Testi di sociologia Dahrendorf Forse è un po' ingiusto gridare allo scandalo, seppure è impossibile non farlo, a proposito dell'homo sociologicus, prima di avergli dato la possibilità di mostrare le sue qualità. Abbiamo citato i progenitori dell'uomo sociologico ed i problemi che ci presenta, ma non si è ancora chiarito che sia questo uomo e a che cosa possa servire. Sarebbe facile giustificare questa mancanza osservando che l'homo sociologicus è un uomo molto vitale, che appare nelle opere della maggior parte dei sociologi contemporanei e le cui peculiari caratteristiche sono dimostrate e messe in luce in questo lavoro. Sebbene queste affermazioni non siano ingiustificate, pur tuttavia è difficile accettarle. Mentre tanti sociologi sono d'accordo sul nome di questo tipo di uomo, altrettanto poco uniforme e chiara è la rappresentazione dei suoi caratteri, quale si riscontra nelle opere scientifiche, che ne trattano. Perciò si potrebbe raccomandare di non ricostruire l'oggetto della nostra ricerca attraverso la discussione delle affermazioni contraddittorie dei suoi oppositori e dei suoi sostenitori, ma piuttosto di interrogare, in certo modo, lui stesso. Dobbiamo innanzi tutto interessarci a quell'organico nesso di fatti dall'osservazione dei quali nasce l'homo sociologicus, prima. di misurare le testimonianze favorevoli o contrarie ai risultati della nostra ricerca. Supponiamo di far parte di una società, in cui ci viene presentato un certo signor dottor Hans Schmidt, finora sconosciuto. Siamo curiosi di saperne di più a proposito di questo nuovo conoscente. Chi è Hans Schmidt? Pos1 siamo immediatamente fornire alcune risposte: Hans Schmidt è (i) un uomo, e precisamente (ii) un adulto dì circa 35 anni. Porta la fede, perciò è (iii) sposato. Altre cose le sappiamo dal modo in cui è avvenuta la presentazione: Hans Schmidt è (iv) un cittadino; è (v) tedesco, (vi) abitante di X, città di media grandezza, è fornito del titolo di dottore, quindi è (vii) laureato. Tutto il resto lo dobbiamo sapere da domande rivolte a conoscenti comuni, che ci possono riferire che il signor Schmidt è (viii) professore di scuola media, (ix) ha due figli, quindi è padre, (x) in quanto protestante incontra qualche difficoltà nei riguardi della popolazione di X, in prevalenza cattolica, (xi) è giunto in città profugo dopo la guerra e qui (xii) è riuscito ad acquistarsi buona fama come terzo presidente della organizzazione locale del partito Y e (xiii) come tesoriere della società calcistica della città. Il signor Schmidt, così sappiamo dai suoi conoscenti, è (xiv) un buon giocatore di skat, (xv) un appassionato, se pure meno abile, automobilista. I suoi colleghi, amici e conoscenti hanno molte altre cose da raccontarci su di lui, ma la nostra curiosità per il momento è soddisfatta da queste notizie. Abbiamo la sensazione che il signor Schmidt non sia più uno sconosciuto. Che cosa ci dà questa impressione? Si potrebbe pensare che tutto quello che abbiamo scoperto sul signor Schmidt non lo distingua dagli altri uomini. Non il solo signor Schmidt è tedesco, padre, protestante e professore, ma lo sono molte altre persone; e sebbene in un certo periodo ci possa essere un solo tesoriere della società calcistica della città di X, ce ne sono stati altri prima di lui. Anche questa occupazione non è un distintivo personale del signor Schmidt. Le nostre informazioni a proposito di lui si riferiscono a determinate 2 posizioni che egli occupa, cioè a punti e luoghi in un sistema coordinato di relazioni sociali. Ogni posizione infatti comporta, per quelli che la occupano, una catena di altre posizioni, che sono legate con la prima in un « campo di posizioni ». Come padre, il signor Schmidt condivide un certo « campo di posizioni » con una madre, un figlio e una 'figlia; come professore, è in relazione con i suoi scolari, i loro genitori, i suoi colleghi e gli impiegati della amministrazione scolastica; la sua occupazione come terzo presidente del partito Y lo lega con i membri della presidenza, con gli alti funzionari del partito, con gli iscritti e gli elettori. Molti di questi «campi di posizioni » si intersecano, ma non si sovrappongono tanto da coprirsi a vicenda. Per ognuna delle 15 posizioni a noi note del signor Schmidt si presenta un « campo » specifico che, in un determinato contesto sociale, è dato quasi automaticamente con le suddette posizioni. Il termine posizione sociale indica ogni luogo in un campo di relazioni sociali, in cui il concetto stesso debba essere inteso con tale estensione da non comprendere solo la posizione di « professore » e di « terzo presidente del partito Y », ma anche quella di « padre », « tedesco », « giocatore », ecc. Le posizioni sono qualcosa che, in via di principio, è pensabile indipendentemente dal singolo. Il posto di borgomastro o la cattedra di professore non finiscono se sono vacanti, e in tal senso le posizioni del signor Schmidt non sono legate alla sua personalità ed alla sua esistenza. Il singolo individuo non solo può, ma deve di regola occupare una quantità di posizioni e presumibilmente il numero delle posizioni che toccano al singolo aumenta in rapporto al grado di complessità della società. Inoltre il campo di posizioni, a cui appartiene la posi3 zione propria del singolo, include una molteplicità di elementi ben distinguibili, come si può constatare per la posizione di professore e di tesoriere della prima società calcistica di X, nel caso del signor Schmidt; le posizioni a loro volta possono essere complesse. Può essere utile dar rilievo a questa obiettiva circostanza mediante un concetto specifico e concepire le posizioni sociali come insiemi di segmenti di posizione. La posizione di professore di scuola media' consta dei segmenti di posizione: « scolaro di scuola media », « genitore di scolaro », « collega », « superiore scolastico », di guisa che ognuno di questi segmenti distingue una direzione di relazione all'interno del campo di posizioni indicato da « professore di scuola media ». Queste distinzioni concettuali e queste definizioni non possono d'altronde spiegarci perché il signor Schmidt non sia più per noi un ignoto, dopo che abbiamo saputo quali posizioni occupa. E' difficile infatti trovare una giustificazione logica per sostenere che il signor Schmidt non è altro che un aggregato di posizioni, che la sua individualità non si trova in alcuna delle sue singole posizioni, ma è fondata su una certa coordinazione di queste. C'è moltissimo invece che, con tutte le nostre conoscenze e nonostante ogni sforzo di fantasia, non riusciamo a scoprire dalle posizioni del signor Schmidt. Se egli "e insegnante buono o cattivo; padre severo o indulgente; se è libero da conflitti di coscienza; se è soddisfatto o meno della sua vita; quali sono le sue riflessioni, nei momenti di riposo, sull'ambiente sociale in cui vive; dove vorrebbe trascorrere le vacanze, ecc.; tutto questo e molto di più non può essere rivelato né dalle sue posizioni né da quello che ne possiamo dedurre. Il signor Schmidt è qualche cosa di. più che un semplice titolare di-posi4 zioni sociali ed i suoi amici sanno-di lui molte cose che il conoscente superficiale ed il sociologo non sanno ne potranno mai sapere. Ma più strana del fatto che le posi zioni del signor Schmidt non ci danno alcun chiarimento sulla sua personalità, è l'altra considerazione, che tuttavia queste ci parlano di lui. Le posizioni ci forniscono invero solo una conoscenza molto formale. Ci dicono in quale campo di relazioni sociali il signor S. si trovi, con chi entri in relazione, senza rivelarci nulla sulla qualità di queste relazioni. Tuttavia non abbiamo bisogno di porre altri quesiti per rintracciare l'attività del signor S. o per lo meno per sapere che cosa dovrebbe fare, e quindi verosimilmente fa, fino a che egli continua ad occupare tutte queste posizioni. Come padre provvede ai suoi figli, li assiste nella loro crescita, li protegge e li ama. Come professore, insegnerà ai suoi scolari, li giudicherà giustamente, consiglierà i genitori, seguirà i consigli del direttore, sarà una specie di modello da imitare; come funzionario di partito, parteciperà ad incontri, terrà discorsi, cercherà di raccogliere nuovi iscritti. Non solo quello che il signor S. fa, ma anche quello che lo connota può essere dedotto dalle sue posizioni fino ad un certo grado. Di fatto spesso l'aspetto esteriore di un uomo ci rivela « chi egli sia », cioè quali posizioni sociali egli occupi. iCome professore porta i vestiti « decorosi » ma non belli dell'insegnante, con pantaloni e gomiti un po' sciupati; come marito, porta la fede; se il partito Y è un partito radicale, si può facilmente capire dal suo modo di presentarsi; il suo aspetto è sportivo; è presumibilmente un uomo d'intelligenza superiore alla media e attivo. Il tentativo di allungare questa lista dimostra che non solo il ; psychological man, ma anche l'homo sociologicus può diventare un divertente gioco di società. Ad ogni situa5 zione che l'uomo occupa appartengono determinati tipi di comportamento, che ci aspettiamo dal titolare di questa posizione; a tutto ciò che egli è appartengono qualità che ha ed azioni che compie. Ad ogni posizione sociale appartiene un ruolo sociale. Quando l'individuo occupa una posizione sociale, diventa personaggio del dramma scritto dalla società in cui vive. La società gli offre, insieme con ogni posizione, un ruolo da recitare. Per mezzo del ruolo e della posizione il singolo e la società entrano in contatto; questa coppia di concetti definisce l'homo sociologicus, l'uomo della sociologia, e costituisce perciò l'elemento dell'analisi sociologica. Dei due concetti di posizione e ruolo, quello di ruolo è di gran lunga il più importante: quindi è utile distinguerli. Mentre la posizione indica solo un luogo, nel campo dei rapporti, il ruolo ci fa conoscere il tipo di relazione esistente tra i titolari di certe posizioni e quelli di altre posizioni appartenenti allo stesso campo. I ruoli sociali designano le pretese della società nei riguardi del titolare delle posizioni, pretese che possono essere di due tipi: o rivolte al comportamento del titolare, o soggetto, delle posizioni (comportamenti di ruolo) oppure riguardanti la sua configurazione esteriore ed il suo « carattere » (attributi di ruolo). Poiché il signor S. è professore, possiede alcuni attributi distintivi e si comporta in un certo modo; lo stesso vale per ciascuna delle sue quindici posizioni. Sebbene il ruolo sociale, che appartiene ad una posizione, non ci possa rivelare come, di fatto, si comporti il titolare di questa posizione, tuttavia ci fa sapere, se abbiamo una buona conoscenza della società nella quale questo ruolo trova la sua definizione, che cosa ci si attende dalla « recita » della sua parte. I ruoli ; sociali sono complessi di aspettative concernenti il com6 portamento del titolare di posizioni in una determinata società. Come le posizioni, anche i ruoli, in via di principio, possono essere concepiti indipendentemente dal singolo. I tipi di comportamento che si aspettano dal padre, dal professore, dal funzionario di partito, dal giocatore, ed i loro attributi, possono essere descritti senza far riferimento ad un determinato padre, professore, funzionario di partito o giocatore. Ad ogni individuo toccano molti ruoli in rapporto ad ogni posizione e ciascuno di questi raccoglie una quantità di segmenti di ruoli. Le aspettative connesse all'assolvimento del ruolo sociale di professore, possono articolarsi in aspettative concernenti le relazioni professore-alunni o professore-genitori, ecc. In questo senso ogni singolo ruolo è un complesso o un insieme di aspettative di comportamento. Troppo spesso non si sta abbastanza attenti alla differenza logica dì diverse proposizioni, che si riferiscono ad un comportamento umano. « II signor S. è andato ieri in chiesa », « il signor S., va ogni domenica in chiesa », « il signor S., in quanto protestante praticante, dovrebbe andare a messa la domenica ». Queste tre proposizioni ci dicono qualche cosa su un comportamento sociale; tuttavia la loro differenza non è soltanto formale. La prima indica un'azione compiuta, in un momento determinato, dal signor S., indica, cioè, un singolo determinato comportamento. La seconda esprime invece una azione che il signor S. compie regolarmente, quindi un comportamento abituale. La terza afferma che il signor S. dovrebbe fare "regolarmente qualche cosa: designa cioè una aspettativa di comportamento, cioè un comportamento che ci sì aspetta da luì. Senza dubbio tutte e tre le proposizioni sono in qualche modo significative dal punto di 7 vista sociologico; l'andare in chiesa è un comportamento che può fornirci delle informazioni su un certo tipo di società. Tuttavia solo la, terza proposizione e idonea alla definizione degli elementi dell'analisi. sociologica; solo in questa singolo e società appaiono connessi in modo analizzabile, e comprensibile. I comportamenti abituali o eccezionali del signor S. restano in certo senso una sua proprietà privata; per mezzo loro non di meno egli crea una realtà sociale; gli uni e gli altri possono servire in una inchiesta che abbia come scopo la costruzione di tabelle concretamente valide; tuttavia la realtà della società non vi appare come forza autonoma e determinante. Se parliamo di ruoli sociali, parliamo sempre e soltanto di comportamenti prestabiliti, cioè del singolo che si trova di fronte a pretese indipendenti da lui e, rispettivamente, della società che lo costringe a misurarsi con pretese predeterminate. La connessione del singolo e della società non nasce quindi dal fatto che il singolo agisce o intrattiene relazioni sociali, ma dall'incontro del singolo agente con modi di agire; precostituiti. II primo problema della sociologia. é perciò sempre quello, concernente questi modi o ruoli; il secondo, e cioè l’accertare come il singolo individuo determinato si comporti di fatto in rapporto a quei modi richiesti, acquista significato preciso in riferi- ! mento alle suddette aspettative. Tre sono segni che caratterizzano la categoria di ruolo sociale come elemento della analisi sociologica: 1) I ruoli sociali sono posizioni quasi obiettive, complessi di modelli di comportamento, idonei a definizioni indipendenti dal singolo individuo. 2) II loro contenuto particolare non è determinato o mutato da qualche individuo, ma dalla società. 3) Le aspettative di comportamento raccolte in ruoli presentano all'individuo una obbligatorietà 8 a cui non può sottrarsi. Queste tre caratteristiche comportano tre problemi, che rinascono sempre legati al ruolo sociale e che dobbiamo affrontare, se vogliamo disegnare con proprietà e certezza il carattere dell'homo sociologicus: 1) Come si verifica nei singoli casi l'incontro dell'individuo con la società Come possono dei ruoli precostituiti divenire parti del comportamento sociale del singolo? 2) Chi o che cosa è la società, di cui finora si parlava come della misura della obbligatorietà di un ruolo? Come si può precisare il processo di definizione e di mutamento di definizione del ruolo sociale, in modo da non dover parlare sotto metafora per poterlo descrivere?) 3) Come può essere garantita la obbligatorietà delle aspettative di ruolo? Quali meccanismi o istituzioni fanno sì che il singolo non scarti i modelli di comportamento, come pretese prive di significato e arbitrarie? Capitolo primo Rappresentazioni Rappresentazioni in buona fede e rappresentazioni in mala fede. Quando un individuo interpreta una parte, implicitamente richiede agli astanti di prendere sul serio quanto vedranno accadere sotto i loro occhi. Egli chiede loro di credere che il personaggio che essi vedono possieda effettivamente quegli attributi che sembra possedere, che la sua attività avrà le conseguenze che implicitamente afferma di avere, e che in generale le cose sono quali esse appaiono. Tutto ciò è perfettamente coerente con la comune opinione che un individuo insceni la propria rappresentazione e reciti « a beneficio degli altri ». Sarà opportuno, però, cominciare a esaminare le rappresentazioni capovolgendo il discorso e considerare cioè la fiducia che l'individuo stesso ripone nell'impressione della realtà che egli tenta di sollecitare in quanti gli sono d'intorno. Guardando le cose sotto questo profilo, ci accorgiamo 9 che, ad un estremo, l'attore può essere completamente assorbito dalla propria recitazione ed essere sinceramente convinto che l'impressione della realtà che egli mette in scena sia la realtà. Qualora anche il pubblico sia ugualmente convinto della sua recitazione (e questo sembra essere il caso tipico), allora, almeno momentaneamente, soltanto il sociologo o uno scettico potranno aver dubbi sulla veridicità di quanto viene presentato. Ad un altro estremo, ci accorgiamo invece che l'attore può non essere affatto convinto della propria routine. La cosa è perfettamente possibile poiché, per vagliare la veridicità dell'azione, nessuno è in posizione tanto favorevole quanto lo stesso soggetto che la mette in scena. Contemporaneamente l'attore può essere indotto a plasmare l'opinione del pubblico soltanto come mezzo per altri fini, non nutrendo alcun interesse per il concetto che il pubblico ha di lui o della situazione in sé. Quando l'individuo non è convinto della propria recitazione e non è interessato all'opinione del pubblico, possiamo definirlo « cinico », serbando invece il termine « sincero » per coloro che credono nell'impressione comunicata con la propria azione. Naturalmente il cinico, con tutto il suo distacco, può ricavare un piacere personale e privato da quanto cerca di dare ad intendere, provando una specie di piacevole aggressione spirituale nel baloccarsi a suo piacimento con qualcosa che il pubblico deve invece prendere sul serio . Ciò non significa, naturalmente, che ogni cinico voglia ingannare il suo pubblico per interesse o per vantaggio personale; infatti, egli può anche ingannare i propri ascoltatori per ciò che egli considera il loro bene o il bene della comunità. Per illustrare questo punto non occorre riferirci a figure di illuminati e disincantati istrioni quali Marco Aurelio o Hsun Tzu. Sappiamo, ad esempio, che nello svolgere le loro attività certi professionisti — che altrimenti sarebbero sinceri — sono talvolta obbligati ad ingannare il cliente, perché è lui che lo vuole. Medici indotti a prescrivere rimedi inutili, addetti ai distributori di benzina che controllano ripetutamente e con rassegnazione la pressione dei pneumatici di inquiete guidatrici, commessi di negozi di calzature che vendono alla cliente la scarpa che le calza bene ma dicendo che è di una misura inferiore: tutti costoro sono attori cinici ai quali il pubblico non permette di essere sinceri. Allo 10 stesso modo, è stato documentato che compiacenti ricoverati in istituti psichiatrici talvolta simulano sintomi bizzarri, cosi che le allieve infermiere non siano deluse da una rappresentazione del tutto normale2. Cosi pure, quando dei dipendenti si affannano per accogliere nel migliore dei modi i superiori in visita, il desiderio egoistico di ottenere dei favori può non essere il movente principale: il sottoposto, infatti, può cercare di metter con tatto a suo agio il « pezzo grosso », simulando un genere di atmosfera a cui egli crede che il superiore sia abituato. Ho citato due casi estremi: una persona può esser convinta delle proprie azioni o può essere cinica. Questi estremi sono qualche cosa di più che non i due estremi di un continuum. Ognuno fornisce all'attore una posizione che ha garanzie e difese proprie, e perciò coloro che si sono avvicinati a uno di essi, tendono ad adeguarvisi completamente. Partendo da una mancanza di fiducia nel proprio ruolo, l'individuo può seguire la tendenza naturale descritta da Park: " Probabilmente non è un caso che la parola « persona », nel suo significato originale, volesse dire maschera. Questo implica il riconoscimento del fatto che ognuno sempre e dappertutto, più o meno coscientemente, impersona una parte... È in questi ruoli che ci conosciamo gli uni gli altri; è in questi ruoli che conosciamo noi stessi In un certo senso, e in quanto questa maschera rappresenta il concetto che ci siamo fatti di noi stessi — il ruolo di cui cerchiamo di essere all'altezza —, questa maschera rappresenta il nostro vero « io », l'io che vorremmo essere. Alla fine la concezione del nostro ruolo diventa una seconda natura e parte integrante della nostra personalità. Entriamo nel mondo come individui, acquistiamo un carattere e diventiamo persone ". Sottesa a tutta l'interazione sociale sembra esserci una dialettica fondamentale. Quando un individuo viene a trovarsi alla presenza di altri, vorrà essere al corrente dei fatti della situazione. Se egli ne fosse informato, potrebbe sapere e prevedere che cosa potrebbe succedere e potrebbe dare agli altri presenti quanto spetta loro, tenendo conto dei suoi interessi personali. Per conoscere completamente gli elementi di fatto che caratterizzano la situazione, l'individuo dovrebbe poter disporre di tutti i 11 dati rilevanti relativi allo status sociale degli altri. Gli sarebbe anche necessario conoscere sia l'effettivo risultato o prodotto finale dell'attività altrui, sia gli altrui sentimenti nei suoi confronti. Tutti questi dati sono raramente a sua disposizione; in loro mancanza, l'individuo tende a impiegare sostituti - spunti, prove, accenni, gesti espressivi, simboli di status, ecc. - come mezzi di previsione. In breve, poiché la realtà che interessa 1 individuo è al momento imperscrutabile, bisogna che egli faccia affidamento sulle apparenze. E, paradossalmente, più l'individuo da importanza alla realtà che non è percepibile, e più deve concentrare la sua attenzione sulle apparenze. L'individuo tende a trattare i presenti sulla base delle impressioni che essi in quel momento danno per ciò che riguarda il loro comportamento passato e futuro. Perciò gli atti di comunicazione si traducono in atti morali. Le impressioni date dagli altri tendono a essere trattate come pretese e promesse implicite e le pretese e le promesse tendono ad avere un carattere morale. In cuor suo l'individuo dice: « Sto usando queste impressioni di tè per controllare tè e la tua attività, e non dovresti cercare di imbrogliarmi ». La cosa straordinaria a questo proposito è che l'individuo è incline ad assumere questa posizione anche se crede che gli altri non siano consapevoli di molti dei loro comportamenti espressivi, anche se si propone di sfruttarli sulla base delle informazioni che riesce a procurarsi sul loro conto. Poiché le fonti di impressione adoperate dall'osservatore implicano una molteplicità di standard di buone maniere e decoro sia nei rapporti sociali che nell'esecuzione dei compiti, possiamo una volta di più renderci conto di quanto la vita quotidiana sia irretita in linee morali di discriminazione. Spostiamoci adesso a considerare il punto di vista degli altri. Essi si comportano da gentiluomini e fanno il giuoco dell'attore principale se non badano al fatto che vengono giudicati, ma agiscono piuttosto senza astuzia e sotterfugi, permettendo all'attore di ricevere valide impressioni di loro e dei loro sforzi. E se per caso pensano al fatto che qualcuno li sta osservando, non devono permettere che questa considerazione li influenzi in maniera eccessiva, tranquilli come sono nella convin12 zione che questo otterrà una impressione giusta e perciò li tratterà come meritano. Se poi vogliono influire sul trattamento che riceveranno dagli altri - e questo è abbastanza probabile - hanno a disposizione un « mezzo da gentiluomini » per farlo. Infatti basta semplicemente che essi si comportino in quel momento in modo tale che le conseguenze future delle loro azioni siano tali da indurre un attore non prevenuto a trattarli nel modo che essi desiderano; una volta che questo sia fatto, non resta loro altro che contare sulla percettività ed equità dell'individuo che li sta osservando. Talvolta coloro che sono oggetto di osservazioni adoperano in effetti questi mezzi lenti per influire sul modo in cui l'osservatore li tratta. Ma esiste anche un'altra maniera — più rapida e più efficace — per mezzo della quale le persone osservate possono esercitare influenza sull'osservatore. Invece di permettere che un'impressione della loro attività emerga come prodotto secondario e accidentale dell'attività stessa, essi possono ri-orientare il loro schema di riferimento, dedicando i loro sforzi alla creazione delle impressioni desiderate. Invece di cercare di raggiungere certi fini con strumenti leciti, possono cercare di dare l'impressione che stanno cercando di perseguire certi scopi per mezzo di strumenti leciti. È sempre possibile manipolare l'impressione che l'osservatore adopera come sostituto della realtà, perché un segno simbolico della presenza di una cosa - pur non essendo affatto quella cosa - può essere adoperato in sua assenza. Il fatto che l'osservatore debba necessariamente fare affidamento sulle rappresentazioni, crea di per sé la possibilità di una rappresentazione fuorviante. Ci sono molti gruppi di persone che non ritengono di potersela cavare negli affari - di qualunque tipo se si limitano a usare « mezzi da gentiluomini » per esercitare influenza sull'individuo che li osserva. A un determinato punto della loro attività, sembra loro che sia necessario far combutta e manipolare direttamente l'impressione che formano. Le persone osservate diventano équipe di attori e gli osservatori diventano il pubblico. Azioni che sembrano fatte all'indirizzo di cose, diventano gesti all'indirizzo del pubblico. Il ciclo di attività viene drammatizzato. 13 Arriviamo cosi alla dialettica fondamentale. Nella loro veste di attori gli individui hanno interesse a mantenere l'impressione che essi stiano" vivendo all'altezza dei molti standard secondo i quali essi e i loro prodotti verranno giudicati. Siccome questi standard sono cosi numerosi e onnicomprensivi, gli individui-attori vivono più di quanto possiamo credere in un mondo morale. Ma in quanto attori, gli individui non sono tanto interessati al problema morale di realizzare questi standard, quanto a quello a-morale di costruire un'impressione convincente del fatto che questi siano raggiunti. La nostra attività, quindi, ha soprattutto a che fare con questioni morali, ma, in quanto attori, non la consideriamo nelle sue conseguenze morali: come attori siamo dei trafficanti di moralità. La nostra giornata è tutta presa dal contatto con i beni che mettiamo in mostra e nelle nostre menti vi è piena comprensione di essi, ma può ben darsi che più facciamo attenzione a quei beni e più lontani ci sentiamo da essi e da quanti sono cosi creduli da comprarli. Per adoperare una diversa immagine: il fatto stesso che sia utile e perfino necessario apparire sempre sotto una luce morale uniforme, ed essere un personaggio socializzato costringe l'individuo a diventare un esperto delle arti del palcoscenico. La messa in scena e il « sé ». L'osservazione del fatto che ognuno di noi rappresenta se stesso dinanzi agli altri non è certo originale; quello che, concludendo, dovrebbe essere sottolineato è che la stessa struttura del sé può esser vista in termini delle tecniche e degli strumenti adottati per tali rappresentazioni nella società anglo-americana. In questo studio l'individuo è stato implicitamente diviso in due parti fondamentali: è stato considerato come attore, un affaticato fabbricante d'impressioni, immerso nel fin troppo umano compito di mettere in scena una rappresentazione, ed è stato considerato come personaggio, una figura per definizione dotata di carattere positivo, il cui spirito, forza e altre qualità eccezionali debbono essere evocati dalla rappresentazione. Gli attributi dell'attore e quelli di un personaggio sono di ordine diverso, e anche in modo fondamentale; co14 munque ambedue posseggono un significato in relazione allo spettacolo che deve continuare. Anzitutto consideriamo il personaggio. Nella nostra società il personaggio che uno rappresenta e il proprio sé sono in certo modo identificati e il sé-in-quanto-personaggio è in genere visto come qualcosa che alberga nel corpo di colui che lo possiede - soprattutto nelle parti superiori del corpo -, costituendo un ganglio nella psicobiologia della personalità. Questa concezione è parte implicita di quanto cerchiamo tutti di presentare, ma, oroprio per questo, costituisce un pessimo strumento per l'analisi della presentazione. In questo studio il sé rappresentato è stato visto come una specie di immagine in genere attendibile - che l'individuo, su un palcoscenico e nelle vesti di un personaggio, cerca con ogni mezzo di far passare come suo proprio. Ma se l'individuo è visto in questo modo - tanto che gli viene attribuito un sé -, quest'ultimo non ha origine nella persona del soggetto, bensì nel complesso della scena della sua azione, in quanto scaturisce da quegli attributi degli eventi locali che la rende comprensibile al testimoni. Una scena ben congegnata e rappresentata induce il pubblico ad attribuire un sé a un personaggio rappresentato, ma ciò che viene attribuito — il sé — è il prodotto di una scena che viene rappresentata e non una sua causa. Il sé, quindi, come personaggio rappresentato non è qualcosa di organico che abbia una collocazione specifica, il cui principale destino sia quello di nascere, maturare, e morire; è piuttosto un effetto drammaturgico che emerge da una scena "che viene presentata. Il problema fondamentale, il punto cruciale, è se verrà creduto o meno. Nell'analizzare il sé siamo quindi allontanati dal suo detentore, dalla persona che più ne profitta o ne è danneggiata, poiché lui e il suo corpo costituiscono semplicemente un gancio al quale sarà attaccato per un certo periodo il prodotto di un'azione collettiva. E i mezzi per produrre e mantenere il sé non sono da cercarsi nel gancio, ma sono spesso insiti entro l'istituzione sociale. Ci sarà un retroscena con gli utensili per plasmare il corpo, e una ribalta con i suoi arredi permanenti. Ci sarà un''équipe di persone la cui attività sul palcoscenico, in connessione con gli arredi a disposizione, costituirà'la scena dalla quale emergerà il sé del personaggio 15 rappresentato, e un'altra équipe - il pubblico - la cui attività di interpretazione sarà necessaria per questa apparizione. Il sé è un prodotto di tutte queste combinazioni e in tutte le sue parti reca il marchio di una tale genesi. L'intero complesso per la produzione del sé è naturalmente macchinoso, e talvolta si guasta, mettendo in vista le parti di cui è composto: controllo del retroscena, cospirazione di équipe, tatto da parte del pubblico e via di seguito. Ma, se è ben lubrificato, le impressioni potranno scaturirne con rapidità sufficiente a collocarci nella realtà: la rappresentazione prenderà l'avvio e il sé attribuito a ogni personaggio rappresentato sembrerà emanato intrinsecamente dal suo attore. Volgiamo adesso l'attenzione dall'individuo come personaggio rappresentato all'individuo come attore. Egli ha capacità di imparare, e questa capacità viene esercitata per prepararsi a una parte. È pronto ad avere fantasie e sogni, alcuni che ottimisticamente immaginano una rappresentazione trionfale, altri pieni di ansietà e timore che la rappresentazione sia screditata su una pubblica ribalta. Spesso egli sente il desiderio di compagni di équipe e di pubblico, e manifesta una considerazione piena di tatto per le loro preoccupazioni; ha inoltre la capacità di avvertire profondamente il seme della vergogna e ciò lo induce a ridurre al mìnimo il rischio di esporsi. Questi attributi dell'individuo in quanto attore non sono semplicemente l'impronta pittorica di particolari rappresentazioni: essi sono di natura psìcobiologica, e pure sembrano emergere da una stretta interazione con le contingenze implicite nella messa in scena di rappresentazioni. E adesso un'ultima osservazione. Nello sviluppare lo schema concettuale adoperato in questo studio, è staio fatto uso di un linguaggio teatrale. Ho parlato di attori e di pubblico, di routines e di parti, di rappresentazioni che riescono e di rappresentazioni che si afflosciano, di « imbeccate », di ambientazione scenica e di retroscena, di esigenze, capacità e di strategie drammaturgiche. Adesso bisogna ammettere che il tentativo di spingere una semplice analogia fino a questo punto è stato in "parte frutto 16 di uno stratagemma retorico. L'affermazione che tutto il mondo è un palcoscenico è abbastanza comune e tale che i lettori ne conoscono i limiti e la tollerano, sapendo che in qualsiasi momento sarà loro facile dimostrare a se stessi che non va presa troppo sul serio. Un'azione inscenata in un teatro è una illusione alquanto artefatta e come tale riconosciuta; al contrario di quanto capita nella vita quotidiana, niente può realmente o effettivamente accadere ai personaggi rappresentati, benché a un altro livello, naturalmente, qualcosa di reale ed effettivo possa accadere alla reputazione degli attori che, in quanto professionisti, svolgono il lavoro di mettere in scena rappresentazioni teatrali. E perciò a questo punto il linguaggio e la maschera del palcoscenico devono essere abbandonati. Le impalcature, dopo tutto, devono servire per costruire altre cose e dovrebbero sempre essere erette tenendo presente che vanno poi smantellate. Questo studio non riguarda quegli aspetti del teatro che si introducono nella vita quotidiana, ma tratta della struttura degli incontri sociali: la struttura sociale di quelle entità della vita sociale che esistono ogni volta che le persone entrano nell'immediata presenza fisica di altri. La caratteristica fondamentale di questa struttura è costituita dal mantenimento di un'unica definizione della situazione, che deve essere espressa e difesa di fronte a una moltitudine di possibili incidenti. Un personaggio rappresentato in teatro non è per certi versi reale, ne ha lo stesso tipo di conseguenze reali che può avere il personaggio costruito da un imbroglione; ma il mettere in scena con successo - questi due tipi di figure non corrispondenti a realtà implica l'uso di tecniche reali - quelle stesse che servono alle persone comuni per sostenere la loro situazione sociale. Quanti sono impegnati in interazioni faccia-a-faccia sul palcoscenico di un teatro devono ottemperare alle esigenze di base delle situazioni reali: devono, cioè, mantenere una definizione della situazione sul piano espressivo, ma questo avviene in circostanze tali da facilitare sviluppo di una terminologia appropriata allo studio dei compiti di interazione che noi tutti condividiamo. 17 La mediazione dei condizionamenti sociali: la conversazione interiore Come si è visto, la prima tappa dell'elaborazione concettuale della conversazione interiore — intesa come mediazione tra struttura ed agency — consiste nell'individuazione dei modi in cui i poteri delle proprietà strutturali e culturali emergenti si riflettono su di noi: tali poteri, infatti, tendono a modellare la situazione in cui viviamo, in termini di vincoli e di facilitazioni. Queste proprietà strutturali e culturali, però, assumono efficacia causale soltanto in relazione ai progetti sociali degli uomini. In altre parole, il processo di mediazione è caratterizzato anche da una seconda tappa nel corso della quale le nostre caratteristiche di agenti umani, necessariamente collocati in un ambiente sociale, si trasformano in progetti specifici che gli agenti, individuali e collettivi, cercano di realizzare all'interno della società. Le proprietà degli agenti, pertanto, non interagiscono direttamente con i poteri sociali; sono semmai i progetti formulati dagli agenti che svolgono questa funzione, nell'esercizio dei loro poteri mentali soggettivi e riflessivi. In conclusione, i fattori strutturali e culturali non esercitano poteri causali in diretta relazione agli esseri umani, ma — piuttosto — in relazione ai nostri poteri emergenti di formulare obiettivi sociali. Questo discende logicamente dal fatto che il primo livello non incide sull'altro in modo diretto, ma soltanto per il tramite delle interazioni tra i rispettivi poteri causali. Se questa è la situazione, però, ne deriva che il processo di mediazione deve prevedere necessariamente anche una terza tappa. In quest'ultima fase, di frequente trascurata, gli agenti, grazie ai loro poteri di riflessività, si mettono effettivamente a deliberare rispetto alle circostanze in cui si trovano, alla luce dei loro personali interessi. E la soggettività degli agenti si riflette sull'oggettività della società. Giacché i vincoli e le facilitazioni di quest'ultima hanno luogo in maniera automatica, mentre gli agenti operano in maniera riflessiva e possono «monitorare» il modo in cui essi stessi «monitorano» la società, la terza fase consiste nell'elaborazione di strategie, da parte di soggetti sociali autoconsapevoli, nei confronti di poteri sociali non-riflessivi. In altri termini, nella vita di ogni giorno abbiamo tutti modo di esaminare il nostro contesto sociale e di porci delle domande e darci delle risposte (seppure fallibili) su come meglio realizzare i nostri interessi, che noi stessi definiamo, a partire da circostanze che non abbiamo scelto. Questa fase finale, che completa il processo di mediazione, si svolge proprio attraverso la conversazione interiore. Ciascuno di noi prende in esame i vincoli e le facilitazioni che ha davanti a sé, a partire dalla descrizione che egli stesso ne dà (che poi è l'unico modo con cui può conoscere alcunché); soppesa i propri personali progetti, definiti precisamente in funzione dei propri interessi; li traduce, strategicamente, nelle pratiche che reputa, con la propria conversazione interiore (e quindi con un inevitabile margine di 18 errore), più adatte a permettergli di fare, o di essere, ciò a cui tiene di più, dato il suo contesto sociale. La graduale formulazione di ogni corso d'azione concreto, lungo la traiettoria che collega interessi — progetti — pratiche, si realizza quindi per mezzo della conversazione interiore. Gli agenti primari fanno questo direttamente per se stessi; gli agenti corporati2 mettono in comune le deliberazioni interiori di ciascuno, per poi sottoporle all'esame di tutti. Quest'ultima fase della mediazione è indispensabile poiché, senza di essa, non potremmo in alcun modo spiegare ciò che fanno esattamente gli agenti. E senza una spiegazione di questo tipo, la sociologia deve ripiegare su generalizzazioni empiriche relative, ad esempio, a «ciò che fa la maggior parte della gente, per la maggior parte del tempo». In assenza di autentici strumenti esplicativi, anzi, i sociologi si accontentano spesso di molto meno: «Date le condizioni x, un numero statisticamente significativo di agenti fa y». Va da sé, peraltro, che queste non sono affatto delle spiegazioni. Sono piuttosto un ripiegamento nelle «congiunzioni costanti» di Hume, da cui non si può ricavare alcun meccanismo di collegamento causale tra x e y. Sotto il profilo metodologico, ciò comporta l'impossibilità di ipotizzare alcun meccanismo di causazione efficiente, oltre all'estromissione dei poteri soggettivi degli agenti dall'agenda della ricerca sociale. Capita spesso nella ricerca empirica di vedere rappresentati gli effetti della struttura sulla agency nella forma di un processo a due fasi soltanto, senza alcuna mediazione da parte degli agenti. Sembra quasi si tratti di un processo del tutto oggettivo, da cui viene estromessa quella riflessività degli agenti che pure è insita in ogni loro interesse, progetto o azione concreta. L'eliminazione del contributo del soggetto alla mediazione deriva spesso dal fatto che i vincoli e le facilitazioni, propri di ogni situazione sociale, non sono trattati come variabili «transitive»: come fattori, cioè, che richiedono sempre qualche cosa di determinato da vincolare, o da facilitare. Tali fattori vengono confusi con categorie quali «vantaggi» e «svantaggi», che sono, per lo meno in apparenza, intransitive. L'idea, per dirla con un proverbio, è che a caval donato non si guarda in bocca; o che nessuno, in fin dei conti, si mette a fare il passo più lungo della gamba. A pensarci bene, tuttavia, i «vantaggi» non sono esattamente «intransitivi», visto che, per essere tali, devono pur sempre essere valutati positivamente 2 Gli agenti primari si definiscono come collettività che hanno in comune le stesse opportunità di vita, cosa che fa di ciascuno dei loro mèmbri un agente. Essi vanno distinti dagli agenti corporati, che si pongono delle finalità esplicite ed elaborano una qualche struttura organizzativa, al fine di perseguirle. Si veda La morfogenesi della società, capitolo ottavo. dall'agente in relazione ai suoi scopi. È questo un aspetto che vale la pena di rilevare quando, ad esempio, imbattendoci in una persona che gode di opportunità di vita migliori rispetto ad altri, si tende a pensare che tutte 19 quante le persone piazzate nello stesso modo godano gli stessi vantaggi in ogni aspetto della loro vita. Può darsi che le cose stiano effettivamente così, ma se ciò avviene — il che corrisponde alla situazione più frequente, ma non ad ogni situazione — è perché il diretto interessato, conscio di tale vantaggio, ne trae intenzionalmente beneficio. Non si tratta, insomma, di un mero automatismo. In altri termini, il punto che va sottolineato, è che non è possibile discutere di come la struttura influisca sulla agency, senza tenere conto, in una qualche misura, della soggettività degli agenti; per quanto, in molti casi, questa soggettività sia appena avvertita (come nelle situazioni in cui essa è semplicemente data per scontata). Il punto debole di questo modello di ricerca sta nell'incapacità di comprendere che le intenzioni degli agenti non sono ne uniformi, ne statiche, ne passive. Al contrario, i nostri poteri mentali di deliberazione riflessiva garantiscono a ciascuno di noi una sua specifica identità personale, fatta di una peculiare costellazione di interessi: in altri termini, siamo radicalmente diversi, come persone, a prescindere dagli scopi comuni che ci possono caratterizzare. In secondo luogo, la nostra soggettività è dinamica, più che statica, dal momento che possiamo modificare le nostre finalità alla luce della loro concreta fattibilità, per come noi la giudichiamo. Infine, in virtù della conversazione interiore, siamo esseri attivi — e non passivi — perché sappiamo modulare i nostri progetti, adattandoli alle pratiche che riteniamo abbiano le maggiori probabilità di realizzarli. Se non si riconosce la rilevanza di questi tre elementi, si finisce per commettere un errore di fondo: quello di trascurare le valutazioni che gli agenti danno della propria situazione, alla luce dei rispettivi interessi (conerns), e la loro valutazione dei propri progetti, alla luce della situazione in cui si trovano. E senza comprendere questi due ordini di valutazione, è impossibile spiegare quel che fanno gli agenti, nella pratica, giacché ciascuno di loro — in quanto agente causale — è la causa, in ultima istanza, delle proprie pratiche sociali. Il processo di mediazione tra struttura ed agency, pertanto, andrebbe concettualizzato come una sequenza di tre fasi distinte, che rispecchiano la continua interazione tra oggettività e soggettività, nei termini seguenti: (i). Le proprietà strutturali e culturali attribuiscono una forma aggettiva alla situazione sociale con cui gli agenti, che lo vogliano oppure no, si debbono confrontare; esse detengono poteri generativi, di vincolo e di facilitazione. (ii). La specifica configurazione di interessi di ogni agente, definita in forma soggettiva, in relazione ai tre ordini della realtà naturale (la natura, la pratica e la società). (iii). Il corso di ogni azione discende dalle deliberazioni riflessive degli agenti, che stabiliscono in modo soggettivo i rispettivi progetti pratici, in relazione alle circostanze oggettive in cui si trovano. Nell'insieme, queste tre proposizioni cercano di ricostruire l'interazione 20 tra la componente oggettiva e quella soggettiva del processo di mediazione, tramite il quale le proprietà strutturali e culturali incidono sulle azioni degli agenti. Va da sé che una prospettiva di questo tipo tutto intende fare tranne negare o trascendere la differenza tra oggettivismo e soggettivismo, proprio perché prende atto degli autonomi poteri causali detenuti sia dalle strutture sia dagli agenti, e normalmente esercitati, in una certa misura, da ambedue le parti. Nell'interazione tra questi due versanti si determina, di volta in volta, il corso delle azioni fatte proprie dagli agenti (primari o corporati che siano); è dalle interazioni personali di ciascuno di loro che dipende, in ultima istanza, la riproduzione o la trasformazione della società (o di un suo settore). Sul piano delle interazioni di secondo ordine, quelle che coinvolgono agenti corporati, entrano poi in gioco altri molteplici fattori: basti pensare alle dinamiche di coalizione, accomodamento o compromesso tra agenti corporati diversi, o alla loro agency corporata in relazione ad agenti primari meno organizzati, ma non per questo privi di influenza. Sul piano della agency corporata, pertanto, si possono creare interazioni di ambedue i tipi, nelle modalità più svariate. Non è peraltro possibile, nell'economia di questo volume, dedicare lo spazio necessario alle influenze che scaturiscono dalla agency collettiva. Si tratta ora di esaminare dappresso, una dopo l'altra, le tre fasi. Rivolgeremo particolare attenzione alla terza, dal momento che la prima è già stata oggetto della trattazione de La morfogenesi della società, e la seconda è stata ampiamente trattata in Being Human. Le tre fasi del processo di mediazione Le proprietà strutturali e culturali attribuiscono una forma oggettiva alla situazione sociale con cui gli agenti, che lo vogliano oppure no, si debbono confrontare; esse detengono poteri generativi, di vincolo e di facilitazione, in rapporto a... (gli interessi degli agenti soggettivamente definiti). Il modo fondamentale, ed eminentemente oggettivo, in cui le proprietà strutturali (che siano distributive, posizionali, organizzative o istituzionali) e le proprietà culturali (che siano proposizionali, teoriche o dottrinali) si ripercuotono sugli agenti, è di tipo involontario: queste proprietà, infatti, strutturano la situazione in cui gli agenti si vengono a trovare. L'involontarietà di questa collocazione è specialmente evidente per i neonati, che diventano da subito privilegiati, o discriminati, in relazione alla distribuzione delle risorse; sin dal primo momento, alcune delle loro caratteristiche biologiche, come il genere e il colore della pelle, ricevono valutazioni culturali di tipo positivo o negativo. Altrettanto involontarie, però, sono tutte le situazioni in cui una certa collocazione di ruolo espone gli individui ad aspettative incompatibili tra loro; o quelle in cui i ricercatori devono fare i conti con teorie, o risultati, contraddittori; o quelle delle istituzioni che si vedono ostacolate o facilitate, nel loro funzionamento, dalla configurazione sistemica nella quale sono inserite.3 Tutti i casi di collocazione involontaria degli agenti 21 sono una diretta conseguenza della priorità temporale della struttura e della cultura, rispetto a qualsiasi tipo di «generazione» degli agenti. In virtù della collocazione involontaria degli agenti, a parti diverse della società corrispondono interessi altrettanto diversi. Tali interessi sono anch'essi obiettivi, nel senso che non sono riducibili a costrutti soggettivi. O gli agenti beneficiano di privilegi distributivi, di ruoli gratificanti, o di facilitazioni istituzionali, o non ne beneficiano. Non c'è nulla che li costringa a ricercare posizioni di privilegio, o a rifuggire da quelle di svantaggio. Il ripudio di qualsivoglia privilegio, gratificazione o facilitazione comporta, però, un costo-opportunità oggettivo: seguire progetti che vanno in senso contrario ai propri interessi — in altri termini — comporta sempre un 3 Per quest'ultimo caso, si veda Margaret S. Archer, Social origins of educational systems, London and Beverly Hills, Sage, 1979. prezzo da pagare. Al contrario, coloro che riescono a fuoriuscire da posizioni svantaggiate, o da situazioni di disagio, andranno incontro a una gratificazione. Esistono degli incentivi sociali oggettivi a favore di corsi d'azione diversi, a seconda della posizione da cui si parte. Che l'agente li riconosca oppure no (compresa l'eventualità che sia indotto a fraintenderli), dovrà comunque pagare un certo prezzo, se tradurrà i propri interessi personali in progetti d'azione che li contraddicono. Inoltre, per effetto della diversa collocazione degli agenti e dei diversi privilegi che ne possono derivare, il medesimo corso d'azione può comportare costi altrettanto diversi, a seconda dei gruppi coinvolti. Lo «stesso» progetto — ad esempio intraprendere un corso di laurea — richiede costi più elevati a taluni agenti, rispetto ad altri Tali costi sono del tutto oggettivi, tanto che qualsiasi strategia d'azione che non ne tenga conto sarà esposta al rischio di fallire. In ogni caso, di fronte a una data situazione, al di là delle «pressioni» della società — motivazioni ad agire in un certo modo (piuttosto che in un altro), incentivi (o disincentivi), gratificazioni (o penalizzazioni) —l'ultima parola spetta pur sempre agli agenti: sono loro, ad esempio, che devono valutare quella situazione come «positiva», ovvero migliore di qualsiasi linea d’azione alternativa. Parimenti, gli effetti del rapporto costi/opportunità sono reali, ma sta agli agenti soppesarli (in modo fallibile, a partire dalla descrizione che se ne danno), per poi decidere come comportarsi alla luce del loro «soppesamento». È l'agente che definisce la scala di vantazione e stabilisce le unità di peso o di misura che lo inducono a una decisione di un certo tipo. piuttosto che di un altro. Tutto questo, però, avviene all'interno de suo ambiente situazionale. In altre parole, l'agente è pur sempre l'«arbitro della vantazione», ma deve anche fare i conti con certi «costi fissi» del tutto estranei alla sua volontà. Solo l'agente, però, può fissare i «tassi di cambio» tra queste valute, oggettivamente non convertibili. 22 Come abbiamo già visto, quindi, non esiste alcun automatismo tra 1’acquisizione (involontaria) di un certo interesse al mantenimento di un privilegio, o al superamento di uno svantaggio, e l'adozione di un corso d’azione coerente con l'interesse in questione. Gli agenti devono trovare in tale interesse un valore soggettivo, che non coincide necessariamente con il dato oggettivo (che questo rimandi a una posizione di privilegio, o di svantaggio) In altre parole, possiamo anche analizzare con cura le ripercussioni della distribuzione delle proprietà strutturali e culturali rispetto alla posizione in cui ci troviamo, senza per questo scoprire granché su come si comporteranno gli agenti (primari o corporati), date le loro circostanze di vita. Per comprendere questo punto, è sufficiente riflettere sulle diverse collocazioni distributive degli agenti, e sull'impossibilità di dedurre, da tali collocazioni, le azioni che essi compiranno. Poniamo che un gruppo di agenti goda di un'ottima collocazione in quanto a remunerazione, potere e reputazione. Ora, non è detto che il loro posizionamento, di per sé, sia sufficiente a indurli a perseguire il mantenimento dello status quo, benché, comportandosi in altro modo, essi avrebbero oggettivamente molto da perdere. Tanto per cominciare, infatti, non tutti gli agenti si fanno guidare dai propri interessi oggettivi: possono scegliere — poniamo — di sposarsi con persone di ceto più basso, di prendere i voti di povertà, di rinunciare ai propri titoli o di abbandonare tutto quello che hanno per vivere di carità. In termini probabilistici, il massimo che si potrà ipotizzare sarà ciò che fa «la maggior parte della gente, per la maggior parte del tempo»; ma in quali azioni sociali si traducono, poi, nella vita reale, tali «probabilità»? Oltretutto, non si può trascurare la possibilità che, per gli agenti normali, la posizione di cui godono non incida sui loro ultimate concern m sé, ma assuma valenza strumentale in vista del perseguimento di altri interessi. Dal punto di vista logico, in effetti, il denaro — più che assumere valore in sé, come nel caso (patologico) delle persone avare — è valutato in funzione di altri x interessi; il potere assume valore in funzione di altri y valori; la reputazione assume, in relazione ad altri z interessi, un valore che le è sostanzialmente estrinseco. È proprio in x, in y o in z— ossia in ordini di grandezza ignoti — che risiedono gli autentici interessi degli agenti; è un fatto di mera contingenza, poi, che questi siano collegati, in una qualche misura, alle tre risorse citate. Sino a che non si definiscono questi «interessi ultimi», e non si ricostruisce il loro rapporto con le risorse in gioco, non ha senso assegnare una qualche probabilità a un corso d'azione «conservativo» (o a un qualsiasi corso d'azione tout court). È chiaro, d'altra parte, che non si può attribuire alcun potere esplicativo a banalità di senso comune del tipo «perdere non piace a nessuno», o a reificazioni sociologiche come quella di chi pretende che chiunque si sforzi in continuazione di mantenere la propria posizione distributiva, quasi la posizione rappresentasse un obiettivo in sé e per sé. 23 Ancora una volta, sembra sia giunto il tempo per «riportare in scena gli uomini» (a livello individuale e collettivo), al fine di rendere preciso ciò che rimarrebbe, in caso diverso, indefinito. Una tale operazione potrebbe muovere dallo slogan seguente: «Diteci i vostri interessi, e potremo comprendere i vostri sistemi di valutazione dei costi» (giusti o sbagliati che siano). Al di là dello slogan, si tratta di capire che le proprietà sociali, come quelle di tipo distributivo, possono generare effetti di tipo vincolante o facilitante. E impossibile sapere, però, se sia effettivamente così, sino a che non si conoscono i poteri di agency su cui si riflettono tali effetti: nella fattispecie, i progetti degli agenti, finalizzati alla realizzazione dei loro interessi. (I vincoli e le facilitazioni si attivano in relazione a...) la specifica configurazione di interessi di ogni agente, definita in forma soggettiva in relazione ai tre ordini della realtà naturale (la natura, la pratica e la società). In virtù della loro costituzione umana, in relazione alla realtà naturale, gli agenti non possono non abitare tutti e tre gli ordini costitutivi di tale realtà — il naturale, il pratico e il sociale — e non possono non stabilire relazioni attive con ciascuno di essi. L'incapacità di farlo minaccia il loro benessere fisico, nel caso dell'ordine naturale; ne mette a repentaglio la capacità d'agire, essenziale per funzionare, nell'ordine pratico; rappresenta un rischio per il raggiungimento dell'autostima, rispetto all'ordine sociale. In altre parole, la costituzione di pratiche soddisfacenti, in tutti e tre gli ordini della realtà, è una condicio sine qua non perché gli uomini possano sopravvivere o prosperare. È quindi necessario che tutti gli agenti concepiscano, rispetto a ciascun ordine della realtà, dei progetti che permettano loro — una volta perseguiti, almeno in una certa misura — di proteggere il proprio corpo e di mantenerlo in vita; di garantirsi la sopravvivenza, per il tramite del lavoro; di generare autostima, in quanto soggetti sociali. Benché l'insieme di queste pratiche, rispetto ai tre ordini di realtà. sia un dato di necessità oggettiva per ciascuno di noi, non c'è nulla che ci costringa ad assegnare lo stesso valore a ciascuna di esse. o che ci impedisca di ideare e di mettere in atto progetti più ambiziosi in un certo ordine di realtà, rispetto agli altri. Come ho sostenuto con convinzione in Being human, anzi, le persone ripercorrono riflessivamente questi tre insiemi di interessi inaggirabili, sino a stabilire l'importanza relativa di ciascuno di essi. Ciò richiede la definizione dei loro «interessi ultimi» e la subordinazione, ma anche l'adattamento, degli altri interessi rispetto a questi, poiché gli «altri interessi», per quanto marginali, non potranno mai essere ripudiati tout court. Attraverso un prolungato processo di conversazione interiore, che passa per le fasi conversazionali della «discriminazione», della «deliberazione» e della «dedizione», gli individui assegnano una scala di priorità ai loro personali interessi, a partire da quelli a cui tengono di più, per poi adattare, via via, tutti gli altri. L'assegnazione di priorità e l'adattamento tra interessi diversi, a partire dalle inclinazioni soggettive, dà luogo a una con24 figurazione personale degli interessi. Tale configurazione è tutta incentrata sul perseguimento degli interessi ultimi, e, al contempo, sull'adattamento degli altri nella forma di un determinato modus vivendi: uno stile di vita che appaia convincente al soggetto direttamente interessato. Questa costellazione di interessi costituisce la peculiare identità personale di quell'individuo, ed è l'espressione del suo più importante potere personale emergente: la sua riflessività, in relazione alla realtà. L'aspetto cruciale, che più ci interessa in questa sede, è che, se l'identità personale si costituisce in riferimento all'insieme della realtà naturale, l'identità sociale non può che essere un suo sottoinsieme. Tutti coloro che acquisiscono un'identità personale — il che non avviene per tutti (benché non si possa acquisire, sino alla maturità, un'identità stabile) — si fanno anche carico di progetti sociali. Non possiamo non essere «socialmente impegnati», dal momento che è questa la fonte di uno dei nostri interessi ineluttabili in quanto agenti. La diretta implicazione, però, è che non possiamo semplicemente essere «socialmente determinati», poiché una parte di noi deve essere anche rivolta alle istanze provenienti dagli altri due ordini della realtà. Ne deriva altresì, più radicalmente, che gli agenti possono avere considerevoli margini di autonomia dalla società, poiché le aspirazioni a cui teniamo di più, e che quindi ci interessano più di tutte le altre, possono anche non riguardare affatto l'ordine sociale. Anche ammesso che sia così, comunque, l'identità personale è una proprietà emergente che annovera, tra i propri poteri, l'individuazione e l'elaborazione di specifici progetti sociali, il loro perseguimento strategico attraverso il monitoraggio di sé, e l'impegno alla realizzazione di pratiche sociali che siano congrue con i propri interessi. L'autoconoscenza e l'autocoinvolgimento sono i due fattori che permettono di opporsi ai poteri causali dei vincoli esterni, con azioni strategiche volte ad aggirarli o a sovvertirli, basate sulla volontà di accollarsi il prezzo che questo comporterà. Questi stessi fattori permettono di estendere la portata delle facilitazioni, grazie alle proprietà «elastiche» (riflessive) dei progetti, capaci di ampliare il campo delle iniziative che possono trarre beneficio dalla presenza di circostanze favorevoli. In altre parole, i nostri interessi definiti a livello soggettivo, e in special modo i nostri interessi ultimi, fanno da «cassa di risonanza» rispetto al modo in cui percepiamo le situazioni soggettive che abbiamo di fronte, e reagiamo ad esse. Queste situazioni non «impattano» direttamente su di noi, ma sono mediate riflessivamente dai nostri interessi personali, nonché dal nostro grado di conoscenza delle circostanze che viviamo (data la descrizione che ce ne siamo fatti). Ciò significa che gli agenti potranno valutare le medesime situazioni in modi del tutto diversi, e altrettanto diverse saranno le loro reazioni. Dicendo questo, però, non intendo fare alcuna concessione al costruzionismo sociale. Le situazioni oggettive, nella forma in cui sono modellate dalle proprietà sociali e culturali, sono senz'altro reali; non pos25 siamo farne quel che vogliamo, a nostro piacimento, come se fossero prive di consistenza. Se poi le descrizioni soggettive, tramite cui le conosciamo, sono distanti dal dato di realtà, non c'è dubbio che la realtà si prenderà la sua rivincita, poiché la nostra strategia progettuale si rivelerà inadeguata. Lo status ontologico del reale non viene certamente meno per il semplice fatto che può essere valutato in modo diverso, a partire da soggetti diversi. È così che un «interesse ultimo», definito per via riflessiva, agisce come una sorta di prisma che rifrange i «raggi» dei vincoli e delle facilitazioni (ambedue oggettivi). In questa prospettiva, i vantaggi personali (come quelli legati ai privilegi distributivi) si possono tradurre in facilitazioni oggettive, purché siano congrui con i progetti stabiliti dagli agenti al fine di realizzare i rispettivi interessi, e purché gli agenti stessi se ne siano appropriati, strategicamente, in vista di questa funzione. Allo stesso modo, però, il perseguimento degli interessi che vanno nella direzione contraria può interrompere l'efficacia causale delle stesse facilitazioni. Il ripudio dei propri personali interessi darà luogo a una perdita oggettiva, rispetto ai benefici che gli agenti avrebbero potuto ottenere dal loro perseguimento, ma rimane il fatto che essi hanno tutto il potere necessario per pagare il prezzo che ne consegue; tanto più se si tratta di progetti che rivestono, ai loro occhi, importanza marginale (o sono giudicati negativamente). Devono essere state suppergiù queste, a quanto possiamo presumere, le considerazioni svolte da Tony Benn, allorché rinunciò al titolo di Pari. Altrettanto si può dire ogniqualvolta si manifesta la volontà di pagare un determinato prezzo, a fronte di certi vincoli. D'altra parte, qualsiasi tentativo di «spianare la strada» alle facilitazioni, o di aggirare i vincoli, non rappresenta nulla di più che un tentativo. Nell'uno come nell'altro caso occorre una certa creatività, poiché non sono molti i modelli standardizzati di azioni che possano garantire la protezione dei vantaggi acquisiti, o la loro proiezione nel futuro. Le facilitazioni rappresentano dei poteri che, usati con intelligenza, aiutano gli agenti a «restare davanti», rispetto alla distribuzione di una determinata risorsa; non garantiscono loro, però, di «restare immobili», nella posizione acquisita. Nel sistema aperto in cui viviamo, certezze di questo tipo, care ai comportamentisti, ci sono precluse; e poiché si tratta, al contempo, di un sistema morfogenetico, le forme d'azione abituali si fanno rapidamente obsolete. Va da sé, poi, che i tentativi di aggirare i vincoli possono ancor meno confidare su modelli d'azione prestabiliti. L'aggiramento dei vincoli, quindi, richiede qualche cosa di più — in termini di uso dei nostri poteri personali — del semplice impegno, per quanto caparbio. Impegno, determinazione e resistenza devono camminare di pari passo con la sagacia. Quest'ultimo elemento richiede anche una conoscenza realistica di ciò con cui possiamo vivere, e una capacità di pianificazione strategica dei progetti che ne conseguono. Jude the Obscure4 non mancava certo della capacità di impegnarsi con caparbietà, ma aveva calcolato male le circostanze esterne e le sue stesse capacità di resistenza, allorché aveva concepito il grandioso progetto di fare irruzione nell'Università di Oxford. 26 Il punto che mi preme maggiormente mettere in risalto è che, per essere efficace, il condizionamento delle proprietà strutturali e culturali richiede sempre un agente riflessivo. Da un lato, le facilitazioni presuppongono la capacità di cooperare in modo intelligente, capacità che può venire soltanto da agenti che sanno attingere dai propri poteri di deliberazione creativa. Dall'altro lato, i vincoli, per risultare efficaci, richiedono una considerevole remissività, giacché la loro efficacia causale viene messa a rischio non appena gli agenti contemplano la possibilità di aggirarli. A sua volta, l'agente riflessivo è una componente indispensabile, se si vuole spiegare o un effettivo condizionamento socioculturale, o il suo rifiuto, o la sua trasgressione. E 4 Si tratta del protagonista dell'omonimo romanzo di Thomas Hardy, pubblicato in Inghilterra nel 1896. la ragione è la stessa in tutti e tre i casi: il processo tramite cui le influenze strutturali oggettive sono mediate dagli agenti presuppone sempre l'attiva soggettività di questi ultimi.5 Il corso di ogni azione discende dalle deliberazioni riflessive degli agenti, che stabiliscono in modo soggettivo i rispettivi progetti pratici, in relazione alle circostanze oggettive in cui si trovano. L'aspetto che conta di più, in questa sede, è dare una spiegazione all'interrogativo seguente: quali sono i modi attraverso cui gli agenti, con le loro iniziative riflessive, si creano un modus vivendi sostenibile — e, rispetto ai loro ideali, soddisfacente — date le circostanze sociali oggettive con cui si confrontano, circostanze che non sono state create da loro? Certo, il semplice fatto di immaginare un processo di questo tipo si basa sul rifiuto del determinismo, e sul riconoscimento del ruolo assunto dagli agenti, nel plasmare il corso della loro vita. Questa prospettiva, anzi, si spinge oltre: l'idea è che le proprietà e i poteri degli agenti umani svolgano un ruolo di mediazione attiva, rispetto al condizionamento sociale a cui gli stessi agenti sono sottoposti (per effetto delle proprietà strutturali e culturali emergenti). È questo il corollario di una teoria che si oppone a qualsiasi visione «idraulica» dei fattori sociali, come se questi agissero da meccanismi di «pressione» e di «traino» rispetto a una «materia indistinta». Benché i fattori sociali, al pari delle situazioni che essi modellano, siano assolutamente oggettivi, la loro efficacia causale è mediata dalla valutazione soggettiva degli agenti. È chiaro che costoro dovranno considerare, riflessivamente, gli oggettivi rapporti di costo-opportunità che, date le circostanze, si possono attribuire ai diversi corsi d'azione possibili; tale valutazione, però, spetta esclusivamente a ciascuno di loro, poiché il condizionamento sociale non equivale a una coercizione. Va detto, poi, che gli agenti possono sempre sbagliare e valutare scorrettamente sia i «costi», sia i «benefici» insiti nel perseguimento di ogni determinato corso d'azione. Possono anche valutare in modo sbagliato le 27 5 Questo non ha nulla a che vedere con una presunta capacità, da parte degli agenti, di «cogliere la realtà per quello che essa è» (cosa che ci riporterebbe a una «fallacia ontologica»). Non vuoi dire nemmeno che la loro visione soggettiva delle cose debba sostituire la natura reale delle cose stesse (fatto che comporterebbe una «fallacia epistemica»). Il punto in questione è, più semplicemente, il seguente: la mediazione riflessiva degli agenti, pur nella sua fallibilità, è indispensabile per spiegare l'efficacia causale delle proprietà strutturali e culturali emergenti, oltre che la possibile interruzione — per iniziativa degli agenti — dei poteri causali di tali proprietà. proprie capacità di accollarsi quelle particolari azioni; in questo caso, saranno loro stessi a pagarne il «prezzo» oggettivo, cosa che li potrebbe anche indurre a rivedere, o a ridefinire, i rispettivi progetti. Lungo tutto l'arco della nostra vita esiste una dialettica incessante tra oggettività e soggettività, poiché possono cambiare le circostanze esterne (di necessità o di contingenza), così come può cambiare ciascuno di noi (anche in questo caso, di necessità — mano a mano che procediamo nel nostro ciclo di vita — o di contingenza, giacché possiamo sempre ridefinire l'agenda dei nostri interessi). In breve, ciascuno di noi è, come direbbe Charles Taylor (1985, pp. 65-68), un «potente valutatore»; come soggetti sociali, al contrario di altri esseri animati, abbiamo la capacità di trovare diverse «connotazioni di significato»6 in porzioni diverse della realtà naturale. L'idea è che questo processo di mediazione ci richieda di riordinare ciò che assume il massimo significato per ciascuno di noi — i nostri «interessi ultimi» — anche alla luce dell'importanza attribuita a queste cose dalla nostra specifica collocazione sociale. Elaboriamo in tal modo un nostro modus vivendi peculiare, in un processo di incessante valutazione riflessiva. Grazie alla deliberazione riflessiva, infatti, otteniamo tre cose. In primo luogo, formuliamo in modo esplicito e per ordine di priorità i nostri interessi, cosa che ci permette — come già abbiamo visto — di conseguire la nostra specifica identità personale. In secondo luogo, dobbiamo esaminare le circostanze sociali oggettive in cui ci troviamo, e fare dei giudizi personali (seppur arbitrari) rispetto ai corsi d'azione che riteniamo desiderabili e, alla luce del nostro progetto di vita, realizzabili. Contrariamente a quanto afferma Mead, in questa fase la nostra conversazione interiore si svolge sulla società, più che essere condotta con la società, sotto forma di «altro generalizzato». Alcune delle nostre deliberazioni interiori, anzi, rispondono proprio all'interrogativo se sia il caso di valutare (ed eventualmente, se in modo positivo o negativo) le aspettative di determinati «altri». Poiché la società, sotto il profilo normativo, è assai meno omogenea di quanto non suggerisca l'idea dell'«altro generalizzato», il soggetto dispone di più 6 «Gli esseri che hanno connotazioni di significato vanno spiegati, almeno per una parte del loro comportamento, in termini che non hanno nulla a che vedere con la spiegazione delle cose inanimate»: ad esempio in termini di interessi, 28 desideri e propositi. La citazione è ancora da Charles Taylor, Consciousness, in Paul E Secord (a cura di), Explaining human behaviour: Human action and social structure, London, Sage, 1982, p. 50. gradi di libertà, e quindi si assume anche l'onere di stabilire di chi siano le aspettative che egli farà proprie, e in che misura sarà disposto a soddisfarle. Personalmente, ad esempio, credo di essere stata all'altezza delle aspettative della scuola che ho frequentato, superando brillantemente il biennio di ammissione all'università. La missione storica di quella scuola, però, era di mandare quanti più studenti possibile a Oxford o a Cambridge. Fin dall'età di undici anni, al mattino, sedevamo in una grande sala circondata da enormi pannelli, su cui si leggevano i nomi di tutti gli studenti che erano entrati nelle due grandi università, a partire dal 1890. Fu per questo che, quando dichiarai che preferivo rivolgermi 'alla London School of Economics, fui convocata dal Preside, il quale, dopo una lunga ramanzina circa la delusione che procuravo alla sua scuola, mi esortò energicamente a ripensarci, prima di diventare una «Girton girl». L'aneddoto mi è servito a introdurre il terzo elemento. Nelle nostre deliberazioni riflessive, la valutazione che diamo dei nostri interessi, nonché dei corsi d'azione che riteniamo più adatti alla situazione in cui ci troviamo, deve necessariamente risolversi in un punto ben determinato. Il punto è il seguente: che cos'è, precisamente, che abbiamo intenzione di fare? In altre parole, quali sono esattamente le attività che riteniamo rispecchino meglio i nostri interessi ultimi, purché siano alla nostra portata? Attraverso le deliberazioni interiori, ci troviamo a definire il corso effettivo delle nostre azioni con una certa precisione. Il che è inevitabile, se si considera che, in diverse fasi della nostra vita, ci troviamo a fare i conti con delle decisioni: lasciare la scuola o continuarla, proseguire negli studi oppure no, avere dei figli prima che sia troppo tardi oppure no, andare in pensione non appena possibile o continuare a lavorare. Va da sé, poi, che anche le «non decisioni» sono delle decisioni a tutti gli effetti: gli studenti che si iscrivono all'università senza crederci granché hanno deciso di rinviare la questione, e tuttavia — dato che molti di loro, alla fine, si laureeranno — producono un cambiamento significativo, viste le nuove opportunità oggettive a cui, titolo di laurea in mano, potranno avere accesso. E proprio per spiegare queste specifiche «azioni» che diventa indispensabile fare riferimento alle nostre deliberazioni inferiori. Priva di questo riferimento, la sociologia si riduce a un'arma spuntata, che si accontenta di produrre informazioni generiche, del tipo: «I laureati godono di migliori opportunità occupazionali». E questo è un altro modo di dire che non solo il realismo sociale, ma anche molte altre prospettive teoriche, colgono le influenze macroscopiche legate ai trend di comportamento delle collettività, ma stentano a «calarsi» a un livello tale da elaborare spiegazioni adeguate rispetto alle effettive azioni compiute dagli agenti. E, se queste sono le pre29 messe, non si può addurre l'esistenza di alcun meccanismo di mediazione. Si tratta, semmai, di ammettere che — nonostante la notevole sofisticazione raggiunta nell'elaborazione concettuale delle proprietà e dei poteri sociali e culturali — il «saldo esplicativo» non va oltre le analisi di correlazione, o di regressione, di impronta essenzialmente humiana, incapaci di produrre alcun meccanismo di reale collegamento tra «causa» ed «effetto». Se si riconosce alle proprietà e ai poteri degli agenti l'importanza che spetta loro, però, ecco che il processo di mediazione non è più elusivo. Se si sa quali sono i progetti contemplati dagli agenti, dato che costoro sono senz'altro dei «potenti valutatori» rispetto ai loro personali interessi ultimi, si viene a creare una cassa di risonanza in cui riecheggiano, comunque, anche gli effetti dei fattori strutturali e culturali. Non si può certo trattare di un processo meccanicistico, poiché gli agenti sono tenuti a deliberare su ogni determinato corso d'azione, in vista dei loro interessi e alla luce delle circostanze esterne. Se si fa appropriato riferimento alle loro deliberazioni intcriori al riguardo, però, diventa relativamente più facile spiegare quel che gli agenti, riflessivamente, decidono di fare. (Da M. Archer, La conversazione interiore, Erickson,2006, pp. 232-247) 30