arrivare e l’ansia di risultato. Così che almeno gli artisti possano ancora, in questo povero mondo
affondato dalla voglia di appagamento immediato, trovare e soprattutto volere il tempo per crescere.
Finora, di fatto, John Vanderslice aveva “soltanto” accennato doti e potenzialità innegabili lungo sette
album, quale più e quale meno ispirati a modelli autoriali da spezzar le
ossa a pressoché chiunque. Saliscendi non privi di pregi in cui Magnetic
Fields, Eels e Stuart Murdoch indicavano un altro americano con Albione nel cuore, pieno di buoni propositi epperò irrisolto e in cerca di personalità.
Che diresti infine giunta in queste nove tracce, allestite in collaborazione
con la ventina di membri dalla Magik*Magik Orchestra e costruite attorno a un pianoforte in ascendere melanconico, a qualcosa che rammenta
un Eric Matthews di nuovo brillante giunto a scacciare i demoni di Elliot
Smith. Senza tralasciare arguzie e improvvise incursioni in un dopo-folk urbano senza pretese di algido
intellettualismo, come il rimanente arrangiate e condotte da Minna Choi in quel di San Francisco sotto
la supervisione di un John Congleton per una volta misurato.
Mezz’ora che scorre in un battito di ciglia e trasmette calore nello spirito e dove una Sea Salt d’imperiosa, mossa drammaticità anni ’50 e il sensazionale commiato 20K (una Pyramid Song ridotta all’osso e
illeggiadrita, nientemeno) sigillano esuberanza sposata a complessità (Convict Lake, The Piano Lesson),
umori meditativi (English Vines, White Wilderness) e un ragionar d’esistenza in buccia di canzone (Alemany Gap, After It Ends). Desidereresti indagare i perché e i percome di siffatta uscita dal bozzolo, non
sorgesse il sospetto che, a volerla spiegare ad ogni costo, la magia potrebbe svanire. Non sia mai, con
la fatica fatta per raggiungerla.
(7.6/10)
Giancarlo Turra
la sua musica come quella di altri colleghi. Altrimenti
non si spiegherebbe la chiusa, bella ma soprattutto
inaspettata, con l’eterea e liberatoria Il tuffatore avventato. Non un capolavoro ma un segnale importante, a
cui speriamo verrà dato un seguito.
(6.2/10)
Luca Barachetti
GuruBanana - Karmasoda (Shyrec
Records, Gennaio 2010)
Genere: rock-psichedelia
I GuruBanana riescono nell’arduo compito di suonare
identici a sé stessi e al tempo stesso profondamente
diversi. Ci eravamo preparati a una copia dell’omonimo
esordio - ottimo esempio di rock velvettiano, vintage
nella concezione ma creativo nella sostanza - e invece
con Karmasoda ci troviamo di fronte a un disco che
rimescola ulteriormente le carte. Riprendendo la solita
terna Bowie/Reed/Stones (Unscheduled) e rivesten58
Stefano Pifferi
Horsepower Productions - Quest for the
Sonic Bounty (Tempa, Novembre 2010)
Genere: dubstep
Se andate su wikipedia e vi studiate la tecnicissima
scheda sul 2 step in inglese, noterete che per spiegare alla gente cosa si intende per un more experimental
2-step rhythm gli autori riportano il frammento di una
traccia, uscita nel 2000 su Tempa e poi raccolta nell’album In Fine Style due anni più tardi. Si chiama Gordon
Sound ed è un pezzo, a dir poco, fondamentale: triangola almeno tre elementi come il garage, il ragga e il
sub-bass, con quest’ultimo a far da spola con la tradizione tremula del bleep’n’bass primi Novanta, ma anche con la futura cricca di Croydon.
Più di qualcuno ha visto negli Horsepower i veri padri
dei canoni elettronici prediletti degli anni zero, ed è un
fatto che i loro dischi giravano sia negli zaini di Skream
quanto in quelli di Loefah e nei circuiti che daranno origine al grime. Rispetto alle future scuole, nel sound di
59
highlight
I Was A King - Old Friends (Sounds
Familyre, Gennaio 2011)
Genere: 60s rock/pop
Wooden Wand - Death Seat (Young God, Dicembre 2010)
Genere: country-folk
Davvero difficile tenere dietro a James Toth, il songwriter del Kentuky che dal 2004 si è fatto conoscere
come Wooden Wand and The Vanishing Voice. Qui la seconda parte del nome è definitivamente caduta, ma nel 2007 aveva già annunciato che non avrebbe più usato alcuna sigla, per cui aspettiamoci
ulteriori cambiamenti. Quello che, invece, non cambia nel corso degli anni
è l’incapacità di stare fermo: in sette anni di attività discografica ufficiale,
gli album (se abbiamo contato bene) sono una decina, ma se ci mettiamo
anche i CD-R e i vinili di diversi formati, perdiamo facilmente la bussola.
Altro pilastro inamovibile della produzione di Toth è la qualità media dei
suoi lavori: tutti sopra la media e c’è da chiedersi che cosa sarebbe in grado
di fare se si fermasse un attimo e scremasse ulteriormente. Forse sarebbe la
morte della sua creatività, perché crediamo che molto del suo folk/country
polveroso e sanguigno sia da ricercarsi nella tradizione girovaga dei musicisti che hanno guardato al Midwest americano come la fonte di un’epica e di un’estetica, di tutti
quelli che non sapevano stare fermi. Nelle note stampa vengono chiamati semplicemente per nome:
Willie (Nelson), Waylon (Jennings), Merle (Haggard), Hank (Williams). Tutta gente nata tra gli anni Venti
e Trenta. Gli anni della Grande Depressione, delle migrazioni interne verso la California cantate nelle
Dust Bowl Ballads di un altro gigante come Woody Guthrie.
Per questo Death Seat, Toth ha messo insieme dodici brani tra i migliori della sua carriera, coadiuvato
dall’attenta produzione di Michael Gira e da uno stuolo di amici che comprendono membri dei Lambchop, dei Silver Jews, dei Mercury Rev e altri. In comune: gli orizzonti senza confini delle praterie e
il deserto. Difficile scegliere tra i brani: tra il ritratto movimentato di Bobby e il Bob Dylan da giovane di
The Mountain, la tradizione di Servant To Blues o l’intimismo di Tiny Confessions. Tutte potrebbero essere
state scritte in qualsiasi epoca.
(7.3/10)
Marco Boscolo
Gordon dominava ancora lo spirito dei Novanta al tempo del 2 step e non quel tipico odor di tombini, smog
e zolfo che sentiremo in Terror Danjah e Shackleton.
Di più, le citazioni cinematografiche (sci-fi, timbriche
etno) tipiche delle loro production, conducevano
l’ascoltatore nelle metafore londinesi dell’evasione (la
solita Ibiza) più che nelle desolanti vie urbane di Benga, Burial e Skream.
Il sub bass però, aveva un peso specifico determinate.
Specie quello contenuto nelle B side dove la crew spogliava letteralmente il proprio sound enfatizzandone
le asprezze e, appunto, il giochi d’angolo del Sound
System.
Oggi a sei anni di distanza dallo scioglimento, Benny
Ill si presenta con un nuovo collega, Jay King (ma anche con Matt HP, Nassis, Loefah e Orson) e ci consegna
l’album che avrebbe dovuto recapitare allora, e siamo
sicuri che questi pensieri devono essergli sfiorati, oltre
a rappresentare la cornice imprescindibile per inqua60
drare criticamente quest’album: godrà di momenti
dark experimental, eppure è così miope nel recapitare
ai posteri quegli stessi scintillii garage che dieci anni fa
ne fecero un combo 2 step evoluto e oggi, in epoca di
ripescaggi pop/soul (Mount Kimbie e James Blake),
avrebbero potuto portarlo oltre, nel futuro, e non nella
maniera del dubstep perpetuata qui.
Sul buon artigianato etno degli Horsepower 2010 fatevi un bel parallelo con lo Shackleton del Fabric 55, come
pure quello con la techno dello Scuba di Triangulation.
Non c’è partita con loro. Ce n’è nel quadro più generale
delle produzioni del genere dove è paragonabile, per
certi versi, all’ultimo Scorn.
(6.7/10)
Edoardo Bridda
Nel sempre vivo filone del rock/pop nostalgico di un
decennio dorato come gli anni Sessanta si inseriscono
anche gli I Was A King dalla Norvegia, paese da cui
provengono anche i Jessica Fletchers, nostalgici pure
loro. Per gli I Was A King si tratta della seconda prova, a
distanza di un anno dal precedente Losing Somenthing
Good for Something Better, nel quale cercano di sfruttare la spinta positiva ricevuta dalle testate soprattutto
inglesi.
Per raggiungere lo scopo, la band si è spostata a New
York per registrare al Marlborough Farms di Brooklyn e
ha potuto così contare su una serie di amici dai nomi
importanti che sono passati a dare il proprio contributo al disco: Sufjan Stevens, Gary Olson (Ladygub
Transistor) ed Emil Nikolaisen (Serena Maneesh). Il risultato di questo vai e vieni dallo studio, pur senza eccessi picchi negativi, è un disco disomogeneo e meno
personale rispetto all’esordio. Ci sono gli echi continui
della stagione musicale preferita dai norvegesi, sebbene l’apertura del disco sia affidata a un tiro rock quasi
nu-wave.
Ma è solo un’impressione passeggera e il resto del programma si snoda nei classici territori Sixties: un po’ di
sani Beatles (Unreal, Snow Song), i R.E.M. più retrò di
Shining Happy People (Forgive and Forget), i Big Star
(Wylde Boys). Della combriccola hanno fatto parte anche un compositore di classica moderna come Joshua
Stamper e il batterista jazz Kevin Shea. Non si sa in cosa
sia consistito il loro contributo, avendo Old Friends tutte le stigma del nostalgic pop più classico e meno d’azzardo che si possa immaginare. Stramberie dei norvegesi, probabilmente.
(6.3/10)
Marco Boscolo
Ike Yard - Nord (Desire, Luglio 2010)
Genere: minimal / post-punk
Gli Ike Yard approdano nel nuovo millennio. Vecchie
conoscenze di una new wave oscura e minimale, i nostri si ripresentano sulle scene con questo nuovo disco
a quasi trent’anni da quella piccola gemma che fu Untitled (conosciuto anche come A Fact A Second), mistura
post-punk/proto-techno dal groove ridondante e ossessivo, che rimane l’unico full-length dato alle stampe
prima dello scioglimento datato 1983. Da lì in poi solo
una raccolta di successi e inediti nel 2006 (1980-1982
Collected), e adesso questo Nord, con cui gli Ike si propongono al pubblico praticamente nella formazione
originaria (eccezion fatta per la defezione di Fred Szymanki).
La continuità di identità in questo caso è anche garanzia dal punto di vista musicale, che cambia la forma ma non la sostanza del proprio essere, vale a dire
un’elettronica poliritmica, fredda, che spesso recupera
l’eredità lasciata dal sopracitato Untitled. E’ il caso della
cavalcata Orange Tom di piena ispirazione Suicide o di Oshima Cassette, brano tessuto da una linea di basso
ipnotica ad incastro con la batteria digitale, in cui si innesta la voce strascicata di Stuart Argabright che sembra fare il verso a Ian Curtis.
Ad ampliarsi dunque è il panorama, che diventa più
variegato, fatto di derive dubstep sapientemente rielaborate come nell’iniziale Traffikers, in Mirai (cover di
un brano dei giapponesi Back Horn capace di avvicinare i Massive Attack ad un clima post-apocalittico alla
Vex’d) o Beautifully Terribly, che accenna anche ad un
tiepido calore emotivo. Poi un paio di episodi avantfolk, come l’elettroacustica percussiva diShimmer e
Metallic Blank, che alla tipica struttura voce-chitarra
sovrappone un basso elettrico pieno di riverberi, elementi drone, echi vocali orientaleggianti.
Un disco ibrido quindi, che non guarda troppo avanti ma piuttosto si impegna a riattualizzare il proprio
sound costruendo un ponte tra passato e presente, tra
le radici electro-post-punk e le ultime tendenze made
in London. E se il risultato finale non passerà agli annali, sicuramente rimane un buon viatico per la resurrezione della band.
(7/10)
Stefano Gaz
Kinzli & The Kilowatts - Down Up Down
(Polkadot, Dicembre 2010)
Genere: folk
Bel personaggio, Kinzli Coffman: origini coreane, è
cresciuta in adozione nel Colorado e da un po’ ha preso
domicilio stabile in quel di Londra, dove al folk alterna l’insegnamento a tempo pieno della matematica.
Da qui invia la replica all’esordio del 2007 Going Just To
Be Going tramite un pugno di brani in origine pensati
come demo e poi sviluppati dagli amici kiloWatts con
l’aiuto del produttore Gigi Piscitelli. Alla luce della biografia ne deriva una canzone d’impianto folk-rock matura e consapevole, fatta di pensieri e parole che mai
cadono nel comizio pur affrontando tematiche che
anni fa avremmo definito “impegnate”.
La musica si accoda avvicendando delicatezze (la desertica Distant Shore e un’accorata Watery Air) a episodi più accesi ed elaborati (We Walk For Peace; il piano e
61
i cambi di passo in I Read Your Letter; la malinconica innodia di Safe Place For Us) senza scordare per strada le
sfumature nel mezzo, evitando ad eccezione di qualche leggera ruffianata che le buone maniere divengano maniere e basta. Una classicità di piccole cose che
lascia intuire capacità superiori alla media nei sapori mitteleuropei di The Land Of Il e nell’esotica Oahu,
e che con le adeguate spinte potrebbe raccogliere
consensi addirittura più ampi. Con merito, pensando
come l’ultima cosa di cui questo mondo abbia bisogno siano delle novelle Norah Jones o KT Kustall.
(6.8/10)
Giancarlo Turra
LA Vampires/Matrix Metals - So Unreal
(Not Not Fun, Novembre 2010)
Genere: Sunbleach Disco
Dopo il primo e più umbratile capitolo collaborativo con la reginetta del dark-pop Zola Jesus, Amanda
Brown (già Pocahaunted, Topaz Rags e cotenutaria
dell’inarrestabile NNF) torna con un nuovo lavoro a
quattro mani.
Questa volta a dare sostegno all’iperattiva ragazza californiana c’è Matrix Metals, già apprezzato per l’album
Flamingo Breeze e noto anche per i lavori a nome Outer
Limits Recordings. Se in LA Vampires Meets Zola Jesus
le due fanciulle si sfidavano a colpi di cantici spettrali
sul manto di beat sub-hiphop, So Unreal è una centrifuga che inzuppa la disco ammoniacata di Metal Matrix
con le nenie ossessionate della Brown, propagando
l’effetto come di un vinile che giri fuori asse sul piatto.
Sei episodi dilatati e fuori fuoco, sbiaditi come da una
candeggina assunta per endovena ed indelebilmente
persistente.
Si vedano How Would U Know e la title-track con i beat
di scuola Washed Out e il mantra strafatto di Berlin
Baby per capire come Amanda stia superando se stessa. In arrivo a breve anche un nuovo maxi-singolo per
la neonata 100% Silk, label di soli 12 pollici a 45 giri gestita da indovinate chi: proprio lei.
(7.3/10)
Andrea Napoli
ta, grazie a un beat secchissimo, un mare di distorsioni e qualche rimando ai Nirvana di Bleach. Il tutto in
un disco fondamentalmente di genere ma nemmeno
troppo fedele alla linea, assemblato con cognizione
di causa.
Nei dieci strumentali di Dromomania spicca, oltre alla
discreta manualità di fondo del duo, la voglia di non
prendersi troppo sul serio, come dimostrano anche
certi dettagli incoerenti - ad esempio il carrillon posto
in apertura di Il filo di lana - che Angelo Mirolli e Mario
Serrecchia disperdono un po’ ovunque. Segno di una
consapevolezza che rinuncia agli schemi prefissati e al
tempo stesso non vuole prescindere da un percorso di
apprendimento lungo ma costruttivo. Per ora, siamo
sulla sufficienza.
(6.1/10)
Fabrizio Zampighi
Lia Ices - Grown Unknown (Jagjaguwar,
Gennaio 2011)
Genere: Folk, Pop
Allontanandosi un po’ dal pop acustico, con Grown Unknown Lia Ices prende anche vaghe distanze dal mood
à la Cat Power che aveva caratterizzato il precedente
Necima e si avvicina a un sentire etereo simil-Enya. Accentuati gli esotismi e aumentato lo spazio degli archi,
l’album si caratterizza per una spiccata assenza di pezzi
portanti. Nonostante la vocalità precisa della Ices ne
esca confermata, nulla davvero eccelle, ma soprattutto quasi nulla resta ad eccezione di una Little Marriage
prossima alla Sea Of Love cantata da Ms. Chan Mashall.
Niente di nuovo, a pensarci bene, considerando come
anche in Necima sembrasse esserci la sola Many Moons a
reggere le regole base del folk sulle quali la cantautrice
sembra costruire i suoi album. Sospensioni vocali, stacchi e quel pianoforte che troppo spesso pare soltanto
accompagnare i risvolti del cantato finiscono alla lunga
per appesantire l’ascolto senza sostanziarlo. Grown unknown è un lavoro piccolo, ben prodotto ma con buone
probabilità di finire nel dimenticatoio. Anche in quello
dei cultori del genere.
(5.3/10)
Giulia Cavaliere
Le scimmie - Dromomania (Autoprodotto,
Dicembre 2010)
Genere: stoner
I White Stripes che rivangano gli psicodrammi dello
stoner a marca Kyuss, del grunge e dell’hard psichedelico. Le scimmie sono un duo batteria e chitarra
elettrica capace di materializzare in meno di mezz’ora
loschi figuri da deserto californiano primi anni Novan62
Lilies - We Are The Lilies (V2 Music,
Dicembre 2010)
Genere: neo-tropicalia
Così va la vita: la spendi in gioventù da artista di culto;
alla mezz’età ricevi omaggi da Geni tuoi pari e torni sulle scene pieno d’entusiasmo, così che il villaggio globale ti permette di lavorare praticamente con chiunque.
Questa in sintesi la vicenda dei Lilies, ovvero David - a
capo dei francesi Tahiti Boy - e Sergio Dias di Os Mutantes, incontratisi dopo che in un’intervista radiofonica il primo aveva espresso la propria adorazione per
questi ultimi e scopriva che il miglior amico del dj era il
genero di Sergio. Una settimana dopo il giovane David
riceveva una richiesta di collaborazione, concretizzata
nel marzo 2009 da una manciata di confetti popedelici impreziositi da ospiti d’eccezione (Iggy Pop per la
rutilante, autoironica Why?; Jane Birkin nella delicata
ballata Marie).
Tra una citazione colta e l’altra, piacciono il livello costante e il taglio sixities di scrittura e arrangiamenti, solo
talvolta macchiati da qualche perdonabile scivolone. Se
oggi l’insieme non può più stupire, nondimeno regala
cose belle assai: su tutte i Beatles del ’67 che infilano
universi in micro-punte (Over My Head), James Brown
che si riappropria del telaio ritmico di Taxman (O Mar),
l’acid-beat venato lounge di Meninas e del tradizionale
brasiliano Oh Bahia. Pop acuto e policromo per grandi,
piccini e tutti gli altri che stanno nel mezzo.
(7/10)
Giancarlo Turra
Live Footage - Willow Be (Autoprodotto,
Novembre 2010)
Genere: elettronica
Classicismo in salsa minimal-electro? Musica da camera nell’era del 2.0? Forse. O forse qualcosa in più di definizioni che possono essere fuorvianti o per lo meno
limitative.
Mike Thies e Topu Lyo (già con Quitzow e Setting Sun)
vanno di minimalismo strumentale - solo batteria/tastiere per il primo e violoncello, loops e effetti per il secondo - per imbastire un album di elettronica in bassa
battuta elegante e raffinato, dal taglio ovviamente cinematico e fortemente evocativo. Siamo sulla falsariga
della Cinematic Orchestra dei bei tempi o di ciò che i
nostrani Dining Rooms fecero tempo addietro, ma in
più c’è una particolare predilezione per aperture cameristiche (la title track, Mong De Rida) dai tratti quasi neoclassical, a dir poco stranianti e personali.
Le strutture mobili dei pezzi si fanno apprezzare anche
in virtù di un processo creativo che vede i due interagire per stratificazione di input: auto-samples e loops
creano atmosfere orchestrate al guado tra post-rock da
imaginary soundtrack (Sad Love Story), bassa battuta
elettronica, a volte malinconica e umorale (Big Mind),
altre piuttosto movimentata a sfiorare lande wavey
(See The Reflection), altre ancora limitrofa a certo jazz
d’ambiente (Working Man Is Always Poor). Musica che
può suonare datata ma risulta indubbiamente intrigante e godibilissima.
(6.8/10)
Stefano Pifferi
Lloyd Turner - Hints (Face Like a Frog
Records, Settembre 2010)
Genere: ambient-minimalista
L’immagine in copertina di una natura verde in modo
rigoroso e altero rispecchia le tonalità della prima prova dei Lloyd Turner, al secolo Paolo Tornitore e Donato
Loia, quest’ultimo tra le file dei Lento per il disco Eathern. Il duo amministra pianoforte e chitarra (elettrica
o acustica) in strumentali dal passo corto, eterei e reiterati, dove tasti e corde dialogano in una specie di meditazione autunnale di chiaro stampo ambient-minimalista. Il risultato è buono, specie quando entrambi gli
strumenti espandono il loro suono in lande di silenzio
magari con il supporto di un livido fondale elettronico.
A tratti è inevitabile che si materializzi la figura di un
Loren Mazzacane Connors insolitamente seduto al
piano, con un’altrettanto inevitabile sensazione di già
ascoltato. Ma i Lloyd Turner sanno dare forma ai Suggerimenti (Hints) che la natura comunica loro.
(6.8/10)
Luca Barachetti
Lone - Emerald Fantasy Tracks (Magic Wire
Recordings, Novembre 2010)
Genere: glo-breaks
Se fosse l’esordio grideremmo al miracolo, ma il secondo disco di Matt Cutler non si discosta dalla celebrazione del mito balearico tagliato con l’ambient dei Boards Of Canada e della cricca glo-fi di qualche tempo
fa (Washed Out, Toro Y Moi e soci).
Non per scoraggiare i possibili ed eventuali ascoltatori, ma è tutta farina già utilizzata in modo eccelso
da altre electroheadz pensanti: le tastierine di Zomby (Aquamarine), i bbreaks techno di Four Tet (Moon
Beam Harp), le visioni in salsa balearica che ricordano la
prima techno dei Cobblestone Jazz (Ultramarine) e un
buon gusto per gli arrangiamenti che crea un’ambient
calda e piacevole. Un disco che non dice nulla di nuovo
nella costruzione di una palette ambient innovativa,
ma che si lascia comunque ascoltare. Trompe l’oreille
per Lone.
(6.2/10)
Marco Braggion
63
manzOni - Manzoni (Autoprodotto,
Dicembre 2010)
Genere: canzone d’autore
L’esordio dei ManzOni è canzone d’autore imperfetta
ma dai significati forti, con un vissuto personale che
stravolge le estetiche consolidate a far da chiave interpretativa. Un grumo di intensità poetica mascherata
da sfogo prosaico e quantomai terreno, come terrena è
anche la disperazione sfibrata che si respira nelle nove
tracce della scaletta.
I cinquantasette anni di Gigi Tenca (già Maladives)
generano testi lineari e poco inclini a perdersi in metafore gratuite, citano una quotidianità lontana dalle
rime, affittano una voce roca e sgraziata che sa di troppe sigarette fumate. Spigolosi e umani come i giorni
dell’Edda solista - stilisticamente lontano anni luce ma
ugualmente pregnante -, del Pasolini intensissimo degli Ultimo Attuale Corpo Sonoro o magari del Ciampi
più amaro. Paragoni che possono poco, se non sottolineare le virtù involontariamente catartiche di materiale che rimane comunque instabile, da interpretare,
a metà strada tra il racconto e lo sfogo personale, il climax e l’autoterapia.
In quest’ottica la musica fa quello che deve, ovvero
traghettare le parole dando loro una scenografia semplice in cui muoversi. Un ripetersi a oltranza costruito
sulle chitarre, la batteria e i loops di Fiorenzo Fuolega,
Carlo Trevisan, Emilio Veronese, Ummer Freguia che
rimanda al blues ma al tempo stesso è legato al folk, al
post-rock, alla musica d’autore. Tanto per sottolineare
che anche per la parte strumentale non si ragiona per
generi o schemi prefissati, ma per umori momentanei,
crescendo, spunti quasi naïf che deflagrano (ascoltatevi Tu sai e capirete cosa intendo).
Il risultato non è solo un bel disco, ma anche un disco
onesto. Con tutti i pro e i contro del caso.
(7.2/10)
Fabrizio Zampighi
Marlowe - Fiumedinisi (Seahorse
Recordings, Dicembre 2010)
Genere: rock
Fanno dieci anni più o meno che i Marlowe stanno sul
pezzo, sbattendosi tra Caltanissetta e dovunque li porti
la passione. Nel 2006 ebbi modo di recensire Mai perdonati per la rubrica dei demo, il loro secondo album
autoprodotto in cd-r. Fu un bell’ascoltare quella specie
di cantautorato rock dalle atmosfere cupe, benedetto
dalla presenza di Marta Collica e Cesare Basile. Vedi
un po’ come vanno le cose, in questi anni di velocissima
persistenza di modi e mode: ci sono voluti cinque anni
64
per l’esordio “ufficiale” su etichetta Seahorse.
Fiumedinisi è il titolo, come il paese dove - nello studio Eye&Ear - è stato registrato, quasi a suggellare una
complicità col territorio, a suggellare radici locali malgrado la inevitabile forza d’attrazione globale (il disco è
stato mixato a Chicago). Undici tracce che testimoniano
il tentativo - sostanzialmente riuscito - di approdare ad
un ibrido tra il passo melmoso e grave di cui sopra (coi
grovigli letterari e l’aura noir) e una foschia incandescente in bilico sullo shoegaze, più ammennicoli e trame angolose che pescano liberamente dall’alt-country
agli ultimi sussulti dell’ormai redento post-rock. In sintesi, è una specie di indie-emo adulto e cinematico,
che potrebbe mettere d’accordo i seguaci di Smog,
Black Heart Procession e Mogwai, così come i reduci
del verbo CSI e dei Marlene Kuntz “sonici”.
C’è un finale magmatico in 2 Maggio che ammicca derive noise senza smarrire la rotta, ed è forse il momento
migliore del disco. Molto buona anche la febbrile Devo
tutto alla notte, così come Dei tuoi miracoli è tanto tesa
quanto liberatoria, mentre In fondo alla gola convince
grazie all’incedere da deserto metropolitano e all’ospitata di Angela Baraldi. C’è anche un tentativo in lingua
inglese, The Last Day Swimming, che non spiace ma
paga pegno ad una pronuncia un po’ legnosa. A proposito di testi, Salvo Ladduca scrive e canta col taglio
enigmatico/attonito d’un Panella tenebroso. Buona
band, i Marlowe.(7/10)
Stefano Solventi
Matteo Toni - Qualcosa nel mio piccolo
(Still Fizzy, Dicembre 2010)
Genere: pop-blues
Il rischio maggiore per Matteo Toni è quello di finire
ancor prima di iniziare. Un destino che i tempi veloci
e spietati in cui viviamo riservano a chi si innamora di
dettagli passatisti o legati a un personaggio fortemente contestualizzato, costruendoci sopra tutto uno stile.
Certo Ben Harper non ha l’esclusiva sulla Weissenborn
(slide guitar hawaiana) che suona anche Matteo, ma è
altrettanto vero che qualsiasi cosa esca da quel tipo di
strumento dovrà fare i conti, volente o nolente, con la
produzione passata e presente del musicista americano. Tanto più in un EP d’esordio in cui si ascoltano brani
come Fluir, con un trio tiratissimo batteria/percussioni,
basso, chitarra che sembra rivendicare una filiazione
diretta con l’Harper di Fight For Your Mind.
Un paragone scomodo e che fa storcere il naso, ma che
alla fine - a vederla in modo davvero obiettivo - non influisce più di tanto sulla qualità media sopra alla media
dei cinque brani di Qualcosa nel mio piccolo. Un buon
campionario di blues-pop con venature soul prodotto da Gilberto Caleffi e Moltheni, con quest’ultimo a
chiosare come autore nella conclusiva - e decisamente
“moltheniana” - Tutti i miei limiti.
(6.4/10)
Fabrizio Zampighi
Mike Adams At His Honest Weight Oscillate Wisely (Saint Ives, Gennaio 2011)
Genere: rock
Poco si sa di Michael Dwayne Adams, ma quello che si
viene a sapere da queste dieci tracce è che è un signor
musicista. Per questo Oscillate Wisely fa tutto da solo:
suona, registra nel retro della cucina di casa, arrangia,
produce e realizza a mano le copertine (nella miglior
tradizione della piccola etichetta che lo licenzia). L’idea
che sembra stare dietro a questo piccolo gioiello di
rock senza frontiere è prendere quelle che più appassiona dalla discoteca di casa e mescolarlo insieme a
una voce calda e fascinosa per mettere in musica dieci storie che Mike Adams conosce bene perché sono
quelle che vengono fuori da un uomo che affronta una
crisi esistenziale. La sua.
Dentro vi si ritrovano le polveri del country del Tennesse, la California di Roy Orbison, le atmosfere pop dei
Big Star, lo spettro del Johnny Cash dell’ultimo frammento di carriera, il manierismo del crooning americano. Tutto suonato e presentato con estremo gusto. Certo, realizzando solamente 200 copie in vinile per tutto
il mondo non crediamo che di Mike Adams sapremo
presto molto, ma lo sforzo di andarlo a cercare, in futuro, lo faremo volentieri.
(6.8/10)
Marco Boscolo
My Disco - Little Joy (Temporary
Residence, Gennaio 2011)
Genere: techno-math-rock
Senso del ritmo, chitarre aggressive e krauta ossessività
circolare e limitrofa al dance-hall alternativo. Questa la
proposta dei 3 australiani My Disco, band non di primo
pelo, visto che sono al terzo album, si avvalgono della
produzione di mister Steve Albini e per questo Little Joy
si è scomodata addirittura la Temporary Residence.
I fratelli Liam e Benjamin Andrews (rispettivamente a
basso/voce e chitarra) insieme a Rohan Rebeiro (batteria) danno vita ad un math-rock piuttosto eclettico
e viziato da una ossessione per il motorik krauto virato
dance che trova la sua quadratura nei momento più
espansi e reiterati. Young, (8 e passa minuti di cassa e
basso inarrestabili, da sfasamento cerebrale simil-tech-
no), il tour de force di Rivers (chitarre taglienti e affilate su un acidissimo tappeto ritmico), o, per i momenti
meno dilatati ma ugualmente centrati, la conclusiva
A Turreted Berg, sono esempi ben calibrati di un suono groovey e corposo che mantiene in nuce l’idea aggressiva del rock e la mixa con quella ritmica tipica del
dance-hall.
È il batterista Rebeiro il vero perno del trio: metronomico e mobile, innesta spesso sensazioni altre al canone di
genere finendo con l’inventare ibridi apparente astrusi
ma perfettamente funzionanti come in Turn, un esotico procedere math-rock mutato samba che sembra
uscito da una session degli Shipping News nel mezzo
del carnevale di Rio. Per gli amanti della reiterazione e
dei ritmi ossessivi, una vera e propria little joy.
(7/10)
Stefano Pifferi
Offlaga Disco Pax - Prototipo EP
(Autoprodotto, Dicembre 2010)
Genere: elettronica
L’etica alla base dell’ EP Prototipo è decisamente in
linea con il pensiero Offlaga Disco Pax. Lo è perché
le tastierine Casio che qui rileggono in maniera ortodossa e rigorosa parte del catalogo della band sanno di
anni Ottanta esattamente come l’immaginario ideologico-nostalgico del gruppo. E lo è perché l’operazione
ribadisce ancora una volta quel senso di appartenenza
(politico, emozionale, passatista) che lega pubblico e
band e che da sempre rappresenta un po’ il valore aggiunto dell’esperienza Offlaga. Come dimostra anche
il fatto che il disco in oggetto si potrà comprare esclusivamente ai concerti - tiratura limitata a cinquecento
copie - e una scaletta che con le sole Ventrale, Robespierre, Fermo, Lungimiranza, Tono metallico standard, e
Onomastica non è che un antipasto del Prototipo Tour
2010.
Prendiamo appunti sulla lezione di marketing e ci godiamo un Eppì che non sarà nulla di nuovo ma intanto
suona che è un piacere. Grazie a un lo-fi volutamente
codificato che appiattisce i brani ma al tempo stesso
fa guadagnare punti a quell’impalpabile vintage legato indissolubilmente all’immagine della band di Max
Collini, Daniele Carretti e Enrico Fontanelli. Non un
semplice vezzo da artisti arrivati, insomma, ma un passaggio coerente e tutto sommato comprensibile.
(6.8/10)
Fabrizio Zampighi
65
Ovlov - Margareth, Frank and the Bear
(Casa Molloy, Ottobre 2010)
Genere: new-wave
Un tempo a nome Black Eyed Susan circuitavano il
post-rock in dilatazioni elettriche di buona fattura con
deviazioni spesso rumorose e perizia strumentale. Oggi
Luisa Pangrazio (voce e chitarra) e Luigi Ancelotti (basso) tornano con Michele Marelli alla batteria a nome
Ovlov ed è proprio un’altra vicenda. Identica l’impressione esecutiva - con in più un drumming dalla presenza nevrotica o muscolare a seconda dei casi - del tutto
diversa l’attitudine, rimodellata su una scioltezza pop
che naviga fra new-wave, post-punk e rock’n’roll molto rotolante. Non ci vorrebbe nulla a risultare derivativi
già alla prima traccia, tuttavia Margareth, Frank and
the Bear si gioca le proprie carte sullo spessore di una
serie di episodi in grado di tenere alta la tensione per
una mezz’ora scarsa (minutaggio ideale quando si va
su questi lidi) e soprattutto grazie alla verve della voce
di Pangrazio (già nelle Mulu) che mescola teatralità e
appeal, ombre scure e leggerezza, Siouxsie e Tracey
Thorn. Niente male.
(6.6/10)
Luca Barachetti
Pete Yorn - Pete Yorn (Vagrant, Dicembre
2010)
Genere: rock
Cantautore del New Jersey classe ‘74, Pete Yorn sembra
il prototipo di quell’Americana in bilico tra mainstream
e rock alternativo che si garantirà sempre un bel seguito statunitense mentre dalle nostre parti gli toccherà al
più un apprezzamento tiepido. A meno che non azzecchi il singolone che spacca le playlist e cavalca lo spot
giusto. Ci provò seriamente lo scorso anno licenziando
Break Up, album in collaborazione con quel bel bocconcino di Scarlett Johansson, evidente tentativo di
saltare sul vagone giusto anche se i risultati - artistici e
commerciali - furono tutto sommato deludenti. Intendiamoci: è uno che sa dannatamente bene il fatto suo.
Ma che dannazione non sembra in grado di metterci
davvero del suo.
Il qui presente album omonimo - quinto a suo nome lo conferma: ascolti le veementi Velcro Shoes e Badman
e ti sembrano i Counting Crows che vorrebbero essere
i Pearl Jam. Prendi la battente Precious Stone e pensi
ad un nipotino di John Mellencamp che si è ascoltato
troppe volte Jakob Dylan. Ti fai cullare dalla caracollante Wheels ma la grana Gram Parsons ha una irriducibile patina Hootie & The Blowfish... E via discorrendo. Il
fatto che sia stato prodotto da quel buontempone di
66
Frank Black più che un valore aggiunto diventa una
piccola aggravante. (5.9/10)
Stefano Solventi
Phoenix Foundation - Buffalo (Memphis
Industries, Gennaio 2011)
Genere: emul indie-pop
Sconosciuti nel nostro emisfero, i neozelandesi Phoenix
Foundation sono in giro dal ’97 e in carniere vantano tre
lp e diversi premi nazionali: all’altezza di questo quarto
disco - pubblicato in madrepatria nell’aprile 2010 - la
Memphis Industries tenta di introdurli sul mercato europeo e chissà. Un tour d’inizio annata già è programmato e l’etichetta è ben conosciuta agli appassionati
di indie-pop. Termine che peraltro definisce uno spazio
vuoto nel quale la gente oramai infila di tutto e sovente
senza ragion veduta, così che anche Buffalo tanto darsi
da fare non lo spiega.
Decolla con una certa classe, infatti, sulle ali del sinuoso
retrogusto popedelico di Eventually sull’omonima giostrina da James caramellati che si immaginano Coral
o viceversa; siccome però far dischi resta ancora una
scienza all’incirca esatta, successivamente si smarrisce
in epica folk-rock, in ballate sconsigliate ai diabetici e
in un’elettronica “rock” male integrata. Noia interrotta
solo dalla frugalità melanconica di Bailey’s Beach, dolce oasi in un pastrocchio che ricorda chi, nei famigerati ’80, provò a fare il salto nel modo major e ne restò stritolato. Del resto, da chi trae il nome dal telefilm
“MacGyver”, non pretendi mica la luna.
(5.5/10)
Giancarlo Turra
Polar Bear/Jyager Maktwist - Common
Ground (Leaf, Ottobre 2010)
Genere: hip-jazz
I Polar Bear dimostrano una grande malleabilità, e,
dopo un album di jazz venato come il marmo, leggono
la realtà e cercano di rappresentarla in alcune delle sue
sfaccettature. La band di Seb Rochford, Mark Lockheart, Tom Herbert e Leafcutter John decide di recuperare
materiale da Peepers e farne dei sample da rielaborare,
su cui suonare da capo. L’approccio del mini Common
Ground non è dunque così lontano dai Broadcast, soprattutto per la certosina - e non sanissima - cura del
break di ambiente, che poi è il beat degli spettri di Birmingham, specie da un po’ di tempo a questa parte.
L’impatto è sconcertante: una band jazz che affronta
nastri e rumori quasi weird e attacca il secondo pezzo
con un rappato d’antan. È la voce - fin troppo stilizzata -
di Jyager (nome intero Jyager Maktwist), rapper portoghese trasferitosi a Londra a sette anni, testimone
per così dire di una tradizione, un modo di intendere
l’hip hop non d’eccezione. Don’t Think I Won’t ha un refrain da potersi appiccicare a una classifica, ma niente
di ruffiano.
Da bravi jazzisti, i Polar Bear sperimentano conoscendo
l’importanza dei binari su cui farlo. Non esiste caso ma
esempio, prova. Non è una corsa folle ma un passo felpato. Per fare sistema, c’è la dimensione LP su cui puntare. E non è questa l’occasione.
(6.8/10)
Gaspare Caliri
Quivers/Chora - Split Lp (Ultramarine,
Novembre 2010)
Genere: psych & jazz-noise
L’ennesimo passo targato Ultramarine è uno split vinilico come da tradizione curatissimo graficamente e
avventuroso nelle forme sonore. A dividersi il 12” due
realtà del sottobosco weird-psych che si stanno facendo sempre più largo in un panorama inflazionatissimo:
da un lato i Chora, duo inglese (Rob Lye e Ben Morris)
allargato a quartetto per l’occasione (Ben Nash e Karl
Brummer) che si diletta con una psych-gamelan drogatissima nella oceanica I Met An Oaktree, As Tall As My
Finger, And It Was Suffering: venti minuti di gorgoglii
free-form in modalità impro e dal taglio primitivista e
haunted che faranno la gioia di chi apprezza la weird
america più dilatata e freak.
Sull’altro lato, risponde una formazione a noi già nota, i
Quivers del chitarrista Ninni Morgia accompagnato dal
basso di Jordon Schranz e dalla batteria di Mike Pride.
Un terzetto sul versante più evanescente e informale
del jazz libero, guidato dalla chitarra avant del siciliano,
tutta ricami e curve a gomito (sorretto magistralmente dall’interplay tra Schranz e Pride) che non disdegna
la sperimentazione sonora pura (come nella Climbing
limitrofa ad una sorta di elettroacustica noisy e disturbante) o l’ambient elettrostatica (Starting A Campfire),
come se nel Midwest avessero preso a trafficare col
free-jazz per crearne ibridi deformi.
Due modi lontani nei risultati e nelle forme, ma simili
negli approcci, per evocare alterati stati della mente.
(7/10)
Stefano Pifferi
Recs Of The Flesh - The Threat Remains And
Is Very Real (Raising Real, Gennaio 2011)
Genere: wave rock
Due anni abbondanti dopo il buon debutto Illusory
Field Of Unconsciousness, i Recs Of The Flesh tornano a ribadire il loro verbo tirato e allarmante. Nel
frattempo sono accaduti aggiustamenti di formazione
(escono Xavier Dilme e Jutin Woode) nonché, per i “reduci” Massimo Usai e Sara Melis, un viaggio a Praga, città magica dove può capitarti di incrociare il cammino
dei Killing Joke, soprattutto se bazzichi gli studi Faust
Records dove Coleman e soci stanno incidendo le loro
cose. Facciamola breve: assistiti dal produttore Derek
Saxenmeyer e con l’ingresso in formazione del batterista Petr Studihrad (già nei Visacì Zàmek, eroica punk
band ceca), i Recs incidono le tracce del sophomore
The Threat Remains And Is Very Real.
Che è ancora un rollercoaster ghignante Stranglers, la
wave fatta fibrillare ai limiti di hard e industrial (i Joke
insegnano), una minaccia che non demorde appunto
e picchia instancabile sul tasto dell’urgenza (la micidiale The Threat, la cupa e indolenzita Headfake), senza
tirarsi indietro quando l’estro sonico esige più meditate complessità atmosferiche (vedi una No Big Deal che
sembra impastare Sonic Youth e Ultravox!, o gli effluvi
Bauhaus/Cure di Musings Of Days To Come). Non resta
che segnalare la sorprendente - ma sorprendente davvero - apertura indie della bonus track Peace, melodia
stropicciata in brodo semiacustico che è un piacere,
tipo i Notwist pizzicati Triffids. Ci riprendiamo dallo
stupore, e convinti approviamo.
(7.2/10)
Stefano Solventi
Saluti da Saturno - Parlare con Anna
(Goodfellas, Novembre 2010)
Genere: canzone d’autore
Mirco Mariani è stato per anni multiforme batterista
di Vinicio Capossela. Vederlo oggi a capo di un progetto in proprio, con tanti colleghi a schierarsi con lui
per assetti che variano da traccia a traccia, è (ri)trovare un musicista prezioso perché animato dall’indole
dell’artigiano che scopre e sperimenta. Immaginatevelo, dunque, questo artigiano dei suoni, ma rimasto
chissà come su Saturno, da cui ci invia dodici cartoline
in forma di canzone o strumentale brevilineo. Brani da
cui scaturiscono i suoni impalpabili ma non inconsistenti di optigan, mellotron, celesta, cristallarmonio e
delle ondes martenot dell’ospite Nadia Ratsimandresy (una sorta di fata di tale marchingenio). Brani tutti
cesellati sull’impronta di una nostalgia diffusa eppure
non sempre triste: come se anche là sul pianeta d’idrogeno ci fosse la possibilità di una vita, magari volatile e
immaginifica come un fantasma, una fiammella spersa
nello spazio, una bolla di sapone, però viva.
67
Parlare con Anna potrà ricordare a qualcuno il Capossela di Da solo e tutto sommato il riferimento non è
fuorviante, tanto che lo stesso Vinicio canta in tre brani
regalando a Luce una specie di disequilibro sull’intonazione che nel contesto è perfetto. Tuttavia qui le canzoni sembrano nate più al bagliore di una stella che di un
camino, e c’è una surrealtà di fondo che riporta ai Mariposa (Enzo Cimino si occupa delle percussioni insieme
a Diego Sapignoli degli Aidoru) sconfinando talvolta
nello spirito giocoso di Pascal Comelade. Insomma:
cose non nuove, ma pervase da un calore cosmico che,
pur provenendo da lontano, riscalda e ci avvicina tutti.
(7/10)
Luca Barachetti
Sand Band (The) - All Through The Night
(Deltasonic, Gennaio 2011)
Genere: folk rock
Un quartetto da Liverpool con la voglia di costruire piccole scenografie folk come polaroid tra deserto e giardini d’inverno. Come se Paul Simon volesse prendersi
un tè coi Mojave 3, come dei nipotini indolenti di Leonard Cohen via Jeff Tweedy, come dei Willard Grant
Conspiracy coi giri al minimo o una versione minimale dei Verve più struggenti. Piazzano un paio di colpi
notevoli con Open Your Wings e con Set Me Free, ma la
scrittura non va oltre l’aura mediocritas. Se sono interessanti è giusto per quel senso di ossessione morbida
che era già della band di Neal Halstead. O perché si
vociferava sulla loro “elezione” a backing band di Noel
Gallagher. Bah.
(6/10)
Stefano Solventi
Soft Moon (The) - The Soft Moon (Captured
Tracks, Novembre 2010)
Genere: kraut-wave
Ad ingrossare le fila dell’inarrestabile catalogo Captured Tracks, già artefice dei primi due singoli, arriva il
full-length di debutto di questo oscuro progetto con
base a San Francisco. Come prevedibile, Soft Moon
rilancia sulla lunga distanza la proposta già anticipata
nei solchi dei vinili corti, imbastendo una scaletta fluida
e compatta in cui ritmiche metronomiche in perfetto
stile kraut-wave reggono escoriazioni di chitarre muriatiche dallo spiccato retrogusto gaze e dense linee di
basso di scuola dichiaratamente Factory.
Brani cantati (Breate The Fire, Dead Love) si alternano
con scioltezza a diversi episodi strumentali (Parallels,
Sewer Sickness) rendendo ancora più palese il senso
complessivo di colonna sonora asettica e angolare, mi68
nimalista ed opaca proprio come le geometriche grafiche che campeggiano sulle copertine dei dischi.
(7.2/10)
Andrea Napoli
Steve Wynn - Northern Aggression (Blue
Rose Records, Dicembre 2010)
Genere: rock
Cos’altro dire di quest’uomo che non sia stato detto?
Antieroe rock per eccellenza, uno che gli vuoi bene per
l’onestà e l’intensità, e pazienza se non è originale, se
non prefigura il nuovo che avanza. Ad ognuno il suo,
ed il suo Wynn lo fa bene da un pezzo, lasciandoci sempre un po’ di cuore. Non a caso la seconda giovinezza
artistica di questo splendido cinquantenne è iniziata quando, ormai dieci anni fa, imbastì questa nuova
band, i Miracle 3, trovandocisi così bene da sposarsi
addirittura la (bella) batterista. Fu davvero una specie
di miracolo, il doppio Here Comes The Miracle, anno
2001, ovvero l’annuncio della persistenza del graffio
paisley negli anni zero. Quanto al nuovo decennio, ci
pensa questo Northern Aggression: undici tracce
dalla pensosità aggressiva, dall’inquieta disinvoltura,
dal palpitante abbandono. Ok, è il suo solito rock’n’roll
travagliato e letterario che paga pegno all’arte dei Dylan, dei Petty, dei Reed, declinandone il verbo in una
caligine psichedelica dove aleggiano spettri Buffalo
Springfield e Gun Club, ma anche ectoplasmi kraut e
new wave. E va benissimo così. Ballate come la mesta
St. Millwood e la strascicata Consider The Source, spasmi
funky-errebì come We Dont Talk About It, cavalcate acide come Resolution e up-tempo trepidi come No One
Ever Drowns faranno la loro porca figura accanto alle
gemme di un repertorio che si avvia a diventare leggenda.
(7.1/10)
Stefano Solventi
Super Burritos (The) - Two Monkeys Fight
For A Banana (Mia Cameretta, Dicembre
2010)
Genere: lo-fi surf garage
Dueville fa meno di quindicimila abitanti dalle parti
di Vicenza. E’ lì che All e Ayz hanno dato vita ai Super
Burritos, ed è probabile che il casino l’abbiano sentito
tutti il casino. Sono un duo garage-surf a bassa fedeltà,
tosto e acidulo quanto basta. Dai Sonics ai Ramones
passando da Stooges e Pixies, più tutta una cultura di
slabbrature noise dovuta a devozione Sonic Youth e
fregola Mudhoney. Una brutalità cazzona e liberatoria,
una sporcizia innocente e selvaggia, una vena sì balza-
na ma meno folle di quanto appaia. Quando attaccano
Waiting For The Summer End è un po’ come se Syd Barrett e Joey Ramone si fossero dati appuntamento sugli
Appalachi. You’re Driving Me Insane surfa adrenalina sonica che è un piacere.
Two Monkeys Fight For A Banana è una scossa ribalda e scanzonata che ribadisce l’esorcizzante opportunità di dischi - di band - così. Se vi pare poco.
(7/10)
Stefano Solventi
Surf City - Kudos (Fire Records, Novembre
2010)
Genere: lo-fi pop
Pochi ma buoni i gruppi che provengono dalla lontana
ed esotica Nuova Zelanda. Specie quelli che si muovono sul versante lo-fi pop e raggruppati sotto l’egida
della Flyng Nun: dai The Clean ai Chills, passando per
le antiche glorie dei Tall Dwarfs o dei riformati The
Bats. Non sfuggono questi quattro da Auckland (Davin
Stoddard e Josh Kennedy, entrambi a chitarre e voci, il
fratello di quest’ultimo, Jamie al basso e Logan Collins
alla batteria) nati come Kill Surf City, nome che li metteva da subito in scia Jesus And Mary Chain, prima di
perdere un pezzo per questioni di omonimia.
A kiwi guitar buzz masterpiece, lo definisce la label e
l’ascolto degli 11 pezzi di Kudos conferma la bontà della definizione: partenza sulla falsariga di un twee-pop
alla B-52s, solare e divertito (Crazy Rulers Of The World)
che piega su fuzz, feedback e distorsioni spacey rientrando nei ranghi di una psichedelia chitarristica e rumorosa. Roba in grado di rievocare indistintamente
Spacemen 3 e i citati fratelli Reid mescolati a un gusto melodico tipicamente power-pop (ICA distrugge
Strokes et similia sul proprio terreno), a elaborazioni
strumentali non lontane dal versante indie-90s più
psych-pop oriented e a una voglia di sperimentare
che li smarca dal calderone revivalista (l’ottima Zombies che sembra tirare in ballo degli Animal Collective
meno astratti).
Su tutto, un pezzo come Icy Lakes (sette e passa minuti di splendide reiterazioni targate Spacemen 3, tutte
riverberi e delays), uno di quelli che si starebbe lì, estasiati e un po’ inebetiti, ad ascoltarlo per una intera esistenza.
(7/10)
Svarte Greiner - Penpals Forever (and
Ever) (Digitalis, Novembre 2010)
Genere: dark drones
L’edizione limitata che si “autolimita” anche nella sua
ristampa. Dalla cassetta al vinile, snobbando la pubblicazione in cd, che avviene dopo un bel po’ di rinvii. Le
prese di posizioni di Steve Albini che una decina d’anni
fa si ostinava a pubblicare i dischi degli Shellac prima
su supporto vinilico e poi con abbondante ritardo su
compact disc, fanno ormai sorridere. A questo punto
si è giunti alla summa della gioia per gli onanisti nerd
delle “Ltd. Editions”. Un’esigua ma agguerrita truppa,
che chiede di essere servita. Tanto ormai è tutto relativo e qualunque limitazione alle edizioni, prima o poi
finisce annullata nel grande mare magnum della rete e
dell’offerta globale.
Erik K. Skodvin e Brad Rose tutto questo lo sanno e
infatti ne sono tra i principali protagonisti. L’uomo di
Foxy Digitalis decide ad un certo punto che il revival
del formato cassette è sufficientemente maturo perchè
ci provi anche lui con la sua Digitalis aprendo la sua serie di cassettine. Tra queste svetta per carisma e appeal
commerciale una firmata da Svarte Greiner con il titolo
di Penpals Forever. L’edizione va sold out all’istante e
giustifica la presente ristampa che aggiunge un intero
secondo lato di materiale nuovo disponibile in “Vinyl Limited Edition” rimbalzando, come di consueto, dai mailorder affiliati come Boomkat e Forced Exposure.
Cosa sia contenuto nel disco e che tipo di musica si
ascolti è cosa quanto mai ovvia, giacché il norvegese
della Miasmah non sposta di una virgola una formula
che lo vede ormai sempre più sicuro nocchiero in un
torrente che si alimenta tanto alla classica moderna,
quanto all’ambient, secondo uno stile che in questi
ultimi anni tanta parte ha avuto nella definizione del
nuovo gotico acustico del nord Europa. In sintesi, una
faccenda per completisti e feticisti del disco per un lavoro che non aggiunge e non toglie nulla allo charme
oscuro del musicista norvegese. Un piacevole passatempo, in attesa che ad inizio 2011 arrivi finalmente
l’attesissimo secondo disco dei Deaf Center previsto
su Type per febbraio.
(7/10)
Antonello Comunale
Stefano Pifferi
69
Tapso II - Tapso II (Autoprodotto,
Novembre 2010)
Genere: noise-rock
È irrimediabilmente legata al suono chitarristico
noise&post americano, la proposta di molti gruppi siciliani. Specialmente quelli provenienti dalla zona di Catania - non a caso definita nei 90s come la nuova Seattle
o la Chicago d’Italia a seconda dei gusti - hanno spesso
un suono corposo, aggressivo e mobile, declinato di
volta in volta sul versante mathy, post o noise-rock.
Non sfuggono alla regola nemmeno i tre Tapso II, proprio da Catania city: Stefano Garaffa Botta (chitarra,
voce), Giancarlo Mirabella (batteria) e Giovanni Fiderio
(violino, organo elettrico) di quella scena fanno parte da tempo, avendo suonato a vario titolo con realtà
molto attive negli anni passati come Jerica’s, Mashrooms, 100% e Theramin. E a rinsaldare legami e fratellanze con animi affini d’oltreoceano ci sono anche il
caro Sacha Tilotta (Three Second Kiss) dietro i pomelli
e Bob Shellac Weston al mastering.
Non è tutto emulazione, però, ciò che riluce, e infatti i
tre si sganciano dal suono nudo e crudo d’ascendenza
citazionista per evolversi su un piano piuttosto personale. La presenza del violino li colloca infatti - rimanendo al catalogo T’n’G - sul versante di una sorta di Dirty
Three virati math-noise, ma i tre hanno un suono più
ondivago, vario e sostanzioso. In cui cioè passaggi “a
vuoto” (la zona centrale de Il Mostro) tratteggiano paesaggi desertici incredibilmente romantici, evidenziando un interplay violino/chitarra che sa essere robusto
e cattivo e non solo d’atmosfera. O come quando esercizi lontanamente slintiani si colorano di sabbia e aride suggestioni da lontano west (Almond Galaxy). Lì, in
quella apparente schizofrenia tra geometrie e romanticismo, distorsioni e corde pizzicate, c’è il segreto di
questo ottimo esordio autoprodotto.
(6.9/10)
Stefano Pifferi
Teeth Od The Sea - Your Mercury (Rocket,
Novembre 2010)
Genere: post-rock
Tutti coloro che si approcciano ai Teeth Of The Sea dichiarano problemi di definizione. Non è post-rock, lo
sarebbe stato qualche anno fa, forse (la dimostrazione
è in lì pronta in You’re Mercury, semi-title-track), non è
metal, non ha tra le corde quel target di riferimento,
non è avanguardia contemporanea, per quanto i pezzi
occhieggino a più non posso verso quel mondo. È un
modo di costruire delle composizioni - di comporre dei
costrutti musicali - che fa leva su effetti emotivi, quindi
70
popolare, che agisce in Your Mercury. Questo non è
evidentemente un difetto ma una possibilità di pubblico.
I Teeth Of The Sea - alla seconda prova in full lenght non sembrano preoccuparsi di essere ostici, ma nella
magniloquenza e grandiosità dei crescendo e delle fasi
preparatorie del “mood” centrale di ogni brano finiscono per strappare alla radio commerciale chi ha bisogno
di essere stupito e cerca un suono ostinato ma poco
modaiolo. I londinesi sofisticano senza perdere il focus timico della propria missione, l’animo che devono
mantenere vicino di cuore e di mente. In questo sono
ovviamente molto inglesi, come lo sono i Fuck Buttons, e (anche se non proprio geograficamente) anche
i Mogwai (Red Soil). Europei come lo sono Vangelis
(Midas Rex), Jean Michel Jarre (A.C.R.O.N.Y.M.), mittel-,
si sarebbe detto negli anni Ottanta, ma di certo non in
questo caso.
Il problema di definizione, ancora una volta, non è nella musica, ma in chi ascolta. I Teeth Of The Sea fanno
una musica tanto keyboard quanto guitar-oriented
che si perde nella metà del decennio della pillola indorata. Va ad accostarsi a quell’elettronica di consumo
(ma non da ballare) che diventò popolare nell’onda
lunga dei Settanta che si propagava nel decennio successivo, ma oggi va a innestarsi in quegli esperimenti che uniscono post-rock europeista dell’imbrunire e
metal. La vera emancipazione, il che non ci stupisce,
arriva quando a tutto ciò aggiungiamo un pizzico di
Fennesz (Mothlike), esattamente come allora serviva
l’ingrediente Brian Eno. Dopo tutto, sanno cosa serve
ai propri obiettivi, i TOTS.
(6.9/10)
Gaspare Caliri
Terror Danjah - Undeniable (Hyperdub
Records, Novembre 2010)
Genere: grime&dubstep
Danjah su una Hyperdub sempre più vogliosa di modern classics, Danjah finalmente al debutto su un long
playing tutto suo, con il quale si gioca il biglietto da
visita del grande ritorno e nel quale infatti mette di
soppiatto tre produzioni classiche opportunamente
remiscelate (Bruzin, Sonar, Creepy Crawler).
Il più grande produttore grime secondo mr. Reynolds
torna dopo la collezione di gioiellini strumentali dell’EP
lungo Power Grid con un disco decisamente più aggressivo e urban, meno orrorifico e meno noir, in cui
mette assieme rappati d’assalto e strumentali sempre
curatissimi ma meno concentrati sul cesello maniacale,
più d’impatto. Aggira così l’impasse di fossilizzarsi in un
ambito nel quale comunque è insuperabile e sceglie
di ampliare il ventaglio, tra pathos gangsta rap millenaristico (Grand Opening), breakbit acid techno (Acid,
per non smentire il gusto del titolo autodescrittivo),
vocoder Daft Punk-iano (I’m Feeling U), adulterazioni
tribal pestatissime (Breaking Bad) e tastiere house oldie (la title track), cantati femminili che guardano alla
downtempo Novanta (All I Wanna) o addirittura agli
Evanescence (Story Ending, straniante), etereo electrosoul (Time To Let Go), jungle selvaggia (Creepy Crawler).
I feat urban-UK spaccano (This Year, ma anche, in modo
diverso, lo spoken dubstep Leave Me Alone) e l’uomo
non rinuncia al proprio personalissimo corredo di risate maligne (l’incipit dei pezzi), effettacci spacey (Sonar),
giochetti minimal (Minimal Dub, appunto; una SOS che
fa suo il ralenti-reprise di French Kiss) e contorsioni ninjesche (Bruzin VIP). La classe trasuda da ogni produzione e il risultato globale ha tanto il sapore della sintesi di
tutta una macro-area.
Meno perfetto del Danjah autarchico di Power Grid,
ma più divertente, polipesco, enciclopedico, decisivo.(7.5/10)
Gabriele Marino
The Liminanas - The Liminanas (Trouble In
Mind, Dicembre 2010)
Genere: Indie Pop
I Liminanas sono il primo duo francese che abbia mai
inciso qualcosa per la Hozac. Già questo basterebbe a
garantire loro imperitura stima. Il singolo con cui esordinvano, I’m Dead, aggiornava la sensualità manifesta
dei duetti Gainsbuorg/Bardot (o Gainsbourg/Birkin
se preferite) con le smerigliate elettriche dei Jesus And
Mary Chain e come tutte le idee semplici, funzionava
alla perfezione.
Ora arriva il disco omonimo per la Trouble In Mind di
Chicago, che vede i due levigare il suono quel tanto
che basta a farne un allettante bigino retrofuturista;
una dichiarazione d’amore per dei 60s immaginari, che
lancia occhiate d’intesa agli Stereolab e in cui il fuzz
perfora senza tramortire.
Il progetto, va detto, resta decisamente suggestivo,
soprattutto per i fan dello yé-yé transalpino, che sbrodoleranno all’ascolto dell’idioma arrotolato di Marie e
Lionel, le cui voci si rincorrono giocose, nello stile del
duo di Bonny And Clyde.
L’unica pecca risiede nell’irritante tendenza alla novelty song: fra brani parlati ed altri dal tiro più cinematico,
poche sono le canzoni “vere”, quelle in cui Marie esprime al meglio le proprie doti di chanteuse. Quando questo avviene nascono pezzi memorabili come la malizio-
sa Chacolate In The Milk o la velvetiana Funeral Babe.
Il resto è costituito da affascinanti divertissment, con cui
la band pare prendere dimestichezza con i propri mezzi in attesa, si spera, di sferrare la zampata decisiva.
(6.3/10)
Diego Ballani
The The - Tony (Lazarus Limited, Novembre
2010)
Genere: The The Soundtrack
A dieci anni di distanza dal non eccelso Naked Self, Matt
Johnson, il deus ex machina dietro al moniker The The,
torna con la colonna sonora realizzata per l’esordio cinematografico del fratello Gerald. A quanto ne sappiamo il film, intitolato semplicemente Tony, non è stato
distribuito in Italia e a leggere le note contenute nel
sostanzioso libretto (68 pagine, dove si possono ammirare anche molte fotografie realizzate dallo stesso
Matt) si tratta di un piccolo film autoriale (solo luce naturale, camera a spalla) che si inserisce nel filone dei serial killer psicopatici dalla personalissima visione della
morale.
Per chi ha amato e ama gioielli del pop britannico degli
anni Ottanta come Dust e Infected, diciamo subito che
qui la voce di Matt non c’è, in favore di 24 episodi totalmente strumentali intervallati da otto stralci di dialoghi estratti dalla pellicola. Vista la classe del suo autore,
però, questo non è per niente un limite. Le composizioni, che inizialmente dovevano essere un’oscuro magma elettronico adatto alle tinte fosche del killeraggio, è
invece stato stemperato in soundscapes agrodolci, con
lunghe ombre che si allungano su melodie poco più
che accennate. Matt Johnson come sempre fa tutto da
solo, suonando piano, moog, basso e nastri, registrando in casa e autoproducendosi, in un’autarchia elevata
a forma d’arte prima. Il risultato è un mondo sonoro
popolato di fantasmi che ha la capacità di essere disturbante e reggere bene anche senza le immagini a
cui si ispirano.
Un disco non per tutti i palati, vista la natura particolarissima, ma indice di uno stato di forma compositivo
che, assieme al fatto che venga indicato come Cineola
Volume 1, fa ben sperare per il futuro.
(7/10)
Marco Boscolo
71
Tim Kasher - The Game Of Monogamy
(Affairs Of the Heart, Dicembre 2010)
Genere: Indie Pop
Se con i suoi precedenti progetti, il cantautore trentaseienne Tim Kasher è stato uno dei più ortodossi interpreti dell’estetica Saddle Creek, con l’esordio solista
punta ad imprimere una decisa svolta ai propri obbiettivi autoriali.
Dopo una vita dedicata a reinterpretare i tòpoi della
tradizione americana con Cursive e The Good Life,
dipinge un’operina ambiziosa che si configura come
una sorta di concept sulle relazioni uomo-donna: cinica, verbosa ma anche dotata di un certo fascino grazie all’(auto)ironia che il nostro dispensa con una certa
nonchalance (“writers are selfish, writers are egoists”).
The Game Of Monogamy si apre con un vera e propria overture cameristica (cosa abbastanza atipica per
un album che si vorrebbe registrato in solitudine, ma
tantè) e passa in rassegna un vasto campionario pop
che Kasher modella su liriche gravide di disillusione,
sortendo risultati altalenanti: se il suo songwriting acidulo si accomoda sulle delicatezze folk di Stray come in
un paio di ciabatte sfondate, sorprende la freschezza di
un up tempo dalle ritmiche solide come Cold Love e la
slackness indie intrisa di archi di No Fireworks.
Sul lavoro spira una salutare leggerezza che stinge in
qualche episodio eccessivamente velleitario (i fiati di
I’m Afraid I’m Gonna Die Here sembrano quelli di una
ska punk band dei mid 90s) ma lascia intatta la sensazione di trovarsi di fronte ad un autore istrionico, in
grado di muoversi agevolmente fra i diversi registri, ad
uso e consumo di una narrazione densa e decisamente
godibile.
(6.3/10)
Diego Ballani
Timmy’s Organism - Rise Of The Green
Gorilla (Sacred Bones, Dicembre 2010)
Genere: mutant-punk
Ci avverte da un myspace in completa decadenza, Timmy Vulgar che la musica del suo Organism è “stuff i do
by myself on 4 track and a 3 piece band”, evidenziando
la precarietà, l’irresolutezza, lo sfascio di un suono che
è figlio degenere di una specie di space-punk sgraziato e ruvido. Dopotutto, da uno che viene dalla Detroit
mutante di Clone Defects e Human Eye e che si dice
influenzato da ugly glitter/glam-rock e loud disgusting
music, non ci si può aspettare pulizia e compiutezza,
tanto meno forme riconoscibili.
A dar man forte nel triangolo rumoroso ci sono Colin
Sick (Frustrations, Fontana) alla batteria e Jeff F. di
72
Heroes & Villians al basso, col saltuario raddoppio
della batteria da parte dell’amico Fast Eddie (Clone
Defects, appunto) quale garanzia di efferatezze sonore e pedigree da molestatori d’orecchi. Che sia, poi, la
Sacred Bones ad apporre il proprio marchio da hype
sotterraneo potrebbe essere l’ennesimo segnale della
stima che Timmy si è guadagnato nel tempo.
Rise Of The Green Gorilla è in tutto e per tutto figlio del
proprio autore: un melting-pot ubriaco e claudicante
tra space-punk distorto (Ugly Dream, sorta di protopunk stoogesiano from outer space) e electro-rock
sgraziato e free (Oafeus Clods), bedroom-punk-rock
tutto riverberi e dislessia che insegna ai pischelli di
oggi (Give It To Me Baby), aggressive-rock ferino e tribale (Gorilla Garden Part 1, sono i Chrome attualizzati al
terzo millennio), cosmico e acido spoken word synthsuicidiano (Silver Mountain), non tralasciando freakerie
varie come Building The Friend-Ship, una ballad per piano alieno, (Move To The Sun Wave) un lento e macilento
psych-folk stralunato, o il malinconico commiato postprog-pop strumentale di The Traveler.
No barrers, no rules. Just punk. Gente come Timmy Vulgar è meglio aquistarla che perderla.
(7.3/10)
Stefano Pifferi
Tiny Tide - MoonTalking (Kingem,
Novembre 2010)
Genere: lo-fi indie pop
E’ da un pezzo che teniamo d’occhio il cesenate Mark
Zonda coi suoi progetti sempre meno strampalati e
sempre più a fuoco. Tiny Tide è la sua creatura “indie pop arcade rock”, un quartetto che mastica neo-neopsichedelia dalla grana lo-fi ora accomodante e ora
sghemba, carezzevole e graffiante, una trottola di marzapane nel cervello guarnita di spezie e canditi, sogno
tremolante tra cameretta, marciapiede e il prato delle delizie perdute.Dopo tre ep e un recentissimo album
di cover (Diskovery) omaggiante l’immaginifico bestiario del Nostro (Left Banke e Arcade Fire, Lou Reed e
Apples In Stereo, Beatles e Blur...), eccoci al debutto
vero e proprio con questo MoonTalkin, divagazioni
atmosferiche e smagliature adolescenziali, misticanza
John Lennon e Boo Radleys, bozzetti Of Montreal e
ghirigori Pecksniff, un Jens Lekman tra reminiscenze Aztec Camera e tentazioni Belle And Sebastian.
E via discorrendo.La convulsa Manga Nurse e l’eterea
Plain Little Game sono le gemme di una scaletta variegata che può anche permettersi una I Would Say dal
ritornello quasi 883 senza risentirne troppo. Insomma,
quando credi di averli inquadrati sono già da un’altra
parte, a prometterti altre circostanze che forse un giorno manterranno. Forse prestissimo, visto che a febbraio è previsto un altro lavoro, Febrero, sembra più curato
e meditato. Staremo a sentire, intanto questa versione
“sbrigativa” dei Tiny Tide sa intrigarci più che abbastanza.
(6.9/10)
Stefano Solventi
Tiromancino - L’essenziale (Deriva
Productions, Ottobre 2010)
Genere: rock wave
C’è un’assenza che pesa nel nuovo disco dei Tiromancino. Manca il Sinigallia di Cadere, Io sono Dio e delle altre splendide polaroid dell’esordio omonimo (uno dei
dischi electro-pop più sottovalutati ma non per questo meno importanti degli ultimi anni di pop italico).
Zampaglione senza la metà storica del suo gruppo tenta di fare il botto. E quasi quasi ci riesce. Butta dentro
il singolo L’essenziale, una cosa che è già nelle teste al
primo ascolto: le ferite, il pop melò e le lacrime (ma anche il tempo che passa e le piccole poesie che questo
rinnovato album propone) si infatuano di suoni wave,
di chitarre con un eco corretto mai troppo spinto, di
una vocalità che parla con l’accento romano e non se
ne vergogna.
Sarà che si ascolta velocemente, sarà che non è supponente e non è sdolcinato, non è quello che la quasi
totalità degli album propone dai pulpiti glitterati della
classifica. Il kitsch non è nelle corde dei Tiromancino,
anche se le metafore sono troppo dirette e i ragionamenti non si spingono troppo in alto. Il bello sta nella
‘medietà’. Il riconoscersi dentro a queste note e a queste rime, come avevamo fatto su altri lidi con gli ultimi
ripensamenti degli Amari (no, non è così peregrino
l’accostamento), è ancora una volta una possibilità di
uscita da una condizione di stallo che la generazione
di Zampaglione sperimenta quotidianamente. Il pop
quindi come uscita dal vuoto di ogni giorno.
Aiutata nella stesura dei testi dalla penna del padre
Domenico, l’epifania del quotidiano ci travolge in poco
più di quaranta minuti con delle schitarrate di pancia
(Mondo Imperfetto, Migrantes), delle ballad intimiste
(Esiste un posto, Quanto ancora), degli uptempo acustici (La strada da prendere) e il featuring con Fabri Fibra
in hip-hop generazionale come solo l’uomo sa raccontare (L’inquietudine di esistere). Zampaglione sa parlare
di quello che stiamo vivendo senza urlare, usando storie credibili e suoni personali. Scusate se è poco.
(6.6/10)
Marco Braggion
Umberto - Prophecy Of The Black Widow
(Not Not Fun, Ottobre 2010)
Genere: Horror Soundtrack
Umberto dall’oltre tomba, capitolo secondo. Era inizio
2010 quando recensivamo From The Grave, primo LP
del progetto solista dell’ex-bassista degli Expo ‘70
Matt Hill e in quelle righe accennavamo alla passione
del nostro per le colonne sonore dei classici del cinema horror, da Argento a Bava passando per Carpenter.
Oggi, a neanche un anno di distanza, Matt raddoppia
con un nuovo lugubre full-lenght stavolta per Not Not
Fun.
Le coordinate lungo cui si muove Prophecy Of The
Black Widow non sono affatto distanti dal debutto su
Permanent, ma ne viene accentuata la componente di
scrittura e arrangiamento. Meno lineare e monolitico
del precedente, il nuovo album aggiunge piccoli ma interessanti ingredienti alla pozione: ancora bassi di funk
tetro come la notte (Temple Room, Night Stalking) al
fianco di nuovi episodi che strizzano l’occhio all’hypna
(Everything Is Going To Be Okay) e all’electro più ammodernata (Someone Chasing Someone Through A House).
Per il resto, la proposta è chiara (anzi no, è assai oscura)
e chi ha amato From The Grave troverà qui di che compiacersi nuovamente. A tutti gli altri ascolto consigliato
senza batter ciglio.
(7/10)
Andrea Napoli
Verdena - Wow (Universal, Gennaio 2011)
Genere: psych rock
Se Requiem staccava il ticket di una maturità prossima
ventura e in progress, passati tre anni il balzo evolutivo
ci obbliga a meravigliarci di nuovo. Ovvero, i tre bergamaschi hanno bruciato un bel po’ di tappe, fatto sbocciare conigli dai cilindri, scoperchiato vasi di Pandora e
via tambureggiando. Ventisette le tracce per un disco
doppio che nei codici rock significa pur sempre un turning point. La band, guidata anche in fase di produzione dal leader Alberto Ferrari, si è buttata a capofitto
in un sentiero acido e spigoloso, tutto svolte, visioni e
circonvoluzioni, dove tra i pezzi e nei pezzi t’imbatti in
Motorpsycho e Jimi Hendrix, Kyuss ed Animal Collective, Jefferson Airplane e residui Radiohead, Flaming Lips e certi Beatles altezza White Album (esplicitamente omaggiati nell’incipit di Rossella Roll Over,
che ricicla distorcendolo quello di Ob-La-Di, Ob-La-Da).
Oltre ad un santino Lucio Battisti in qualche tasca e
puntando idealmente forse alla bislacca velleità di quei
Moby Grape che nel ‘68 licenziarono un sophomore
intitolato anch’esso - guarda un po’ - Wow.
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Molte ballate dall’incedere lunatico, ora dolciastre o
d’un tratto focose. Iperblues che ruggiscono e crepitano con bruschezza valvolare/progressiva. Il piano che
cuce trame appassionate e smarrite, mentre gli archi
chiosano parentesi di abbandono. Eppoi synth tra il
gotico e lo spacey, cori e coretti a pennellare suggestioni balzane, tutto un assedio di mostriciattoli sonici
ad assediare gli interstizi. E’ una strategia di depistaggio
sistematico, l’edificazione di una stranezza abbacinata
dove la melodia è una nenia che pulsa appassionata
e flebile, limitandosi a sciorinare parole disarticolate,
spesso (volutamente) poco comprensibili, affondate
nella bambagia lisergica. Un’autentica goduria auditiva, se si è in cerca di strattoni spasmodici, di vampe
oniriche e aspre mirabilie.
Diciamolo: i Verdena si sono cuciti addosso abiti dalla squinternata ricercatezza, e gli calano a pennello. Il
problema è semmai portarli con naturalezza. Ed è un
probema decisivo.
Manca infatti alla loro musica una ragion d’essere forte
e genuina, che s’imponga con la semplice evidenza e
necessità di sé. La sensazione è che stiano spendendo
energie ad afferrare un linguaggio - a dimostrarsene in
grado - sempre più complesso e strutturato. Che in effetti padroneggiano e anche con disinvoltura, ma che
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non gli appartiene. Ragion per cui si meritano un convinto: bravi, bravi davvero. Ma grandi no, non ancora.
(7.2/10)
Stefano Solventi
Vincenzo Vasi - Braccio elettrico
(Tremoloa, Dicembre 2010)
Genere: archeo avant
Angeli e demoni. Fantasmi del palcoscenico. Vibrazioni
lunari. Brume cavernose. Tavolieri artici. Languori valvolari. Transitor fumiganti. Struggimenti di celluloide e
piani sequenza esistenziali.
E ancora, il grido di solitudine dei palombari. L’angoscia ridanciana dei patafisici. Il brontolio nascosto dei
fuochi artificiali. Il romanticismo malsano degli alchimisti-stregoni. La solitudine sublime dell’astronauta.
L’antichità della modernità.
Tra Vincenzo Vasi ed il theremin c’è un braccio che
unisce e separa l’immaginario dall’espressione, l’immaginabile e l’espresso. Un braccio-strumento, un
braccio-mente, un braccio-cuore.
Un braccio-ponte tra umano e macchina, tra disposizione e dispositivo. Un Braccio Elettrico. Nove le
tracce, diverse per mood e destinazione (concepite
per programmi radiofonici, spettacoli teatrali, per-
formance solitarie o in ensemble), pochi ma suggestivi gli strumenti di contorno (omnichord, microfoni
magnetici, eco a nastro...), due le cover (il tema di
Halloween II di John Carpenter e quella Lil Darling
portata al successo da Count Basie nei tardi Fifties).
L’intenzione è omaggiare “il più antico strumento
musicale elettronico”, con questo che è il primo volume di una serie ad esso dedicata. Oltre l’omaggio, si
aprono squarci nel sipario del fantastico.
Tra gli innumerevoli musicisti che hanno beneficiato
dell’arte di Vasi (citiamone alcuni: Vinicio Capossela,
Gianluca Petrella, Egle Sommacal, Ivan Valentini,
Roy Paci, Marc Ribot, Vinicius Cantuaria, Gak Sato,
Alessandro Stefana, Jacopo Andreini, Lukas Ligeti,
John Zorn...) il buon Mike Patton è tra gli sponsor più
entusiasti. Detto tutto, mi sembra.
(7.2/10)
Stefano Solventi
Wire (The) - Red Barked Tree (Pink Flag,
Gennaio 2011)
Genere: post-punk adulto
È la recente riedizione di Send Ultimate a spianare la
strada al rientro in pista degli eroi del post-punk made
in England. Similitudini e rimandi con l’aurea e disturbante fase degli Wire che furono, però, finiscono qui.
Il terzetto è ormai distante dai brucianti sconquassi di
fine settanta, così come dalla reprise accecante d’inizio
2000. Se si fa eccezione per un paio di momenti in cui
l’antico ardore brucia ancora (l’incessante stomp-wave
di Two Minutes, l’acido sing-a-long di Moreover) Red Barked Tree si configura come un album stilisticamente e
musicalmente maturo, ma senza la scintilla della rabbia
giovanile che ne contraddistinse gli esordi e ne segnò
il mito.
Argomentazioni poco interessanti, direte voi, soprattutto alla luce di reunion ancor più deludenti, anche di
area post-punk inglese.
È infatti innegabile che Red Barked Tree sia un disco
ottimo sotto molti punti di vista: una produzione al limite della perfezione, canzoni equilibrate e solide, coesione interna eccellente. Manca però la scintilla che
ce li aveva fatti apprezzare anche agli albori del terzo
millennio e che evidenziava gli spigoli e le asperità di
un suono caratteristico e personale. In Red Barked Tree
troviamo un’eccessiva, voluta limatura delle curve a
gomito, un adeguamento agli stilemi di una wave molto chitarristica e melodicamente pop da mid-80s, che
ha abdicato alla complessità come già nel precedente
Object 47, che sceglie l’anima easy-listening in molte
delle sue frecce (Now Was, Adapt, Bad Worn Thing) ma
che è innegabilmente legata al confronto col passato.
E che irrimediabilmente vi soccombe.
(6.4/10)
Stefano Pifferi
Zoon Van Snook - (Falling From) The Nutty
Tree (Mush Records, Dicembre 2010)
Genere: Indietronica, idm
Zoon Van Snook da Bristol è uno che abbraccia due
mondi solitamente abbastanza distanti tra di loro quali
l’IDM (Boards Of Canada, Orbital) e la folktronica del
primo Four Tet (vista però con gli occhi dei Múm)
Benché in buona parte derivativo, l’esordio (Falling
From) The Nutty Tree è ottimamente arrangiato ed evidenzia lo sguardo di un nerd perfezionista (vedi anche
alla voce Jon Hopkins) con buone doti nel curare le
timbriche più scintillanti (field recording catturati da
oggetti di uso quotidiano), miscelare dialoghi simil Books-iani dal taglio lounge-conversazionale e tenersi sugli stessi toni rilassati nei confronti dell’insieme sonico.
Il meglio glielo senti negli aggiornamenti più arditi,
quasi come se giocasse a fare il Flying Lotus felpato
(Pearl St Mess), mentre sul lato chamber trovi l’Islanda
e il secchione che è in lui (Plainsong). Sono da menzionare i brani al piano, specie il delizioso finale con i campanellini Anni Zero e la buffa chiosa jazz (Le Fin). Classe
e maniera che ci sono piaciute. Per sbilanciarci aspettiamo però quello che verrà, magari un mix che sublimi le
parti in gioco.
(6.8/10)
Edoardo Bridda
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Gimme Some
Inches #12
Inauguriamo l'anno come al solito, facendo girare la puntina di
Gimme Some Inches sui solchi del vecchio e caro vinile. Questo
mese con ?Alos, White Ring, BUt God Created Woman e altri ancora.
Tre vinili 10” made in Italy inaugurano l’anno nuovo qui a Gimme
Some Inches. L’ennesimo volume
della Phonometak series vede dispiegato un vero e proprio parterre de roi. Questa volta a dividersi
i solchi del 10” sono formazione
che sulle prime non diranno molto, ma una volta scoperto chi vi si
nasconde dietro, un prurito lo provocheranno. Sul lato A troviamo
Scarnella, ovvero Carla Bozulich e
Nels Cline, un tempo coppia anche
nella vita oltre che in musica (Geraldine Fibbers, ad esempio), che
riesumano la vecchia sigla per 3
pezzi di acida neo-psych umorale
e ondivaga, fluida ed emotiva che
spazia dal dreaming all’haunted
con nonchalance. Poi la voce della
Bozulich è veramente qualcosa di
unico, qualunque sia il contesto in
cui si cala.
Sul lato opposto rispondono i
Fluorescent Pigs, duo che sulle
prime dirà anch’esso poco o nulla
76
ma che a leggere i nomi dei protagonisti stupirà: Andrea Belfi (Rosolina Mar, per fare un nome) alla
batteria e Alessandro “Asso” Stefana (dai Guano Padano a Mike
Patton) alle chitarre, rappresentano una garanzia di qualità e Butanuku meeting 13 minuti di delirante
cavalcata post-psych tribale. L’incedere forsennato di Belfi è il vero
trascinatore del pezzo: selvaggio, a
ruota libera, ancestrale quasi, mette il chitarrista nella condizione di
poter librarsi in sperimentalismi di
matrice ora avant-, ora psych, ora
post- mostrando, se ancora ce ne
fosse bisogno, lo spessore di molti,
sottovalutati musicisti nostrani.
L’altro 10” è ad appannaggio di
un progetto che da anni si muove fiero e incompromissorio per i
palchi d’Italia e di mezzo mondo.
?Alos, sigla della metà femminile
di OvO Stefania Pedretti, butta fuori un breve vinile che in consueto
accoppiata vinile+cd introduce il
nuovo interesse del progetto: indagare il mondo dello sciamanesimo al femminile, ossia della “donna
come guaritrice e custode dei segreti
della natura, delle erbe, dell’aldilà,
della nascita e della morte”. Yomi.
L’Oscura Terra Dei Morti si compone di tre pezzi: due lunghe tracce
rielaborate dal precedente Ricamatrici – Fili Di Capelli e Taglio – che
assumono screziature avant- possedute e ferine (la prima ossessivamente martoriata dall’elettronica
di Claudio Rocchetti, la seconda
con sfregiature di chitarre acide);
mentre sul lato b fa capolino Panas.
Anticipazione dell’album che verrà,
la traccia prende il titolo dalla cultura ancestrale sarda che identifica
come panas gli spiriti delle donne
morte di parto, ed è qui presentata dopo il trattamento in remix di
Kawabata Makoto di Acid Mother
Temple. Lavorando di analogico,
effettistica varia e sensibilità affine,
il nippo-noiser ne devia ancor di
più il senso creando un vortice di
suono ipnotico e magico. Ottimo
apripista per l’album di prossima
pubblicazione.
Il terzo vinile medio di questo
giro è il comeback dei pugliesi But
God Created Woman dopo un
paio di album e lo split 7” coi Talibam! La crescita del duo-che-pareuna-moltitudine è notevolissima.
Prendete l’opener del 10” uscito
per l’attiva Musica Per Organi Caldi, Mark Twain: un puro distillato
battlesiano innervato da potenza
noise-rock e da furia strumentale
al limite dell’omicida. I quattro personaggi, più o meno ambigui, più
o meno controversi, a cui BGCW
affidano l’ep – oltre al citato autore
di Huckleberry Finn, ci sono Dario,
Roberto Calvi e Giona – si mostrano
sotto forme diverse, dalla wave più
corposa e arty al semi-grunge alla
Dinosaur Jr., ma tutte accomunate
da una inusitata carica ritmica e da
un malato e inatteso senso della
melodia.
Passando alle misure corte, ci
spostiamo in America, versante
dark-wave. In primis segnaliamo
l’uscita, in realtà ultra-sotterranea
e passata in sordina, del primo 12
pollici targato White Ring. Black
Earth That Made Me è stato stampato poche settimane fa in sole
duecento copie da Disaro ed è ov-
viamente già sold out, ma chi ha la
fortuna di averne una copia (o più
semplicemente l’ha scaricato dai
numerosi link presenti in rete) si
è trovato tra le mani sei pezzi che
sono la prima conferma su medio
tratto del nerissimo duo newyorkese. Quindi bassi minacciosi come
ombre, rullanti taglienti come
lame, synth grevi e le sommesse
nenie di Kendra Malia. La seconda
uscita vede invece il debutto dei
Group Hex, nuovo trio capitanato
da quel Toby Grave che fino a pochi
mese fa era il front-man dei Blessure Grave, prima che si sciogliessero. E proprio dove il precedente
gruppo aveva lasciato, riprende il
nuovo. These Are The Nights esce
in 7 pollici per l’americana Talking
Helps Records e consta di due pezzi che sono, per l’appunto, l’esatta
continuazione del death-rock a
base di drum-machine, torbide vocals e chitarre disperanti che aveva
marchiato Judged By Twelve, Carried By Six.
Spostandoci in Europa, e più
precisamente in Danimarca, troviamo nuovi singoli in area brown
& grey. Per festeggiare il Natale
(pagano) Kim Larsen rilascia due
7 pollici, uno per ciascuno di suoi
progetti. It’s Like Dying on Christmas
Day, il primo, è appannaggio dello
storico marchio Of The Wand And
The Moon anche se le due facciate che lo compongono sembrano
allontanarsi dal folk ancestrale del
passato per buttarsi in ballate vorticose di stampo più tradizionale.
A riportare in auge le sonorità di
Sonnenheim (la cui ristampa in
lussuosissimo doppio LP è appena
uscita e assolutamente caldeggiata) ci pensa il secondo 45 giri del
lotto, condiviso da Solanaceae (il
nuovo side-project di Kim) e King
Dude, il barbuto ragazzone di Seattle il cui Tonight’s Special Death
abbiamo da poco recensito. Sul suo
lato il danese regala Sorrow And Its
Companions, tre minuti in pure stile :OTW&TM:, mentre TJ Cowgill ci
consegna Werewolves, sussurrata
filastrocca per il giorno del giudizio.
Stefano Pifferi
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Re-Boot
#11
Un mese di ascolti
emergenti italiani
Vecchie e nuove conoscenze per un ruggire rock che ben conosciamo. I Novanta prevalgono questo mese, che è un po' come
gettare il cuore oltre l'ostacolo degli anni zero. All'indietro.
I False Friends sono una vecchia
conoscenza di SA e sono anche
pieni di difetti. Continuano a far
uscire demo registrati malissimo
(immaginiamo che i motivi siano
di natura puramente economica),
fanno un genere che l’indie lover di
ultima generazione “sfancula” allegramente (rock chitarristico figlio
dei primi Soft Boys - e quindi del
Barrett più stoned -, degli Who e
dei Pavement), non rientrano in
nessuna scena modaiola (arrivano
da Trento) e non posso nemmeno
vantare un phisique du role alla
Jim Morrison. Tuttavia il terzetto
capitanato da Michele Bertamini
è quanto di meglio si possa trovare
in giro quando si tratta di conciliare psichedelia e immediatezza pop
(QUELLA psichedelia e QUEL pop) in
una sola soluzione. Only Rock Will
Survive Us (autoprodotto, 6.7) lo
dimostra ampiamente, a patto che
non ci si fermi alla facciata un po’
da bloc-notes pieno di scarabocchi
78
e si tralasci qualsiasi preconcetto
estetico, per indagare invece il parto creativo che sta dietro ai brani.
Uno stile che, non lo nascondiamo,
ci piacerebbe sentire per una volta
disciplinato da uno studio di registrazione serio e da un produttore
capace.
Melvins, Soundgarden, Nirvana, Alice In Chains: le influenze
dei Codeina sono palesi. Quel che
non è scontato, invece, è l’ottima
scrittura che sta alla base del disco
d’esordio della formazione lombarda Quore Hidalgo Picaresco (Vacation, 7.0). Un incrocio di chitarre
heavy, bassi distorti e batteria che
potremmo avvicinare in parte al lavoro dei Ruggine, in parte a quello
di formazioni di simile provenienza
geografica come i milanesi Grenouille. Hard-grunge urticante e
fortemente contestualizzato, insomma, e il rischio in questi casi
di dar vista a un replicante dei bei
tempi che furono. I Codeina invece
riescono nell’impresa di prescindere dagli eccessivi formalismi e di
suonare “italiani” anche coperti da
quintali di feedback. Un po’ come
accadeva – con le dovute differenze di genere - agli Afterhours del
periodo Cocaine Head.
Una presenza nei credits di Bellezza dei Marlene Kuntz e la produzione di Rob Ellis fanno da sigillo qualitativo per l’esordio di Giulia
Villari. La romana continua sulla
scia di alcuni dei nomi al femminile prodotti dall’inglese (Marianne
Faithfull, PJ Harvey soprattutto),
con la stessa energia essenziale e la
stessa indole rockeggiante. Dedicated to you, via Alanis Morisette, è
la canzone che Elisa non scrive da
un po’, tuttavia i sei episodi di River (autoprodotto, 6.6) rimangono
incollati ai nomi appena citati: più
imprevedibilità per il futuro, ad alimentare una personalità bruciante.
Non meno bisognosi d’imprevisto eppure capaci di una maggiore
tensione i senesi Malvachimica,
che si giocano tutto su una scrittura solidamente rock e autoriale. Lo
sguardo è rivolto ai novanta, con attenzione ma a distanza di sicurezza
dai Verdena, il quid è nella fattura
delle canzoni: d’intensità intercostale Parlo alle allodole, smussata e
penetrante I vigneti, madida d’epica disincantata Lo zio d’america.
Dipende dai giorni (Forears, 6.8) è
un ottimo punto di partenza verso
una maggiore unicità d’espressione, ma sempre tenendo la schiena
così dritta.
Da Frosinone con fragore i tre
Poptones c’impongono un ep
omonimo (MiaCameretta Records,
7.0) nel quale si dilettano a mollare ceffoni indie-wave e lo-fi blues.
Sono veementi e balzani, insidiosi
ed arguti, covano un rumore stridente che addomesticano a morderti con un certo stile non privo
di ubbie psicotiche. Clinic il riferimento irrinunciabile, ma anche
qualcosa di Beck e Jon Spencer
Blues Explosion. Più che gli ingredienti però sembra una questione
di dosaggio, impasto e temperatura. Bravi.
Vengono invece da Forlì gli
MMK, quartetto all’esordio con l’ep
Four Means Rise (autoproduzione, 6.6) dicendo la loro sulla questione stoner, ovvero dilatandone
gli estremi formali dal wave/punk
all’hard-rock, nel tentativo di azzeccare un linguaggio progressivo
e magari inedito. Ci riescono solo
in parte, ma alla fine l’intruglio suona godibile. Ai ragazzi - tutti classe
‘87 - non manca la convinzione nei
propri mezzi, ingrediente fondamentale in casi del genere. Così
come l’impudenza che li fa azzardare trame complesse (Reflection,
la title track) senza che somiglino
a velleità. Certi assolo e stop and
go di stampo metal stonano un po’
nell’insieme, ma una volta lucidati
intenti e obiettivi siamo (quasi) a
posto.
Ancora una vecchia conoscenza di SA, Panta da Ferrara (già recensito in We Are Demo nel 2007)
batterista che vanta una ormai
abbastanza lunga carriera in gruppi hard rock. Si ripropone con il
quarto lavoro, Kaaamosmasennus
(Autoprodotto, 6.8), composto, arrangiato e prodotto dal medesimo,
pop rock di matrice e lingua ingle-
se, con influssi blues e hard rock,
vagante psichedelia settanta Pink
Floyd e metodicità brit pop anzi
beatlesiana. Quest’ultima caratteristica è quella che contraddistingue
e qualifica il disco, mai eccessivo,
con arrangiamenti e soluzioni melodiche non scontate e una bella
personalità.
Da Fano proviene invece Jolly
Jolly Doowhacker, progetto che
risale al 2009 e gira attorno a Stefano Gasparini, che poi si è trasferito
in Australia, mantenendo comunque in Italia il gruppo. Si autodefiniscono “british pop post Blur Band”
e la qualifica calza nel senso di un
indie pop di derivazione bowianaiggypoppiana oltre che del gruppo
citato prima. L’omonimo esordio
(Giuda L’Onesto Records, 6.8) si
mantiene abbastanza nei confini
del genere, presentando una varietà di colori e una melodicità di fondo ben amministrata. Promettenti.
Fabrizio Zampighi, Teresa Greco,
Stefano Solventi, Luca Barachetti
79
Mickey
Zhang
China underground#2
Il percorso di vita di Mickey Zhang attraverso le trasformazioni
della scena musicale techno in Cina
“La techno? È come i miei amici più
stretti, è il solo strumento che sa dispiegare la mia parte più vera”
Siamo abituati a vedere fotografie
di cinesi in fabbriche enormi coperte e affollate di persone, uno dietro
l’altro in fila, tutti con lo stesso cappello bianco che producono qualsiasi tipo di oggetto utilizzabile. Ci
sono cinesi invece che provengono
da luoghi in cui lo spazio è ampio e
dilatato, dove la terra gialla e infinita si congiunge con il deserto del
Gobi e attorno c’è solo cielo. Questo
è il nord ovest della Cina. Mickey
Zhang viene da questa parte remota del paese più popolato al mondo.
Il luogo di nascita spesso incide nel
nostro essere, per cui è da qui, terra arida e impervia, che nascono sia
il macho cinese con giacca di pelle
alla guida del sidecar sia chi va sempre dritto per la propria strada senza
mai lasciarsi scoraggiare, con quel
sano moto dell’ego di chi è sicuro
che riuscirà a diventare qualcuno.
Mickey nasce nel Ningxia appena
80
trent’anni fa. Una Cina, quella degli
anni Ottanta, in cui tutta la gamma
di colori comincia a esprimersi nei
vestiti delle persone, nei jeans e nelle musicassette. La Rivoluzione Culturale è finita, e dall’alto le sfere della
politica spingono verso lo sviluppo
economico. “Credo che sin da piccolo
la mia famiglia abbia lasciato un’impronta notevole su me e mio fratello
in ambito artistico, l’ambiente di casa
era danzereccio, pieno di musica e di
vita”. Mickey cresce in una casa di attori di opera cinese: sia il padre che
la madre facevano parte del grande
mondo del teatro tradizionale, in
cui il canto ed il ritmo accompagnavano le giornate sferzate dal vento
freddo e i meno venti gradi invernali riuscivano a passare sicuramente
più in fretta. Sin da piccoli Mickey e
il fratello Zhangwei (oggi chitarrista
dei Buyi, rock band cinese) sono
cresciuti così, e in un ambiente del
genere è impossibile non ricercarla
anche altrove, la musica.
Siamo nell’Ottantanove, quan-
Cina
ed elettronica
do esplode la rivolta in piazza Tiananmen e molti studenti fuggono
all’estero; lui invece, ancora bambino, si trasferisce nella capitale per
studiare danza, dopo aver superato
il difficile esame di ammissione alla
scuola media dipendente dall’Accademia di Danza di Pechino. Ignaro
probabilmente di quello che succede a pochi passi dalla sua scuola,
Mickey studia danza, si diploma e
si tiene stretto la musica. “All’inizio
ascoltavo rock e hip hop, poi mi sono
trasferito con la compagnia di danza
nel sud della Cina. È lì che ho cominciato a lavorare, ma la mia carriera di
dj inizia nel 1999-2000 all’Orange di
Pechino. Oggi i dj che stimo maggiormente sono Laurent Garnier, Jeff
Mills e Richie Hawtin”.
L’Orange è stato il primo club a
mettere musica elettronica nella
capitale cinese. “Il posto non era né
grande né piccolo, la gente molto varia, c’erano i colletti bianchi dell’epoca, quella gente che stava facendo
un po’ di soldi e poteva divertirsi e
apprezzare qualcosa di diverso, non
erano come quelli di adesso, all’epoca il cervello ce l’avevano, c’erano
81
anche stranieri e gente più giovane,
ventenni”. A parlare è Gao Feng,
proprietario del 2 Kolegas, locale
affollato nei weekend pechinesi di
adesso. La techno cinese quindi parte dall’Orange, Mickey si insinua nei
pochi spazi liberi, fino a diventare
resident dj del locale. Di poche parole e con determinazione, Mickey
si mette alla prova, mettendo musica per pochissimi avventori. Quello
che risulta complesso nell’arte del
djing è instaurare una relazione con
il pubblico, accorgersi di quello che
succede oltre i piatti e le macchine,
accorgersi degli occhi che cercano
un ritmo diverso e i movimenti del
corpo delle gente che pretende che
tu, dj, li faccia ballare. In quella mediazione che c’è tra se stessi e chi ci
sta di fronte, il dj deve essere un attento scrutatore, che trascina dove
le persone senza che queste se ne
accorgano. E per farlo bene ci vuole
sensibilità e esperienza, tanta esperienza.
“Faccio il dj da 15 anni, nei primi
82
cinque principalmente ho fatto il dj
fisso nel business delle discoteche su
grande scala, con uno stipendio mensile. Nel 2000 ho interrotto con questa
vita perché facevo sempre le stesse
cose, mettendo la solita musica e ho
capito che non era ciò che volevo. In
seguito ho iniziato a organizzare alcune attività di musica elettronica con
alcuni amici e sono finito a mettere
musica in diversi locali fino ad oggi”.
Mickey Zhang oggi è diventato
uno dei dj e produttori musicali più
importanti del panorama technodance cinese. Della più che discussa
antinomia tra digitale ed analogico
afferma: “I vinili per me sono sempre
quelli con maggiore sentimento e
maggiore forza vitale, la qualità del
suono ed il loro temperamento sono
insostituibili, quando creo musica uso
spesso strumenti analogici”, cosa non
da poco per il mondo cinese, che
troppo spesso propende per la pratica austera dei software di nuova
generazione.
In un altro locale molto rino-
mato, tra il 2005 e il 2008 Mickey si
sente come a casa: è il White Rabbit.
Location particolare (un profondo scantinato), pareti e pavimento
di cemento non lavorato, grande
tanto da potervisi perdere dentro:
“L’underground dell’elettronica era
lì” racconta Dj Slide, altro resident
del locale. “La gente arrivava tardissimo, verso l’una, dopo essere stata
ovunque in giro per la città, non tanto
per apprezzare quello che era il djing
quanto per ritrovarsi in un locale che si
dichiarava alternativo. La gente? Persone di tutti i tipi, dai giovani diciottenni fino agli over trenta”. Indiscussa
la presenza di Mickey Zhang, che a
testa bassa sui piatti, con le dita tra
le manopole delle macchine e del
computer, continua nella sua esperienza di vita. Osservatore, partecipa al cambiamento di quello che è e
che sarà il panorama dell’elettronica
nella capitale cinese. Senza troppe
parole sa anche che crescere vuol
dire sperimentare e immergersi in
flussi sempre nuovi, cercando con-
tatti con quello che viene fuori dalla Cina. Fare elettronica al mondo
d’oggi non è troppo difficile, farla
bene è tutt’altra storia, ci vuole arte.
Internet aiuta, il digitale salva in corner un po’ tutti, ma Mickey sceglie la
propria strada e alle serate del White Rabbit sceglie soluzioni sempre
più personali.
Unico dj cinese, è ospite al WIRE,
edizioni 2008 e 2009 (festival internazionale di musica elettronica che
si svolge in Giappone), accanto a
figure di fama internazionale come
Villalobos, Ellen Allien e Jeff Mills.
Organizza inoltre, assieme a Kiko Su
e Dio, un progetto per promuovere
la cultura dance in Cina: la O2culture. Da qui escono i dance party più
importanti che, regolarmente, popolano le serate pechinesi. Lo Yen
Party, organizzato da O2culture è
diventato il simbolo della movida
giovane in Cina: paillettes, cocktails,
musica elettronica (glitch, minimal
techno, cassa dritta vecchio, ripescaggi drum’n’bass), divertimento.
L’agenzia O2culture ha voluto prescindere dagli spazi pre-definiti e
ha preferito crearli o ri-crearli appositamente. Location dal forte impatto visivo: la muraglia cinese nel
2004 e nel 2005, una ex fabbrica di
un importante centro artistico della
Pechino contemporanea, il 798, nel
2008. Artisti, video maker, creativi e
aspiranti tali si radunano lì da tempo, ed è in questo tipo di spazi che
Mickey con i suoi colleghi e amici
decide di organizzare le sue serate.
Adesso la formula vincente sembra essere questa: party fuori dai
locali, in luoghi sempre nuovi, sempre diversi, più liberi, facili da gestire, con gli eventi che si “dissolvono”
alla mattina senza lasciare traccia.
L’Orange e il White Rabbit hanno
chiuso definitivamente i battenti.
“A Pechino adesso non ci sono posti per sentire buona techno, o vai al
MIX (mega locale di dubbio gusto;
ndr) oppure non c’è molto altro; non
so perché, lo sviluppo dell’elettronica
non segue quello della società cinese”
suggerisce Gao Feng, ridendo. Questo è un altro punto chiave della società contemporanea cinese, perché
ogni forma d’arte non si può produrre semplicemente a comando.
“C’è bisogno di tecnica, di strumenti,
di influenze e di un lento sviluppo”. A
tal proposito Mickey Zhang afferma: “è molto difficile elencare tutti i
cambiamenti che ha avuto la scena
elettronica pechinese, uno di questi
è stata la partecipazione dei giovani
cinesi, sempre di più; in generale le
trasformazioni sono state più lente di
quanto pensassi”.
Perciò, motivato da ambizioni
personali e professionali, Mickey
Zhang decide di guardare più da
vicino quello che c’è oltre ai confini
cinesi, spingendosi in uno dei centri di culto dell’elettronica, Berlino.
“Nel 2004 ero già venuto a Berlino.
Allora sentii che tra Pechino e Berlino
c’erano un sacco di punti in comune,
questa è una delle ragioni che mi ha
attirato qui. Poi, oggi Berlino va considerata il centro della musica dance,
con un ambiente interessante e molto
libero; ci sono molte persone con origini diverse, ma con le stesse passioni
e lo stesso talento artistico, è una città che artisticamente e musicalmente possiede spirito d’iniziativa e forza
creativa. Differenze con Pechino?
Credo che sia una questione di natura: a Berlino le persone vivono dentro
questo tipo di musica, a Pechino non
è affatto così”. Così Mickey, tra progetti personali, produzioni musicali
e collaborazioni, continua nella sua
evoluzione, che lo porterà nuovamente in Cina a breve.
Per ora lo lasciamo a Berlino con
la sua colazione, “che mi preparo da
solo: uova con il bacon e spaghetti
(cinesi)”.
Links:
www.o2culture.com
soundcloud.com/minimalmouse
www.wireweb.jp/10/
www.2kolegas.com
www.nogodie.com/v1
Desiree Marianini
83
Rearview Mirror
—speciale
Par te 1
I potizzando
Robyn Hitchcock
L'uomo che inventò se stesso
Una delle individualità più intensamente deviate del rock. Nel
segno di Barrett, di Lennon, del folk revival, della new-wave.
Senza mai perdere il gusto folle e lucido di un sé irripetibile.
84
Testo: Giancarlo Turra
percorsi sonori in
contromano
Finché ci sono ristampe c’è speranza, o almeno non
mancheranno i pretesti per tornare con la mente, col
cuore, a certe situazioni che non dimentichi mai davvero, si fanno solo da parte per via del traffico. I due album dei Soft Boys - A Can Of Bees e Underwater Moonlight - escono in una nuova carinissima edizione, le
scalette limitate a quelle originali (così da apprezzarne
meglio l’essenza) e la confezione in digipack cartonato
tipo mini-lp. I Soft Boys, porco cane. Una scossa nella
cuspide tra settanta e ottanta e mannaggia non avere
l’età per esserci stati a godere in diretta quel contromano formidabile, quell’iniezione ghignante di colori
e spigoli.
Poco male: li abbiamo recuperati più tardi, come
no, quando ascoltarli era ancora un’esperienza vivida anche se ormai significava ricostruire la trama e la
scenografia di un’epoca veloce e feroce, destinata ad
evaporare in qualcos’altro. Riascoltandoli oggi, i loro
Sessanta strappati a rimpianti e cartoline, innervositi e
corruscati secondo la tradizione del dopo ‘77, suonano
freschi perché raccolti in una dimensione “a sé”. Sono
un ponte steso su due epoche, una psichedelia che neo
lo fu per davvero se non addirittura post, rafforzata da
canzoni di un livello medio da favola. Che sapevano
fare, come i suoi artefici, i conti con la Storia, pregressa
e contemporanea. Ad armi pari, però, e tanta della magia sta proprio lì. In un messaggio sonoro e attitudinale raccolto da moltissimi - parlano chiaro, oltreoceano,
i fan sfegatati Replacements e R.E.M. - e fatto verbo
senza passare dalla carne. Perché tante delle canzoni
qui raccontate non senza difficoltà, posseggono la consistenza dei sogni e come tali si comportano. Vengono
a visitarti quando più pare loro appropriato, le riascolti
dopo anni e certi contorni sono come mutati ma non
ne sei sicuro. Come pesci rossi nella boccia del mondo.
I Soft Boys sono innanzitutto un nome, un modo di
dire, locuzione sostantivale e gergale che significa, più
o meno, mollaccioni. Gente che non regge due birre e
soccombe al primo accenno di rissa. Stupisce nondimeno pensare che l’idea fece capolino nella mente del
caro Robyn Hitchcock già nell’estate del ‘76, quando
il punk iniziava a scorazzare come un virus minaccioso in attesa di profeti che ne certificassero la missione,
rendendolo fenomeno sociale e sovversione rock per
eccellenza. Figlio del romanziere Raymond - nel cui repertorio figurano tra le altre cose Percy (cui guarderanno i Kinks) e quel There’s a Girl in My Soup che diverrà un
film con Peter Sellers - Robyn nasce il 3 marzo del ‘53 a
Londra. I buoni studi al prestigioso Winchester College
e un ambiente stimolante a Cambridge sono lo sfondo
esistenziale di una curiosità che lo vedeva frequentare
David Bowie e Fairport Convention, John Lennon e
Captain Beefheart, John Cale e - beh, certo… - Syd
Barrett.
E’ appunto nel bel mezzo di quello sgarbato e benedetto uragano che tutto travolgerà al grido di “no
future” che il Ragazzo ipotizza il proprio squarcio sonico dal quale irrorare di agra follia un mondo lanciato verso un grado zero che è premessa d’ogni edonismo prossimo venturo. Ebbe la fortuna e quel pizzico
di sagacia d’incontrare le persone giuste: il batterista
Morris Windsor si presentò come fan del leggendario
magazine Creem, nonché fedele nei secoli ai verbi Beach Boys e Steely Dan. Inizialmente la chitarra fu affidata a tale Alan Davies, sostituito tempo pochi mesi
dal ben più tracotante Kimberley Rew, che quanto ad
attitudini condivideva la misticanza folk-psych-wave di
Hitchcock. Infine il bassista Andy Metcalfe, sorta di collante che teneva unito il tutto ascoltando - e amando
ascoltare - di tutto.
Le premesse c’erano eccome: mancava la prova su
strada che arrivò nel giro di pochi mesi, sotto forma
di primi vagiti live poco elettrici, scarsi pubblico e entusiasmo. Più i Nostri si elettrificavano, però, e più acquistavano credito, giungendo in pochi mesi ad aprire
i concerti di Steeleye Span, Fairport Convention e evento fondamentale nell’autunno ‘78 - gli statunitensi Pere Ubu. L’influenza di questi ultimi nel sound dei
Soft Boys sarà difatti palpabile a gennaio ‘79 nel debutto A Can Of Bees (Two Crabs Records, 7.1/10), cui
il quartetto stava lavorando proprio in corrispondenza
dell’incontro con David Thomas e accoliti. Ricapitolando, gli ingredienti in ballo erano folk-rock, psichedelia,
proto e new-wave. Il punk, ovviamente, era quello che
si respirava, una spinta scorbutica e irriguardosa.
Ma come quest’ultimo pescava dal garage il piglio
basale e belluino, squadrandone gli istinti fino ad ottenerne un’immagine post-industriale, convertendone
la furia antagonista in nichilismo meccanicistico già in
possesso di un codice genetico conformista, i Ragazzi
Molli sincronizzarono la poetica sul farsi psichedelico
del beat, guardarono a quell’innocenza sul punto d’indemoniarsi e attraversare lo specchio, briosa d’eccitazione per le prospettive che si andavano squadernando come bambini sbocciati alla pubertà. Eppure, come
è inevitabile per qualsiasi manifestazione artistica, recavano segni e modi del presente, compreso tutto quel
che stava nel mezzo e che quel presente aveva - per
85
filiazione e reazione - determinato.
La scaletta non può che aprirsi quindi con la sguaiatezza errebì di Give It To The Soft Boys (Iggy Pop ubriaco
di Modern Lovers) e proseguire con lo sbraco metallico di Pigworker (una Come Together tra strali zappiani e
spasmi Pere Ubu). Molta irruenza, l’aria di chi si diverte
un casino ad incasinare le cose. John Lennon tornerà
omaggiato in una graffiante e acidula resa live di Cold
Turkey, mentre l’aura di Mr. Thomas aleggia sulla peraltro abbastanza barrettiana Leppo And The Jooves, il cui
lato più onirico viene esplorato dalla dolciastra Human
Music, nella quale scorgi un’indolenza quasi Lou Reed,
la cui bile riaffiora acida tra i rigurgiti Barrett, le rasoiate Television, la boria lennoniana e i coretti stile Brian
Wilson di The Rat’s Prayer. Un bailamme, una misticanza, un caleidoscopio intriso di avventatezza e sprazzi di
sacrosanto genio. Che in Sandra’s Having Her Brain Out
coglie l’acme, spedendo i primi Pink Floyd sul rollercoaster di Captain Beefheart tra saliscendi vaudeville
Incredible String Band. E che dire della trafelata Wading Trough A Ventilator, chiusura di programma in versione live che sigilla il cerchio rispetto a questa prima,
impulsiva fase, ammiccando un falso punk che si rivela
convulsioni fifties e sixties a rotta di collo, un Eddie Cochran posseduto dai Velvet Undergorund (quelli di I
Heard Her Call My Name) ed esorcizzato da un becero
Iggy.
Tutto, insomma, fuorché il calcolo d’una cifra estetica coerente. Uno strapparsi croste lisergiche dal cervello, musica lunatica e testi come giochetti evocativi
ma impenetrabili, garruli e assurdi, per farne barricate
contro il rischio - concreto - di una musica programma86
ticamente avversa al viaggio fantastico nell’other side.
Un altro punk è possibile, sembrano dire i quattro da
Cambridge. Non che fosse la migliore strategia per fare
sfracelli commerciali. In compenso il tour promozionale
fu un’esperienza frustrante. Venne l’ora di rimettersi in
sesto e continuare a crederci. Matthew Seligman entrò
in sostituzione di Metcalfe, aumentando il tasso di morbidezza e contribuendo a diffondere una propensione
pop, pur sempre trasversale e stralunata; una voglia di
organizzare in confini riconoscibili e fruibili come drink
colorati quella smania d’altrove.
La scrittura del leader ebbe buon gioco ad assecondare l’estro rinnovato, ed ecco uno dei tanti modi
possibili per far sbocciare il capolavoro. Underwater
Moonlight (Armageddon, giugno 1980, 8/10) coglie il
punto d’equilibrio perfetto tra psichedelia graffiante e
carezzevole, tra acido e orangina. L’abbrivio di I Wanna Destroy You è da brividi, piglio stradaiolo post-glam
con distorsioni deliranti Brian Eno, una vena melodica
che pulsa febbrile sotto la sordidezza affilata, il drink insomma che spiana la strada dentro a un classico. Una
formidabile decina di pezzi dove s’agitano irresistibili come spettri di marzapane tagliato a benzedrina… - un
febbrile Lou Reed (Insanely Jealous, col violino frenetico
di Gerry Hale), dei truci Talking Heads (Old Pervert), i
Kinks glassati di giocoso esotismo George Harrison
(Positive Vibrations, benedetto dal sitar di Andy King),
una fregola accomodante David Bowie (Tonight), residue convulsioni Barrett specchiate in ghignante power
pop (Kingdom Of Love), e via discorrendo fino alla stupenda chiusa della title track, sorta di estro Roxy Music
tra frenesie psych(iche) e tentazioni art-wave.
Non poteva non funzionare, e infatti: in anticipo
sull’ondata neo-psichedelica di Liverpool - gli esordi di
Echo & The Bunnymen e Teardrop Explodes sarebbero arrivati rispettivamente in luglio ed ottobre - i Soft
Boys proponevano un cocktail di adrenalina in technicolor e peyote mutante ad un pubblico bombardato
perlopiù da residue salve punk e ingegnosi ordigni
wave. Erano in definitiva una vena dissociata che affiorava da chissà dove e puntava un golosissimo ignoto.
Una parentesi aperta per miracolo da tuffarcisi prima
possibile, prima della inevitabile chiusura. Un varco
temporale da varcare e farne poi ritorno cambiati. La
fine arrivò di conseguenza prestissimo: un adattissimo
e inglesissimo “ci siamo divertiti, abbiamo scherzato: ok,
a posto così”.
Ognuno per la propria strada, chiamati da progetti
nuovi o preesistenti, con la promessa (mantenuta) di
ritrovarsi per riallacciare i fili di questa splendida, breve
avventura. Kimberley Rew aveva un appuntamento coi
suoi Waves, i quali - con l’ingresso in squadra di Katrina
Leskanich - divennero celebri come Katrina And The
Waves grazie soprattutto al singolo Walking On Sunshine. Matthew Seligman andò a far cassa coi danzerecci
Thompson Twins e con l’iperattivo Thomas Dolby.
Strade divise da buoni amici, del tipo che si rincontra
volentieri come lo scorso decennio per il discreto Nextdoorland (Matador, novembre 2002, 6.8/10). Anche in
questo, una rarità.
Par te 2
L’invenzione
del sogno su rotaie
Hitchcock accettò di buon grado l’offerta di Richard Bishop della Armageddon riguardo un album solista. Pareva, per questo osservatore di una realtà oltre il quotidiano ma in essa racchiusa, che il ruolo di leader di se
stesso fosse un ruolo tagliato su misura fin dall’inizio:
lo comprova la solidità di una discografia ricchissima
e ottimamente gestita sebbene alle volte tortuosa (del
resto si tratta di un viaggio nella mente di Robyn e bisogna tenerne conto). Una creatività libera di muoversi
e svilupparsi come un organismo vivo, copiosa e per
molti versi una favola tra sognante e freudiano (che più
british si morirebbe: da Lewis Carroll a oggi, il club dei
Cappellai Matti conta iscritti prestigiosi come la ghenga Monty Phyton, il santino Barrett, Kevin Ayers, Paul
Roland, Julian Cope e via elencando), con due porte
d’accesso/uscita, un folk traslucido da una parte e la
sua coerente elettrificazione dall’altra.
Poco da dire sulla biografia dell’uomo, che nulla aggiunge a quanto la musica non dica e anzi sottolinea
la bipolarità: discograficamente, tra l’universo indie e
quello major; geograficamente, nel muoversi tra Inghilterra e Stati Uniti; infine, in una storia d’amore piuttosto
travagliata con Cynthia, risolta in un’altra lei (Michéle)
ora moglie e fonte di tranquillità. Quella del visionario,
però, che porge la sapienza di un punto d’osservazione inusuale e parla a chi desidera ascoltare. Come se
fosse un vetrino irrazionale per spiegare la realtà, metaforizzata in faccende balzane di creme egiziane e
mani di gelato, di tramvai dell’antica Londra e serate
alla Raymond Chandler. Canzoni con la consistenza e la
bellezza del vetro soffiato, roba rara che si conclude in
se stessa, figlia di un individuo a suo modo “normale”
e che possiede, dei veri Grandi, l’estrema naturalezza
con cui si dovrebbe sempre maneggiare l’eccentricità
in musica.
In lui niente forzature, semmai qualcosa di sfocato
ed è ovvio in un canone che si giova della bontà della
penna e sarebbe impossibile evolvere più di così. Un
percorso che resta per prima cosa umano - lo rimpiangi
oggi, in tempi dominati dal famolo strano gratuito e
superbo - che si prese tempi e spazi adeguati per maturare, inizialmente restando in famiglia perchè sì che
bisogna crescere e svilupparsi, ma se accade per gradi
è più salutare. Perciò l’esordio Black Snake Diamond
Role (Armageddon, 1981, 7.2/10) si racconta propaggine dei Ragazzi Molli per line-up, produttore ed etichetta. E pure formalmente, smussando a ogni buon
conto gli angoli e costruendo con ironia surreale e intrecci chitarristici: apici di una psichedelia prefissata
“neo” (ma Hitch parlerà poi di retro-delic, vedendoci
giusto…) stanno in The Man Who Invented Himself (dal
saltellare beatlesiano) e Acid Bird (melanconia squillante già marchio di fabbrica), laddove altri assumono le
sembianze di rigurgiti della “lattina d’api” (Brenda’s Iron
Sledge, Why Do Policemen Sing?) e il traslucore di Love e
The Lizard.
Il rimanente sono gradevolezze sul tema e prove
tecniche con melodie meno azzeccate, benché la ricerca di identità necessiti dell’incerto e in seguito disconosciuto Groovy Decay (Albion, 1982; 6.5/10). Affidato
a pesantezze d’arrangiamento - che c’entri la mano del
supervisore Steve Hillage? - e stanchezza compositiva,
ottiene l’assoluzione per l’orecchiabilità un filo sinistra
di Fifty Two Stations e il Bo Diddley krauto di The Rain,
per i pieni e vuoti dell’incisiva America e il notturno
quadretto St. Petersburg. Altrove, con qualche rimpianto per The Cars She Used To Drive e Young People Scream, sax chiassosi e scolorite venature funk faticano a
integrarsi.
La reazione al fallimento non potrebbe essere più
87
splendida: registrato per la nuova etichetta Midnight
in solitudine, con pianoforti qui chopiniani e là cigolanti, acustiche odorose di legno e scintillanti d’oro, I
Often Dream Of Trains (Midnight, 1984; 9.0/10) scrive
un’elegia notturna alla stravaganza imbrigliata dal genio, dando del tu ai fantasmi (Sometimes I Wish I Was A
Pretty Girl, My Favourite Buildings, Flavour Of The Night,
I Used To Say I Love You) per farseli amici. Gemma di
un lirismo aeriforme (Cathedral e Winter Love, Trams
Of Old London e il capolavoro assoluto Autumn Is Your
Last Chance) che non abbandona l’ironia (Uncorrected
Personality Trails, You Sleeping Knights Of Jesus) e riduce
all’osso Scott Walker, invita David Crosby dentro Pink
Moon e Madcap Laughs; poi raccoglie cocci di gotico e
musica popolare e incarta la follia nella saggezza come
un equivalente sonoro di un disegno di Escher.
Da qui l’ingresso negli annali mentre Robyn risponde organizzando gli Egyptians, band a tutti gli effetti
in cui figurano Metcalfe, Windsor e il tastierista Roger
Jackson. Ritorno a volumi e spessori maiuscoli tramite
Fegmania! (Midnight, 1985; 7,5/10), latore di quadrature Byrds e Beatles dalla caratura elevatissima (Egyptian Cream, Heaven, Another Bubble, la cover di Bells Of
Rhymney), talvolta ostaggio dei Can con Syd timoniere
(The Man With The Lightbulb Head) o di un Ray Davies
similmente accompagnato (Strawberry Mind) ma soprattutto e fortemente uniche (l’orientaleggiante I’m
Only You, il racconto My Wife And My Dead Wife, la sensuale Glass). Ne segue un tour compendiato dall’entusiasmante live Gotta Let This Hen Out! (Midnight,
1985; 7,4/10) e spazia nel repertorio porgendo elettriche aggressive e sferragliare di metodica irruenza.
Esaurito il contratto, è tempo di una parentesi meravigliosa prima di approdare sui lidi della A&M, stuzzicata da buone vendite nel circuito indie e collegiale come
88
dagli attestati di stima dei tanti giovani emergenti. Di
Element Of Light (Glass Fish, 1985; 7,5/10) piace il senso di maturità e quel pop trasversale ma di schiatta
nobile che si impone da qui in poi; un surrealismo che
si giova di rotondità sonore e un senso di canone raggiunto e ottimamente sviluppato con pochi eguali nel
fondere Sessanta e Ottanta, acidume e cantabilità: le
lennoniane Somewhere Apart e If You Were A Priest e il
gioiello leggiadro Airscape, la cupa Raymond Chandler
Evening e l’impalpabile Winchester non hanno smarrito
un’oncia di fascino a distanza di un quarto di secolo e vi
basti a mo’ di garanzia.
Il 1987 scorre tranquillo mentre si definiscono i
dettagli del rapporto con la A&M, finalizzato l’anno
seguente dal buon riassunto delle puntate precedenti (sia “tematico” che sonoro) Globe Of Frogs (A&M,
1988; 7,0/10), che ostenta ballate elettroacustiche e
collaudate stramberie dove, trattenuta la raffinatezza,
non si svende la cifra stilistica di Hitchcock, similmente a come avevano testé dimostrato quei R.E.M. che
offrono un Peter Buck ospite fisso o quasi. Più delle
tracce concitate restano nella memoria una sospesa
Luminous Rose e una Flesh Number One da Top 10 di un
mondo migliore, le sirene ammaliatrici Chinese Bones
e Vibrating, l’impossibile orecchiabilità di Baloon Man
e l’Incredible String Band in gita a Granchester Meadows della title-track.
Considerazioni di natura simile possono essere fatte anche per Queen Elvis (A&M, 1989; 7,3/10), tasso
di “devianza” più elevato, sezione d’archi dispettosa e
jingle-jangle di Buck più presente; nonché una penna irrobustita da porgere malie fresche come il primo
giorno: nella compatta scaletta citiamo di necessità la
leggiadra Wax Doll, un’irresistibile Madonna Of The Wasps, i gioielli umbratili Swirling e Autumn Sea e le follie
a briglia di nuovo sciolta The Devils Coachman e Superman. Nondimeno, l’autentico asso nella manica di questo periodo è il solitario e poco citato Eye (Glass Fish,
1990; 7,8/10): benché messo su nastro a San Francisco,
frequenta ancora l’onirismo ferroviario e benissimo
gliene incoglie, sfavillando di scaglie folk dentro una
brezza commovente alternando sedute psicanalitiche
(Cynthia Mask, Queen Elvis, An Agony Of Pleasure), brividi a occhi semichiusi (Raining Twilight Coast, College Of
Ice, Glass Hotel) e un sublime assoggettato in Satellite,
Linctus House e Aquarium. Di ben altra - più cremosa
e laccata - pasta è invece Perspex Island (A&M, 1991;
6,8/10), tirato a lucido in un anno memorabile schiacciando a fondo il pedale della collaborazione con i
quattro della Georgia, produzione (pure troppo) ricca
di Paul Fox che nasconde dietro a pop d’impeto power
e inchini di fronte a Church e Big Star il mesto meditare di She Doesn’t Exist Anymore.
Frattanto il rapporto con l’etichetta stride e non
aiuta il confuso - in questo assai hitchcockiano, cioè
umano - Respect (A&M, 1993; 6,8/10), registrato da
John Leckie nella casa di Robyn sull’isola di Wight in un
periodo esistenziale non felicissimo. Lo pervadono tonalità meste e arrangiamenti contorti, così che anche
le sregolatezze risultano affaticate nello svolgersi (The
Moon Inside) o semplicemente noiose (Wafflehead); se
piacciono il country in ansietà Woodentops The Yip
Song e gli orientalismi di When I Was Dead, Arms Of
Love è trattenuta da abiti pesanti; spiega il succo del
discorso l’evidenza che il jazz folk ardimentoso Railway
Shoes e una Serpent At The Gates Of Wisdom da Lennon
immaginatosi Dylan, che la drakiana The Wreck Of The
Arthur Lee e l’acusticheria obliqua Then You’re Dead
sposino equilibrio e misura in un cento di gravità che
salva il lavoro dall’imballare.
Ora di mettere da parte anche gli Egiziani e affidarsi
a un’altra scuderia, restando ancora un poco ai piani
alti: nel ’96 la bussola ritrovata s’intitola Moss Elixir
(Warner Bros.; 7,2/10), ennesima parentesi folk, urbanizzata (De Chirico Street, The Devil’s Radio, Beautiful
Queen) e al contempo cameristica o blues in un modo
tutto suo (Sinister But She Was Happy, Filthy Bird, la collaborazione con Calvin Johnson Man With A Woman’s
Shadow). Irradia un calore sfuggente che piace e raggiunge vertici di bellezza sincera in Heliotrope, This Is
How It Feels e You And Oblivion. Rimasto per conto suo,
Robyn viaggia in economia e non si nega sfizi d’autore
come il film Storefront Hitchcock (esiste anche il consigliato CD che ne fa tesoro), nel quale l’amico Jonathan
Demme lo ritrae che suona dentro una vetrina a fine
decennio e secolo.
Arriva così alla mezz’età, senza pretese da patetico
supergiovane né acciacchi da farsi rider dietro. Con dignità e un songbook che suscita invidia, invece, suggellando il legame Warner tramite un divertito Jewels
For Sophia (Warner Bros, 1999; 7,0/10), forte della sardonica Mexican God e del caracollare dylaniano di Viva!
Sea Tac, della ballata You’ve Got A Sweet Mouth On You,
Baby e di una No, I Don’t Remember Guilford quintessenza di allucinata delicatezza. Siccome non si diventa
mai grandi, stranezza va dietro a stranezza ed ecco lo
spartano, discreto Luxor (Editions Paf!, 2003; 6,9/10),
pubblicato in occasione del mezzo secolo di vita.
Lo avrete successivamente visto, il Nostro, nel film
di Demme The Manchurian Candidate e in giro per
il globo a suonare; lo avrete gradito in Spooked (Yep
Roc, 2004; 7,0/10), allestito con Gillian Welch e David
Rawlings in una settimana trascorsa a Nashville. Oppure avvalersi in Olé! Tarantula (Yep Roc, 2006; 7,0/10)
dei Minus 5 e concedersi il gusto della celebrazione,
attraverso il documentario del 2007 diretto da John
Edginton Robyn Hitchcock: Sex, Food, Death... And
Insects, una serie di ristampe di vecchio materiale e le
sempiterne cartoline da una mente altrove di Goodnight Oslo (Yep Roc, 2009; 7,1/10).
Soltanto i capelli sono ingrigiti, l’anima è verde
come un ragazzino: lo ribadiva lo scorso anno Propellor Time, con dentro al solito belle canzoni e sodali del
calibro di Johnny Marr, Nick Lowe e John Paul Jones.
Perché stupirsi? Dopotutto si tratta di Robyn Hitchcock:
l’uomo che inventò se stesso.
89
(GI)Ant Steps #45
classic album rev
Bill Evans
Dexys Midnight Runners
Interplay (Riverside, Settembre 1962)
Searching For The Young Soul Rebels (EMI, Luglio 1980)
Chi era Bill Evans in quel 1962? Il pianista che Miles
Davis aveva voluto in Kind Of Blue per la sua abilità
con le armonizzazioni modali, unico bianco in un sestetto all black, e qualcosa vorrà pur dire. Quello che
pochi mesi dopo escogitò assieme a Paul Motian e
Scott La Faro una dimensione nuova per il trio, scardinando i consueti rapporti tra ritmo e melodia, innescando tensioni inaudite nel rapporto “lucidamente
anarchico” tra pianoforte, batteria e basso. E che, quasi
cercando la chiave segreta dell’essenzialità, portava
avanti una carriera votata alla sottrazione, come aveva appena testimoniato lo splendido Undercurrent in
coppia col chitarrista Jim Hall.
Un alieno in casa Riverside, pù o meno. Ma uno splendido alieno. Che comunque non si rivelò immune all’attrazione gravitazionale dell’hard-bop. E come avrebbe
potuto, con tutto il bendiddio copiosamente elargito
dalla Blue Note un capolavoro via l’altro, punteggiando i contorni d’un periodo aureo che significava modernità, successo, spuma dell’onda? C’era la sfida di un
suono che era una disputa di equilibri, di forza ed elasticità, timbri che sgomitano per emanciparsi mentre
s’impastano agli altri in una costante formidabile dialettica tra uno e molti, tra io e noi. Bill Evans raccolse la
sfida. Eccome se la raccolse.
Confermò Hall, il lirismo discreto, fluido della sua chitarra. Pretese una sezione ritmica di primissimo piano,
Percy Heath già bassista del Modern Jazz Quartet e
Philly Joe Jones, l’immenso Philly Joe, batteria ovvero
turbine tribale e geometrico del leggendario quintetto
di Miles. A proposito di tromba, entrò in squadra anche
90
Freddie Hubbard, reduce da un folgorante biennio appunto - per Blue Note, latore di uno stile esuberante,
impeto giovane e genio febbrile.
In scaletta cinque standard e un originale di Evans,
ovvero la title-track, emblematicamente intitolata Interplay: incedere blues arguto e circospetto, sostrato
sottilmente irrequieto per gli assolo che non sono mai
lasciati a se stessi, sempre qualcosa che spinge, avvolge
e sprona. Condizione ideale perché ai rispettivi talenti
sia consentito sgranare numeri tanto brillanti quanto
felpati. Che pure esigerebbero superlativi: quello vibrante di Hall, il solitamente pensoso Evans, un Hubbard munito di sordina e mai tanto davisiano. Il resto è
uno swingare agile, dinamicissimo, talora impetuoso,
di un’eleganza carezzevole ma sotterraneamente tumultosa. Che in When You Wish Upon A Star rallenta i
battiti, s’illanguidisce amarognola, disperde malanimo
in un alone di morbidezza opaca, come il ritratto sonoro di un intero modello di vita intimamente malato.
E’ il disco che consacra Bill Evans, lo completa conferendogli quel titolo di leader che fino ad allora poteva apparire inadeguato a causa della sua indole defilata, di
quel porsi laterale e spesso refrattario alla logica delle
(big) band. Amo pensare a Interplay come ad una contraddizione risolta, il culmine di una carriera che proseguirà senza cedimenti fino alla morte dannatamente
prematura, nel 1980.
Stefano Solventi
Kevin Rowland, l’Enigma. Non basta certo dire che è
quello di Come On Eileen, ché uno così non lo spieghi
facilmente. Che poi, tra le sue tante disperate metamorfosi, basterebbe la tragicomica copertina del suo
My Beauty (1999): quel cinquantenne oscenamente (s)
conciato come la più triste e alcolizzata delle drag-queen, roba che forse nemmeno Marc Almond o Antony
nei momenti di massima indulgenza. Eppure nella sua
irrealtà fiabesca da Rodgers & Hammerstein, quel disco
di cover - al momento l’ultimo in catalogo - dice molto
di più sul personaggio che qualsiasi abbozzo di biografia, in quanto impietoso punto d’arrivo di una carriera
lunga, altalenante e a dir poco atipica, condotta perlopiù combattendo pervicacemente contro se stesso
per demolire sistematicamente quanto in precedenza costruito. Nessuno può sognarsi di congetturare,
con precisione, cosa lo abbia spinto in tale direzione
- basti dire che ancor oggi, senza nemmeno troppa
convinzione, continua a predire un quarto album dei
Dexys (“non hai ancora sentito il loro ultimo disco”: lo
dice anche Homer Simpson nel celebre episodio dei BSharps).
E però, invertendo la prospettiva verso il punto di partenza, tutto all’improvviso appare un po’ più chiaro,
se non comprensibile. E’ sufficiente concentrarsi sullo
scatto di copertina di Searching For The Young Soul Rebels: quel giovane profugo cattolico di Belfast aggrappato ai suoi pochi averi, cipiglio tra il rassegnato e l’indomito di chi cova eterna rivalsa pur nell’ineluttabile
consapevolezza della sconfitta. Com’è che diceva Jimmy Rabitte, il manager dei Commitments? Gli irlandesi
sono i negri d’Europa. Con la loro ortodossia soul degli
esordi (talmente straight da essere definita “fascismo
emotivo” da un detrattore di NME), i Dexys Midnight
Runners - che poi erano di Birmingham, ma la differenza è sottile - incarnavano tutto questo. E lo facevano
come nessun altro, cioè con un rigore che imponeva
struttura alla ribellione, forma all’irruenza. Forzando un
disagio punk tutto proletario in rigidi stilemi (i richiami
all’etica northern soul, il look da gangster di strada alla
Scorsese, l’impostazione parareligiosa della band proprio à la Commitments) Rowland non voleva altro che
crearsi un’identità diversa, anzi migliore di quella degli
altri. Di chiunque altro. Una hybris che alla lunga avrebbe dato frutti anche funesti, ma che ha altresì reso unici
i suoi dischi (tanto il successivo Too Rye Ay con le sue
infatuazioni celtic-gypsy quanto il bistrattato canto del
cigno Don’t Stand Me Down del 1985).
Pertanto la ricca ristampa del debutto non fa altro che
dare a Kevin quel che è di Kevin, ribadendo la grandezza di un lavoro che in quel 1980 si presentava non men
che rivoluzionario, per come confondeva i contorni
tra capricciose e nervose istanze di indipendenza - artistica, etica, esistenziale - e innegabili brame pop: a
trent’anni di distanza il numero 1 raggiunto da Geno,
per quanto non abbia l’appeal dell’ecumenica Eileen,
non suona affatto come un caso; i riff di fiati del trittico
iniziale Burn It Down, Tell Me When My Light Turns Green e The Teams That Meet in Caffs mantengono intatta
la loro potenza; la rilettura di Seven Days Too Long di
Chuck Wood e Thankfully Not Living in Yorkshire It Doesn’t Apply rimangono irresistibili momenti pop; la citazione di Lee Dorsey in chiusura di There, There, My
Dear (“everything I do gonna be funky from now on”)
appare come il più appropriato degli epitaffi, non solo
di un disco ma di un’epopea artistica e umana.
Il secondo cd rilancia e raddoppia con tutti i singoli
dell’epoca, b-side comprese, un demotape di cinque
brani del gennaio 1980 più due session radio per John
Peel e Steve Jensen: se nella loro euforia anfetaminica Breaking Down The Walls Of Heartache e The Horse
sono dei sicuri highlight, non sono certo da meno le
riprese dei superclassici Stax Hold On I’m Coming e Respect (rigorosamente nella versione di Otis). Un must.
Definitivo.
Antonio Puglia
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