La spettroscopia di fotoemissione - PhysicsCom

annuncio pubblicitario
La spettroscopia di fotoemissione:
La spettroscopia di fotoemissione e' una tecnica di indagine molto usata per studiare le proprietà dei
materiali, sia nell’ambito della ricerca scientifica, sia in ambito industriale. A seconda del tipo di sorgente di
radiazione utilizzata (raggi X o ultravioletti) questa tecnica fornisce informazioni diverse sulle proprietà del
materiale indagato.
Nel caso della spettroscopia a raggi X (detta XPS – X-ray photoemission Spectroscopy) è possibile
ottenere informazioni quantitative sulla composizione chimica dello strato superficiale dei campioni analizzati
(fino a circa un nanometro di profondità). E' per esempio possibile verificare se il materiale e' ossidato, se
contiene carbonio, ferro o qualsiasi altro elemento di interesse e di determinarne la quantità percentuale.
Questa tecnica è quindi molto utile nello studio e caratterizzazione di film sottili e interfacce, cioè della
regione di confine fra due materiali diversi. In ambito industriale essa è per esempio utilizzata per
determinare la composizione chimica dei rivestimenti superficiali di utensili
e parti meccaniche. Nella ricerca scientifica essa è molto utile nello studio
della crescita di sistemi, quali ad esempio film sottili di materiale organico o
inorganico depositati su substrati opportuni, che costituiscono la base per
lo sviluppo di dispositivi magnetici o opto-elettronici innovativi.
Nel caso in cui invece la radiazione utilizzata è ultravioletta (UPS
Ultraviolet Photoemission Spectroscopy)
questa tecnica fornisce
informazioni importanti sulle proprietà elettroniche del materiale, per
esempio se esso è isolante o conduttore, e può determinare nel dettaglio
la distribuzione energetica degli elettroni all’interno della banda di valenza
e di conduzione.
Fig.1 Schema dei livelli energetici
elettronici atomici. Gli elettroni più
vicini al nucleo sono quelli piu’
fortemente legati. Le energie di
legame di questi elettroni più
interni
possono
andare,
a
seconda del numero atomico
dell’elemento, da meno di un
centinaio di eV fino a diverse
migliaia di eV.
La spettroscopia di fotoemissione si basa sull'effetto fotoelettrico: quando
un fascio luminoso di frequenza opportuna incide sulla superficie di un
materiale, esso viene assorbito e cede la propria energia agli elettroni del
materiale stesso. Se l'energia fornita è sufficiente, gli elettroni vengono fotoemessi, cioè riescono ad uscire
dalla superficie costituendo una corrente che può essere misurata.
L'energia cinetica Ek degli elettroni fotoemessi è legata alla loro energia di legame Eb (cioe' all'energia con
cui sono legati al nucleo all'interno degli atomi del materiale) dalla espressione:
Ek=hf-Eb-W
(1),
dove hf e' l'energia della luce incidente (h e' la costante di Planck e f la frequenza della luce) e W e' la
funzione lavoro del materiale1.
XPS
Se la radiazione incidente è data da raggi X (hf è in questo caso dell’ordine delle migliaia di eV), l'energia
fornita è sufficiente per liberare gli elettroni dei livelli energetici atomici (orbitali) più profondi (cioè quelli che,
trovandosi più vicino al nucleo atomico, sono più fortemente legati ad esso).
Per ogni specie atomica, l'energia di legame degli elettroni dei livelli atomici profondi (livelli di core) ha valori
ben precisi, caratteristici di ciascun elemento, e ne costituisce una sorta di carta di identità.
Gli elettroni provenienti da un particolare livello atomico, se riescono a raggiungere la superficie del
campione senza subire urti, escono dal campione con energia cinetica Ek legata all’energia di legame che
possedevano all’interno del materiale dalla equazione (1).
1
La funzione lavoro o lavoro di estrazione di un materiale (solitamente indicato con W) è l'energia minima che
occorre fornire per estrarre un elettrone dal materiale stesso. Questa energia dipende dal tipo di materiale e si aggira in
genere intorno a qualche elettronvolt.
Con la tecnica XPS è possibile, misurando l'energia cinetica degli elettroni fotoemessi, risalire alla loro
energia di legame, individuando cosi in modo univoco la
specie chimica degli atomi presenti nel campione. Per fare
questo, gli elettroni fotoemessi sono raccolti da un
analizzatore di elettroni, uno strumento in grado di misurare
l'energia e il numero di elettroni che escono dalla superficie
del campione. Si ottiene così uno spettro come quello
mostrato in Fig.2 , in cui è riportato il numero di elettroni
fotoemessi e raccolti dall’analizzatore in funzione dell'energia
di legame che essi avevano all'interno del materiale (riportata
in ascissa e ricavata attraverso l’eq (1) dall’energia cinetica
misurata). Lo spettro è costituito da diversi picchi ad energie
ben precise: ciascuno di essi corrisponde ad un livello
energetico e quindi ad un elemento chimico. Per esempio il
Fig.2 Spettro XPS di un campione di Si su cui
picco a 284.6 eV corrisponde al livello 1s del carbonio e
sono state depositate molecole organiche
quello a 532.5 corrisponde al 1s dell'ossigeno. I valori delle
contenenti Ferro (ferrocene). I picchi che si
osservano corrispondono ad elettroni fotoemessi
energie di legame di ciascun orbitale sono tabulati ed è quindi
dagli orbitali interni degli atomi presenti sulla
facile individuare a partire da uno spettro XPS gli elementi
superficie (Si, C, O e Fe). La loro altezza è legata
presenti nel campione. Dall'area di ciascun picco è possibile
alla loro concentrazione relativa nello strato
risalire alla quantità percentuale di quel elemento all'interno
superficiale del campione.
del materiale. Questa tecnica è molto sensibile ed è in grado
di rilevare elementi presenti con concentrazioni dell’ordine dello 0.1%.
L’area di ciascun picco dipende dalla quantità della specie atomica corrispondente presente sulla superficie
e da una ulteriore grandezza chiamata sezione d’urto di fotoemissione. Questa quantità è proporzionale alla
probabilità che un fotone incidente riesca effettivamente a interagire con l’atomo in questione e a fare
fotoemettere un elettrone da quel particolare livello energetico. Essa dipende principalmente dalla specie
atomica, dal livello energetico in questione e dall’energia del fotone incidente. La sezione d’urto può variare
di qualche ordine di grandezza da una specie atomica ad un'altra. È chiaro allora che, a parità di
concentrazione percentuale, il picco XPS relativo ad una specie atomica con sezione d’urto alta sarà molto
più intenso di uno con sezione d’urto inferiore. Un’analisi quantitativa della
composizione chimica di un campione deve quindi tenere conto anche della
sezione d’urto, i cui valori sono tabulati abbastanza accuratamente.
Un altro aspetto molto interessante della fotoemissione X è dato dal fatto
che una misura precisa dell’energia di ciascun picco fornisce informazioni
sullo stato chimico (per esempio di ossidazione) dell'elemento stesso.
Infatti, l’energia di legame di un elettrone in un orbitale atomico può variare
di qualche eV a seconda dell’intorno chimico e dello stato di ossidazione
dell’elemento. Per esempio il picco di fotoemissione relativo all’orbitale 2p
del Si, che solitamente ha energia di legame di 99 eV, si sposta a circa
104 eV quando il Si è legato all’ossigeno nell’ossido (SiO 2). In Fig.3 è
riportato lo spettro XPS di un campione di silicio la cui superficie è stata
Energia di legame
ossidata. Il doppio picco più intenso corrisponde a elettroni fotoemessi dai
Fig.3
Spettro XPS di una
due orbitali 2p (che hanno una energia leggermente diversa a causa dello
superficie di silicio parzialmente
ossidata.
spin-orbita) del Si non ossidato, mentre il picco largo a ~ 104 eV è dovuto
ad elettroni fotoemessi dai livelli 2p di atomi di Si legati ad ossigeno.
Come si vede in Fig. 2, lo spettro XPS è costituito da una serie di picchi, sovrapposti ad un fondo
crescente. Questo fondo è costituito da quegli elettroni che, prima di riuscire ad uscire dal campione, hanno
subito degli urti anelatici con gli atomi circostanti perdendo così parte della loro energia. A causa degli urti
subiti questi elettroni, detti secondari, hanno ‘perso memoria’ della loro energia iniziale, cioè del livello
energetico di provenienza e sono quindi distribuiti in modo quasi uniforme su tutte le energie. Come si vede
in figura, il fondo dovuto agli elettroni secondari è più alto nella regione delle energie di legame maggiori.
Ricordando l’eq. 1, le energie di legame maggiori corrispondono ad energie cinetiche minori: la maggior
parte degli elettroni fotoemessi dagli atomi del campione infatti perdono buona parte della loro energia a
causa degli urti ed escono dal campione con energie cinetiche piccole.
Gli urti subiti dagli elettroni fotoemessi determinano un’altra caratteristica molto importante della
spettroscopia di fotoemissione, cioè la sua sensibilità alla superficie: a causa degli urti, solo gli elettroni che
provengono da atomi abbastanza vicini alla superficie del campione riescono a raggiungerla senza subire
urti o comunque con una energia sufficiente per uscire dal campione stesso. Gli elettroni rivelati giungono
quindi da uno strato di atomi che distano al più qualche nanometro dalla superficie. Per questo motivo la
fotoemissione X è in grado di rivelare la presenza di piccolissime quantità di specie atomiche (frazioni
centesimali di un singolo strato atomico o molecolare) sulla superficie dei campioni studiati.
UPS
Se invece dei raggi X vengono utilizzati raggi ultravioletti (UV), che hanno una energia di qualche decina
di elettronvolt, gli elettroni fotoemessi sono quelli che si
trovano nella banda di valenza del materiale e in questo
caso si possono ottenere informazioni sulle proprietà
elettroniche del materiale stesso, come per esempio se esso
è conduttore o isolante (cfr. Fig.3). La tecnica UPS è
particolarmente adatta a studiare come si modifica la banda
di valenza dei materiali durante la crescita di film sottili. Per
esempio si può studiare come varia la funzione lavoro di un
campione e come si modificano i livelli energetici al variare
dello spessore del film depositato. Queste informazioni sono
molto utili per comprendere i meccanismi di trasporto degli
elettroni attraverso la superficie di separazione (interfaccia)
fra il substrato e il materiale depositato.
La camera sperimentale
Un apparato per una misura di fotoemissione è costituito da
una ‘camera da vuoto’, ovvero un involucro di acciaio in cui
può essere fatto il vuoto, attraverso l’uso di pompe di vario
tipo. La pressione all’interno di questo involucro, che di solito
ha forma cilindrica con diametro dell’ordine del mezzo metro
Fig.3 Spettri UPS di un metallo (pannello
e lunghezza di qualche metro, è solitamente fra i 10-8 e i
superiore) e di un semiconduttore (pannello
10-11 mbar. All’interno della camera si trova un
inferiore). Lo zero dell’energia corrisponde
all’energia di Fermi e nel secondo caso si
portacampione, che di solito può essere traslato e ruotato
osserva la presenza di una gap di energia, in cui
in diverse posizioni, la sorgente di radiazione (lampada X
cioè non ci sono livelli energetici.
o UV) e l’analizzatore di elettroni. Il campione viene di
solito trasferito all’interno della camera attraverso un
introduttore rapido, ovvero un piccola camera secondaria da vuoto collegata a quella principale attraverso
una valvola: il campione, che proviene dall’esterno, viene montato sull’introduttore quando esso si trova a
pressione atmosferica; una volta fatto rapidamente il vuoto nell’introduttore, la valvola può essere aperta e il
campione trasferito (attraverso appositi bracci mobili) sul portacampione principale. Questa procedura viene
eseguita in modo da preservare la bassa pressione all’interno della camera principale.
Sorgente di luce X e UV
Un modo per produrre raggi X di una ben precisa energia è quello di eccitare gli atomi di un determinato
materiale (per esempio magnesio o alluminio) investendoli con un fascio elettronico altamente energetico: gli
elettroni dei livelli più interni degli atomi colpiti nell’urto assorbono energia e possono essere emessi
dall’atomo, lasciandolo ionizzato. In questo modo l’atomo si trova in uno stato eccitato, ovvero in una
situazione non stabile: per tornare a quello che si chiama stato fondamentale, cioè quello a più bassa
energia potenziale, un elettrone dei livelli superiori meno legati può ‘cadere’ nel livello energetico lasciato
libero dall’elettrone emesso emettendo energia sotto forma di radiazione
elettromagnetica (fotoni). L’energia di questa radiazione è data dalla
differenza fra l’energia dello stato eccitato e quella dello stato fondamentale:
per esempio nel caso del magnesio essa è 1253.6 eV, mentre nel caso
dell’alluminio è 1486.6 eV; in entrambi i casi si tratta di radiazione X, detta
molle, perché relativamente poco energetica (rispetto ai raggi x duri, che
hanno energie dell’ordine delle decine di migliaia di eV).
In figura 4 è illustrata la struttura interna di una lampada a raggi X.
La parte centrale è detta anodo ed è costituito da un’asta, la cui punta è
ricoperto da un lato da uno strato di alluminio e dall’altro da magnesio. La
lampada e' inoltre costituita da due filamento (posti ai fianchi all’anodo e non
visibili nella figura), attraverso cui passa corrente. I filamenti emettono (per
effetto termoionico) elettroni, che vengono accelerati attraverso una differenza
di potenziale e incidono sull'anodo. Gli elettroni, che hanno una energia
cinetica dell’ordine dei KeV, eccitano parte degli atomi dell'anodo. A seconda
Fig 4 Schema di una lampada
del filamento usato e quindi della porzione di anodo investita dal fascio
a raggi X.
elettronico ( Al o Mg) è possibile produrre radiazione X con due energie
diverse (1253.6 o 1486.6 eV). In realtà, durante il processo vengono prodotti anche fotoni di energia minore,
a causa della cosiddetta radiazione di frenamento (bremsstralhung)2, questi vengono assorbiti dal un sottile
foglio di alluminio posto davanti all’anodo, in modo da rendere la luce emessa dalla lampada
sostanzialmente monocromatica.
Nel caso di una lampada UV il principio di funzionamento è simile, ma gli atomi eccitati utilizzati sono
generalmente di Elio e si trovano sotto forma gassosa: il gas è contenuto in un piccolo tubo di materiale
isolante, collegato con la camera principale, ai cui capi è applicata una differenza di potenziale elevata
(qualche kV). All’interno del gas si produce una scarica elettrica (un po’ come in un tubo al neon) che eccita
gli atomi di Elio. La radiazione emessa a causa della diseccitazione atomica è nell’ultravioletto ed ha
un’energia di circa 20 eV.
Analizzatore di elettroni:
Come abbiamo visto in precedenza, gli elettroni fotoemessi
devono essere analizzati in energia, occorre cioè uno strumento
che raccolga gli elettroni emessi dalla superficie del campione e
misuri l’energia cinetica di ciascuno di essi, ovvero in altri termini
misuri per ogni energia cinetica quanti fotoelettroni sono stati
emessi dal campione. Questo strumento è detto analizzatore di
elettroni ed è costituito da una lente elettrostatica, da un
condensatore emisferico e da un rivelatore di elettroni. La lente
elettrostatica è costituita da una serie di cilindri a potenziali
elettrostatici regolabili diversi, il cui compito è quello di
raccogliere gli elettroni emessi entro un certo angolo e
convogliarli all’ingresso del condensatore cilindrico: questa
porzione dello strumento è detta lente proprio perché agisce
come una lente ottica, focalizzando gli elettroni raccolti in un
punto ben preciso. Inoltre essa è anche in grado di accelerare o
Fig. 5 Schema di un analizzatore di elettroni.
ritardare gli elettroni in modo da variare in modo controllato
l’energia cinetica con cui essi giungono all’ingresso del condensatore elettrostatico.
Il condensatore emisferico è costituito da due armature metalliche emisferiche, a cui viene applicata una
differenza di potenziale variabile. La traiettoria degli elettroni all’interno delle armature del condensatore
dipende sia dal valore di questa differenza di potenziale, sia dalla energia cinetica di ingresso degli elettroni
stessi. Questo fa si che gli elettroni possano essere selezionati in energia, perché solo quelli con una certa
energia cinetica (detta pass energy, energia di passaggio, e legata al
valore di V fra le armature) avranno una traiettoria tale da attraversare
tutta la emisfera, arrivando all’uscita, mentre gli altri urtano contro le
armature e si perdono. All’uscita dell’emisfera un rivelatore di elettroni
misura la quantità di elettroni che incidono su di esso. I valori delle
differenze di potenziale sulla lente elettrostatica e sulle armature del
condensatore sono controllati attraverso un computer: variando il
potenziale ritardante o accelerante della lente è possibile fare in modo
che giungano all’ingresso del condensatore con la corretta pass energy
gli elettroni che inizialmente hanno una certa energia cinetica E0: questi
Fig. 6 Moltiplicatore di elettroni: la
saranno quelli rivelati dallo strumento, mentre tutti gli altri andranno persi.
fenditura rettangolare costituisce
Lo strumento si comporta cioè da filtro energetico, facendo passare fino al
l’ingresso del moltiplicatore, mentre
l’altra estremità della ‘tromba’ è
rivelatore solo gli elettroni con energia cinetica iniziale voluta. Variando il
dove
il
segnale
elettrico
potenziale delle lenti si varia il valore di E 0, ottenendo così lo spettro
(moltiplicato) viene raccolto.
energetico desiderato.
Fig 7
2
La radiazione di frenamento o bremsstrahlung è la radiazione emessa da particelle cariche quando subiscono una
forte decelerazione. Ciò avviene tipicamente quando le particelle vengono scagliate contro un bersaglio metallico.
Poiché gli elettroni sono molto più leggeri dei protoni, il bremsstrahlung elettronico è il più comune. Secondo le equazioni
di Maxwell, le cariche accelerate emettono radiazione elettromagnetica, e se l'energia degli elettroni bombardanti è
sufficientemente alta, si ha che la radiazione emessa si trova nella regione dei raggi X dello spettro elettromagnetico. La
radiazione di bremsstrahlung è caratterizzata da una distribuzione continua di radiazione che diviene più intensa e si
sposta verso le frequenze maggiori con l'aumentare dell'energia degli elettroni bombardanti.
Il numero di elettroni che arriva sul rivelatore è molto piccolo ed è quindi difficile riuscire misurarne la
corrente corrispondente (dell’ordine del picoampere) con precisione. Il rivelatore di elettroni è uno
strumento che è in grado di moltiplicare gli elettroni che incidono su di esso in modo da produrre una
corrente elettrica facilmente misurabile. Il rivelatore è costituito da un tubino a forma di tromba (vedi Fig. 6),
la cui parete interna è ricoperta da un materiale che, quando colpito da elettroni sufficientemente energetici,
emette molti elettroni (di energia minore). La differenza di potenziale applicata ai capi del tubo fa si che gli
elettroni emessi vengano accelerati e la forma del tubo aumenta la probabilità di urto con le pareti: ad ogni
urto il numero di elettroni emessi aumenta geometricamente, in modo tale da ottenere al termine del tubo
una corrente che è tipicamente 106 volte maggiore di quella incidente e quindi facilmente misurabile.
Per approfondire:
Una lezione del Dott. L. Pasquali (UniMoRE) sulla spettroscopia di fotoemissione (in italiano):
http://www.g6.unimore.it/ selezionare “spettroscopia 4”
Dispense del Prof. F. Boscherini (UniBo) sulla spettroscopia di fotoemissione (in inglese):
http://amscampus.cib.unibo.it/archive/00002071/
Un sito interessante: www.lasurface.com
Scarica