HIV: dai programmi verticali al rafforzamento dei sistemi sanitari | 1

HIV: dai programmi verticali al rafforzamento dei sistemi sanitari | 1
Enrico Tagliaferri
I maggiori attori della salute globale sembrano finalmente convenire sulla necessità di
integrare i servizi sanitari e porre al centro dell’attenzione le persone, non le malattie.
Il 9 giugno 2011 si è tenuto a New York un incontro sull’HIV, organizzato da UNAIDS (Joint
United Nations Programme on HIV/AIDS) e PEPFAR (United States President’s Emergency
Plan for AIDS Relief), a cui hanno partecipato rappresentanti di 30 paesi, di numerose
organizzazioni non governative e dei principali donatori nel campo della salute globale,
inclusa la Bill and Melinda Gates Foundation.
È stato lanciato un piano globale con obiettivi ambiziosi in termini di prevenzione e cura
dell’HIV:
dimezzare la trasmissione per via sessuale e tramite scambio di siringhe
fornire il trattamento a 15 milioni di malati
azzerare la trasmissione verticale da madre a figlio
dimezzare le morti per tubercolosi tra gli HIV positivi.
E tutto entro il 2015[1,2].
Fin qui poco di nuovo: chi si interessa minimamente di temi di salute globale è
abituato a proclami sensazionalistici poi spesso disattesi. La vera novità sta invece
nella strategia che viene indicata per raggiungere tali obiettivi: attraverso
l’integrazione dei servizi per l’HIV con gli altri servizi sanitari e un rafforzamento
dei sistemi sanitari nel loro complesso.
Riguardo alla prevenzione della trasmissione verticale, ad esempio, la PMTCT (prevention of
mother to child transmission), è passato il concetto che per ridurre il numero dei bambini
che nascono con l’infezione si deve facilitare l’accesso delle donne in età fertile ai servizi di
pianificazione familiare e l’accesso delle donne gravide ai servizi di assistenza prenatale,
pensando soprattutto alle donne più svantaggiate, cioè quelle che abitano in zone rurali
periferiche, che hanno più bambini, che non hanno un partner, che non hanno un lavoro
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formale, che vivono in povertà.
Questi servizi devono essere costantemente funzionanti e per questo è necessario affrontare
i problemi cronici dei sistemi sanitari dei paesi in via di sviluppo: carenza di personale
qualificato, incostante disponibilità di farmaci e materiali, mancanza di mezzi di trasporto e
carburante, scarsa attendibilità dei dati epidemiologici. Esiste poi un problema di
accessibilità dei servizi sanitari: lunghe distanze, strade in pessimo stato e mancanza di
mezzi di trasporto, difficoltà a lasciare la casa, il lavoro dei campi, il resto della famiglia, e
non ultimo il fatto che in molti paesi poveri ai malati viene chiesto il pagamento delle
prestazioni, user fee, spesso relativamente elevato.
Si tratta di un cambiamento radicale dell’approccio alla salute globale, un cambiamento
culturale. Dopo che per molti anni i donatori hanno insistito su programmi verticali, cioè
strettamente mirati a patologie specifiche, principalmente HIV, e spesso ad aspetti ancora
più ristretti, con strumenti disegnati ad hoc, con strategie spesso ideate senza tenere
presenti le priorità dei paesi riceventi, con linee guida a volte diverse da quelle già esistenti
in quei paesi, entrando in conflitto con gli altri servizi, distraendo risorse e personale, allo
scopo di raggiungere gli obiettivi prefissati, in termini di indicatori numerici, in tempi brevi,
senza considerare gli effetti di tali scelte sulla salute in generale delle persone, nel lungo
termine. Calare programmi di questo tipo in sistemi sanitari inefficienti e poco accessibili
non può dare risultati duraturi, e su questo pare si sia finalmente tutti d’accordo.
Programmi di tipo verticale possono essere utili in caso di malattie eradicabili in tempi
ragionevolmente brevi, come nel caso del verme di Guinea, la dracunculosi, quasi
completamente scomparsa grazie soprattutto ad interventi specifici di questo tipo, o nel
caso di vere e proprie emergenze sanitarie, come nel caso di epidemie di malattie altamente
contagiose. Nel caso dell’infezione da HIV però, l’emergenza dura ormai da
trent’anni, la malattia è cronica e comune in molti paesi, quindi l’approccio deve
essere sistemico, non episodico, straordinario.
Per i già fragili sistemi sanitari dei paesi poveri, la disponibilità dei farmaci antiretrovirali e
il conseguente allungamento della vita dei pazienti, che continueranno ad aver bisogno di
assistenza indefinitamente, rappresentano una sfida difficile[3]. In questo senso le linee
guida più recenti, che consigliano un inizio della terapia più precoce, configurano un
impegno aggiuntivo[4]. In proposito è bene sottolineare che per quanto riguarda la
terapia antiretrovirale, il costo principale non è quello dei farmaci, ma quello dei
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servizi necessari per renderli disponibili[5]. La risposta si basa su due punti principali:
ridurre il numero di nuove infezioni investendo in interventi di prevenzione
assicurare l’assistenza ai pazienti tramite modelli che ottimizzino tutte le risorse disponibili.
Dove i servizi sanitari sono scarsi e spesso poco accessibili, e l’infezione da HIV diffusa, la
conoscenza di questa patologia non può essere delegata a specialisti, ma deve far parte
della cultura di base di tutto il personale sanitario. Secondo le linee di indirizzo
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la gestione dei pazienti HIV positivi nei
paesi poveri e in particolare in Africa, è sempre più affidata al personale sanitario non
medico delle strutture periferiche, tramite posologie e formulazioni semplificate e
schematici protocolli di diagnosi e terapia, come anche avviene per le altre patologie
comuni, mentre a figure specializzate delle strutture di riferimento vengono affidate
funzioni di supervisione, formazione e consulenza per i casi più complicati[6,7].
Le comunità, attraverso associazioni di malati, cooperative, volontari opportunamente
addestrati sul modello dei village health workers, sono già coinvolte e lo saranno
probabilmente sempre più in futuro[8]. Ad esempio, ottimi risultati sono stati ottenuti
coinvolgendo membri della comunità, ad Haiti, nella somministrazione dei farmaci
antiretrovirali ai pazienti, sul modello della strategia DOT (directly observed treatment) già
impiegata per la tubercolosi[9].
Devono essere messe in atto e mantenute nel tempo politiche di contenimento dei costi, ad
esempio deroghe ai diritti commerciali sui brevetti per farmaci e tecniche diagnostiche,
produzione su scala sempre più ampia dei farmaci generici, messa a punto di tecnologie a
basso costo.
In conclusione, il modello è quello della Primary Health Care (PHC). Secondo
quanto enunciato nel 1978 alla Conferenza di Alma Ata e ribadito appena nel 2008
dall’organizzazione Mondiale della Sanità, la PHC è la strategia migliore per
affrontare i problemi della salute globale ed è basata su alcuni semplici principi:
facile accesso ai servizi, partecipazione delle comunità alle decisioni riguardanti la propria
salute e alle attività sanitarie, enfasi su prevenzione e promozione della salute, tecnologie
appropriate, integrazione dei servizi sanitari con altri settori, ad esempio la scuola, i
trasporti, i lavori pubblici e sostenibilità degli interventi nel medio e lungo termine[10].
Anche il Global Fund against AIDS, Tuberculosis and Malaria (GFATM), uno deimaggiori
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finanziatori della salute globale, nato per combattere specificatamente HIV, tubercolosi e
malaria, e che ha tradizionalmente seguito un approccio verticale, conviene ormai sulla
necessità di rafforzare i sistemi sanitari nel loro complesso[11,12].
Nasce con lo stesso spirito la più recente iniziativa Treatment 2.0, coordinata da UNAIDS e
OMS, per fornire linee di indirizzo e assistenza tecnica ai programmi per la terapia
antiretrovirale; la strategia di Treatment 2.0 dovrebbe basarsi su ottimizzazione e
semplificazione degli schemi terapeutici, punti di diagnosi e terapia facilmente accessibili,
gestiti in modo standardizzato, integrati nei sistemi sanitari, contenimento dei costi,
coinvolgimento delle comunità[13].
In ultima analisi il punto cruciale è mettere al centro dell’attenzione la persona,
non la singola malattia. Da questo punto di vista le risorse messe a disposizione per
combattere l’HIV sono un’opportunità per migliorare in generale l’efficienza dei
sistemi sanitari dei paesi più poveri e quindi lo stato di salute globale.
È ovvio che quanto detto per l’HIV vale anche per la tubercolosi, la malaria, e in generale la
salute globale.
Sappiamo quali sono i problemi, sembra finalmente esserci accordo sulla strategia più
efficace e più equa e c’è un impegno a mettere a disposizione le risorse. Il tempo dirà se alla
volontà politica dichiarata seguiranno azioni concrete.
Enrico Tagliaferri. Infettivologo, Azienda Ospedaliera Pisana
Bibliografia
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