La luce di Giotto tra penombra e altari di ferro di Mario Bellini Giotto in mostra a Palazzo Reale di Milano? Una bella sfida. Perché richiede di immaginare una “messa in scena” dinamica della sua vita e delle sue opere. Teatro. Una sequenza di stanze, spaziose e “palaziali” fin che si vuole, ma intrinsecamente estranee allo spirito e all’aura degli edifici di culto per cui i capolavori di Giotto furono concepiti. Copione. La vita di successi e grandi commesse di un artista che anticipa il Rinascimento italiano, chiamato a lavorare da Papi, prelati e benefattori in tutta Italia, tra Padova, Firenze, Assisi, Roma, Napoli. Protagonisti. Cinque maestosi polittici da altare (di cui due bifacciali) policromi su fondo oro, due Madonne, Dio Padre in trono, frammenti di affreschi strappati. Scenografia. Non trattandosi di un vero teatro, il Palazzo Reale è trasformato per divenire teatro totale, luogo di incontro e scambio tra gli spettatori (noi) e i personaggi (le opere di Giotto) con la forza di due poderose macchine sceniche: la luce, in tutte le sue manifestazioni che includono anche penombra, ombra, oscurità e controllo dei riflessi e del colore. La luce, dunque, e una materia primigenia: il ferro vivo che si ossida durante la laminazione a 1200 gradi, divenendo elemento nobile, unico e solo a fare da sfondo, incastonatura, basamento solido che allude agli altari e a fare da superficie connettiva di opera in opera, di scena in scena, di stanza in stanza, lungo i nostri passi, sotto i nostri piedi. Nessun colore, nessun tessuto, nessun legno, nessuna morbidezza, nessun marchingegno di supporto. Silenzio. Parla la pittura di Giotto, ci guida la luce, ci sorregge il ferro.