Dare sapore
al sapere
Presenza & Dialogo on-line
Schede di sussidiazione msacchina a cura dell’Equipe Nazionale MSAC
ANNO ASSOCIATIVO 2008/2009, “FALDONE” SECONDO
Per questo numero del P&D grazie a… Alessandra Berlini, Letizia Indolfi, Saretta Marotta, Alessandra Migliara, Elena Poser,
Lisa Scognamiglio
SAPORI
E SAPERI
Trovare che il sapere abbia un proprio sapore, cioè assaporare il gusto, il senso dello studio, è una sfida ardua
per tutti gli studenti, msacchini compresi. Inseguire la “sapienza” dello studio (nel senso etimologico del
termine… cioè di ciò che “sa di sale”!) è una ricerca che può impegnare tutta la vita, un cammino che ogni
giorno si rinnova e si fa più grande. Ma forse il più grande problema dell’approccio ad una tanto attesa
“spiritualità” dello studio è proprio il fatto che non si considera che al di là di questo sapere/sapore più vasto,
più grande, sotteso all’intera esperienza umana, c’è tutta una miriade di saperi/sapori particolari con cui ci si
scontra nella quotidianità dell’esistenza, in questo caso nell’ambito della nostra esperienza scolastica.
È di questi che ci vorremmo occupare nel corso delle schede proposte da questo “faldone” di P&D. Saperi,
ovvero materie “di scuola”, di cui spesso fatichiamo a trovare il sapore, il senso particolare. Che scopo ha
studiare economia o scienza o letteratura? E che gusto ci posso trovare a scervellarsi su eventi di cui nessuno
più si ricorda? Se si riesce a trovare (a fatica!) un “senso” al nostro studio su un piano generale, a largo
respiro, molto più difficile e tenersi stretti a quel senso quando ci si scontra con la fatica oggettiva e tutta
concreta dello sbattere contro quella pagina del libro che proprio non ci va giù, l’ostacolo insuperabile di
quelle righe o di quell’esercizio di matematica che non riusciamo a lasciarci alle spalle.
Scovare allora questi sapori “singolari”, andare a caccia dei “sensi particolari” del nostro studio è dunque il
primo degli obiettivi che tramite questo numero del P&D vi proponiamo.
La cultura poi spesso assorbe sapori che le vengono dal contesto in cui si trova ad essere trasmessa. Ci sono
spezie, aromi estranei o affini, che s’intrufolano e “insaporiscono” ogni singola materia scolastica. Non c’è da
riferirsi solo alle ideologizzazioni, strumentalizzazioni, davanti cui ormai siamo abituati a produrre anticorpi,
ma anche a quelle visioni deterministiche del mondo e della storia, per cui è facile pretendere di dividere il
realtà in bianca o nera, rifiutando o pensando di non poter vedere/accogliere tutte le sfumature del grigio, le
diversità rispetto ai nostri schematismi mentali. La realtà è molto più complicata dell’immagine che spesso ci
prefiguriamo! Ricerca sapienziale sarà dunque anche allenarsi a questa pratica continua e fedele del superare
i preconcetti, le facili e comode letture, indagare sempre “oltre”, anche l’esperienza dell’incontro con l’altro,
per scovare il “senso” nascosto, l’essenziale che resta invisibile agli occhi…
Ma anche la pretesa di un “sapore oggettivo”, un sapere “neutro”, rischia di non farci afferrare il senso per
niente scontato della parabola della zizzania. La ricerca è frutto anche del contesto in cui viene condotta,
delle relazioni che l’hanno trasmessa, delle situazioni in cui si è verificata. Non si può inseguire una perfetta
“oggettività”, così come nella nostra quotidianità non è facilmente individuabile il giusto dallo sbagliato, il
“completamente errato” dalla scelta azzeccata. Non ci sono infatti facili ricette per orientarsi in questa
vita… inseguire le chimere del completamente “neutro” o del totalmente “insapore” rischia di portarci
pericolosamente fuori strada. Neanche per il sapere si fa eccezione. Bisogna lasciarsi interrogare dal
complesso, così come la realtà di noi stessi non è facilmente incasellabile a destra o a sinistra, nel bianco o nel
nero…
La ricerca dunque parte da qui. Da qui l’invito a dar la caccia a questi sapori/saperi, alla sequela di quella
sapienza vera, grande, che è sottesa a tutto, a tutti. Parte da qui, parte da noi. Buon viaggio, allora… anzi,
buon assaggio!
Saretta... per la segreteria nazionale del MSAC
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INTRODUZIONE
di Letizia Indolfi
Trovare il sapere genuino della cultura, lavato, asciugato, strizzato e depurato da ideologie e astrusi
marchingegni di parte, è come distinguere zizzania e grano, equivale alla ricerca della verità: per
l'uomo comune un percorso stressante e senza utilità, per lo studioso una continua ricerca senza
giungere a un punto fermo… per lo studente la domanda spesso arriva ad un punto, peccato però
che si tratti di quello interrogativo.
Nessuno ci ha mai detto cosa si deve fare precisamente per diventare persone di un certo rilievo
culturale. I test di ingresso alle facoltà a numero chiuso hanno una trappola molto potente: le
domande di cultura generale. Chimici, matematici e scienziati di tutti i tempi potrebbero svenire al
sentirsi chiedere se Dante era di Firenze o di Arezzo, come è davvero triste constatare che i più
fortunati quiz televisivi si reggono grazie alle domande di argomento religioso: “Ma quanti erano gli
apostoli?” Game over.
Dalla tivù abbiamo capito che Sgarbi è acculturato ma antipatico e che Philippe Daverio con quella
erre moscia all'ora di pranzo della domenica quasi sempre muore in preda ad uno zapping disperato
alla ricerca di canali sportivi meno impegnati.
Abbiamo una sorella iscritta a Filosofia che, a detta di professori di filosofia, parenti e vicini di casa,
si prospetta avrà un futuro radioso: pane assicurato ogni giorno e una succulenta e cremosa salsa
da spalmare chiamata “Filosofia”. E il fratello minore, che di solito è quello che vive delle battaglie
che hanno fatto gli altri prima di lui, si reca deciso dai genitori col diploma in mano e annuncia la sua
scelta universitaria: “Papà, mi iscrivo a scienze biotecnologiche!”.
“Ma come, eri così bravo a fare i temi! E non hai mai preso una sufficienza in chimica!”
“Perché dopo che lavoro fai? Vai a dormire sotto i ponti?”
Il mondo che ci circonda non è mai stato propenso a rendere portatori di cultura tutti quanti. C'era
una élite, un circolo, una scuola dove passeggiare in pochi all'ombra dei suoi portici, un giardino
dove chiacchierare su come rendere la propria vita piacevole e addirittura c'era chi si nascondeva
sotto terra per fare le sue mirabolanti scoperte. Tutti gli altri? A zappare, alla luce del sole.
E oggi a pochi interessa fare la fine del professore, sottopagato, arrabbiato con lo Stato, nervoso e
incapace di separare il privato dal pubblico, con le giacche sporche di gesso e pochi soldi per la
lavanderia, arrivato anch'egli in giovane età alla conclusione che fare il docente sarebbe stato meglio
di fare il cantante o l'attore, figlio di una società che promuoveva il sicuro ma brutto a discapito del
bello ma incerto, come quando si dice che il dovere venga prima del piacere, che noia.
Che si debba studiare ci appare scontato, ma la ricetta non ci sembra solo questa: d'altronde
cercano di impartirla da più di cinquemila anni di storia e nessuno con il solo potere del libro aperto,
recepito e ripetuto è riuscito a fare molto per sconvolgere gli altri e se stesso. C'è bisogno di un
qualcosa di più e mentre lo scrivo faccio proprio l'espressione della mamma che si accorge che è
stata avara nel condire la pasta: manca di sale. Se la pasta manca di sale ce ne si accorge subito, si
cominciano a fare le occhiate per trovare assenso negli altri e il più schietto avrà il coraggio di
denunciarlo e far notare l'errore, magari offendendo la mamma.
Ragazzi, rischiamo seriamente che i nostri successori usino la stessa espressione nel parlare di noi.
Che non andiamo bene, che siamo tiepidi. Che abbiamo recepito passivamente tutti gli insegnamenti
e non ne abbiamo tratto cibo per la nostra vita. Lo diceva anche Gesù che non è importante il
contorno, ma la sostanza (Mt, 23). E non era Baruch Spinoza, quelli erano “causa sui” e non
c'entrano ora. I farisei me li immagino che si lavavano sempre, facevano sempre loro i piatti quando
andavano alla festa di compleanno di qualcuno e non sia mai se c'era la traccia di rossetto sulla
tazzina di caffè, scoppiava il finimondo. Sono come quelli che insegnano le cose e non le amano, che
insegnano solo ciò che piace a loro e non sia mai dire una propria opinione, saresti finito. Anzi, hai
finito di prendere bei voti. Dovrebbe interessarci avere le mani sporche, le scarpe da ginnastica
piene di fango, il gelato spiaccicato sulla t-shirt nuova ma essere pieni piuttosto che essere puliti
lindi pinti e gelidamente... vuoti. Perché se sei sporco, se fai come i bambini che vivono per vedere
cosa si prova, spinti dal fremito, eccitati dall'emozione del nuovo, sei uno che si scontra con le cose,
e le conosce. E pochi a scuola sono riusciti a farsi sconvolgere da una materia, a patto che non
avessero scoperto che c'era qualcosa di affascinante come retroscena. Perché sono tutti interessati
al dilemma amletico sulle costole di D'annunzio? Alzi la mano la profe a cui non sia stata posta
questa imbarazzante domanda. Ebbene, questo ci deve far pensare che i ragazzi ricercano ciò che
non vogliamo trasmettere loro come cosa scontata. E se la storia vista da questa parte del globo ci
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ha stufato, diamo una bella girata al mappamondo: Napoleone per i francesi era un eroe, per gli
Inglesi un malavitoso. Chi l'ha detto che Nietzsche era un anticristo e dove sta scritto che non si
possa prendere spunto dal suo pensiero per comprendere meglio l'altezza e la bassezza dell'uomo?
Perché fermarsi al diritto come scienza della legge e non come ragionata interpretazione della
giustizia in base ai casi comuni e quotidiani? Serve capire che l'economia è soggetta ad enormi
interessi contrapposti nella società attuale: la globalizzazione, il mercato mondiale, la stessa
ecologia non può più ritenersi un affare per giardinieri, ma è in preda ormai a loschi giardinieri di
affari. La verità anagrammata diventa relativa e si tratta solo di scambiare il posto delle parole. Non
si tratta di dire che c'è qualcuno che ha assolutamente ragione e gli altri no o che abbiamo tutti
ragione perché ogni opinione è importante allo stesso identico modo. La questione è che questa
verità che vogliamo conoscere e ci può rendere migliori è in ogni piccolissimo aspetto di vita con cui
abbiamo a che fare. E dovremmo solo trovare persone che ce lo facciano notare. Con cultura.
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SCIENZA
di Elena Poser
“il ragionamento scientifico è una sorta di dialogo
fra il possibile e il reale, fra ciò che potrebbe essere
e ciò che effettivamente è”
Peter Medawar- premio Nobel per la medicina 1960
Sapere e Scienza hanno uguale origine (dal latino scire), ma come appare evidente, hanno
significati molto diversi. Il sapere è un qualcosa che abbiamo a nostra disposizione, al contrario la
scienza implica un certo distacco rispetto a ciò che veniamo a conoscere. Per essere concreti: saper
cucinare un uovo non è lo stesso che sapere perché, a scaldare un uovo, se ne determini la cottura.
Infatti se nel primo caso si tratta di una conoscenza empirica, nel secondo, si tratta di una
conoscenza chimica e fisica.
In francese, poi, spesso il verbo savoir (sapere) viene usato al posto di pouvoir (potere) ecco così
che dal “io so” si passa al “io posso”. Questo accade perché qualunque conoscenza conferisce un
qualche potere a colui che l’acquista, ma la scienza che è in grado di dare questo potere non dice,
però, come utilizzarlo. In effetti, un rischio può essere quello di far diventare la scienza il criterio per
distinguere il bene dal male e questo atteggiamento è poi quello che potrebbe portare ad un ateismo
radicale; un altro rischio è di chiudere il sapere unicamente all’interno delle scienze. Questa
riflessione, sebbene solamente abbozzata, dimostra quanto sia complessa la questione della scienza
e della potenza umana e introduce anche quello che è il problema della demarcazione, ossia riuscire
a definire cosa è scienza da ciò che scienza invece non è.
Una delle prime cose che un vero scienziato è chiamato ad imparare e soprattutto ad accettare è la
consapevolezza che le conoscenze acquisite potrebbero essere sconfessate e messe in discussione in
qualsiasi momento, come potrebbe succedere anche per le scoperte fatte da altri. Nell’analisi di ogni
problema bisogna infatti ammettere margini di incertezza; questo perché, se non vi fossero dubbi,
non vi sarebbe neanche progresso e per fare progressi bisogna lasciare socchiusa la porta
dell’ignoto: pretendere di sapere in anticipo la soluzione è quanto di meno scientifico possa esistere.
Inoltre una nuova scoperta scientifica apre le porte all’esplorazione di innumerevoli altri orizzonti:
uno scienziato non può mai dire di essere arrivato ad una soluzione definitiva, di aver concluso un
cammino, può però affermare di aver scovato nuovi sentieri fino a quel momento rimasti nascosti.
Anzi, talvolta, come ci ricorda Marcel Proust, il vero viaggio verso la scoperta non consiste neanche
nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi per poter guardare ciò che già ci circonda.
Ed è questa la conquista più grande per l’uomo appassionato di scienza.
Molto spesso, nei libri o nei film, l’aggettivo che viene accostato alla figura dello scienziato è “pazzo”.
L’immagine che ne viene fuori è quella di un personaggio sgangherato, con i capelli scompigliati,
ossessionato dalle provette e dagli esperimenti: un tipico “topo da laboratorio” se non peggio. Ma
fermiamoci un momento ad analizzare questa “pazzia”. Lo scienziato è pazzo sì, ma è pazzo di
amore per la scienza, è abitato dalla passione, da quel desiderio di uscire dagli schemi e di
smascherare le ideologie. E’ consapevole della relatività delle proprie conoscenze e freme perché
desideroso di andare un po’ più a fondo. Non è appagato da quello che sa già, è attratto dall’idea di
poter portare alla ribalta qualcosa di nuovo. In un certo senso, è un artista perché deve essere
creativo e deve saper lavorare di immaginazione. Proprio perché passionale è assorbito dal proprio
lavoro.
Ma per non rimanere nel vago proviamo a portare un paio di esempi concreti. Gli uomini che fanno
al caso nostro sono Galileo e Einstein, scienziati che hanno portato ventate di novità e sono riusciti a
cambiare se non addirittura a rivoluzionare il concetto di scienza nelle proprie rispettive epoche.
Procediamo, dunque, in ordine cronologico.
Per comprendere, almeno in una minima parte, il carattere di Galileo è necessario richiamare alcuni
aspetti fondamentali di quel millenario modello del mondo alla cui distruzione egli dette un
contributo decisivo. Innanzitutto bisogna rifarsi alla distinzione aristotelica fra mondo celeste e
mondo terrestre, fra moti naturali e moti violenti. Nella filosofia di Aristotele il mondo terrestre (o
sublunare che dir si voglia) risulta dalla mescolanza di terra, acqua, fuoco e aria e il peso di un
singolo corpo dipende dalla diversa proporzione secondo cui questi elementi sono in esso mescolati,
in quanto terra e acqua hanno una naturale tendenza verso il basso e aria e fuoco verso l’alto.
Proprio grazie all’agitazione e alla mescolanza degli elementi si ha il divenire e il mutamento
caratteristici del mondo terrestre. Se gli elementi non fossero mescolati avremmo un universo in
riposo. Sempre sulla scia di questa idea, tenendo perciò conto del loro luogo naturale, un corpo
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pesante è diretto verso il basso e un corpo leggero verso l’alto. I moti violenti sono, invece, dovuti
all’azione di una forza esterna che ripugna alla natura dell’oggetto. Per quanto riguarda la materia
celeste, questa non ha nulla in comune con i 4 elementi che compongono gli oggetti terrestri, ma è
costituita da un quinto elemento “divino”: l’etere. Di questa materia sono fatte le sfere celesti e
sull’equatore di queste sfere ruotanti sono fissati i pianeti, il sole e la luna che orbitano attorno alla
terra centro dell’universo aristotelico, considerato, per altro, finito.
Questa visione dell’universo è sicuramente affascinante e poetica (tanto che Dante imposta su
queste conoscenze “scientifiche”, la Divina Commedia), ma come ormai sappiamo bene, è anche
errata. Come è ben noto fu Copernico, per primo, a ipotizzare che al centro dell’universo vi fosse il
Sole, ma l’adesione di Galileo a questa nuova convinzione non tardò ad arrivare e non nacque sul
terreno dell’accettazione di un’ipotesi, ma su quello, ben diverso, dell’accoglimento di una nuova
verità. Essa pare a Galileo in grado di rovesciare i quadri mentali, di rifiutare un metodo erroneo di
filosofare, di porsi come apertura a nuove vie del sapere. Nel 1609, dopo aver puntato il
cannocchiale verso il cielo, Galileo trova conferma della teoria copernicana. Come ben sappiamo,
questa nuova scoperta, procurò non pochi problemi a Galileo, ma, nonostante tutto, restò circondato
da una cerchia di persone che condividevano il suo lavoro. Uno di questi, Federico Cesi, in una
lettera del 1615, scrive: “questi nemici del sapere, che si pigliano per impresa di disturbarla dalle
sue eroiche e utilissime invenzioni e opre, sono di quei perfidi e rabiosi che non si quietano mai; né
vi è miglior modo di abbatterli affatto, che non stimandoli punto(…)” La prima denuncia di Galileo al
Sant’Uffizio risale a quello stesso anno.
Nel 1623, Galileo pubblica il “Saggiatore” in cui espone 2 dottrine filosofiche: la prima è legata alla
distinzione fra qualità oggettive e soggettive di un corpo: Galileo vuole fare intendere che il sapere
scientifico è in grado di distinguere ciò che nel mondo è obiettivo e reale da ciò che appartiene alla
sfera soggettiva della percezione dei sensi. Questa esclusione dell’uomo dall’universo della fisica era
una cosa sola con l’assunzione di un modello meccanicistico per la spiegazione del reale con la
conseguente eliminazione dalla fisica, delle cause finali e di ogni forma di antropocentrismo. L’altra
fa riferimento alla struttura geometrico-matematica del grande libro della natura: “Egli è scritto in
lingua matematica, e i caratteri sono cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è
impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro
laberinto” (da Il Saggiatore). Quella sulla “vera costituzione dell’universo, in rerum natura” appare a
Galileo una domanda grande e il fatto che il suo secolo sia fossilizzato sulla concezione di un
universo ordinato gli pare un limite.
E’ però nel “Dialogo sui due massimi sistemi del mondo” che si consuma la distruzione della
cosmologia aristotelica. Questa opera si pone gli obiettivi di rovesciare l’immagine tradizionale del
mondo e di confutare tutti i principali argomenti addotti contro il moto della terra. Particolare è la
caratterizzazione dei personaggi (sono 3) che prendono parte al “Dialogo”: Simplicio è l’aristotelico
difensore del sapere costituito, legato ad un ideale di ordine che riposa su una antica tradizione che
gli appare immodificabile e preoccupato dalle tesi che si discostino da tale tradizione; Salviati è lo
scienziato fermo nelle proprie ragionate convinzioni; Sagredo è lo spirito libero e spregiudicato
disposto al nuovo.
La fine della storia di quest’uomo si conosce. Fu condannato dal Sant’Uffizio e costretto all’abiura nel
1633 per poi, l’8 gennaio 1642, esalare l’ultimo respiro con la consapevolezza di aver rivoluzionato il
modo di concepire la scienza.
Facendo un balzo in avanti di 4 secoli arriviamo alla relatività. Solo al sentire questa parola capiamo
che ci troviamo nel campo dell’instabilità, dell’insicurezza, del “potrebbe essere”, ma anche del
“potrebbe non essere”..insomma siamo ad Einstein. Lui sì che con quella capigliatura trasandata ci
ricorda lo scienziato pazzo poc’anzi citato! Eppure, all’epoca, c’era chi folle lo considerava davvero
perché era nella sua indole ignorare dati sperimentali evidenti in quanto non rientravano in uno
schema teorico ampio e armonico. Ma la sua non era pazzia, bensì genialità. Ad Einstein è stato
riconosciuto un intuito per la verità scientifica così potente da sembrare incapace di sbagliare.
Proprio in questo modo, cioè guidato dall’intuito, egli riuscì a formulare il principio di costanza
relativo appunto alla costanza della velocità della luce. Questo principio era, in realtà, già incluso fra
le proprietà delle equazioni di Maxwell, ma, dal momento che queste erano in contraddizione con la
meccanica newtoniana, ci si trovava nella necessità di indovinare quali fossero corrette.
Ma qual era il fremito di Einstein? Lo stesso scienziato, in un articolo pubblicato nel 1950 per
“Scientific american”, scrive: Cosa ci spinge dunque ad elaborare teoria dopo teoria? Perché
addirittura formuliamo teorie? La risposta alla seconda domanda è semplice: perché amiamo
comprendere, ossia ridurre i fenomeni per mezzo del procedimento logico a qualcosa di già noto o
evidente. Prima di tutto sono necessarie nuove teorie quando si affrontano fatti nuovi che non
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possono essere “spiegati” da teorie esistenti. Ma questa motivazione è, per così dire, banale,
imposta dall’esterno. C’è un’altra motivazione più sottile e di non minore importanza. Si tratta dello
sforzo verso l’unificazione e la semplificazione delle premesse della teoria nel suo insieme.
Da queste ultime righe emerge un’altra peculiarità di Einstein. Molti dei suoi risultati sono stati
ottenuti attraverso argomentazioni semplici e di carattere generale, senza quasi utilizzare calcoli
matematici. Le sue intuizioni si basano essenzialmente su invenzioni di esperimenti mentali che ci
invitano a immaginare forbici lunghe migliaia di chilometri e così via. Questo ci porta a dire che una
delle parole chiave di Einstein è sicuramente “immaginazione”, in quanto la “realtà” si ricava dagli
esperimenti ma viene interpretata attraverso una “libera creazione” della mente. Ciò non significa,
comunque, che lo scienziato sia libero di trastullarsi con fantasie incontrollate sull’universo!
Sempre a proposito della semplicità, è opportuno raccontare un aneddoto. Nel 1943 Einstein,
diciamo per cause di forza maggiore, dovette riprendere in mano il saggio sulla relatività da lui
scritto 38 anni prima. Se lo fece leggere dalla segretaria e, ad un certo punto, mentre questa
leggeva, egli la guardò e le chiese se si trattava davvero di quello che aveva scritto; avutane
conferma, osservò che avrebbe potuto dirlo in modo molto più semplice.
Ma Einstein è anche uno spirito critico. Egli riconobbe che la meccanica newtoniana era sbagliata,
intendendo che è corretta in senso stretto solo all’interno di un ambito limitato di fenomeni, ma non
può essere applicata a oggetti che si muovono alla velocità della luce. Questa sua teoria venne
pubblicata, per la prima volta, nel 1905 in quello che è ricordato come l’anno mirabilis della fisica
moderna. Un pregio di Einstein sta anche nel fatto di non essersi fossilizzato sul suo pensiero, egli è
stato capace di modificarlo e di evolverlo. Infatti, dai primi scritti di Einstein, sembrerebbe emergere
una percezione chiaroveggente del significato dei fenomeni fisici. Dl’altra parte, nel salto che lo
condusse alla teoria della relatività generale, la connessione con i fenomeni è estremamente
indiretta. Einstein non è guidato da esperimenti, ma da principi filosofici ed epistemologici e in mano
sua questi potevano condurre a una teoria fisica di una potenza incredibile. Sempre nell’ articolo
scritto per “scientific american” scrive: sono convinto che ogni teorico vero sia una sorta di
metafisico addomesticato (…) il metafisico addomesticato crede che non tutto ciò che è logicamente
semplice sia incorporato nella realtà esperita, ma che la totalità di tutta l’esperienza sensoriale possa
essere compresa sulla base di un sistema concettuale costruito su premesse di grande semplicità. Lo
scettico dirà che questo è un “credo nel miracolo”. E’ proprio così.
Einstein non si è mai fermato; si dedicò all’affascinante magia dei suoi studi fino all’ultimo. Accanto
al letto d’ospedale, la notte in cui morì, giacevano le pagine di un calcolo interrotto sulla teoria
unificata dei campi. Aveva intenzione di continuare a lavorarci il mattino seguente.
PROPOSTE DI ATTIVITA’
 Provate ad inscenare o a scrivere un dialogo (sullo stile di quello galileiano) su uno dei temi
scientifici attuali, ad esempio l’acceleratore di particelle recentemente messo in funzione al Cern
di Ginevra. Simplicio potrebbe essere lo scienziato scettico, contrario all’esperimento, Salviati
l’uomo sicuro di se, sicuro della riuscita dell’esperimento e fiducioso nella scienza; Sagredo lo
scienziato disposto al nuovo, ma, nello stesso tempo, equilibrato e consapevole dei limiti della
scienza.
 Scienza e musica. “A momentary lapse of…..science!”. La scienza dei Pink Floyd. Un tuffo nella
musica per rendersi conto di come, anche se involontariamente, la scienza entra nella nostra
vita.
Trovate
il
materiale
necessario
qui:
http://www.torinoscienza.it/scienza_e_arte/approfondimenti/apri?obj_id=5141
 Provate a fare dei semplici esperimenti o sfruttando i laboratori delle vostre scuole o utilizzando
le istruzioni che trovate su questo sito: http://www.andrea.baroni.name/ScienzaDemo/
Provate a porvi delle domande sia prima sia dopo l’esperimento.
Domande “tipo” preesperimento:Come utilizzereste i materiali a vostra disposizione per fare l’esperimento?
Formulazione di ipotesi: Cosa credete che succederà?
Domande “tipo” post-esperimento: le vostre ipotesi si sono rivelate corrette? L’esperimento vi
ha stupito? Se sì, perché?
BIBLIOGRAFIA
“Il piacere di scoprire” di Richard P. Feynman
“Il caso e la vita” di Marc Oraison
“Il lavoro dello scienziato” di John Ziman
“Il pensiero di Galileo Galilei” a cura di Paolo
Rossi
“Einstein” di Jeremy Bernstein
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STORIA
di Alessandra Berlini
Siamo a scuola per la maggior parte del nostro tempo e non è sempre vero che tutto quello che la
scuola o i professori ci trasmettono sia oggettivo. Premettendo però che quando si è ha contatto con
altre persone non c’è nulla di oggettivo perché ognuno mette in gioco il proprio pensiero le proprie
idee e la propria formazione…
Questa scheda si propone di stimolare negli studenti un senso critico e di discernimento nei confronti
di quello che ascoltiamo. Cercheremo di mostrare alcuni aspetti della storia che di solito di
trascurano e che invece non dovrebbero. Più che altro perché non c’è una storia giusta o sbagliata,
una parte che ha ragione e l’altra che ha torto, ma la storia è molto più grande e molto più
complessa di quello che a scuola ci insegnano. Avevate mai pensato che accanto alla dolorosissima
deportazione delle popolazioni dei paesi dell’Est durante l’invasione nazista, è poi seguito un
durissimo contro esodo, quasi dieci anni dopo, dei tedeschi coloni delle terre che il loro regime aveva
per loro preparato? E che al loro ritorno trovarono una Germania divisa dalla guerra fredda, bloccati
alle frontiere nel blocco comunista? E ai tempi dell’Apartheid, dopo tutte quelle vessazioni, perché i
neri scelsero di procedere ad un processo di “conciliazione nazionale” e non espellere i figli dei
bianchi che li avevano colonizzati fuori dai loro territori? E che lo sterminio armeno fu il primo
genocidio di massa della storia contemporanea? Quando dolore c’è nascosto tra le pieghe della storia
e quanto è difficile separare, di nuovo, il grano dalla zizzania…
Molto probabilmente a scuola questi avvenimenti storici vengono solo accennati perché per motivi di
programma non si riescono a svolgere e vengono messi da parte, ma anch’ essi fanno parte della
nostra storia. Con tutte le contraddizioni che si portano dentro
DOCUMENTI
1°documento
RETROSCENA DELLA RESA DI PANTELLERIA
Di Francesco Fatica
(ISSES,
Istituto
di
Studi
Storici
Economici
e
Sociali,
Napoli)
www.isses.it
Vorrei aggiungere qualche particolare poco noto all’interessante e documentato articolo di Orazio
Ferrara, che ci ha dimostrato come lo sbarco di Pantelleria non fu quell’operazione assolutamente
priva di reazione e di resistenza che ci è stata gabellata per vera dai vincitori ed avallata
conformisticamente perfino dagli storici della vulgata ufficiale di questa repubblica. Mi propongo
anche di tracciare il disegno generale in cui va vista la resa di Pantelleria, una delle azioni più
scandalose in cui si cominciò ad intravedere l’azione occulta della Massoneria Universale per
provocare la sconfitta dell’Italia fascista
Come tutti sappiamo si arrese e ordinò la resa senza combattere l’ammiraglio Pavesi, comandante in
capo della Piazza di Pantelleria, e consegnò vergognosamente al nemico intatti le aviorimesse in
caverna ed i depositi di carburanti e di acqua potabile stivati in bunker che nessuna delle 20 mila
tonnellate
di
bombe
lanciate
sull’isola
era
riuscito
neppure
ad
intaccare.
Consegnò i serbatoi citati, i depositi di viveri e munizioni e le aviorimesse in caverna intatti al
nemico, secondo un concorde copione che poi si è ripetuto con impressionante e coordinata
regolarità ad Augusta, nel porto di Palermo, a Siracusa ed in altre località minori, dove furono
protagonisti
ignominiosamente
altra
alti
ufficiali
della
Regia
Marina.
A proposito di questo primo inganno, che vide al vertice un ammiraglio, invito il lettore a riflettere su
particolari non trascurabili: si disse falsamente che era finita l’acqua, non mancavano neanche i
carburanti che erano stivati in inattaccabili bunker scavati nella roccia, inattaccabili pure le
aviorimesse. Scandalosamente non furono fatti saltare né gli uni, né le altre e nemmeno le piste
aeroportuali,
contravvenendo
con
ignominia,
agli
ordini
superiori.
Si può ragionevolmente ipotizzare quindi che fossero ritenuti validi soltanto gli ordini della
Massoneria.
Furono fatte saltare, invece, sorprendentemente, tre giorni dopo lo sbarco, il 14 giugno 1943, le
case del centro del paese di Pantelleria, che erano state risparmiate da 140 incursioni aeree (che
avevano invece distrutto tutto intorno al porto ed all’aeroporto) case che si erano salvate anche dai
bombardamenti navali.
Secondo alcuni testimoni tuttora viventi, fu previsto un finto attacco aereo di B17 e B24, che
sganciavano sacchi di sabbia, mentre gli artificieri americani facevano saltare le case, con effetti
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meglio mirati di quel che avrebbero fatto le bombe vere. Si salvò il castello medievale, ma soltanto
perché un artificiere sbagliò qualcosa; si ebbe così il secondo caduto americano; il primo sarebbe
stato ucciso dal calcio di un leggendario asino dantesco, che, evidentemente, non aveva voluto
obbedire agli ordini dell’ammiraglio.
In un sussulto di resipiscenza umanitaria, ma non abbastanza per voler lasciare un tetto ai civili,
avevano fatto sgombrare il paese da tutti gli abitanti, che però assistettero allo scempio dalle colline
circostanti, da dove pure si facevano le riprese cinematografiche. Ma l’errore delle riprese da terra
dimostra da solo che la scena è stata ripresa dopo lo sbarco, in quanto l’operatore ed i suoi
assistenti mai avrebbero potuto trovarsi sul posto prima dell’invasione dal mare
2°documento
II GUERRA MONDIALE. L'ENTRATA IN GUERRA DELL'ITALIA.
Di Francesco Fatica
Nell'estate del 1939 le speranze di pace che avevano seguito l'accordo di Monaco, erano solo un
ricordo; la richiesta della Germania di avere un collegamento terrestre con la regione portuale di
Danzica, raggiungibile solo dal mare dopo la cessione forzata di territorio tedesco alla Polonia in
seguito
alla
pace
di
Versailles,
aveva
riacceso
polemiche
ed
ostilità.
I tedeschi, con l'annessione dell'Austria e l'occupazione dei Sudeti, cercavano di ricostruire uno
spazio economico smembrato dai trattati di pace del 1918, che diversi storici hanno giudicato
inutilmente
severi
e
tali
da
originare
un'altra
guerra.
Gli inglesi ovviamente cercavano di impedire che l'industria e l'economia tedesche avessero modo di
crescere
e
tornare
ad
essere
un
pericolo
per
la
loro
supremazia.
Tuttavia, come già detto, nel 1939 nessuno si sentiva veramente pronto e gli inglesi avevano due
lunghi anni da aspettare, prima che Roosevelt rieletto potesse entrare in guerra. In una prima fase
cercarono di evitare la guerra, scomodarono persino Roosevelt, perché scrivesse a Mussolini una
lettera mielosa esortandolo alla pace e lo invitasse ad un incontro alle Azzorre. Poi,
improvvisamente, cambiarono idea, e fu la dichiarazione di guerra alla Germania. Per quali motivi?
Non certamente la difesa della libertà polacca che fu solo un pretesto, visto che nel 1945
abbandonarono tranquillamente i poveri polacchi al loro misero destino di Repubblica Popolare e a
60 anni di miseria fisica e spirituale sotto il regime comunista.
I
motivi
che
voglio
elencare
come
probabili
sono
i
seguenti:
ENIGMA. Gli inglesi erano venuti in possesso dei mezzi per decifrare i messaggi Enigma, un sistema
che i tedeschi ritenevano impenetrabile e che avrebbero usato lungo tutta la guerra per trasmettere
ordini ai comandi delle unità combattenti. Un vantaggio di enorme importanza militare, che fece
pendere
la
bilancia
da
parte
inglese.
LA LEGGEREZZA DI CIANO. Come ammette lui stesso nella sue memorie, Ciano ebbe la leggerezza
imperdonabile di far capire, anzi di dichiarare all'ambasciatore inglese Percy Lorraine il 30 Agosto,
che l'Italia non sarebbe entrata in guerra. In data 7 Novembre scrive sul suo diario “...Ribbentrop
continua a dire che l'Inghilterra è entrata in guerra perché ha saputo per tempo che l'Italia sarebbe
rimasta neutrale...”.Sapere di dover affrontare solo la minaccia tedesca, e non anche una guerra
navale nel Mediterraneo contro la temibile Marina italiana fu un vantaggio enorme per gli inglesi. I
tedeschi non lo perdonarono mai a Ciano, e pretesero la sua fucilazione a Verona.
I MILIONI DI BADOGLIO. Vale anche la pena di riportare qui la voce di provenienza dal capo della
Polizia Senise, che asseriva essere a sua conoscenza il fatto che Badoglio avesse ricevuto dai
francesi la somma di 50 milioni di lire per assicurare la neutralità italiana. Di questa voce non esiste
a mia conoscenza alcun riscontro positivo, non posso tuttavia fare a meno di dire che, nella mia
opinione, il comandante militare che ha maggiormente danneggiato la nostra condotta di guerra è il
generale Badoglio. Vedremo in seguito alcune delle sue brillanti decisioni.
LA DISINFORMAZIONE ORGANIZZATA. Una serie di eventi mi spinge a credere che gli inglesi
ingannarono deliberatamente Hitler, facendogli credere che una parte consistente della classe
dominante inglese fosse contraria alla guerra e l'avrebbe impedita o quantomeno resa una
commedia se fosse scoppiata, allo scopo di guadagnare qualche mese di tempo verso il traguardo
del 1941: la visita in pompa magna di Edoardo VII e Wally Simpson in Germania, con grandi
dichiarazioni di ammirazione per il Nazismo e ricevimenti ufficiali presso tutte le più alte cariche del
Reich.
I contatti frenetici a mezzo corriere tra Londra e Berlino in tutta la settimana precedente la
dichiarazione di guerra, e la meravigliata costernazione dei tedeschi nel ricevere la dichiarazione di
guerra inglese. La totale assenza di ogni seria operazione militare sul fronte franco-tedesco per il
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periodo straordinario di sei mesi dopo la dichiarazione di guerra, mentre sarebbe stato normale
approfittare del fatto che metà della Wehrmacht fosse impegnata in Polonia. L'altrimenti inspiegabile
decisione di Hitler di fermare le sue forze corazzate e la Luftwaffe a Dunquerque, lasciando che le
divisioni inglesi, ormai sconfitte e disarmate, tornassero in Inghilterra su una variopinta flotta di
pescherecci, barche a vela e natanti di ogni tipo, tutti rigorosamente senza difesa.
Fin qui per quanto riguarda l'inizio della Guerra Mondiale, all'inizio di Settembre del 1939. Poi otto
mesi di non belligeranza italiana, e la nostra dichiarazione di guerra a Francia ed Inghilterra il 10
Giugno del 1940. L'opinione diffusa sul perché siamo entrati in guerra: perché quel furbone di
Mussolini pensava che la Germania avesse già vinto e voleva la sua fetta del bottino, lo hanno letto
tutti gli italiani cento volte, su tutti i giornali. Chi non crede ai giornali può invece riflettere sui fatti
seguenti:
NESSUNO ERA PRONTO PER LA GUERRA.. Ma la storia ufficiale sostiene che i tedeschi, volendo
scatenare una guerra d'aggressione e conquista in Europa, avevano approntato un esercito
potentemente armato. Vediamo qualche dato: i francesi erano terrorizzati dall'inadeguatezza dei loro
armamenti; gli italiani idem, e lo vedremo in dettaglio nel seguito; gli inglesi fecero uno sforzo
enorme
a
mettere
insieme
due
divisioni
per
il
fronte
francese.
E i tedeschi ? Le loro divisioni panzer erano armate con carri ridicoli del tipo 2 (Pzkw II), da 11
tonnellate armati con un misero cannone automatico da 20 mm, quello che armava le autoblindo
italiane. Solo due divisioni, la Quarta e Settima Panzer erano armate con carri che montavano un
cannone vero, un obice da 37 mm, ma erano carri Skoda cecoslovacchi trovati l'anno prima al
momento dell'annessione del dopo Monaco, come si vede chiaramente dalle foto dell'epoca. Allo
scoppio della guerra il generale Milch, comandante della Luftwaffe, se ne esce disperato dicendo che
non aveva praticamente bombe per i suoi bombardieri. Vi sembra uno che aveva preparato una
guerra
d'aggressione?
Informatevi da un collezionista d'armi e vedrete che esistono pistole con il marchio della Wehrmacht
e Luftwaffe, e sono Walther e Luger tedesche, Browning belghe, SCM francesi, Beretta italiane,
Radom
polacche
ed
una
marea
di
marche
spagnole.
I tedeschi hanno dovuto comprare di corsa pistole per i loro ufficiali in tutta Europa. Si erano
dimenticati di produrle, mentre preparavano un esercito aggressore? La verità è che i tedeschi
hanno vinto, perché le guerre non si vincono solo con le armi, ci vogliono anche coraggio ed idee, e
queste in Germania non mancavano. I tedeschi hanno inventato la guerra lampo, la guerra
moderna, e travolto eserciti più numerosi che pensavano di combattere la stessa guerra del 1918.
Mentre questi schieravano decine di divisioni di fanteria a piedi, con i reggimenti di cavalleria come
unità mobili, i tedeschi arrivavano con le divisioni Panzer travolgendo qualsiasi punto di resistenza, e
dal cielo i loro cacciabombardieri Stuka sbaraccavano trasporti, depositi di munizioni e postazioni
d'artiglieria, dopo aver distrutto a terra tutta l'aviazione nemica. Hanno vinto con le idee nuove,
d'armi moderne non ne avevano ancora, stavano riarmando come tutti gli altri: che Hitler avesse
pronto un esercito possente e moderno è, semplicemente, falso. La Germania poteva affrontare una
guerra locale con la Polonia, ma non era pronta ad una guerra mondiale che durasse anni: il
contrario, come dice la storia ufficiale, non è vero.
3°documento
IL MONDO ENTRA NELL’ERA NUCLEARE
Progettazione, uso e conseguenze delle prime bombe atomiche. Dalla teoria della bomba nucleare al suo utilizzo nella
seconda guerra mondiale.
di Antonino Spoto
IL CONTESTO STORICO PRIMA DELL’ESPLOSIONE DELLA BOMBA A.
Gli Stati Uniti, che vengono considerati come la patria della bomba A, non sono stati, comunque, gli
unici a tentare di trovare una soluzione violenta e rapida per porre fine alla guerra: anche i tedeschi
infatti erano attivamente impegnati nella ricerca.
Dopo il 7 dicembre del 1941, giorno in cui le truppe Giapponesi affondarono gran parte della flotta
americana a Pearl Harbor, gli Usa entrarono attivamente nel conflitto mondiale con due principali
obiettivi: il primo era quello di sconfiggere le forze nazifasciste italiane e tedesche, il secondo quello
di eliminare militarmente il Giappone. La situazione in Europa era decisamente complessa, anche se,
dopo il 1942-43, le truppe dell’asse avevano subito una dura sconfitta In Russia, in un impresa che
è tristemente passata alla storia per l’ecatombe finale subita, oltre che dall’esercito tedesco, anche
da quello Italiano dell’ARMIR nella quale persero la vita migliaia di soldati. Questa sconfitta ebbe
grande influsso anche sulla politica interna dei due stati, italiano e tedesco.
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Dopo le sconfitte subite in Africa da parte dei Britannici, gli Italiani dovettero assistere anche allo
sbarco degli Americani sulle coste della Sicilia che aprirà la crisi del regime fascista, definitivamente
sconfitto solo il 25 aprile del 1945 quando le truppe Alleate liberarono, anche grazie ai Comitati di
Liberazione dell’Alta Italia, la cosiddetta "Repubblica di Salò", che rappresentava l’estremo tentativo
di Mussolini, di mantenere le redini del potere.
Il 6 giugno del 1944, le truppe alleate assestarono un altro duro colpo ai regimi totalitari: con lo
sbarco in Normandia le truppe americane, contemporaneamente aiutate da sud dalle truppe
britanniche e francesi che combattevano in nome di De Gaulle, furono in grado di liberare la Francia
dall’oppressione tedesca.
Contemporaneamente, la controffensiva russa schiacciava da est la Germania, liberando la Polonia e
procedendo poi su Berlino: il 7 marzo del 1945, quando le prime unità inglesi e sovietiche varcarono
i confini est e ovest della Germania, il regime di Hitler fu definitivamente sconfitto e il Führer si
suicidò (30 aprile 1945).
Per gli Usa, nonostante queste decisive vittorie, la guerra, però, non era finita, in quanto mancava il
secondo obiettivo principale: il Giappone. Infatti, contemporaneamente alle operazioni militari in
Europa che costituivano un grande dispendio di denaro e forze, gli Usa dovevano pensare al fronte
asiatico dove il Giappone costituiva una grande minaccia. Dopo l’attacco del 1941, gli americani
risposero nel ‘42-’43 con violenti attacchi a Midway, nel Mar dei Coralli, a Guadalcanal e
successivamente, in Nuova Guinea, conquistata, dalle forze di Roosevelt. Nonostante questi attacchi,
e quello successivo del 1944 nell’Isola di Leyte che rappresenta il più grande attacco navale di tutta
la guerra, i Giapponesi non demordevano, anzi l’azione disperata, che mirava alla difesa della patria,
causò ancora miglia di vittime americane (basti ricordare i Kamikaze): risultò chiaro al neo
presidente Truman che un’invasione del Giappone via terra sarebbe stata impossibile, perché ciò
avrebbe significato la perdita di numerose vite americane. Proprio da questo clima quasi di
esasperazione, nasce l’idea che l’unica soluzione possibile sarebbe stata l’utilizzo della nuovissima
bomba atomica.
Il 6 agosto del 1945 venne sganciata la prima bomba su Hiroshima, in seguito, visto la resistenza
dei Giapponesi, che non si piegavano alla resa incondizionata, venne sganciata la seconda su
Nagasaki con la consequenziale firma dell’armistizio il 2 settembre successivo. L’otto agosto anche la
Russia aveva dichiarato guerra al Giappone, e, in seguito, conquistò la Manciuria e la Corea.
4°documento
6 AGOSTO 2005 – I RETROSCENA DEL LANCIO DELLE ATOMICHE A SESSANT'ANNI DA HIROSHIMA
DI Alessandro Marescotti
Gli americani erano venuti a conoscenza della volontà del Giappone di mettere porre fine alla guerra
e di arrendersi. Ma c'era un problema: il Giappone stava per trattare la pace anche con l'Urss. I
servizi segreti americani intercettarono e lessero i messaggi in codice del governo giapponese
all'ambasciatore giapponese a Mosca. E fu deciso il bombardamento atomico prima che il Giappone
concordasse la resa anche con l'Urss.
Hiroshima e Nagasaki furono dolorose ma necessarie. E' questa l'opinione diffusa fra chi ha
studiacchiato superficialmente la storia.
Si dice che l'impiego della bomba atomica abbia alla fine fatto risparmiare vite umane non solo agli
americani e ai loro alleati, ma anche agli stessi giapponesi.
Questa tesi ricalca in sostanza quella di Churchill secondo il quale l'uso delle bombe atomiche e i
conseguenti 200 mila morti fu giustificato dall'esigenza di risparmiare almeno un milione di vite
umane fra le truppe angloamericane e molte vite umane fra gli stessi giapponesi. Scrisse
infatti Churchill nelle sue memorie: "Il popolo giapponese poteva trovare nell'apparizione di
quest'arma quasi soprannaturale una scusa tale da salvare il proprio onore e liberarlo dall'obbligo di
farsi uccidere fino all'ultimo uomo".
Quindi la bomba atomica avrebbe reso un utile servizio sia agli angloamericani sia ai giapponesi,
risparmiando (paradossalmente) vite umane fra i giapponesi e abbreviando le sofferenze per tutti.
Quelle di Hiroshima e Nagasaki furono quindi "bombe umanitarie"?
No. Lo storico B.Liddell Hart, nella sua "Storia del mondo moderno - la Seconda Guerra mondiale"
(Garzanti), documenta che il Giappone era sul punto di arrendersi. Le bombe atomiche furono
dunque lanciate non perché la guerra rischiava di prolungarsi troppo a lungo ma per due
considerazioni prioritarie:
1) la bomba atomica voleva essere la dimostrazione all'URSS del possesso di un'arma che sanciva la
superiorità militare americana;
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2) gli Stati Uniti volevano far presto in modo che i russi non potessero accampare meriti per la
sconfitta del Giappone.
Quest'ultimo punto e' poco conosciuto e merita un approfondimento.
E' interessante raccontare un retroscena "segreto" - come documenta il testo di Liddel Hart - e cioè
che gli americani erano venuti a conoscenza del desiderio del Giappone di mettere porre fine alla
guerra e di arrendersi. Perché allora lanciare bombe atomiche su una nazione che stava per
arrendersi? Il Giappone aveva infatti deciso di mandare a Mosca il principe Konoye per i negoziati di
pace. Gli americani tramite i servizi segreti intercettarono e lessero (con il codice "magic") i
messaggi del ministro degli esteri giapponese all'ambasciatore giapponese a Mosca. "Ma il
presidente Truman, - scrive lo storico B.Liddell Hart - e la maggior parte dei suoi consiglieri erano
tanto desiderosi di accelerare il crollo del Giappone, quanto lo era Stalin di entrare in guerra contro il
Giappone prima che essa finisse, per assicurarsi una posizione vantaggiosa nell'Estremo Oriente".
Per sbarrare la strada a Stalin ed essere primi e unici vincitori sul Giappone, Truman diede ordine di
lanciare le bombe atomiche. Quindi quelle vittime giapponesi innocenti furono liquefatte non da
"bombe umanitarie" ma da una cinica corsa che vide Usa e Urss fare a gara a vincere sull'ormai
fragilissimo Giappone.
Alla luce di ciò, le argomentazioni di Churchill appaiono "vere" quanto le parole del presidente
americano Truman il quale dichiarò al mondo che le due bombe atomiche avevano colpito obiettivi
militari. Falso: colpirono solo due cittadine inermi e prive di installazioni belliche.
Su una cosa invece Churchill fu invece estremamente sincero e cioè quando disse: "In tempo di
guerra la verità e' così preziosa che dovrebbe essere protetta costantemente da un velo di bugie".
Parole verissime.
Come insegnante sento il dovere di invitare a ripudiare la profonda immoralità del fuoco che sciolse
donne, bambini e uomini innocenti, e di dire ai giovani: mai più l'olocausto nucleare.
http://www.peacelink.it/pace/a/12235.htm
PROPOSTA DI ATTIVITÀ


Perché non organizzare un piccolo gruppo di ricerca storica? A ciascuno potrebbe essere
assegnato un argomento su cui documentarsi tramite articoli, libri, giornali e poi trovarsi tutti
assieme e mettere in comune ciò che si è appreso da quel film, articolo, libro. Potrebbe
essere una buona occasione per approfondire argomenti che normalmente per problemi di
programma non vengono intrapresi durante le ore scolastiche. Si chiama gruppo di lettura!
In tema di discernimento e uso della testa si può invece optare per un’ attività che aiuti a
valutare come le cose vengono dette, raccontate e riportate e il perché si da’ maggior
importanza ad alcune cose e altre invece vengono tralasciate e non considerate importanti..
Come si può realizzare questa attività? Si può vedere assieme un film, o darsi il compito
comune di leggere degli articoli o un libro. Una volta terminata questa prima fase di
preparazione si passa alla fase due in cui ciascuno dei componenti del gruppo racconta ciò
che lo ha colpito ed interessato di più. ciò che deve essere raccontato non è tanto la trama o
il fatto dell’articolo/libro/film, ma cosa ha colpito maggiormente l’attenzione individuale. Nel
frattempo gli altri ragazzi ascoltano attentamente per “studiare” COME racconta il nostro
narratore, cosa omette, cosa ha sottolineato, per poi intervenire dicendo la propria opinione.
Questa attività aiuta a capire come le persone colgono certi fatti e non altri e che nel
raccontarli le cose vengo dette e percepite in modo diverso da come si sono ascoltate.
Per entrambe le attività di cui sopra i documenti allegati possono darvi una mano, ma sono solo
degli input che vi invitano a cercare altro materiale (e soprattutto stare attenti a chi lo scrive!) Lo
scopo è essere spronati a cercare, stimolare la voglia di scoprire e conoscere sempre di più.
Suggerimenti per altri argomenti da approfondire:
SUL PERIODO DELLA RESISTENZA.
 Film (e libro) il partigiano Jonny di Beppe Fenoglio
 Film Paisà di Rossellini o Roma città Aperta.
 Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno
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GUERRE…
 Film (e libro) di Ernest Hemingway Per chi suona la campana. La guerra di Spagna vide la
falange fascista opporsi al blocco di comunisti e socialisti in una sanguinosa guerra civile poi
terminata con l’inizio della dittatura del generale Franco
 Nato il 4 luglio, film sulla guerra del Vietnam, o meglio, il ritorno dal Vietnam, ma la
filmografia su questo tema è vastissima
 Il conflitto israelo-palestinese. Cent’anni di guerra. Una lettura abbastanza equidistante è il
saggio pubblicato da Einaudi con lo stesso titolo da James Gelvin
SULLA STORIA POLITICA ITALIANA
 Provate ad affrontare la storia della prima e della seconda repubblica, come pure dello stato
liberale ottocentesco alla luce delle diverse riforme elettorali (pensate soprattutto ai
progressivi allargamenti del suffragio, ovvero del diritto di voto, contemporaneamente alla
progressiva affermazione dei voti popolari e socialisti). A questo proposito consigliamo
l’interessante interpretazione di Giovanni Sabbatucci Il trasformismo come sistema, edito da
Laterza o di Salvadori sulle “crisi di regime”, intendendo per regime il sistema politico in
senso più largo, sistema determinato appunto dai meccanismi elettorali (Storia d’Italia e crisi
di regime, Il Mulino)
 La “questione romana”, ovvero il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa. Un invito ad
approfondire può essere la lettura critica di David Kertzer, Prigioniero del vaticano, racconto
narrato dei giorni di Pio XI e Leone XIII dalla breccia di Porta Pia ai primi del ‘900
 Biografia di grandi personaggi storici come Camillo Benso conte di Cavour, Benito Mussolini,
Garibaldi, Antonio Gramsci. Di Gramsci provate a leggere cosa ne pensa dell’Azione Cattolica
nella voce omonima dei suoi Quaderni dal carcere
 Che storia porta con sé l’inno d’Italia?
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LETTERATURA
di Alessandra Migliara
Quando pensiamo alla letteratura, probabilmente la prima cosa che ci viene in mente sono pagine e
pagine colme di parole, alcune scritte pochi decenni fa, altre che risalgono a migliaia di anni fa, a
volte noiose, a volte interessanti, a volte comprensibili a fatica, a volte divertenti, a volte inutili, a
volte così ben sistemate nel foglio da risultare incredibilmente piacevoli ed emozionanti… parole,
appunto, nulla di più.
Ma siamo sicuri che sia proprio così? Che ruolo ha avuto la letteratura nella vita degli uomini che ci
hanno preceduto? E che ruolo ha (o potrebbe avere) nella nostra? In che modo possiamo assaporare
le parole che leggiamo, renderle vive, dar loro senso e significato?
Abbiamo parlato degli uomini che ci hanno preceduto… Possiamo dire infatti che la letteratura esiste
da quando esiste l’uomo, o meglio, da quando l’uomo ha sentito l’esigenza di conservare e
comunicare agli altri un messaggio che riteneva importante, fossero le prime idee religiose, le prime
forme di legislazione (anche questo all’inizio era letteratura!), qualsiasi informazione necessaria per
vivere insieme agli altri e non dimenticare i progressi fatti fino a quel momento.
Si pensi ad esempio ai poemi omerici, nei quali, all’interno di una storia destinata a divertire il
pubblico, troviamo gli elementi più disparati (conoscenze geografiche e cosmologiche, riti, tecniche
artigianali…) che dovevano servire da “istruzione” per le nuove generazioni.
La letteratura, che si è poi evoluta in modi e forme anche molto diversi tra loro, ha però mantenuto
questa caratteristica principale: attraverso di essa l’uomo interpreta se stesso, gli altri uomini e il
mondo intero, compiendo una “rielaborazione intellettuale” di tutto ciò che vede in sé e intorno a sé
e comunicando agli altri questa sua personale rielaborazione in maniera artistica. Infatti, la
letteratura che, “intrappolata” nelle pagine di un libro, può sembrarci fredda e morta, in realtà non è
altro che una forma di comunicazione tra l’autore e il mondo che lo circonda e i suoi abitanti: le sue
opere sono influenzate dal contesto politico, sociale e culturale, dalle attese del pubblico e dalle
opere che sono state scritte in precedenza (altri uomini che hanno espresso il loro pensiero!), ma a
loro volta danno un contributo innovativo e personale a quel contesto nel quale vivono, stimolano la
riflessione degli altri uomini e la futura produzione di opere, in un continuo scambio di idee e di
pensieri nel quale consiste la vera ricchezza della letteratura!
Se la letteratura è dialogo e comunicazione, proviamo allora ad analizzare i ruoli dei protagonisti di
questo dialogo: da una parte ci sono gli autori, dall’altra ci sono i lettori, ci siamo tutti noi insomma,
che siamo chiamati ad avere un ruolo attivo e critico all’interno di questo dialogo.
Dalla parte dello scrittore…
In questa forma particolare di dialogo che è la letteratura, lo scrittore ha un compito importante:
egli infatti ha spesso una cultura e una sensibilità che, se da un lato gli permettono di interpretare la
realtà del mondo che lo circonda e di esprimerla in maniera personale e originale, dall’altra possono
portarlo ad assolutizzare questa sua personale visione e a isolarsi dagli altri uomini. Viceversa,
questa particolare sensibilità potrebbe essere messa al servizio degli altri e della società, a volte
attraverso un intervento diretto, altre volte semplicemente attraverso l’opera letteraria.
Nel corso della storia il ruolo del letterato nella società è stato oggetto di molte riflessioni ed è
notevolmente cambiato, in proporzione al cambiamento della società e del pubblico con il quale egli
era a contatto. Ad esempio, nell’antica Grecia c’era un rapporto diretto tra aedo che cantava e
pubblico che ascoltava, e che da quei poemi traeva diletto e insegnamenti vari. Nell’Italia moderna il
ruolo è cambiato molto frequentemente: nell’Italia dei Comuni gli intellettuali erano spesso
direttamente impegnati in politica, e la libertà di cui godevano traspariva anche dalle loro opere; nel
rinascimento, con la nascita delle corti, il letterato perde la libertà che aveva precedentemente ed è
spesso costretto ad assoggettare la propria arte al divertimento del pubblico; nell’illuminismo
assistiamo ad un risveglio del ruolo dell’intellettuale, che si propone come guida della società ma
resta fondamentalmente staccato da essa, preferendo agire consigliando i sovrani illuminati; nel
periodo risorgimentale il letterato ha un ruolo fondamentale, da leader che invita i propri
connazionali a più alti valori civili e a un maggiore impegno nella società. Dalla fine dell’Ottocento in
poi la situazione cambia: la crisi di valori che investe la società coinvolge anche il letterato, che, non
avendo più un ruolo ben determinato, deve trovare nuove strade per esprimere se stesso in
rapporto agli altri. C’è chi preferisce chiudersi in se stesso, ritirarsi nella “torre d’avorio” della propria
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cultura e della propria arte, a volte per incapacità di rapportarsi con un mondo percepito troppo
estraneo ai propri valori, altre volte per difesa della propria presunta superiorità. Questo è avvenuto
in particolare durante periodi storici difficili, come quello tra le due guerre mondiali, caratterizzato in
Italia dal totalitarismo fascista. Altri letterati hanno invece reagito in modo diverso a questa crisi,
proponendo nuovi modi di impegno all’interno della società, come è successo nel secondo
dopoguerra. Ricordando che ogni atteggiamento di un letterato nei confronti degli altri e della
società è dovuto ad innumerevoli fattori variabili (tra cui fondamentali il carattere personale e il
contesto in cui visse), possiamo provare ad analizzare le storie e le opinioni di alcuni dei maggiori
intellettuali del Novecento italiano, cercando di capire come, nella loro esperienza, la letteratura li
abbia spinti a isolarsi o ad interessarsi agli altri e a mettersi al loro servizio, e in che modo.
LE VERITÀ ASSOLUTE DEL POETA-VATE
“Bisogna fare la propria vita come si fa un'opera d'arte. Bisogna che la vita di un uomo d'intelletto sia sua
opera. La superiorità vera e propria è tutta qui.” (G.D’annunzio, Il Piacere)
Un atteggiamento possibile è quello di chi crede, con la propria arte, di possedere verità assolute,
rivelazioni che possono cambiare la storia degli uomini. Un caso emblematico è quello di Gabriele
D’annunzio (1863-1938), che incarnò l’ideale estetico secondo il quale la vita deve essere vissuta
come un’opera d’arte, creando quindi una totale fusione tra letteratura e vita. Molto spesso infatti i
protagonisti delle sue opere si identificano con l’autore, che fu uno dei protagonisti della scena
pubblica italiana (ad esempio attraverso l’impegno politico nel periodo successivo alla prima guerra
mondiale) e influenzò con i suoi atteggiamenti e con il suo stile di vita un’intera generazione. Questa
sua presenza ingombrante nella società (e anche una certa consonanza con gli orientamenti politici
dell’epoca) non deve però farci credere che egli fosse davvero vicino agli altri uomini. Anzi, il suo
ideale estetico lo portava a considerarsi un individuo superiore, distinto dagli altri uomini e
dispregiatore del “grigio diluvio democratico odierno che tante belle cose e rare sommerge
miseramente”(Il piacere).
IL DISTACCO DALLA VITA E DAGLI ALTRI
“E poi io ho una vera, grande aspirazione: quella di vivere per me, solamente per me. Ho vissuto un po’ troppo
per gli altri. Vorrei ritirarmi, appartarmi nella mia casa silenziosa che guarda sulla campagna romana e scrivere
sì, scrivere sempre, perché la vita o si vive o si scrive. Io, travagliato come sono, non posso non scrivere. Ma
vorrei scrivere per me, lo ripeto. Scrivere per una gioia intima, per un godimento tutto mio. Scrivere e chiudere
tutto nel mio cassetto. Potermi comunicare con tutta questa roba. Appartarmi sì, appartarmi, giacché ho tante
cose da dire… a me stesso.” (Luigi Pirandello, da una intervista rilasciata nel 1924)
Un atteggiamento completamente diverso da quello dannunziano è quello di Luigi Pirandello (18971936), che rifiutò sempre qualsiasi contaminazione tra la letteratura e la vita, al punto che molte
delle scelte della sua vita possono sembrarci totalmente antitetiche rispetto alle idee espresse nella
sua opera. Ad esempio nel 1924 chiese la tessera del Partito fascista, facendo una scelta totalmente
diversa rispetto a quelli che avevano firmato il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto
Croce. Nonostante la sua appartenenza al partito fascista, egli si mantenne comunque isolato
rispetto al regime e continuò ad approfondire i suoi temi, tutt’altro che consoni al clima fascista. E’
difficile capire il perché di questo suo atteggiamento defilato e, almeno apparentemente, indifferente
a quello che stava succedendo in quei decenni in Italia; di certo c’è che dalle sue parole risulta una
concezione della cultura come bene privato, da tenere gelosamente per se stessi. Infatti ad animare
tutta la sua opera c’è una costante sfiducia nella capacità dell’uomo di comunicare con il proprio
simile, perché non esiste una realtà e una verità univoca a cui fare riferimento per capirsi a vicenda,
e quindi anche una completa sfiducia nella possibilità che la letteratura (e le sue stesse opere)
possano essere messe al servizio degli altri uomini. Uomini a cui comunque si sente vicino, pur nella
totale incomunicabilità, nella condivisione di questa assurda situazione, della “pena di vivere così”.
L’impegno politico e sociale dell’intellettuale
“E’ qualità naturale della cultura di non poter influire sui fatti degli uomini? Io lo nego. Se quasi mai (…) la
cultura ha potuto influire sui fatti degli uomini dipende solo dal modo in cui la cultura si è manifestata. Essa ha
predicato, ha insegnato, ha elaborato principi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma non si è
identificata con la società, non ha governato con la società, non ha condotto eserciti per la società. (…) La
società non è cultura, perché la cultura non è società. E la cultura non è società perché ha in sé l’eterna
rinuncia del «dare a Cesare» e perché i suoi principi sono soltanto consolatori, perché non sono
tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive.
Potremo mai avere una cultura che possa proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo?
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Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il
bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura.” (Elio Vittorini, da un articolo
apparso sul primo numero de Il Politecnico, 29 settembre 1945)
In questo articolo di Elio Vittorini (1908-1966), scritto poco dopo la fine della seconda guerra
mondiale, in un periodo quindi in cui l’intellettuale si sentiva in dovere di partecipare alla
ricostruzione e di interrogarsi sulle cause degli orrori appena accaduti, possiamo notare un
atteggiamento diverso rispetto a quello di D’Annunzio (fusione tra vita e arte che però non è messa
a servizio) o di Pirandello (separazione totale tra vita e letteratura e separazione totale dal
prossimo). In questo caso l’autore, che durante gli ultimi anni della guerra era stato attivamente
impegnato nei gruppi comunisti clandestini e nelle lotte partigiane, auspica un tipo di cultura che
non solo possa incidere fortemente sulla società, ma possa farlo per il bene di tutti, per limitare la
sofferenza degli uomini. Il pensiero culturale di Vittorini fu molto importante in quegli anni,
soprattutto per la difesa dell’autonomia della letteratura contro le ingerenze della politica, autonomia
che egli difese contro Togliatti e l’intero Partito Comunista. Nonostante questo, la forte tensione
etica e civile che percorreva, come Vittorini, molti intellettuali di quell’epoca, presenta comunque dei
punti deboli, come una certa sopravvalutazione della funzione di “coscienza” che l’intellettuale può
assumere e del valore concreto, pratico, incisivo sulla società, che possono avere la cultura e la
letteratura. Inoltre il “popolo”, di cui la cultura doveva essere al servizio, era sempre guardato da
lontano, in maniera astratta, come un’entità che l’intellettuale non poteva più permettersi di
ignorare, ma di cui aveva il dovere, dalla sua posizione privilegiata, di favorire l’emancipazione.
L’utilità e i limiti della letteratura
“Noi pure siamo tra quelli che credono in una letteratura che sia presenza attiva nella storia, in una letteratura
come educazione, di grado e qualità insostituibile. (…) La letteratura deve rivolgersi a quegli uomini, deve –
mentre impara da loro – insegnar loro; servire a loro, e può servire solo in una cosa: aiutandoli a essere
sempre più intelligenti, sensibili, moralmente forti. Le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono
poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti
generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le
proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo
di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo, e
tante altre di queste cose necessarie e difficili. Il resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla storia,
dalla vita, come noi tutti dobbiamo continuamente andare ad impararlo.” (Italo Calvino, Il midollo del leone)
Come Elio Vittorini, anche Italo Calvino (1923-1985) pensa che la letteratura possa essere messo al
servizio degli uomini, ma in modo profondamente diverso. La letteratura può infatti essere utile agli
uomini in quanto può renderli migliori, non in virtù di un suo concreto apporto alla vita politica a
sociale. Al contrario di quanto avveniva negli anni della polemica innescata da Vittorini, Calvino, pur
rivendicando gli insegnamenti della letteratura, non ne assolutizza gli utilizzi e i vantaggi, non ne fa
la chiave per cambiare il mondo, ma la considera uno degli elementi che possono giovare alla vita
della singola persona e quindi, di riflesso, alla vita della società. Il compito dell’intellettuale infatti,
secondo lui, non è quello di intervenire direttamente nella società, ma di darne delle chiavi
interpretative che possano servire all’uomo moderno. E’ importante notare che Calvino, nonostante
nel corso della sua vita nutra sempre più dubbi sul fatto che l’intellettuale possa trovare un proprio
posto nella società, non si sente separato da tutti gli uomini a cui si rivolge, da cui afferma anche di
voler imparare: la cultura e la letteratura, insomma, non lo isolano, ma lo portano ad avere una
precisa consapevolezza del suo essere un intellettuale a servizio della società, e che dalla società,
“dalla scienza, dalla storia, dalla vita” ha ancora tanto da imparare.
Questa breve carrellata di autori non dà sicuramente che un’idea minima del dibattito che ha
infiammato l’Italia nell’ultimo secolo, però può esserci utile per diversi motivi. Innanzitutto ci aiuta a
capire che dietro quelle parole che leggiamo sui libri ci sono delle persone reali, che attraverso
queste loro opere hanno cercato di capire e di interpretare il loro ruolo all’interno della società,
vivendo spesso questo ruolo anche in modo tormentato e difficile. Ma soprattutto entrare a più
stretto contatto con la storia di queste persone può darci lo spunto per riflettere sulla nostra storia
personale e su che ruolo abbiano la letteratura e, più in generale, la cultura all’interno della nostra
vita: in che modo il nostro studio quotidiano ci incoraggia e ci dà gli strumenti per impegnarci nella
società e per metterci al servizio degli altri? A quali degli atteggiamenti di cui abbiamo parlato ci
sentiamo più vicini? La nostra cultura ci porta a chiuderci in una “torre d’avorio” o a metterci al
servizio degli altri? “Il sapere serve solo per darlo”, diceva don Milani, polemizzando contro chi
sfruttava le proprie conoscenze per tenere gli altri in una posizione di inferiorità e mantenere così i
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propri privilegi. Ad una cultura che sia usata strumentalmente ed egoisticamente per ostacolare il
prossimo, vogliamo proporre l’ideale di un sapere condiviso, che possa contribuire alla crescita di
tutti e della società.
Dalla parte del lettore…
Anche noi possiamo essere protagonisti di questo dialogo nel quale consiste la letteratura! Abbiamo
infatti esaminato i modi in cui il letterato si rivolge agli altri uomini, ma noi, da parte nostra, come
rispondiamo a questo dialogo, alle provocazioni che ci vengono rivolte? Siamo lettori acritici o
interpretiamo in maniera personale ciò che leggiamo? E secondo quali criteri? E ciò che apprendiamo
così in che modo ci aiuta a metterci al servizio degli altri?
Studiando la letteratura a scuola molto spesso ci imbattiamo nelle interpretazioni che di un autore o
di un’opera hanno elaborato vari critici di periodi storici diversi. Gli indirizzi critici sono molteplici
(critica storicistica, sociologica, psicanalitica, stilistica, strutturalista, ecc.) e ci forniscono
interpretazioni diverse l’una dall’altra, spesso totalmente divergenti. Le varie interpretazioni infatti
sono elaborate da intellettuali del passato che, leggendo un’opera, hanno “dialogato” con essa e ne
hanno sviscerato i significati alla luce innanzitutto del periodo storico in cui vissero e delle esigenze
culturali (ma non solo!) dettate da quest’ultimo.
Viene allora da chiedersi: come possiamo conoscere ciò che pensava davvero l’autore? E in che
modo il suo pensiero può essere importante per noi?
L’unico modo per rispondere a queste domande è provare noi stessi a interpretare un testo,
un’opera, un autore. Per farlo dobbiamo saper svolgere tre operazioni: contestualizzare,
attualizzare, valorizzare. Contestualizzare significa studiare l’opera per quella che realmente è,
mettendola in rapporto alle caratteristiche storiche, politiche, sociali e culturali del periodo in cui fu
scritta. Questa operazione preliminare può aiutarci a liberare la nostra mente dalle immagini
preconfezionate (e molto spesso parziali) che di un’opera ci fornisce la critica e a metterci a tu per tu
con il testo. Dopo aver analizzato il testo in questo modo, dobbiamo anche imparare a rivolgergli
delle domande: cosa accomuna il mondo del testo al nostro? Cosa invece li differenzia? Quali dei
temi presenti è ancora oggi oggetto di riflessione e dibattito? Questa forma di attualizzazione è
fondamentale, perché ci permette di capire che significato ha per noi quell’opera. Da queste due
operazioni scaturisce la terza, la valorizzazione, cioè un giudizio di valore complessivo che tiene
conto della qualità intrinseca dell’opera e del significato che essa può avere per noi.
Ma perché è utile esercitarsi in questo compito faticoso che è l’interpretazione?
Innanzitutto per imparare a rapportarci con ciò che studiamo in maniera critica, senza accettare
supinamente le idee e le visioni che a proposito di un autore o di un’opera ci danno i vari critici.
Inoltre, come abbiamo visto prima, ogni autore ha un proprio modo di rapportarsi con l’altro e una
propria visione del mondo, dell’uomo, della realtà, che esplicita poi nelle sue opere. Imparare ad
interpretare significa allora imparare ad analizzare nel miglior modo possibile queste diversi modi di
pensare per poter poi elaborare un nostro pensiero, personale e autonomo, che non sia condizionato
dagli altri ma che dal dialogo con l’altro possa trarre spunto e motivo di crescita. Interpretando, e
studiando le interpretazioni che altri hanno dato prima di noi, capiamo che i significati di un testo
sono infiniti e che ogni interpretazione è destinata ad essere superata. Ma allora tutto è inutile? No,
perché interpretando impariamo due cose fondamentali: che il nostro pensiero non è assoluto e vale
la pena di cercare il confronto con gli altri; che possiamo (e dobbiamo) assumerci la responsabilità di
cercare e indicare dei significati che possano essere utili per noi e per gli altri.
PROPOSTE DI ATTIVITÀ

Partendo dalle citazioni che trovate in questa scheda, provate a “interpretarle”,
analizzandole, scoprendo i retroscena delle storie dei protagonisti. Potrebbe essere il punto
d’inizio per un dibattito sul ruolo dell’intellettuale che coinvolga le esperienze di tutti. Se
volete, provate anche ad ampliare la discussione cercando altre citazioni che riguardino
questi temi, magari degli autori che vi piacciono di più.

Molte opere e personaggi letterari hanno ispirato opere d’arte di tutti i tipi (quadri, canzoni,
film, fumetti…). Scegliete un tema e selezionate poi delle opere da poter visionare tutti
insieme, cercando di capire in che modo, e a che scopi, artisti diversi lo abbiano affrontato,
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cambiando probabilmente il punto di vista delle opere originali. Potrebbe essere anche un
percorso da proporre all’interno delle scuole.

Scegliete un libro che interessi tutti e leggetelo separatamente. Quando ognuno avrà finito, in
un incontro ognuno esporrà cosa del libro lo ha più colpito. Sarà importante constatare nella
pratica come ognuno ha la capacità di “dialogare” personalmente con il testo e attribuire ad
esso significati sempre diversi, anche a partire dalla propria esperienza personale.
Bibliografia
R. Luperini - P. Cataldi - L. Marchiani - F.Marchese, La scrittura e l’interpretazione, G.B. Palumbo
Editore, Firenze, 1997
S. Guglielmino – H.Grosser, Il sistema letterario, Principato, Milano, 2000
C.Segre – C.Martignoni, Leggere il mondo, Edizioni Scolastiche Bruno Mondatori, 2001
G. Ferroni – Storia della letteratura italiana, Einaudi Scuola, Milano, 1991
A. De Bernardi – S. Guarracino, La conoscenza storica, Edizioni Scolastiche Bruno Mondatori, Milano,
2000
N. Mineo – D.Cuccia – L.Melluso, La Divina Commedia, G.B. Palumbo Editore, Firenze, 1999
F. Muzzioli, Le teorie della critica letteraria, Carocci, Urbino, 2007
I. Calvino, Il midollo del leone in Una pietra sopra, Mondatori, Milano, 1980
Interviste a Pirandello. <<Parole da dire, uomo, agli altri uomini>>, a cura di Ivan Pupo,
Rubbettino, 2002
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ECONOMIA
di Lisa Scognamiglio
Se volessimo partire dalla definizione di economia, riusciremmo da subito a individuare differenti
opinioni. Alcuni studiosi la definiscono infatti come la disciplina che studia le scelte che gli uomini
compiono per soddisfare i proprio bisogni. Essa inoltre non riguarda tutte le scelte umane ma solo
quelle razionali che implicano l’uso di risorse scarse.
Da definizioni di questo tipo discende, quindi, tutta quella parte dell’economia che offre gli strumenti
tecnici per poter ottimizzare l’uso delle risorse, così da soddisfare ciascuno le proprie necessità. E’
questa, probabilmente, la concezione dell’economia cosi come viene studiata in gran parte delle
scuole italiane: principi economici, regole di partita doppia, pareggio di bilancio, curva prezzoconsumo e molte altre nozioni sicuramente importanti ma di cui molto spesso non si comprende la
finalità.
Si rischia infatti di vedere queste operazioni come semplici successioni di numeri o grafici senza
ricordare che dietro il “consumatore razionale”, la “domanda”, l’ “offerta”, “salari” e “straordinari” ci
sono persone, ci siamo noi!
Non a caso altri esperti si sono espressi diversamente sulla stessa definizione, evidenziando che essa
non è sufficiente a definire tutte le relazioni umane, poiché l’uomo si apre verso l’universo più largo
della materia, vivente e inanimata. Ciò determina che l’economia va studiata e analizzata in
relazione non solo ai bisogni ma anche alle molteplici relazioni che ha l’uomo e al contesto sociale,
culturale e ambientale in cui esso si trova.
Questo per dire che, anche se difficile, è possibile “assaporare” il senso dell’economia cosi da farlo
divenire uno dei modi attraverso cui è possibile operare il bene comune. In che modo? Usando gli
strumenti tecnici che vengono forniti ove possibile per analizzare la realtà che ci circonda e
soprattutto informandosi, avendo “un occhio sul libro di testo e uno sulla realtà”, unendo
competenze e conoscenze.
Per fare un esempio potremmo considerare uno dei fenomeni economici (ma non solo) più in voga in
questi ultimi anni: la globalizzazione. In questa sede non si vuole esprimere un parere a riguardo
perché per poter arrivare ad avere un’opinione occorre fare un passo indietro… capire di che si
tratta! E’ un passaggio che non si può dare per scontato poiché anche se “globalizzazione” è uno dei
termini più utilizzati in questi tempi, da un sondaggio condotto nei primi anni del 2000 in cui si
chiedeva agli italiani un’opinione a riguardo, ben il 39% degli intervistati non ha saputo esprimere
un parere. Questo sicuramente induce ad una riflessione: nonostante l’abuso del termine pochi sono
realmente informati sul fenomeno in questione e considerando che si tratta del contesto in cui si
sviluppa l’economia italiana e internazionale,quello ottenuto, non è un risultato di cui andare fieri!
Il primo ingrediente per assaporare il senso dello studio dell’economia è quindi l’informazione. Nel
nostro esempio il primo passo da compiere è cercare di capire che cosa s’intende per globalizzazione
facendo ovviamente attenzione alle fonti delle informazione ed elaborando criticamente i dati
raccolti. Dal punto di vista prettamente economico parlare di globalizzazione vuol dire far riferimento
alla tendenza dell’economia ad assumere una dimensione mondiale mediante l’integrazione dei
mercati dei beni, dei servizi e dei fattori produttivi. Ma la semplice nozione del libro di economia non
può bastare, perché la realtà ci dimostra attraverso fatti concreti che non è tutto qui, che questa
mondializzazione non intacca solo i mercati ma incide direttamente o indirettamente sulla situazione
sociale, politica e ambientale dei paesi coinvolti. Circolano non solo le merci, ma anche le persone ed
è questa una grande novità, che comporta a cascata tutta una serie di implicazioni vastissime, dalla
cultura alla lingua, dall’integrazione al sociale. Se si guarda alla globalizzazione in maniera più
“ampia” considerandola come una espansione su scala mondiale ci si può rendere conto del fatto
che, fenomeni di questo tipo, non sono poi cosi recenti e non riguardano solo gli ultimi decenni, ma
hanno antecedenti classici di rilevante interesse: possiamo ricordare l’impero di Alessandro Magno,
quello romano o carolingio, la diffusione del Cristianesimo o dell’Islamismo, fino ai più moderni
imperi coloniali. Ovviamente si tratta di situazioni che hanno avuto dinamiche diverse; ad esempio
non in tutti i casi si è avuta un’espansione da Nord a Sud o da Ovest ad Est, non in tutte le situazioni
si trattava di un fenomeno “globale” che interessava tutti gli strati della società e non solo poche
elite (i colonizzatori) o non sempre questi fenomeni avevano una portata anche di carattere
economico; ma c’è un “punto critico” che li accomuna tutti e che è comune anche alla “moderna
globalizzazione”: l’atteggiamento che le forze che vanno ad espandersi vanno ad assumere nei
confronti di quelle “invase”. Ci sono due possibili posizioni: l’omologazione oppure la costruzione di
una nuova dimensione culturale. E’ questa una delle questioni critiche quando si parla di
globalizzazione, tanto che alcuni parlano di “mcdonaldizzazione” generale proprio per indicare questo
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uniformarsi dell’economia e della cultura. Abbiamo quindi visto che l’analisi del termine non solo dal
punto di vista economico ma a “tuttotondo” ha messo in rilievo un aspetto importante del
fenomeno; ma non basta... il passaggio successivo potrebbe essere quello di “contestualizzarlo”,
definendo e analizzando il contesto storico, le cause e gli effetti positivi o negativi che la
globalizzazione ha potuto generare. Da una prima analisi del fenomeno possiamo dire che la
globalizzazione ha avuto inizio dopo la fine della seconda guerra mondiale, anche se già dalla fine
dell’ottocento alla crisi del 1929, con l’applicazione della forza motrice del vapore ai trasporti, ci si
era già affacciati su scenari di mondializzazione degli scambi di uomini e merci… si pensi
alll’emigrazione di massa tardo ottocentesca o ai grandi imperi austro-ungarico o ottomano della
belle epoque. Ma è solo con il boom economico degli anni ’50 del secondo dopoguerra che si è
verificata una forte crescita del commercio internazionale e dei movimenti di capitali, costantemente
superiore alla crescita del PIL (prodotto interno lordo). Questa espansione è stata stimolata dalla
liberalizzazione degli scambi commerciali. Una prima causa dello sviluppo del fenomeno di
globalizzazione, quindi, è da rintracciarsi nell’eliminazione o quantomeno nella riduzione degli
ostacoli al libero scambio. A questo fattore si è aggiunto un altro importante tassello determinato dal
progresso tecnologico che ha favorito la riduzione dei costi di trasporti e delle comunicazioni oltre a
fornire gli strumenti per lo svolgimento di relazioni economico/commerciali via Internet. Queste
cause però ci danno ancora una conoscenza solo parziale: bisogna infatti andare ancora oltre,
analizzando anche situazioni storiche e politiche che hanno portato alla realtà attuale. Occorre
allora ritornare alla rivoluzione francese ma anche a quella inglese del 1688, contesti in cui sono
emerse le prime forme istituzionali, come le società di mercato o le forme liberali dello stato, che
possono dirsi globali. L’azione politica dello stato inglese e l’insieme degli stati europei sono stati
particolarmente importanti nel XIX secolo e hanno avuto peso simile a quello degli USA e del G8
negli anni 90. Ma la loro importanza non è durata per molto tempo. Infatti,andando avanti nel
tempo, alla fine del secondo conflitto mondiale, il periodo “d’oro” si è esaurito in poco più di un
ventennio; negli anni settanta, infatti, si è avuta una fase di incertezza, di crisi, generata dallo
sviluppo di un nuovo modello statale, quello neoliberale angloamericano (governi Thatcher per
l’Inghilterra e Reagan per gli USA), che modificava le linee politiche ed economiche fino ad allora
esistenti, smantellando lo stato sociale (le forme di assistenza dello stato ai cittadini) ed idolatrando
il mito del “libero mercato”, senza eccessive “regole” (da qui il nome dell’insieme dei provvedimenti:
deregulation). Conseguenza più pervasiva e perversa di questo fenomeno è stato un approfondirsi
della disuguaglianza sociale in alcuni stati e società e fra le stesse nazioni, oltre al fatto di essere,
secondo alcuni, scintilla scatenante di numerosi crimini nei paesi del Terzo Mondo. Si potrebbero
rintracciare molte cause ancora, ma già solo questo esempio ci permette di riflettere sulle
conseguenze dello sviluppo di una società neoliberale globalizzata. Se da un lato, infatti,
l’abbattimento delle barriere commerciali e politiche ha determinato l’apertura dei mercati, dall’altro
esso ha determinato una riduzione delle occupazioni nel settore manifatturiero dei paesi
industrializzati a seguito di una delocalizzazione di un numero crescente di produzioni nei paesi in
via di sviluppo. Si tratta per lo più di manodopera non qualificata, non sottoposta a competizione
serrata come nei paesi industrializzati, talvolta sfruttata e sottopagata.
Questo secondo alcuni avrebbe determinato l’aumento del divario in termini economici e sociali tra i
paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo. Il lato positivo è che comunque i paesi in via di
sviluppo hanno,secondo altri economisti, tratto benefici da queste nuove relazioni economiche
determinate dalla liberalizzazione. Rimane però per tutti ferma l’esigenza di salvaguardare e
supportare questi paesi nel loro inserimento nel mercato globale. A proposito di questo divario e in
ragione della supremazia del sistema economico angloamericano, alcuni economisti sostengono,
invece, che dall’analisi delle forme neoliberali di globalizzazione, emerge una politica di supremazia
piuttosto che una di giustizia e di egemonia. Insomma, già da queste poche battute si comprende
bene che il fenomeno presenta una forte complessità e innumerevoli sfaccettature per cui non è
possibile trovare un’unica risposta o soluzione. E nemmeno vuole essere questo l’obiettivo che ci
siamo prefissati… l’unico scopo era quello di offrire un esempio concreto, un fenomeno variegato a
cui abbiamo applicato “un metodo d’analisi”, per conoscerlo a 360°, per non fermarci alle semplici
nozioni che ci vengono proposte, per assaporare fino in fondo ciò che studiamo. Perché questo abbia
veramente un senso!
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PROPOSTE D’ATTIVITA’
 Si potrebbe pensare di ideare un “processo alla globalizzazione”. I ragazzi vengono divisi in
tre gruppi: l’accusa, la difesa e la giuria popolare. Uno degli animatori può poi assumere il
ruolo di giudice. Alle controparti vengono forniti dei documenti che serviranno per sostenere
ciascuno la propria tesi. Possono essere saggi, articoli, stralci di libro… spazio alla creatività
insomma! Ad ogni parte così come alla giuria popolare potrebbero unirsi degli esperti:
docenti di economia, sociologi che potranno dare delucidazioni oltre ad essere i “testimoni”
di cui l’accusa e la difesa possono servirsi, e mettere ben in chiaro i punti salienti del
processo per la giuria popolare. Il processo quindi avrà diverse fasi:
1. I tre gruppi analizzano ciascuno insieme all’esperto i documenti che hanno a
disposizione. L’accusa e la difesa preparano “la testimonianza” e “l’arringa”;
2. Si realizza il processo vero e proprio al termine del quale la giuria popolare esprimerà il
suo parere;
3. Si fa una condivisione in plenaria mettendo in evidenza quali sono state le difficoltà e
soprattutto il fatto che attraverso un semplice gioco hanno analizzato in maniera più
accurata un fenomeno economico,arrivando cosi alla “definizione di un metodo di studio”
che può essere applicato anche ad altri casi.
BIBLIOGRAFIA:
“Cause effetti ed opportunità della globalizzazione” di Pier Alberto Cucino
“Gramsci,modernità e globalizzazione” di Stephen Gill
“Globalizzazione ed educazione” di Gianni Balduzzi
“Storia dell’educazione nell’antichità” di Henry Marrou
“Il mondo alla Mc Donald’s” di G.Ritzer
“L’economique et le vivant” Passet
“Globalizzazione” di Luca De Benedictis e Rodolfo Helg
“La globalizzazione e i suoi oppositori” di Joseph Stiglitz
“Globalizzazione, crescita economica e povertà” di Paul Collier e David Dollar
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