La bioetica. Quella medica fu una delle prime professioni colte a darsi regole che dovevano assicurare una certa uniformità nel comportamento del medico di fronte al paziente, ai suoi familiari e ai colleghi. L'esistenza di una corporazione medica ha contribuito a far dire che nella società tradizionale il rapporto tra medico e malato è paternalistico, e perciò autoritario, e che a esso nella società moderna si sarebbe sostituito un rapporto contrattualistico. Ma una svolta importante nella storia della medicina occidentale è stata la trasformazione ottocentesca del medico in figura pubblica e della medicina in scienza di pubblica utilità. Tra Settecento e Ottocento la professione medica fu ridefinita su nuove basi, con una chiusura netta, legalmente sancita, verso le pratiche che sembravano non rispettare i canoni dell'accettabilità scientifica; contemporaneamente fu promosso l'accrescimento delle conoscenze mediche e il loro uso nella regolamentazione della vita pubblica. Su obblighi e responsabilità dei medici dovevano vigilare gli organi della giustizia ordinaria, ma anche associazioni specifiche di categoria, deputate a emanare codici deontologici e a sorvegliare la condotta dei medici. Nacque anche una disciplina specifica, la medicina legale, che tra le altre competenze aveva quella di studiare e insegnare le regole che disciplinano la professione medica. Si potrebbe pensare che la bioetica sia semplicemente un nuovo modo di designare l'attività normativa che ha sempre accompagnato la medicina, e che la novità del nome si riferisca a una svolta interna dei modi nei quali la medicina si esercita. C'è chi interpreta così la bioetica e tende ad assorbirla nella medicina legale, eventualmente nella sua parte deontologica. Ma questa impostazione mette in ombra le innovazioni che hanno generato la bioetica. Gli ospedali sono diventati il solo luogo nel quale si esercitano le prestazioni mediche più impegnative e si curano tutte le malattie importanti, e l'assistenza medica si è estesa a larghe fasce della popolazione, via via che si è sviluppata l'industrializzazione e lo Stato ha assunto compiti di protezione sociale. Ciò è accaduto soprattutto nell'Europa occidentale e ha condotto all'organizzazione della medicina pubblica, che ha indebolito il profilo professionale del medico. a. I diritti del malato. Sono stati i movimenti di rivendicazione dei 'diritti del malato' che hanno portato alla luce il problema della trasformazione delle regole morali profonde connesse all'esercizio della medicina. Questi movimenti si rifacevano ai diritti dell'uomo e la prima rivendicazione era ovviamente il controllo del paziente sul trattamento medico: di qui discendevano il diritto del malato di disporre della più ampia informazione disponibile, relativa alla situazione particolare e alle conoscenze mediche generali, e di effettuare le scelte rilevanti in luogo del medico, al quale non si riconosceva un'autorità preminente. Ma l'aspetto più importante era il contenuto delle scelte che il malato pretendeva di fare rivolgendo al medico richieste di tipo nuovo. Dal medico si potevano pretendere prestazioni per il controllo della generazione: per limitarla, con la contraccezione o con la sterilizzazione, o per promuoverla, combattendo la sterilità con tecniche di inseminazione. Ma di fronte al medico il malato poteva far valere anche il diritto di porre termine alla vita con l'eutanasia. Il punto centrale che emergeva da questa impostazione era il riferimento alla vita: questo, più che il diritto di intervenire in modo sostanziale nel governo della propria salute, sembrava porre particolari problemi morali. Il medico smetteva di essere una specie di garante della vita, che non costituiva più un limite invalicabile del suo intervento. La rivendicazione dei diritti del malato fu accolta in settori significativi della cultura protestante, ma fu soprattutto la tradizione utilitaristica, nella quale la sofferenza era stata considerata come un male e si erano giustificati il suicidio, l'aborto e il controllo delle nascite, a offrire le ragioni profonde per il movimento nel suo insieme. Ma mentre l'utilitarismo apprezzava la scienza e la tecnica moderne e aveva promosso l'intervento della medicina nella vita pubblica, i movimenti che si proponevano di rivedere il rapporto tra medico e malato esprimevano anche una specie di rifiuto della medicina e di difesa contro di essa, considerata semplicemente come un prodotto della svolta industriale e tecnologica della società contemporanea. Il nome stesso 'bioetica' nasce in questo ambito. Proponendolo V.R. Potter (Bioethics: bridge to the future, 1971) intendeva non riferirsi all'applicazione dell'etica corrente alla medicina, ma sostenere che le scienze biologiche avrebbero potuto prospettare un diverso rapporto dell'uomo con la natura, evitando che l'uomo, forte del possesso delle scienze fisiche, pensasse soltanto a sfruttarla e a inquinarla. La bioetica doveva perciò essere un'alternativa alle concezioni morali correnti e favorire un inserimento armonico dell'uomo nella natura, per la quale egli non sarebbe più stato "una specie di cancro". Con questo programma si intendeva sì riportare la scienza sotto la morale, ma si riteneva che il cambiamento radicale della mentalità scientifica, dovuto allo sviluppo del sapere biologico, avrebbe prodotto una nuova morale con la quale la medicina si sarebbe spontaneamente conciliata. La spiccata ostilità per la scienza e per la tecnica ha impregnato una parte importante della bioetica: alla medicina si è imputato di aver assorbito in un linguaggio scientifico apparentemente neutrale precise scelte morali e di aver elaborato un vero e proprio progetto di dominio, di 'medicalizzazione' di tutta la vita umana. Perfino nella descrizione delle malattie si è voluto vedere un tentativo di ridurre fenomeni umani importanti alla dimensione che poteva essere sottoposta alle manipolazioni dei medici. Potter poteva sperare in una 'rivoluzione biologica' che avrebbe affrancato la medicina dalla scienza fisica della natura. La rivoluzione in un certo senso ci fu, ma le innovazioni mediche, dovute proprio alla rivoluzione biologica, anziché produrre un accordo spontaneo di medicina e morale, hanno posto problemi sempre più acuti, di rapporto tra pratiche mediche correnti o possibili e norme etiche. In questa situazione l'idea di riportare la medicina sotto il controllo della morale è parsa assai più importante dell'attesa di un'improbabile palingenesi biologica. La cultura cattolica, che aveva respinto la rivendicazione dei diritti del malato in contrasto con la morale cristiana tradizionale, ha trovato buone ragioni per assegnare alla bioetica il compito di disciplinare sapere biologico e prassi medica applicando quelli che considera principî e valori chiaramente enunciabili con i poteri naturali della ragione e attraverso l'insegnamento della Scrittura e della Chiesa. b. La morte. Proprio gli sviluppi tecnici della medicina hanno reso sempre più difficile far coincidere i programmi di difesa del paziente dalla medicina stessa e dal medico con la soluzione dei problemi sollevati dalla difesa dei diritti del malato. D'altra parte le nuove possibilità offerte dalla medicina hanno permesso a credenze morali non tradizionali di presentarsi, da un lato, come possibili soluzioni di problemi, dall'altro come programmi di comportamento accettabili. La tecnologia medica ha ottenuto risultati importanti nel prolungamento della sopravvivenza anche in condizioni estreme, soprattutto per gli ammalati di cancro in fase terminale e per quelli colpiti da gravi lesioni cerebrali. In un caso e nell'altro la sopravvivenza è dovuta alla possibilità sia di superare gli episodi che potrebbero accelerare la fine dell'ammalato sia di assistere con mezzi tecnici le funzioni respiratorie e cardiocircolatorie. Ma in questi casi il medico può trovarsi nella condizione di prolungare la vita del paziente senza dargli prospettive di recupero, talvolta imponendogli sofferenze. Le teorie etiche che, come quella cattolica, pensano di poter riferirsi alla natura come alla sorgente di valutazioni morali, sostengono che si può affrontare l'accanimento terapeutico evitando gli interventi che prolunghino artificialmente la vita senza prospettive di recupero. Ma non si possono prendere misure per porre fine alla vita in nessun modo, una volta che questa sia stata prolungata. Questa valutazione considera la vita come un insieme di funzioni fisiologiche (attività cardiorespiratorie e funzioni cerebrali) che l'intervento umano non può interrompere perché sono dovute alla presenza di un'anima immortale, vero soggetto e causa della vita, secondo l'insegnamento del platonismo antico recepito dal cristianesimo; e la vita come unione di anima e corpo è un dono divino, che l'uomo non può restituire. Il concetto di morte ha però ricevuto un'interpretazione diversa da quella tradizionale con il diffondersi della tecnica dei trapianti di organi. Per permettere un prelievo tempestivo degli organi si è dovuto passare dal concetto tradizionale di morte, intesa come arresto delle funzioni cardiorespiratorie, al concetto di morte cerebrale, da accertare per mezzo di encefalogramma. Anche le teorie etiche tradizionali hanno accettato questa interpretazione della morte, sia perché permette i trapianti, cioè il prolungamento della vita di altri esseri, e può quindi essere considerata un atto di generosità, sia perché sposta solo il segno che la vita è finita. Invece le dottrine etiche tradizionali si sono dimostrate fortemente ostili all'accettazione della morte corticale, intesa come compromissione irreversibile della corteccia cerebrale e perciò delle funzioni intellettuali superiori. A parte i pareri sulla possibilità di recupero dal coma profondo, la morte corticale sembra implicare una diversa interpretazione della vita. Chi accetta il concetto di morte corticale ritiene che l'esistenza di una persona consista soltanto nell'esercizio delle funzioni intellettuali superiori, e che quando queste cessano si è morti, oppure che la continuazione dei processi biologici senza il funzionamento della corteccia cerebrale è pur sempre vita, ma questa non è un dono della divinità, e una decisione umana è sufficiente per interromperla. Il riconoscimento della possibilità di prendere decisioni di fronte alla morte deriva dall'applicazione sistematica del principio di autonomia. In base a esso ogni cittadino può decidere sul modo di affrontare la fase terminale di certe malattie, e può scegliere di non venire sottoposto a cure di complicazioni sopraggiunte quando una malattia principale grave e irreversibile è in fase terminale. Decisioni di questo genere non sollevano problemi bioetici quando vengono prese privatamente, mentre possono farlo quando il malato è ricoverato in un istituto sanitario pubblico. Per affrontare questa situazione si sono diffusi i cosiddetti 'testamenti di vita', nei quali le persone dichiarano di non voler essere curate delle malattie che dovessero sopraggiungere quando fossero in fase terminale e non più in grado di decidere. Di solito in documenti di questo genere si chiede anche che non vengano risparmiati interventi palliativi che potrebbero abbreviare la vita. La validità dei testamenti di vita nelle legislazioni vigenti è dubbia, anche perché in molti ordinamenti la vita è considerata un bene non disponibile ed è reato incitare al suicidio o favorirlo. Spesso si considerano i testamenti di vita pericolosamente vicini all'eutanasia, almeno alla sua forma passiva, che consiste nel non intraprendere nessuna pratica che possa garantire la sopravvivenza di un malato senza prospettive di guarigione, mentre la forma attiva consiste in pratiche che in quella stessa situazione possano intenzionalmente porre fine alla vita. La morale cristiana condanna il suicidio ed è scarsa anche la letteratura filosofica favorevole a esso. L'argomento principale è quasi sempre di carattere religioso e si fonda sulla non disponibilità della propria vita. I sostenitori dell'eutanasia hanno ovviamente applicato il principio di autonomia, per il quale è il singolo che decide della propria vita, e non si può imporre a nessuno di considerarla come un dono. A sostegno dell'eutanasia viene invocato anche il principio della qualità della vita, per il quale solo una vita dignitosa merita di essere vissuta. Il concetto di 'dignità umana' si trova sempre più spesso applicato nei documenti teorici e pratici sui diritti umani, ai quali perciò l'eutanasia potrebbe essere ricondotta. Il testamento di vita e l'eutanasia coinvolgono i medici e mettono in questione l'interpretazione tradizionale della loro professione. Infatti al medico è affidata la funzione di accertare che intervengano le condizioni previste dal testamento di vita e di tradurne in pratica le disposizioni, e il medico è profondamente coinvolto nell'eutanasia: il paziente dovrebbe poter discuterne con lui e a lui toccherebbe di tradurla in atto. L'accettazione dell'eutanasia pone problemi di regolamentazione: la volontà del paziente deve essere espressa in modo sicuro, per essere certi che essa sussista nel momento in cui l'eutanasia dovrebbe essere praticata. Nel caso delle malattie mentali occorre distinguere tra la volontà del paziente e la manifestazione della malattia. c. Il consenso. Strettamente collegata al principio di autonomia è la richiesta del consenso libero e informato del paziente. Il terreno più delicato per la richiesta del consenso è la sperimentazione. Documenti internazionali hanno sancito che non si possono proporre esperimenti se non si è ragionevolmente sicuri che essi non rechino danni certi e prevedibili, e che le persone interpellate devono essere in grado di rifiutarsi. Gli esperimenti devono però avere anche un senso dal punto di vista scientifico in generale; più restrittiva e controversa è la clausola che gli esperimenti abbiano fini non puramente conoscitivi e debbano lasciar prevedere un possibile beneficio per il paziente stesso. Questa condizione agisce in modo severo sugli esperimenti con gruppi di controllo e con il placebo. La richiesta del consenso è un punto largamente condiviso nella letteratura bioetica, ma questo principio ha subito limitazioni in relazione ai trapianti di organi. Si è fatta strada in alcune legislazioni la tendenza a considerare il silenzio una forma di consenso implicito al prelievo di organi dal proprio cadavere, salva sempre la possibilità di dichiarare tempestivamente e nelle forme debite il proprio rifiuto. La stessa morale cattolica ha modificato l'atteggiamento di fronte al cadavere, e sulla proprietà di quest'ultimo da parte del vivente o dei suoi familiari si è fatto prevalere il beneficio che altri può trarne attraverso il prelievo di organi. Più discussa è la possibilità di rendere lecito il dono di organi tra viventi, come già avviene in certi casi con il rene. Perché il consenso sia effettivo occorre che il paziente possa comprendere le informazioni e trasformarle in elementi di scelta. Non è detto che un paziente debba essere informato di tutti i passi di un processo sperimentale cui gli si chiede di sottoporsi, ché anzi troppi dettagli possono compromettere la sua capacità di comprensione del problema e di decisione. La stessa cosa vale per i trattamenti terapeutici ordinari: anche in questo caso il paziente deve disporre delle informazioni rilevanti per prevedere il proprio stato futuro sul quale dovrà decidere. In un caso e nell'altro le informazioni debbono anche essere comprensibili, cioè debbono essere fornite tenendo conto della preparazione culturale e dello stato soggettivo del paziente. d. La generazione. In certi casi il consenso non basta a difendere dall'accanimento terapeutico, perché il paziente non è più in grado di decidere. Allora le convinzioni morali di chi decide al suo posto diventano importanti: un medico potrebbe non prospettare al paziente certe eventualità, per esempio relative allo stato terminale della malattia, perché ritiene che moralmente su di esse il malato non possa decidere. Casi del genere riguardano non solo la morte, ma anche la nascita. La diagnosi prenatale permette oggi di riconoscere tempestivamente, dopo il concepimento e prima della nascita, malattie genetiche gravi, sicché l'aborto diventa un mezzo per evitare la nascita di individui destinati a condizioni di vita difficili. È un altro caso di applicazione del principio della qualità della vita e della dignità umana. Ma qui più che in altri casi è evidente che si tratta di decidere per un altro: qui quei principî non possono più essere applicati in congiunzione con il principio di autonomia e perciò in questi casi si invoca il principio di beneficenza. Ovviamente non è facile applicare questo principio quando entra in gioco la scelta in luogo di un altro, perché non è facile fissare criteri univoci di beneficenza. Le dottrine etiche tradizionali non ammettono l'aborto neppure di fronte a diagnosi prenatali molto gravi, ma spesso si richiamano ai diritti del nascituro per condannare le pratiche di fecondazione con donazione dei gameti, quando i genitori naturali del nascituro potrebbero non coincidere con i suoi genitori legali, o una donna potrebbe generare un figlio dopo la menopausa o senza conoscerne il padre. La ricerca della generazione a ogni costo, per soddisfare il 'desiderio del figlio', rischierebbe di strumentalizzare il nascituro per la soddisfazione dei genitori o, peggio, di una donna sola ed eventualmente anziana, privando il nascituro di una famiglia 'naturale' e del diritto di conoscere entrambi i genitori naturali. Sembra così che le teorie etiche tradizionalistiche invochino qui la qualità della vita del nascituro, rifacendosi a un principio caro alle teorie etiche non tradizionalistiche. I contenuti però sono diversi, perché le teorie non tradizionalistiche per 'qualità della vita' intendono una vita il più possibile priva di sofferenze gravi, prevedibili e senza possibilità di recupero, non impedita nell'esercizio delle attività intellettuali, mentre le dottrine etiche tradizionalistiche fanno dipendere la qualità della vita del nascituro dalla presenza di una famiglia tradizionale. In generale le dottrine etiche tradizionalistiche guardano con diffidenza a ogni forma di intervento nella generazione: per questo sono contrarie alla pianificazione delle nascite attraverso la contraccezione praticata con mezzi meccanici, con somministrazione di farmaci o con sterilizzazione, mentre ritengono che la generazione artificiale vada rigorosamente frenata, anche se essa può essere decisa a ragion veduta. Alla radice di questo atteggiamento c'è la condanna dell'esercizio del sesso disgiunto dalla riproduzione. Le teorie etiche non tradizionalistiche hanno cercato di solito di dissociare sessualità e generazione, e hanno insistito sul valore positivo della sessualità, ora come mezzo di comunicazione tra esseri umani, capace di stabilire rapporti di intimità e di affetto, ora di per se stessa, comunque sempre relativamente indipendente dalla riproduzione. e. Le teorie bioetiche. Esiste in bioetica un programma di lavoro sul quale c'è un consenso abbastanza ampio: esso consiste essenzialmente nella ricerca di casi nei quali le pratiche correnti non siano più in accordo con le credenze morali diventate dominanti. Ciò avviene per esempio quando la tutela del paziente nei confronti delle istituzioni non appare più abbastanza efficace perché sono cambiate sia le aspettative dei pazienti sia le pratiche mediche che si possono compiere su di essi. Un caso tipico è quello del consenso informato: e infatti la letteratura bioetica è abbastanza concorde in proposito e delinea modi sempre più accurati per garantirlo. Programmi bioetici di questo tipo hanno il loro esito naturale in apposite istituzioni: si tratta dei comitati etici, organismi il cui statuto è spesso incerto dal punto di vista legale ma che, soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra, hanno talvolta autorità effettiva negli ospedali e nelle istituzioni sanitarie. Può tuttavia accadere che i comitati etici debbano affrontare casi che è difficile ricondurre a regole di condotta largamente riconosciute e approvate: a questi casi può collegarsi la parte più originale della riflessione bioetica. Comportamenti generalmente approvati potrebbero sollevare gli stessi problemi sollevati da comportamenti diventati sospetti: per esempio, se si decide di non infliggere sofferenze alle persone perché il dolore va evitato, si possono sollevare dubbi anche sulla sperimentazione con animali. I cultori di bioetica dedicano una parte della propria attività a ritrovare casi problematici, eventualmente per estensione di casi noti o in analogia a essi, o a immaginare conseguenze problematiche di operazioni apparentemente ammissibili. Questo esercizio si collega a un'altra funzione che possono esercitare comitati etici di livello diverso rispetto a quelli che operano presso le singole istituzioni sanitarie. Si tratta dei comitati etici che agiscono presso organi locali o centrali con funzioni genericamente legislative in campo sanitario. In questo caso i comitati possono esercitare una funzione di consulenza nella preparazione di norme generali. La medicina contemporanea richiede ingenti investimenti in persone e attrezzature e impone scelte negli indirizzi di ricerca e nei programmi di prevenzione e cura. Ulteriori problemi pongono la distribuzione sociale dei costi dell'assistenza sanitaria pubblica e l'accesso alle risorse sanitarie disponibili (liste di attesa per ricoveri, per trapianti, organizzazione territoriale della sanità e così via). Sono questioni che affronta l'economia sanitaria per ottimizzare la spesa sanitaria tenendo conto dei costi e dei benefici, ma le scelte di fondo sono spesso condizionate da credenze morali. Non solo la legislazione sull'aborto ne è un caso, ma anche ampiezza e modalità della prevenzione delle malattie genetiche, la regolamentazione delle cure della sterilità, il sostegno alla donazione degli organi e alla pratica dei trapianti e così via. E su questi, come su altri temi del genere, i comitati etici possono discutere e intervenire. La discussione dei casi dubbi conduce spesso, soprattutto attraverso le generalizzazioni, le estensioni analogiche o il rilevamento di conseguenze, e quando si passa alla formulazione di regole generali, di fronte a veri e propri conflitti morali. Secondo le teorie bioetiche forti esistono principî etici incontrovertibili, e applicandoli si può sempre dire se un comportamento sia o non sia lecito. Sono teorie di tipo tradizionalistico, conformi alla morale religiosa, soprattutto cattolica. Di solito queste teorie risolvono i casi dubbi con divieti rigorosi, che colpiscono molte delle richieste rese possibili dalle nuove tecniche mediche: aborto, eutanasia, fecondazione assistita, ecc. Di contro stanno teorie secondo le quali la bioetica formula anche regole e principî, ma soprattutto mette alla prova le proprie supposizioni, e le conseguenze che ne derivano, tenendo conto delle credenze e delle scelte morali presenti di fatto nella popolazione interessata a un sistema sanitario. Compito della bioetica è non tanto quello di imporre principî morali, quanto quello di proporre regole e correzioni di principî e regole, in modo da permettere alla gente di vivere, nella maggior misura possibile, secondo le proprie credenze. Questo è un programma che oggi molte teorie etiche generali si propongono, e la bioetica può offrire un interessante banco di prova, anche perché può essere effettivamente difficile far convivere modi diversi di concepire la vita, la morte, i rapporti con i figli e così via, tenendo conto che nell'organizzazione moderna della sanità, che amministra pur sempre risorse scarse rispetto alle aspettative, si incrociano richieste impegnative da parte dei pazienti, prestazioni complicate da parte dei sanitari, interventi pubblici e privati di ampia portata, interessi economici, pregiudizi, pretese di dominio ideologico e religioso. Qui il conflitto tra il medico che ritiene l'aborto moralmente riprovevole e la donna che con l'aborto ritiene di esercitare un proprio diritto, o di evitare la nascita di un individuo che sarà infelice, può diventare drammatico, assai più che negli scritti dei moralisti nei quali i conflitti paiono talvolta esaltati, come se gli aspetti difficili dell'esistenza fossero l'occasione per esercitare le capacità umane più apprezzabili. Ma le discussioni bioetiche rappresentano anche uno dei casi nei quali le società pluralistiche contemporanee stanno offrendo alla riflessione sulle credenze morali una possibilità di intervenire in modo esplicito nella costruzione delle regole della vita collettiva.