Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • pp. 1-68 Vol. 44 • N. 173 Gennaio-Marzo 2014 Le malattie della tiroide nei bambini (a cura di F. Chiarelli, M.L. Marcovecchio) Ipotiroidismo congenito Le Tiroiditi I noduli tiroidei in età pediatrica: classificazione, inquadramento diagnostico e principi terapeutici L’ipertiroidismo in età pediatrica: una realtà rara Infettivologia Pediatrica (a cura di G.V. Zuccotti) HIV in età pediatrica: cosa è cambiato 30 anni dopo Aggiornamenti e nuove frontiere nella tubercolosi in età pediatrica La gestione della meningite batterica FRONTIERE (a cura di A. Biondi, A. Iolascon, L.D. Notarangelo, M. Zeviani) Alimenti e malattie infiammatorie croniche Tavola rotonda (a cura di F. Sereni) Pediatria, Neuropsichiatria Infantile e Neurologia Pediatrica. Problemi attuali di assistenza e ricerca Pacini Editore Medicina Periodico trimestrale POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 conv.in L.27/02/2004 n°46 art.1, comma 1, DCB PISA Aut. Trib. di Milano n. 130 del 17/03/1971 - Stampa a tariffa ridotta - tassa pagata - Aut. 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Vol. 44 • N. 173 Gennaio-Marzo 2014 INDICE numero 173 Gennaio-Marzo 2014 Le malattie della tiroide nei bambini (a cura di Francesco Chiarelli, M. Loredana Marcovecchio) Presentazione Ipotiroidismo congenito Alessandra Cassio, Antonella Cantasano, Milva Orquidea Bal.................................................................................................................. 2 Le Tiroiditi M. Loredana Marcovecchio, Francesco Chiarelli...................................................................................................................................... 8 I noduli tiroidei in età pediatrica: classificazione, inquadramento diagnostico e principi terapeutici Graziano Cesaretti.................................................................................................................................................................................. 13 L’ipertiroidismo in età pediatrica: una realtà rara Giovanna Weber, Elena Peroni, Maria Cristina Vigone............................................................................................................................. 20 Infettivologia Pediatrica (a cura di Gian Vincenzo Zuccotti) Presentazione HIV in età pediatrica: cosa è cambiato 30 anni dopo Vania Giacomet, Valentina Fabiano, Gian Vincenzo Zuccotti................................................................................................................... 26 Aggiornamenti e nuove frontiere nella tubercolosi in età pediatrica Francesca Tucci, Andrea Lo Vecchio, Alfredo Guarino............................................................................................................................. 36 La gestione della meningite batterica Giulia Remaschi, Alessia Nucci, Chiara Tersigni, Melodie Aricò, Clementina Canessa, Francesca Lippi, Chiara Azzari, Luisa Galli........................................................................................................................................................................ 45 Frontiere (a cura di Andrea Biondi, Achille Iolascon, Luigi D. Notarangelo, Massimo Zeviani) Alimenti e malattie infiammatorie croniche S. Auricchio, M.V. Barone........................................................................................................................................................................ 53 Tavola rotonda Pediatria, Neuropsichiatria Infantile e Neurologia Pediatrica. Problemi attuali di assistenza e ricerca A cura di Fabio Sereni............................................................................................................................................................................ 61 Le malattie della tiroide nei bambini La ghiandola tiroidea ha un ruolo essenziale nella regolazione dell’accrescimento, della maturazione e mielinizzazione del sistema nervoso, del metabolismo e su una serie di organi ed apparati. I disordini che colpiscono la ghiandola tiroidea rappresentano le più comuni endocrinopatie in età pediatrica. La eziologia e la presentazione clinica delle malattie tiroidee nei bambini differiscono in modo sostanziale da quelle degli adulti. Pertanto, è di grande importanza conoscere le diverse caratteristiche della funzione e della disfunzione tiroidea nei bambini e negli adolescenti. La diagnosi precoce ed il trattamento tempestivo ed ottimale sono essenziali per prevenire il danno irreversibile e permanente a carico del sistema nervoso centrale e periferico, soprattutto nei bambini della prima infanzia che sono particolarmente vulnerabili alla disfunzione della tiroide. In questo numero di Prospettive in Pediatria vengono trattate le patologie della tiroide più rilevanti in età evolutiva, per la loro frequenza, l’importanza clinica e le recenti acquisizioni scientifiche, al fine di fornire un aggiornamento su questo importante capitolo di Endocrinologia Pediatrica. L’ipotiroidismo congenito è la più frequente patologia tiroidea nei bambini, ha una incidenza variabile ed appare in aumento in vari studi epidemiologici. I recenti progressi nella ricerca scientifica hanno consentito di comprendere meglio le varie fasi della formazione e migrazione della ghiandola tiroidea; i programmi di screening neonatale sono stati implementati negli ultimi lustri ed hanno consentito il trattamento tempestivo dell’ipotiroidismo congenito. Molto recentemente sono state pubblicate ‘Consensus guidelines’ sullo screening, diagnosi e gestione dell’ipotiroidismo congenito, che hanno definito molto puntualmente i criteri per la diagnosi ed il follow-up dei bambini con questa frequente patologia tiroidea (Leger et al., 2014). Le tiroiditi sono frequenti nei bambini. La forma in assoluto più frequente è la tiroidite di Hashimoto, che si manifesta soprattutto durante l’adolescenza con una predominanza nel sesso femminile. Questa malattia si associa di frequente alla malattia celiaca, alla sindrome di Turner e al diabete mellito di tipo 1. La diagnosi si basa sul dosaggio degli anticorpi anti-tireoperossidasi e anti-tireoglobulina e sulla valutazione ecografica. Il dosaggio degli ormoni tiroidei può risultare nella norma, spesso però si osserva un TSH elevato con FT4 normale e vi è discussione in letteratura su quando trattare un ipotiroidismo subclinico. I noduli tiroidei non sono frequenti nei bambini, ma spesso pongono rilevanti problemi di inquadramento diagnostico. Nei bambini si possono osservare noduli benigni o maligni, con maggior prevalenza di questi ultimi. Il capitolo sui noduli tiroidei offre una revisione accurata dei criteri che permettono di distinguere i noduli benigni dai maligni, insieme agli aspetti salienti relativi alla diagnostica e alla terapia. Il quarto articolo è dedicato all’ipertiroidismo nei bambini. L’ipertiroidismo, seppur raro in età pediatrica, rappresenta una condizione la cui diagnosi può essere insidiosa. L’articolo delinea le caratteristiche cliniche e laboratoristiche tipiche di questa condizione e offre una revisione dello stato dell’arte in merito agli attuali approcci terapeutici, relativamente ai quali c’è ancora ampio dibattito. È nostra speranza che questa sessione di Tireologia Pediatrica possa fornire al lettore di Prospettive in Pediatria un completo aggiornamento delle malattie tiroidee in età pediatrica, con l’obiettivo di migliorare la diagnosi ed il trattamento di queste importanti malattie nei bambini. Francesco Chiarelli, M. Loredana Marcovecchio Clinica Pediatrica, Università di Chieti Bibliografia Essenziale Léger J, Olivieri A, Donaldson M, et al. on behalf of ESPE-PES-SLEP-JSPE-APEG-ISPAE, and the Congenital Hypothyroidism Consensus Conference Group. European Society for Paediatric Endocrinology Consensus Guidelines on Screening, Diagnosis and Management of Congenital Hypothyroidism. J Clin Endocrinol Metab 2014;99:363-84. Brown RS. Autoimmune thyroiditis in childhood. J Clin Res Pediatr Endocrinol 2013;5 Suppl 1:45-9. Léger J, Carel JC. Hyperthyroidism in childhood: causes, when and how to treat. J Clin Res Pediatr Endocrinol 2013;5 Suppl 1:50-6. Osipoff JN, Wilson TA. Consultation with the specialist: thyroid nodules. Pediatr Rev 2012;33:75-81. Hiromatsu Y, Satoh H, Amino N. Hashimoto’s thyroiditis: history and future outlook. Hormones 2013;12:12-8. 1 Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • Pp. 2-7 endocrinologia pediatrica Ipotiroidismo congenito Alessandra Cassio, Antonella Cantasano, Milva Orquidea Bal Dipartimento di Scienze Mediche-Chirurgiche, UO di Pediatria, Programma di Endocrinologia, Università degli Studi di Bologna Riassunto L’Ipotiroidismo Congenito rappresenta il più comune disturbo endocrinologico del neonato la cui incidenza appare in aumento nel corso degli ultimi anni. È causato in circa il 70% dei casi da disgenesia tiroidea, la cui etiopatogenesi appare complessa ed ha verosimilmente basi poligeniche e multifattoriali. Nel 30% dei casi è dovuto ad un difetto autosomico recessivo nella biosintesi ormonale associato a ghiandola tiroidea in situ. Lo screening neonatale permette l’individuazione precoce della malattia e quindi la prevenzione dell’handicap mentale conseguente. Un test di screening patologico deve ritenersi solo il primo passo di un processo che, attraverso conferma diagnostica e follow-up, conduce ad una gestione terapeutica e ad un monitoraggio differenziati in base alla severità della patologia. La L-Tiroxina è il trattamento d’elezione con un dosaggio iniziale variabile da 10 a 15 µg/ kg/die in rapporto alla gravità e all’etiologia del quadro patologico. Summary Congenital hypothyroidism is the most common endocrine disorder in neonatal age and its incidence seems to have increased over the past twenty years. In about 70% of cases congenital hypothyroidism is caused by thyroid dysgenesis, whose etiology is complex and has likely multifactorial and polygenic basis. Thirty per cent of cases are due to an autosomal recessive disorder in hormone biosynthesis associated with thyroid gland in situ. Newborn screening allows early congenital hypothryoidism detection, thus preventing subsequent mental handicap. Through confirmation of diagnosis and follow-up, pathological screening test is only the first step in a process leading to different management depending on the severity of the disease. L- Thyroxine is the first choice treatment. Its initial dosage ranges from 10 to 15 µg/kg/die, based on severity and etiology of the pathological picture. Parole chiave: Ipotiroidismo Congenito, Screening neonatale, L-Tiroxina, Conferma diagnostica Key words: Confirmation of diagnosis, Congenital Hypothyroidism, L-Thyroxine, Newborn Screening Obiettivi del lavoro e metodologia della ricerca bibliografica Scopo dell’articolo è quello di analizzare gli aspetti epidemiologici, etiopatogenetici e l’approccio diagnostico-terapeutico dell’Ipotiroidismo Congenito (IC). Le conoscenze riguardanti tale endocrinopatia, che è quella di più comune riscontro per il pediatra, si sono profondamente modificate nel corso degli ultimi decenni grazie in particolare all’avvento dei programmi di screening neonatale. Per realizzare questi obiettivi è stata condotta una ricerca bibliografica su Medline, avvalendosi di PubMed come motore di ricerca. Sono state utilizzate le seguenti stringhe di ricerca: ipotiroidismo congenito,epidemiologia, screening neonatale, L-tiroxina, conferma diagnostica ed è stata impostata una limitazione temporale agli ultimi 4 anni. Alcune pubblicazioni rilevanti degli anni precedenti, riportate nel lavoro, sono derivate sia dalla conoscenza personale degli autori che dalla bibliografia delle pubblicazioni identificate mediante PubMed. Epidemiologia L’incidenza dell’IC appare in aumento nel corso degli ultimi anni secondo i dati della letteratura internazionale (Rastogi e La Franchi, 2010; Olivieri et al., 2013; Donaldson e Jones, 2013) (Fig. 1). I motivi di tale incremento possono essere molteplici e, almeno in parte, riflettono differenze etniche, nell’apporto iodico o nelle modalità dell’accertamento diagnostico nei diversi paesi (Donaldson e Jones, 2013). La riduzione dei livelli di cut-off per il TSH attuata in molti 2 programmi di screening ha permesso l’individuazione di un maggior numero di forme “mild” di IC, prevalentemente con tiroide in sede. Studi a lungo termine saranno necessari per valutare l’outcome di tali forme per ciò che riguarda il rischio di deficit psicointellettivi e la necessità o meno di terapia sostitutiva (Rabbiosi et al., 2013). Infine Figura 1. Aumento dell’incidenza dell’IC nel corso degli ultimi 30 anni segnalata dai vari programmi di screening in campo internazionale. In particolare negli Stati Uniti si è passati da un’incidenza di 1:4098 nel 1978 a 1: 2370 nel 2005 con una probabilità di diagnosi di IC aumentata del 30% nel corso di un decennio. In Italia secondo i dati del Registro Nazionale degli Ipotiroidei Congeniti l’incidenza delle forme permanenti di IC è passata da 1:3800 negli anni 1987-1999 a 1:1800 nati vivi nel periodo 2000-2006. Ipotiroidismo congenito sempre con più frequenza tra i fattori di rischio di insorgenza di IC compaiono la prematurità, il basso peso neonatale e la gemellarità, fattori che nel corso degli ultimi anni vengono favoriti dal crescente impiego delle tecniche di procreazione assistita (Rastogi e La Franchi, 2010). Etiologia Grazie in particolare alle conoscenze derivanti dallo screening neonatale, l’IC si è rivelata una malattia con un ampio spettro di manifestazioni le cui cause sono riportate nella tabella I (Cassio et al., 2013). La disgenesia tirodea è la causa più comune di IC primitivo (70% dei casi) ed è dovuta in prevalenza ad ectopia sublinguale. In circa il 30% dei casi l’IC primitivo è dovuto ad un difetto, trasmesso con ereditarietà autosomica recessiva, di uno degli enzimi coinvolti nella sintesi degli ormoni tiroidei e si associa ad una ghiandola tiroidea in situ di volume normale o aumentato. Genetica La disgenesia tiroidea isolata è in genere una forma sporadica la cui patogenesi è tuttora in buona parte sconosciuta, ma alcune recenti osservazioni suggeriscono una possibile base genetica anche in tali difetti (Montanelli e Tonacchera, 2010). Vi è infatti l’evidenza sperimentale che mutazioni nei fattori di trascrizione coinvolti nello sviluppo della tiroide (PAX 8, FOXE1, NKX2-1, NKX2-5) causano disgenesie tiroidee nei modelli murini e, sia pure in una minoranza di casi, mutazioni analoghe sono state associate a difetti dell’organogenesi tiroidea nell’uomo (De Felice e Di Lauro 2011) (Tab. II). Inoltre, studi in vivo in famiglie di soggetti ipotiroidei congeniti ha evidenziato una frequenza di forme familiari di disgenesia tiroidea (2%) e di minori anomalie morfologiche tiroidee in soggetti eutiroidei (7%) nettamente superiore a quella riscontrata nella popolazione di controllo (0,9%) e difficilmente spiegabile sulla base della sola casualità (Castanet et al., 2001; Leger et al., 2002). Infine un’incidenza elevata di malformazioni congenite extratiroidee è stata riscontrata nei pazienti con IC e mutazioni di alcuni fattori di trascrizione sono state descritte in casi “sindromici” di IC (Olivieri et al., 2007; Montanelli e Tonacchera, 2010; Leger et al., 2013). Tutte queste osservazioni supportano l’ipotesi di un’origine comune di difetti durante le fasi dell’embriogenesi tiroidea, in cui l’interazione fra i diversi fattori di trascrizione ha un ruolo chiave ed è necessaria per l’ulteriore fase di crescita e differenziazione dell’abbozzo tiroideo (Tab. II). D’altra parte mutazioni in questi geni sono state evidenziate finora in meno del 10% dei pazienti con IC e dai dati del registro nazionale risulta un’elevata discordanza di IC nei gemelli monozigotici (Olivieri et al., 2002). Queste osservazioni sembrano suggerire un possibile ruolo anche di fattori ambientali ed epigenetici nella determinazione dello sviluppo tiroideo. In conclusione, appare evidente dai dati più recenti della letteratura, che la genetica delle disgenesie tiroidee è complessa ed ha verosimilmente basi poligeniche e multifattoriali che non seguono, nella maggior parte dei casi, il pattern di ereditarietà di tipo mendeliano (De Felice e Di Lauro, 2011). Vista la bassa frequenza di mutazioni note nei pazienti con disgenesia tiroidea, un’analisi di biologia molecolare ed una consulenza genetica potrebbero essere proposte ai pazienti con ricorrenza familiare di disgenesia tiroidea o con malformazioni extratiroidee associate e/o forme sindromiche. L’ipotiroidismo congenito con tiroide in sede o gozzo è causato da mutazioni di uno dei geni che codificano per le proteine responsa- bili della sintesi degli ormoni tiroidei o del trasporto e captazione dello Iodio (Tab. I e II). Questi difetti mostrano una ereditarietà di tipo autosomico recessivo mendeliano in cui la diagnosi molecolare permette il counselling genetico e l’identificazione dei portatori asintomatici. Il riscontro di un IC con tiroide in sede normale o ipoplasica può suggerire una mutazione inattivante in eterozigosi del gene del recettore del TSH; tale mutazione in omozigosi può causare forme più severe di IC con ipoplasie gravi o “apparenti” atireosi (Persani et al., 2010). Tabella I. Classificazione delle varie forme di Ipotiroidismo Congenito. IPOTIROIDISMO CENTRALE • Deficit isolato di TSH (mutazione subunità β del gene del TSH) • Deficit TRH (isolato, pituitary stalk interruption syndrome-PSIS-, lesioni ipotalamiche) • Resistenza al TRH (mutazione recettore del TRH) • Mutazione di fattori di trascrizione coinvolti nello sviluppo ipofisario (HESX1, LHX3, LHX4, PROP1, PIT1) IPOTIROIDISMO PRIMITIVO Forme Permanenti Disgenesia tiroidea: • Ectopia • Atireosi, • Ipoplasia • Emiagenesia Tiroide in situ (di volume normale o aumentato) • Difetto del trasporto dello Iodio (mutazioni NIS) • Difetti di organificazione dello Iodio (mutazioni TPO, DUOX2, DUOXA2, Tg, Pendrina) • Difetto iodotirosina deiodinasi (mutazioni DEHAL1) • Resistenza al TSH (mutazioni inattivanti recettore TSH, difetti Proteina G) Forme Transitorie • Fattori materni (passaggio transpalcentare di farmaci o anticorpi) • Fattori neonatali (prematurità, IUGR, TIN) • Difetto o eccesso di iodio • Mutazioni in eterozigosi di DUOX2 o DUOAX2 • Emangioma epatico congenito IPOTIROIDISMO SINDROMICO Mutazioni di: • Pendrina (Sindrome di Pendred, gozzo e sordomutismo) • NKX2-1 (Sindrome cervello-polmone-tiroide, variabili disturbi neurologici tipo coreoatetosi e respiratori) • FOXE-1 (Sindrome di Bamforth-Lazarus, palatoschisi) • PAX8 (agenesia renale monolaterale, malformazioni genito-urinarie) • NKX2-5(cardiopatia congenita) • GNAS (psudoipoparatiroidismo tipo 1A) IPOTIROIDISMO PERIFERICO • Resistenza agli ormoni tiroidei • Anormalità del trasporto degli ormoni tiroidei (Sindrome di AllanHerndon-Dudly: mutazione di MCT8) Abbreviazioni: NKX2-1 NK2 Homeobox 1 (thyroid trascription factor); FOXE1 Forkhead Box E1 Thyroid Transcription Factor; PAX8 paired box gene 8; GNAS Guanine Nucleotide Binding Protein (G Protein), Alpha Stimulating Activity; TSHR thyroid stimulating hormone receptor; TPO thyroperoxidase; DUOX2 Dual Oxidase 2; DUOXA2 Dual Oxidase Maturation Factor 2; TG thyroglobulin; NIS Sodium/Iodide Symporter; PDS pendrin; DHEAL iodotyrosine deiodinase; MCT8 monocarboxylate transporter-8. 3 A. Cassio et al. Tabella II. Principali geni implicati nella organogenesi e nello sviluppo funzionale della tiroide. Stadi dello sviluppo embriogenetico tiroideo Fenotipo atteso/ fase biosintesi Geni mutati nell’uomo Specificazione dell’abbozzo tiroideo Agenesia Non noti Non noti Geni sconosciuti responsabili della specificazione (potrebbero includere anche geni che regolano l’espressione di NKX2-1, FOXE1, PAX8 e HHEX) Migrazione Ectopia tiroidea Non noti FOXE 1 Geni bersaglio specifici di FOXE1 espressi esclusivamente nelle cellule progenitrici Sopravvivenza delle cellule progenitrici Atireosi FOXE1 FOXE 1, NKX2-1, PAX8, FGF10, FGFR2, HHEX Geni bersaglio specifici di NKX2-1, FOXE1, PAX8 e HHEX e cofattori espressi esclusivamente nelle cellule progenitrici Espansione della popolazione cellulare Ipoplasia PAX8, NKX2-1 TSHR TSHR Geni TSH-indotti Interazione con le cellule della cresta neurale Ipoplasia ET-1, HOXA3 EYA 1 PAX3 Altri HOX geni Follicologenesi e sintesi ormonale: Tiroide in sede/ gozzo - Ossidazione dello Iodio e Iodinazione di residui tirosinici TPO, DUOX2, DUOXA2 - Matrice della sintesi degli ormoni tiroidei TG - Trasporto Sodio/Iodio attraverso la membrana basale dei tireociti - Trasporto dello iodio attraverso la membrana apicale dei tireociti nel lume follicolare - Deiodazione di iodotirosine Geni mutati nei modelli murini Altri geni candidati NIS PDS DHEAL Abbreviazioni: HHEX Hematopoietically Expressed Homeobox; http://www.genenames.org/data/hgnc_data.php?hgnc_id=4901; FGF10 Fibroblast Growth Factor 10; FGFR2 Fibroblast Growth Factor Receptor 2; ET-1 endothelin 1; HOXA3 Homeobox Protein Hox-1E; EYA 1 Eyes Absent Homolog 1;PAX3 paired box gene 3. Diagnosi La rapida estensione dei programmi di screening neonatale dalla fine degli anni ’70 a molti paesi europei ed extraeuropei ha trasformato radicalmente l’approccio diagnostico all’IC. Secondo i criteri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità il target prioritario dello screening è la prevenzione dell’handicap mentale attraverso l’individuazione ed il trattamento precoci delle forme severe di IC primitivo. D’altra parte indicazioni più recenti delle società scientifiche nord-americane ed europee (Leger et al., 2013) raccomandano come target secondari anche l’individuazione di forme più lievi di IC, nelle quali il rischio di deficit neurointellettivi a lungo termine è tuttora in fase di valutazione ma che potrebbero trarre beneficio da una diagnosi tempestiva. Il dosaggio di TSH su campioni di sangue capillare raccolto su carta bibula dopo le prime 48 ore di vita del neonato rappresenta il marker più sensibile per questo scopo ed è quello attualmente applicato nella maggior parte dei programmi di screening. Ogni laboratorio deve determinare la propria soglia di richiamo in base agli intervalli di riferimento del TSH che variano in base al metodo e alla popolazione neonatale valutata, anche se un valore di 10 mU/L su sangue intero viene considerato appropriato dalla maggior parte dei laboratori per i neonati a termine. Strategie diverse, come il dosaggio contemporaneo di TSH e T4 o quello sequenziale di TSH e TBG in campioni con livelli di T4 inferiori ad una soglia predeterminata, sono attuate in una mi- 4 noranza di programmi di screening per l’individuazione precoce delle forme di Ipotiroidismo Centrale (Persani, 2012). Un test di screening positivo rappresenta solo il primo passo di un percorso multidisciplinare che conduce alla presa in carico assistenziale di questi pazienti. Al momento dell’iniziale conferma del sospetto diagnostico è opportuno acquisire i criteri clinici, biologici ed etiologici che determinano la severità prenatale dell’IC. Vi sono infatti molti dati in letteratura che indicano in alcuni pazienti, nonostante il trattamento precoce permesso dallo screening, la persistenza di deficit neurocognitivi e disturbi comportamentali che persistono fino all’adolescenza e all’età adulta e che sono correlati alla severità della malattia (Rovet, 2005; Kempers et al., 2006; Leger et al., 2011). La figura 2 mostra l’algoritmo consigliabile per eseguire la conferma diagnostica. Alcune procedure devono ritenersi “obbligatorie” e sono rappresentate da anamnesi, esame obiettivo e controlli ormonali tiroidei. Indagini bioumorali opzionali sono rappresentate dal dosaggio degli anticorpi antitiroide e della Tireoglobulina (Tg) e dalla valutazione della ioduria. Un altro marker della severità dell’IC è rappresentato dal ritardo della maturazione ossea neonatale, valutata mediante radiografia o ecografia dei nuclei delle ginocchia (Cassio et al., Feb 2013). Infine la diagnostica per immagini può fornire informazioni sull’etiologia dell’IC. Ipotiroidismo congenito Figura 2. Procedure per la conferma diagnostica dopo l’esito positivo del test di screening. Fra le indagini “obbligatorie” l’anamnesi riguarda la patologia tiroidea e/o l’uso di farmaci in gravidanza, l’apporto iodico e le caratteristiche del parto e del periodo perinatale, mentre l’esame obiettivo deve tendere a individuare segni clinici suggestivi ed eventuali malformazioni congenite extratiroidee. Il controllo dei livelli serici di TSH ed fT4 deve essere eseguito in tutti i neonati con valori di TSH > 20 mU/L al test di screening; per valori fra 10 e 20 mU/L può essere sufficiente la ripetizione di uno “spot” entro 1-2 settimane di vita per confermare o meno la condizione di ipotiroidismo. La positività anticorpale, in presenza di una anamnesi positiva per patologia tiroidea autoimmune materna può suggerire una forma transitoria di IC per passaggio transplacentare di anticorpi bloccanti il recettore del TSH (TRAB). La presenza di livelli dosabili di Tg conferma la presenza di tessuto tiroideo. La valutazione della ioduria può essere utile quando si sospetta un eccesso di iodio di natura iatrogena. Come indagine di prima scelta l’ecografia seleziona i pazienti in cui non viene visualizzata una ghiandola in sede da sottoporre a scintigrafia tiroidea per l’individuazione di una eventuale disgenesia tiroidea. 5 A. Cassio et al. L’ecografia è oggi accettata come metodica di prima scelta per verificare la presenza o meno di una ghiandola nella normale posizione cervicale. L’impiego di mezzi più sofisticati migliora la qualità dell’informazione ma al tempo stesso richiede una sempre maggiore esperienza da parte dell’operatore nel riconoscimento di situazioni dubbie che richiedono ulteriori approfondimenti diagnostici (Jones et al., 2013). La scintigrafia è la tecnica più accurata per determinare le forme disgenetiche (ectopia, atireosi, ipoplasia) fornendo altresì informazioni sulla funzionalità della ghiandola. Sono preferite la scintigrafia con I123 o 99Tc per minimizzare l’esposizione del neonato a sostanze radioattive. L’assenza di captazione è espressione di atireosi solo se confermata dal riscontro ecografico di assenza della ghiandola; infatti, una atireosi “apparente” può essere mimata da mutazioni inattivanti del gene del TSH-recettore o dalla presenza di TRAB. Trattamento e monitoraggio La tempestività diagnostica resta l’obiettivo primario dello screening neonatale dell’IC, in quanto permette un altrettanto tempestivo inizio dell’intervento terapeutico, che garantisce, in particolare per le forme più severe di IC, un normale outcome intellettivo. La L-Tiroxina è il trattamento di scelta per l’IC. La dose giornaliera iniziale raccomandata (AAP, 2006) è di 10-15 mg/kg, utilizzando le dosi più elevate nelle forme più severe in cui la rapida normalizzazione ormonale riesce ad evitare deficit neurologici residui nella maggior parte dei casi (Salerno et al., 2002). L’intera dose deve essere assunta la mattina a digiuno per via orale sciolta in pochi millilitri di acqua, avendo cura di evitare la concomitante somministrazione di sostanze che interferiscono con il suo assorbimento (soia, ferro, calcio, fibre). Sono oggi disponibili, oltre alle formulazioni in compresse, formulazioni liquide più facili da somministrare nei pazienti pediatrici ma la cui bioequivalenza rispetto alle compresse ed i possibili effetti avversi legati all’uso dell’etanolo come eccipiente sono tuttora in fase di valutazione (Cassio et al., Jun 2013). La necessità di un trattamento sostitutivo è tuttora controversa per i soggetti con ipertireotropinemia (valori normali di fT4 e valori di TSH superiori al cut-off al momento del richiamo). Nei casi con valori di TSH persistentemente oltre 10 mU/L dopo le prime 2 settimane di vita si raccomanda in genere il trattamento utilizzando dosi ridotte di L-Tiroxina. La tabella III mostra le modalità ed i tempi per il follow-up dei pazienti in trattamento. Il dosaggio della L-Tiroxina deve essere adeguato in modo da mantenere i livelli di TSH nel range normale ed i 6 Tabella III. Modalità e tempi di monitoraggio nei pazienti ipotiroidei congeniti in trattamento. FOLLOW-UP • Valutazione dell’assetto ormonale tiroideo (TSH e FT4) -- 2 settimane dopo l’inizio della terapia -- Ogni 1-2 mesi nei primi 6 mesi di vita -- Ogni 3-6 mesi fino al compimento dei 3 anni -- Ogni 6-12 mesi fino alla fine dell’accrescimento staturale -- 4-6 settimane dopo ogni cambio di terapia • Valutazioni auxologiche ad ogni controllo ormonale nei primi 3 anni di vita, quindi ogni 6-12 mesi • Valutazione dello sviluppo neuropsichico -- QS a 12, 18 e 24 mesi di vita -- QS e valutazione del linguaggio e della coordinazione motoria fino a 36 mesi -- QI e valutazione dei prerequisiti per lettura/scrittura a 5 anni -- QI, e valutazione delle capacità di apprendimento e dei deficit di attenzione a 7 anni RIVALUTAZIONE DELLA DIAGNOSI • Dopo il compimento dei 3 anni di vita o prima nei casi in cui l’anamnesi e l’andamento clinico sono suggestivi per una forma transitoria. Abbreviazioni: QS Quoziente di sviluppo psicomotorio; QI Quoziente intellettivo. livelli di fT4 nei limiti superiori del range normale per l’età. I controlli ormonali devono essere più ravvicinati nel tempo fino ai 3 anni, considerando il rapido accrescimento corporeo che caratterizza questo periodo della vita. L’accrescimento e la pubertà si realizzano normalmente nei soggetti con IC trattati precocemente quindi i controlli auxologici devono essere effettuati in linea con i normali bilanci di salute pediatrici (Salerno et al., 2001). Le valutazioni neuro cognitive, in particolare nei soggetti con le forme più severe, devono valutare, in epoca prescolare, i piccoli deficit psicomotori, uditivi e del linguaggio per prevenire nell’età scolare possibili disturbi dell’attenzione e dell’apprendimento (Leger et al., 2013). Una rivalutazione della diagnosi dopo sospensione della terapia deve essere eseguita a 2-3 anni di età, per stabilire il carattere transitorio o permanente dell’ipotiroidismo in tutti pazienti con tiroide in situ in cui non è stata stabilita la causa dell’IC all’atto della conferma diagnostica e in tutti i bambini in cui non è stata formulata una diagnosi definitiva prima di iniziare la terapia. Ipotiroidismo congenito Box di orientamento Che cosa si sapeva prima L’approccio al neonato ed al bambino con ipotiroidismo congenito è stato radicalmente modificato dall’introduzione dei programmi di screening neonatale. Prima dell’avvento dello screening, la diagnosi clinica e quindi l’inizio della terapia sostitutiva, in mancanza di segni significativi in epoca neonatale, potevano realizzarsi solo tardivamente quando il ritardo mentale causato dall’ipotiroidismo era ormai irreversibile e non più modificabile dalla terapia. Pur esistendo già una valida e semplice terapia di tipo sostitutivo, l’IC si palesava clinicamente con segni e sintomi importanti che compromettevano lo sviluppo neuro cognitivo del bambino. Che cosa sappiamo adesso L’attenzione dei pediatri, nell’era dello screening, deve essere rivolta, nei pazienti ipotiroidei congeniti, alla valutazione di tutti i parametri clinici, di laboratorio e strumentali che costituiscono i criteri di maggiore o minore severità della forma diagnosticata. In particolare nelle forme più severe che richiedono un monitoraggio più attento il pediatra può segnalare tempestivamente allo specialista del centro di screening eventuali problemi di compliance familiare o verosimili piccoli deficit nelle acquisizioni psicomotorie e/o scolastiche. Quali ricadute sulla pratica clinica La conoscenza del nuovo più ampio spettro di forme patologiche di ipotiroidismo congenito e delle possibili implicazioni genetiche in alcuni casi permette al pediatra di gestire meglio gli interrogativi che il bambino e la sua famiglia possono porgli, in un settore la cui nosografia sta rapidamente cambiando in questi anni. Bibliografia American Academy of Pediatrics, American Thyroid Association, Lawson Wilkins Pediatric Endocrine Society. Update of newborn screening and therapy for congenital hypothyroidism. Pediatrics 2006,117:2290-303. Cassio A, Corbetta C, Antonozzi I, et al. The Italian screening program for primary congenital hypothyroidism: actions to improve screening, diagnosis, follow-up, and surveillance. J Endocrinol Invest. 2013;36(3):195-203. ** Le indicazioni italiane volte ad armonizzare la gestione dei pazienti con IC individuato mediante screening neonatale. Cassio A, Monti S, Rizzello A, et al. 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Thyroid 2002;12:45-52. Corrispondenza Alessandra Cassio, Dipartimento di Scienze Mediche-Chirurgiche, UO di Pediatria, Programma di Endocrinologia, Università degli Studi di Bologna, via Massarenti 11, 40138 Bologna. Tel.: +39 051 636 3 648. E-mail: [email protected] 7 Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • Pp. 8-12 endocrinologia pediatrica Le Tiroiditi M. Loredana Marcovecchio, Francesco Chiarelli Clinica Pediatrica, Università di Chieti, Chieti Riassunto Le tiroiditi sono processi infiammatori a carico della ghiandola tiroidea a carattere acuto, subacuto o cronico. La tiroidite cronica linfocitaria o tiroidite di Hashimoto è la forma più frequente in età pediatrica, mentre rare sono altre forme. Le tiroiditi possono manifestarsi come una massa del collo in un bambino asintomatico o come un aumento di volume ghiandolare doloroso ed eritematoso. Le tiroiditi si associano spesso a normale funzionalità tiroidea anche se spesso possono aversi alterazioni funzionali transitorie o permanenti (ipotiroidismo o ipertiroidismo). La diagnosi di tiroidite di Hashimoto si basa sul riscontro di autoanticorpi e alterazioni ecografiche. In caso di ipotiroidismo conclamato deve essere instaurata terapia con L-tiroxina. Il follow-up è fondamentale per valutare la progressione temporale della funzionalità tiroidea, che può essere variabile da paziente a paziente. Summary Thyroiditis are characterised by inflammation of the thyroid gland and they can present as acute, subacute or chronic diseases. Thyroiditis may present as a mass in the neck of an asymptomatic child or as a painful, erythematous goiter in a sick child. Thyroiditis are often associated with normal thyroid function, although they can also result in transient or permanent thyroid dysfunction (hypothyroidism or hyperthyroidism). Chronic lymphocytic thyroiditis or Hashimoto’s thyroiditis is the most frequent form of thyroiditis during childhood and adolescence, whereas other forms are rare. The diagnosis of Hashimoto’s thyroiditis is based on the presence of autoantibodies and thyroid ultrasound alterations. When hypothyroidism is present, treatment with L-thyroxin needs to be started. Follow-up is of paramount importance to assess the evolution of thyroid function over time, which can be variable from patient to patient. Parole chiave: tiroidite, Hashimoto, bambini, adolescenti, autoanticorpi, ipotiroidismo Key words: thyroiditis, Hashimoto, children, adolescents, autoantibodies, hypothyroidism Introduzione Le tiroiditi sono processi infiammatori a carico della ghiandola tiroidea a carattere acuto, subacuto o cronico (Bachrach e Foley, 1989; Pearce et al., 2003). Tra le varie forme di tiroiditi (Tab. I), la più comune in età pediatrica è la tiroidite di Hashimoto o tiroidite cronica linfocitaria (98% dei casi), che rappresenta anche la variante più frequente di tiroidite cronica autoimmune (Bachrach e Foley, 1989). Rare sono altre forme, quali la tiroidite acuta suppurativa (circa 2% dei casi) e la tiroidite subacuta granulomatosa (0,2%) (Bachrach e Foley, 1989; Pearce et al., 2003). Obiettivo L’obiettivo di questo articolo è offrire una revisione della letteratura recente sulle tiroiditi in età pediatrica, con speciale attenzione alla forma più frequente, quale la tiroidite di Hashimoto (TA). Metodologia della ricerca bibliografica La ricerca degli articoli rilevanti è stata effettuata sulla banca bibliografica Medline utilizzando il motore di ricerca PubMed. Sono state utilizzate le seguenti parole chiave: “thyroiditis”, “autoimmune thyroiditis”, “thyroid disorders” AND “children”, “adolescents”, “childhood”, “adolescence”. nel 1912 (Hiromatsu et al., 2013) e venne poi riconosciuta quale malattia dell’ età pediatrica nel 1954, quando venne osservata per la prima volta in sei bambine (Hiromatsu et al., 2013). La TA è attualmente la forma più frequente di tiroidite in età pediatrica e rappresenta la causa più frequente di gozzo e ipotiroidismo acquisito in bambini e adolescenti che vivono in zone con adeguato apporto di iodio (Brown, 2013; Cappa et al., 2010). La prevalenza della TA è di circa 0,3-3,3% nei bambini e adolescenti. Si tratta di una patologia frequente soprattutto durante l’adolescenza, mentre rare sono le presentazioni in bambini al di sotto di 3 anni. Maggiore è la frequenza nel sesso femminile rispetto a quello maschile (2-4:1) (Brown, 2013; Cappa et al., 2010). La TA si associa spesso con altre patologie autoimmuni, quali il diabete mellito di tipo 1 (T1D) e la malattia celiaca. Inoltre, può essere una delle malattie caratterizzanti le sindromi poliendocrine (APS), come la APS-1, caratterizzata da candidiasi mucocutanea cronica, ipoparatiroidismo autoimmune e insufficienza surrenalica, oltre ad Tabella I. Classificazione delle tiroiditi. Tiroidite di Hashimoto Tiroidite suppurativa Tiroidite subacuta dolorosa Tiroidite di Hashimoto Tiroidite sporadica non dolorosa Epidemiologia Tiroidite indotta da farmaci (amiodarone, litio, interferon-α, interleuchina 2) La TA, anche nota come tiroidite autoimmune o tiroidite cronica linfocitaria, fu descritta per la prima volta negli adulti da Hashimoto 8 Tiroidite pospartum non dolorosa Tiroidite di Riedel Ref. (Pearce et al., 2003) Le Tiroiditi altre malattie autoimmuni. La TA è anche una componente della APS-2 (sindrome di Schmidt), caratterizzata da malattia di Addison associata a tiroidite autoimmune o a T1D. è stata inoltre descritta in bambini affetti da sindrome IPEX (sindrome da Immunodisregolazione, Poliendocrinopatia, Enteropatia, legata al cromosoma X), una rara malattia genetica autoimmune causata da mutazioni del gene FOXP3, e caratterizzata da una severa enteropatia solitamente associata a T1D. Frequente è il riscontro della TA in pazienti affetti da cromosomopatie, soprattutto da sindrome di Turner e di Down, e in misura minore in pazienti affetti da sindrome di Noonan e di Klinefelter (Brown, 2013). Casi di TA sono stati riportati in pazienti affetti da orticaria cronica o, raramente, in quelli affetti da glomerulonefrite da immunocomplessi (Bagnasco et al., 2011; Gurkan et al., 2009). Comune è anche il riscontro di altri casi di TA o di soli autoanticorpi tiroidei in altri membri delle famiglie dei bambini affetti (Brown, 2013). Eziopatogenesi La TA è una malattia multifattoriale dovuta ad una interazione tra fattori genetici ed ambientali. La componente genetica spiegherebbe circa il 70% del rischio di sviluppare tale patologia, mentre i fattori ambientali agirebbero come ‘triggers’ in soggetti geneticamente predisposti (Dittmar et al., 2011; Duntas, 2008; Tomer, 2010). Diversi geni sono stati chiamati in causa, ed essi possono essere distinti in due grandi gruppi: geni immuno-modulatori e geni tiroidospecifici (Tomer, 2010). Per quanto riguarda il primo gruppo, un ruolo importante sarebbe svolto dai geni del complesso maggiore di istocompatibilità ed in particolare dagli aplotipi HLA-DQA1, DQ2 e DRB1-1401 (Tomer, 2010). Inoltre vi è evidenza di un ruolo di polimorfismi del gene regolatore delle cellule T (CTLA-4), una proteina transmembrana appartenente alla superfamiglia delle immunoglobuline, che agisce come molecola co-stimolatoria riducendo l’attivazione dei linfociti T (Tomer, 2010). Un altro gene implicato nella TA è quello codificante la proteina tirosin fosfatasi 22 (PTPN22), che rappresenta un inibitore del pathway di segnale del recettore delle cellule T. Il secondo gruppo di geni, ovvero quelli tiroido-specifici, include i geni codificanti la tireoglobulina e il recettore del TSH (Tomer, 2010). Per quanto riguarda i fattori ambientali un eccesso di iodio, un deficit di selenio, il fumo, i farmaci (interferone-α, interleuchina 2, litio, amiodarone) sono considerati come potenziali fattori di rischio. Nello specifico, per quanto riguarda il selenio, esso svolge un ruolo fondamentale a livello tiroideo, in quanto vari enzimi ampiamente rappresentati nella ghiandola tiroidea sono selenoproteine: le deiodinasi, la glutatione perossidasi, la tireodossina reduttasi (Drutel et al., 2013). Pertanto un suo deficit può contribuire alla patogenesi di alterazioni tiroidee. Anche alcuni farmaci possono giocare un ruolo nello sviluppo della TA, tra cui i più frequenti sono: l’amiodarone, l’interferone-α, interleuchina2, il litio, i farmaci antiretrovirali (Tanda et al., 2009). È stato anche supposto un ruolo di infezioni virali, dato il riscontro di componenti di virus, quali virus dell’epatite C, Parvovirus B19, Coxsackievirus e Herpesvirus, a livello tiroideo in casi di TA (Duntas, 2008; Mori e Yoshida, 2010). L’associazione tra infezioni virali e TA risulta tuttavia difficile da stabilire, dato che l’intervallo di tempo tra l’infezione virale e lo sviluppo di tiroidite potrebbe avere una durata variabile, e i dati disponibili sono piuttosto contrastanti (Duntas, 2008; Mori e Yoshida, 2010). Dal punto di vista patogenetico la malattia si caratterizza per un infiltrato tiroideo di tipo linfocitario con formazione di centri germinativi e progressiva atrofia follicolare (Pearce et al., 2003). Il danno è dovuto a distruzione di tipo cellulo-mediata. I linfociti T CD4 sono considerati le prime cellule del sistema immune implicate nella patogenesi. Una volta attivate, le cellule T CD4 autoreattive reclutano linfociti T CD8 e linfociti B all’interno della tiroide. I linfociti T svolgono un ruolo chiave attraverso la reazione contro antigeni tiroidei e la secrezione di citochine infiammatorie. Importante è anche il ruolo dell’immunità umorale, attraverso la fissazione del complemento e la tossicità cellulo-mediata anticorpo-dipendente. Autoanticorpi che si riscontrano in corso di tiroidite sono quelli anti-tireoperossidasi (TPOAb), anti-tireoglobulina (TgAb). Inoltre si possono riscontrare anche anticorpi diretti contro il recettore del TSH (TRAb), il simporto iodio-sodio e la pendrina (Brown, 2009b). Diagnosi Dal punto di vista diagnostico importanti sono il dosaggio degli autoanticorpi tiroidei (TPOAb, TgAb e TRAb), e l’ecografia tiroidea. La malattia viene spesso diagnosticata in bambini apparentemente sani o con gozzo asintomatico, grazie al riscontro nel sangue di TPOAb e TgAb, e all’evidenza ecografica di tiroide disomogenea e/o ipoecogena. Gli anticorpi anti-TPO sono emersi essere i marcatori principali della TA e il loro dosaggio risulta pertanto il test fondamentale per la diagnosi di laboratorio della TA. Alterazioni ecografiche sono presenti nel 20-95% dei pazienti e, anche se talora sono assenti al momento della diagnosi, possono rendersi manifeste durante il follow-up. La ghiandola è spesso aumentata di dimensioni, e il parenchima risulta ipoecogeno, e tale ipoecogeneicità si correla alla presenza di ipotiroidismo. Un aspetto micronodulare è altamente diagnostico di TA, con un valore predittivo positivo del 95%. Talora possono riscontrarsi anche noduli singoli nell’ambito di un parenchima diffusamente disomogeneo o anche nell’ambito di un parenchima ecograficamente nella norma. L’esame ecocolor-Doppler evidenzia in genere un parenchima con lieve o marcata ipervascolarizzazione. L’aumentata vascolarizzazione sembra essere associata con lo sviluppo di ipotiroidismo (Anderson et al., 2010; Pedersen et al., 2000). Per quanto riguarda la funzionalità tiroidea dei pazienti con TA, questa può essere molto variabile, da quadri inziali di eutiroidismo a ipotiroidismo o talora anche ipertiroidismo (De Luca et al., 2013). L’ipotiroidismo conclamato si associa a un corteo di segni e sintomi tipici (Tab. II) in presenza di elevati livelli di TSH e ridotti livelli di Tabella II. Segni e sintomi di ipotiroidismo. Gozzo Diminuzione della velocità di crescita, ritardo della maturazione ossea e dentale Aumento ponderale Ritardo dello sviluppo puberale o pseudopubertà precoce Irregolarità mestruali, amenorrea Pelle secca, pallida, perdita di capelli, irsutismo Ridotto rendimento scolastico Astenia, letargia, ipotonia, riflessi torpidi, umore depresso Stipsi Intolleranza al freddo, ipotermia Ritenzione idrica, mixedema Bradicardia, riduzione dell’output cardiaco Ref.: Counts and Varma, 2009 9 M.L. Marcovecchio et al. ormoni tiroidei (Counts e Varma, 2009). Tuttavia, l’ipotiroidismo può essere anche subclinico, ovvero si possono avere quadri caratterizzati da aumentati livelli di TSH associati a normali livelli di ormoni tiroidei (FT3, FT4). La funzionalità tiroidea alla diagnosi sembrerebbe essere influenzata dall’età del paziente (Wasniewska et al., 2012b). Frequente è il deterioramento nel tempo della funzionalità tiroidea sia nei soggetti che si presentano in eutiroidismo, sia nei soggetti con forme di ipotiroidismo subclinico. Pertanto un costante follow-up è necessario (De Luca et al., 2013), per la possibile evoluzione verso un ipotiroidismo conclamato. Nei soggetti eutiroidei, circa il 50% evolve verso un deterioramento della funzionalità tiroidea, mentre un 50% restano eutiroidei a distanza di 5 anni di follow-up (Radetti et al., 2006). Fattori predittivi per lo sviluppo di ipotiroidismo sono la presenza di gozzo e la presenza di TgAb alla diagnosi insieme ad un progressivo aumento nel tempo di TPOAb e TSH (Radetti et al., 2006). Nelle forme che si presentano con un ipotiroidismo subclinico, i livelli di TSH alla diagnosi sono considerati come il miglior fattore predittivo per il rischio futuro di evoluzione verso un ipotiroidismo (De Luca et al., 2013). A volte una TA può esordire come ipertiroidismo e questa è nota come Hashitossicosi e rappresenta la seconda causa più frequente di ipertiroidismo dopo la malattia di Graves. Questa fase transitoria di ipertiroidismo, della durata media di 8 mesi, sarebbe dovuta al rilascio sregolato di ormoni tiroidei durante il processo infiammatorio immuno-mediato della ghiandola. Questa fase di ipertiroidismo è sempre transitoria, senza recidive ed è seguita da eutiroidismo o ipotiroidismo (Wasniewska et al., 2012a). L’Hashitossicosi si differenzia dalla malattia di Graves per l’assenza di TRAbs, da ridotta vascolarizzazione della ghiandola tiroidea all’ecografia e da ipocaptazione alla scintigrafia tiroidea. La TA può manifestarsi anche come ipertiroidismo subclinico, ovvero si possono avere livelli di TSH soppressi associati a livelli di ormoni tiroidei nella norma. Dati recenti indicano che in tali casi, si assiste ad una normalizzazione del TSH nell’arco di 24 mesi, sebbene un deterioramento della funzionalità tiroidea possa venificarsi successivamente nel corso del follow-up (Aversa et al., 2014). Raramente la TA può evolvere verso una malattia di Graves. Tale evoluzione, che è stata riscontrata in un 3,7% dei bambini e adolescenti con malattia di Graves, potrebbe derivare da una alterazione degli anticorpi verso il recettore del TSH, da un tipo inzialmente bloccante verso un tipo stimolante (Wasniewska et al., 2010). Circa il 30% dei bambini con TA sviluppa noduli tiroidei che, tuttavia, appaiono di natura carcinomatosa solo nel 9,6% dei casi (Corrias et al., 2008). Estremamente rara è l’encefalopatia di Hashimoto, sindrome caratterizzata da persistenti o fluttuanti deficit neurocognitivi con buona risposta alla terapia steroidea (Watemberg et al., 2006). Trattamento In presenza di ipotiroidismo manifesto è assolutamente necessaria la terapia sostitutiva con L-tiroxina (L-T4), al fine di prevenire lo scarso accrescimento e gli effetti metabolici avversi legati al deficit di ormoni tiroidei. I dosaggi giornalieri adattati per fascia di età sono: 4-6 μg/kg tra 1-5 anni; 3-4 μg/kg tra 6-10 anni; e 2-3 μg/kg sopra i 10 anni (Brown, 2009a). L’obiettivo della terapia è quello di normalizzare i livelli di TSH. Il controllo della funzionalità tiroidea potrà essere eseguito a distanza di 6-8 settimane dall’avvio della terapia e, una volta ottenuto l’eutiroidismo clinico e bioumorale, potrà essere effettuato ogni 4-6 mesi (Brown, 2009a). 10 Molto controversa è l’indicazione al trattamento nei bambini con ipotiroidismo subclinico, per scarsi dati disponibili in età pediatrica e l’assenza di specifiche linee guida. Una recente revisione sistematica della letteratura sul trattamento dell’ipotiroidismo subclinico conclude che nei bambini e adolescenti, essendo questa una condizione auto-remittente, il suo trattamento deve essere considerato solo quando i valori di TSH sono superiori a 10 mUI/L, quando vengono rilevati segni clinici o sintomi di alterata funzione tiroidea o gozzo, o quando vi siano altre malattie croniche associate (Monzani et al., 2013). Nel bambino gli studi sul trattamento dell’ipotiroidismo subclinico sono pochi e non vi sono dati chiari su un potenziale beneficio in termini di crescita staturale o di riduzione del volume ghiandolare, mentre è emerso che il trattamento non abbia alcun effetto sulle funzioni cognitive (Aijaz et al., 2006; Kaplowitz, 2010). Nell’ adulto, invece, vi sono alcuni dati indicanti effetti benefici sul profilo lipidico, sul rischio di malattie cardiovascolari e alterazioni neurocomportamentali, mentre tra gli argomenti contro il trattamento viene considerato il rischio di ipertritoidismo iatrogeno (Cooper e Biondi, 2012). Nell’ambito del trattamento della TA è stata proposta anche la supplementazione con selenio, dato il ruolo chiave di questo minerale nel regolare l’attività di varie selenoproteine a livello tiroideo. Vari studi hanno valutato l’uso del selenio in soggetti affetti da patologia autoimmune tiroidea, anche se ad oggi i dati sui potenziali benefici del selenio sono ancora limitati sia nell’adulto che nel bambino (Atabek, 2013; van Zuuren et al., 2013). Nell’adulto, una recente Cochrane ha concluso che non vi è ancora sufficiente evidenza né per proporre tale supplementazione né per proibirne l’uso (van Zuuren et al., 2013). Atre tiroiditi in età pediatrica Tiroidite suppurativa acuta è una forma rara di infezione della ghiandola tiroidea, ma che talora può essere anche particolarmente grave (Chi et al., 2002). È spesso preceduta da una infezione delle vie respiratorie. Gli agenti maggiormente implicati sono batterici aerobi e bacilli Gram negativi (Brook, 2003). Episodi ricorrenti di tiroidite suppurativa o il rilevamento di una flora batterica mista suggerisce che l’infezione deriva da un residuo del dotto tireoglosso o, più spesso, da una fistola del seno piriforme. Dal punto di vista clinico si ha esordio acuto di dolore e ingrossamento ghiandolare, con arrossamento, eritema e ghiandola tesa. Può aversi febbre, disfagia e limitazione dei movimenti del collo. La funzionalità tiroidea può essere normale o si può avere un aumentato rilascio transitorio di ormoni tiroidei (Chi et al., 2002). Tiroidite non suppurativa subacuta (malattia di de Quervain) è una forma di tiroidite rara nei bambini. Si ritiene sia dovuta ad una infezione virale in soggetti geneticamente predisposti. Reperti patologici tipici sono presenza di aspetti granulomatosi con cellule giganti nel tessuto tiroideo (Engkakul et al., 2011). È caratterizzata clinicamente da dolore a livello della ghiandola che si irradia verso il capo, accompagnata da disfagia e febbricola. Dal punto di vista della funzionalità tiroidea, ad un iniziale ipertiroidismo fa seguito un ipotiroidismo transitorio. Si può osservare un aumento degli indici di flogosi più un modesto e incostante aumento degli TPOAb e TGAb. Il trattamento è sintomatico, richiedendo analgesici per alleviare il dolore e solo raramente glucocorticoidi. La tiroidite di de Quervain regredisce spontaneamente senza complicanze in 6-12 mesi. Tuttavia, ipotiroidismo permanente e recidiva di malattia sono stati segnalati in alcuni pazienti (Engkakul et al., 2011). Le Tiroiditi Tiroidite IgG4 associata Recentemente è anche emersa una nuova entità, definita ‘Tiroidite IgG4-associata (IgG4-related thyroiditis)’, ovvero lo sviluppo di lesioni tiroidee associate a ipotiroidismo, in presenza di aumentati livelli di plasmacellule IgG4 positive, che possono manifestarsi nell’ambito di un disordine sistemico, che include pancreatite autoimmune, malattia di Mikulicz, colangite e patologie di altri organi (Kakudo et al., 2012; Watanabe et al., 2013). Dal punto di vista istopatologico, tale entità è caratterizzata da un più alto grado di fibrosi parenchimale, infiltrazione linfoplasmacitaria e degenerazione delle cellule folicolari rispetto a tiroiditi non IgG4-associate. Riconoscere tale forma risulta di fondamentale importanza dato che la terapia con il prednisone è in grado di evitarne l’evoluzione verso la fibrosi. Conclusioni La TA rappresenta la patologia tiroidea più frequente in età pediatrica; è più comune durante l’adolescenza e nei soggetti di sesso femminile. Frequente è l’associazione con altre patologie autoimmuni e con cromosomopatie. La presentazione clinica e l’evoluzione temporale possono essere variabili e diverse da un paziente all’altro. Pertanto un accurato processo diagnostico e di follow-up sono fondamentali, soprattutto per via della possibilità di sviluppo di ipotiroidismo conclamato, che richiede trattamento immediato per evitare effetti negativi su crescita, sviluppo puberale e funzionalità d’organo. Box di orientamento Che cosa si sapeva prima Le tiroidi sono processi infiammatori a carico della ghiandola tiroidea. La TA è la forma più frequente in età pediatrica, mentre molto rare sono altre forme, quali la tiroidite acuta suppurativa e la tiroidite subacuta. Che cosa sappiamo adesso La TA rappresenta non solo la tiroidite più frequente in età pediatrica, ma anche la causa principale di ipotiroidismo acquisito. La sua patogenesi è multifattoriale e progressi di biologia molecolare stanno elucidando i complessi meccanismi molecolari alla base di tale patologia. Quali ricadute sulla pratica clinica Una migliore caratterizzazione di fattori implicati nella patogenesi e progressione della TA sono fondamentali per una impostazione diagnostica e terapeutica sempre più accurata. L’identificazione di fattori prognostici relativi all’evoluzione della tiroidite rappresenterebbe un importante traguardo in campo medico, per una individualizzazione della terapia e del follow-up. Bibliografia Aijaz NJ, Flaherty EM, Preston T, et al. Neurocognitive function in children with compensated hypothyroidism: lack of short term effects on or off thyroxin. BMC Endocr Dis 2006;6:2. Anderson L, Middleton WD, Teefey SA, et al. 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E-mail: [email protected] 12 Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • Pp. 13-19 endocrinologia pediatrica I noduli tiroidei in età pediatrica: Classificazione, inquadramento diagnostico e principi terapeutici Graziano Cesaretti Endocrinologia Pediatrica, UO Pediatria Universitaria, Dipartimento Materno-Infantile, Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, Pisa Riassunto I noduli tiroidei rappresentano una delle patologie endocrine più comuni. In età pediatrica hanno una prevalenza inferiore rispetto a quella nell’età adulta, ma con un grado di malignità maggiore. L’importanza di un corretto inquadramento diagnostico deriva principalmente dalla necessità di ottenere informazioni miranti a selezionare accuratamente i soggetti a rischio di carcinoma tiroideo. In aggiunta ad una attenta valutazione clinico-anamnestica, mirata alla ricerca di eventuali fattori di rischio neoplastico, l’impiego sempre più diffuso della diagnostica strumentale ha permesso non solo di evidenziare reperti nodulari clinicamente non rilevabili, ma soprattutto di mettere a punto dei criteri che, valutati nel loro complesso, consentano di precisare il grado del rischio neoplastico del nodulo. In particolare, con l’ecografia tiroidea, eseguita da personale esperto, si possono individuare numerose variabili dei noduli (dimensioni, margini, ecostruttura, calcificazioni, “elasticità”, vascolarizzazione) e dei linfonodi cervicali a loro collegati, che consentono di guidare il comportamento diagnostico successivo, rappresentato principalmente dalla esecuzione dell’ago-aspirato del nodulo sotto guida ecografica, assieme alla valutazione mirata delle funzione tiroidea e ad una eventuale scintigrafia ghiandolare. L’insieme dei dati così ottenuti consente una “stratificazione” del rischio neoplastico del nodulo e può pertanto indirizzare correttamente verso una appropriata strategia terapeutica, con particolare riferimento alla eventuale necessità dell’intervento chirurgico. Summary Thyroid nodules are one of the most common endocrine disorders. In the pediatric age they have a prevalence lower than that in adulthood, but the degree of malignancy is higher. The role of a correct diagnosis derives mainly from the need to attain data designed to carefully select the nodules at risk for thyroid cancer. A careful clinical-anamnestic evaluation is necessary to assess the presence of risk factors for cancer. Furthermore, the increasing employment of diagnostic imaging allowed not only the identification of clinically undetectable nodules, but above all the development of criteria that, considered as a whole, allow to know the degree of risk for cancer of the nodule. In particular, the thyroid sonographic evaluation, performed by experts in pediatric age, can discover numerous variables of nodules (size, margins, echogenicity, calcifications, elastography, vascularization) and cervical lymph nodes linked to them, which must guide the consequent diagnostic behavior, represented mainly by the execution of the fine-needle aspiration biopsy of the nodule under ultrasound guidance, together with a targeted evaluation of thyroid function and a possible glandular scintiscan. The set of data thus obtained allows a “stratification” of the risk for cancer of the nodule and can therefore properly direct towards an appropriate therapeutic strategy, with particular reference to the possible need of surgery. Parole chiave: noduli tiroidei, classificazione, ecografia tiroidea, carcinoma tiroideo, terapia medica e chirurgica. Key words: thyroid nodules, classification, thyroid ultrasonography, thyroid carcinoma, medical and surgical treatment Introduzione Epidemiologia L’importanza di un corretto inquadramento diagnostico dei noduli tiroidei deriva principalmente dalla necessità di individuare le condizioni a rischio di carcinoma tiroideo, al fine di poter riconoscere precocemente i soggetti da sottoporre ad un appropriato percorso diagnostico-terapeutico. I noduli tiroidei rappresentano una delle più comuni patologie endocrine. La loro prevalenza nella popolazione adulta oscilla dal 2 al 6% con il metodo palpatorio, dal 19% al 35% con l’ecografia e dall’8 al 65% nei reperti autoptici (Dean e Gharib, 2008), prevalendo nettamente nelle aree iodo-carenti (Welker e Orlov, 2003). In età pediatrica e dell’adolescenza i dati disponibili sono piuttosto scarsi, variando la loro prevalenza dall’1% al 5% dei soggetti (Niedziela, 2006), di cui l’1% con un diametro ecograficamente rilevabile superiore a 5 mm (Hayashida et al, 2013) e con una prevalenza nel sesso femminile che risulta comunque meno marcata di quella in età adulta (Halac e Zimmerman, 2005). In ogni caso, i tumori della tiroide rappresentano la neoplasia en- Definizione Si definisce nodulo tiroideo una formazione di aspetto e dimensioni variabili situata nel contesto della ghiandola tiroidea con peculiarità strutturali diverse nei confronti del restante parenchima, oppure con caratteristiche simili, ma parzialmente o totalmente distinte dal tessuto circostante. 13 G. Cesaretti docrina più frequente in età pediatrica (Halac e Zimmerman, 2005) e il loro grado di malignità è decisamente maggiore (10-40% dei casi) rispetto ai soggetti adulti (Corrias et al, 2010; Dinauer, 2008; Gupta et al, 2013).Da rilevare che la percentuale di malignità, indipendentemente da tutte le altre condizioni, è più elevata nel sesso maschile, aumenta nei noduli isolati (20-40%) e si riduce (1%) nel gozzo multinodulare. Tabella I. Criteri di classificazione dei noduli tiroidei. 1. “Status” tiroideo: In soggetti senza tireopatia In soggetti con tireopatia di varia natura 2. Sede: Intratiroidea: nel contesto del parenchima ghiandolare Classificazione Peritiroidea: in contiguità alla ghiandola I noduli possono essere distinti in base a numerosi criteri (Tab. I). Extratiroidea: nella regione cervicale, non in diretto contatto con il tessuto tiroideo Rilievi clinici 3. Origine: Fattori di rischio Da tessuto tiroideo Di natura embriologicamente non tiroidea A livello familiare, devono essere attentamente valutati i soggetti con familiarità per neoplasie tiroidee o per tireopatie in genere. Da notare che le forme ereditarie di carcinoma midollare della tiroide [il 25-40% dei casi sono familiari o facenti parte delle malattie endocrine multiple (MEN) di tipo 2], caratterizzate dalla mutazione del proto-oncogene RET/PTC, sono trasmesse come carattere autosomico dominante e che esistono anche altri rari istotipi (3%) a carattere ereditario, come il carcinoma familiare papillare tiroideo (Halac e Zimmermann, 2005). Da rilevare anche la presenza di altre numerose condizioni geneticamente determinate, anche se rare, che si associano ad una maggiore frequenza di noduli e di tumori tiroidei, come la sindrome amartoma-tumore PTEN, la poliposi familiare intestinale, la sindrome di Peutz-Jeghers, il complesso Carney e la sindrome di McCuneAlbright (Corrias e Mussa, 2013). Le indagini molecolari hanno recentemente consentito di individuare altre alterazioni geniche implicate nell’insorgenza dei tumori tiroidei, come mutazioni dei geni BRAF/AKAP-9, RAS, PAX-8, CTNNB-1, p53 (Yamashita e Saenko, 2007; Ferraz et al, 2011). A livello personale, deve essere indagata la residenza, attuale o precedente, in zone a carenza iodica, la pregressa effettuazione di radioterapia o di chemioterapia (Brignardello et al, 2008), la esposizione a radiazioni ionizzanti, soprattutto nella regione tiroidea (per patologie benigne del collo, della testa o del torace) o l’impiego di mezzi diagnostici interferenti sulla funzione tiroidea. 4. Numero: Esame clinico locale 9. Rapporto con i tessuti circostanti Costituisce la base essenziale per un corretto inquadramento diagnostico (Tab. II). Da rilevare che il riscontro di tumefazioni linfonodali costituisce spesso il primo segno di carcinoma tiroideo nell’infanzia (Corrias et al, 2001; Dinauer et al, 2008). L’esame clinico locale dovrà essere integrato dalla ricerca di: • segni locali di compressione del nervo ricorrente, quali disfonia, dispnea, disfagia, tosse e stridore; • segni generali di alterata funzione tiroidea (ipotiroidismo e, soprattutto, ipertiroidismo); • note dismorfiche evocative di quadri clinici specifici, predisponenti all’insorgenza di noduli tiroidei (ad esempio: sindromi di McCune-Albright, di Gartner e di Peutz-Jeghers, complesso Carney, malattie poliendocrine). Aderente alla cute sovrastante o ai tessuti molli sottostanti o alle strutture muscolari limitrofe 14 Solitario Multipli [Da rilevare che, nell’ambito di una plurinodularità, si definisce dominante il nodulo che ha caratteristiche particolari che lo differenziano dagli altri, sia cliniche (maggiori dimensioni e/o consistenza, rapido accrescimento), sia ecografiche (dimensioni, ecogenicità, ecostruttura)] 5. Dimensioni o volume Modificanti significativamente le dimensioni tiroidee (nodulo gozzigeno, ossia gozzo nodulare) Non modificanti significativamente le dimensioni tiroidee (noduli non gozzigeni) 6. Forma: Regolare: rotondeggianti o ovoidali Irregolari 7. Consistenza (alla palpazione) Dura Elastica Molle 8. Contenuto (all’indagine ecografica) Anecogeno (liquido) Ipoecogeno o normoecogeno o iperecogeno (solido) Misto Non aderente 10. Funzione: Eumetabolici (normofunzionanti) Tossici (iperfunzionanti) 11. Rilievo scintigrafico Freddi (“cold”) Tiepidi (“warm”) Caldi (“hot”) 12. Caratteristiche biologiche Citologiche: benigno, maligno, dubbio o non diagnostico Istologiche: iperplastico, neoplastico, colloide, cistico o tiroiditico I noduli tiroidei in età pediatrica Tabella II. Esame clinico locale. Ispezione Caratteristiche della tumefazione cervicale • Caratteristiche della cute sovrastante (arrossamento, retrazione cicatriziale) • Dimensioni, simmetria, eventuale deviazione della trachea • Mobilità con la deglutizione [La appartenenza di una formazione nodulare alla tiroide è determinata dalla consensualità del suo spostamento con l’atto della deglutizione, a meno che non si siano già instaurate aderenze alle regioni circostanti (carcinoma o tiroidite cronica invasiva)] • Presenza del circolo iperdinamico (“danza” delle carotidi) • Turgore delle vene del collo. • Caratteristiche dei linfonodi cervicale • Sede, dimensioni • Caratteristica della cute sovrastante (arrossamento, retrazione cicatriziale) Palpazione Caratteristiche dei noduli • Numero • Eventuale dolorabilità • Dimensioni (espresse attraverso una comparazione o con una valutazione centimetrica approssimativa) • Consistenza, ossia le caratteristiche della superficie (liscia e regolare, irregolare o bozzoluta) • Eventuali aderenze con i tessuti limitrofi sovrastanti o sottostanti Caratteristiche dei linfonodi • Sede • Numero • Dimensioni, consistenza • Aderenze ai tessuti circostanti • Mobilità Auscultazione • Eventuale soffio sistolico (indice di eventuale nodulo iperfunzionante o di una tireotossicosi) Rilievi di laboratorio e strumentali Esami di funzione tiroidea In oltre il 90% dei casi la presenza di un nodulo si accompagna ad una normale funzione tiroidea; talora, comunque si possono evidenziare un ipotiroidismo (TSH aumentato con FT4 normale o ridotta), o soprattutto un ipertiroidismo da autonomia funzionale di un nodulo: TSH ridotto o soppresso in presenza di FT4 e FT3 aumentate (ipertiroidismo franco, da adenoma “tossico”), oppure con FT4 e di FT3 non aumentate (ipertiroidismo subclinico, da adenoma “pretossico”). Da rilevare che recentemente, analogamente a quanto riportato in soggetti adulti (Fiore e Vitti, 2012), anche in età pediatrica è stato descritto il rilievo che valori di TSH compresi nella parte superiore del range di normalità potrebbero costituire un fattore di rischio per lo svilupparsi di un carcinoma tiroideo (Mussa et al, 2013). Può essere utile, in taluni casi, il dosaggio sierico di anticorpi antitireoperossidasi e anti-tireoglobulina ed eventualmente anti-tireorecettore, che indicano la presenza concomitante di una tiroidite autoimmune o di una tireotossicosi. La valutazione della calcitonina fornisce un indice diagnostico importante nel sospetto di un nodulo da carcinoma midollare. La maggior parte degli esperti (Pacini et al, 2006) raccomanda il suo dosaggio come screening, mentre secondo altri (Cooper et al, 2009; Costante e Filetti, 2011), eseguita di routine, potrebbe rappresentare un aggravio eccessivo di costi, anche per il frequente verificarsi di risposte di dubbia interpretazione [mancata standardizzazione dei valori normali in età pediatrica; fattori interferenti endogeni (malattie neuroendocrine, nefropatie, autoimmunità tiroidea, anticorpi eterofili anti-calcitonina) o esogeni (fumo, infezioni, alcool)]. Sicuramente si tratta di una indagine da eseguire sempre nei casi di familiarità per carcinoma midollare, per MEN 2 e nel riscontro citologico (vedi infra) di neoplasie midollari. Nei casi dubbi l’accertamento deve essere ripetuto dopo stimolo con pentagastrina (Elisei, 2008). Ecografia tiroidea Ricopre un ruolo fondamentale e ha sostanzialmente modificato l’iter diagnostico dei noduli tiroidei, consentendo, se eseguita da chi possiede una esperienza specifica di ecografia pediatrica, di individuare noduli che hanno dimensioni di pochi millimetri (1 mm se di natura cistica, fino a 3 mm se di natura solida) e di precisarne con esattezza le caratteristiche idonee a stratificare il rischio neoplastico (Maia e Zantut-Wittmann, 2012; Goldfarb et al., 2012). Nello specifico, l’ecografia deve consentire di esaminare numerose variabili sia a livello tiroideo, sia linfonodale (Tab. III). Da rilevare che talora possono essere scambiati per noduli degli accumuli di sostanza colloide (lumps) che appaiono come formazioni anecogene, con diametro inferiore a 10 mm, non circondante da una capsula ben definita e che hanno probabilmente caratteristiche dinamiche. Un aspetto peculiare in età evolutiva è rappresentato dal rilievo in sede intratiroidea di residui “ectopici” timici, che pongono talora problemi di diagnosi differenziale nei confronti dei noduli tiroidei “classici”. In uno studio giapponese (Hayashida et al, 2013) la loro prevalenza è stata quantificata nell’ordine di circa il 2% nei soggetti con età compresa tra 3 e 18 anni, con una maggiore frequenza nei primi anni di età. Dal punto di vista ecografico, il residuo timico si presenta con un aspetto caratterizzato da una lesione ipoecogena con multiple strutture interne iperecogene generalmente lineari o ramificate o, più raramente, punteggiate (King et al, 2012). L’insieme dei dati ecografici, valutati nel loro complesso, consente di costruire una stratificazione del rischio neoplastico che deve costituire uno degli elementi fondamentali per stabilire un appropriato percorso diagnostico-terapeutico, in particolare per l’esecuzione dell’agoaspirato e il conseguente atteggiamento terapeutico (Horvath et al, 2009). Agobiopsia con ago sottile Nella esecuzione eco-guidata, fornisce una accuratezza diagnostica dell’80-90% ed è un esame accettato anche in età pediatrica, essenziale nell’iter diagnostico di un nodulo tiroideo, essendo considerato il gold-standard diagnostico (Corrias et al., 2001; Kapila et al., 2010; Stevens et al., 2009). Può essere eseguito anche a livello del tessuto linfonodale laterocervicale e consente di effettuare, oltre alla valutazione citologica classica, anche altre indagini sul materiale prelevato o sul liquido di lavaggio. È possibile effettuare tale accertamento normalmente su noduli di dimensioni superiori a 1 cm, ma può essere eseguito da persone esperte anche per dimensioni di almeno 5 mm. Le indicazioni all’impiego dell’agobiopsia tiroidea (Gharib et al., 2010) sono riportate nella tabella IV. La tecnica di esecuzione può essere quella “a mano libera”, aspirando quando, sotto controllo ecografico, si rileva che l’ago (eco-riflettente) è giunto nella posizione; il prelievo può essere effettuato su più punti dello stesso nodulo o anche, naturalmente, su più noduli. 15 G. Cesaretti Tabella IIIa. Caratteristiche ecografiche da valutare. Noduli Numero [identificazione anche di quelli non palpabili (generalmente con un diametro maggiore inferiore a 1 cm) e definizione dell’eventuale nodulo “dominante”, ossia quello con caratteristiche più sospette] Dimensioni {calcolo del volume della formazione attraverso la formula dell’ellissoide di rotazione [lunghezza x spessore x larghezza x 6 (0,52)]; valutazione con esattezza nel follow-up delle eventuali variazioni di volume, considerando significative quelle maggiori del 30%} Forma Regolare o irregolare Rotondeggiante o allungata [la prevalenza del diametro ventro-dorsale rispetto al trasversale (“more tall than wide”) è considerata un indice di malignità] Sede esatta (è possibile convenzionalmente dividere il lobo tiroideo in tre parti per ciascuna delle tre dimensioni, che sono, nell’ordine, la trasversale, la ventro-dorsale e la cranio-caudale, derivandone la individuazione di 27 settori in cui collocare il nodulo. Naturalmente, a seconda delle dimensioni, il nodulo potrà occupare prevalentemente uno o anche più settori) Contenuto interamente solido, ossia parenchimatoso e quindi ecogeno interamente liquido: • cistico, anecogeno a contenuto sieroso • colloide (con finissimi echi non strutturati) • necrotico-emorragico (con pareti irregolari, setti e corpuscoli ecoriflettenti) • misto (solido e liquido) Ecogenicità: rispetto al parenchima circostante, il nodulo può apparire, in parte o totalmente: ipo-riflettente ossia ipoecogeno (motivo di sospetta lesione neoplastica) normo-riflettente, ossia normo-ecogeno iper-riflettente, ossia iperecogeno (indicativo di benignità nel 99% dei casi) Ecostruttura, con aspetto: omogeneo finemente o grossolanamente disomogeneo concamerato o cribroso, con eventuale vegetazione interna, caratterizzata da un gettone di tessuto solido in continuità con la parete Margini: regolari, lisci e ben presenti (“capsula” o “orletto periferico” o “vallo di benignità” o “halo-sign”) assenti, in parte o totalmente senza soluzione di continuo col tessuto circostante, irregolari o frastagliati, con infiltrazione del parenchima tiroideo limitrofo Eventuali calcificazioni: grossolane, con distribuzione a guscio d’uovo (generalmente con carattere di benignità) a spruzzo (finemente punteggiate), rilevate soprattutto come microcalcificazioni, identificabili come spot iperecogeni, del diametro inferiore a 2 mm (orientano verso una patologia maligna, essendo tipiche del carcinoma papillare) Vascolarizzazione, valutabile con le tecniche del color-doppler o del power-doppler, e con l’ausilio di mezzi di contrasto ecografici: Di tipo periferico (sostanzialmente “benigno”) Presente anche all’interno del nodulo (potenzialmente “maligno”). Elastografia, basata sul principio che il nodulo neoplastico presenta una maggiore durezza rispetto al restante parenchima (Rago e Vitti, 2008): 5 livelli di “elasticità”. Si possono impiegare tecniche di marcatura della cute sovrastante al fine di ottimizzare il punto di inserimento dell’ago. Un’altra tecnica di effettuazione utilizza delle sonde “dedicate” con la guida dell’ago incorporata, utilizzando uno strumento di puntamento che migliora la qualità dell’accertamento, anche se lo può rendere più indaginoso. Si fissa una guida alla sonda ecografica, cui corrisponde una immagine di puntamento sullo schermo, per cui inserendo l’ago-cannula nella apposita guida, si segue un percorso ben definito eco-visibile. 16 Ricerca su agoaspirato tiroideo L’esame citologico convenzionale riveste un’importanza fondamentale, consentendo di definire le caratteristiche delle cellule esaminate e di fornire quindi indicazioni sufficientemente precise sulle caratteristiche biologiche del nodulo. Deve essere eseguito da persone esperte che hanno una specifica esperienza nel settore. Si ritiene che, per definire adeguato un prelievo citologico di un nodulo tiroideo, sia necessario identificare almeno due vetrini con almeno sei cluster cellulari formato ciascuno da 10-20 cellule follicolari ben conservate. I noduli tiroidei in età pediatrica Tabella IIIb. Caratteristiche ecografiche da valutare. Tabella IV. Indicazioni all’impiego dell’agobiopsia tiroidea con ago sottile. Linfonodi latero-cervicali Nodulo unico con diametro superiore a 1 cm Elementi ecografici suggestivi di lesione sospetta (Niedziela, 2006; Dinauer et al., 2008; Cooper et al., 2009): Nodulo dominante in un gozzo multinodulare • margini non ben definiti • scomparsa o asimmetria dell’ilo • rapporto tra asse maggiore e asse minore ridotto (segno di malignità: < 1,5) con profilo rotondeggiante • corticale ispessita o eccentrica • presenza di calcificazioni punteggiate all’interno • ecostruttura disomogenea con aree simil-parenchimali • vascolarizzazione all’interno aumentata e non uniforme Il reperto citologico viene oggi valutato secondo il sistema di Bethesda (Bongiovanni et al., 2012) che prevede 6 classi citologiche (I: non diagnostico, II: benigno, III: lesione follicolare indeterminata, IV: lesione follicolare sospetta, V: malignità sospetta, VI: malignità) e prospettata l’eventuale ripetizione se il reperto non risultasse diagnostico (materiale insufficiente o reperto dubbio). La maggior parte dei tumori tiroidei è ben differenziata, prevalendo nettamente il carcinoma tiroideo di tipo papillare (83%), seguito dalla forma follicolare (10%) e da quella midollare (5%) (Hogan et al., 2009). Rimane comunque piuttosto difficoltosa la definizione biologica delle neoformazioni follicolari (classi III e IV di Bethesda: 10-20% di tutti i prelievi citologici), dal momento che la lettura non consente di discriminare adeguatamente le forme benigne (adenoma follicolare, nodulo iperplastico) dalle forme maligne (carcinoma follicolare, variante follicolare del carcinoma papillare). Sul materiale allestito su vetrino è possibile effettuare anche indagini specifiche: • immunocitochimica, per il riconoscimento di marcatori tumorali, quali galectina-3 umana, Human Bone Marrow Endothelial Cell-1 (HBME1), citocheratina 19, telomerasi, calcitonina; • videocitometria (image analysis): studio del contenuto del DNA cellulare per la valutazione della ploidia; • ricerca di marcatori, mediante tecniche di biologia molecolare, come, ad esempio, le mutazioni del proto-oncogene RET/PTC per il carcinoma midollare, del BRAF per il carcinoma papillare, o del p53; Sul liquido di lavaggio dell’ago è possibile: • dosare marcatori quali la tireoglobulina, la calcitonina ed il paratormone, che identificati su citoaspirati da linfonodi cervicali indicano la diffusione metastatica del tumore primitivamente tiroideo (Elisei, 2008; Massaro et al., 2009). • ricercare mutazioni genetiche caratteristiche del tumore tiroideo. Scintigrafia tiroidea È di impiego assai meno frequente rispetto a qualche anno fa, a causa del miglioramento delle tecniche ecografiche ed ha una capacità di risoluzione non superiore a 8-10 mm. Viene eseguita con tecnezio-99m pertecnetato (99mTc) o con 131Iodio o, se disponibile con 123Iodio, che ha una breve emivita e proprietà dosimetriche ottimali in campo pediatrico. Fornisce un’immagine di funzione della ghiandola e del nodulo (zone di captazione assente, ridotta, normale o aumentata). Deve essere tenuto ben presente che, anche se l’indice di malignità è più elevato nel nodulo freddo, sia i noduli tiepidi, sia quelli caldi Lesioni nodulari nel contesto di malattia di Basedow o di tiroidite giovanile autoimmune Aree sfumate di parenchima tiroideo di dubbia interpretazione nell’ambito di tiroiditi subacute o croniche Aree ipercaptanti individuate con la esecuzione della PET/CT eseguita con 18-FDG Nodulo di qualsiasi dimensione, con presenza di fattori di rischio significativi sulla base dei rilievi: • clinico-anamnestici • ecografici posseggono percentuali di malignità del 4-9% (Niedziela, 2006) per cui la presenza di captazione non esclude un carcinoma. Attualmente l’unica indicazione alla esecuzione della scintigrafia nelle lesioni nodulari è costituita dalla condizione di iperfunzione tiroidea, in quanto permette di definire le aree iperfunzionanti ghiandolari, distinguendole dal restante parenchima. Trattamento Il trattamento chirurgico di tiroidectomia è indicato per: • il carcinoma tiroideo; • le lesioni citologicamente follicolari, in quanto non è possibile differenziare con la sola indagine citologica le forme maligne da quelle benigne, ottenendosi con l’asportazione chirurgica anche una diagnosi definitiva istologica; • l’adenoma tossico; • le forme di MEN2, in quanto, dal momento che la penetranza della mutazione genetica è di fatto quasi completa, è indicata la tiroidectomia profilattica, da eseguire a diverse età a seconda del tipo di mutazione (Fialkowski e Moley, 2006). Il procedimento chirurgico deve essere seguito da un adeguato follow-up, tra cui l’eventuale somministrazione di iodio radioattivo per ablare il residuo tiroideo o comunque le cellule neoplastiche presenti a distanza. Con il trattamento con levo-tiroxina il TSH sierico deve essere mantenuto ai limiti inferiori della norma, utilizzando l’aumento dei livelli di tireoglobulina sierica come marker di recidiva. I bambini con carcinoma tiroideo, adeguatamente trattati, hanno un buon indice di sopravvivenza, maggiore di quello degli adulti, arrivando ad un valore del 91% a distanza di 30 anni (Hogan et al., 2009). Nel caso di noduli tiroidei con lesioni citologicamente benigne, i soggetti possono essere controllati periodicamente attraverso l’ecografia. Nel caso di un significativo aumento delle dimensioni del nodulo, può essere indicata la ripetizione dell’agoaspirato o l’eventuale lobectomia. La terapia con levo-tiroxina sodica, nonostante la mancanza di chiari effetti benefici nel diminuire le dimensioni nodulari, è impiegata da diversi centri soprattutto sulla base di esperienze individuali. Teoricamente potrebbe essere utile al fine di prevenire lo sviluppo di nuovi noduli o la comparsa di gozzo lobare dopo emitiroidectomia. È sicuramente controindicata in noduli tiroidei autonomi e nei soggetti in cui il trattamento con T4 apparirebbe rischioso, come per la presenza di patologie cardiache o ossee, per cui non è sostanzialmente raccomandata per noduli benigni (Camargo et al., 2009). 17 G. Cesaretti Figura 1. Flow-chart di comportamento diagnostico-differenziale. Conclusioni La diagnosi differenziale del nodulo tiroideo è fondamentalmente quindi tra formazione benigna e carcinoma tiroideo. Si avvale di un insieme di dati clinico-anamnestici, strumentali e di laboratorio, solo la cui valutazione complessiva è in grado di fornire le informazioni atte a stabilire il comportamento diagnostico più adatto e, conseguentemente, la strategia terapeutica più appropriata. Nella figura 1 è riportata una flow-chart di comportamento diagnostico-differenziale da osservare di fronte ad un nodulo tiroideo in età pediatrica. Box di orientamento Il rilievo di un nodulo tiroideo richiede un adeguato inquadramento diagnostico al fine di individuare i casi con elevato rischio di carcinoma tiroideo. Devono essere eseguiti un’attenta valutazione anamnestica, un completo esame clinico e le appropriate indagini strumentali, che si avvalgono soprattutto della ecografia, che deve essere effettuata da operatori con particolare esperienza specifica nel settore. Sulla base di tutti i dati precedenti è possibile “stratificare” il grado di rischio neoplastico del nodulo e stabilire un adeguato percorso diagnosticoterapeutico, con l’obiettivo di ottenere un corretto inquadramento diagnostico ed una appropriata terapia. La corretta diagnosi consente una ottima sopravvivenza nel caso di neoplasie tiroidee maligne e contemporaneamente evita accertamenti e/o terapie non necessarie. 18 I noduli tiroidei in età pediatrica Bibliografia Bongiovanni M, Spitale A, Faquin WC, et al. The Bethesda system for reporting thyroid cytopathology: a meta-analysis. Acta Cytol 2012;56:333-9. ** Mette in evidenza l’importanza della nuova classificazione della citologia tiroidea di Bethesda e ne discute le caratteristiche. Brignardello E, Corrias A, Isolato G, et al. Ultrasound screening for thyroid carcinoma in childhood cancer survivors: a case series. J Clin Endocrinol Metab 2008;93:4840-3. Camargo R, Corigliano S, Friguglietti C, et al. Latin American Thyroid Society recommendations for the management of thyroid nodules. Arq Bras Endocrinol Metab 2009;53:1167-75. Cooper DS, Doherty GM, Haugen BR, et al. 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Nella realtà europea, la terapia medica con farmaci anti-tiroidei rappresenta la prima scelta terapeutica, nonostante il difficile controllo della funzionalità tiroidea, i noti effetti collaterali e il basso rate di remissione. Per questi motivi è frequente il ricorso a una terapia definitiva chirurgica o con I-131, che però determina inevitabilmente una condizione di ipotiroidismo iatrogeno permanente. Nessuna delle tre opzioni attualmente disponibili si è pertanto rivelata ottimale, evidenziando la complessità della gestione terapeutica dell’ipertiroidismo autoimmune in età pediatrica. Summary Graves’ disease is the most common cause of thyrotoxicosis in children and adolescents, followed by autoimmune thyroid disease. In the European context, antithyroid drug therapy is recommended as the initial treatment, despite the difficult control of thyroidal function, known side effects and the low rate of remission. For these reasons a definitive therapy (surgery or radioactive iodine treatment with I-131) is commonly used as a second step, which is invariably associated with the development of permanent hypothyroidism. None of the three options currently available has been shown to be clearly superior to the others which further highlights the complexity of the therapeutic management of pediatric autoimmune hyperthyroidism. Parole chiave: ipertiroidismo, età pediatrica, farmaci anti-tiroidei, tiroidectomia, radioiodio Key words: hyperthyroidism, pediatric, antithyroid drug therapy, thyroidectomy, radioactive iodine Obiettivo Presentare le diverse forme di ipertiroidismo in età pediatrica, l’iter diagnostico e le alternative terapeutiche. Metodologia della ricerca bibliografica La ricerca degli articoli è stata effettuata sulla banca dati bibliografica Medline utilizzando il motore di ricerca PubMed. Sono state utilizzate le seguenti parole chiave: Hyperthyroidism, Pediatric, Antithyroid drug therapy, Thyroidectomy, Radioactive iodine. Sono stati selezionati articoli originali, revisioni e linee guida recenti inerenti l’età pediatrica. Introduzione L’ipertiroidismo è un’entità clinica rara in età pediatrica, caratterizzata da elevati livelli di ormoni tiroidei liberi associati ad inibizione del TSH ipofisario. Nella maggioranza dei casi l’eziologia è autoimmune e comprende principalmente la malattia di Basedow-Graves (MG) e meno frequentemente la tiroidite autoimmune. In quest’ultimo caso l’ipertiroidismo può esprimersi in fase iniziale con un transitorio e per lo più lieve ipertiroidismo (fase di Hashitossicosi) secondario a un aumentato rilascio di ormoni tiroidei preformati, conseguente all’infiltrazione linfocitaria (De Luca et al., 2013). Esistono inoltre condizioni cliniche rare associate all’ipertiroidismo in età evolutiva, elencate in tabella I. Malattia di Basedow-Graves La MG è la causa più comune di ipertiroidismo in età pediatrica, con un’incidenza dello 0,02%, a comparsa prevalentemente in età adolescenziale. Sono a maggior rischio i soggetti di sesso femminile (F:M = 5:1), affetti da altre patologie immunomediate e/o con anamnesi familiare positiva per tireopatia autoimmune. Alla base della MG si osserva un’aumentata produzione di anticorpi stimolanti diretti contro il recettore del TSH (Trab) che inducono iper- Tabella I. Cause di ipertiroidismo in età pediatrica. PIÙ FREQUENTI Cause autoimmuni Malattia di Basedow-Graves (95%) Tiroidite autoimmune (fase di Hashitossicosi) RARE Iperfunzione tiroidea autonoma Adenoma tossico o nodulo solitario Gozzo multinodulare Cause esogene Tireotossicosi factitia o accidentale Ipertiroidismo iodio-indotto (farmaci, mezzi di contrasto iodati,…) Cause genetiche Mutazioni attivanti il TSHR Sindrome di McCune-Albright Mutazione del recettore degli ormoni tiroidei Disfunzione ipofisaria Adenoma TSH-secernente MOLTO RARE 20 L’ipertiroidismo in età pediatrica: una realtà rara plasia ghiandolare, aumento della vascolarizzazione, della sopravvivenza cellulare e della sintesi della proteina simporto sodio/iodio, incrementando la formazione e la secrezione degli ormoni tiroidei (Morshed et al., 2009). Il meccanismo che porta alla produzione dei Trab è ancora poco chiaro, verosimilmente di natura multifattoriale. Un ruolo fondamentale sembrerebbe svolto dalla suscettibilità genetica (probabilmente di origine poligenica), dal sistema immunitario e dall’esposizione a un trigger esterno (secondo alcuni Autori mediante un meccanismo di mimetismo molecolare conseguente a un processo infettivo) (Wang et al., 2010). Secondo altri studi, un insulto al parenchima tiroideo (esempio, un processo infettivo) sarebbe in grado di indurre l’espressione di molecole del Complesso Maggiore di Istocompatibilità di classe II da parte dei tireociti, trasformando questi ultimi in cellule presentanti l’antigene, capaci di contribuire all’innesco della risposta autoimmune. Studi di linkage in cluster familiari con storia di tireopatia autoimmune hanno dimostrato il coinvolgimento di numerosi loci, ma ad oggi nessuno sembra essere in grado di spiegare completamente la patogenesi della malattia (Ban et al., 2004). Con molta probabilità esistono altri geni, ancora da scoprire, in grado di modulare la penetranza della MG nei pazienti affetti. All’esordio della MG, in alcuni studi effettuati su pazienti adulti, oltre alla tireomegalia è riportata la presenza di iperplasia timica, che regredisce dopo il trattamento con farmaci anti-tiroidei; molto più rare sono le segnalazioni in ambito pediatrico (Chiu et al., 2013; Kawano e Kohno, 2011; Kubicky et al., 2010). Sebbene il meccanismo patogenetico dell’iperplasia timica sia attualmente dibattuto, sembra esserci alla base un processo immunologico. È importante ricordare questa associazione che, se misconosciuta (sospetto di massa mediastinica anteriore), può portare a una diagnostica inutile e spesso invasiva (biopsia o timectomia). Cause minori di ipertiroidismo Iperfunzione tiroidea autonoma Il sospetto diagnostico viene posto all’esame obiettivo in caso di palpazione di nodulo solitario o noduli multipli e a livello laboratoristico in presenza di un quadro di ipertiroidismo non autoimmune. L’ecografia rappresenta il primo step diagnostico; la scintigrafia tiroidea viene effettuata in seconda battuta. La terapia è in genere chirurgica. Eccessiva ingestione di ormone tiroideo o eccessiva esposizione a iodio L’ipertiroidismo causato dall’assunzione esogena di ormone tiroideo (definito factitio) può verificarsi durante l’adolescenza, quando l’abuso di ormone è legato al tentativo di perdere peso, sfruttandone il potere regolatore sulla termogenesi e sulla lipolisi. L’esposizione a quantità di iodio tali da indurre tireotossicosi può derivare dall’uso di antisettici topici o farmaci a base di iodio e dall’impiego di mezzi di contrasto iodati. Cause genetiche Mutazioni nel gene che codifica per il recettore del TSH: il recettore mutato (in genere a livello del dominio transmembrana) causa un’attivazione costitutiva del pathway di trasduzione intracellulare e, quindi, una costante stimolazione della crescita e dell’attività dei tireociti (Alberti et al., 2001). Sindrome di McCune-Albright: la mutazione interessa il gene GNAS1, che codifica per la subunità α della proteina Gs compresa nel sistema recettoriale di molti ormoni proteici (TSH, ACTH, gonadotropine, GHRH, MSH). La proteina anomala, collocata sulla membrana cellulare, attiva il complesso recettoriale, causando un’autonoma ed eccessiva proliferazione cellulare ed ipersecrezione ormonale che, se interessanti la tiroide, determinano un quadro di ipertiroidismo non autoimmune. Resistenza agli ormoni tiroidei: la mutazione interessa il gene β codificante per il recettore degli ormoni tiroidei. Si tratta di una sindrome ereditaria caratterizzata da una ridotta risposta agli ormoni tiroidei, che si presenta con un quadro di elevati livelli di fT3 e fT4 associati a TSH normale o lievemente aumentato. Adenoma pituitario TSH-secernente (Rabbiosi et al., 2012): può manifestarsi con elevati livelli ormonali non associati ad inibizione del TSH; nel sospetto di tale condizione diventa importante il riscontro di elevate concentrazioni sieriche della subunità α del TSH e di un’alterata risposta allo stimolo con TRH. La conferma viene dall’imaging (RM encefalo con studio della regione ipotalamo-ipofisaria), mentre la chirurgia rappresenta il gold standard terapeutico. Malattia di Basedow-Graves Presentazione clinica In età pediatrica l’esordio dei sintomi tipici dell’ipertiroidismo è spesso insidioso. Il più delle volte occorrono alcuni mesi prima che si arrivi alla diagnosi definitiva; infatti, il sospetto diagnostico viene spesso ritardato sia nei primi anni di vita, per la rarità della patologia e l’aspecificità dei sintomi, sia in epoca peri-puberale, quando le alterazioni dell’umore e del comportamento o le difficoltà scolastiche caratteristiche dell’ipertiroidismo possono essere del tutto sovrapponibili alle manifestazioni tipiche dell’età adolescenziale (Shulman et al., 1997). In tabella II sono indicati i principali sintomi dell’ipertiroidismo in età pediatrica. In età evolutiva l’ipertiroidismo non trattato è in grado di interferire con lo sviluppo puberale, la crescita, la maturazione e la mineralizzazione ossea (Mora et al., 1999). Diagnosi In associazione ai dati anamnestici e al riconoscimento di segni e/o sintomi caratteristici, la diagnosi di ipertiroidismo si basa sul riscontro di elevati livelli di ormoni tiroidei liberi associati a inibizione del TSH. È fondamentale il riscontro della positività dei Trab (diagnostici per la MG e positivi in più del 90% dei soggetti affetti) e degli anticorpi antitireoperossidasi e anti-tireoglobulina (solitamente elevati nelle forme Tabella II. Elenco dei principali sintomi di ipertiroidismo in età pediatrica. SINTOMO FREQUENZA (%) Gozzo (Fig. 1) 99 Tachicardia 83 Irritabilità 80 Ipertensione 71 Esoftalmo 66 Tremori 61 Aumento appetito 60 Perdita di peso 54 Palpitazioni 34 Mal di testa 15 Incremento nella frequenza dell’alvo 13 21 G. Weber et al. fronte a un aumento degli ormoni tiroidei con TSH normale o lievemente aumentato, bisogna valutare la possibilità che si tratti di una rara forma di resistenza agli ormoni tiroidei (è possibile riscontrare simili livelli di fT3, fT4 e TSH anche in uno dei genitori) o di un raro caso di adenoma TSH-secernente (l’imaging risulterà dirimente). In caso di iperplasia timica, il riscontro di un quadro ormonale caratterizzato da TSH inibito e ormoni tiroidei elevati è fondamentale nella diagnosi differenziale tra ipertiroidismo e miastenia gravis. Figura 1. Gozzo in paziente con ipertiroidismo autoimmune. di tiroidite autoimmune, per quanto non patognomonici) in considerazione del fatto che le forme di ipertiroidismo in età pediatrica riconoscono nella quasi totalità dei casi un’eziologia autoimmune. Nell’iter diagnostico molto informativo risulta essere l’esame ecografico; in caso di MG la ghiandola appare di volume aumentato, in genere con struttura finemente disomogenea, prevalentemente iporiflettente, con aumentata vascolarizzazione all’esame colorDoppler. L’ecografia è inoltre fondamentale nella diagnosi e caratterizzazione delle lesioni nodulari. All’esordio dell’ipertiroidismo è opportuno eseguire alcuni esami a completamento, elencati in tabella III. La scintigrafia tiroidea viene effettuata nel sospetto di adenoma tossico ipercaptante. Le cause non autoimmuni di ipertiroidismo, seppur rare, devono essere prese in considerazione nella diagnosi differenziale. L’ipertiroidismo factitio è caratterizzato da un quadro ormonale che può essere sovrapponibile a quello della MG; tuttavia l’anamnesi, l’assenza di anticorpi anti-tiroide, il riscontro di valori di tireoglobulina molto bassi e un quadro ecografico normale ne permettono la diagnosi. Di Alternative terapeutiche Nella realtà europea il Metimazolo (MMI) è consigliato come trattamento di prima scelta dell’ipertiroidismo in età evolutiva, da continuarsi per 18-24 mesi, in grado tuttavia di garantire una ridotta frequenza di remissione a lungo termine (20-30% dei pazienti in fase peri-puberale e 15% dei pazienti pre-puberi) (Bahn Chair et al., 2011). Il MMI è in grado di inibire la sintesi degli ormoni tiroidei, interferendo con l’ossidazione dello iodio e la successiva iodinazione dei residui di tirosina della tireoglobulina, azione mediata dall’enzima tireoperossidasi (Cooper, 2005). In passato veniva utilizzato anche il Propiltiouracile (PTU), attualmente sconsigliato in età pediatrica per l’elevato rischio di epatotossicità (Rivkees et al., 2009). A questo proposito la FDA ha recentemente emesso un avviso di sicurezza: il PTU dev’essere utilizzato limitatamente al primo trimestre di gravidanza (in quanto associato a un minor rischio di anomalie congenite) o alla fase di bridge verso una terapia definitiva in un paziente fortemente allergico al MMI. Più controverso è il metodo block-and-replace, da utilizzarsi nei casi di difficile controllo della funzionalità tiroidea, che consiste nell’utilizzo di alte dosi di tionamidi (ossia i farmaci antitiroidei), per bloccare la sintesi degli ormoni tiroidei, combinato alla L-Tiroxina, per garantire uno stato di eutiroidismo, pur mantenendo la tiroide a riposo grazie all’inibizione della sintesi ormonale endogena (Abraham et al., 2010). Gli effetti collaterali delle tionamidi si differenziano in minori e maggiori (Tab. IV). In caso d’instabilità ormonale durante il trattamento medico o di fronte a una recidiva di malattia all’atto della sospensione terapeutica è possibile ricorrere a una terapia definitiva o, in assenza di Tabella III. Elenco degli esami da effettuarsi all’esordio dell’ipertiroidismo. Esami consigliati Valutazione cardiologica, ECG ed ecocardiogramma Esoftalmometria e/o ecografia retro-orbitaria Esami opzionali, da valutare caso per caso Età ossea negli stadi pre/peri-puberali DEXA per escludere una ridotta mineralizzazione ossea Eventuale screening delle principali patologie autoimmuni Tabella IV. Principali effetti collaterali associati alla terapia con tionamidi, distinti in minori e maggiori. REAZIONI AVVERSE MINORI (5-25% dei pazienti trattati) Reazioni cutanee minori (orticaria, rash, edema) Lieve leucopenia Modesto e transitorio movimento degli indici di funzionalità epatica Artralgia e mialgie Cefalea Alterazioni del gusto Disturbi gastro-intestinali REAZIONI AVVERSE MAGGIORI Agranulocitosi farmaco-indotta Vasculite ANCA-associata Epatotossicità 22 L’ipertiroidismo in età pediatrica: una realtà rara effetti collaterali, è possibile proseguire la terapia farmacologica fino al raggiungimento dell’età migliore per il ricorso a chirurgia o radioiodio. Attualmente la tiroidectomia viene scelta come terapia definitiva in considerazione dell’età del paziente (< 5-10 anni) e delle dimensioni della ghiandola tiroidea (> 80 grammi) (Peroni et al., 2012). La scuola statunitense utilizza la terapia radiometabolica come prima scelta a partire dai 10 anni e come scelta alternativa (in caso di fallimento della terapia medica) nei pazienti di età compresa tra 5 e 10 anni. Nella realtà europea ancora forti sono le perplessità in merito all’utilizzo del radioiodio nei soggetti con meno di 18 anni; tuttavia, in considerazione dell’assenza di effetti collaterali a lungo termine rilevati in letteratura e alla luce dell’esperienza americana, l’introduzione della terapia radiometabolica è sempre più oggetto di discussione tra i medici europei, almeno nei soggetti post-puberi. L’effetto collaterale più temuto della terapia radiometabolica è quello relativo al potenziale cancerogeno delle radiazioni ionizzanti. È stato però dimostrato che il rischio di neoplasia tiroidea è maggiore in caso di esposizione a bassi livelli di radiazioni, ben lontani dalle alte dosi utilizzate nel trattamento della MG (Read et al., 2004). Un altro aspetto dibattuto è il possibile effetto dello I-131 sulle cellule germinali e le eventuali ripercussioni sulla progenie. In letteratura ci sono dati su 500 nati da circa 370 soggetti sottoposti a terapia radiometabolica durante l’infanzia o l’adolescenza; l’incidenza di anomalie congenite in questi 500 bambini non differisce da quella della popolazione generale. Alla luce di questi dati, la terapia radiometabolica appare sicura ed efficace se utilizzata nel modo corretto. L’identificazione di fattori prognostici relativi all’evoluzione dell’ipertiroidismo autoimmune rappresenterebbe un importante traguardo in campo medico, indirizzando il clinico nella scelta terapeutica più adatta al singolo paziente, individuando già alla diagnosi coloro che potrebbero giovarsi di un prolungamento della terapia medica o del ricorso a una terapia definitiva. Purtroppo finora c’è disaccordo tra i risultati dei differenti studi pubblicati in letteratura: nessun fattore prognostico è risultato confermato e condiviso da tutti gli studi. Attualmente la decisione del trattamento più idoneo da seguire in ambito pediatrico è frutto di una stretta interazione tra la figura del medico, il paziente e la sua famiglia ed è fortemente influenzata dalle strutture mediche di riferimento del territorio. Box di orientamento Che cosa si sapeva prima L’ipertiroidismo in età pediatrica è un’entità clinica rara, ma insidiosa. Attualmente la terapia migliore da seguire rimane materia di dibattito: nessuna delle tre opzioni disponibili (terapia medica con farmaci anti-tiroidei, tiroidectomia e trattamento radiometabolico con I-131) si è rivelata ottimale, presentando tutte vantaggi e svantaggi. Che cosa sappiamo adesso Attualmente si ricorre come prima scelta al trattamento con Metimazolo, da continuarsi per 18-24 mesi, in grado tuttavia di garantire una ridotta frequenza di remissione a lungo termine. In caso d’instabilità ormonale durante il trattamento o di fronte a una recidiva di malattia all’atto della sospensione terapeutica è possibile ricorrere a una terapia definitiva o, in assenza di effetti collaterali, è possibile proseguire la terapia farmacologica, fino al raggiungimento dell’età migliore per il ricorso a chirurgia o radioiodio. Quali ricadute sulla pratica clinica L’identificazione di fattori prognostici relativi all’evoluzione dell’ipertiroidismo autoimmune rappresenterebbe un importante traguardo in campo medico, indirizzando il clinico nella scelta terapeutica più adatta al singolo paziente, individuando già alla diagnosi coloro che potrebbero giovarsi di un prolungamento della terapia medica o del ricorso a una terapia definitiva. Bibliografia Abraham P, Avenell A, McGeoch SC, et al. Antithyroid drug regimen for treating Graves’ hyperthyroidism. Cochrane Database Syst Rev 2010;1:CD003420. Alberti L, Proverbio MC, Costagliola S, et al. A novel germline mutation in the TSH receptor gene causes non-autoimmune autosomal dominant hyperthyroidism. Eur J Endocrinol 2001;145(3):249-54. Bahn Chair RS, Burch HB, Cooper DS, et al. Hyperthyroidism and other causes of thyrotoxicosis: management guidelines of the American Thyroid Association and American Association of Clinical Endocrinologists. Thyroid 2011;21(6):593-646. ** L’articolo illustra le più recenti linee guida americane sull’ipertiroidismo, con una sezione dedicata all’età pediatrica. Ban Y, Concepcion ES, Villanueva R, et al. Analysis of Immune Regulatory gene in familiar and sporadic Graves’ disease. J Clin Endocrinol Metab 2004;89,9:4562-8. Chiu HK, Ledbetter D, Richter MW, et al. Reversible left recurrent laringeal nerve palsy in pediatric Graves’ disease. Pediatrics 2013;132(6):e1704-8. Cooper DS. Antithyroid drugs. N Engl J Med 2005;352(9):905-17. * L’articolo illustra il meccanismo di funzionamento e gli effetti collaterali dei farmaci anti-tiroidei. De Luca F, Santucci S, Corica D, et al. Hashimoto’s thyroiditis in childhood: presentation modes and evolution over time. Ital J Pediatr 2013;39:8. Kawano A, Kohno H. Thymic hyperplasia associated with Graves’disease in a 10 year-old boy. Clin Pediatr Endocrinol 2011;20(3):61-4. Kubicky RA, Faerber EN, de Chadarevian JP, et al. 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J Clin Endocrinol Metab 2004;89(9):4229-33. * L’articolo evidenzia l’efficacia e la sicurezza dell’utilizzo del radioiodio in età pediatrica; la forza dello studio è rappresentata dalla numerosità del campione e dalla durata del follow-up. 23 G. Weber et al. Rivkees SA, Mattison DR. Propylthiouracil (PTU) Hepatoxicity in Children and Recommendations for Discontinuation of Use. Int J Pediatr Endocrinol 2009;132041. * L’articolo sottolinea la pericolosità del PTU in età pediatrica. Shulman DI, Muhar I, Jorgensen EV, et al. Autoimmune hyperthyroidism in prepubertal children and adolescents: comparison of clinical and biochemical features at diagnosis and responses to medical therapy. Thyroid 1997;7,5:755-60. Wang Z, Zhang Q, Lu J, et al. Identification of outer membrane porin f protein of Yersinia enterocolitica recognized by antithyrotopin receptor antibodies in Graves’ disease and determination of its epitope using mass spectrometry and bioinformatics tools. J Clin Endocrinol Metab 2010;95(8):4012-20. Corrispondenza Giovanna Weber, IRCCS San Raffaele Università Vita-Salute, Centro di Endocrinologia dell’Infanzia e dell’Adolescenza, via Olgettina 60, 20132 Milano. Tel.: +39 02 26432624. E-mail: [email protected] 24 Infettivologia Pediatrica Questa sezione dedicata all’Infettivologia Pediatrica di “Prospettive in Pediatria” è frutto del lavoro e dell’esperienza di tre autorevoli gruppi clinici e di ricerca nell’ambito delle patologie infettive del bambino. I tre argomenti trattati sono certamente diversi tra loro ma, in tutti i casi, ogni gruppo di autori ha voluto raccontare l’attualità, in termini di novità diagnostiche e/o terapeutiche, per fornire al lettore tutti i dati più recenti della letteratura internazionale. L’infezione da HIV è una malattia relativamente recente, tuttavia, anche in età pediatrica, sono stati fatti progressi, in termini di prevenzione della trasmissione verticale dell’infezione e di possibilità terapeutiche, inimmaginabili solo 30 anni fa all’inizio della diffusione dell’epidemia. Oggi l’infezione da HIV è una malattia cronica anche nel bambino e l’interesse della comunità scientifica è focalizzato sul miglioramento delle possibilità di trattamento in età pediatrica e sulla prevenzione delle complicanze a lungo termine associate all’assunzione cronica di farmaci antiretrovirali. La tubercolosi, al contrario, è una malattia tutt’altro che recente, ma ultimamente sempre più prepotentemente “tornata sotto i riflettori”. I cambiamenti demografici e sociali che stanno interessando tutto il pianeta, la mobilità delle persone e il fenomeno dell’immigrazione dai paesi a medio-basso reddito verso i paesi economicamente più avanzati hanno fatto riemergere un problema sanitario, che, in paesi come il nostro, stava per essere relegato ai libri di storia della medicina. Oggi tuttavia abbiamo la possibilità di diagnosticare prima e meglio questa malattia riemergente e di trattarla sempre più efficacemente. Infine la meningite batterica, una malattia sempre attuale e potenzialmente gravissima sia per la rapida evoluzione nell’acuzie sia per il possibile esito con severe sequele a lungo termine. Oggi tuttavia vi è la possibilità di formulare diagnosi corrette sempre più rapidamente, grazie alla disponibilità di nuovi presidi diagnostici, e di trattare efficacemente la malattia riducendo al minimo il rischio della permanenza di danni a distanza dal fatto acuto. Con questi articoli di revisione, il desiderio mio e degli autori è quello di fornire al lettore validi strumenti di aggiornamento e di guidarlo nell’approfondimento di tematiche infettivologiche sempre di primo piano. Gian Vincenzo Zuccotti Clinica Pediatrica A.O., Polo Universitario Luigi Sacco Università degli Studi di Milano 25 Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • Pp. 26-35 Infettivologia Pediatrica HIV in età pediatrica: cosa è cambiato 30 anni dopo Vania Giacomet, Valentina Fabiano, Gian Vincenzo Zuccotti Clinica Pediatrica A.O. Polo Universitario Luigi Sacco, Università degli Studi di Milano, Milano Riassunto Alla fine del 2011, il numero delle nuove infezioni da HIV nel mondo è stato stimato in 2.5 milioni, di cui il 12% in bambini e adolescenti di età inferiore a 15 anni. Nei paesi in cui è routinariamente applicata, la prevenzione della trasmissione da madre a feto dell’infezione da HIV attraverso lo screening universale per HIV delle donne gravide, l’assunzione della terapia antiretrovirale durante la gravidanza e la sua somministrazione intrapartum, nonché la somministrazione della profilassi antiretrovirale al neonato, ha permesso di ridurre i tassi di trasmissione materno-fetale dell’infezione da HIV a meno del 2%. Attualmente i bambini con infezione da HIV vengono precocemente trattati con la terapia antiretrovirale: la terapia ha drammaticamente cambiato la storia naturale dell’infezione da HIV anche in età pediatrica, riducendo significativamente i tassi di mortalità e garantendo una sopravvivenza fino all’età adulta in più del 90% dei casi. Tuttavia, la terapia dell’infezione da HIV in età pediatrica è limitata dalla disponibilità di farmaci approvati per questa fascia di età, nonché dall’esistenza di formulazioni adeguate per la somministrazione ai bambini. Sono inoltre da monitorare strettamente gli effetti avversi associati alla sua assunzione a lungo termine. La presente revisione della letteratura vuole fornire le più recenti evidenze relative alle modalità di prevenzione della trasmissione verticale dell’infezione e le più aggiornate linee guida di terapia dell’infezione da HIV in età pediatrica. Summary By the end of 2011, it is estimated that 2.5 million subjects worldwide are newly infected with HIV; 12% of these are new infections in children and adolescents aged 15 years or less. In those countries where prevention strategies are routinely performed through HIV universal screening of pregnant women, administration of antiretroviral therapy during pregnancy and intrapartum, and administration of antiretroviral prophylaxis for the newborns, rates of mother to child HIV transmission are now less than 2%. Currently, children affected by HIV infection are precociously treated with an antiretroviral therapy, significantly changing the natural history of HIV infection also in the pediatric age, so that mortality rates are currently significantly reduced and the survival through the adult age is guaranteed for more than 90% of affected children and adolescents. Nevertheless, administration of antiretroviral therapy in pediatric age is limited by availability of drugs which are approved for the use in children and by adequate drug formulations for the pediatric age. Moreover, long term adverse effects of antiretroviral therapy should be strictly monitored. This literature review is focused on the most recent evidences about prevention of vertical transmission of HIV infection and on most updated guidelines for the use of antiretroviral therapy in pediatric age. Parole chiave: HIV, prevenzione della trasmissione madre-bambino, terapia antiretrovirale altamente efficace Key words: HIV, prevention of mother-to-child transmission (PMTCT), Highly Active Antiretroviral therapy (HAART) Obiettivo della revisione Obiettivo di questa revisione della letteratura è fornire le più recenti evidenze relative alle modalità di prevenzione della trasmissione verticale dell’infezione da HIV, con discussione dell’applicabilità delle stesse nei paesi a medio-basso reddito, nonché le più aggiornate linee guida di terapia dell’infezione da HIV in età pediatrica. Per la stesura di questa revisione è stata considerata la letteratura degli ultimi 20 anni circa la prevenzione della trasmissione dell’infezione maternofetale dell’HIV e la terapia dell’infezione da HIV in età pediatrica. È stata eseguita una ricerca di letteratura in lingua inglese e italiana sui principali database Pubmed, Scopus, UpToDate, utilizzando le seguenti parole chiave: “HIV/AIDS, children, adolescents, prevention of mother-to-child transmission, therapy, antiretroviral therapy (HAART), highly active antiretroviral therapy, infezione da HIV, AIDS, prevenzione, bambini, terapia antiretrovirale, taglio cesareo”. Sono state inoltre considerate linee guida ufficiali WHO e PENTA e linee guida nazionali. Introduzione Secondo le stime del programma congiunto delle Nazioni Unite su HIV/AIDS (UNAIDS), nel mondo, alla fine del 2011, 34 milioni di 26 soggetti risultavano affetti da infezione da HIV/AIDS: nello stesso anno, il numero di nuove infezioni è stato stimato in 2,5 milioni, di cui il 12%, pari a circa 330.000 casi, in soggetti di età inferiore a 15 anni. Il 90% dei bambini ha contratto l’infezione dalla madre per trasmissione verticale. La prevenzione della trasmissione da madre a feto dell’infezione da HIV (prevention of mother to child transmission o PMTCT) rappresenta un aspetto della gestione dell’infezione da HIV che in 30 anni ha subito importanti cambiamenti (Birkhead et al., 2010; Nielsen-Saines et al., 2012). La precoce identificazione delle donne gravide affette da HIV attraverso lo screening universale, l’assunzione della terapia antiretrovirale (ARV) durante la gravidanza e la sua somministrazione intrapartum, nonché la somministrazione della profilassi antiretrovirale al neonato rappresentano i cardini delle linee guida di prevenzione della trasmissione verticale dell’infezione da HIV, che comprendono inoltre l’espletamento del parto per taglio cesareo elettivo e l’allattamento artificiale esclusivo. Nei paesi dove queste strategie di prevenzione sono universalmente intraprese, i tassi di trasmissione materno-fetale dell’infezione da HIV, naturalmente compresi tra 20 e 45%, si sono ridotti al di sotto del 2% (Townsend et al., 2008). Nei paesi meno sviluppati non è tuttavia infrequente che solo una minore percentuale delle donne HIV-infette riceva farma- HIV in età pediatrica: cosa è cambiato 30 anni dopo ci antiretrovirali nell’ambito della prevenzione della trasmissione materno-fetale dell’infezione. In questi stessi paesi, dove l’allattamento materno è una pratica di primaria importanza e la sua sostituzione con l’allattamento con latti formulati è limitata dalle scarse risorse economiche, il 40% dei bambini contrae l’infezione dopo la nascita, proprio attraverso il latte della madre infetta. Un altro aspetto fondamentale è rappresentato dal trattamento dei bambini con infezione da HIV attraverso la precoce somministrazione della terapia antiretrovirale, terapia che ha drammaticamente cambiato la storia naturale dell’infezione da HIV anche in età pediatrica, riducendo significativamente i tassi di mortalità e garantendo una sopravvivenza fino all’età adulta in più del 90% dei casi. Attualmente un bambino che vive in un paese sviluppato, che ha contratto l’infezione per trasmissione materno-fetale, è affetto da una patologia con caratteristiche di cronicità, piuttosto che da una malattia a decorso rapidamente e inesorabilmente fatale. Anche in questo caso tuttavia, le possibilità di accesso alla terapia antiretrovirale sono assai diverse nelle differenti aree geografiche del pianeta. Laddove nei paesi sviluppati dell’Europa e del Nord America più del 95% dei soggetti infetti da HIV al di sotto dei 15 anni riceve una terapia antiretrovirale, in paesi a medio e basso reddito questa percentuale scende fino a meno del 15% (WHO, 2013). La terapia dell’infezione da HIV in età pediatrica è inoltre limitata dalla disponibilità di farmaci approvati per questa fascia di età nonché dall’esistenza di formulazioni adeguate per la somministrazione ai bambini. Prevenzione della trasmissione materno-fetale dell’infezione da HIV Ogni anno, il 15% dei nuovi casi di infezione da HIV nel mondo è dovuto a trasmissione verticale dell’infezione. In assenza di qualunque intervento preventivo, il rischio di trasmissione materno-infantile di HIV-1 è del 13-25%, nel caso in cui sia garantito l’allattamento artificiale esclusivo; l’allattamento materno aumenta di oltre un terzo il rischio di trasmissione (WHO, 2103). La maggior parte dei casi di trasmissione verticale avviene in prossimità del parto o durante il travaglio di parto. Il rischio di trasmissione è correlato ai valori della carica virale materna durante la gravidanza e al momento del parto. Grazie all’utilizzo della terapia antiretrovirale assunta durante la gravidanza, a specifici interventi farmacologici e ostetrici e all’allattamento artificiale esclusivo, il rischio di trasmissione materno-infantile può essere ridotto a meno del 2%. Le strategie per ridurre la trasmissione materno fetale dell’infezione da HIV si possono dividere in 3 fasi: • Interventi antepartum: somministrazione di terapia ARV alla madre durante la gravidanza. Le scelte terapeutiche devono tenere conto dello stato di salute della donna, dello stato immunitario, della carica virale, delle precedenti e attuali terapie e devono nascere da un confronto multidisciplinare tra specialista infettivologo, ostetrico e pediatra; • Interventi intrapartum: somministrazione di terapia ARV alla madre durante il parto. Parto cesareo elettivo alla 38a settimana di età gestazionale prima dell’inizio del travaglio di parto e della rottura delle membrane; • Interventi postpartum: somministrazione di terapia ARV al neonato-lattante. Allattamento artificiale esclusivo. Per ottenere la massima efficacia preventiva è necessario che siano effettuate tutte le tre fasi. Attualmente più discussa è la reale necessità di espletare il parto tramite taglio cesareo elettivo nelle madri in terapia ARV che ab- biano una carica soppressa durante la gravidanza. Gli studi clinici realizzati in epoca pre-HAART avevano infatti dimostrato la superiorità del taglio cesareo eseguito in elezione alla 38a settimana, in assenza di travaglio e a membrane ostetriche integre, nel ridurre i tassi di trasmissione materno-fetale dell’infezione da HIV (Tovo et al., 1996; European Mode of Delivery Collaboration, 1999; The International Perinatal HIV Group, 1999). Successivamente la diffusione della HAART e il riconoscimento della sua efficacia nella prevenzione della trasmissione verticale dell’infezione hanno messo in discussione la bontà della raccomandazione all’esecuzione del taglio cesareo elettivo in tutte le donne gravide affette da infezione da HIV, suggerendo come invece potesse essere praticato il parto vaginale in quelle donne con carica virale soppressa (Townsend et al., 2006; Boer et al., 2010; Legardy-Williams et al., 2010). Tuttavia, nessuno studio è stato in grado di identificare un valore soglia di carica virale al di sotto del quale il parto con taglio cesareo non apportasse benefici in termini di prevenzione della trasmissione dell’infezione. Questa situazione ha fatto sì che attualmente le diverse Linee Guida Nazionali indichino valori soglia differenti tra loro: in Francia non è più consigliato il taglio cesareo elettivo per donne con carica virale < 400copie/ml (Yeni P), negli Stati Uniti, in Canada e in Spagna tale valore è invece pari a 1000 copie/ml (NIH, 2011; Loutfy et al., 2012; GESIDA, 2007), in Gran Bretagna il taglio cesareo non è indicato per donne con carica virale <50 copie/ml (de Ruiter et al., 2008), valore quest’ultimo recepito anche dalla European AIDS Clinical Society (EACS, 2012). In Italia, le attuali raccomandazioni del Ministero della Salute e dell’Istituto Superiore di Sanità suggeriscono che un taglio cesareo programmato a 38+0 settimane è raccomandato in caso di: • terapia antiretrovirale altamente attiva con carica virale plasmatica maggiore di 50 copie/ml; • monoterapia con ZDV quale alternativa alla terapia antiretrovirale altamente attiva; • coinfezione da HIV ed epatite C in donne non in terapia HAART e/o con carica virale HIV plasmatica > 50 copie/ml. Un travaglio di parto può essere offerto alle donne in terapia antiretrovirale con carica virale plasmatica <50 copie/ml, avendo cura di limitare, per quanto possibile, le manovre che aumentano il rischio di contaminazione ematica materno-fetale (amnioressi precoce, ripetute esplorazioni vaginali a membrane rotte, monitoraggio invasivo del benessere fetale, utilizzo di forcipe e ventosa, episiotomia). In caso di indicazioni ostetriche al taglio cesareo in donne con carica virale plasmatica <50 copie/ml, questo non deve essere effettuato prima di 39+0 settimane di gestazione per ridurre i rischi neonatali (Ministero Salute e ISS, 2012). Al neonato nato da madre trattata e con viremia soppressa al parto viene somministrato Zidovudina (ZDV) 2 mg/kg ogni 6 ore per 4-6 settimane. In seguito il neonato verrà seguito in followup per l’esclusione della diagnosi di infezione mediante test di biologia molecolare (PCR-DNA nei nati da madre caucasica o HIV-RNA PCR nei nati da madre con possibile sottotipo non B). La mancanza di terapia antiretrovirale durante la gravidanza apre diversi scenari per l’approccio farmacologico al neonato: 1) iniziare la profilassi a 6 settimane con ZDV e aggiungere 3 dosi nella prima settimana di nevirapina; 2) l’utilizzare altre combinazioni di farmaci aggiuntive alle 6 settimane con ZDV, discutendone con l’infettivologo pediatra dopo aver effettuato un counselling con la madre circa la possibile tossicità per il neonato della terapia ARV (NIH, 2012). Una grande eco internazionale ha avuto il caso di “guarigione” della bambina del Mississippi, per la prima volta presentato in marzo 27 V. Giacomet et al. 2013 in occasione della 20° Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections ad Atlanta e successivamente descritto da Persaud et al. in un case report pubblicato su New England Journal of Medicine (Persaud et al., 2013). La bambina nasceva alla 35 settimana di gestazione da parto vaginale, da gravidanza non seguita. Il test rapido per HIV eseguito alla madre durante il travaglio risultava positivo (confermato dalla presenza di replicazione virale) ma il parto avveniva prima che ci fosse la possibilità di iniziare una profilassi intrapartum. Considerato quindi l’alto rischio di trasmissione in utero dell’infezione, la bambina veniva sottoposta a triplice terapia antiretrovirale con zidovudina, lamivudina e nevirapina a partire da 30 ore di vita. La ricerca di HIV-DNA eseguita a 30 ore di vita risultava positiva e il dosaggio di HIV-RNA mostrava la presenza di replicazione virale (19.812 copie/mL), facendo concludere per una diagnosi di infezione in utero. La terapia antiretrovirale veniva pertanto proseguita, sostituendo nevirapina con lopinavir-ritonavir per ridurre il rischio di farmaco-resistenza in caso di non ottimale compliance alla terapia ARV. Durante la terapia ARV veniva ancora riscontrata replicazione virale a 6, 11 e 19 giorni di vita; a partire dai 29 giorni di vita, veniva ottenuta la soppressione della replicazione virale. Durante il primo anno di vita, la bambina, allattata artificialmente, mostrava una crescita regolare, buona compliance alla terapia, come dimostrato da ripetuti dosaggi di HIV-RNA che confermavano lo stato di soppressione della replicazione virale. Dai 18 ai 23 mesi la bambina non veniva condotta con regolarità alle visite programmate e la mamma, all’età di 23 mesi della bambina, dichiarava di non aver più somministrato la terapia ARV alla bambina dai 18 mesi. Due dosaggi di HIV-RNA a 23 e 24 mesi di vita risultavano negativi e la ricerca di anticorpi contro HIV risultava anch’essa negativa a 24 mesi di vita. A 30 mesi di vita, la carica virale della bambina continuava a rimanere soppressa e gli anticorpi anti-HIV negativi. Gli autori concludono quindi che l’inizio molto precoce di una terapia antiretrovirale di combinazione è stata in grado di interferire sia quantitativamente sia qualitativamente con la persistenza dei reservoirs virali. Una terapia antiretrovirale aggressiva e iniziata precocemente potrebbe quindi ottenere una clearance dell’infezione: se questo venisse confermato su un più ampio numero di bambini a rischio, un tale approccio potrebbe risparmiare a questi bambini il peso di una terapia da proseguire per tutta la vita. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel documento di pianificazione delle strategie di prevenzione della trasmissione verticale dell’infezione da HIV (WHO, 2010) riserva un particolare riguardo ai paesi cosiddetti low o middle-income, in cui si stima risieda circa 1.4 milioni di donne affette da infezione da HIV. Il 90% di queste donne vive in soli 20 paesi in via di sviluppo, 19 dei quali sono localizzati nell’Africa sub-sahariana. L’OMS è impegnata nell’implementare strategie adeguate di prevenzione della trasmissione materno-fetale dell’infezione da HIV, con particolare attenzione alle 10 nazioni in cui vive la maggior parte delle donne HIV-infette. In questi paesi gli obiettivi da raggiungere sono la diagnosi precoce di infezione nelle donne, l’implementazione di programmi di prevenzione dedicati e la loro attuazione sul territorio specifico secondo linee guida condivise, una più ampia disponibilità di farmaci ARV da somministrare durante la gravidanza e un maggiore e più facile accesso alla terapia, la presenza di servizi territoriali dedicati alla cura della donna e della coppia donna-bambino, l’utilizzo della terapia antiretrovirale nelle donne anche durante la fase dell’allattamento, essendo questi paesi dove l’allattamento al seno rappresenta comunque la prima scelta di alimentazione del bambino. 28 Terapia dell’infezione da HIV in pediatria Terapia e prevenzione Le terapie antiretrovirali ad oggi disponibili, per quanto non in grado di eradicare l’infezione da HIV, hanno drammaticamente modificato il decorso dell’infezione, riducendo la mortalità ed incrementando il tasso di sopravvivenza e la qualità di vita del paziente HIV-infetto. Ad oggi, nei Paesi industrializzati dove sono disponibili terapie antiretrovirali combinate altamente efficaci (HAART), la malattia da HIV ha acquisito le caratteristiche di una patologia cronica anche nel bambino che si infetta alla nascita. Le principali classi di farmaci attualmente disponibili sono: inibitori nucleotidici e non nucleotidici della trascrittasi inversa (NRTI, NNRTI), inibitori delle proteasi (PI), inibitori delle integrasi del genoma virale, inibitori della fusione, antagonisti del recettore CCR5. Gli scopi della terapia antiretrovirale sono: ridurre la morbosità e la mortalità HIV-correlate; ricostituire e preservare la funzione immunitaria; indurre e mantenere una soppressione completa della replicazione virale; minimizzare la tossicità dei farmaci; migliorare la qualità della vita. In pediatria sono inoltre prioritari il mantenimento di una regolare crescita somatica e un adeguato sviluppo neurocognitivo. Data l’esigua disponibilità di farmaci antiretrovirali approvati per l’età pediatrica, le opzioni terapeutiche sono limitate; nella scelta vanno considerati l’età del paziente, la severità della malattia e il rischio di progressione, il numero e/o la percentuale di linfociti T CD4 e la carica virale. Inoltre vanno valutate la disponibilità di formulazioni liquide e palatabili, la farmacocinetica, gli effetti collaterali a breve e lungo termine, l’effetto della scelta del regime iniziale su future opzioni terapeutiche e la presenza di comorbidità (TBC, HBV, HCV, patologie croniche renali o epatiche). Quando iniziare la terapia antiretrovirale nel paziente pediatrico In età pediatrica, le indicazioni per l’inizio della terapia antiretrovirale sono più aggressive rispetto all’adulto, poiché nel bambino la progressione dell’infezione è più rapida e i parametri di laboratorio sono meno predittivi del rischio di progressione, particolarmente nel lattante. L’inizio della terapia antiretrovirale è raccomandato nel lattante < 12 mesi di vita, indipendentemente dalla situazione clinica, numero assoluto e percentuale dei CD4+ e carica virale. Questa indicazione, oggi condivisa dal National Institute of Health americano, dalla World Health Organization, e dalle linee guida PENTA (Paediatric European Network for treatment of AIDS), nasce dall’evidenza che il rischio di progressione o morte nei primi 12 mesi di vita in un bambino HIV-infetto è pari al 20-25% e che nei lattanti in cui la terapia HAART viene iniziata precocemente sono significativamente minori i tassi di mortalità e di progressione ad AIDS. Nei pazienti di età ≥12 mesi è invece possibile differire l’inizio della terapia. Nel bambino di età compresa tra 12 e 59 mesi, la % di CD4+ e i livelli di HIV RNA sono fattori indipendentemente predittivi del rischio di progressione clinica o morte a parità di numero di CD4+, mentre al di sopra dei 5 anni di vita, il rischio di morte o progressione di malattia a un anno è maggiormente correlato a un numero di CD4+ inferiore a 350 cell/µl; valori di HIV-RNA ≥ 100.000 cp/ml correlano con un maggior rischio di morte o progressione di malattia a un anno, sia sopra sia sotto i 5 anni di vita (PENTA 2009; NHI 2012; Puthanakit et al., 2012) (Tab I). Le nuove linee guida OMS raccomandano che tutti i bambini al di sotto dei cinque anni inizino immediatamente il trattamento. La stessa raccomandazione è rivolta anche ai bambini di età uguale o superiore ai HIV in età pediatrica: cosa è cambiato 30 anni dopo Tabella I. Criteri per l’inizio della terapia antiretrovirale in età pediatrica. Età Criterio < 12 Mesi L’inizio della terapia antiretrovirale è raccomandato in tutti i bambini sotto i 12 mesi, indipendentemente da stadio clinico, percentuale di CD4+ e carica virale. Fortemente raccomandato 12-59 Mesi Clinico CDC classe B** o C indipendentemente da viremia e % di CD4+ CDC classe B** o C indipendentemente da viremia e % di CD4+ Fortemente raccomandato Immunologico CD4+ < 25% indipendentemente dallo stadio clinico o dalla viremia 12-35 mesi: CD4+ < 25% o < 1000 cellule/µL Fortemente raccomandato 36-59 mesi: CD4+ < 20% o < 500 cellule/µL indipendentemente dallo stadio clinico o dalla viremia Virologico HIV-RNA > 100.000 copie/mL in classi CDC N o A e CD4+ > 25% HIV-RNA > 100.000 copie/mL in classi CDC N o A e CD4+ > 25% Considerabile Clinico CDC classe B** o C indipendentemente dallo stadio clinico o dalla viremia CDC classe B** o C indipendentemente da viremia e dal valore di CD4+ Fortemente raccomandato Immunologico CD4+ < 350 cellule/µL indipendentemente dallo stadio clinico o dalla viremia CD4+ < 350 cellule/µL indipendentemente da viremia e valore di CD4 Fortemente raccomandato Virologico HIV-RNA ≥ 100.000 copie/mL in classi CDC N o A e con CD4+ ≥ 350 cellule/µL HIV-RNA ≥ 100.000 copie/mL in classi CDC N o A e con CD4+ ≥ 350 cellule/µL Considerabile > 5 anni NIH PENTA RACCOMANDAZIONE DEL TRATTAMENTO * Sufficiente un solo criterio. ** Ad eccezione del paziente che manifesti un singolo episodio di infezione batterica grave o di polmonite interstiziale linfoide. cinque anni con una conta dei CD4 inferiore alle 500 cellule per mm3. La difficoltà maggiore per il trattamento precoce dei bambini consiste nella mancata diagnosi dell’infezione nelle prime settimane dopo la nascita. Secondo gli esperti, un enorme passo avanti per aumentare le diagnosi sarebbe l’introduzione dei test diagnostici per l’HIV all’interno dei centri di vaccinazione, dove oltre l’80% delle madri in Africa sub-sahariana porta i figli (WHO, 2013). Quale combinazione di farmaci utilizzare nel paziente pediatrico naïve Al fine di limitare al minimo un fallimento terapeutico, si raccomanda di iniziare sempre la terapia antiretrovirale utilizzando regimi farmacologici contenenti almeno tre farmaci di due classi diverse, previa esecuzione di un test che valuti le resistenze a livello genotipico da effettuare in tutti i soggetti naïve. Ad oggi, benché manchino studi randomizzati esaustivi, sono considerati di prima scelta i regimi HAART contenenti 2 NRTI (backbone) + 1 PI oppure 2 NRTI (backbone) + 1 NNRTI (PENPACT-1 (PENTA 9/PACTG 390) Study Team, Babiker et al., 2011). L’uso di farmaci di ultima generazione come gli inibitori delle integrasi, della fusione e dei corecettori CCR5 o CXCR4 è riservato ai casi di fallimento (Tab. II). Scelta del backbone dei 2 inibitori nucleotidici della trascrittasi inversa (NRTI) Attualmente 6 inibitori nucleosidici [zidovudina (AZT), didanosina (ddI), lamivudina (3TC), stavudina (d4T), abacavir (ABC) ed emtricitabina (FTC)] e un inibitore nucleotidico della trascrittasi inversa [tenofovir (TDF)] sono approvati per pazienti pediatrici. Regimi basati su inibitori non nucleotidici della trascrittasi inversa (NNRTI) Schemi terapeutici basati su NNRTI nei pazienti pediatrici naïve permettono un futuro utilizzo di regimi basati su PI. Lo sviluppo di una sola mutazione, tuttavia, può conferire resistenza all’intera classe di farmaci. Nevirapina (NVP) ed efavirenz (EFV) in combinazione con due NRTI, sono i farmaci di prima scelta per bambini di età < e ≥ 3 anni, rispettivamente. EFV è il farmaco di scelta per la terapia iniziale del bambino ≥3 anni; per i pazienti di età inferiore ai 3 anni o per i bambini incapaci di deglutire le compresse, NVP risulta di prima scelta perché disponibile anche in formulazione liquida. Etravirina è stato recentemente approvato per bambini di età superiore ai 6 anni. Regimi basati su inibitori delle proteasi (PI) L’utilizzo di PI garantisce un’ottima soppressione della replicazione virale, con minor rischio di sviluppare resistenze e la possibilità di preservare regimi basati su NNRTI per future opzioni terapeutiche. Ciononostante, la terapia con PI comporta non di rado lo sviluppo di dislipidemia, lipodistrofia, insulino-resistenza ed alterazioni del metabolismo epatico di altri farmaci. In ambito pediatrico, l’associazione lopinavir/ritonavir (LPV/r) è la più studiata e ha dimostrato una persistente efficacia con bassa tossicità sia nel paziente naïve che in quello con pregressa esposizione ad antiretrovirali. I PI alternativi per i pazienti di età > 6 anni sono atazanavir/r, fossamprenavir/r e darunavir/r. Il fallimento della terapia antiretrovirale Con “fallimento terapeutico” si intende una risposta sub-ottimale o una risposta non sostenuta alla terapia antiretrovirale, che si manifesti come deterioramento clinico, immunologico o virologico. La sostituzione della HAART è tanto più urgente quanto più il soggetto è immunocompromesso (Tab. III) e tale modifica deve essere preceduta dall’esecuzione del test di Resistenza, in quanto durante la replicazione virale si verificano facilmente mutazioni dell’HIV-RNA e vengono progressivamente selezionati ceppi virali farmaco-resistenti. 29 V. Giacomet et al. Tabella II. Scelta dei farmaci per l’inizio della terapia. Selezione dei 2 NRTI Regime basati su NNRTI Regimi basati su IP ABC *+ 3TC oppure FTC AZT + 3TC oppure FTC ddI + FTC TDF** + 3TC oppure FTC Prima scelta EFV (bambini > 3 anni) NVP (bambini < 3 anni o che richiedano formulazione liquida Seconda scelta NVP (bambini > 3 anni) Prima scelta L PV/r ATV/r (bambini > 6 anni)*** Seconda scelta (ordine alfabetico) DRV/r (bambini > 3 anni) fAPV/r (bambini > 6 anni) IP sconsigliati TPV, SQV, IDV RTV dose piena ATV senza booster di RTV (in bambini di età < 13 anni e/o < 39 Kg) * Da eseguirsi test per HLA B*5701 prima dell’impiego del farmaco. Da non somministrarsi in caso di esito positivo. ** Negli adolescenti di età compresa tra 12 e < 18 anni con peso corporeo ≥ 35 kg, la dose raccomandata di TDF è di 245mg; dosaggio pediatrico: 8 mg/kg *** Guidelines DHHS 2012 L’uso di un regime basato su 3 NRTI va riservato solo in casi particolari (es.:terapia antitubercolare associata). d4T è sconsigliato nei bambini. Tabella III. Criteri di definizione di fallimento virologico, immunologico e clinico. Fallimento virologico Incompleta risposta virologica Diminuzione della viremia < 1 Log a 8-12 settimane di terapia (I livelli di HIV-RNA all’inizio del nuovo regime influenzano la risposta e, soprattutto nei bambini, il tempo necessario per ottenere la completa soppressione della carica può Rebound virologico essere maggiore. Modalità e rapidità di diminuzione della viremia dall’inizio del nuovo regime sono predittivi della risposta virologica) HIV-RNA > 400 copie/mL dopo 6 mesi di terapia Fallimento immunologico Bambino ≥ 5 anni con immunodepressione severa (CD4+ ≤ 200 cell/µL): mancato incremento dei CD4+ ≥ 50 cellule/µL entro il primo anno dall’inizio della terapia Incompleta risposta immunologica HIV-RNA > limite soglia di rilevazione nei primi 12 mesi di terapia Viremia superiore alla soglia di rilevazione dopo il raggiungimento della soppressione virologica Bambino < 5 anni con immunodepressione severa (CD4% < 15%): mancato incremento ≥ al 5 % del valore di CD4+ rispetto al basale Declino immunologico Diminuzione della percentuale di CD4+ del 5% rispetto ai valori al basale ad ogni età Diminuzione del numero assoluto dei CD4+ al di sotto dei livelli preterapia al basale in bambini di età ≥ 5 anni Fallimento clinico (Lo sviluppo di sintomi clinici nei primi mesi di terapia non indica necessariamente fallimento terapeutico, potendo infatti rappresentare la “coda” di una disfunzione immunologica HIV- correlata o la sindrome da immunoricostituzione (IRIS)) 30 Deterioramento progressivo dello sviluppo neurocognitivo Due o più dei seguenti reperti documentati in ripetute valutazioni: Ritardo della crescita cerebrale Declino della funzione cognitiva documentato da test psicometrici Encefalopatia motoria Ritardo di crescita Persistente declino nella velocità di crescita ponderale nonostante adeguato apporto nutrizionale e in assenza di altra spiegazione Infezioni Insorgenza di infezioni severe e/o ricorrenti definenti AIDS in uno stesso paziente HIV in età pediatrica: cosa è cambiato 30 anni dopo Scelta del nuovo regime antiretrovirale Il cambio terapeutico deve contemplare almeno due farmaci, preferibilmente tre, a cui il virus è sensibile, data l’elevata possibilità di comparsa di nuove resistenze. In linea generale, se la HAART fallita era basata su NNRTI, è preferibile passare ad un regime basato su PI. La resistenza crociata tra EFV e NVP limita l’uso di EFV nella nuova terapia. Il più recente NNRTI etravirina mantiene invece efficacia contro il virus resistente a NVP ed EFV (Briz, et al., 2011). Un regime contenente LPV/r ha rivelato efficacia sostenuta in bambini multi-trattati (Frange et al., 2011; Bunupuradah et al., 2011); sono ancora limitati i dati relativi all’uso dei farmaci appartenenti alle nuove classi: maraviroc (antagonista del recettore CCR5) e raltegravir (inibitore dell’integrasi). Enfuvirtide, inibitore di fusione, è approvato nei bambini di età ≥ 6 anni e si è dimostrato efficace nei pazienti multi-resistenti e pluri-trattati, tuttavia la somministrazione sottocutanea ne limita l’uso, in particolare negli adolescenti (Palladino et al., 2010; Cavarelli et al., 2010). In caso di documentata estesa resistenza a vari farmaci, la possibilità di impostare un efficace regime terapeutico è scarsa e vanno considerati: a) regimi off-label, b) la possibilità di arruolamento in trial clinici per i nuovi farmaci; c) regimi “non soppressivi” al solo scopo di prevenire l’ulteriore deterioramento clinico-immunologico, in attesa di nuovi farmaci efficaci disponibili (Tab. IV). Il monitoraggio terapeutico delle concentrazioni plasmatiche di farmaci (TDM) La misurazione della concentrazione plasmatica dei farmaci (TDM: Therapeutic Drug Monitoring) è uno strumento strategico e raccomandato nei pazienti in terapia antiretrovirale, nei quali la risposta clinica e virologica è diversa dall’atteso, per ottenere dosaggi ottimali minimizzando la tossicità e massimizzando il beneficio terapeutico, escludere livelli farmacologici sub-terapeutici e stabilire la dose ottimale di farmaco nella transizione ad un nuovo regime. La relazione tra concentrazione di farmaco ed effetto virologico è forte per i PI e gli NNRTI, ma anche il mantenimento di concentrazioni sieriche adeguate degli NRTI si è dimostrato importante per una massima attività antiretrovirale. L’uso di TDM in ambito pediatrico è limitato da lunghe tempistiche, alta variabilità dei risultati nello stesso paziente e scarsità di laboratori certificati. Il test di resistenza Durante la replicazione virale, a causa della propensione della trascrittasi inversa a commettere errori, si verificano facilmente mutazioni dell’HIV-RNA, ed in presenza di farmaci antiretrovirali, vengono progressivamente selezionati ceppi virali farmaco-resistenti. L’aderenza alla terapia antiretrovirale e la comunicazione della diagnosi L’aderenza è il fattore maggiormente coinvolto nel determinare l’efficacia della terapia antiretrovirale. Studi prospettici condotti sia nell’adulto sia nel bambino hanno dimostrato che il rischio di fallimento virologico aumenta proporzionalmente all’aumento delle dosi omesse. Il processo di preparazione all’aderenza dovrebbe essere avviato prima dell’inizio o del cambio della terapia e un’accurata valutazione dovrebbe essere inclusa durante ogni visita di follow-up; varie sono le strategie attuabili per migliorare l’aderenza alla terapia. Per una valutazione della aderenza in un campione rappresentativo Tabella IV. Cambi terapeutici raccomandati. Possibili cambi raccomandati 2 NRTI 1 + IP 2 NRTI 1 + NNRTI 2 2 NRTI 1+ IP alternativo con booster di ritonavir a bassa dose3 NRTI 1 + NNRTI 2 + IP alternativo con booster di ritonavir a bassa dose3 2 NRTIs 1 + [NNRTI 2o IP] NRTIs 1 + [NNRTI 2 + IP] >1 NRTI 1 + IP di nuova generazione con booster di ritonavir a bassa dose3 >1 NRTI + doppio IP con booster di ritonavir (LPV/r + SQV, LPV/r + ATV) 4 NRTI(s) + IP alternativo con booster di ritonavir a bassa dose3 + Enfuvirtide5 e/o antagonista del CCR56 e/o inibitore dell’integrasi6 L’uso di regimi contenenti fino a 3 IP e/o 2 NNRTI, pur aumentando probabilità di successo e raggiungimento del goal terapeutico, va valutato in base a complessità, tollerabilità e interazioni sfavorevoli tra farmaci. 1. La simultanea sostituzione dei due NRTI è indicata per prevenire mutazioni aggiuntive e i principi attivi andranno scelti sulla base del test di resistenza; inoltre, dati sulla popolazione adulta suggeriscono che proseguire 3TC in presenza di mutazioni che vi conferiscono resistenza non ne impedisce una parziale efficacia nel sopprimere la viremia e la presenza della mutazione 184 V può in parte arginare l’effetto di mutazioni conferenti resistenza a AZT, d4T e TDF. 2. La resistenza crociata tra NVP ed EFV limita l’uso di quest’ultimo nella nuova terapia. Il recente NNRTI etravirina (ETV) mantiene invece efficacia contro HIV resistente a NVP ed EFV in presenza dell’unica mutazione K103. 3. Regimi contenenti LPV/r mostrano attività antiretrovirale durevole in bambini multi-trattati con diversi IP. 4. Nell’adulto e nel bambino, studi farmacocinetici hanno dimostrato concentrazioni efficaci o più elevate dei principi attivi per le associazioni di IP lopinavir/ritonavir con saquinavir e lopinavir/ritonavir con atazanavir. 5. Enfuvirtide, inibitore della fusione, è approvato sopra i 6 anni ed è efficace nel paziente multi-resistente e pluri-trattato. La somministrazione sottocute rimane un ostacolo all’aderenza e ne limita l’uso negli adolescenti più che nei bambini piccoli. 6. Maraviroc e raltegravir, approvati sopra i 16 anni, sono valide opzioni negli adolescenti con fallimenti multipli; studi pediatrici sono in corso. Nell’adulto, l’uso dei nuovi farmaci inibitori delle integrasi (raltegravir) o antagonisti del recettore CCR5 (maraviroc), associati a un inibitore boosterato delle proteasi (darunavir), garantisce una risposta virologica migliore. 31 V. Giacomet et al. è stato somministrato un questionario ai carers e ai medici curanti di 129 bambini con infezione da HIV: la aderenza alla terapia è stata valutata considerando il numero di dose omesse nei 4 giorni precedenti il controllo clinico in ospedale ed è risultata essere maggiore se la terapia veniva somministrata da genitori affidatari o adottivi rispetto ai genitori naturali e paradossalmente maggiore nei bambini in HAART rispetto a quelli in dual-therapy (Giacomet et al., 2003). Un tassello importante nella gestione del bambino con infezione da HIV è la comunicazione della diagnosi. Una comunicazione sincera permette al bambino di non subire passivamente la propria malattia e aiuta gli adolescenti a conoscere per intero la propria realtà. Comunicazione e relazione sono gli strumenti necessari e indispensabili per raggiungere gli obiettivi terapeutici che un medico si propone. È importante quando si comunica pensare dapprima alla persona e alla sua storia emotiva e successivamente alle parole adeguate per la comunicazione. Durante la comunicazione è necessario dire la verità, per conquistare la fiducia del paziente e di conseguenza la sua collaborazione alla cura. I segreti provocano fantasie negative, di morte e pessimismo. È importante rendere il bambino partecipe alla patologia di cui è affetto per dargli la possibilità di accettare la malattia, l’ambiente in cui viene curato e l’importanza della cura. È in egual modo essenziale chiamare la malattia col suo vero nome, parlando direttamente al bambino (dopo aver chiaramente informato i genitori del contenuto della comunicazione), adattando il dialogo all’età, al carattere e alla personalità del piccolo paziente: stiamo parlando di comunicazione empatica, che rinforza quella di contenuto. È importante che il bambino venga a conoscenza della propria malattia per diventarne protagonista in senso positivo, attivando le risorse per aumentare la compliance e l’aderenza terapeutica e per elaborare i propri vissuti. Per quanto riguarda la comunicazione ai genitori, è utile non dilungarsi troppo sui problemi clinici delle sindromi per non creare timori esagerati. Effetti collaterali dei farmaci antiretrovirali Nonostante gli indiscutibili benefici, l’esposizione prolungata a tera- pie antiretrovirali non è scevra da complicanze, in primis alterazioni metaboliche, che assumono ulteriore importanza nei pazienti pediatrici, sia per la maggior durata sia per l’interferenza con i normali processi di crescita (Viganò et al., 2010). Lipodistrofia: identifica le anomalie di distribuzione del tessuto adiposo; l’associazione di lipodistrofia ed alterazioni del metabolismo lipidico e glucidico è definita sindrome lipodistrofica. Dislipidemia: identifica le alterazioni del profilo lipidico, in base alla concentrazione plasmatica di trigliceridi, colesterolo totale, colesterolo HDL e colesterolo LDL rispetto ai valori di norma per sesso ed età. Alterazioni dell’omeostasi glucidica: si intende un ampio spettro di alterazioni, fino al quadro conclamato di diabete mellito tipo 2, risultanti dalla combinazione di vari fattori: terapia con PI, cambiamenti della composizione corporea, predisposizione genetica, stato infiammatorio cronico determinato dall’infezione da HIV. La metformina è al momento l’unico farmaco approvato dall’FDA in età pediatrica (per bambini con diabete mellito tipo 2 di età > 10 anni). Alterazioni del tessuto osseo: un incremento del turn-over osseo, derivante dallo stato infiammatorio cronico e/o dalla terapia antiretrovirale, può essere responsabile di una ridotta mineralizzazione ossea. Tossicità mitocondriale: in corso di terapia con NRTI, espressione di disfunzione mitocondriale è l’aumento della concentrazione plasmatica di acido lattico (>2 mmol/L) che può rimanere asintomatica o manifestarsi con nausea, dolori addominali, vomito, modeste alterazioni della funzionalità epatica, fino a un quadro di severa acidosi lattica (per livelli di acido lattico > 5 mmol/L) con steatosi epatica, neuropatia, pancreatite, miopatia. Alterazioni cardiovascolari: vari studi pediatrici hanno documentato la presenza di aterosclerosi subclinica – con incremento dello spessore dell’intima a livello delle carotidi – ed aumento di vari indici infiammatori (in primis hsCRP, mieloperossidasi, omocisteina) nei soggetti con infezione da HIV in terapia antiretrovirale, rispetto a pazienti non in terapia e a controlli sani di pari età (Tab. V). Tabella V. Effetti metabolici associati ai farmaci antiretrovirali. Sindrome lipodistrofica: anomalie di distribuzione del grasso periferico (lipoatrofia, lipoipertrofia, forma combinata). I dati relativi a prevenzione e trattamento della lipodistrofia in età pediatrica sono ancora poco esaustivi. In Tabella 20 sono fornite le possibile indicazioni. Dislipidemia: gruppo di alterazioni del metabolismo lipidico (ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia, forme miste). Interventi farmacologici vanno considerati: • In bambini di età > 8 anni con valori di colesterolo LDL > 190 mg/dl non responsivi a dieta ipocolesterolemica (o c-LDL > 160 mg/dl in caso di familiarità per patologie cardiovascolari precoci) • In bambini di età < 8 anni con valori di colesterolo LDL > 500 mg/dl Alterazioni dell’omeostasi glucidica: insulino-resistenza e diabete mellito tipo 2 (osservati anche in pediatria, sebbene con minor frequenza rispetto all’adulto). Interventi: Dieta bilanciata Esercizio fisico aerobico Metformina, unico ipoglicemizzante orale approvato dall’FDA per l’impiego in età pediatrica (in bambini con diabete mellito tipo 2 di età > 10 anni) Considerare l’uso di insulina esogena se i primi tre interventi non sono sufficienti Complicanze cardiovascolari: aterosclerosi - processo degenerativo a carico dell’endotelio vascolare che inizia già nell’infanzia. Lo spessore intimale (IMT) delle carotidi è un indice predittivo di aterosclerosi subclinica. Studi condotti in coorti pediatriche hanno dimostrato che l’infezione da HIV e una lunga esposizione alla cART sono fattori di rischio per l’aumento dello spessore intimale delle carotidi. Tossicità mitocondriale: aumento di acido lattico plasmatico (asintomatico o associato a manifestazioni cliniche quali nausea, dolori addominali, vomito, modeste alterazioni della funzionalità epatica fino al quadro di severa acidosi con statosi epatica, neuropatia, pancreatite, miopatia). In presenza di segni clinici di mitocondriopatia è necessario dosare i livelli di acido lattico ed effettuare ulteriori accertamenti diagnostici. 32 HIV in età pediatrica: cosa è cambiato 30 anni dopo Follow-up del bambino nato da madre HIV-positiva Tutti i bambini nati da madre con infezione da HIV devono essere sottoposti ad esami ematochimici, appena possibile dopo la nascita. Tali accertamenti devono includere un esame emocromocitometrico e gli esami biochimici di routine, finalizzati allo studio della funzionalità d’organo. Il successivo timing di valutazione degli esami ematici in epoca neonatale va individualizzato sulla base dei risultati ottenuti alla prima valutazione, dell’età gestazionale del bambino e della sua situazione clinica, del tipo di profilassi a cui il neonato viene sottoposto. Raccomandata è comunque una rivalutazione dell’esame emocromocitometrico dopo 4 settimane dall’inizio della profilassi al fine di valutare il valore di emoglobina e la conta dei neutrofili. I test anticorpali non devono essere utilizzati per la diagnosi di infezione da HIV nei primi 18 mesi di vita, in quanto fino a quell’epoca, gli anticorpi materni in grado di attraversare la placenta, sono dosabili nel siero dei bambini nati da madre con infezione da HIV. Il bambino deve quindi essere monitorato per l’eventuale diagnosi di infezione con test virologici (HIV-DNA o HIV-RNA). Almeno 3 test virologici devono essere eseguiti tra 14 e 21 giorni di vita, tra 1 e 2 mesi e tra 4 e 6 mesi di vita. Alcuni autori raccomandano di sottoporre i neonati di madre HIV-positiva ad un test virologico anche al momento della nascita, soprattutto nei casi in cui la carica virale materna non sia ottimamente controllata o in cui si preveda la possibilità che al neonato non venga assicurato un adeguato follow-up. In caso di positività di un test virologico, il neonato deve essere sottoposto il prima possibile ad un altro test virologico di conferma eseguito su un campione ematico diverso. La presenza di due diversi test virologici positivi consente di porre diagnosi di infezione da HIV. In epoca neonatale, il test più adeguato per porre diagnosi di infezione da HIV è l’HIV-DNA PCR. L’infezione può ragionevolmente essere esclusa in presenza di due test virologici negativi, eseguiti a 14 o più giorni di vita e ad un mese o più di vita. L’esclusione della trasmissione dell’infezione, in bambini allattati con latte formulato, si pone in presenza di due test virologici negativi eseguiti ad almeno 1 e ad almeno 4 mesi di vita. I bambini devono comunque essere strettamente monitorati fino a 18 mesi di vita, epoca in cui eseguire la ricerca di anticorpi per HIV, al fine di verificarne la negatività e di escludere così definitivamente la trasmissione dell’infezione (NIH, 2011). Follow-up del bambino infetto Nel bambino con infezione da HIV in terapia antiretrovirale vanno strettamente monitorati il valore dei CD4+ e della carica virale (HIVRNA), che in regime terapeutico efficace, deve essere undetectable. Accanto ai parametri immunovirologici devono essere monitorati i possibili effetti collaterali dei farmaci antiretrovirali. Infatti ogni farmaco può potenzialmente causare effetti collaterali che interessano diversi apparati e organi. Quando possibile, è preferibile evitare di associare farmaci che possono potenziare la tossicità delle singole molecole. È necessario effettuare il monitoraggio della possibile tossicità secondo necessità, ma almeno ogni 3-4 mesi con esami specifici (funzionalità epatica e renale, acido lattico, glicemia, colesterolo e trigliceridi, inoltre valutazione della mineralizzazione ossea tramite DEXA). Nell’adulto sono stati condotti numerosi studi sulle possibili strategie di intervento (prevenzione e trattamento); i dati disponibili sul paziente pediatrico sono molto limitati. Per prevenire la lipoatrofia, evitare l’uso di stavudina e zidovudina o sostituire preventivamente questi farmaci, sono opzioni suggeribili. Per controllare la lipoatrofia, è preferibile sostituire gli analoghi timidinici (NRTI) con abacavir o un regime terapeutico risparmiante gli NRTI. Per prevenire la lipoipertrofia, non esiste una strategia di provata efficacia. Gli interventi farmacologici sperimentati nell’adulto non hanno dimostrato un’efficacia a lungo termine e possono indurre nuove complicanze. Per il controllo della dislipidemia: l’impiego di statine è raccomandato in bambini di età ≥ 10 anni con livelli di LDL-colesterolo > 190 mg/dl o 160 mg/dl e storia familiare positiva per precoci eventi cardiovascolari. L’impiego di fibrati è raccomandato per bambini di età ≥ 10 anni con livelli di trigliceridi compresi tra 700 e 1000 mg/dl. Le modifiche dello stile di vita, quali l’incremento dell’esercizio fisico, l’adeguato apporto calorico, di macro e micronutrienti oltre all’astensione dal fumo e dal consumo di alcool sono fortemente raccomandabili. (Leonard e McComsey, 2005) Per prevenire la demineralizzazione ossea è utile la supplementazione con Vit D e una dieta appropriata. Conclusioni e prospettive per il futuro L’infezione da HIV è attualmente considerata una patologia cronica nei paesi occidentali, poiché in essi la disponibilità e l’impiego su larga scala delle terapie antiretrovirali ha dimostrato sostanziali benefici dal punto di vista clinico e immunologico, nonché nella prospettiva di vita dei pazienti infetti, paragonabile a quelli degli individui non infetti. Tuttavia, a fronte dei risultati positivi in termini di sopravvivenza libera da malattia e di miglior qualità di vita, le terapie HAART sono associate a numerosi effetti collaterali, che si sono resi tanto più manifesti, quanto più si è allungata la durata del loro impiego. Tali effetti collaterali si manifestano a carico del sistema cardiovascolare, del rene, dell’osso e come sindrome lipodistrofica. Alla luce di tali effetti collaterali il bambino HIV- infetto, per le co-morbosità a cui va incontro, dovrebbe essere preso in carico in centri specialistici, al fine di ricevere le terapie più consone e innovative e per una gestione appropriata. WHO ha posto come goal per il 2015 l’eradicazione della infezione da HIV in età pediatrica attraverso il trattamento delle donne gravide in tutto il mondo al fine di interrompere la trasmissione maternofetale. Nel paziente adulto ricercatori in tutto il mondo stanno studiando l’agognato vaccino preventivo contro l’HIV; gli ultimi trials mostrano un effetto preventivo incoraggiante ma ancora modesto (31%) nei confronti del virus. Inoltre prosegue lo sviluppo di vaccini che stimolano la risposta dei linfociti CD8+ citotossici in grado di uccidere lentamente le cellule infettate dal virus HIV. Nuovi farmaci antiretrovirali con minori effetti collaterali sono in fase di sperimentazione e nuove strategie terapeutiche che utilizzano due classi di farmaci antiretrovirali in pazienti trattati e virologicamente soppressi sono state proposte per diminuire gli effetti collaterali e alleggerire il carico farmacologico nei pazienti. Inoltre il ruolo della farmacogenetica per la personalizzazione della terapia antiretrovirale, il problema dei reservoirs, il monitoraggio nelle comorbilità sono i recenti target nella lotta all’AIDS da sviluppare nel prossimo futuro. Ma è la prevenzione dei comportamenti a rischio che rimane il goal nella lotta all’AIDS accanto all’eradicazione del “sommerso”: purtroppo, in Italia, circa la metà delle persone con diagnosi recente scopre l’infezione a uno stadio avanzato, quando il virus ha già prodotto danni consistenti al sistema immunitario e il numero assoluto dei linfociti CD4+ è molto basso. Il ritardo della diagnosi è in rapporto con il cosiddetto “sommerso”, stimato oggi tra il 15% e il 25% di tutta la popolazione HIV-positiva vivente in Italia, rappresentato dai soggetti inconsapevoli del proprio stato d’infezione, che ritardano o non eseguono il test. È la conseguenza 33 V. Giacomet et al. della bassa percezione del rischio d’infezione, tipico nella popolazione sessualmente attiva ed in particolare di una fascia della popolazione che comprende gli adolescenti ed i giovani adulti. Il ritardo di diagnosi ha diverse conseguenze: riduce l’efficacia della terapia; aumenta la probabilità di una progressione clinica; au- menta la probabilità di trasmissione dell’infezione. Un accesso precoce a diagnosi e terapia comporta benefici clinici (maggiore efficacia, migliore recupero immunologico, ridotta mortalità) ma anche epidemiologici, con conseguente ridotto numero di nuove infezioni e ridotta prevalenza della infezione da HIV. Box di orientamento • L’infezione da HIV in età pediatrica è oggi una malattia cronica grazie alla disponibilità di terapie altamente efficaci. • La prevenzione della trasmissione dell’infezione da madre a feto inizia durante la gravidanza con la terapia materna, prosegue al momento del parto e dopo la nascita con la profilassi al neonato e l’allattamento artificiale esclusivo. • Nei paesi a risorse economiche limitate sono necessarie strategie di diffusione della cultura della prevenzione, interventi dedicati alla diagnosi precoce di HIV nelle donne e a garantire una maggiore disponibilità di farmaci antiretrovirali. • È fortemente raccomandato trattare tutti i lattanti HIV-infetti di età inferiore ai 12 mesi di vita con idonea terapia antiretrovirale. I bambini di età superiore a 12 mesi devono iniziare un terapia antiretrovirale sulla base di criteri clinici ed immuno-virologici. • La terapia antiretrovirale nel bambino deve comprendere almeno 3 farmaci: la scelta si basa sui dati di efficacia e sicurezza in età pediatrica, sulla disponibilità di formulazioni adeguate, sulle eventuali farmacoresistenze e sull’aderenza alla terapia stessa. • La terapia antiretrovirale altamente efficace ha effetti collaterali a breve e lungo termine anche in età pediatrica: un adeguati follow-up in centri specialistici è fondamentale. • Il futuro dell’infezione da HIV in età pediatrica è l’azzeramento delle infezioni acquisite per via verticale. Non bisogna però dimenticare il presente: è sempre necessaria una costante attenzione alla prevenzione dei comportamenti a rischio per acquisizione dell’infezione. Bibliografia Birkhead GS, Pulver WP, Warren BL, et al. Progress in prevention of mother-tochild transmission of HIV in New YorkState: 1988-2008. 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La presenza di polmonite atipica o resistente agli antibiotici, sintomi respiratori di lunga durata, reperti radiografici tipici o a lenta progressione e quadri clinici suggestivi di forme sistemiche o extrapolmonari devono far sorgere il sospetto di TB. La diagnosi nei bambini si basa tradizionalmente sull’intradermoreazione secondo Mantoux, sulla radiografia del torace e la colorazione e coltura dei micobatteri. La microbiologia è sempre stata il principale ostacolo per confermare la diagnosi di TB in età pediatrica. Negli ultimi dieci anni nuove strategie diagnostiche sono state proposte per migliorare la raccolta dei campioni da bambini (es. espettorato indotto), la sensibilità dei test microbiologici (metodi batteriologici e molecolari) e l’identificazione di resistenze farmacologiche. Recentemente, i test di rilascio di interferone - gamma (IGRA) sono stati introdotti per uso clinico in età pediatrica. Questi test sono utili per escludere una falsa positività alla Mantoux (es. vaccinazione BCG), confermano o escludono l’infezione, ma non forniscono il supporto per la diagnosi di malattia attiva. La corretta identificazione dei campioni per la conferma batteriologica, attraverso la coltura e per altri metodi di rilevazione del DNA molecolare, rimane fondamentale ai fini diagnostici. Il test Xpert MTB/RIF consente in breve tempo di identificare il micobatterio e le resistenze alla rifampicina e rappresenta uno strumento diagnostico pratico e utile, in grado di guidare la diagnosi e il trattamento. Recenti linee guida hanno aggiornato l’approccio terapeutico anche nei bambini che vivono in aree a bassa incidenza, dove il regime a 4 farmaci è indicato in casi a maggior rischio e se il pattern di resistenze non è noto. La diffusione di ceppi multiresistenti è in aumento in tutto il mondo (fino a circa 30% dei casi in zone endemiche). A causa della continua migrazione il sospetto deve restare alto anche in paesi considerati a bassa endemia. I pazienti affetti da TB multiresistente hanno un elevato rischio di failure terapeutico e decorso severo e necessitano di un trattamento specifico per almeno 1-2 anni; per tale motivo è necessario assicurare un inquadramento ed un rigoroso follow-up presso centri specialistici. Summary Tuberculosis (TB) is one of the 10 most frequent causes of death in the world. In Italy, a low incidence country, children are usually evaluated for tuberculosis because of presenting symptoms suggestive of disease or as a result of contact investigation. The presence of atypical or antibiotic-resistant pneumonia, the presence of slowly progressive and long lasting respiratory symptoms in children, suggestive radiographic findings and suggestive systemic or extrapulmonary features should suggest TB. TB diagnosis in children is traditionally based on tuberculin skin testing, (TST) chest radiography, and microbiological methods from specific samples. Microbiological has always been the most difficult problem to confirm TB diagnosis in children. Other diagnostic strategies have been proposed to improve sample collection from children (eg. induced sputum), sensitivity of microbiological tests (bacteriologic and molecular methods), and identification of drug resistance. Recently, immune-based diagnostics, such as the interferon-gamma release assays (IGRA), have been introduced in pediatric age. Although these tests may be helpful in excluding false-positive TST (eg. BCG vaccination), thereby certifying or excluding the infection state, they neither offer substantial improvements in sensitivity over TST in pediatric age, nor provide support to the diagnosis of active disease. Proper identification of samples for bacteriological confirmation through microscopy and culture and for other molecular DNA detection methods is important. The automated real-time nucleic acid amplification assay that can rapidly detect Mycobacteria and rifampicin resistance (Xpert MTB/RIF test) effectively leads to a diagnosis and treatment. The current guidelines upgraded the therapeutic approach also in children living in low-incidence areas, where the 4-drugs regimen may be also indicated in at-risk patients and if sensitivity to drugs is unknown. Spreading of multiresistent strains is increasing worldwide (up to 30% in endemic areas) due to the continuous migration. Due to the high risk of treatment failure and severe outcomes, all children affected by multiresistant TB should receive specific and long-lasting antibiotic therapy (at least 1-2 years) and close follow-up in center specialized for pediatric TB. Parole chiave: Tubercolosi, Mantoux, Test Gamma Interferonici, Intradermoreazione Key words: Tubercolosi, Tubercolin skin test, Mantoux, IGRA Metodologia della ricerca bibliografica effettuata Questa review si propone di illustrare le novità circa la diagnosi e il trattamento della tubercolosi in età pediatrica. La ricerca degli articoli rilevanti è stata condotta attraverso la banca bibliografica Medline utilizzando il motore di ricerca Pubmed. Le parole chiave utilizzate sono state: “tuberculosis; management; child; diagnosis; Mantoux; tubercolin skin test; interferon gamma release assay; therapy OR treatment”. I limiti utilizzati sono stati: “ages = all child: 0-18 years; language: English; type of articles: clinical trials, RCT, metanalisis; reviewes; dates: last 5 years”. Studi 36 rilevanti e linee-guida utili alla revisione sono stati utilizzati anche se antecedenti al 2008. Perché parlare ancora di tubercolosi? La tubercolosi (TB) rappresenta ancora oggi una delle 10 cause più frequenti di morte nel mondo; è una malattia infettiva sostenuta da Mycobacterium tuberculosis complex, trasmessa per via aerea e responsabile di forme polmonari ed extrapolmonari di malattia. Il Global Tubercolosis Report fornisce i dati epidemiologici nel mondo Aggiornamenti e nuove frontiere nella tubercolosi in età pediatrica ed in Italia. Si stima che il numero globale di nuovi casi di TB tra i bambini nel mondo sia di 349.000 nel 2012 (WHO, 2013). In Italia 4100 sono i nuovi casi del 2012 con una prevalenza pari a 5700 con un tasso di mortalità pari allo 0.46% (esclusi i pazienti HIV). L’aumento dell’incidenza in età pediatrica negli ultimi 10 anni è legato a diversi fattori: • l’aumento dell’immigrazione da paesi endemici; • l’aumento dei pazienti immunodepressi (infezione da HIV, farmaci immunosoppressori, biologici e chemioterapici); • l’aumento dei ceppi di Mycobacterium tuberculosis resistenti alle terapia di prima linea; • l’abolizione delle infrastrutture dedicate al controllo della TB. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato che, nel 2010, si sono verificati a livello globale 650.000 nuovi casi di TB multi-resistente (MDR-TB). Si definisce MDR-TB un’infezione sostenuta da Mycobacterium tuberculosis complex, resistente ai due più efficaci farmaci di prima linea: rifampicina e isoniazide. Secondo il report del WHO del 2012, al livello mondiale nel 3,7% dei nuovi casi e nel 20% dei casi precedentemente trattati si tratta di MDR-TB. Nel 2011 sono stati stimati 310.000 casi (range 220.000-400.000) di MDR-TB tra i pazienti con TB polmonare, quasi il 60% dei quali in India, Cina e Federazione Russa. L’ Europa dell’Est e l’Asia centrale continuano quindi a rappresentare hot spots per MDR-TB. In base al report 2013 dell’European Center for Disease Control, 78000 casi di TB-MDR sono stati segnalati nella regione europea nel 2011. La prevalenza di MDR varia significativamente in base all’area. Nell’Unione Europea, ad eccezione della Lituania (11%) ed Estonia (23%), il tasso riportato è inferiore al 5%. Tuttavia in zone esterne all’Unione Europea vengono riportati tassi significativamente più elevati: Belarus (26%), Moldavia (26,0%), Kazakistan (30,3%), Uzbekistan (35,1%) and Tajikistan (44,7%). (ECDC/WHO, 2013) I ceppi di Mycobacterium definiti come XDR sono ceppi MDR resistenti anche ai fluorochinoloni e ad almeno uno dei farmaci iniettabili di seconda linea (capreomicina, kanamicina e amikacina). La valutazione delle resistenze a farmaci di seconda linea non è ancora largamente diffusa sul territorio e riservata solo a pochi centri ultraspecializzati. Sulla base dei dati disponibili in Europa circa 10% dei ceppi MDR sono risultati essere XDR. La Società Italiana di Infettivologia Pediatrica ha creato nel 2013 il Registro Nazionale per la TB in età pediatrica. I dati (al momento non ancora pubblicati) permetteranno di studiare dettagliatamente l’epidemiologia, la distribuzione, la gestione e gli esiti di malattia nel nostro paese. Quando sospettare la tubercolosi? La TB in età pediatrica ha connotazioni specifiche che la differenziano da quella dell’adulto (Tab. I). Il sospetto di tubercolosi in età pediatrica può essere correlato a: • un sospetto clinico (quadro clinico o radiologico suggestivo di malattia tubercolare); • un sospetto epidemiologico (legato alla probabile esposizione a casi di tubercolosi, provenienza da paesi endemici o presenza di fattori di rischio sottostanti); • un sospetto sociale (correlato a condizioni sociali di sovraffollamento, istituzionalizzazione, basso livello socio-economico). Gran parte dei casi derivano da una indagine epidemiologica per un contatto noto (di solito adulto). Quest’ultima evenienza, tra le cause più comuni di diagnosi in paesi a bassa endemia, riguarda bambini in buono stato di salute risultati positivi allo screening per contatto diretto e prolungato con un soggetto con diagnosi accertata di TB. Tabella I. Peculiarità della tubercolosi nell’età pediatrica. Maggiore e più rapida tendenza all’evoluzione dell’infezione in malattia Decorso più rapido della malattia Alta incidenza di forme extrapolmonari Minore carica batterica Bassa incidenza di forme cavitarie Radiologia aspecifica/atipica Elevata frequenza in associazione con immunodeficienze Minori effetti collaterali dei farmaci Difficoltà diagnostiche correlate ad una più alta incidenza di anergia cutanea, ad una minore affidabilità dei test IGRA ed all’incapacità del bambino ad espettorare Nei bambini il rischio di progressione a malattia è pari al 40% nel primo anno di vita e si riduce progressivamente fino a raggiungere in età scolare il valore dell’adulto (circa 10%). La progressione a malattia avviene, principalmente, nei 12 mesi successivi all’infezione (Marais et al., 2004; Newton et al. 2008). Secondo l’American Academy of Pediatrics vanno distinti tre quadri clinico-laboratoristici, come indicato nella tabella II. Valutazione clinica L’infezione tubercolare in bambini che vivono in paesi a bassa endemia come l’Italia va sospettata essenzialmente in due condizioni (non esclusive tra loro): la presenza di condizioni di rischio sociale/ familiare/epidemiologico che possano aver esposto il bambino, anche se asintomatico, ad un elevato rischio di infezione e la presenza di sintomi e segni di tipici di malattia tubercolare, anche in soggetti ritenuti a basso rischio. Un’anamnesi accurata è essenziale per la caratterizzazione dei sintomi (Marais et al., 2006). I segni clinici sono spesso subdoli e cambiano sensibilmente con l’età del bambino, essendo molto aspecifici nel bambino più piccolo e diventando, in età adolescenziale, progressivamente simili a quelli dell’adulto. Ad oggi, nessun punteggio di valutazione diagnostica è stato adeguatamente validato in età pediatrica (Hesseling et al., 2002). La TB polmonare resta in tutto il mondo la più frequente localizzazione di malattia tubercolare in età pediatrica. Dati retrospettivi sia negli Stati Uniti che in Italia dimostrano che le forme polmonari coprono circa il 70-75% delle localizzazioni di malattia (Winston et al., 2012; Buonsenso, 2012). La diagnosi di TB va specificamente ricercata in bambini in cui si riscontrano i seguenti quadri clinici: • Tosse persistente, non remittente soprattutto se di durata superiore a 4 settimane; • Presenza di altri segni e sintomi respiratori suggestivi come emottisi, dolore toracico o dispnea ingravescente; • Polmonite con pleurite, polmonite con quadri radiologici suggestivi di TB (miliare, escavazioni, linfoadenopatie mediastiniche) o presenza di calcificazioni polmonari e/o linfonodali ilo-mediastiniche; • Polmonite resistente a terapia antibiotica di prima linea e/o polmoniti recidivanti; • Quadro clinico di lunga durata con febbre (soprattutto serotina), calo ponderale, sudorazione notturna; • Segni respiratori aspecifici associati ad uno o più fattori di rischio (Tab. III); 37 F. Tucci et al. Tabella II. Quadri clinico-laboratoristici proposti dall’American Academy of Pediatrics. Esposizione Bambino che ha di recente avuto un contatto con un caso sospetto o confermato di malattia polmonare tubercolare, che ha una Mantoux o un test IGRA negativo, esame clinico negativo, e radiografia del torace non compatibile con tubercolosi. Infezione tubercolare latente (LTBI) Bambino che ha una Mantoux o un test IGRA positivo, ma nessuna evidenza clinica o radiologica di malattia tubercolare attiva. Sono inclusi in questa categoria pazienti con segni di malattia pregressa (calcificazioni parenchimali e/o linfonodali ilari). Malattia tubercolare Bambino con infezione tubercolare (Mantoux e/o IGRA positivi), in cui siano presenti segni clinici e/o radiologici di malattia tubercolare (polmonare, extra polmonare o entrambe). Tabella III. Fattori di rischio da correlare a quadri clinici aspecifici. Fattori di rischio sociale e/o demografico Provenienza, o storia di viaggi in aree geografiche ad alta endemia (Est Europa, Africa, America Latina, Asia). Basso livello socio-economico, sovraffollamento e/o provenienza da aree regionali in cui sono stati riportati cluster di casi. Istituzionalizzazione del bambino. Contatto familiare con adulti o anziani con immunodeficienza accertata e tosse cronica. Fattori di rischio clinico Immunodeficienze primitive o acquisite (terapie immunosoppressive, neoplasie, IRC, infezione da HIV). Malattie croniche e malnutrizione. Le forme extra polmonari sono significativamente più frequenti in età pediatrica rispetto all’età adulta e rappresentano circa il 20% dei casi di TB. Tali forme sono più comuni nel bambino più piccolo (lattanti ed età prescolare) che ha un rischio più elevato di disseminazione dell’infezione. Senza dubbio la forma linfonodale è quella più comune, ma è possibile riscontrare in età pediatrica lesioni ossee (soprattutto a livello vertebrale), forme laringee e bronchiali, malattia infiammatoria cronica intestinale. Una delle localizzazioni più gravi di TB extrapolmonare è la meningite tubercolare, che è correlata ad un elevato tasso di mortalità e sequele neurologiche a lungo termine; solitamente si presenta con liquor limpido, pleiocitosi linfocitaria, ipoglicorrachia ed iperproteinorrachia. La Mantoux: quando praticarla? Gold in tube (QFT-GIT), che valuta tramite ELISA la produzione di IFN-γ da parte dei linfociti T sensibilizzati in vitro nei confronti di tre antigeni tubercolari (ESAT- 6, CFP-10, TB7.7) e il T-Spot-TB (ELISPOT) che rileva, invece, le cellule effettrici T che secernono IFN-γ in risposta ad attivazione mediante due dei precedenti antigeni tubercolari (ESAT-6 e CFP-10). In questo caso il dosaggio viene effettuato contando gli spot su diversi pannelli antigenici. Questa seconda metodica, seppur abbia dei vantaggi in termini di sensibilità rispetto alla Mantoux ed al QFT-GIT, resta maggiormente operatore-dipendente (Ling et al., 2011). Poiché gli antigeni utilizzati per la stimolazione linfocitaria vengono persi durante la purificazione del batterio nel vaccino BCG, i test IGRA non sono influenzati dalla vaccinazione. Inoltre questi test sono meno influenzati dall’esposizione ai MOTT. L’Intradermoreazione secondo Mantoux (Fig. 1) rappresenta ancora il test principale per la diagnosi di infezione tubercolare. Le indicazioni e l’interpretazione della Mantoux sono riassunte rispettivamente nelle tabelle IV e V (American Academy of Pediatrics, 2009). Circa il 10% dei soggetti con coltura positiva per Mycobacterium tuberculosis ha, almeno inizialmente, una Mantoux negativa. Questo fenomeno è legato alla lenta positivizzazione della Mantoux in 2-10 settimane ed alla possibile immunosoppressione secondaria all’infezione, responsabile di anergia cutanea. La Mantoux può essere falsamente positiva fino al 40% dei pazienti che hanno ricevuto vaccino di Calmette-Guerin (BCG) o che hanno contratto infezione da Micobatteri atipici (Mycobacterium other than tuberculosis - MOTT). La positività dell’intradermoreazione è sufficiente a definire la diagnosi di infezione tubercolare (anche se va considerata la possibilità di Mantoux positiva per vaccinazione); tuttavia la clinica e la radiologiasono indispensabili per la diagnosi di malattia. La diagnostica di laboratorio: che cosa c’è di nuovo? I test Interferon Gamma Release Assay (IGRA) studiano la risposta immune di tipo cellulo-mediato ad antigeni specifici del M. tuberculosiscomplex. Attualmente esistono due differenti test IGRA:il QuantiFERON-TB 38 Figura 1. La Mantoux va effettuata attraverso l’introduzione per via intradermica di 5U di PPD. Dopo 48-72 ore si effettua la misurazione del diametro longitudinale (A-B) dell’indurimento dermico (e non dell’eritema) con il calibro di Vernier (C-D). Il diametro è delimitato dall’interruzione dello scalino causata dall’indurimento. Aggiornamenti e nuove frontiere nella tubercolosi in età pediatrica Tabella IV. Indicazioni a praticare la Mantoux. Contatto con pazienti affetti da tubercolosi contagiosa Infezione da HIV Screening pre-terapia con farmaci immunosoppressori Quadri clinico-radiologici suggestivi: • Polmonite di lunga durata/resistente a terapia o se versamento pleurico • Emottisi • Presenza di caverne/calcificazioni • Atelettasia del lobo medio Febbre e/o tosse cronica +/- perdita di peso in particolare se: • Provenienza da aree geografiche ad alta endemia (Asia, Africa, America Latina ed Est Europa); • Storia di viaggi in paesi ad alta endemia; • Istituzionalizzazione del bambino I test IGRA sono stati studiati sia per le forme attive che per le forme latenti, in diverse aree geografiche, ma le evidenze sulla specificità e sensibilità del test sono ancora limitate e gran parte degli studi sono stati effettuati in pazienti adulti e/o ad alto rischio. Per le forme attive, una metanalisi del 2011 condotta su una popolazione pediatrica (Sun et al., 2011) ha evidenziato che la Mantoux e i test IGRA hanno valori di sensibilità simili [ELISA (85%); ELISPOT (76%); Mantoux (85%)] mentre la specificità degli IGRA è nettamente maggiore [ELISA (100%) ed ELISPOT (90%)] della Mantoux (56%), in particolare nei bambini vaccinati con BCG. Per tale motivo i test IGRA dovrebbero essere utilizzati per confermare i casi con Mantoux positiva in aree con alta incidenza di infezioni da micobatteri non tubercolari o di alto tasso di vaccinazione BCG. Per la diagnosi delle forme latenti, allo stesso modo, esiste un’alta discordanza tra i test IGRA e la Mantoux [ELISA (99,4%); ELISPOT (98%); Mantoux (88,7%)]. Pertanto l’elevata specificità potrebbe essere utile nel ridurre il numero di pazienti pediatrici a basso rischio che ricevono la terapia preventiva a causa di Mantoux falsamente positive (Diel et al., 2011). I test inoltre non sono standardizzati nei lattanti e bambini di età inferiore ai 2 anni; per tale motivo non vanno utilizzati routinariamente in questi bambini. Infine è stata valutata l’utilità dei test IGRA nel monitoraggio della terapia antitubercolare, ma attualmente sembra avere solo un significato speculativo (Chiappini et al., 2012). I profili di sensibilità e specificità in bambini immunocompromessi non sono ancora chiari (Bruzzese et al., 2009). Tabella V. Interpretazione della Mantoux secondo l’American Academy of Pediatrics. • Positività ≥ 5 mm Bambini in contatto con casi contagiosi di TBC Bambini con sospetta malattia tubercolare Bambini immunodepressi o con HIV • Positività ≥ 10 mm Bambini ad alto rischio di malattia disseminata (età <4 anni, malattie croniche) Bambini con aumentato rischio di esposizione ambientale • Positività ≥ 15 mm Bambini di età >4 anni senza fattori di rischio Questi test non sono quindi routinariamente indicati per la diagnosi di infezione tubercolare in età pediatrica. Tuttavia, considerando i vantaggi ed i limiti della tecnica (Tab. VI), il Center for Disease Control ha delineato alcune indicazioni all’uso di questi test (Mazurek et al., 2010): • in sostituzione alla Mantoux, nei soggetti vaccinati con BCG e nei soggetti con alto rischio di mancato ritorno per lettura cutanea; • in associazione alla Mantoux, nei bambini con Mantoux negativa ed alto rischio di infezione (contatto con TB noto) e/o progressione di malattia (età inferiore a 5 anni, o immunodeficit); • in caso di Mantoux positiva, per identificare un’infezione causata da MOTT. Ad oggi solo uno studio italiano ha dimostrato la capacità di distinguere fra forme latenti ed attive in età pediatrica (Chiappini et al., 2012). Si basa sull’utilizzo di una variante del test ELISPOT che valuta sia la secrezione di IFN-γ sia di IL2 in risposta all’attivazione mediante l’antigene AlaDH. È stata osservata una sensibilità del 100% e una specificità dell’81%. Probabilmente tale risultato è legato all’utilizzo di AlaDH, la cui espressione sembrerebbe alterata nell’infezione latente dove il micobatterio necessita di adattarsi e sopravvivere in condizioni di anaerobiosi. La diagnostica radiologica La radiografia del torace, in entrambe le proiezioni anteroposteriore e latero-laterale (Perez-Velez et al., 2012), è ampiamente utilizzata per distinguere l’infezione da malattia polmonare tubercolare. I quadri radiologici di TB in età pediatrica sono estremamente eterogenei e correlati all’età. Sono comuni coinvolgimenti parenchimali modesti e aspecifici (polmonite lobare o interstiziale), ma si possono riscontrare quadri più tipici di malattia tubercolare, con presenza di linfadenopatia mediastinica, cavitazioni, versamento pleurico, presenza di calcificazioni, o coinvolgimento multilobare ed in particolare dei lobi inferiori (Wong et al., 2010). La tomografia computerizzata (TC) non rientra nella diagnostica radiologica di routine. Può essere tuttavia indicata nei casi in cui un forte sospetto clinico di malattia si associa ad un Rx negativa. Inoltre la TC può essere utile per quadri polmonari scarsamente responsivi al trattamento di prima linea, forme complicate e con interessamento linfonodale ilare. La diagnostica radiologica può essere di supporto nell’identificare e caratterizzare la malattia tubercolare d’organo (es. coinvolgimento osteoarticolare o cerebrale). La TC e la RM sono utili per diagnostica- 39 F. Tucci et al. Tabella VI. Vantaggi e limiti nell’utilizzo dei test IGRA. Vantaggi Limiti Non necessita del ritorno del paziente per la lettura cutanea. Costi elevati. Maggiore specificità per mycobacterium tuberculosis rispetto ai micobatteri non tubercolari. Lavorazione del campione entro 8-30 ore dal prelievo ematico (preferibilmente entro 2 ore). Possibilità di distinguere pazienti affetti da soggetti vaccinati con BCG. Scarsa affidabilità ed accuratezza nei bambini <5 anni. Probabile utilità in pazienti immunosoppressi con anergia cutanea. Necessità di specifica expertise per la lettura dell’ELISPOT-TB. re forme muscolo-scheletriche ed articolari (es. coinvolgimento vertebrale nel morbo di Pott) e per monitorarne la risposta alla terapia. Nel caso di interessamento del sistema nervoso centrale, nonostante l’esame del liquor resti indispensabile per la diagnosi eziologica, la RM permette l’identificazione del coinvolgimento meningeo, di microascessi cerebrali da disseminazione miliare o di tubercoloma cerebrale (Andronikou et al., 2009). Seppur non rientrino strettamente nelle tecniche di imaging radiologico, gli esami endoscopici posso essere estremamente utili nella diagnostica delle malattie tubercolari extrapolmonari. L’invasività di tali esami permette, non solo di evidenziare in modo diretto il coinvolgimento d’organo, ma soprattutto di prelevare campioni di mucosa e secrezioni su cui effettuare la diagnostica microbiologica e molecolare (endoscopia digestiva e broncoscopia). La diagnostica microbiologica Le indagini microbiologiche sono orientate ad identificare la presenza diretta del Mycobacterium (colorazione e PCR) o a dimostrarne la crescita su terreni di coltura specifici. La ricerca microbiologica del Mycobacterium Tuberculosis complex può essere effettuata su differenti campioni biologici in base alla localizzazione dell’infezione (secrezioni respiratorie, liquor, liquido di lavaggio alveolare o di drenaggio ascessuale, urine etc…). Tuttavia anche in condizioni ottimali, è possibile isolare microbiologicamente il Mycobacterium in meno della metà dei casi pediatrici di tubercolosi. Questo è legato da un lato alla quasi totalità di forme primarie in età pediatrica e dall’altro alla difficoltà di recuperare materiale biologico idoneo. Il gold standard della ricerca microbiologica rimane l’esame colturale su terreni solidi e liquidi che richiede però tempi più lunghi (2-6 settimane). In presenza di una positività colturale è necessario in ogni caso procedere all’identificazione del ceppo e al relativo antibiogramma. La colorazione specifica (colorazione di Zihel-Neelsen) per la ricerca del Mycobacterium (o esame diretto) ha il vantaggio della rapidità della risposta, ma ha una sensibilità molto bassa e direttamente connessa alla carica batterica. Se infatti la carica batterica nell’espettorato o nell’aspirato gastrico risulta bassa, la colorazione risulterà molto probabilmente negativa e solo la coltura permetterà l’identificazione del batterio e la sua tipizzazione. L’aspirato gastrico rappresenta lo standard per la ricerca microbiologica in età pediatrica. Una delle principali barriere a tale metodica è la necessità di effettuare 3 aspirati gastrici in giorni differenti ed in regime di ricovero, in modo da effettuare il lavaggio al mattino al risveglio. Dati recenti riportano un buon yield diagnostico dell’aspirato gastrico praticato in regime ambulatoriale. In questi pazienti la sensibilità diagnostica cumulativa di esame diretto e coltura su due campioni prelevati in giorni consecutivi raggiunge in alcune casistiche il 33% (Mukherjee et al., 2013). Una valida alternativa per ottenere materiale biologico nei bambini più grandi, collaboranti e capaci di espettorare è rappresentata 40 dall’espettorato indotto, ovvero la raccolta dell’espettorato attraverso una stimolazione aereosolica con soluzioni saline ipertoniche al 3%. La validità diagnostica di questa tecnica è variabile: alcuni lavori hanno riportato uno yield diagnostico cumulativo (colorazione e coltura) superiore all’aspirato gastrico (87% vs 67%) (Zar et al., 2005). I metodi molecolari hanno apportato nuovi importanti opzioni per la diagnosi, per la loro sensibilità, specificità e rapidità di elaborazione. Il test Xpert MTB/RIF è un saggio di amplificazione genica in realtime che permette di identificare il micobatterio e la resistenza alla rifampicina (Lawn et al., 2013). I maggiori vantaggi di Xpert MTB/RIF rispetto alla diagnostica tradizionale sono: • la possibilità di rilevare contemporaneamente sia il genoma di M. tuberculosis che il gene che codifica per la resistenza del micobatterio alla rifampicina; • la rapidità di risposta (due ore) che consente di porre la diagnosi ed iniziare la terapia nello stesso giorno; • la possibilità di essere utilizzato con minime precauzioni di biosicurezza. Le performance di Xpert MTB/RIF in ambito pediatrico sono meno note, rispetto agli adulti. In due dei pochi studi disponibili su bambini, la sensibilità rispetto al colturale di Xpert MTB/RIF su due campioni di escreato indotto è risultata del 76%, mentre quella su aspirato gastrico del 65% (Zar et al., 2013). Approccio alla terapia Nella tubercolosi è valido il dogma “nel dubbio tratta”. I tassi di conferma microbiologica di malattia rimangono bassi, ma l’inizio del trattamento non dovrebbe essere rimandato nei bambini sintomatici. In base alle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 2010, il regime terapeutico a 4 farmaci è raccomandato per una vasta popolazione di pazienti affetti (Tab. VII) (WHO, 2010). I bambini con tubercolosi polmonare sospetta o confermata o con linfadenite periferica che vivono in aree ad alta prevalenza di HIV o in ambienti ad alta resistenza all’isoniazide devono essere trattati con 4 farmaci. Lo stesso schema terapeutico va adottato anche per i bambini esposti a ceppi multiresistenti, per coloro che presentano un’importante compromissione polmonare e/o malattie croniche sottostanti o che presentano un esame diretto dell’espettorato positivo (alta carica batterica) (Getahun et al., 2012). Il regime a tre farmaci (senza l’etambutolo) può essere utilizzato per i bambini HIV-negativi con tubercolosi polmonare sospetta o confermata o linfadenite tubercolare che vivono in ambienti a bassa endemia di HIV o con bassa resistenza all’isoniazide. L’eccezione è la TB che interessa il sistema nervoso centrale e l’apparato osteoarticolare per i quali la durata del trattamento è di 12 mesi con un regime a 4 farmaci per i primi 2 mesi, seguito da isoniazide e rifampicina per i successivi 10 mesi. Aggiornamenti e nuove frontiere nella tubercolosi in età pediatrica Tabella VII. Principali schemi terapeutici adottati. QUADRO CLINICO TERAPIA D’ATTACCO DURATA Tubercolosi latente (LTBI) Isoniazide 6-9 mesi Tubercolosi polmonare non complicata Rifampicina Isoniazide Pirazinamide 2 mesi Rifampicina Isoniazide 4 mesi Tubercolosi polmonare complicata Rifampicina Isoniazide Etambutolo Pirazinamide 2 mesi Rifampicina Isoniazide 4 mesi Tubercolosi linfonodale cervicale Rifampicina Isoniazide Pirazinamide 2 mesi Rifampicina Isoniazide 4 mesi Sebbene la frequenza di somministrazione trisettimanale abbia risultati migliori rispetto ad una frequenza bisettimanale, i bambini che vivono con soggetti HIV dovrebbero ricevere un regime farmacologico giornaliero contenente la rifampicina (WHO, 2010). Recentemente è stato rivisto il dosaggio dei farmaci antitubercolari raccomandato per il trattamento e la profilassi (Tab. VIII). Sono assenti formulazioni farmacologiche “a misura di bambino” e le preparazioni farmacologiche sono in gran parte basate sui dosaggi degli adulti. Il rischio di fluttuazioni nel dosaggio effettivo dei farmaci richiede lo sviluppo di combinazioni specifiche per l’età pediatrica. Il trattamento delle forme MDR-TB, la cui gestione deve essere affidata completamente ai centri specialisti, è legato al pattern specifico di resistenze e basato sull’antibiogramma. Recenti dati riportano alti tassi di resistenza all’isoniazide in età pediatrica (Yuen et al., 2013), che espongono a due importanti rischi: l’inefficace profilassi di bambini LTBI (Tab. II) che rischiano di progredire a malattia e l’impostazione erronea di poli-antibioticoterapie basate solo sui test di resistenza alla rifampicina. Le Linee Guida del 2011 (Al-Dabbagh et al., 2011) prevedono che i bambini con MDR-TB siano trattati con i farmaci di prima linea a cui il ceppo di M. tuberculosis è suscettibile, tra cui la streptomicina, la pirazinamide e l’etambutolo (tenendo presente che questo ultimo è battericida a dosi più elevate - fino a 25 mg /kg) in associazione ad almeno un aminoglicoside per via parenterale (streptomicina; kanamicina; amikacina; capreomicina) ed un fluorochinolonico di ultima generazione (ciprofloxacina; ofloxacina; levofloxacina; moxifloxacin). A seconda della gravità della malattia e degli effetti avversi, i farmaci somministrati per via parenterale devono essere somministrati per almeno 4 a 6 mesi mentre la durata totale del trattamento, da effettuare giornalmente, dovrebbe essere di 12-18 mesi dopo la negativizzazione delle colture (negli XDR anche 24 mesi) (Shah et al., 2012). Tutti i pazienti con MDR-TB dovrebbero essere trattati con la terapia direttamente osservata (DOT), eliminando così una delle principali cause di resistenza e garantendo l’aderenza del paziente alla terapia. Indipendentemente dal trattamento, tutti i pazienti con infezione da MDR o XDR-TB dovrebbero essere seguiti per almeno 2 anni. Sebbene sia stato riscontrato che il successo del trattamento precoce dei MDR-TB e XDR-TB in età pediatrica sia elevato, con un tasso di guarigione del 80-95%, è necessario implementare la ricerca nei confronti di nuovi farmaci. A tal proposito Gler et al. (2012) hanno riportato i risultati di uno studio su un nuovo farmaco, un nitro-diidro-imidazooxazolo, dela- TERAPIA DI PROSEGUIMENTO DURATA / manid, attivo contro i ceppi di Mycobacterium tuberculosis resistenti agli agenti convenzionali. I pazienti con MDR-TB hanno ricevuto uno o due dosi di delamanid o un placebo corrispondente, insieme con un regime di farmaci di seconda linea. La negativizzazione della cultura a 8 settimane è aumentata dal 30 % nel gruppo di controllo al 45 % nei gruppi trattati con delamanid. Uno studio su un altro farmaco, bedaquilina, ha mostrato che i tassi di risposta in otto settimane nei pazienti trattati con bedaquilina erano simili a quelli tra i pazienti che ricevono delamanid nello studio di Gler et al. (48% e 45%, rispettivamente), ma i tassi di risposta nel gruppo placebo sono stati sostanzialmente inferiori nel trial con bedaquilina rispetto al delamanid (9 % vs 30%). Le differenze nelle popolazioni di studio e nella definizione dei punti finali potrebbero essere un motivo, ma l’inclusione di fluorochinoloni più potenti nel regime di fondo nel trial con delamanid è una spiegazione più giustificabile. Tali farmaci sono stati già approvati dalla FDA e, a breve, è prevista la commercializzazione anche in Italia: se pur saranno approvati per l’uso nell’adulto, rappresenteranno comunque un’importante opzione terapeutica anche in pediatria. La chemioterapia preventiva ottimale per i bambini esposti ad un contatto MDR XDR-TB non è standardizzata. Idealmente i test di suscettibilità provenienti dal caso indice dovrebbero essere usati anche per guidare la scelta di tali regimi terapeutici. La terapia farmacologica comprende la combinazione della pirazinamide e dell’etambutolo per 9-12 mesi, oppure, se non può essere utilizzato l’etambutolo, la pirazinamide ed un fluorochinolone da 6 a 12 mesi. Nei soggetti esposti a DR-TB di età superiore a 4 anni la terapia preventiva deve essere praticata, finché non viene praticato un secondo TST circa 8-12 settimane dopo dall’esposizione. Se il secondo TST è negativo, la terapia può essere interrotta mentre i bambini immunocompetenti di età inferiore ai 4 anni dovrebbero ricevere la chemioterapia preventiva dopo l’esposizione, indipendentemente dal risultato del TST. La profilassi può essere interrotta se il TST è negativo 8-10 settimane dopo l’esposizione, a condizione che non vi sia alcuna esposizione in corso. I bambini immunocompromessi (con infezione da HIV, in terapia con steroidi, ecc) devono iniziare la chemioterapia preventiva dopo l’esposizione (dopo l’esclusione della malattia TB), a prescindere dal risultato del TST o dall’età, visto che il TST non può escludere in modo affidabile l’infezione. Follow-up I pazienti in corso di terapia antitubercolare necessitano di un monitoraggio periodico (ogni 2 mesi) per la valutazione della risposta, 41 F. Tucci et al. Tabella VIII. Farmaci di prima linea per il trattamento della tubercolosi in età pediatrica. Farmaco Dose/Kg/die (range) Somministrazioni al giorno Dose massima giornaliera Isoniazide 10 mg (10-15) 1 300 mg Epatite; neuropatia periferica Rifampicina 15 mg (10-20) 2 600 mg Epatite; colorazione arancione delle secrezioni; interazioni con altri farmaci. Pirazinamide 35 mg (30-40) 2 2000 mg Epatite; artralgia. Etambutolo 20 mg (15 -25) 2 1600 mg Disturbi della vista (acuità visiva; discriminazione cromatica). della compliance e degli effetti collaterali del trattamento. L’aumento delle transaminasi di oltre 4 volte i valori di riferimento rappresenta un’indicazione alla sospensione e/o sostituzione di un farmaco. La prima valutazione andrebbe fatta a circa 2 settimane dall’introduzione della terapia allo scopo di modificare eventualmente il trattamento e studiare strategie alternative. Per i potenziali effetti collaterali dell’etambutolo a carico dell’occhio, è necessario un controllo oculistico pre-trattamento, per valutare l’acuità visiva e la discriminazione dei colori. Nelle forme di TB polmonare non complicata, il controllo radiografico andrebbe effettuato a termine del trattamento (entro due mesi dalla fine) ed eventualmente ad un anno per lo studio degli esiti, oppure durante il trattamento in caso di peggioramento clinico. I pazienti con infezione tubercolare non complicata vengono seguiti in followup per almeno 12-18 mesi dopo l’interruzione della terapia specifica. Nei casi di tubercolosi da ceppi MDR il follow-up deve essere più frequente ed affidato a centri specializzati. Vaccino Ancora oggi il bacillo di Calmette-Guérin (BCG), un vaccino vivo attenuato derivato dal Mycobacterium bovis, è l’unico vaccino disponibile in commercio per la prevenzione della tubercolosi. Il BCG è ampiamente utilizzato in paesi ad alta endemia, dove i neonati ricevono una singola dose intradermica. Purtroppo l’efficacia e la durata dell’effetto non sono ottimali. Recenti metanalisi hanno chiaramente riportato un’efficacia nella prevenzione delle forme meningee e disseminate di TB pediatrica. Tuttavia studi clinici controllati hanno riportato un’efficacia estremamente variabile per le forme polmonari (0-80%) (Behr, 2002; Hesseling et al., 2008; Dalmia et al., 2012). Diversi studi hanno dimostrato che dosi booster di vaccino BCG non ne aumentano la protezione contro la TB. Per la sua scarsa efficacia nel prevenire le forme polmonari, il BCG ha una limitata efficacia nel prevenire la diffusione dell’infezione tubercolare. La somministrazione di BCG resta in ogni caso sicura nei bambini per altro sani, ma può causare gravi infezioni disseminate in pazienti affetti da immunodeficienze primitive ed acquisite (BCGosi). Le indicazioni all’uso del vaccino in paesi a bassa endemia sono molto limitate (contatti di pazienti affetti), ma, come è evidente da quanto descritto in precedenza, avere un vaccino più sicuro ed effi- 42 Effetti avversi cace resta una esigenza mondiale. La pipeline di STOP-TB prevede lo sviluppo di 12 nuovi vaccini che possono “rinforzare” l’effetto iniziale del BCG (vaccini booster con vettori virali o adiuvanti), sostituire completamente il precedente vaccino (BCG ricombinante o con ceppi geneticamente attenuati) o ridurre la durata della terapia della TB (vaccino terapeutico) (Montagnani et al., 2014). Conclusioni e prospettive per il futuro La TB in età pediatrica è un problema riemergente anche in aree a bassa endemia come l’Italia, sia dal punto di vista clinico che di igiene pubblica. Purtroppo la scarsa diffusione di dati epidemiologici e l’aggiornamento professionale non può che ridurre la soglia di sospetto in ambito clinico e favorire la diffusione della malattia. Il futuro della ricerca scientifica nell’ambito della TB pediatrica dovrebbe essere focalizzato sui seguenti aspetti: • la standardizzazione dei percorsi diagnostici ed assistenziali, con lo sviluppo di reti formative che prevedano un aggiornamento periodico degli operatori sanitari e parasanitari; • lo sviluppo di test affidabili in grado di differenziare l’infezione dalla malattia tubercolare; • la definizione di protocolli sia infermieristici che laboratoristici, volte ad ottimizzare la raccolta e l’analisi di campioni biologici per l’isolamento del micobatterio; • la conduzione di trial clinici ad hoc per lo studio dell’efficacia delle terapie di seconda linea ed il trattamento di ceppi MDR; • lo sviluppo di algoritmi che tengano conto del management dell’infezione e della malattia, del peso dei fattori di rischio di tipo sociale; • Sperimentazione di nuovi vaccini in grado di ridurre la disseminazione della TB nel mondo. La Società Italiana di Infettivologia Pediatrica, in collaborazione con altre numerose società scientifiche con interessi specifici nella medicina dell’età evolutiva, dell’adulto e della prevenzione e sanità pubblica, sta elaborando le linee guida italiane nazionali per la gestione della tubercolosi in età pediatrica. La pubblicazione ed adeguata implementazione di questo documento porterà alla standardizzazione dei percorsi diagnostici ed assistenziali per la tubercolosi, migliorando le misure di prevenzione per la diffusione dell’infezione e gli outcomes clinici dei bambini. Aggiornamenti e nuove frontiere nella tubercolosi in età pediatrica Box di orientamento • Il sospetto di tubercolosi in età pediatrica deriva solitamente o da un quadro clinico suggestivo o da un’indagine epidemiologica per un contatto noto con un caso di tubercolosi. Un elemento di sospetto deriva dalla presenza di rischio sociale (immigrazione e presenza di malattia croniche). • Un’anamnesi accurata è essenziale per valutare la natura dell’esposizione e la caratterizzazione dei sintomi. I segni clinici sono spesso subdoli e, allo stato attuale, nessun punteggio di valutazione diagnostica è stato adeguatamente convalidato, in particolar modo nei pazienti ad alto rischio. • La conferma batteriologica dovrebbe essere sempre effettuata. Negli ultimi dieci anni, nuove strategie diagnostiche sono state proposte per migliorare la raccolta dei campioni da bambini (es. espettorato indotto), la sensibilità dei test microbiologici (metodi batteriologici e molecolari), e l’identificazione di resistenze farmacologiche. • I test di rilascio di interferone - gamma (IGRA) possono essere utili per escludere una falsa positività alla Mantoux (es. vaccinazione BCG) ma non forniscono il supporto per la diagnosi di malattia attiva. • La diffusione di ceppi multiresistenti è in aumento in tutto il mondo e raggiunge il 20-30% dei casi in zone endemiche. A causa dell’elevato rischio di failure terapeutico ed outcomes severi, tutti bambini affetti da TBC multiresistente devono ricevere una terapia antibiotica specifica e di lunga durata (almeno 1-2 anni) ed un rigoroso follow-up; pertanto è necessario affidarli ad un centro di riferimento per TB pediatrica. Bibliografia Al-Dabbagh M, Lapphra K, McGloin R, et al. 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E-mail: [email protected] 44 Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • Pp. 45-52 Infettivologia Pediatrica La gestione della meningite batterica Giulia Remaschi, Alessia Nucci, Chiara Tersigni, Melodie Aricò, Clementina Canessa, Francesca Lippi, Chiara Azzari, Luisa Galli Dipartimento di Scienze della Salute, Università di Firenze, Ospedale Pediatrico Anna Meyer, Firenze Riassunto Le meningiti batteriche rappresentano un’importante causa di mortalità e morbilità. L’introduzione di strategie preventive, tra cui le vaccinazioni contro alcuni degli agenti eziologici e la profilassi antibiotica intrapartum, ha permesso una notevole riduzione dell’incidenza di tale patologia. Il rapido riconoscimento dei sintomi e segni clinici, l’esecuzione precoce delle procedure diagnostiche e il tempestivo inizio della terapia antibiotica sono fondamentali per ridurre la mortalità e il rischio di sequele. Nel sospetto di una meningite batterica l’esame chimico-fisico e microbiologico del liquido cefalo-rachidiano resta il gold standard. Un corretto e approfondito esame obiettivo neurologico volto ad identificare la presenza di segni di ipertensione endocranica, talora con l’ausilio della radiodiagnostica, rappresenta un valido criterio per effettuare una puntura lombare in sicurezza. Nell’ultimo decennio la biologia molecolare su liquor e/o sangue ha apportato grandi vantaggi nella diagnosi di meningite batterica, permettendo rapidamente di individuare con una sensibilità e specificità molto elevate, l’agente eziologico coinvolto, anche quando si sia già intrapresa una terapia antibiotica empirica. L’esame colturale su liquor e/o sangue rimane, tuttavia, un esame fondamentale per la diagnosi nelle meningiti batteriche, in quanto permette di testare la sensibilità dell’agente patogeno ai chemioterapici utilizzati e di guidare quindi la terapia. La terapia antibiotica empirica, come suggerito dalle più recenti linee guida, deve essere orientata dall’età del paziente e della prevalenza locale di ceppi antibiotico-resistenti. Benché sull’utilizzo dei cortisonici sistemici non vi sia accordo unanime in letteratura, la maggior parte degli autori ne raccomanda l’uso nei bambini al di sopra dei tre mesi di età. Summary Bacterial meningitis represents an important cause of mortality and morbidity. Thanks to vaccines against some of the causal microbial agents and preventive strategies, as intra-partum antibiotic prophylaxis for pregnant women with positive vaginal swab, incidence of such disease drastically decreased. Early identification of clinical signs and symptoms, rapid diagnostic assessment and prompt antibiotic therapy are critical for reduction of mortality and complications. Chemical and microbiological analysis of cerebrospinal fluid (CSF) is the gold standard when bacterial meningitis is suspected. Careful neurologic examination directed to recognize signs of endocranial hypertension, with the support of neuroimaging, allows to perform lumbar puncture safely. In the last decade, molecular biology techniques gave a big support to the diagnosis of bacterial meningitis, permitting a rapid detection of microorganism with high sensitivity and specificity, even when antibiotic treatment was ongoing. Nevertheless, colture on CSF and/or blood has a central diagnostic role in meningitis, since it permits to test antibiotic susceptibility of pathogens and to lead therapy. As recent guidelines suggest, empiric treatment should consider patient’s age and local prevalence of resistant strains. Although there is not agreement on the use of systemic steroids, they are mainly recommended in children over 3 months of age. Parole chiave: meningite batterica, clinica, diagnosi, diagnosi molecolare, terapia Key words: bacterial meningitis, clinic, diagnosis, molecular diagnosis, therapy Metodologia della ricerca bibliografica utilizzata I lavori considerati per la realizzazione del presente manoscritto sono rappresentati da testi di riferimento e dalle linee guida disponibili in letteratura per l’inquadramento epidemiologico, clinico, diagnostico e terapeutico e da articoli di aggiornamento in materia. La ricerca è stata effettuata mediante la consultazione del database MEDLINE, utilizzando come motore di ricerca PubMed. I lavori sono stati selezionati in base alla rilevanza per il tema trattato e alla data di pubblicazione. Non sono state incluse le meningiti tubercolari, né le meningiti nel paziente oncologico o immunodepresso, poiché necessitano di trattazione a parte. Introduzione Ogni anno in tutto il mondo le meningiti batteriche sono responsabili di circa 1.200.000 morti, in particolare nella popolazione pediatrica (Centers for Disease Control and Prevention, 2012). In questa fascia di età, infatti, la mortalità allo stato attuale varia dal 20% al 40% con un rischio di sequele a lungo termine del 20%, prevalentemente correlate ad infezioni causate da Streptococcus pneumoniae (Hudson et al., 2013). La disponibilità di vaccini immunogeni, ben tollerati e sicuri rivolti verso i principali agenti etiologici di meningite batterica (S. pneumoniae, Haemophilus influenzae tipo b e Neisseria meningitidis) ha determinato un enorme cambiamento nell’epidemiologia delle meningiti batteriche. I principali patogeni causa di meningite batterica distinti per età sono indicati in tabella I. L’introduzione del vaccino anti-Haemophilus influenzae tipo b (Hib) ha determinato negli USA una riduzione dei casi di meningite da H. influenzae del 99%, con una riduzione dell’incidenza a meno di 1 caso/100.000 bambini sotto i 5 anni (American Academy of Pediatrics; Red Book 2012); in Italia, come riportato dal sistema di sorveglianza dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), si è registrata una riduzione analoga, che ha portato ad un’incidenza di 0,7/100.000 abitanti nel 2011 (Ancona, 2012). Anche per lo pneumococco, grazie a un’efficace campagna di vaccinazione prima con il vaccino coniugato eptavalente e successivamente con il 13-valente, si è registrata una diminuzione di oltre il 97% dei casi di malattia invasiva dovuti ai sierotipi vaccinali (Pilishvili et al., 2010). N. meningitidis continua a rappresentare a livello mondiale una delle principali cause di meningite batterica e sepsi, essendo responsa- 45 G. Remaschi et al. Tabella I. Principali agenti eziologici di meningite batterica e sepsi in rapporto all’età. <1 mese Streptococcus agalactiae Escherichia coli Klebsiella pneumoniae Listeria monocytogenes 1-23 mesi (<2 anni) Streptococcus pneumoniae Neisseria meningitidis Streptococcus agalactiae Haemophilus influenzae Altri Gram negativi (raro) >2 anni, <18 anni Neisseria meningitidis Streptococcus pneumoniae Haemophilus influenzae 18–50 anni Neisseria meningitidis Streptococcus pneumoniae >50 anni Neisseria meningitidis Streptococcus pneumoniae Listeria monocytogenes bile di 500.000 casi l’anno con una case fatality ratio di oltre il 10% (Azzari et al., 2014). Prima dell’introduzione della vaccinazione antimeningococco C avvenuta a partire dal 1999 in alcuni paesi europei, l’incidenza di meningite meningococcica in Europa era di 1,67 casi/100.000 abitanti (European Centre for Disease Prevention and Control, 2013). Grazie ad un’efficace campagna di prevenzione con vaccino monovalente anti-meningococco C l’incidenza in Italia nel 2010, così come in Europa e negli USA, si è ridotta a 0,24/100000 (Ancona, 2012; European Centre for Disease Prevention and Control, 2013). L’introduzione recente in alcuni paesi del vaccino tetravalente coniugato (A, C, W-135, Y) e la commercializzazione del nuovo vaccino anti-meningococco B permetterà di allargare ulteriormente la protezione nei confronti della meningite meningococcica. Numerosi studi hanno suggerito la necessità di effettuare la vaccinazione anti-meningococco B nei primi mesi di vita, in considerazione della maggior incidenza al di sotto dell’anno di età (Azzari et al., 2014). Un’efficace campagna vaccinale che comprenda anche gli adolescenti è essenziale in quanto in questa fascia di età la prevalenza di portatori è del 23% (Fig. 1), fattore di rischio oltre che per gli adolescenti stessi anche per le categorie maggiormente suscettibili di infezione (Christensen et al., 2010). Nelle ultime decadi si è anche assistito ad un cambiamento nell’etiologia delle meningiti batteriche nel lattante. In particolare, per quanto riguarda lo Streptococcus agalactiae (SBEGB), comune patogeno causa di meningite nel neonato, la diffusione dello screening con tampone vaginorettale delle gestanti tra la 35° e 37° settimana di gestazione e la conseguente attuazione della profilassi antibiotica intrapartum ha permesso una riduzione dei casi d’infezioni neonatali precoci del 65% (Schrag et al., 2000). Il miglioramento delle condizioni igieniche e la riduzione della contaminazione degli alimenti ha poi determinato la riduzione di infezioni causate da Lysteria monocytogenes, responsabile negli USA di circa il 2% dei casi di meningite batterica (Brouwer et al., 2010). Segni e sintomi clinici Un precoce riconoscimento dei sintomi e dei segni clinici, l’esecuzione tempestiva delle procedure diagnostiche e della terapia antibiotica sono punti fondamentali per ridurre la mortalità e il rischio di sequele a lungo termine (Richardson et al., 2007) (Tab. II). Segni e sintomi clinici specifici di meningite batterica non sono costantemente presenti, soprattutto nelle prime età della vita. I segni e sintomi distinti per età sono riportati nella figura 2. Se nel bambino oltre i due anni di età l’esordio classico della meningite si caratterizza per la presenza di febbre, cefalea, rigidità nucale, Age (years) Figura 1. Stima dei portatori di meningococco per età, modificato da Christensen H et al. 2010. 46 La gestione della meningite batterica Tabella II. Principali sequele a breve e a lungo termine della meningite batterica. Complicanze a breve termine Complicanze a lungo termine Sindrome da inappropriata secrezione di ormone antidiuretico (SIADH) Ritardo mentale Coagulazione intravascolare disseminata Ritardo nell’acquisizione del linguaggio Shock settico Convulsioni Cerebrite e infarto cerebrale Disturbi comportamentali Empiema subdurale e ascesso cerebrale Sordità neurosensoriale S. Waterhouse-Friderichsen (sepsi meningococcica) Figura 2. Segni e sintomi di meningite batterica. manifestazioni cliniche classiche di irritazione meningeale (positività dei segni di Kernig e Brudzinski, posizione a canna di fucile), fotofobia, vomito, alterazione dello stato di coscienza e crisi convulsive, nel neonato e nel lattante la diagnosi è più complessa per la presenza di segni clinici più sfumati. La presenza di ipotonia, torpore, pianto inconsolabile, difficoltà ad alimentarsi, pallore in un bambino al di sotto dei due anni di età devono indurre il sospetto di meningite. Solo il 50% dei neonati con meningite presenta febbre e solo nel 30% dei casi è apprezzabile una fontanella bombata (American Academy of Pediatrics; Red Book 2012). Nelle forme da pneumococco non sono infrequenti paralisi dei nervi cranici, soprattutto oculomotori (III, IV, VI) e del faciale (VII) (Jit, 2010). Lo spettro clinico della malattia meningococcica può avere un’ampia variabilità, dalle manifestazioni cliniche tipiche di meningite fino a sepsi, shock e morte. Particolare attenzione va posta alla ricerca di petecchie e porpora ad esordio nella regione ascellare ed inguinale e dei segni classici dello shock, per permettere un tempestivo trattamento (American Academy of Pediatrics; Red Book 2012). Aspetti diagnostici Esami emato-chimici Nel sospetto di una meningite batterica gli esami di laboratorio da richiedere in urgenza comprendono emocromo con formula, proteina C reattiva, parametri della coagulazione, glicemia ed elettroliti. Fondamentale l’esecuzione di un’emocultura e il prelievo di un campione di sangue in EDTA per l’esecuzione della polymerase chain reaction (PCR), laddove disponibile (Radcliffe et al., 2011). Gli esami ematochimici nella meningite batterica mostrano solitamente una leucocitosi neutrofila ed un notevole incremento degli indici di flogosi. La presenza di una bassa conta leucocitaria e di una proteina C reattiva normale non escludono tuttavia la presenza di meningite batterica o di sepsi meningococcica (NICE clinical guideline, 2010). Nessuno studio in letteratura è stato in grado di individuare un cutoff nella conta leucocitaria o nei valori di proteina C reattiva tale da discriminare tra una meningite batterica ed altre patologie infettive (Radcliffe et al., 2011). Esami microbiologici e di diagnostica molecolare su liquido cefalo-rachidiano Nel sospetto di una meningite batterica l’esame del liquido cefalorachidiano (LCR) resta il gold standard. Nelle fasi precoci l’esame chimico-fisico e la colorazione di Gram su LCR restano fondamentali e sono di ausilio al pediatra per un rapido orientamento diagnostico. Le caratteristiche del LCR fortemente sospette per la presenza di meningite batterica sono indicate in tabella III. La puntura lombare (PL) andrebbe eseguita in ogni caso sospetto, in mancanza di controindicazioni specifiche (Tab. IV). L’eventuale controindicazione all’esecuzione della puntura lombare non deve mai far ritardare l’inizio della terapia antibiotica. Infatti, in presenza di controindicazioni relative e della necessità di stabilizzare il paziente, si deve comunque iniziare la terapia antibiotica. Va rivalutata l’opportunità dell’esecuzione della puntura lombare dopo 8-12 ore, anche in considerazione della possibilità di fare diagnosi eziologica grazie alla biologia molecolare. 47 G. Remaschi et al. Tabella III. Principali alterazioni del LCR in corso di meningite batterica acuta (Tunkel et al., 2004) Caratteristiche Pressione Torbido, purulento Aumentata, >180 mm H2O GB 1.000-5.000/ µL Neutrofili >80% Proteine 100-500 mg/dL Glucosio < 40 mg/dL Rapporto glucosio LCR/sangue1 <0,4 ¹La concentrazione di glucosio nel liquor corrisponde a circa il 50%-60% del valore di glicemia del paziente Tabella IV. Controindicazioni assolute e relative all’esecuzione della puntura lombare (Chaudhuri et al., 2008). Controindicazioni assolute Segni di aumentata pressione intracranica Infezione della cute nella sede di puntura Segni suggestivi di idrocefalo ostruttivo, edema cerebrale diffuso o erniazione delle tonsille cerebellari alla TC ( o alla RMN) Controindicazioni relative Sepsi o ipotensione (pressione sistolica <100mmHg e diastolica <60mmHg): il paziente deve essere prima stabilizzato Disordini della coagulazione (CID, conta piastrinica <50000/mm3 terapia con warfarin) Presenza di deficit neurologici focali Glasgow coma score (GCS) ≤8 Convulsioni subentranti Negli ultimi tre casi deve essere eseguita una TC o una RMN dell’encefalo. La paralisi isolata di nervi cranici senza papilledema non necessariamente controindica la puntura lombare senza neuroimmagini. Numerosi studi presenti in letteratura, al contrario di quanto ritenuto in passato, concordano nell’affermare che la TC dell’encefalo non deve essere eseguita di routine prima della rachicentesi (Nagra et al., 2011), poiché essa rappresenta un indicatore inattendibile per identificare la presenza di ipertensione endocranica e soprattutto perché una TC negativa non esclude completamente il rischio di erniazione delle tonsille cerebellari (Chaudhuri et al., 2008). Un corretto e approfondito esame obiettivo neurologico volto ad identificare la presenza di segni di ipertensione endocranica (papilledema, deficit neurologici focali, postura decerebrata, grave compromissione o rapido peggioramento dello stato di coscienza) rappresenta un criterio più specifico per effettuare una puntura lombare in sicurezza. (NICE clinical guideline, 2010). L’esecuzione di una TC non necessaria e delle immagini inappropriate determinerebbero inoltre un ritardo nel trattamento portando a tassi di morbilità e mortalità sicuramente più alti. La TC diventa al contrario indispensabile nei bambini con un livello di coscienza ridotto o fluttuante (GCS<9) o con segni neurologici focali per identificare la presenza di altre patologie intracraniche (NICE clinical guideline, 2010). Generalmente, se le condizioni cliniche del paziente migliorano e la terapia antibiotica è appropriata non c’è necessità di ripetere la PL. La rachicentesi deve essere ripetuta in caso di ri-emergenza o persistenza della febbre, deterioramento delle condizioni cliniche, persistenza della positività dei marker d’infiammazione oppure comparsa di nuovi segni clinici (NICE clinical guideline, 2010). L’esecuzione dell’esame colturale sia su sangue che su LCR nonostante la disponibilità di metodiche di diagnostica più rapide e non influenzate dalla terapia antibiotica, resta fondamentale per una corretta gestione della meningite batterica. Esso infatti permette l’esecuzione dell’antibiogramma, dato sempre più rilevante considerata l’emergenza di ceppi di N. meningitidis con ridotta suscettibilità o resistenti alla penicillina (Bertrand et al., 2012). Affiancando l’esame colturale, la diagnostica molecolare ha assunto un ruolo sempre maggiore nella diagnosi delle forme batteriche di meningite. La PCR, eseguita su sangue e su liquor, permette di rilevare anche piccole quantità di acido nucleico del patogeno responsabile, permettendo l’identificazione del batterio in causa e del sierotipo (Wang et al., 2012). Uno dei vantaggi della PCR è la sua indipendenza dalla vitalità del germe, permettendo quindi una corretta diagnosi eziologica anche in presenza di una terapia antibiotica già instaurata (Resti et al., 2009) (Tab. V); consente di ottenere risultati in tempi brevi (4-6 ore) utilizzando apparecchiature semplici e automatizzate con un costo inferiore rispetto alle metodiche tradizionali (Wang et al., 2012). La metodica molecolare ha inoltre una importante utilità epidemiologica; permette infatti l’isolamento e la sierotipizzazione del batterio causale nella maggior parte dei casi di meningite (Azzari et al., 2008). Ciò consente quindi di monitorare l’andamento epidemiologico dei germi e di conseguenza adattare le campagne vaccinali. Tabella V. Maggior sensibilità di PCR Real-time nei confronti dei metodi culturali nella diagnosi di meningite su liquor in pazienti con pregressa terapia antibiotica, modificato da (Chiba et al., 2009). Patogeno Campioni positivi in PCR n (%) Campioni positivi con il metodo colturale n (%) S. pneumoniae 36 (21.4) 27 (16.1) H. influenzae 76 (45.2) 48 (28.6) S. agalactiae 4 (2.4) 2 (1.2) E.coli 3 (1.8) 3 (1.8) L. monocytogenes 1 (0.6) 1 (0.6) M. pneumoniae 1 (0.6) 0 N.meningitidis 57 (25,1) 36 (17,7) 48 La gestione della meningite batterica Tabella VI. Principali agenti patogeni da indagare con metodica molecolare nel sospetto di meningite batterica. Lattanti (0-2 mesi) Bambini (2 mesi-2 anni) Bambini > 2 anni Streptococco β-emolitico di gruppo B Streptococco β-emolitico di gruppo B Streptococcus pneumoniae Listeria monocytogenes Listeria monocytogenes Neisseria meningitidis Escherichia coli Escherichia coli Haemophilus influenzae Klebsiella pneumoniae Klebsiella pneumoniae Streptococcus pneumoniae Neisseria meningitidis Haemophilus influenzae La sensibilità e specificità della PCR sono risultate estremamente elevate (96-98% sensibilità e 95-99% specificità), rivelando un’importante sottostima dei casi noti di malattie batteriche invasive (Azzari et al., 2008). La sensibilità della PCR è inoltre da 3 a 8 volte più alta della coltura (Azzari et al., 2014). I principali patogeni indagati nel sospetto di meningite batterica sono riportati nella tabella VI. Nel caso di diagnosi eziologica dubbia, possono essere utilizzate, in casi selezionati, metodiche molecolari che determinano l’amplificazione dell’rRNA 16S batterico, sfruttando la conservazione di questa porzione del genoma nelle specie batteriche più frequentemente responsabili delle forme invasive. Resta comunque preferibile, quando possibile, utilizzare tecniche più specifiche (Realtime-PCR) che non sono basate sull’amplificazione del 16S, ma che utilizzano primers e sonde specifici. Ruolo della diagnostica per immagini Studi sul ruolo della risonanza magnetica nucleare (RMN) e della TC nella diagnosi e nella gestione della meningite batterica sono estremamente limitati. La sensibilità della RMN nell’identificare alterazioni indicative della presenza di meningite batterica varia dal 9% al 100%, con una specificità tra il 93% e il 100% (Upadhyayula, 2013). In assenza di complicanze, la TC senza mezzo di contrasto e la RMN possono risultare perfettamente normali (Foerster et al., 2007). In alcuni casi è possibile rilevare con la RMN alterazioni aspecifiche nell’enhancement meningeale (non utili ai fini di una corretta diagnosi differenziale) dopo somministrazione di mezzo di contrasto che potrebbero essere visibili anche mesi dopo la risoluzione del quadro clinico (Schneider et al., 2011). La RMN e la TC hanno invece un ruolo fondamentale nella valutazione delle complicanze. La RMN ha mostrato una maggiore sensibilità nella valutazione della presenza di edema citotossico o vasogenico, alterazioni ischemiche, idrocefalo, ascesso subdurale, epidurale o parenchimale (Nickerson et al., 2012). Terapia Nel sospetto di meningite batterica, la terapia antibiotica deve essere iniziata il più precocemente possibile. Quando non è noto l’agente patogeno deve essere intrapresa una terapia empirica in base all’età del bambino e in base all’epidemiologia in quella fascia d’età. Le linee guida disponibili in letteratura suggeriscono un approccio non sempre uniforme nella gestione dei bambini con sospetta meningite (De Gaudio et al., 2010). Nella tabella VII vengono elencate le indicazioni terapeutiche suggerite dalle più autorevoli linee guida. L’utilizzo del ceftriaxone in età neonatale non è raccomandato per il suo potere di spiazzare la bilirubina dai siti di combinazione con l’albumina (Radcliffe, 2011). Come già ribadito, la terapia antibiotica deve essere somministrata più precocemente possibile, anche prima dell’esecuzione della rachicentesi quando questa non possa essere eseguita in tempi rapidi, poiché un trattamento precoce riduce in maniera significativa la mortalità (Richardson et al., 2007). Inoltre, benché la somministrazione di antibiotici prima dell’esecuzione della puntura lombare possa associarsi ad elevata negatività di esami colturali, essa non influenza i risultati ottenuti con le moderne tecniche diagnostiche molecolari. Il tempo di sterilizzazione del liquido cefalorachidiano dopo somministrazione della prima dose di antibiotico per via parenterale è di 2 ore per N. meningitidis e 4 ore per S. pneumoniae (Meningitis/encephalitis guideline Melbourn, 2013). Inoltre, la somministrazione di antibiotico può modificare i livelli di glicorrachia e di proteinorrachia, ma non sembra aver effetto sulla conta leucocitaria liquorale né sul valore assoluto dei neutrofili (Nigrovic et al., 2008). Quando dagli esami colturali o molecolari emerga la positività per uno specifico agente eziologico, è consigliabile proseguire con una terapia antibiotica mirata. Nella tabella VIII viene riportata la terapia antibiotica specifica per i principali patogeni coinvolti nelle meningiti batteriche. Nella meningite pneumococcica la decisione di associare la vancomicina deve essere considerata in relazione alla prevalenza locale di ceppi di pneumococco penicillino e cefalosporino-resistenti. Per quanto riguarda invece la terapia della meningite meningococcica, le linee guida NICE suggeriscono di proseguire la terapia iniziata empiricamente con cefotaxime o ceftriaxone, mentre l’American Academy of Pediatrics raccomanda di passare alla somministrazione di penicillina, sempre però tenendo in considerazione la sensibilità riscontrata e l’epidemiologia locale (NICE clinical guideline, 2010; American Academy of Pediatrics, Red Book 2012). Dalla letteratura internazionale si evincono dati discordanti sull’efficacia dell’uso dei corticosteroidi sistemici in associazione alla terapia antibiotica, in termini di mortalità e di sequele a lungo termine nelle meningiti batteriche. Uno studio randomizzato controllato in doppio cieco in bambini trattati con desametasone rispetto a quelli trattati con glicerolo non evidenziava differenze significative sullo sviluppo di ipoacusia, che era invece correlato alle manifestazioni cliniche all’esordio e all’età del bambino (Peltola et al., 2010). Numerose metanalisi sono state condotte nell’intento di ottenere dati risolutivi sull’argomento, anche in considerazione del fatto che in molte metanalisi erano anche inclusi studi condotti in paesi con scarse risorse economiche e che includevano quindi pazienti nei quali la diagnosi di meningite era verosimilmente più tardiva e, conseguen- 49 G. Remaschi et al. temente, il corticosteroide sistemico era stato inizato tardivamente. La più recente metanalisi (che quindi include tutti gli studi fino alla data della pubblicazione) conclude che, pur in assenza di un signi- antibiotica. Una recente revisione della letteratura ha messo in evidenza come l’uso del glicerolo, come diuretico osmotico, non abbia effetto sulla riduzione della mortalità, mentre sembrerebbe ridurre l’incidenza Tabella VII. Terapia empirica raccomandata dalle linee guida: National Institute for Health and Care Excellence (NICE), Infectious Diseases Society of America (IDSA), European Federation of Neurological Societies (EFNS). Linea guida Fasce di età Terapia NICE 2010 < 3 mesi Cefotaxime+ amoxicillina o ampicillina ≥ 3 mesi Ceftriaxone ± vancomicinaa IDSA 2004 EFNS 2008 < 1 mese ampicillina+ cefotaxime o aminoglicoside 1-23 mesi Vancomicinac + cefalosporina III generazione b 2-50 anni Vancomicinac + cefalosporina III generazioneb >50 anni Vancomicinac + cefalosporina III generazioneb + ampicillina Bambini (oltre l’età neonatale) e adulti (Cefriaxone o cefotaxime) ± vancomicina o Meropenem o Cloramfenicolo Adulti, nel sospetto di meningite da Listeria Ampicillina/amoxicillina In bambini che abbiano recentemente viaggiato in aree ad elevata prevalenza di ceppi di pneumococco resistenti ai beta-lattamici o che siano stati esposti a prolungati o ripetuti cicli di terapia antibiotica negli ultimi 3 mesi. b Ceftriaxone o cefotaxime. c Alcuni esperti raccomandano l’aggiunta della rifampicina nel caso in cui venga eseguita la terapia con desametasone. a Tabella VIII. Terapia specifica e durata del trattamento. Tratto dalle linee guida NICE ed IDSA. Microorganismo Neisseria meningitidis Terapia specifica Durata (giorni) Penicillina G o ceftriaxone 7 Haemophilus influenzae Ceftriaxone 7-10 Streptococcus pneumoniae Ceftriaxone 10-14 Cefotaxime o penicillina G + gentamicina 14-21 Streptococcus agalactiae Bacilli aerobi gram-negativi Listeria monocytogenes 21 Ampicillina o amoxicillina + gentamicina ficativa riduzione sulla mortalità, i corticosteroidi sistemici riducono la mortalità nelle meningiti da Streptococcus pneumoniae ed inoltre hanno efficacia nel ridurre lo sviluppo di sordità e di sequele neurologiche a breve termine nei paesi con risorse economiche avanzate (Brouwer et al., 2013). Esistono, inoltre perplessità sulla ridotta penetrazione a livello del SNC di alcuni antibiotici, in particolare della vancomicina, in corso di terapia steroidea, come suggerito da studi in modelli animali (Tunkel et al., 2004). Purtuttavia, l’utilizzo di tali antibiotici a dosaggi elevati, può risultare in concentrazioni liquorali sufficienti a superare le MIC necessarie per l’effetto terapeutico. Le linee guida inglesi raccomandano, per i bambini più grandi, l’uso di desametasone al dosaggio di 0,15 mg/Kg per un massimo di 10 mg per quattro giorni in caso di liquor francamente purulento, in caso di conta leucocitaria nel liquor > 1000/microL, aumento dei leucociti nel liquor associato a proteinorrachia> 1g/L e/o presenza di batteri Gram positivi o negativi. Non raccomandano l’uso dei corticosteroidi sotto i 3 mesi di vita per le scarse evidenze scientifiche presenti in letteratura in questa fascia di età. Sempre con l’obiettivo di ridurre l’edema a livello cerebrale sono stati proposti trattamenti con diuretici osmotici in associazione alla terapia 50 ≥21 di sordità. Tuttavia gli autori sottolineano l’importanza di ulteriori studi clinici per confermare tali risultati (Wall et al., 2013) Anche per quanto riguarda l’utilizzo dei fluidi di mantenimento non vi sono chiare evidenze in letteratura. In passato si è sempre sostenuta la necessità di una restrizione dei liquidi per i pazienti con meningite a causa del rischio della sindrome da inappropriata secrezione di ormone antidiuretico. Da una recente revisione sistematica emerge che vi siano vantaggi nell’uso di fluidi di mantenimento rispetto alla restrizione dei fluidi nelle prime 48 ore dall’inizio del trattamento nei paesi con alta mortalità e con una valutazione medica tardiva. Tuttavia, nei paesi dove la valutazione medica è precoce e la mortalità è bassa, non ci sono sufficienti evidenze per definire delle raccomandazioni (Maconochie et al., 2008). Le linee guida NICE consigliano l’uso dell’idratazione di mantenimento a meno che non compaiano i segni e sintomi di ipertensione endocranica o della sindrome da inappropriata secrezione di ormone anti-diuretico (NICE clinical guideline, 2010). Conclusioni La gestione delle meningiti batteriche non si è modificata radical- La gestione della meningite batterica mente negli ultimi anni. Tuttavia alcuni aspetti gestionali sono evoluti in relazione alla messa a punto delle nuove metodiche diagnostiche molecolari, laddove disponibili. In particolare, la possibilità di disporre rapidamente della diagnosi eziologica, anche nei casi nei quali sia stata già intrapresa la terapia antibiotica sistemica, permette da una parte di valutare con maggiore accortezza se eseguire subito la rachicentesi o di rimandarne l’esecuzione dopo stabilizzazione del paziente, dall’altra di modificare la terapia antibiotica empirica qualora possa essere sostituita con una più mirata. Inoltre, la rapida identificazione dell’agente eziologico risulta utilissima per la tempe- stiva gestione dei contatti in comunità, qualora si tratti di eziologia meningococcica. È comunque determinante inviare gli esami colturali, sia da liquor che da sangue anche per disporre di antibiogramma e conoscere la sensibilità agli antibiotici del patogeno responsabile. La crescente segnalazione in molte aree del mondo di ceppi a ridotta sensibilità alla penicillina e ad altri beta-lattamici suggerisce l’opportunità di ottimizzare, ogniqualvolta possibile, la terapia mirata sulla base dell’antibiogramma e, comunque, di monitorare la sensibilità agli antibiotici dei più comuni patogeni causa di meningiti e malattie invasive ad eziologia batterica. Box di orientamento Che cosa si sapeva prima Da sempre è nota l’importanza di instaurare una terapia antibiotica precoce nel sospetto di meningite batterica. Tuttavia la necessità di eseguire l’esame chimico-fisico e colturale del liquido cefalo-rachidiano prima dell’inizio della terapia antibiotica, per non compromettere la validità diagnostica di tali esami, determinava spesso un ritardo nel trattamento. L’esecuzione della rachicentesi, a sua volta, poteva essere ritardata dal sospetto di ipertensione endocranica, che poneva l’indicazione ad eseguire una TC cranio-encefalo prima della procedura per stabilirne il rischio di complicanze. Da un punto di vista fisiopatologico, è stato evidenziato che i danni cerebrali sono mediati da una massiva liberazione di citochine proinfiammatorie indotta dai batteri ed è stato quindi ipotizzato un possibile ruolo dei corticosteroidi in associazione alla terapia antibiotica per contrastare gli effetti dannosi del processo infiammatorio. Cosa sappiamo adesso Oggi sappiamo che: • è possibile instaurare una terapia antibiotica precoce non compromettendo le indagini diagnostiche, grazie alle tecniche di biologia molecolare e alle conoscenze delle modificazioni chimico-fisico e microbiologiche del liquor dopo la prima dose di antibiotico; • l’esecuzione della TC prima della puntura lombare non è sempre dirimente per escludere la presenza di ipertensione endocranica. Un esame neurologico approfondito è fondamentale per individuare i segni di ipertensione endocranica; • la terapia antibiotica empirica deve essere orientata dall’età del paziente e dalla prevalenza locale di ceppi antibiotico-resistenti; • nella terapia, l’uso dei cortisonici, in associazione alla terapia antibiotica, potrebbe avere un ruolo nella riduzione della mortalità e delle sequele a lungo termine, ma sono necessari ulteriori studi in merito. Quali ricadute sulla pratica clinica La ricerca nel campo della meningite batterica è volta alla riduzione della mortalità e della morbilità associate a tale patologia, ad oggi ancora molto alte. Il precoce inizio del trattamento, possibile grazie all’utilizzo delle tecniche di biologia molecolare e alle conoscenze sulle modificazioni chimico- fisicomicrobiologiche del liquor dopo la prima somministrazione dell’antibiotico, costituisce un elemento fondamentale per un buon outcome. Bibliografia American Academy of Pediatrics. (Meningococcal Infections). In: Pickering LK, Baker CJ, Kimberlin DW, Long SS, eds. Red Book 2012. Report of the Committee on Infectious Diseases. Elk Grove Village, IL: American Academy of Pediatrics, 2012. ** Importante testo di riferimento per gli aspetti clinici e diagnostico-terapeutici delle meningiti batteriche. Ancona PD. Epidemiologia delle Malattie Infettive ISS. Dati di sorveglianza delle malattie batteriche invasive aggiornati al 24 febbraio 2012. 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Gli alimenti esplicano i loro effetti sull’infiammazione tissutale, sia per azione diretta sulle cellule, sia perché regolano la composizione del microbiota intestinale. L’enterocita e le cellule immunocompetenti intestinali, sono dotate di sistemi complessi per “sentire” gli alimenti e per rispondere ad essi. Anche i cereali (ed in particolare il grano) possono causare infiammazione intestinale, per esempio nella celiachia. Vi sono due tipi principali di risposta infiammatoria a peptidi del glutine nella celiachia: vi è la risposta adattativa mediata da cellule T e la risposta innata. In conclusione si pone l’attenzione sulla necessità di svezzare il lattante a dieta mediterranea, anche allo scopo di fare sviluppare nel corso del divezzamento il gusto del bambino per alimenti della nostra tradizione alimentare. Summary Epidemiological studies, have associated the increase in chronic inflammatory diseases, such as diabetes, atherosclerosis, asthma, chronic liver disease, autoimmune diseases, degenerative diseases and inflammatory bowel diseases to the spread of the so-called “Western diet”. The Mediterranean diet has increasingly been regarded as the gold-standard diet for human health. The nutrients exert their effects on tissue inflammation, either by direct action on the cells, or because they regulate the composition of the intestinal microbiota. The enterocyte and the intestinal immunocompetent cells, are equipped with complex systems to “feel” the food and to respond to them. Even cereals (especially wheat) can cause intestinal inflammation, in celiac disease for example. There are two main types of inflammatory response to gluten peptides in celiac disease: there is the adaptive immune response mediated by T cells and the innate immune response. In conclusion, the weaning of the infant, with the Mediterranean diet, is advisable also in order to develop the taste of the infant for our traditional food. Parole chiave: infiammazione intestinale, Western diet, dieta mediterranea, nutrienti ed infiammazione, infiammazione e celiachia, svezzamento Key words: Intestinal infiammation, Western diet, Mediterranean diet, nutrienty and inflammation, inflammation and celiac disease, weaning Metodologia della ricerca bibliografica La ricerca bibliografica è stata effettuata utilizzando PubMed. Essa ha preso in esame soprattutto la più recente letteratura disponibile su infiammazione ed alimenti. Introduzione L’interazione alimenti-flora batterica-intestino (in particolare enterocita e cellule immunocompetenti) è alla base di molteplici fenomeni che influenzano lo stato di salute o di malattia del soggetto. In tempi recenti si è osservato un aumento di malattie infiammatorie croniche quali diabete, arteriosclerosi, asma, epatopatie croniche, malattie autoimmuni, malattie degenerative e malattie infiammatorie croniche intestinali. Studi epidemiologici hanno associato l’aumento dei disordini infiammatori cronici alla diffusione della cosi detta “Western diet”, considerata un fattore di rischio per le malattie infiammatorie croniche ed il cancro: essa è caratterizzata da elevati livelli di carni rosse, carboidrati semplici (zuccheri), grassi, cereali “raffinati” e da bassi livelli di vegetali, frutta e pesce. Questa dieta è sempre più diffusa nei paesi in via di sviluppo ed il suo consumo correla con il drammatico aumento della incidenza delle malattie infiammatorie croniche nelle ultime sei decadi (Bach, 2002; Devereux, 2006). I danni che tale dieta comporta sono dovuti alla incapacità del genoma umano di adattarsi ai rapidi cambiamenti dell’ambiente, in particolare della dieta stessa (Willett, 2002). La dieta mediterranea è invece sempre più considerata la dieta standard per la salute dell’uomo. Essa è ricca di olio di oliva, frutta, verdure, cereali integrali, noci o frutta secca in generale, con un modesto consumo di pesce e pollame, ed essendo povera di carni rosse e carboidrati semplici, è molto più vicina alla dieta dei nostri antenati di quanto non lo sia la dieta attuale. Non a caso la piramide alimentare, che riassume i consigli dietetici del Ministero dell’Agricoltura statunitense per una corretta alimentazione allo scopo di prevenire l’obesità, è basata sulla dieta mediterranea. Infatti la dieta mediterranea è sempre più considerata la dieta standard per la salute dell’uomo (Tracy, 2013): riduce il rischio di malattie cardiovascolari, cancro, Alzheimer, Parkinson e morte prematura in genere. I risultati di studi molto recenti (Estruch et al., 2013) confermano la superiorità della dieta mediterranea, anche in confronto con altri regimi alimentari ricchi di vegetali e frutta, nella prevenzione primaria di eventi morbosi cardiovascolari. Sarebbero proprio le caratteristiche nutrizionali del complesso degli alimenti piuttosto che i singoli macronutrienti (proteine, carboidrati e grassi) e micro-nutrienti (minerali e vitamine), a giocare un ruolo importante nell’effetto protettivo della dieta mediterranea (Tracy, 2013). La dieta mediterranea è ricca di fibre, carboidrati non assorbibili, che hanno un ruolo importante nella prevenzione di molte malattie così dette “moderne”. Infatti popolazioni che consumano adeguate o ab- 53 S. Auricchio, M.V. Barone bondanti quantità di fibre hanno incidenza più bassa di malattie infiammatorie croniche, come coliti, diabete tipo 2, ed anche di cancro del colon, rispetto a popolazioni che consumano diete a più basso contenuto di fibre (Slavin, 2003). Del tutto recentemente uno studio prospettico di 170.000 donne (Nurses Health Study) ha dimostrato che l’assunzione con la dieta di fibre è associata a ridotto rischio di ammalare di morbo di Crohn (Ashwin et al., 2013). Non a caso la bassa incidenza di asma, in Giappone rispetto ad Australia ed USA, tutti paesi con alto grado di igiene e di urbanizzazione, è stata messa in relazione alla ricchezza della dieta giapponese in riso, legumi, cibi fermentati e pesce (Maslovski et al., 2011). È interessante inoltre notare che la popolazione giapponese è, attualmente, la più longeva conosciuta. Alimenti e infiammazione Alimenti e microbiota intestinale La dieta esplica i suoi effetti sull’infiammazione tissutale sia per azione diretta sulle cellule, sia perché regola la composizione della flora intestinale (microbiota intestinale). A sua volta, il microbiota attraverso la sua composizione e per mezzo dei prodotti del metabolismo batterico, influenza la risposta metabolica, immune ed infiammatoria dell’organismo (Maslowski et al., 2011). In particolare, livelli ridotti di fibre nella dieta alterano il microbiota intestinale, con ridotta produzione, da parte dei batteri presenti, di composti modulanti la risposta immune (quali, ad esempio, acidi grassi a catena corta come il butirrato, il polisaccaride A, i peptidoglicani e altri prodotti non ancora completamente identificati). Questo è un campo di ricerca in pieno sviluppo con implicazioni che interessano anche altri ambiti, come suggerisce uno studio pubblicato recentemente, in cui si dimostra che il microbiota intestinale modula le anomalie comportamentali e metaboliche presenti in un modello sperimentale di autismo (Jack et al., 2013) Pattern recognition receptors (PRR) che “sentono” patogeni e nutrienti Gli alimenti inoltre influenzano, per effetto di alcuni nutrienti, direttamente la risposta immune e quindi l’infiammazione tissutale, intestinale ed extra intestinale. Le cellule intestinali, infatti, in particolare l’enterocita e le cellule immunocompetenti, sono dotate di sistemi complessi per “sentire” gli alimenti e per rispondere ad essi. Da sottolineare che vi sono vie metaboliche comuni sia ai sistemi cellulari che sentono i patogeni che a quelli che sentono i nutrienti, il che aiuta oggi a comprendere meglio i rapporti tra dieta e malattia (Hotamisligil, 2006). Le cellule intestinali, e tra queste gli enterociti e le cellule dendritiche, esprimono infatti Pattern recognition receptors (PRR), come i Toll-like receptors (TLR), i NOD-like receptors (NLR) e i Leucine rich alpha2-glycoprotein 1 (LRG1). Questi riconoscono sia Pathogen associated molecular patterns (PAMPs) che Damage associated molecular patterns (DAMPs) (Schema in Fig. 1). Infatti, infiammazione in assenza di patogeni, può verificarsi in tutti i tessuti in risposta ad un ampio range di stimoli, che causano stress e danno alle cellule (cosiddetta infiammazione sterile) (Kubes et al., 2012): in questo contesto alcuni nutrienti sono capaci di provocare condizioni di stress cellulare. Nell’infiammazione sterile, quindi, vari DAMPs sono liberati dalle cellule danneggiate e attivano i recettori delle cellule immuni (TLR, NLR, LRG1) che, come 54 detto prima, sono stati originariamente identificati come sensori di PAMPs. In particolare i DAMPs portano all’assemblaggio di un complesso proteico del citosol, chiamato inflammasoma, che attiva la proteasi caspasi-1 con conseguente attivazione e secrezione di IL-1-beta e altre citochine proinfiammatorie (Kubes et al., 2012). Recettori nucleari e nutrienti Nelle cellule intestinali vi sono inoltre diversi recettori nucleari che sono attivati da ligandi (sostanze esterne alle cellule, come ormoni, lipidi, vitamine ed altri costituenti degli alimenti). Dopo attivazione, i recettori nucleari attivano fattori di trascrizione che regolano l’espressione di specifici geni coinvolti in molteplici funzioni cellulari, tra l’altro, anche nell’infiammazione e nella risposta immune. I recettori nucleari connettono quindi la trascrizione a stimoli esterni, per esempio, gli alimenti (Veldhoen et al., 2008, 2012) (Fig. 2). Numerosi ligandi per recettori nucleari si trovano nella frutta e nella verdura. Alcuni metaboliti della vitamina A, gli acidi retinoici, possono essere prodotti anche nell’enterocita e nelle cellule dendritiche, a seguito dell’assorbimento della vitamina A. Essi svolgono un ruolo fondamentale nella tolleranza verso antigeni alimentari, reclutando e inducendo cellule T regolatorie (Coombes et al., 2007; Sun et al., 2007; Hadis et al., 2011). Gli acidi retinoici sono i ligandi dei recettori dell’acido retinoico (RARs) o dei recettori X per l’acido retinoico (RXRs) (Mora et al., 2008; Elias et al., 2008); recettori nucleari che riconoscono nel nucleo specifiche sequenze di DNA. Gli RXRs possono formare etero-dimeri con altri recettori nucleari, lipid-sensing come il recettore per la vitamina D (VDR), i Peroxisome-proliferatoractivated receptors (PPARs), i Liver X receptors (LXR), il Pregnano X receptor (PXR) e il Farnesoide X receptor (FXR). La forma attiva della vitamina D, la 1-25 (OH) D3, si lega al recettore per la vitamina D (VDR), che forma un eterodinero con RXR. Molti dei recettori ai quali si legano la vitamina D e la vitamina A sono presenti nelle cellule immuni intestinali, in particolare T regolatorie, Th 17 e cellule linfoidi innate. Analogamente alla vitamina A, la vitamina D inibisce la attività delle cellule Th1 e aumenta quello delle cellule Th2 (Veldhoen et al., 2012). Lo Aryl hydrocarbon receptor (AHR) è un altro recettore nucleare presente nelle cellule T regolatorie Th 17 (Veldhoen, 2008; Quintana et al., 2008), e nelle cellule linfoidi innate (Kiss et al., 2011; Lee et al., 2011; Qiu et al., 2012) e nei linfociti intraepiteliali (Li et al., 2011): la sua principale funzione è quella di mediare la risposta immune cellulare ai contaminanti ambientali. Analogamente ai RARs e RXRs, AHR è responsivo a ligandi lipofili (Wincent et al., 2009). Derivati del triptofano o suoi metaboliti possono generare ligandi ad alta affinità per AHR. Tali ligandi si formano nell’intestino per ingestione di broccoli e cavolfiori che risultano quindi essenziali per il mantenimento dell’immunità intestinale. Uno di questi, l’indolo -3- carbinolo, è responsabile del mantenimento dei linfociti intraepiteliali nell’intestino (Li et al., 2011). Altri composti naturali derivati da frutta e vegetali come il flavonoide quercetina (mele) e probabilmente il resveratrolo (vino rosso) sono possibili ligandi di AHR, che quindi non solo è un importante mediatore della risposta immune cellulare, ma anche un sensore di nutrienti. È interessante notare che una dieta supplementata con tutti i nutrienti essenziali, ma priva di vegetali, non è comunque sufficiente per mantenere una buona omeostasi della risposta immune intestinale nel topo (Kiss et al., 2011; Li et al., 2011). Inoltre l’equilibrio tra reattività immune e tolleranza può essere direttamente regolato dai grassi della dieta (Veldhoen et al., 2012). Gli acidi grassi saturi sono considerati pro-infiammatori, mentre Alimenti e malattie infiammatorie croniche Figura 1. Sono rappresentati due modelli per l’attivazione della risposta immune regolata da PRRs (Pattern-Regognition Receptors). A) Modello molecolare della risposta immune alle infezioni regolata dai PAMPs (Pathogen Associated Molecular Patterns), che possono essere ligandi per il recettore Toll-like (TLR), il recettore NOD-like (NLR) e il Leucine rich alpha-2-glycoprotein 1 (LRG1). L’attivazione di questi recettori porta alla produzione di citochine pro-infiammatorie con conseguente risposta infiammatoria e danno tissutale che porta al rilascio di DAMPs (Damage Associated Molecular Patterns) – che agiscono sinergicamente con i PAMPs per indurre la riposta infiammatoria. B) Modello molecolare della risposta immune al danno tissutale regolata dai DAMPs – che agiscono da ligandi per i recettori: TLR, NLR e LRG1 avviando una risposta infiammatoria, così detta sterile, che porta al danno tissutale. quelli insaturi possono avere proprietà sia anti-infiammatorie che pro-infiammatorie (Shi et al., 2006; Solinas et al., 2006; Wang et al., 2006). Gli acidi grassi polinsaturi omega-3 e omega-6, oltre ad essere i componenti essenziali delle membrane cellulari, sono i precursori delle prostaglandine, potenti regolatori della infiammazione. Gli omega-3 esplicano azione anti-infiammatoria sostituendo gli omega-6 nelle vie metaboliche che li vedono coinvolti. L’aumento del rapporto omega-3 /omega-6 si realizza con l’aumentato consumo di pesce ed il ridotto consumo di oli vegetali. Un buon rapporto omega-3 /omega-6 nella dieta ha effetti protettivi nei confronti di molte patologie, incluse le malattie cardiovascolari, la aterosclerosi e l’Alzheimer. Alcuni grassi stimolano direttamente i TLR, legando così ancora una volta tra di loro le vie metaboliche che sentono i nutrienti con quelle che sentono i patogeni: per esempio, gli acidi grassi a media catena insaturi e quelli saturi a lunga catena attivano il signaling di TLR2 e TLR4 nei macrofagi con conseguente secrezione di citochine pro infiammatorie (Shi et al., 2006; Wang et al., 2006). Inoltre gli acidi grassi insaturi attivano un’altra serie di recettori nucleari, i Peroxisome proliferator activated receptor (PPARs) (Forman et al., 1995; Kliewer et al., 1995) nelle cellule T e nelle cellule dendritiche, promuovendo o inibendo l’infiammazione. La attivazione di PPAR delta aumenta la risposta cellulare pro infiammatoria Th1 e Th17, che è invece diminuita per attivazione di PPAR gamma (Faveeuw et al., 2000; Dunn et al., 2010). I nutrienti, insomma, possono interagire con l’epitelio intestinale e le cellule del sistema immune, esattamente come i virus, i batteri o altri fattori ambientali, attivando le stesse vie di segnale cellulare ed in questo modo possono attivare o ridurre l’infiammazione. Gli alimenti possono influenzare l’infiammazione anche in tessuti al di fuori dell’intestino RORs, PPARs e AHR sono stati implicati nella disregolazione della omeostasi dell’energia e di varie vie metaboliche, che hanno importanza nella patogenesi di diverse malattie, incluse le malattie autoimmuni, l’asma, il cancro, la obesità. La vitamina A e D, i ligandi di AHR, ed i lipidi che attivano PPAR gamma e LXR sono tutti stati coinvolti in modelli e forme di autoimmunità (Veldhoen et al., 2012). L’eccesso cronico di nutrienti e di calorie può indurre segnali di stress intracellulare (per es. stress del reticolo endoplasmico), che 55 S. Auricchio, M.V. Barone dall’intestino, per es. cellule Th17. Basti pensare alla infiammazione di tessuti lontani dall’intestino nelle malattie infiammatorie croniche intestinali e alla “infiammazione intestinale” del diabete di tipo 1 (vedi appresso). I cereali e l’infiammazione intestinale Figura 2. Rappresentazione schematica dell’attivazione di un recettore nucleare (AhR) da parte di un lingando (L). Il complesso ligando-recettore trasloca nel nucleo ed attiva la trascrizione. Nel caso del recettore AhR l’effetto biologico conseguente sarà la mediazione della risposta cellulare ai contaminanti ambientali. portano all’infiammazione dei tessuti, che è alla base della sindrome metabolica e di altre condizioni patologiche (Osborn et al., 2012): è ben noto che la resistenza all’insulina è il difetto alla base del diabete mellito di tipo 2 e che l’obesità è la causa più frequente di resistenza all’insulina. L’attuale epidemia di obesità nei paesi occidentali sta causando infatti una corrispondente epidemia di diabete di tipo 2 (Osborn et al., 2012). La causa più importante della resistenza all’insulina è proprio l’infiammazione di vari tessuti, probabilmente generata da eccesso di nutrienti e stress del reticolo endoplasmico. Lo stress del reticolo endoplasmico è uno dei meccanismi che lega la risposta immune al sensing dei nutrienti nella patogenesi dell’arteriosclerosi (Hotamisligil, 2010a; Hotamisligil, 2010b). Inoltre malattie infiammatorie in siti lontani dall’intestino possono essere promosse dalla disseminazione dall’intestino di citochine proinfiammatorie, come IL23 o TNF alfa o da cellule che migrano Anche i cereali (ed in particolare il grano) possono causare infiammazione intestinale, per esempio nella celiachia. Il danno intestinale da glutine (il complesso delle proteine alcool solubili del grano) nella celiachia consiste nella infiammazione e nel rimodellamento della mucosa, con appiattimento dei villi ed ipertrofia della cripte. Vi sono due tipi principali di risposta infiammatoria ai peptidi del glutine nella celiachia (Gianfrani et al., 2008): vi è la risposta adattativa mediata da cellule T CD4+ ad alcuni peptidi: prototipo è il 33 mer della A-Gliadina, resistente alla digestione gastrica, intestinale endoluminale e parietale. Il peptide viene deamidato ad opera della trasglutaminasi tissutale (tTG) e presentato dagli antigeni di istocompatibilità di classe II, DQ2 e DQ8, alle cellule T CD4+, con risposta del tipo Th1, mediata da gamma interferone e altre citochine proinfiammatorie. Vi è poi la risposta, non mediata da cellule T, ad altri peptidi: prototipo il peptide 31-43 della A-gliadina (P 31-43) (Fig. 3). Il P 31-43, che fa parte del peptide 31-55, anche esso resistente alla digestione gastrica ed intestinale, provoca infiammazione con meccanismi molteplici, il più noto dei quali consiste in una risposta da stress/innata e proliferativa, mediata da EGF e IL15. Il peptide P31-43 è anche un fattore di crescita per varie linee cellulari e per l’enterocita del celiaco, in quanto è in grado di attivare il sistema EGF-EGFR (Barone et al., 2007), il più potente mitogeno presente nel nostro organismo. La proliferazione degli enterociti delle cripte del celiaco indotta da gliadina (P31-43) è non solo EGF dipendente, ma anche IL15-dipendente (Barone et al., 2011). La proliferazione degli enterociti delle cripte e la risposta immune innata alla gliadina del celiaco, sono regolate da una cooperazione tra EGF e IL15 (Nanayakkara et al., 2013) (Fig. 4). Si viene così a delineare una duplice azione della gliadina nell’induzione del danno della mucosa dei soggetti celiaci. Da un lato la gliadina può attivare la risposta T-mediata e dall’altro può indurre una risposta innata, mediata dall’IL15, ed effetti proliferativi mediati dall’EGF. Gli effetti congiunti di questa duplice azione inducono la lesione tipica della mucosa celiaca. Figura 3. Rappresentazione schematica dei meccanismi di danno dei peptidi della gliadina per la mucosa intestinale dei soggetti celiaci. 56 Alimenti e malattie infiammatorie croniche Figura 4. Nell’enterocita la cooperazione tra IL15 ed EGF è mediata da un complesso dei due recettori (IL15R–alpha ed EGFR). Il signaling che parte dal complesso dei due recettori può essere attivato sia da EGF che da IL15, essendo ciascuno dei due in grado di stimolare ambedue i recettori. Inoltre EGF ed Il15 inducono aumento dell’RNA messaggero di IL15 ed EGF, rispettivamente, creando così un loop di attivazione che si auto-incrementa. Il P31-43, capace di indurre proliferazione degli enterociti ed attivazione il IL15 nella celiachia, aumenta il complesso dei due recettori e la fosforilazione di ciascuno di essi con il relativo signaling a valle. Inoltre è in grado di aumentare la trascrizione dell’mRNA di EGF ed IL15 e di aumentare sulla superficie cellulare il complesso IL15/IL15 R alpha trans presentato (Barone et al., 2011; Nanayakkara et al., 2013, b). Resta da spiegare la maggiore suscettibilità del celiaco a queste particolari attività biologiche di alcuni peptidi della gliadina, in particolare del P31-43. La figura 5 riassume quanto fino ad oggi noto sull’argomento. Il traffico intracellulare delle vescicole di endocitosi regola l’endocitosi dell’EGFR e degli altri recettori, e numerose funzioni cellulari e vie di signaling. Dopo legame dell’EGF al suo recettore EGFR, e la attivazione di questo, il complesso EGF-EGFR è reclutato in vescicole di endocitosi ricoperte da clatrina e internalizzato negli early endosomi e poi nei late endosomi e nel corpo multi vescicolare, per essere poi o riciclato sulla superficie cellulare oppure trasportato ai lisosomi, dove è degradato ed inattivato. È questo il principale meccanismo di attenuazione del signaling dell’EGF: il complesso ligando-recettore continua a segnalare all’interno delle cellule, prima della inattivazione nei lisosomi (Fig. 5A). Nelle cellule (enterocita e fibroblasto) del celiaco il traffico vescicolare di EGF è alterato (Fig. 5B). In queste cellule vi sono infatti alterazioni strutturali e funzionali del compartimento endocitico. In particolare il traffico vescicolare del complesso EGF-EGFR è ritardato con accumulo di EGFR attivo negli early endosomi e attivazione del signaling a valle di EGFR, con conseguente aumento della proliferazione degli enterociti (Nanayakkara et al., 2013, b). Queste alterazioni di base possono rappresentare, nei tessuti del celiaco una condizione predisponente all’azione dannosa di alcuni peptidi della gliadina, in particolare del P31-43. Infatti il P31-43/49 si localizza nelle cellule dei soggetti normali negli early endosomi e ritarda il traffico vescicolare probabilmente per interferenza con la localizzazione di Hrs sulla membrana degli endosomi (Hrs è una molecola chiave nella regolazione della maturazione degli endosomi) (Barone et al., 2011) (Fig. 5C). P31-43 riproduce così nella cellula normale il fenotipo celiaco: le stesse vie metaboliche influenzate dal P31-43 sarebbero già costitutivamente alterate nel celiaco, che risulterebbe pertanto più sensibile all’azione dannosa di questo peptide (Nanayakkara et al., 2013). Un altro importante mediatore della risposta immune innata alla gliadina nel celiaco è lo INFalfa (Monteleone et al., 2001), che è un noto induttore della risposta proinfiammatoria Th1 alle infezioni virali. D’altra parte studi epidemiologici (sulla incidenza delle infezioni da rotavirus nei celiaci), studi sperimentali (stimolazione del TLR3 induce nel topo enteropatia con attivazione di tTG) e di genetica (le regioni genomiche che codificano per il TLR7, TLR8, IRF4 influenzano la suscettibilità alla celiachia) hanno dimostrato l’importanza delle infezioni virali nella celiachia. Il peptide P31-43 è capace infatti di indurre la produzione di INF alfa nell’intestino del celiaco e nelle cellule CaCo2, nelle quali potenzia anche la produzione di INF alfa indotta dal ligando per il TLR7 (Barone et al., dati non pubblicati). Ciò dimostra che gli alimenti possono giocare un ruolo nei rapporti tra infezioni virali e malattie autoimmuni. Un altro meccanismo con il quale il P31-43 può provocare infiammazione è quello di indurre stress del reticolo endoplasmico, con liberazione da questo di calcio ed attivazione intra cellulare della tTG (Caputo et al., 2012) Ma il glutine e altre proteine del grano possono provocare danno (infiammazione) intestinale ed extra intestinale anche in soggetti non celiaci. Per esempio, nel topo, l’eliminazione del glutine dalla dieta riduce l’aumento di grasso, la infiammazione dei tessuti e l’aumento della resistenza all’insulina provocati da eccesso di grassi nella dieta (Soares et al., 2013). Inoltre una particolare frazione delle albumine di grano, quella che inibisce l’alfa amilasi e la tripsina, causa infiammazione intestinale per attivazione del TLR4 (Junker et al., 2012). Il glutine stesso potrebbe rappresentare un fattore di rischio anche in patologie diverse dalla celiachia, per esempio nel diabete di tipo 1. È noto infatti che nei bambini con diabete insulinodipendente, non celiaci, vi sono segni di infiammazione dell’intestino (Savilahti et al., 1999) (Westerholm-Ormio et al., 2003) e possibili triggers di questa infiammazione sono virus e proteine alimentari (Lefebvre et al., 2006). Più in particolare segni di alterata risposta immune mucosale alla gliadina sono stati evidenziati nel diabete di tipo 1 sia per challenge rettale in vivo con peptidi del glutine (Troncone et al., 2003) che per challenge in vitro della mucosa dell’intestino tenue con gli stessi peptidi (Auricchio R et al., 2004). Nell’insieme queste osservazioni suggeriscono che i cereali contenenti glutine non sono sempre dei “buoni” alimenti. Sorge forse anche il quesito se i grani oggi utilizzati nell’alimentazione umana siano più dannosi di quelli ancestrali, che l’uomo iniziò a coltivare all’inizio del neolitico. È possibile che l’aumento dell’incidenza della malattia celiaca (e di altre intolleranze al glutine) sia da connettere all’aumento del consumo di glutine e alla qualità del glutine stesso presente nei cereali della nostra dieta. Probabilmente è da inquadrare in questo contesto la presunta intolleranza al glutine non celiaca (gluten sensitivity), che ha fatto sviluppare una vera e propria moda delle diete prive di glutine in molti paesi. Di fatto la letteratura scientifica su questo argomento è contraddittoria e confusa. Mentre da un lato sono state descritte condizioni patologiche che migliorano eliminando dalla dieta il glutine, dall’altra è stato dimostrato che i pazienti considerati “sensibli” al glutine sono in realtà sensibili ai FODMAPS, oligosaccaridi non digeribili e fermentabili nell’intestino, presenti nella dieta con glutine. (Shepherd SJ et al., 2013) 57 S. Auricchio, M.V. Barone A B C Figura 5. Rappresentazione schematica della endocitosi recettore mediata. A.Traffico dei recettori IL15 R alpha, EGFR e transferrina, all’interno delle cellule normali. I ligandi si legano ai rispettivi recettori sulla superficie cellulare. I complessi ligando/recettore vengono internalizzati mediante un processo di endocitosi ed entrano in vescicole così dette “precoci”. Gli endosomi precoci si formano ad opera di una proteina HRS che regola anche la maturazione degli endosomi da precoci in tardivi. Se HRS non è correttamente localizzato sulla membrana degli endosomi precoci, tutto il trafficking vescicolare è alterato. IL15 e transferrina entrano nel compartimento vescicolare di riciclaggio ed in questo modo sono riportati in membrana. I recettori a tirosina kinasi come l’EGFR vengono solo parzialmente riciclati mentre il loro destino principale è quello di essere trasportati nei compartimenti vescicolari tardivi fino ad essere degradati nei lisosomi. È interessante notare che questi recettori quando sono nel compartimento precoce possono ancora segnalare all’interno della cellula. Questi fenomeni di trasporto all’interno delle cellule regolano la durata dell’attivazione dei recettori, regolando processi fondamentali per la funzione cellulare, quali attivazione dell’immunità innata, proliferazione, regolazione del citoscheletro di actina, motilità e permeabilità. Alterazioni della maturazione degli endosomi possono, quindi, compromettere la funzionalità della cellula in molti modi diversi. B.Traffico dei recettori IL15 R alpha, EGFR e trasferrina, all’interno delle cellule dei soggetti celiaci. Le cellule dei soggetti celiaci presentano alterazioni constitutive del trafficking vescicolare. In particolare in questi soggetti la maturazione degli endosomi precoci in tardivi è rallentata, con conseguente aumento di recettori riciclati in membrana e ridotta degradazione dell’EGFR. Le conseguenze biologiche di queste alterazioni, a livello dell’epitelio intestinale, consistono in un aumento della proliferazione, della permeabilità ed alterazioni del citoscheletro. C.Effetto del peptide P31-43 sul traffico vescicolare dei recettori IL15 R alpha, EGFR e transferrina, all’interno delle cellule. Il peptide P31-43 a causa di una omologia di sequenza con HRS interferisce con la sua corretta localizzazione a livello degli endosomi precoci, con conseguente rallentamento della maturazione degli endosomi da precoci in tardivi, prolungata attivazione di EGFR, aumento di transferrina in membrana di IL15 trans-presentata. Le principali conseguenze biologiche a livello degli enterociti dell’alterato trafficking di questi recettori sono un aumento della proliferazione, una alterazione della permeabilità, alterazioni del citoscheletro da un lato e dall’altro un incremento della risposta immune innata. La prevenzione In conclusione due aspetti principali di interesse pediatrico, della prevenzione dei danni da infiammazione dovuta ad alimenti vanno segnalati. Il primo riguarda la necessità di svezzare il lattante a dieta mediter- 58 ranea: uno degli scopi del divezzamento dovrebbe essere quello di fare sviluppare il gusto del bambino per alimenti della nostra tradizione alimentare. Si sa infatti che lo sviluppo del gusto per alimenti dipende dalle esperienze fatte dal lattante per sapori, derivati dalla dieta materna, in utero o durante l’allattamento al seno o per in- Alimenti e malattie infiammatorie croniche gestione degli alimenti stessi nei primi mesi di vita extra uterina (Vereijken et al., 2011). I lattanti che si svezzano da soli alla dieta degli adulti imparano in ogni caso a regolare l’assunzione di cibo in modo da raggiungere un indice di massa corporea più giusto ed una maggiore preferenza per cibi “sani” (per esempio, per carboidrati complessi) rispetto a lattanti svezzati in modo tradizionale (Towsend et al., 2012). Va anche sviluppata la ricerca di alimenti che siano “poco infiammatori” (grani, per esempio) da utilizzare fin dalle prime epoche della vita. È allo studio la possibilità di utilizzare nella alimentazione umana grani ancestrali (monococchi) con ridotta capacità di provocare infiammazione (e celiachia?). Un monococco coltivato in Italia si è rivelato non essere capace di attivare in vitro la risposta immune innata al glutine nell’intestino del celiaco: resta naturalmente da dimostrare se a ciò corrisponde una ridotta capacità di indurre la celiachia in soggetti geneticamente predisposti (Gianfrani et al., 2012). Inoltre è stato del tutto recentemente dimostrato che le gliadine di monococchi contengono epitopi per le cellule T della mucosa intestinale del celiaco più facilmente digeribili ad opera degli enzimi intestinali di quelli presenti in grani esaploidi (Mamone: comunicazione personale). Anche la risposta TC mediata del celiaco ai monococchi potrebbe perciò rimanere al di sotto della soglia di stimolazione, al di sopra della quale la risposta immune provoca celiachia in soggetti geneticamente predisposti. Box di orientamento Che cosa si sapeva prima Nell’intestino e in particolare negli enterociti, i nutrienti sono modulatori di varie funzioni cellulari e possono essere coinvolti nella risposta immunitaria e nell’infiammazione tessutale. Studi epidemiologici hanno associato l’aumento dei disordini infiammatori cronici alla diffusione della cosi detta “Western diet”, considerata un fattore di rischio per le malattie infiammatorie croniche ed il cancro. La dieta mediterranea è invece sempre più considerata la dieta stantard per la salute dell’uomo essa infatti riduce il rischio di malattie cardiovascolari, cancro, Alzheimer, Parkinson e morte prematura in genere. Un esempio di risposta infiammatoria e rimodellamento dell’intestino alle proteine alimentari è la lesione del piccolo intestino nella Malattia Celiaca, che è indotta dal glutine- una proteina alimentare presente nel frumento e altri cereali. Che cosa sappiamo adesso I nutrienti possono interagire con l’epitelio intestinale e le cellule del sistema immune, esattamente come i virus, i batteri o altri fattori ambientali, attivando le stesse vie di segnale cellulare ed in questo modo possono modulare l’infiammazione. Lo studio degli eventi precoci della malattia celiaca e in particolare dell’interazione fra i peptidi indigeriti della gliadina e le cellule epiteliali intestinali ha rivelato che il cosiddetto peptide “tossico” (P31-43) della gliadina condivide una omologia di sequenza con un mediatore chiave della maturazione degli endociti da precoci (early) in tardivi (late), lo HRS (Hepatocytes-growth factor-Regulated -Substrate-kinase): il peptide P31-43 interferisce infatti con la funzione di HRS, alterando il traffico vescicolare: il P31-43 induce così almeno due effetti principali (mediati da EGF e IL15), cioè la proliferazione degli enterociti delle cripte e la risposta immunitaria innata. È probabile che alterazioni costitutive del compartimento endocitico possano rappresentare, nei tessuti del celiaco, una condizione predisponente all’azione dannosa di alcuni peptidi della gliadina, in particolare del P31-43. Quali ricadute sulla pratica clinica Appare raccomandabile svezzare il bambino alla dieta mediterranea, favorendo lo sviluppo del gusto del lattante per gli alimenti che caratterizzano tale dieta. Bibliografia Ananthakrishnan AN, Khalili H, Konijeti GG, et al. A Prospective Study of Longterm Intake of Dietary Fiber and Risk of Crohn’s Disease and Ulcerative Coliti. Gastroenterology 2013;145:970-7. Auricchio R, Paparo F, Maglio M, et al. In vitro-deranged intestinal immune response to gliadin in type 1 diabetes. Diabetes 2004;53:1680-3. Bach JF. The effect of infections on susceptibility to autoimmune and allergic diseases. N Engl J Med 2002;347:911-20. Barone MV, Gimigliano A, Castoria G, et al. 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E-mail: [email protected] 60 Gennaio-Marzo 2014 • Vol. 44 • N. 173 • Pp. 61-68 tavola rotonda Pediatria, Neuropsichiatria Infantile e Neurologia Pediatrica. Problemi attuali di assistenza e ricerca Tavola Rotonda “Recenti Progressi in Neurologia Infantile: dalla ricerca alla Clinica”, Convegno organizzato dalla Fondazione Pierfrancesco e Luisa Mariani (Milano, Università Statale, 26-27 settembre 2013) A cura di Fabio Sereni Fabio Sereni (Milano): Sono ben lieto di moderare, con Ermellina Fedrizzi, questa Tavola Rotonda, organizzata dalla Fondazione Mariani in un convegno dedicato a recenti progressi in neurologia infantile1. Non è affatto usuale tenere una Tavola Rotonda su un problema di politica sanitaria in un convegno dedicato alla formazione, seppure ad alto livello. Ma ho pensato che fosse una occasione da non perdere, per discutere un annoso problema istituzionale e sanitario quale è il difficile rapporto tra neuropediatria e neuropsichiatria infantile, avendo qui riunite tante significative personalità della pediatria italiana. Ringrazio in particolare i presidenti delle società scientifiche per avere accettato l’invito di partecipare a queProfessore Emerito di Pediatria, Università sta Tavola Rotonda. È vero che la collaborazione professionale, e la stima, tra neuropediatri e neuropsichiatri infantili non è mai mancata, ma sul piano istituzionale-culturale, e anche su quello della programmazione degli Studi di Milano assistenziale, non vi è stato finora colloquio. Due mondi, all’interno della pediatria, per molti versi separati. Da un lato la neuropsichiatria infantile, con i numerosi qualificati servizi clinici e la sua consolidata ricerca clinica (mi piace qui ricordare la Stella Maris di Pisa e le Unità di Neuropsichiatria Infantile dell’Istituto Besta), dall’altro i neuropediatri della Società Italiana di Neurologia Pediatrica affiliata alla SIP, operanti in policlinici pediatrici e in cliniche universitarie (dal Bambino Gesù al Gaslini, come in tante altre istituzioni). Da sempre, come clinico pediatra, ho molto sofferto per questa separazione. Questo mio disappunto è forse, oggi, ancora più accentuato di ieri, in quanto è sempre più evidente che l’avvenire della moderna pediatria è condizionato dall’esistenza e dal successo delle specializzazioni pediatriche, e nessuno può negare che la neuropediatria sia, tra le specializzazioni pediatriche, una delle più rilevanti. La discussione, in questa Tavola Rotonda, consisterà in due parti. Nella prima i presidenti delle società scientifiche ci dovranno dire cosa pensano dell’attuale situazione e come immaginano possano essere migliorati nel prossimo futuro i rapporti istituzionali tra neuropsichiatria infantile e neuropediatria. Nella seconda parte della Tavola Rotonda abbiamo chiamato a testimoniare illustri clinici per dirci dei vantaggi e degli svantaggi che nelle loro esperienze sono derivati dall’operare in contesti clinici tra loro molto diversi, come indubbiamente sono i grandi policlinici pediatrici (Bambino Gesù, Gaslini, Meyer) o le istituzioni monospecialistiche (Stella Maris, Istituto Besta) o, ancora ospedali universitari (Brescia). Spero, concludendo questo mio breve commento introduttivo che questa Tavola Rotonda, sia non solo il primo importante momento di incontro istituzionale, ma anche occasione per proposte concrete di collaborazione futura tra neuropsichiatria infantile e neuropediatria. Le parole ora ai presidenti delle società scientifiche. In ordine alfabetico, per primo la parola spetta a Giovanni Corsello, presidente della Società Italiana di Pediatria (SIP). 61 a cura di Fabio Sereni Giovanni Corsello (Palermo): Vorrei inquadrare il problema dei rapporti tra neuropsichiatria infantile e neuropediatria non solo nel più vasto ambito del problema delle specialità pediatriche, ma anche alla luce delle necessità del bambino e del suo benessere nella società. Vorrei anche inquadrare il tema specifico che Presidente Società oggi ci viene qui proposto nel quadro delle proItaliana di Pediatria blematiche più generali dell’area pediatrica, che (SIP) va dal concepimento all’adolescenza, con tutte le conseguenti necessità assistenziali e di ordine specialistico che devono essere programmate ed erogate, particolarmente oggi in epoca di carenza di risorse finanziarie. Medici dell’area pediatrica sono sia il pediatra, come il neuropsichiatra infantile. Condividiamo quindi, in questa ottica, obiettivi comuni: dobbiamo insieme pretendere che vi siano percorsi immaginati e messi in atto con l’obiettivo di difendere e garantire il bambino e l’adolescente. Vi sono oggi tutta una serie di aree assistenziali in cui si svolgono le attività del pediatra, dalle cure intensive neonatali alla salute mentale dell’adolescente, al follow-up delle malattie croniche. Sono tutte aree che fino a poco tempo fa non esistevano, ma che oggi necessitano di percorsi dedicati. Come è organizzata, in Italia, il sistema di cure del bambino? Esiste l’area delle cure primarie, affidata al pediatra di famiglia, esiste l’area delle cure ospedaliere, affidata ai molti reparti di pediatria degli ospedali generali e ad alcuni policlinici pediatrici, e poi vi sono le specialità pediatriche. È lo stesso modello che esiste in tutti i paesi d’Europa, anche se in quasi tutti le cure primarie non sono affidate al pediatra di famiglia. Si sente oggi particolarmente la necessità di integrare la pediatria generale con quella specialistica. Il pediatra è colui che per primo monitorizza deviazioni dalle norma di funzioni neurologiche o cognitive, e deve quindi coinvolgere, prima possibile, lo specialista. Ma è frequente anche la necessità inversa, e cioè che lo specialista abbia necessità di ricorrere al pediatra generalista per le diverse patologie organiche che il bambino con patologia neurologica o cognitiva può avere. Bisogna quindi assolutamente aumentare il livello di integrazione tra neuropsichiatria infantile, neurologia pediatrica e pediatria generale, a tutti i livelli, da quello formativo a quello assistenziale. Ricordo un noto neuropsichiatra infantile affermare, molti anni orsono, quando io ero ancora specializzando, che ogni neuropsichiatra infantile doveva essere stato prima pediatra. Vi è qualche verità in questa affermazione, anche se non credo che la questione sia stata ben posta in questi termini. Il vero problema è la integrazione, innanzitutto a livello formativo, a partire dalle scuole di specializzazione. Non penso che nella situazione attuale vi sia la possibilità di varare nuove scuole di specializzazione con nuovi indirizzi, se non altro per motivi finanziari. Per la pediatria ciò potrebbe anche risultare un vantaggio, e porsi come un freno alla frammentazione della nostra disciplina. Ricordo, a questo riguardo che non esistono oggi possibilità di attivazione di concorsi ospedalieri riservati alle specialità pediatriche. Malgrado le difficoltà odierne, sussiste la necessità di garantire i percorsi della formazione pediatrica sub specialistica come garanzia dei livelli di salute dei bambini, in particolar modo dei bambini con malattie croniche e ad alta complessità assistenziale. Come Società Italiana di Pediatria siamo molto coscienti che vi sia oggi un concreto, grave pericolo. Quello che prevede la confluenza delle specialità pediatriche d’organo nell’analoga specialità dell’adulto, provvedimento che potrebbe essere giustificato dalla riduzione del numero di specializzandi. Per ovviare a questo pericolo abbia- 62 mo proposto che si introducano, in armonia con il curriculum delle scuole di specialità in pediatria, dei sistemi di formazione sub specialistici accreditati dalle società scientifiche con il riconoscimento istituzionale. Si tratta di identificare una sorta di Syllabus per i vari settori, e cioè un corpus di competenze necessario per ciascuna delle specialità pediatriche, che definisca le nozioni e gli skills che il pediatra deve possedere per svolgere le funzioni cliniche di “specialista”, soprattutto a livello ospedaliero. In altre parole, vorremmo che si giungesse a una certificazione di competenze specialistiche riconosciute, anche in ambito ministeriale, in grado di corrispondere alle necessità assistenziali delle varie aree. Fabio Sereni: Grazie presidente Corsello. Vorrei sottolineare due punti della tua relazione, perché mi sembrano non solo importanti ma anche di “apertura”. Innanzitutto Corsello ha detto che le specialità pediatriche sono tante, ma la neurologia e la neuropsichiatria infantile sono particolarmente importanti. Non tutte le specialità pediatriche hanno la stessa valenza clinica di alta specializzazione. In secondo luogo è stata sottolineata la necessità di potenziare la neuropsichiatria infantile nelle nostre strutture sanitarie. Ma Corsello ha anche accennato al fatto che le attuali normative concorsuali e organizzative ospedaliere non contemplano le specialità pediatriche e ha proposto l’introduzione di Syllabus ufficialmente riconosciuti. Vorrei fare presente, a questo proposito, che già oggi alcuni servizi ospedalieri specialistici hanno una ben riconosciuta collocazione nel servizio sanitario nazionale. Ricordo la legge che ha istituito unità operative complesse per la cura della fibrosi cistica in ogni Regione. Inoltre esistono disposizioni ministeriali che indicano la necessità di centri di nefrologia pediatrica per ogni determinato numero di abitanti. Lo stesso vale per il diabete infantile. Non sono questi riconoscimenti “non formali” ma effettivi di specializzazioni pediatriche? La parola spetta ora a Bernardo Della Bernardina, presidente della Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile (SINPIA) Bernardo Dalla Bernardina (Verona): Vorrei iniziare il mio discorso dal concetto di area pediatrica che Corsello ha trattato nella prima parte della sua relazione, concetto che condivido. E condivido anche ovviamente la sottolineatura dell’importanza della patologia dello sviluppo neuropsichico nell’ambito dell’area pediatrica. Ricordo che circa Presidente il 20% delle patologie pediatriche riguarda le noSocietà Italiana di stre competenze, riguarda cioè la neuropsichiatria Neuropsichiatria infantile. Per questa patologia scindere la compodell’Infanzia e Adolescenza (SINPIA) nente neurologica da quella psichiatrica è un “artefatto”. Spesso queste patologie si manifestano con sintomatologie specifiche di determinate funzioni d’organo, neurologiche o comportamentali, ma nella stragrande maggioranza dei casi evolvono, non si complicano, in condizioni neuropsichiche complesse. Da ciò derivano, a mio parere, due considerazioni: La prima è la necessità, per il medico curante, di possedere nozioni adeguate di come le forme morbose evolvono, di comprendere i meccanismi che condizionano l’evoluzione patologica, la seconda è di prenderne atto con una presa in carico clinica adeguata. Ma lo specialista neuropsichiatra infantile deve anche tenere conto che queste condizioni patologiche di nostra competenza evolvono condizionate da una interazione con l’ambiente, che ne condiziona/ determina la prognosi. Conseguentemente è necessario garantire la Pediatria, Neuropsichiatria Infantile e Neurologia Pediatrica. Problemi attuali di assistenza e ricerca continuità territoriale della presa in carico del bambino con queste patologie. Perché ho desiderato sottolineare queste particolarità? Perché anche se la neuropsichiatria italiana è una singolarità rispetto ad altre realtà europee, penso che sia una disciplina, certamente all’interno dell’area pediatrica, ma specificatamente deputata a questo tipo di cultura e a queste importanti necessità assistenziali. Ancora: riconosco che l’attenzione per molte nozioni di patologia neurologica può essere carente nell’attuale cultura neuropsichiatrica infantile, ma d’altra parte si deve anche ammettere che nella cultura pediatrica la neurologia non ha, molte volte, uno spazio adeguato. In conclusione penso vi siano molte buone ragioni per sostenere che accanto alla pediatria, all’interno dell’area pediatrica, la neuropsichiatria infantile svolga un ruolo importante. Vorrei ora rispondere alla domanda di Sereni di come ho vissuto la separazione tra neuropsichiatria infantile e pediatria (o, se volete neuropediatria), e quali secondo me sono state le conseguenze negative o positive. Devo confessare che non ho mai vissuto “male” questa separazione. Penso anche che la separazione non sia nata da una volontà ostile, credo che non debba essere considerata un problema, sono convinto che debbano essere trovate modalità per evitare che si creino situazioni “schizofreniche”. A questo proposito è cosa buona che la neuropsichiatria infantile sia tornata nell’area pediatrica, per quanto riguarda le carriere universitarie e i problemi assistenziali, mentre penso debba essere corretto il fatto che la specializzazione in neuropsichiatria infantile sia ancora, formalmente, nel tronco comune delle neuroscienze. Del resto anche la Società Italiana di Neuropediatria non è nata in conflitto con la neuropsichiatria, come Pavone e Fois qui presenti sicuramente ricordano, e anche oggi non siamo certamente in conflitto. Abbiamo fatto anche percorsi comuni, congressi congiunti, e anche ipotizzato una federazione. Auspico, fortemente per il futuro un potenziamento di queste convergenze. Vi è ad esempio sul tappeto l’ipotesi di masters comuni per pediatri e neuropsichiatri infantili, con conseguente possibilità di potenziamento della cultura pediatrica per chi viene dalla neuropediatria e di quella neurologica per chi viene dalla neuropsichiatria. Stiamo vivendo un momento difficile, dobbiamo uscirne tenendo presente che la storia è fatta dagli uomini, che devono trovare accordi e superare conflitti personali. Ma qui usciamo dai temi di questa Tavola Rotonda e mi fermo. Fabio Sereni: Grazie, Dalla Bernardina, per l’equilibrio e la profondità delle tue argomentazioni. Ha chiesto ora la parola Ermellina Fedrizzi. Subito dopo Carlo Minetti concluderà questa prima serie di interventi Ermellina Fedrizzi (Milano): Ringrazio Bernardo Dalla Bernardina, anche perché condivido al cento per cento quanto ha appena detto. Se Sereni si definisce un vecchio pediatra, io sono una vecchia neuropsichiatra infantile. Nel corso della mia lunga carriera ho potuto tante volte constatare l’importanza di non separare mai, soprattutto nel bambino piccolo, le problematiche Fondazione P. e L. Mariani, Milano neurologiche da quelle psichiatriche, che sono strettamente connesse. Ma vorrei anche sottolineare il grande problema culturale della neurologia dello sviluppo, che è stato portato avanti in Italia dapprima al Besta e poi anche a Pisa alla Stella Maris, con lo studio sia della normalità dello sviluppo come della riorganizzazione delle funzioni dopo determinate lesioni, settore questo della riabilitazione oggi di grande attualità. Anche per questo aspetto è molto importante che la neuropsichiatria italiana mantenga e sviluppi le sue capacità cliniche e assistenziali. Carlo Minetti (Genova): Vorrei partire dalla domanda di Sereni che ci ha chiesto in prima istanza di dirci come abbiamo vissuto la separazione tra neuropsichiatria infantile e neuropediatria. Concordo con Dalla Bernardina. Non è, in effetti, che prima fossimo uniti e che poi sia avvenuta una separazione. No, la neuropediatria è stata il frutto di Presidente Società uno sviluppo autonomo, spontaneo e necessario, Italiana di Neurologia nell’ambito della Società Italiana di Pediatria. Pediatrica (SINP) Desidero in primo luogo sottolineare che considero la neuropsichiatria infantile, specificità molto italiana, esperienza senza dubbio utile, come è utile partendo da una solida cultura pediatrica una formazione specialistica in neuropediatria. Io stesso mi sono specializzato prima in pediatria e poi in neuropsichiatria infantile. Ma non possiamo pretendere che un giovane medico ripeta oggi la nostra esperienza, che avrebbe una durata di ben 10 anni dopo la laurea. Vorrei a questo punto aggiungere che non è contestabile, a mio parere, la complementarietà della neuropediatria con la psichiatria infantile. Detto questo desidero però sottolineare che le necessarie competenze specialistiche sono oggi talmente sviluppate che ne consegue che sia indubbio che non vi possa essere competenza “globale” in neuropediatria e in neuropsichiatria infantile, soprattutto a livello ospedaliero. Come può un medico che si occupa di epilessie genetiche o di encefalopatie mitocondriali fornire pareri utili e iperspecialistici al pediatra che chiede consiglio come curare un bambino con disturbi del comportamento? Ognuno di noi partecipante a questa Tavola Rotonda ha una sua specializzazione, pur partendo noi tutti dallo stesso tronco comune culturale. Dobbiamo quindi, io credo, arrivare al riconoscimento di ruoli iperspecialistici nell’ambito della neurologia e della neuropsichiatria pediatrica. Fabio Sereni: L’iperspecialità della subspecialità? Carlo Minetti: Forse, almeno in ambito ospedaliero, proprio si. Ma mi accontenterei di meno. Voi tutti sapete, e oggi è già stato detto, che la neurologia pediatrica italiana non è riconosciuta in Europa a livello accademico e ospedaliero. In altre parole se esiste un posto vacante di neuropediatria in un ospedale francese un pediatra italiano esperto in neuropediatria non ha alcuna possibilità di concorrere, a meno che non acquisisca un curriculum in Europa in tale settore. Io credo quindi che il problema fondamentale sia oggi giungere a un processo formativo che porti al riconoscimento europeo della neurologia pediatrica italiana. Se ottenessimo questo risultato vi sarebbe anche un vantaggio economico, perché oggi a livello europeo la mancata specializzazione italiana in neuropediatria comporta anche il non riconoscimento di prestazioni ospedaliere neuropediatriche. Come questo problema può essere superato? Ne parleremo nella seconda parte di questa Tavola Rotonda, ma vorrei anticipare che potrebbero essere creati masters ad hoc o, in alternativa, indirizzi specifici nel curriculum della specialità di pediatria. Concludo con una nota sulla necessità che il neuropediatra abbia una solida base culturale pediatrica. Il neuropediatra non deve solo saper riconoscere e curare le convulsioni febbrili, ma deve anche 63 a cura di Fabio Sereni curare la febbre. E ai neuropsichiatri infantili dico che dobbiamo noi tutti puntare, come obiettivo primario, a una formazione culturale per i giovani nell’ambito della medicina dell’età evolutiva, con la sottolineatura che non vi è assolutamente, né da parte dei pediatri come dei neuro pediatri, la volontà di imporre alcun schema culturale prefissato. Fabio Sereni: Grazie signori presidenti. Siamo tutti colombe, qui non ci sono falchi. Non vi è quindi bisogno di alcuna conciliazione, ma solo di fare nel prossimo futuro passi avanti nella collaborazione. È tempo ora di passare alla seconda parte di questa discussione tra presidenti, e di sentire come ognuno di voi pensa si possano superare, in tempi accettabili, le difficoltà e le carenze segnalate. Giovanni Corsello: Penso che questa Tavola Rotonda sia stata molto utile. Possiamo costruire una prospettiva nuova. Abbiamo condiviso la centralità del bambino, che accomuna i nostri propositi nell’agire in tema di neuroscienze pediatriche. Dobbiamo lavorare affinché l’integrazione delle nostre competenze e attività sia sempre maggiore. Alcuni esempi. Il tronco comune, che già esiste nelle due scuole di specializzazione, dovrà essere condiviso e valorizzato, perché ciò rafforzerà l’area pediatrica nella sua globalità. Dobbiamo cercare e individuare altri percorsi comuni di formazione che abbiano al centro la neurologia pediatrica. Penso, ad esempio, a un master integrato specialistico, riconosciuto ufficialmente, anche perché mi sembra poco probabile che siano nel prossimo futuro approvati dal Ministero nuovi indirizzi di specializzazione, di cui Carlo Minetti ha auspicato la creazione. Ogni impegno comune, sia sul piano culturale-formativo come su quello assistenziale, tra neuropediatri e neuropsichiatri infantili, va incoraggiato. Fabio Sereni: Si, va bene. Ma vorrei proposte più concrete, da attuare in tempi brevi. Giovanni Corsello: Sarebbe importante creare una task-force come strumento. Oltre a questo io credo che si debbano collegare tra loro le società scientifiche dell’area pediatrica. Dobbiamo pensare a una sorta di Federazione unica che dia un segnale forte alle istituzioni, e cioè a una voce unica che rappresenti l’area pediatrica. La proposta che la Società Italiana di Pediatria (SIP) fa qui oggi è questa: creare una struttura federativa operativa in tempi brevi. Fabio Sereni: Come promotore di questa Tavola Rotonda suggerirei che per iniziare non fosse una federazione di tutte le società scientifiche pediatriche, ma che si iniziasse con il federare la Società Italiana di Pediatria con la Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA). Ma tu, Bernardo Dalla Bernardina, come rispondi a questa proposta? Bernardo Dalla Bernardina: Devo continuare a fare la colomba? Non possiamo, progettando una futura collaborazione, puntare contemporaneamente a più obiettivi, assistenziali, formativi, accademici. Si eliderebbero a vicenda. L’Italia non è l’unico paese d’Europa in cui non esiste una specializzazione medica in neurologia pediatrica. Il problema a mio parere è più semplice, è come arrivare al riconoscimento di una formazione specialistica neuropediatrica. È vero che lo specializzando della mia scuola può andare a lavorare, in Europa, come psichiatra infantile, ma ha molte più difficoltà a lavorare come neuropediatra, anche se ciò non è impossibile. 64 Ad esempio se vorrà lavorare in Francia, dovrà fare lo stesso percorso formativo che fanno i pediatri francesi, e cioè master di primo livello, master di secondo livello, oppure dovrà lavorare per un tempo adeguato sotto la supervisione di un riconosciuto neuropediatra locale. Le possibilità, quindi, di lavorare oltre confine come neuropediatra ci sono (anche senza specializzazione in Italia). L’ipotesi di creare un curriculum formativo riconosciuto a livello europeo, e certificato con crediti una volta accertate determinate competenze, è oggi, purtroppo, fermo. D’altra parte è anche vero che la direzione di una unità operativa ospedaliera di neuropediatria può oggi essere affidata in Italia, sia a un pediatra come a un neuropsichiatra infantile. Non andiamo da nessuna parte se ci proponiamo di mutare, oggi, questa situazione con nuove normative. Né io credo sia la cosa più urgente. Io credo sia più saggio iniziare con l’ipotesi di Corsello di una Federazione, evitando di affrontare subito i problemi accademici e formativi. Federazione tra la Società di Neurologia Pediatrica (SINP) e la Società di Neuropsichiatria Infantile (SINPIA), anche se questa sarebbe una Federazione “anomala”, in quanto tra una società specialistica di pediatria e una disciplina pediatrica autonoma. Ma io credo che questo sarebbe un inizio molto positivo sotto l’aspetto culturale. Fabio Sereni: Se ho ben capito Bernardo Dalla Bernardina aderisce alla proposta Corsello, ma pone l’accento sulla necessità di una “gradualità” di attuazione, iniziando con un patto federativo tra SINP e SINPIA, rimandando a tempi successivi quello tra SIP e SINPIA. Carlo Minetti: Sono d’accordo con entrambi gli interventi. Ritengo che una Federazione, anche allargata, sia molto utile ma non credo che questo sarà lo strumento che risolverà tutti i problemi. Io credo che sia molto importante istituire presto un tavolo tecnico, che Corsello ha chiamato task-force, con la presenza di tutte e tre le società scientifiche. Questo tavolo tecnico dovrebbe avere il compito, finale, di ottenere un riconoscimento della neurologia pediatrica come specialità e definire nel frattempo un curriculum formativo preciso. L’obiettivo immediato della task-force dovrà essere il coordinamento delle attività culturali. Fabio Sereni: La prima parte della Tavola Rotonda si conclude qui. Da quanto ho inteso, a me sembra realistico chiedere che sia al più presto istituita la task-force, con propositi soprattutto culturali formativi, iniziativa per la quale vi è stato oggi, io credo, unanime consenso. Passiamo ora a discutere, dopo gli aspetti normativi-istituzionali, quelli assistenziali. Sono qui presenti al tavolo cinque illustri personalità della neuropediatria, personalità che operano in istituzioni ospedaliere tra loro molto diverse. Enrico Bertini e Renzo Guerrini dirigono importanti servizi clinici in grandi policlinici pediatrici (Bambino Gesù e Meyer), Giovanni Cioni e Nardo Nardocci sono responsabili di unità operative in enti monospecialistici (Stella Maris e Istituto Besta), infine Elisa Fazzi lavora come responsabile della neuropsichiatria in un grande ospedale convenzionato con l’Università (Brescia). A ognuno di questi personaggi chiedo di commentare e discutere vantaggi e svantaggi di lavorare in contesti ospedalieri così differenti, sia dal punto di vista culturale che assistenziale, ben conscio che non sarà sicuramente semplice giungere a indicazioni in senso operativo-migliorativo. Tuttavia io penso che quanto gli illustri clinici diranno potrà, anzi dovrà essere attentamente considerato Pediatria, Neuropsichiatria Infantile e Neurologia Pediatrica. Problemi attuali di assistenza e ricerca da quanti, politici e amministratori, hanno il compito della conduzione e programmazione ospedaliera. La parola per primo (in ordine alfabetico) a Enrico Bertini. Enrico Bertini (Roma): Lavoro in un grande ospedale policlinico pediatrico IRCCS e mi occupo di sviluppare la Medicina Traslazionale nell’ambito della Malattie Rare e in particolare delle malattie neuromuscolari e neurodegenerative. Obiettivo principale della disciplina è quella di poter sviluppare protocolli innovativi per ricoOspedale Pediatrico struire la storia naturale di malattie neurogeneBambino Gesù, Roma tiche e per trovare nuove terapie. Tutto questo lavoro molto specialistico, che si adatta bene a una società sviluppata come l’Italia, è possibile svolgerlo solo in un grande policlinico pediatrico, quale è l’Ospedale Bambino Gesù. In tale struttura la disciplina della neuropsichiatria svolge un ruolo diverso dalla neurologia, e io posso personalmente operare in una terza struttura di neurogenetica dedicata alle malattie neuromuscolari e malattie neurodegenerative sviluppando diagnostica genetica, studiando modelli cellulari e potendo tradurre rapidamente le acquisizioni del laboratorio nella pratica clinica. La complessità di tali percorsi è garantita dal fatto che opero in un ospedale policlinico pediatrico che fa parte del network italiano degli istituti di ricerca e di cura a carattere scientifico. Il vantaggio di operare in un policlinico pediatrico per lo sviluppo della complessità assistenziale e di ricerca è ovvio. È possibile in questa ampia scomposizione del lavoro medico poter approfondire sempre più le mille sfaccettature delle malattie genetiche. Avverto tuttavia che la carenza maggiore è ancora la scarsa sensibilità, e conseguentemente lo scarso sviluppo sul nostro territorio nazionale, in particolare per il centro sud, di sviluppare l’offerta di centri multispecialistici per il follow-up delle malattie neuromuscolari e per le malattie rare in generale. Abbiamo costituito un centro coordinatore per le malattie rare sul territorio nazionale, le Regioni anch’esse stanno sviluppando centri regionali di riferimento per le malattie rare (molte Regioni per ora si limitano a fare censimenti annuali e hanno costituito i centri per le malattie rare ma complessivamente esiste una scarsa visione sulle reali necessità che le malattie rare impongono all’organizzazione sanitaria). Il nodo principale che bisogna organizzare è la creazione di centri e visite periodiche multispecialistiche per il follow-up delle malattie rare. Alcune esperienze stanno sorgendo per volere di Telethon, che si batte con una visione anticipatoria per lo sviluppo della medicina traslazionale, come i centri NEMO, ma tali esperienze vanno moltiplicate perché i centri multispecialistici per le malattie rare sono una condizione necessaria per la conoscenza oggi della storia naturale delle malattie e domani per lo sviluppo delle terapie future. La creazione di centri multispecialistici e multidisciplinari ricevono la resistenza all’interno dei singoli istituti, perché complicano la contabilizzazione e monitorizzazione amministrativa interna, e ricevono altresì resistenza dalle Regioni, perché temono un iniziale esborso di maggiori risorse, ma certamente queste verrebbero recuperate con una maggiore razionalizzazione della spesa sanitaria con la creazione di centri esperti a livello nazionale per specifiche malattie. Fabio Sereni: Comprendo il tuo disappunto di non poterti compiutamente giovare della presenza, in un policlinico pediatrico, delle diverse competenze cliniche specialistiche, ma, ciò nonostante i vantaggi di lavorare al Bambino Gesù sicuramente ne hai! Enrico Bertini: Certamente, ma volevo solo sottolineare che i vantaggi sono più potenziali che reali. Il sistema è tale per il quale è difficile creare un vero e proprio ambulatorio multispecialistico, perché ogni operatore deve dare conto, alla amministrazione, del suo ambulatorio, per la sua specialità. Ma confido nella pianificazione futura. Oggi, in Regione Lazio, l’attività di day hospital non è incentivata, spero che nel prossimo futuro questo avvenga tenendo conto della multidisciplinarietà, riservando spazio e tempo a pazienti che richiedono più consulenze con patologie multiorgano, come quelle che io seguo. Desidero concludere questo mio intervento ricordando uno dei vantaggi reali che comporta, per un neurologo pediatra, lavorare in un grande policlinico pediatrico. Questo vantaggio concerne la formazione dei giovani medici. Sempre di più la mia esperienza mi porta a valorizzare l’importanza che il giovane in formazione, nel corso di un dottorato di ricerca o di un master, associ alle esperienze cliniche quelle di ricerca in un laboratorio di biologia e (o) di genetica. Questo tipo di formazione può essere realizzato con facilità in una struttura come il Bambino Gesù, ove la ricerca è molto presente. Dopo alcuni anni di ricerca il giovane medico può tornare alla clinica con un notevole valore aggiunto, culturale e professionale. Fabio Sereni: Grazie Bertini, anche per avere, con le tue ultime parole, sottolineato che nella cultura medica moderna ricerca di base, traslazionale e clinica non possono essere disgiunte. La parola spetta ora a Giovanni Cioni, professore ordinario di Neuropsichiatria Infantile all’Università di Pisa e anche, o soprattutto, direttore scientifico dell’IRCCS Fondazione Stella Maris. Giovanni Cioni (Pisa): La mia esperienza, il mio impegno lavorativo è diverso da quello di Enrico Bertini. Come ha indicato il moderatore di questa Tavola Rotonda, lavoro nella ricerca, l’assistenza e la didattica per i disturbi neuropsichici del bambino e dell’adolescente presso l’IRCCS Stella Maris. La Fondazione Stella Maris è un istituto di Fondazione Stella ricovero e cura, una struttura di ricerca e cura, Maris, Università di completamente dedicata ai disturbi dello svilupPisa po. Esso ha da sempre nel suo DNA l’integrazione tra neurologia e psichiatria, tra assistenza e ricerca, tra lavoro in ospedale e sul territorio. Sono convinto che nella nostra istituzione sia il medico che vi opera che il lavoro diagnostico e terapeutico con il paziente e la sua famiglia abbiano una caratterizzazione differente da quella di altre strutture ospedaliere che si occupano di neurologia dell’età evolutiva nel nostro paese, operando in policlinici pediatrici o aziende ospedaliere. L’IRCCS Stella Maris è un’azienda sanitaria piccola, con all’interno unità ospedaliere di neurologia, di psichiatria e di riabilitazione. Inoltre la sua alta specializzazione ha imposto la creazione di laboratori “trasversali” avanzati, come quello di neurogenetica e quello di neuroimmagini RM a campo alto e ultra alto. Abbiamo, in lunghi anni, acquisito un buon credito scientifico e assistenziale e abbiamo conseguentemente ricevuto adeguati finanziamenti di ricerca. Premesso questo, vorrei riassumere brevemente gli aspetti di forza che possiamo vantare, rispetto ad altre istituzioni, sia per i pazienti come per le loro famiglie, senza celare alcuni aspetti di debolezza del nostro modello. Da noi i pazienti e i loro familiari non si interfacciano separatamente con il neurologo e lo psichiatra, ma sempre con il neuropsichiatra infantile. Inoltre nello stesso ospedale, durante il brevissimo tempo 65 a cura di Fabio Sereni del loro accesso, essi trovano accanto alla valutazione clinica neuropsichiatrica e degli altri professionisti del team, anche i contributi essenziali delle più moderne tecnologie diagnostiche e terapeutiche. Gli approcci complementari, neurologico e psichiatrico, funzionale e strumentale, medico e delle altre professionalità, con cui vengono presi in carico i nostri pazienti, è un importante strumento clinico, molto apprezzato dalle famiglie. L’approccio integrato, nostra caratteristica, è anche senza dubbio un valore aggiunto per la formazione, sia del medico neuropsichiatra infantile come del pediatra, sia per i pochi che poi lavoreranno in strutture di secondo e terzo livello, che per chi poi opererà sul territorio. Per svolgere al meglio questi compiti è necessario raggiungere una “massa critica” di posti letto, di casistiche, di operatori, di risorse cliniche e strumentali, come avviene in un IRCCS dedicato. È vero che vi sono anche aspetti nel nostro modello di ospedale dedicato ai disturbi dello sviluppo neuropsichico non così positivi. Tra le principali, la necessità ma anche la difficoltà di coinvolgere, nel caso di patologie sempre più complesse, talvolta multiorgano, medici e reparti con altre competenze specialistiche, non neuropsichiatriche. Attualmente ciò si svolge attraverso consulenze in sede o presso il policlinico universitario di Pisa o l’AOU Meyer, strutture con le quali il nostro IRCCS ha rapporti convenzionali da sempre, ma che restano lontane, con disagi per i pazienti, difficoltà di integrazione, limitazioni nelle tipologie dei pazienti ricoverabili senza l’immediata vicinanza della rianimazione. Speriamo di ridurre in parte queste difficoltà con la realizzazione della nuova sede dell’IRCCS che ospiterà degenze e laboratori e che sorgerà entro 3 anni accanto al nuovo policlinico universitario di Pisa e vicinissimo all’Area di ricerca del CNR. Miriamo a mantenere così la specificità, l’autonomia e l’integrazione di un IRCCS dedicato alla neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, che rimane il valore del nostro modello, con la maggiore integrazione con le altre competenze mediche. Fabio Sereni: Grazie, amico Cioni. La parola ora alla professoressa Elisa Fazzi, che ha portato la sua grandissima specializzazione di neuropsichiatra infantile in un grande ospedale universitario di una città di medie dimensioni. A Elisa Fazzi io chiedo: come hai vissuto l’esperienza di esserti trasferita da Pavia a Brescia, dal lavorare in un istituto monospecialistico come l’IRCCS C. Mondino a inserire la neuropsichiatria infantile in un ospedale generale. Quali vantaggi e quali svantaggi? Elisa Fazzi (Brescia): Premetto: nel corso della mia oramai trentennale esperienza, sono sempre stata convinta della specificità e dell’utilità della neuropsichiatria infantile, ma altresì dell’importanza del dialogo e della collaborazione con i pediatri. Essere neuropsichiatri infantili in un istituto monotematico di neurologia permette di coltivare una dimensione culturale in cui le Università di Brescia neuroscienze sono centrali e la neuropsichiatria infantile nasce da quella cultura con una specificità età-dipendente. Quella di Brescia è stata, ed è, per me, un’avventura molto complessa, ma anche ricca di nuove potenzialità. La neuropsichiatria bresciana è storicamente inserita a fianco della pediatria nell’Ospedale dei Bambini, un tempo autonomo, fondato all’inizio del 1900, per i bambini poveri della città, e con forte vocazione assistenziale. A Brescia, l’integrazione tra pediatria, molto valida, e neuropsichiatria infantile, pure qualificata, è sempre stata 66 forte e naturale. La competenza pediatrica quindi è molto integrata con una facilitazione nel gestire la neurologia d’urgenza, ma con una perdita di alcune specificità di osservazione e di valutazione complessa e interdisciplinare, che la dimensione di un grande ospedale con pronto soccorso non permette facilmente, dovendo privilegiare risposte rapide, efficaci ed efficienti a bisogni acuti. Il nostro lavoro, a Brescia, è prevalentemente di neurologia e psichiatria d’urgenza in reparto, di neurologia infantile nell’ambulatorio dell’ospedale, mentre il lavoro di presa in carico di patologie psichiatriche, di riabilitazione e di rapporti con le scuole è più territoriale. La ricchezza quantitativa e qualitativa dell’attività assistenziale e la presenza di una struttura di neuropsichiatria infantile molto grande permettono esperienze formative molto diversificate con la possibilità di offrire ai medici in formazione un percorso completo e differenziato. Come direttore della Scuola di specializzazione di neuropsichiatria, ho il vantaggio di poter formare clinicamente i medici in formazione anche in un contesto clinico pediatrico di alta qualità: nel primo anno lo specializzando in neuropsichiatria infantile riceve una formazione pediatrica come parte del tronco comune. L’aspetto problematico, e conflittuale, riguarda le urgenze neurologiche e la gestione delle patologie complesse multi organo, con significativa componente neurologica: a Brescia la responsabilità clinica della gestione di questi casi è della neuropsichiatria infantile con la collaborazione della componente pediatrica. Fabio Sereni: Cara Fazzi, a me sembra che con il tuo dire tu stia portando acqua alla causa pediatrica, ai vantaggi cioè di inserire cultura e professionalità neuropsichiatriche in un contesto di pediatria clinica efficiente. O sbaglio? Elisa Fazzi: La neuropsichiaria infantile si occupa di età evolutiva e quindi deve camminare in parallelo con la pediatria, ma devi tenere presente che esiste il pericolo, ed è un pericolo da non trascurare, di perdere parte della specificità culturale preziosa e unica della neuropsichiatria infantile (porre al centro il bambino malato e i suoi genitori e non la malattia, necessità di integrazione fra psiche e soma nei percorsi diagnostico-terapeutici, centralità dello studio delle funzioni e del loro sviluppo con messa a punto di una semeiotica osservativa e interattiva, attenzione alla famiglia e alle sue problematiche e forte vocazione sociale) che deve essere assolutamente conservata. Fabio Sereni: Non credo che a Brescia si corra questo pericolo, sapendo della tua forza, accademica e culturale! Elisa Fazzi: Grazie per la tua considerazione nei miei riguardi, ma il pericolo esiste, e sarebbe grave danno perdere ciò che all’estero tutti ci invidiano. Vorrei aggiungere: è vero quello che ha detto il collega Minetti sulla necessità della superspecializzazione, ma è anche vero che complessità non è solo complessità di patologia d’organo, ma anche complessità di patologia di funzioni e l’approccio alla patologia di funzioni complesse, che è uno specifico della neuropsichiatria infantile, è un bene da non perdere. Infine mi preme sottolineare che la neuropsichiatria infantile è anche garanzia di un modello per come deve instaurarsi il rapporto tra il medico e la famiglia del bambino con patologia neuropsichica, anche curando la necessaria dimensione sociale. Fabio Sereni: Bene. Elisa Fazzi ha espresso efficacemente la necessaria complementarità tra pediatria e neuropsichiatria infantile. Ora la parola spetta a Renzo Guerrini, che opera al Meyer, forse il più rinnovato, in tempi recenti, dei policlinici pediatrici italiani. Pediatria, Neuropsichiatria Infantile e Neurologia Pediatrica. Problemi attuali di assistenza e ricerca Renzo Guerrini (Firenze): Un policlinico pediatrico offre la possibilità di concentrare le energie verso patologie di particolare complessità, che affluiscono proprio in virtù della possibilità di avvalersi di team multidisciplinari. In un certo senso, è proprio la complessità della patologia afferente che costringe a definire delle priorità Ospedale pediatrico per dare una risposta alle necessità della clinica. Meyer, Università di Ciò è condizionato in parte dalla incidenza delle Firenze varie patologie ma anche dal potere di attrazione del centro stesso, a sua volta sviluppato verso determinati ambiti in ragione degli interessi scientifici che sono stati storicamente prioritari per il team che opera in una determinata sede. La clinica impone quindi delle scelte che sono necessarie al fine di organizzare le migliori risposte possibili, in relazione alla rilevanza delle patologie osservate. Nel policlinico è poi necessario e conveniente spingere sempre i limiti delle proprie conoscenze oltre i limiti della monotematicità, al fine di dialogare adeguatamente con le altre discipline chiamate in causa. Nell’area delle neuroscienze la condivisione di attività clinica con l’area neurochirurgica, neurometabolica, internistica, e dell’emergenza rappresenta un enorme stimolo e spinge verso una definizione strategica delle proprie modalità di intervento che sia razionalmente distribuita e in modo da erogare la maggiore capacità di intervento, diagnostico, terapeutico o preventivo, dove esistono maggiori possibilità di impatto sulla patologia. Gli ambiti clinici in cui la neurologia pediatrica ha reali possibilità di incidere favorevolmente e in modo tangibile sulla realtà clinica sono pochi. Diventa quindi necessario organizzare il proprio team in modo da poter rispondere adeguatamente alle varie necessità, senza tuttavia rinunciare ad aree di approfondimento scientifico, ma privilegiando quelle per le quali la ricaduta traslazionale è più tangibile. Approfondimenti verso aree cliniche di grande interesse fisiopatologico ma con minore ricaduta su patologie ad alta intensità di cura sono di più difficile realizzazione nel policlinico. Questa direzione, che è destinata a produrre risultati nel lungo termine, è altrettanto necessaria e interessante, ma più facilmente percorribile presso istituzioni monotematiche, soprattutto negli istituti di ricerca. Fabio Sereni: Grazie, Guerrini. Hai saputo puntualizzare molto efficacemente i vantaggi, ma anche i necessari limiti che ti vengono dal lavorare in un policlinico pediatrico multispecialistico. Io penso che dalle tue considerazioni derivi la necessità che una saggia programmazione sanitaria provveda a indirizzare in luoghi diversi patologie neurologiche pediatriche con caratteristiche differenti. Se ho bene compreso al policlinico pediatrico spettano soprattutto le patologie che necessitano, per adeguata assistenza medica, di servizi multispecialistici e alta intensità di cure; ad altre istituzioni, come IRCCS “monotematici”, spettano invece patologie croniche che comportino anche assistenza sociale integrata. Il caso ha voluto che concluderà la serie di interventi in questa Tavola Rotonda Nardo Nardocci, che dirige una UOC di neuropediatria presso l’IRCCS Besta, che ha tutte le caratteristiche cui accennava Renzo Guerrini complementari a quelle del policlinico pediatrico. Nardo Nardocci (Milano): L’Istituto Neurologico Besta è un istituto di ricovero e cura a carattere scientifico, la cui missione è rappresentata dalla diagnosi e trattamento delle malattie neurologiche dell’età pediatrica e adulta. L’Istituto ha sempre avuto una vocazione particolare per la ricerca che negli anni si è concretizzata nel defiIstituto Neurologico nirsi ed evolversi di strumenti e metodologie per Besta, Milano ricerca clinica, pre-clinica e di base. La divisione che dirigo opera in stretta collaborazione con le varie strutture dell’Istituto, quali neuroimaging, biochimica e neurogenetica, molecolare, neurofisiologia clinica, neuropatologia e una importante quota di attività è svolta in collaborazione con le strutture di neurochirurgia e neurorianimazione. L’attività della divisione è focalizzata sulla diagnosi e il trattamento di condizioni patologiche nella quasi totalità incluse nell’ambito delle malattie rare, quali encefalopatie metaboliche e degenerative, epilessie rare, disordini del movimento, encefalopatie immunomediate. L’afferenza percentualmente più alta è rappresentata da pazienti a diagnosi non nota, in genere già sottoposti a indagini non conclusive presso altre strutture pediatriche o di neuropsichiatria infantile o pazienti in rivalutazione terapeutica o candidabili a trattamenti neurochirurgici di elezione (chirurgia dell’epilessia nelle sue varie opzioni) o innovativi, come neuromodulazione (in particolare stimolazione cerebrale profonda o corticale). L’obiettivo è ovviamente garantire la risposta migliore alle richieste di diagnosi e trattamento ai pazienti ricoverati e alle loro famiglie. La domanda è se una struttura monospecialistica quale l’Istituto neurologico ne garantisca il raggiungimento. Certamente, in particolare per alcune malattie metaboliche a coinvolgimento multiorgano, la caratterizzazione complessiva comporta la necessità di valutazioni extraneurologiche, ma la porzione di questi pazienti è esigua e il problema viene usualmente risolto con collaborazioni in essere da molti anni con strutture pertinenti. Al contrario, l’expertise del personale medico e infermieristico, l’approccio “globale” alla patologia neurologica che include gli aspetti cognitivi e comportamentali e la disponibilità di strutture diagnostiche e di ricerca di grande rilievo permettono una gestione integrata e multidisciplinare delle condizioni neurologiche sopradescritte. La disponibilità di una neurorianimazione permette poi la gestione di pazienti “critici” come i pazienti in stato di male epilettico o in stato distonico. In conclusione ritengo che il modello rappresentato dall’Istituto, così come tradotto nell’attività della UO di neuropsichiatria infantile, risponda agli obiettivi istituzionali di un Istituto di ricerca a carattere scientifico e alle richieste di diagnosi e cura in un ambito patologico fondamentale della Neuropsichiatria Infantile come quello considerato. Problematiche importanti riguardano invece numerosi aspetti legati alla continuità di cura anche in considerazione dell’alta percentuale di afferenza extraregionale dei nostri pazienti e la transizione all’età adulta. 67 a cura di Fabio Sereni Conclusioni A cura di Fabio Sereni e Generoso Andria Una premessa è necessaria. Questa Tavola Rotonda, organizzata da Prospettive nel contesto di un importante convegno della Fondazione Mariani, non è stata concepita con ambizione di discutere, a tutto campo, i problemi attuali clinici e assistenziali della neurologia e della psichiatria infantile. È stata concepita come confronto tra pediatri, neuropediatri e neuropsichiatri infantili su alcuni specifici problemi, istituzionali e ospedalieri. A nostro parere la Tavola Rotonda è stata un successo, soprattutto perché da essa sono venuti due importanti messaggi condivisi da tutti gli illustri partecipanti. Il primo è sicuramente la necessità di stabilire collegamenti istituzionali e organici, tra la pediatria generale e le sottospecialità, in questo caso tra neuropediatria e neuropsichiatria infantile. I presidenti delle società scientifiche interessate, e cioè Giovanni Corsello per la pediatria, Bernardo Dalla Bernardina per la neuropsichiatria infantile e Carlo Minetti per la neuropediatria, hanno concordato di perseguire, in un non lontano futuro, l’obiettivo di un accordo federativo. Ma è stata soprattutto accettata la proposta di Giovanni Corsello di istituire in tempi brevi una task-force operativa per affrontare, di comune accordo, i più urgenti problemi sanitari e culturali. Ma da questa Tavola Rotonda è anche venuto un secondo importante messaggio: la necessità, urgente, di programmare razionalmente in Italia i più importanti servizi specialistici pediatrici. Per 68 tutta la seconda parte della Tavola Rotonda illustri neuropediatri, con diverse competenze “superspecialistiche” e operanti in strutture ospedaliere tra loro molto differenti, hanno esposto e discusso difficoltà e opportunità che incontrano per svolgere adeguatamente le loro attività, cliniche e di ricerca. Nei policlinici pediatrici (come il Bambino Gesù e il Meyer) è chiaro il vantaggio di potersi giovare di una assistenza coordinata multispecialistica per patologie acute e complesse (anche se spesso vi sono difficoltà per l’attuazione pratica del coordinamento anche in strutture ospedaliere ben organizzate e di alto livello), mentre negli istituti monospecialistici (come lo Stella Maris e il Besta) è sicuramente più agevole poter disporre di servizi diagnostici specifici di alta tecnologia, ma il rapporto con la pediatria generale è ovviamente più problematico. È risultato in ogni caso evidente che tutto non può essere fatto in un’unica istituzione, e che sia quindi opportuno programmare per grandi aree, sicuramente per la neuropediatria, ma anche per ogni altra grande “sottospecialità”. Non ci resta quindi che attendere con fiducia che le chiarissime persone che hanno il compito istituzionale di guidare le sorti della pediatria italiana non solo diano attuazione a quanto è stato deciso in tema di collegamento tra pediatria e sottospecialità, ma anche sollecitino i responsabili della sanità pubblica ad agire per una efficiente programmazione dei servizi pediatrici specialistici. Red Book XXIX Edizione VIII Edizione Italiana ® 2009 Rapporto del Comitato sulle Malattie Infettive Red Book ® 2012 Rapporto del Comitato sulle Malattie Infettive American Academy of Pediatrics d e d i cAto A l l A s A l u t e d i t u t t i i b A m b i n i™ Pacini EditorE MEdicina XXIX RED BOOK XXIX RAPPORTO DEL COMITATO SULLE MALATTIE INFETTIVE (Edizione 2012) VIII EDIZIONE ITALIANA Pubblicato in esclusiva da Pacini Editore SpA PREZZO SPECIALE RISERVATO AI SOCI SIP Tutti i Soci SIP potranno acquistare il RED BOOK dai siti www.pacinieditore.it e www.pacinimedicina.it al prezzo speciale di 63,75 euro, anziché 75,00, spese di spedizione incluse. Su entrambi i siti, una volta alla cassa, inserire nell’apposito campo il CODICE SCONTO : SIP2014 Pacini Editore SpA - Via A. Gherardesca 1 • 56121 Ospedaletto Pisa Tel 050 31 30 11 • Fax 050 31 30 300 • www.pacinimedicina.it