Il fondamento costituzionale della potestà tributaria

Il fondamento costituzionale
della potestà tributaria
Docente
Prof. Avv. Luigi Iacobellis
Corso di Orientamento consapevole “COSTITUZIONE E DIRITTO”
Dipartimento di Giurisprudenza
Università degli Studi di Bari Aldo Moro
Lezione del 6 aprile 2017
Art. 23 Cost.
Nessuna prestazione personale o patrimoniale
può essere imposta se non in base alla legge.
Art. 53 Cost.
Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche
in ragione della loro capacità contributiva.
Il sistema tributario è informato a criteri di
progressività.
MATERIALE DIDATTICO
Estratti Enciclopedia Giuridica Treccani OnLine
- Prestazioni patrimoniali imposte (art. 23 Cost.)
- Capacità contributiva e principio di progressività (art. 53 Cost.)
ENCICLOPEDIA GIURIDICA TRECCANI ONLINE
Prestazioni imposte [dir. trib.]
di Giuseppe Melis
Abstract
Viene esaminata la nozione di prestazioni patrimoniali e personali imposte di cui all’art. 23 Cost.
al fine di definire l’ambito di applicazione oggettivo del principio di riserva di legge relativa, con
particolare riferimento alla materia tributaria.
1. Introduzione: le entrate dello Stato
La rilevanza giuridica della nozione di prestazioni imposte si ricollega all’art. 23 Cost., che
contiene la cd. “riserva di legge” (relativa) in materia tributaria, a mente del quale «nessuna
prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge».
Non vi è tuttavia alcuna definizione normativa di prestazione (personale o patrimoniale)
imposta, così come non ve ne è alcuna di tributo, che della prima costituisce la figura più importante,
né delle specie del tributo stesso.
Per comprendere il significato di prestazione imposta sembra utile muovere, innanzitutto,
dalla classificazione delle entrate dello Stato.
In generale, i mezzi finanziari di cui necessita lo Stato per la propria esistenza possono
derivare, oltre che dall’indebitamento, sia dalla gestione del proprio patrimonio o dall’esercizio
(anche indiretto) di attività economiche, sia da prelievi di carattere coattivo.
Nel primo caso, delle entrate cd. “di diritto privato”, lo Stato amministra il proprio patrimonio,
anche dismettendolo, svolge attività economiche o partecipa al capitale di determinati soggetti che
svolgono attività economiche, comportandosi alla stregua di un qualsiasi operatore privato (iure
privatorum) in un assetto tipicamente corrispettivo.
Nel secondo caso, delle entrate cd. “di diritto pubblico”, lo Stato agisce, invece, mediante il
proprio potere autoritativo (iure imperii) per procacciarsi le entrate.
Tra le entrate di diritto pubblico si comprendono le seguenti figure.
In primo luogo, le prestazioni patrimoniali coattive a carattere sanzionatorio: si tratta di
prestazioni di natura pecuniaria variamente denominate (multe, ammende, ecc.) che costituiscono
oggetto di una obbligazione del trasgressore che viene ricollegata dalla legge alla violazione di un
dovere giuridico.
In secondo luogo, i prestiti forzosi: si tratta di forme di finanziamento imposte dallo Stato, che
obbliga taluni soggetti a versare somme o ad acquistare e conservare titoli del debito pubblico per un
certo periodo di tempo di regola a fronte della corresponsione dei relativi interessi. In tal caso, dunque,
l’acquisizione non è a titolo definitivo bensì temporaneo.
In terzo luogo, le prestazioni cd. parafiscali: si tratta essenzialmente dei contributi
previdenziali ed assistenziali.
In quarto luogo, le espropriazioni per pubblica utilità, a fronte delle quali è previsto un
“indennizzo” ai sensi dell’art. 43, co. 3, Cost., dove la natura di “entrata” viene in particolare collegata
al maggior valore del bene espropriato rispetto all’indennizzo riconosciuto al soggetto titolare del
bene. Tuttavia, a seguito della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (C. eur. Dir.
Uomo, 29.3.2006, Scordino) e delle sentenze c.d. “gemelle” della Corte costituzionale (C. cost.,
24.10.2007, nn. 348 e 349), che hanno ritenuto incostituzionale il sistema italiano di indennizzo
basato sulla media tra il valore venale e il valore catastale, in quanto in contrasto con la Convenzione
europea dei diritti dell’uomo (CEDU) nella parte in cui tutela il diritto di proprietà – dovendo, dunque,
l’indennizzo sostanzialmente corrispondere al valore venale (salvo obiettivi di utilità pubblica o di
giustizia sociale) – tale ricostruzione appare difficilmente sostenibile, risolvendosi il tutto, almeno
nei casi di indennizzo integrale, in una mera modifica qualitativa del patrimonio dello Stato e del
soggetto espropriato.
Infine, i tributi, definibili come obbligazioni aventi ad oggetto una prestazione di regola
pecuniaria (potendo talvolta l’obbligazione essere adempiuta con mezzi diversi dal denaro, quale ad
esempio la possibilità di assolvere le imposte sui redditi e sulle successioni con opere d’arte), a titolo
definitivo o a fondo perduto (differenziandosi, sotto tale profilo, dal prestito forzoso), nascenti dalla
legge (dunque “coattive”, senza cioè che vi concorra la volontà dell’obbligato), al verificarsi di un
presupposto di fatto che non ha natura di illecito (differenziandosi, sotto tale profilo, dalla sanzione).
È invece controverso se elemento caratterizzante del tributo sia anche il fatto che esso attui il concorso
alla spesa pubblica. La Corte costituzionale ha affermato che i criteri cui far riferimento per
qualificare come tributari alcuni prelievi consistono: 1) nella doverosità della prestazione, 2) nella
mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti e 3) nel collegamento di detta prestazione alla
pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante (C. cost., 73/2005,
334/2006, 64/2008, 335/2008, 141/2009, 238/2009). Viene dunque sottolineato dalla Corte il
collegamento della prestazione alla pubblica spesa.
2. Il rapporto tra entrate di diritto pubblico e prestazioni patrimoniali imposte
Tanto premesso, dobbiamo innanzitutto chiederci se la categoria delle prestazioni patrimoniali
imposte si identifichi con quella delle entrate di diritto pubblico. Tale coincidenza deve tuttavia
escludersi.
Tra le prestazioni patrimoniali imposte rientrano senz’altro i prestiti forzosi e le prestazioni
cd. “parafiscali”.
Quanto ai prestiti forzosi, si discute peraltro se essi vi rientrino nonostante il diritto al rimborso
a scadenza del capitale e una remunerazione ragionevole, non verificandosi in tal caso alcuna perdita
di valore del capitale e, dunque, una vera e propria decurtazione patrimoniale (contra, C. cost.,
30.7.1980, n. 141, secondo cui la mancanza di effetto ablatorio, mentre osta all’applicazione dell’art.
53 Cost., non osta all’applicazione dell’art. 23 Cost., essendo «innegabile il carattere di prestazione
proprio del sacrificio, seppure non definitivo, imposto ai destinatari»). I sostenitori della tesi che vi
rinviene in ogni caso una prestazione patrimoniale imposta sottolineano come l’art. 23 Cost. si
riferisca all’assai ampio concetto di “prestazione” e, dunque, ad una qualsiasi obbligazione imposta
in via coattiva, con ciò differenziandosi dall’art. 30 dello Statuto albertino, che invece faceva
riferimento al ben più restrittivo concetto di “tributo”: a nulla rileverebbe, dunque, ai fini
dell’individuazione di una “prestazione patrimoniale imposta”, che al sacrificio economico
corrispondano eventuali utilità o vantaggi stante l’irrilevanza, per tale tesi, dell’elemento della
decurtazione patrimoniale (sul fatto che non possa individuarsi una prestazione patrimoniale imposta
in una disciplina che si limiti a dettare criteri per la determinazione di una indennità, senza mirare
direttamente a impoverimenti o arricchimenti patrimoniali dei soggetti destinatari, C. cost.,
10.2.1982, n. 26).
Quanto alle prestazioni parafiscali, si ha qui indubbiamente una prestazione patrimoniale
imposta nonostante venga a maturarsi, per effetto del versamento dei contributi previdenziali e/o
assistenziali, un diritto pensionistico o altro diritto assistenziale in capo al soggetto assicurato,
trattandosi di un assetto certamente privo di sinallagmaticità in senso proprio. L’applicabilità della
garanzia costituzionale sembra discendere dal fatto che la disciplina del contributo previdenziale, sia
per i criteri di determinazione della somma dovuta dal privato, sia per l’obbligatorietà della richiesta
del “servizio previdenziale”, denota un istituto ordinato a produrre una diminuzione patrimoniale al
privato e, dunque, la sussistenza di una prestazione patrimoniale imposta. La stessa Corte
costituzionale (C. cost., 18.5.1972, n. 91), nell’affrontare il problema della natura del contributo
previdenziale maggiorato previsto dalla l. 5.7.1965, n. 798 per i compensi relativi agli incarichi
retribuiti conferiti dall’autorità giudiziaria, ha ritenuto trattarsi di una prestazione patrimoniale,
imposta in base alla legge secondo l’art. 23 Cost., peraltro «caratterizzata dal sacrificio pecuniario di
una parte dell’utile spettante al professionista iscritto all’Ente nazionale allo scopo di devolverla
all’Ente stesso per dotarlo dei mezzi necessari a realizzare, nel settore, il principio della solidarietà
sociale, che sta alla base dell’art. 53 Cost., in relazione all’art. 2».
Si escludono invece dall’art. 23 Cost. le espropriazioni forzate e le sanzioni penali a contenuto
pecuniario, dal momento che esse trovano apposita fonte di disciplina a livello costituzionale,
rispettivamente negli artt. 42, co. 3, e 43 Cost. – purché l’espropriazione sia preordinata alla
acquisizione del bene in virtù della sua utilità specifica e fermo restando, nel caso di integrale ristoro,
la sua estraneità alle prestazioni imposte per via della mera “modifica qualitativa” nel (e non
“decurtazione del”) patrimonio dell’ablato che essa provoca (ove si ritenga tale decurtazione
elemento essenziale della nozione) – e nell’art. 25, co. 2 Cost. Riguardo a tale ultima disposizione, è
tuttavia dubbio se la relativa copertura si estenda alle sanzioni amministrative, destinate a trovare una
copertura nell’art. 23 Cost., trattandosi pacificamente di prestazioni patrimoniali imposte (C. cost.,
14.4.1988, n. 447 e C. cost., 3.6.1992, n. 250, che escludono l’applicabilità dell’art. 25, co. 2, Cost.).
Per quanto riguarda i tributi, si tratta senz’altro di prestazioni patrimoniali imposte, in quanto
ne possiedono i caratteri essenziali, segnatamente la coattività (prestazione obbligatoria), nel senso
di essere istituiti da un “atto di autorità” a carico di un soggetto senza che la volontà di questo vi abbia
concorso (C. cost., 26.1.1957, n. 4), nonché l’effetto di decurtazione del patrimonio dell’obbligato
cui l’intervento autoritativo è ordinato. Ciò nel caso in cui si ritenga, anche se trattasi di tesi non
unanimemente condivisa in dottrina, che la coattività non sia l’unico elemento qualificante delle
prestazioni patrimoniali imposte dovendosi avere riguardo anche ai “risultati” dell’intervento
autoritativo.
La nozione di prestazione patrimoniale imposta è tuttavia più ampia di quella di tributo. Ciò
risulta con chiarezza dalla giurisprudenza costituzionale, che ha ricondotto all’interno della categoria
delle prestazioni patrimoniali imposte sia numerose prestazioni coattive non tributarie – tra cui, ad
esempio, la rivalsa per le spese di ospedalità degli indigenti (C. cost., 21.5.1975, n. 112), il contributo
di solidarietà a carico di alcuni trattamenti previdenziali corrisposti da enti gestori di forme di
previdenza obbligatoria (C. cost., 30.1.2003, n. 22), il contributo imposto ai sanitari iscritti agli ordini
professionali italiani dei farmacisti, dei medici chirurghi, degli odontoiatri e dei veterinari alla
Fondazione opera nazionale assistenza orfani sanitari italiani (C. cost., 14.6.2007, n. 190) – sia, alle
condizioni che si esamineranno infra, obbligazioni assunte contrattualmente.
3. La nozione di prestazione patrimoniale imposta e la giurisprudenza costituzionale
La nozione di prestazione patrimoniale imposta costituisce essenzialmente il frutto
dell’elaborazione della Corte costituzionale.
In tale ambito, la nozione di “prestazione imposta” è stata progressivamente ampliata (come
evidenziato dalla stessa C. cost., 10.6.1994, n. 236), sino ad abbracciare determinate obbligazioni
assunte contrattualmente.
In generale, secondo la Corte la “prestazione imposta” è quella «stabilita come obbligatoria a
carico di una persona senza che la volontà di questo vi abbia concorso» (C. cost., 26.1.1957, n. 4; C.
cost., 26.1.1957, n. 30; C. cost., 18.3.1957, n. 47; C. cost., 8.7.1957, n. 122; C. cost. 27.6.1959, n. 36;
C. cost. 16.12.1960, n. 70; C. cost. 3.5.1963, n. 55), risultando irrilevante la manifestazione di volontà
del destinatario di quella imposizione di richiedere il bene o servizio in mancanza di un vero rapporto
sinallagmatico (C. cost., 30.1.1962, n. 2, concernente la tassa per l’occupazione del suolo pubblico).
Nessuna rilevanza assume, secondo la Corte, la denominazione della prestazione: rientrano,
quindi, nell’art. 23 Cost. anche il “diritto di contratto” imposto a determinati soggetti dall’Ente
nazionale risi (C. cost., 26.1.1957, n. 4), il “corrispettivo” dovuto all’ENI dagli utenti di bombole per
i servizi posti a carico dell’ente (C. cost., 26.1.1957, n. 30), il “contributo” dovuto agli enti provinciali
del turismo (C. cost., 18.3.1957, n. 47); il “sovracanone” dovuto dai concessionari di grandi
derivazioni dai bacini imbriferi montani (C. cost., 8.7.1957, n. 122), le “tariffe” dovute ai Comuni per
le pubbliche affissioni effettuate dai privati (C. cost., 27.6.1959, n. 36), lo “sconto” sui medicinali a
favore degli enti mutualistici (C. cost., 16.12.1960, n. 70).
Con riferimento alla “prestazione patrimoniale” più nello specifico, la Corte ritiene che questa
sia configurabile non soltanto quando l’obbligazione istituita autoritativamente consista nel
pagamento di una somma di denaro, ma anche quando il sacrificio pecuniario derivi dalla riduzione
di una parte dell’utile altrimenti spettante (C. cost., 16.12.1960, n. 70, concernente gli sconti sul
prezzo dei medicinali imposto a produttori e farmacisti a favore degli enti mutualistici: in tal caso, la
Corte valorizza, ai fini della prestazione patrimoniale imposta, la decurtazione di quell’utile che i
produttori dei medicinali avrebbero conseguito se ad essi non fosse stato imposto lo sconto,
escludendone la natura di mero “prezzo differenziato” o “d’imperio” in quanto regolato in modo
autonomo rispetto ai prezzi di vendita al pubblico). Più in generale, l’effetto di decurtazione o
depauperamento può risolversi nella nascita di una obbligazione, per lo più pecuniaria, a carico del
soggetto destinatario, ma anche in una ablazione reale oppure nella mera estinzione di un suo
precedente diritto.
Non sono invece riconducibili all’art. 23 Cost. gli interventi di determinazione autoritativa di prezzi
e canoni volti a tutelare le posizioni economiche più deboli, al fine di garantire un effettivo equilibrio
di posizioni contrattuali. In tali casi, infatti, parametro di legittimità non è l’art. 23 Cost. bensì l’art.
41 Cost.. Si veda, in tal senso, C. cost., 23.4.1965., n. 30, concernente la determinazione del prezzo
delle sanse di oliva, secondo cui «l’art. 23 della Costituzione, il cui contenuto si esaurisce nel
prescrivere una riserva di legge, non ha nessun ruolo da svolgere là dove altra norma costituzionale
– e tale é il caso dell’art. 41 – nel dettare una disciplina sostanziale della fattispecie già l’accompagni
con la garanzia formale della riserva di legge».
In una sentenza più recente (C. cost., 7.7.2006, n. 279), tuttavia, con riferimento allo sconto
obbligatorio sul prezzo dei farmaci rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale, la Corte qualifica tale
misura sia come prestazione patrimoniale imposta ai sensi dell’art. 23 Cost., sia come una limitazione
della libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost., tuttavia preordinata a consentire il
soddisfacimento contestuale di una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti (su tutti, il
contenimento della spesa sanitaria, in vista del fine di utilità sociale costituito dalla garanzia del più
ampio godimento del diritto all’assistenza farmaceutica e comunque tale da lasciare all’imprenditore
un più ridotto ma ragionevole margine di utile).
Si includono, infine, nella categoria delle prestazioni patrimoniali imposte ulteriori ipotesi
quali la requisizione di servizi da privati in cui manchi un adeguato indennizzo; e se ne escludono
altre, quali le cd. “prestazioni a contenuto negativo”, le quali, consistendo in limitazioni all’iniziativa
economica privata, rientrano nell’art. 41 Cost.
4. Prestazioni patrimoniali imposte e obbligazioni assunte contrattualmente
Secondo la Corte costituzionale – oltre alle cd. “imposizioni in senso formale”, intese quali
prestazioni imposte con atto autoritativo – la nozione di prestazioni patrimoniali imposte è tale da
abbracciare anche obbligazioni assunte contrattualmente, ma nelle quali, vuoi per la presenza di
monopoli fiscali (con conseguente fissazione di corrispettivi estranei alla logica di mercato
nonostante la natura negoziale del rapporto), vuoi perché la determinazione del quantum debeatur
(dunque la parte della disciplina che provoca la decurtazione patrimoniale) è comunque frutto di
determinazioni autoritative, il privato, in considerazione della particolare natura del bene o del
servizio di cui ha bisogno (generi di prima necessità, utenze, ecc.), partecipa in modo solo
apparentemente libero o volontario alla formazione dell’obbligazione, trovandosi in realtà in una
particolare situazione di condizionamento o di sostanziale coazione.
Si tratta delle cd. “imposizioni in senso sostanziale” (o “imposizioni di fatto”), in cui,
nonostante la fonte contrattuale, il corrispettivo è fissato unilateralmente ed in via autoritativa e al
privato è rimessa soltanto la libertà (astratta) di richiedere la prestazione o il bene essenziale oppure
rinunziarvi. È da ritenere, in ogni caso, che l’“atto di autorità” debba necessariamente investire la
determinazione del corrispettivo, sicché dovrebbero restare estranee alla nozione di prestazioni
patrimoniali imposte (e, dunque, alla riserva di legge) le ipotesi in cui esso investa, ad esempio, la
sola costituzione del rapporto.
Al fine di meglio comprendere il profilo qui in esame, è utile richiamare la giurisprudenza
costituzionale in materia, segnatamente:
C. cost., 9.4.1969, n. 72, concernente le tariffe del servizio telefonico (all’epoca gestito in monopolio).
La questione in esame riguardava la S.I.P. citata in giudizio per l’illegittimità di alcune fatture di
utenza telefonica, determinate sulla base dell’art. 232 del Regio decreto 27.2. 1936, n. 645, contenente
il “Codice postale e delle telecomunicazioni”, che disponeva l’approvazione delle tariffe telefoniche
con decreto del Ministero per le poste e le telecomunicazioni, emanato di concerto con il Ministro del
Tesoro e con il Ministro per l’industria ed il commercio. In particolare, veniva paventato il contrasto
di tale articolo con l’art. 23 Cost. in quanto, nella determinazione delle tariffe telefoniche, demandava
all’autorità governativa un potere non soggetto né a limiti né a controlli idonei a garantire gli utenti
del servizio. La Corte costituzionale, muovendo dall’assunto che le obbligazioni degli utenti rispetto
al concessionario del servizio trovino la loro fonte in un contratto (il contratto telefonico) e che sulla
natura di tale rapporto non incidano né il carattere pubblicistico della concessione né i poteri attribuiti
dalla legge al Governo, evidenzia che l’assoggettamento del rapporto in esame alla disciplina
privatistica non fa venire meno il carattere pubblico del servizio telefonico. Secondo la Corte, il
carattere impositorio della prestazione non è escluso per il solo fatto che la richiesta dipenda dalla
volontà del privato ma, diversamente, tutte le volte in cui un servizio sia riservato al settore pubblico
e sia essenziale ai bisogni della vita, è necessario riconoscere una vera e propria prestazione
patrimoniale. In tal caso, infatti, seppure il singolo è libero di stipulare o meno il contratto, la libertà
di cui dispone è limitata alla possibilità di scegliere tra la rinuncia al soddisfacimento di un bene
primario e l’accettazione di condizioni ed obblighi unilateralmente ed autoritativamente prefissati.
Per tale motivo, secondo la Corte, essendo le comunicazioni telefoniche un servizio essenziale
esercitato in regime di monopolio pubblico, la determinazione delle tariffe deve essere tutelata
dall’art. 23 Cost.;
C. cost., 2.2.1988, n. 127, concernente il diritto di approdo istituito dall’art. 4 lett. f), d.l. 11.01. 1974,
n. 1 dovuto dalle navi che si servono, per approdarvi, degli ambiti territoriali compresi nella
circoscrizione del Consorzio autonomo del porto di Napoli. La Corte ha inquadrato il pagamento del
“diritto di approdo” nelle prestazioni patrimoniali obbligatorie, in quanto il carattere unilaterale ed
autoritario della prestazione viene ad identificare come obbligatorie anche le prestazioni su richiesta,
quando esse siano connesse ad un servizio essenziale, gestito in regime di monopolio. Infatti, per
quanto riguarda il “diritto di approdo”, chi ne vuole usufruire non ha facoltà di scelta e la legge
conferisce il potere di determinare il contenuto della prestazione dell’utente al Consorzio;
C. cost., 15.3.1994, n. 90, concernente la legittimità costituzionale dell’art. 2, co. 1, lett. b), l.
26.7.1965, n. 966, disciplinante le tariffe, le modalità di pagamento ed i compensi del Corpo nazionale
dei vigili del fuoco, in quanto pone a carico dei privati l’obbligo di richiedere al Corpo nazionale dei
vigili del fuoco i servizi di vigilanza a pagamento per i locali di pubblico spettacolo. Secondo la Corte,
sulla base della medesima motivazione della sentenza appena richiamata, il corrispettivo del servizio
reso, essendo un prezzo imposto, è una “prestazione patrimoniale” che rientra nell’art. 23 Cost.;
C. cost., 10.6.1994, n. 236, relativa al canone dovuto per l’estrazione di sabbia dal greto dei fiumi,
considerato prestazione imposta perché, pur avendo a base un negozio tra pubblica amministrazione
e privato, è stabilito autoritativamente per la fruizione di un bene pubblico;
C. cost., 20.5.1998, n. 174, concernente un giudizio civile, promosso nei confronti dell’ENEL S.p.a.
per ottenere la restituzione di quanto versato come cosiddetta “quota di prezzo” sulle forniture di
energia elettrica, prevista all’interno delle tariffe elettriche disposte dal CIP. Il giudice rimettente
riteneva che essendosi esaurita la funzione originaria di dette quote (di compensazione del minore
apporto del Tesoro al fondo di dotazione dell’ENEL) la riproposizione delle stesse avrebbe disposto
una prestazione retroattiva simile ad un’imposta, applicata alla sola “platea casuale” degli utenti
domestici di energia elettrica, con violazione del principio di eguaglianza e non correlata alla capacità
contributiva dei soggetti colpiti. Per quanto di nostro interesse, e con riferimento alle tariffe elettriche,
la Corte evidenzia che la tariffa è un prezzo pubblico imposto in base alla legge, soggetto ai vincoli
dell’art. 23 Cost., ma non un’imposta cui applicare l’art. 53 Cost.;
C. cost., 19.6.1998, n. 215, concernente le tariffe inserite di diritto nei contratti di assicurazione per
la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti. Secondo la
Corte, le tariffe assicurative costituiscono una prestazione patrimoniale imposta, in quanto la
determinazione delle stesse da parte del CIP costituisce un atto formale autoritativo che incide
sostanzialmente sull’autonomia privata dell’utente, in riferimento ad un negozio – il contratto di
assicurazione – obbligatorio ex lege per il soddisfacimento di un rilevante bisogno di vita, qual è la
libertà di circolazione mediante l’utilizzazione di veicoli.
5. Prestazioni personali imposte e diritto tributario
Il collegamento tra art. 23 Cost. e diritto tributario non si esaurisce nelle prestazioni
patrimoniali imposte, potendo coinvolgere anche le cd. “prestazioni personali imposte”, con le quali
si attua una limitazione di quel profilo della libertà personale che si esprime in facoltà di scelta in
ordine alla destinazione delle proprie energie fisiche o mentali, indipendentemente dall’esistenza di
retribuzioni o indennità finalizzate a neutralizzare l’incidenza della prestazione sul patrimonio del
privato.
Infatti, soprattutto nella fase di attuazione del tributo, il legislatore pone a carico del
contribuente (o anche di soggetti che non hanno realizzato il presupposto di imposta), una serie di
obblighi (quali: denunzie, comunicazioni, dichiarazioni, ritenute alla fonte, ecc.) che potrebbero
concretizzarsi in quel vincolo alla scelta di destinazione delle relative energie fisiche od intellettuali
che costituisce tratto caratterizzante delle prestazioni personali imposte.
Si tratta peraltro di una questione di importanza non secondaria in Italia, per la nota pletora di
adempimenti formali che caratterizzano l’adempimento dei tributi, essendosi ormai trasferita ai
privati (contribuenti e non) gran parte delle attività necessarie per l’attuazione del tributo, con
rilevanti implicazioni anche in ordine al rispetto dell’art. 23 Cost. da parte dei processi di c.d.
“delegificazione” che caratterizzano il diritto tributario procedimentale.
Non può naturalmente escludersi una qualificazione di tali obblighi, sovente a rilevanza anche
patrimoniale, direttamente (ed esclusivamente) in termini di “prestazioni patrimoniali imposte”, ad
esempio laddove l’obbligo strumentale non sia particolarmente impegnativo (comportando soltanto
l’onere economico connesso alla relativa esecuzione).
Fonti normative
Art. 23 Cost.
Bibliografia essenziale
Bartholini, S., Il principio di legalità dei tributi in tema di imposte, in Riv. dir. fin., 1956, I, 248 ss.;
Fantozzi, A., Il diritto tributario, Torino, 2003, 15 ss. e 89 ss.; Fedele, A., Commento all’art. 23 Cost.,
in Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma, 1978, 21-147; Fedele, A., Prestazioni imposte, in
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M.A., Riserva di legge e delegificazione nell’ordinamento tributario, Milano, 1998; Manzoni, I.Vanz, G., Il diritto tributario, II ed., Torino, 2008, 9 ss.; Micheli, G.A., Prestazioni imposte, sconto
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P., Manuale di diritto tributario. Parte generale, IV ed., Milano, 2002, 7 ss.; Tesauro, F., Istituzioni
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entrate tributarie, I, Premessa, Padova, 1973; Zaccaria, F., Entrate pubbliche, in N. D. I., Appendice,
1982, 430 ss..
ENCICLOPEDIA GIURIDICA TRECCANI ONLINE
Capacità contributiva
di Alessandro Giovannini
Abstract
Il principio di capacità contributiva, contemplato nell’art. 53 Cost., è regola fondamentale che
presiede alla ripartizione dei tributi tra i consociati. Come criterio di riparto dei carichi pubblici, il
principio ha un doppio volto: da un lato vincola il legislatore a riportare il presupposto oggettivo dei
tributi all’attitudine dei singoli e, dall’altro, vincola questi a contribuire alle spese pubbliche in
ragione della loro attitudine personale. La contribuzione ritrae la propria giustificazione dall’idea
che il suo assolvimento soddisfi esigenze non individualistiche ma sociali: il tributo rappresenta
adempimento di un dovere inderogabile di solidarietà. Il cuore sostanziale del principio è la forza o
capacità economica riconducibile ad elementi in grado di esprimerla nella sua oggettività. La
tassazione, per questo motivo, è sganciata, sul piano della sua legittimazione, dal depauperamento
che può determinare del patrimonio del contribuente preesistente al prelievo e non impone l’esistenza
di un legame col diritto di proprietà, inteso come elemento “costitutivo” della persona e della sua
attitudine alla contribuzione. Dal principio di progressività, previsto nel comma 2 dell’art. 53,
discende, con la forza cogente del diritto, il limite quantitativo al prelievo.
1. L’art. 53 della Costituzione e i lavori preparatori dell’Assemblea costituente
Ai sensi dell’art. 53, co 1, Cost. «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione
della loro capacità contributiva»; per il co. 2 «il sistema tributario è informato a criteri di
progressività».
L’art. 53 è inserito nel titolo IV dedicato ai “rapporti politici”. In questo modo si è inteso
sottolineare come la capacità contributiva esprima, anzitutto, un criterio ordinatorio dei rapporti tra
consociati e tra consociati e Stato: criterio di salvaguardia dei loro diritti ma, al contempo, fondamento
del loro dovere contributivo, alla stessa stregua di altri doveri, come quello di voto, il dovere di difesa
della Patria, il dovere di fedeltà alla Repubblica e di obbedienza alla Costituzione e alle leggi.
Lo Statuto albertino del 1848 non parlava di capacità contributiva: per l’art. 25, tutti i regnicoli
dovevano contribuire ai carichi dello Stato «nella proporzione dei loro averi».
La capacità contributiva è nozione anzitutto economica e, come formula normativa, comparve
per la prima volta nei lavori preparatori della Costituzione, in una proposta di articolato formulata da
Lelio Basso, nel corso della seduta del 16 novembre 1946 della prima sottocommissione della
Commissione per la Costituzione. La proposta non venne approvata. Aldo Moro e Giuseppe Dossetti,
nelle dichiarazioni di voto, tuttavia, riconobbero la necessità di prevedere in Costituzione una
specifica disposizione riguardante le prestazioni patrimoniali imposte.
L’Assemblea costituente si occupò dell’argomento nella seduta del 23 maggio 1947. In quella
sede, a firma, tra gli altri, di Edgardo Castelli ed Ezio Vanoni, venne riproposto il principio di capacità
contributiva come criterio fondante la contribuzione obbligatoria per «tutti quanti partecipano alla
vita economica, sociale o politica dello stato». Nello svolgimento della discussione, fu proprio
Castelli a riassumere le proposte emerse nel corso dei lavori ed a formulare, d’intesa con Luigi Meda
e Salvatore Scoca, una proposta conclusiva, in termini esattamente corrispondenti a quelli poi trasfusi
nell’art. 53, co. 1. Durante il dibattito, tuttavia, l’Assemblea non si soffermò tanto sulla nozione in sé
di capacità contributiva: di essa, infatti, si parlò di passata nell’intervento di Meuccio Ruini,
presidente della “commissione dei 75”, che la definì “formula tecnicamente preferibile” rispetto alla
nozione di “averi”, adottata nello Statuto albertino, e a quella di “mezzi”, contemplata nella
Costituzione della Repubblica di Weimar. Piuttosto, l’Assemblea si preoccupò di un profilo, per così
dire, contenutistico di detta capacità. Dalla lettura dei resoconti si desume con chiarezza come il
timore dei costituenti, messo particolarmente in luce da Scoca e ripreso da Ruini, fosse quello di
evitare che l’imposizione colpisse chi possedeva soltanto «un minimo necessario al soddisfacimento
delle esigenze inderogabili della vita». Il tema delle esenzioni fu a lungo dibattuto. Alla fine prevalse
la proposta, formulata dallo stesso Ruini, e condivisa da Villani, di evitare l’inserimento in
Costituzione di un’autonoma previsione su questo tema, e non perché non fosse condivisa l’esigenza
di preservare da imposizione quelle minime ricchezze, ma perché si ritenne che, a questo fine, fosse
già sufficiente il principio di capacità contributiva. Principio che, come diffusamente esposto da Ruini
nella seduta del 23 maggio 1947, contiene «in germe già l’idea delle limitazioni e delle esenzioni per
il fatto che colui il quale dovrebbe contribuire non ha capacità contributiva [ … ] ed in tali condizioni
senza dubbio si trova chi non ha il minimo indispensabile per vivere».
La discussione, sempre in assemblea, si appuntò, poi, sul criterio della progressività.
Particolarmente significativi furono gli interventi di Scoca, Meda e Corbino, tutti tesi a garantire una
sua puntuale formalizzazione in seno alla nuova Carta, come significativo fu l’intervento di Moro
che, nella seduta del 19 novembre 1946 della prima sottocommissione della Commissione per la
Costituzione, non esitò a schierarsi a favore della proporzionalità quale criterio di ripartizione “degli
oneri che ricadono sui singoli cittadini”, come già previsto nello Statuto albertino. Ruini,
nell’intervento conclusivo del 23 maggio 1947, si espresse, invece, favorevolmente alla progressività
e aderì alla proposta di inserirla in Costituzione, ma non come criterio valevole per tutte le imposte
dirette o per l’imposta c.d. unica - sulla quale pure si discusse per farne un tributo sostitutivo delle
vecchie e frammentate imposte reali e personali - ma come criterio riferibile “all’insieme del sistema
tributario”, assunto, per l’appunto, “nel suo complesso”. Proprio quello che sarebbe stato scritto, alla
fine, nel co. 2 dell’art. 53.
Un cenno, infine, al profilo soggettivo. Anche di questo aspetto si occupò l’assemblea e due
furono gli interventi più rilevanti: il primo di Castelli, che, “pur non nominandoli”, intendeva usare
una locuzione in grado di ricomprendere tra i soggetti passivi dei tributi anche gli stranieri; il secondo
di Ruini, il quale, pur raccogliendo questa indicazione, propose di adottare una formulazione sintetica,
più adatta ai testi costituzionali: «non è necessario entrare in locuzioni vaghe: basta dire che “tutti
devono concorrere”. Quel “tutti” riguarda anche gli stranieri». Anche in questo caso, la proposta di
Ruini, formulata nella seduta dell’Assemblea del 23 maggio 1947, divenne articolato costituzionale
(approfondimenti ulteriori in Moschetti, F., Capacità contributiva, in Enc. giur. Treccani, Roma,
1988, 2; Falsitta, G., Storia veridica, in base ai “lavori preparatori”, della inclusione del principio
di capacità contributiva nella Costituzione, in Riv. dir. trib., 2009, I, 97 ss.).
2. Capacità contributiva, principio solidaristico e principio di uguaglianza. Dimensione individuale
e dimensione sociale del principio
Il principio in esame costituisce espressione di una regola fondamentale che presiede la
ripartizione dei tributi tra i consociati. Per la Corte costituzionale - con argomentare criticato in
dottrina - il suo ambito applicativo, però, deve essere limitato alle sole imposte, con esclusione,
quindi, dei tributi c.d. commutativi (posizione tralaticiamente ripetuta fin dalla sent. 2.4.1964, n. 30,
in Giur. cost., 1964, 250. Cfr. Maffezzoni, F., Imposta, in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 441 ss., specie
463).
Visto come criterio di riparto dei carichi pubblici, il principio ha un doppio volto: da un lato
vincola il legislatore a riportare il presupposto oggettivo dei tributi all’attitudine dei singoli e,
dall’altro, vincola questi a contribuire alle spese pubbliche in ragione, proprio, della loro attitudine
personale (sulla connotazione essenzialmente solidaristica della norma, Moschetti, F., Il principio
della capacità contributiva, Padova, 1973, passim, 59 ss.; sul suo ruolo primariamente garantistico,
Gaffuri, F., L’attitudine alla contribuzione, Milano, 1969, 88 ss.; sui limiti al potere di imposizione,
sia formale, sia sostanziale, che discendono dal principio, cfr. De Mita, E., Il principio di capacità
contributiva, in Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 1991, 33; Marongiu, G., I
fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria. Profili storici e giuridici, Torino, 1991,
passim).
Il principio, se obbliga i consociati al rispetto del dovere, costituisce contemporaneamente un
presidio affinché essi siano tassati - e non sembri un gioco di parole - solo per fatti economici
espressivi di capacità contributiva: la commisurazione del carico tributario su ciascun soggetto deve
essere parametrata alla sua condizione individuale, senza che su quella commisurazione possano
incidere ricchezze da altri prodotte (C. cost., 15.7.1976, n. 179. In dottrina, cfr. Moschetti, F., Il
principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra
singolo e comunità, in Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di Perrone L.-Berliri, C.,
Napoli, 2006, 45 ss.).
Di qui una duplice conseguenza. Non tutti gli elementi espressivi di capacità economica
possono essere ripresi come fatti al contempo espressivi di capacità contributiva: così, ad esempio,
un reddito minimo, appena sufficiente a garantire una vita libera e dignitosa per il suo possessore e
per i suoi familiari, manifesta bensì capacità economica, ma non quella contributiva. La seconda
conseguenza è che nessun pregio può essere riconosciuto al c.d. interesse fiscale: tassare alcuno
secondo parametri non idonei ad esprimere una capacità contributiva specifica ed effettiva per
perseguire un interesse assertivamente predicato come superiore poiché appartenente allo Stato, è
incompatibile sia col principio di capacità contributiva, sia col principio d’eguaglianza e con quello
di solidarietà, se è vero, com’è da credere, che tutti questi princìpi non possono adattarsi a presupposti
sostanziali “adulterati” da quell’interesse (sull’interesse fiscale, Boria, P., Capacità contributiva, in
Comm. Cost., I, a cura di Bifulco, R.-Celotto, A.-Olivetti, M., sub art. 53, Torino, 2006, 1055 ss., e
Id., L’interesse fiscale, Torino, 2002).
La contribuzione obbligatoria ritrae la propria giustificazione dall’idea che il suo assolvimento
soddisfi esigenze non individualistiche ma sociali, della collettività organizzata costituita intorno ai
diritti dei singoli e delle formazioni sociali: il tributo rappresenta, per questo motivo, adempimento
di un dovere inderogabile, in quanto «la ricchezza del soggetto rileva non solo come diritto, ma anche
come dovere per la realizzazione di fini comuni» (Moschetti, F. Profili generali, in Moschetti, F., La
capacità contributiva, Padova, 1993, 18 e 19, e Id., Il principio della capacità contributiva, cit., 59
ss.; Manzoni, I., Il principio di capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano,
Torino, 1965, 185 ss.; Batistoni Ferrara, F., Capacità contributiva, in Enc. dir., Agg., III, Milano,
1999, 345 ss.; Antonini, L. Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996,
200 ss. e 347 ss.; Tesauro, F., Istituzioni di diritto tributario, I, Torino, 2011, 63 ss.; Giovannini, A.,
Principi costituzionali e nozione di costo nelle imposte sui redditi, in Rass. trib., 2011, 609 ss.).
La ricchezza del singolo – detto in termini scheletrici – non è soltanto privata, ma, in parte, è
anche pubblica, poiché “appartenente” allo Stato qualificato come collettività. Il tributo, pertanto, è
il principale strumento attuativo della distribuzione del carico, al quale si collega l’interesse di “tutti”
affinché quel dovere venga assolto dai singoli nella misura da “loro” dovuta (Vanoni, E., Elementi di
diritto tributario, Padova, 1940, 47 ss., Falsitta, G., Natura e funzione dell’imposta, con speciale
riguardo al fondamento della sua “indisponibilità”, in Profili autoritativi e consensuali del diritto
tributario, a cura di La Rosa, S., Milano, 2008, 68). Il principio dettato dall’art. 2, quindi, in primo
luogo, deve essere inteso come espressivo del dovere di solidarietà economica gravante sul singolo,
perché è anzitutto uti singuli che la qualificazione solidaristica del dovere prende corpo, dovere che,
per questo motivo, non può che trovare corrispondenza in un’obbligazione individuale a carattere
pecuniario.
Pure incarnato da un’obbligazione di stampo civilistico, il dovere tributario non trova la sua
ragione in un rapporto commutativo tra singolo e Stato: non si adempie perché si riceve, ma si
adempie perché si partecipa alla stregua di membri di una comunità organizzata e, quindi, si adempie
in qualità di corresponsabili delle sue esigenze e della sua sopravvivenza (Fedele, A., Corrispettivi di
pubblici servizi, prestazioni imposte, tributi, in Riv. dir. fin., 1971, II, 27 ss.; si riferisce “all’interesse
individuale alla funzione riproduttiva dei pubblici servizi”, Berliri, L.V., La giusta imposta, Milano,
1975, 56).
Il principio in esame ha anche una faccia più propriamente sociale. Se valutato in questa
dimensione, il dovere contributivo perde la configurazione giuridica individuale per assumere quella
uti cives, riferibile a tutti i componenti la collettività. Il dovere giuridico singolo si diluisce e si fonde
nel dovere di tutti e la distribuzione del carico non solo lascia il terreno della singola obbligazione
giuridica per entrare nella dimensione macroeconomica e della finanza pubblica, ma può essere
perfino guardata, quella distribuzione, dalla prospettiva opposta: anziché dell’imposizione, dalla
prospettiva della spesa pubblica (Bergonzini, E., I limiti costituzionali quantitativi dell’imposizione
fiscale, I e II, Napoli, 2011, passim, specie vol. I., 109 ss.).
Il principio, dunque, inserito in una Costituzione che ripudia la concezione liberale della
finanza “neutrale” e che, al contrario, si apre al modello della finanza “funzionale”, ordina le entrate
alla rimozione degli ostacoli economici che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei singoli,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana, secondo la tavola dei valori espressa nell’art 3,
e, per il tramite delle leggi di spesa o di norme impositive di favore (di agevolazione o di esenzione),
ordina la politica fiscale e di bilancio al conseguimento di finalità non soltanto tributarie, ma anche
redistributive, così del carico, come della ricchezza (Gallo, F., L’uguaglianza tributaria, Napoli,
2012, 19 ss.).
Il principio di eguaglianza, pertanto, trova nella solidarietà il suo “specchio” sostanziale: sono
i principi costituzionali letti alla luce dell’art. 2 che danno corpo all’eguaglianza, obbligando, da una
parte, a trattare in modo eguale situazioni eguali e, dall’altra, legittimando trattamenti differenziati a
petto di situazioni solo apparentemente identiche.
È in questo contesto e sulla base di queste regole che viene in considerazione la problematica
delle esenzioni e delle agevolazioni, le quali, proprio alla luce degli art. 2 e 3, si possono giustificare
se rivolte a perseguire interessi costituzionalmente rilevanti in grado di “bilanciare” il vulnus che, in
prima battuta, sembra subire l’eguaglianza formale; e sono sempre quelle norme costituzionali ad
impedire disomogeneità di trattamento di situazioni apparentemente difformi, ma sostanzialmente
identiche.
In conclusione e utilizzando un’espressione immaginifica, se il principio di solidarietà e quello
di eguaglianza si assumono come una costellazione radiante, la quale, per il “naturale” intreccio delle
norme costituzionali, ritrae dal principio della capacità contributiva l’impronta economica alla quale
poter saldare redistribuzione della ricchezza e ripartizione dei carichi pubblici, agevolazioni ed
esenzioni in tanto si giustificano in quanto ad esse corrisponda un interesse di pari grado suscettibile
di irradiare, a sua volta e con la stessa intensità dell’art. 53, quella costellazione.
Ecco perché, per il diritto domestico, le norme che tassano in maniera minore il reddito
d’impresa prodotto nella forma della società cooperativa di produzione e lavoro, con carattere di
mutualità e senza fini di speculazione privata, rispetto ai redditi d’impresa prodotti nelle forme delle
società lucrative, non creano nessuno strappo al principio di parità di trattamento: in forza dell’art. 45
della Carta, infatti, quelle norme raccolgono il principio solidaristico (art. 2) e quello del diritto al
lavoro (art. 4), favorendone promozione e incremento. Proprio quello, del resto, che, nel nocciolo, ha
riconosciuto anche la C. giust. U.E. nella sent. 8.9.2011, c. C-78/08 e C-80/08 (Giovannini, A.
Concorrenza fiscale e aiuti di Stato: princìpi e tassazione delle società cooperative, in Boll. trib.,
2006, 1589 ss.; A. Marinello, Regimi impositivi differenziati e società cooperative secondo la Corte
di giustizia UE, in Riv. trim. dir. trib., 2012, 207 ss.).
3. La nozione giuridica di capacità contributiva: la forza economica soggettiva e la forza
economica oggettiva
La capacità contributiva apparve, ai primi commentatori, come una “scatola vuota”. La tesi
svalutativa del principio, però, non attecchì e la letteratura più attenta, come la giurisprudenza della
C. cost., propose interpretazioni volte a riempire quella “scatola” di contenuti pregnanti (Giardina,
E., Le basi teoriche del principio della capacità contributiva, Milano, 1961; Moschetti, F., Il principio
di capacità contributiva, cit., passim; la giurisprudenza della Corte si può vedere richiamata in
Batistoni Ferrara, F., Comm. Cost. Branca, sub art. 53, Bologna-Roma, 1994, e in De Mita, E., Fisco
e Costituzione, Milano, 1984 e 1993).
Il cuore sostanziale del principio è la forza o capacità economica riconducibile ad elementi in
grado di esprimerla nella sua oggettività. Ne discende che, mentre non possono essere elevati a
presupposto di un tributo fatti non idonei a manifestare una forza simile (così, ad esempio, le
connotazioni fisiche di un soggetto, le sue convinzioni ideologiche o religiose, il suo orientamento
sessuale, l’appartenenza ad una etnia o altri elementi similari), rimangono senz’altro attratti in quella
nozione il reddito, il patrimonio e il suo incremento di valore – indici diretti di capacità contributiva
– i consumi, i trasferimenti e gli affari giuridici - indici indiretti di capacità contributiva (De Mita, E.,
Capacità contributiva, in Dig. comm., II, Torino, 1987, 454 ss.).
Elementi ulteriori si sono aggiunti in tempi recenti: il valore netto della produzione, posto a
fondamento dell’imposta regionale sulle attività produttive, e l’uso o la produzione di risorse
inquinanti, “presupposto” di alcuni c.d. tributi ambientali.
Su questi ultimi si è aperto un vivace dibattito. Quanto ai c.d. tributi ambientali, la loro
riconduzione all’art. 53 non è l’unica soluzione prospettabile. È possibile che essi siano qualificabili
come prelievi bensì ablativi di una porzione della ricchezza prodotta dall’attività nella quale tali
sostanze sono impiegate o prodotte, ma non riproduttivi dall’art. 53 del titolo giuridico legittimante
il prelievo medesimo. Sembra che il titolo di quella ablazione possa risiedere nel danno o nell’illecito
e, dunque, che sia possibile qualificarla come obbligazione riparatoria o sanzionatoria, anziché
contributiva.
Con riguardo al valore netto della produzione il nocciolo del problema è se l’esercizio di
un’attività d’impresa o di lavoro autonomo cui quel valore è riferibile, comportando la nascita
dell’obbligazione d’imposta indipendentemente dal reddito, non possa finire per determinare una
sorta di confisca parziale del bene, ovvero dell’azienda genericamente intesa, dal quale scaturisce
quello stesso valore netto. La questione, dunque, è se il presupposto dell’IRAP esprima una reale
attitudine alla contribuzione, oppure se una consimile attitudine si debba ritenere assente poiché il
prelievo legato a questa imposta può compromettere, anche solo potenzialmente, l’integrità della
fonte, ovvero e in termini ancor più comprensivi, la proprietà individuale.
Su questo aspetto la dottrina è divisa in schiere irriducibilmente contrapposte. La Corte
costituzionale, da parte sua, parzialmente modificando precedenti orientamenti, ha adottato una
lettura puramente oggettiva o oggettivistica dell’art. 53 (C. cost. 21.5.2001, n. 156, in
cortecostituzionale.it; in dottrina, favorevolmente, Gallo, F., Le ragioni del fisco, Bologna, 2011, 79
ss.; in netta e agra contrapposizione, Falsitta, G., L’imposta confiscatoria, in Id., Giustizia tributaria
e tirannia fiscale, Milano, 2008, 217 ss.; Schiavolin, R., L’imposta regionale sulle attività produttive.
Profili sistematici, Milano, 2007; Moschetti, F., Il principio di capacità contributiva, espressione di
un sistema di valori che uniforma il rapporto tra singolo e comunità, in Diritto tributario e Corte
costituzionale, Napoli, 2007, 46 ss; Gaffuri, F., Il senso della capacità contributiva, in Diritto
tributario e Corte costituzionale, cit., 31 ss.).
Il problema richiamato, in linea teorica, non attiene soltanto all’IRAP, ma riguarda,
all’evidenza, tutti i tributi e, in particolare, quelli reddituali e patrimoniali, ed anche, sempre in teoria,
forme nuove di prelievo radicate su elementi che solo in tempi recenti sono stati messi a fuoco (Gallo,
F., L’uguaglianza tributaria, già cit.).
È mia convinzione – ragionando in questo più ampio quadro – che il principio scolpito nell’art.
53 sganci la tassazione dal depauperamento che essa può determinare del patrimonio del contribuente
preesistente al prelievo. Detto in negativo, non crei o non imponga l’esistenza di un legame col diritto
di proprietà, inteso come elemento “costitutivo” della persona e della sua attitudine alla contribuzione
(Giovannini, A., Capacità contributiva e imposizione patrimoniale: discriminazione qualitativa e
limite quantitativo, in Rass. trib., 2012, 1131 ss.).
Per il principio costituzionale è sufficiente che l’elemento prescelto a presupposto del tributo
sia in sé rilevante economicamente o lo sia almeno potenzialmente come produttivo di una ricchezza
ulteriore rispetto a quella che esso, elemento, già esprime; potenzialità che gli conferisce una qualità
ulteriore, giuridicamente apprezzabile, espressiva, per l’appunto, di una sua oggettiva idoneità alla
contribuzione. L’art. 53, ponendo un criterio di ripartizione delle spese pubbliche e affidandosi a tal
fine alla capacità contributiva, riprende e consacra il solo criterio in grado di dare a quella capacità
una connotazione sostanziale: la forza economica (Gallo, F., Le ragioni del fisco, cit., 89 ss.; Fedele,
A., La funzione fiscale e la capacità contributiva nella Costituzione italiana, in Diritto tributario e
Corte costituzionale, Napoli, 2007, 14 ss.; Batistoni Ferrara, F., Capacita contributiva, cit.).
Insomma, per semplificare il ragionamento, il fatto di aver ricoverato in un forziere un sacco di iuta
pieno di diamanti può anche dimostrare che essi non sono in grado di generare immediatamente un
reddito, ma non dimostra affatto che essi, come beni, non esprimano forza economica. E questo
discorso può essere esteso a numerose ipotesi già note al diritto positivo: non soltanto all’IRAP e alle
imposte patrimoniali, ma anche alle accise o imposte di fabbricazione, all’imposta sul valore aggiunto
nei casi in cui l’obbligo di versamento del soggetto passivo prescinda dalla percezione del tributo
addebitato in rivalsa, ai redditi tassabili secondo il criterio della “maturazione”, come avviene, tra
l’altro, in alcune fattispecie di redditi di capitale e di redditi finanziari, senza voler considerare le
ipotesi, numerosissime, di oneri tributari “indiretti” riconducibili all’assolvimento di obblighi
strumentali al procedimento d’imposta (anche oltreoceano, sebbene in un contesto costituzionale
diverso, l’orientamento è nel senso qui indicato, essendo stata elevata a presupposto, ad esempio, la
c.d. compartecipazione di responsabilità, ripresa alla stregua di elemento oggettivamente rilevante,
come si è espressa la Corte Suprema degli USA il 28.6.2012 (c.d. Obamacare), in Dir. prat. trib. int.,
2012, commentata da Rosembuj, T., La capacità contributiva del “non fare”. Il concetto di imposta,
in Dir. prat. trib., 2012, I, 1295 ss.).
4. Capacità contributiva, limiti quantitativi alla contribuzione e progressività
Considerare singoli fatti o beni, complessi di beni o altri elementi economici come
oggettivamente espressivi di capacità contributiva non significa legittimare una loro tassazione
illimitata. Un conto, infatti, è valutare la forza economica che essi esprimono, altra questione sono i
limiti quantitativi massimi che la tassazione incontra o deve incontrare, limiti che sono svincolati
dalla sussistenza o non sussistenza di una ricchezza idonea al pagamento. Il primo aspetto coincide
con la nozione stessa di capacità contributiva, valutata in una dimensione puramente oggettiva, e
riguarda l’attitudine di un bene o di un fatto in quanto tale ad esprimere forza economica suscettibile
di essere ricondotta al principio costituzionale. Il secondo aspetto, invece, assumendo come per
realizzata quella dimensione oggettiva perché già reputata conforme al 1º co. dell’art. 53, riguarda la
capacità contributiva dal punto di vista quantitativo, ossia dei limiti massimi dell’imposizione
(Bergonzini, G., I limiti costituzionali, cit., 452 ss.; per la letteratura tedesca, Tipke, K., I limiti
costituzionali della pressione tributaria, in Riv. dir.trib., 2000, I, 761 ss.).
Da quest’ultimo punto di vista, è possibile offrire al limite quantitativo una duplice valenza:
come limite collegato alla non tassazione della ricchezza coincidente col c.d. minimo vitale, bensì
espressione di una forza economica, ma non di una capacità contributiva (Antonini, L., Dovere
tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996, 347 ss.); e come limite coincidente
pur sempre col minimo vitale, ma apprezzato, esso minimo, da una prospettiva capovolta e che, per
semplicità, si può chiamare minimo vitale “rovesciato”. Poiché il prelievo non può determinare
l’indigenza, esso si deve arrestare là dove inizia il livello minimo di ricchezza necessaria per condurre
una vita libera e dignitosa, pure quando chi ne sia colpito disponga, prima del prelievo stesso, di
ricchezze superiori, anche di molto, a quelle coincidenti con quel minimo. In caso diverso ci
troveremmo in presenza di un’imposta confiscatoria o ablativa: il tributo subirebbe una
trasformazione qualitativa, smettendo i panni suoi propri per indossare quelli della sanzione (in
termini condivisibili, Falsitta, G., L’imposta confiscatoria, cit., 239 e 240, 272 ss.). E questa
conclusione varrebbe non solo se il prelievo intaccasse il minimo vitale, ma anche se, in forza
dell’applicazione di aliquote molto elevate, scarnificasse quasi totalmente una ricchezza ad esso assai
superiore. Il che, d’altra parte, è vietato anche dalla regola iscritta nell’art. 42, co. 3, Cost.
Si tratta di verificare, allora, se vi è spazio, giuridicamente rilevante, per individuare un
criterio cogente di limitazione quantitativa. È possibile che un principio capace di dar sostanza anche
ad altri principi costituzionali possa essere ricercato nel 2º co. dell’art. 53 (sul quale, in generale,
Schiavolin, R., Il principio di progressività del sistema fiscale, in Diritto tributario e Corte
costituzionale, cit., 151 ss.). La progressività, invero, non può essere intesa soltanto come criterio
unidimensionale - “dall’alto verso il basso” - di redistribuzione delle risorse e ancor prima dei carichi
pubblici a favore dei meno abbienti, criterio o regola che, attraverso un prelievo più che proporzionale
rispetto al crescere della ricchezza, garantisce, col meccanismo della spesa pubblica, chi meno ha,
soddisfacendo, così, gli interessi protetti dall’art. 2 Cost. e quello alla rimozione degli ostacoli
indicato nel 2º co. dell’art. 3.
La progressività come principio esprime un concetto relazionale o di rapporto tra situazioni
oggettive e quindi, scavando ulteriormente, esprime l’idea che all’esito dell’imposizione la forbice
preesistente tra ricchi e poveri - detto grossolanamente - deve essere bensì ridotta, ma in misura
modulare. In misura tale, cioè, da scongiurare l’appiattimento verso il basso di situazioni
originariamente diverse, l’azzeramento delle “diseguaglianze legittime”, invece garantite dalla nostra
Carta.
Predicare la progressività dell’imposizione, in altre parole, significa bensì ammettere che il
peso tributario sull’euro marginale di ricchezza, prima della soglia del minimo vitale “rovesciato”,
possa e debba essere maggiore di quello che grava sull’ultimo euro precedente, ma non che il prelievo
stesso possa essere interamente ablativo di quel medesimo euro marginale e di quelli precedenti. Anzi,
proprio in ragione della progressività e del suo concorrere coi diritti di proprietà individuali, quella
forbice non può essere azzerata: tra quella iniziale e quella successiva, risultante dall’applicazione di
un’imposizione complessivamente progressiva, non potrà che mantenersi una differenza, tanto più
ampia quanto minore sarà il prelievo sull’ultimo euro marginale e sugli euro a questo prossimi. In
parole diverse, garantito il minimo vitale “rovesciato”, la tassazione sull’euro marginale a questo
anteriore può anche giungere a livelli assai elevati, ma sulle ricchezze precedenti a tale euro marginale
è giocoforza che la percentuale di tassazione sia inferiore, con la conseguenza che, al decrescere della
ricchezza, una parte sempre maggiore di questa non potrà che rimanere intonsa dalla tassazione
medesima. È il meccanismo proprio della progressività a spianare la strada in questa direzione e ad
imporre un limite.
Ciò non consente ancora di stabilire in percentuale la sua misura, come fece la Corte
Costituzionale tedesca con la sentenza del 22.6.1995, nella quale parlò di «divisione a metà […] tra
la mano privata e la mano pubblica». Posizione, peraltro, che la stessa Corte ha parzialmente rivisto
con la dec. 18.1.2006, con la quale ha superato il criterio ripartitorio ora indicato, pur confermando
l’esistenza di un limite quantitativo massimo alla tassazione, ulteriore e diverso dal divieto, peraltro
assodato, della confisca.
Usando parametri di ragionevolezza, tuttavia, e a motivo del concorrere equiordinato della
solidarietà e della proprietà, ripresa nelle sue diverse declinazioni costituzionali, è possibile ritenere
rispettato il principio di capacità contributiva solo se la tassazione si arresta ad un livello mediano
degli averi o a misure prossime a questo livello.
L’esperienza francese può confortare ulteriormente questa impostazione. E infatti, in quel
sistema, non soltanto è dovuto intervenire il legislatore per fissare, in seno a l’impôt de solidarité sur
la fortune (IFS), una “clausola di salvaguardia” o “massimale” o “scudo”, per limitare la misura
dell’imposizione complessiva gravante sul singolo. Ma è dovuto intervenire anche il Consiglio
costituzionale francese, il quale ha dichiarato l’illegittimità di tributi reddituali sostanzialmente
confiscatori per esosità della loro aliquota marginale, pari al 75 per cento, individuandone un palese
contrasto col principio di capacità contributiva e col principio di eguaglianza (dec. 29.12.2012, n.
2012-662).
In conclusione, l’esperienza tedesca e quella francese indicano, con palmare evidenza, la
necessità di individuare anche in seno al nostro sistema impositivo limiti quantitativi massimi al
prelievo, che salvaguardino le esigenze finanziarie della collettività organizzata, ma anche ed al
contempo i diritti dei singoli. E a me pare che la strada da seguire sia proprio quella di legare la
progressività, come principio, all’eguaglianza sostanziale, così da dar corpo, mediante questa
relazione, alla rete di princìpi posti a garanzia dell’individuo.
5. “Attualità” ed “effettività” della capacità contributiva. La tassazione al “netto” e i costi di reato
Il tributo deve essere riferito ad un fatto idoneo a testimoniare una capacità economica attuale.
Esso deve colpire ricchezze che, al momento della tassazione, manifestano attitudine alla
contribuzione, seppure si siano formate in tempi precedenti o se ne preveda la produzione in tempi
relativamente prossimi alla tassazione medesima.
Quanto, in particolare, alle leggi d’imposta retroattive, pur vietate in linea di principio dall’art.
3, co. 1, l. 27.7.2000, n. 212 (statuto dei diritti del contribuente), esse sono ammissibili, ma ad alcune
condizioni che la Corte costituzionale ha stabilito nel corso della sua evoluzione giurisprudenziale: il
periodo trascorso dalla realizzazione dei fatti espressivi di capacità economica deve essere
temporalmente contenuto, secondo una valutazione ispirata alla ragionevolezza; gli effetti economici
di quei fatti devono permanere, sempre secondo ragionevolezza, nel patrimonio del contribuente; la
tassazione ex post di quelle ricchezze deve essere prevedibile fin dall’inizio, in considerazione delle
lacune normative originariamente esistenti nel sistema o a motivo della incerta formulazione della
singola disposizione (C. cost., 20.7.1994, n. 315, in Giur. it., 1995, I, 2650). Quanto alle modifiche
normative in “corso d’anno”, sebbene generalmente ritenute ammissibili dalla Corte, l’art. 3 dello
Statuto, già richiamato, le vieta espressamente. Pare così essere stata valorizzata la tesi che aveva
postulato l’esistenza di un divieto di retroattività anche nel caso di disposizioni che, a periodo
d’imposta iniziato, sostituivano il presupposto oggettivo o modificavano singoli fatti rilevanti nella
costruzione di quel presupposto o della base imponibile: con simili modifiche, infatti, si «incide,
alterandone le connotazioni, sulla capacità contributiva espressa da fatti già qualificati sul piano
dell’ordinamento e realizzati in funzione di quella disciplina» (Giovannini, A., Retroattività e
stabilità delle leggi d’imposta, in Giur. it., 1995, I, 1, 2655 ss.; Contrino, A., Modifiche fiscali in
corso di periodo e divieto di retroattività “non autentica” nello Statuto del contribuente, in Rass.
trib., 2012, 589 ss.).
Oltre al requisito dell’attualità, la capacità contributiva deve possedere quello della effettività.
La Corte costituzionale ha in più occasioni affermato che la tassazione deve cadere su ricchezze
effettive, quindi non fittizie (tra le altre C. cost., 28.7.1976, n. 200, in De Mita, E., Fisco e
Costituzione, I, cit., 483).
Il requisito di effettività non comporta il divieto di presunzioni legali. Esse, infatti, se relative
e collegate ad elementi inferenziali reali e non presunti, sono senz’altro ammesse. Vero è che la
capacità contributiva, per dirsi effettiva, non deve costituire la riproduzione fotografica delle
situazioni oggettive per come si sono realizzate nel pregiuridico. Quella che si definisce “effettiva” è
solo una delle possibili raffigurazioni che la legge intende o può offrire di tale capacità. La
combinazione di metodologie e strumenti, a questo fine, è variabile e molto ampia, come ampio e
variabile è il ventaglio degli elementi ricostruttivi che talvolta sfumano, in punto probatorio, perfino
il grado probabilistico della ricostruzione in semplice possibilità, più o meno attendibile a fil di logica
(Lupi, R., Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario, Milano, 1988, 75 ss.; Tosi, L.,
Il requisito di effettività, in La capacità contributiva, a cura di Moschetti, F., cit., 126 ss., e Id., Le
predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Milano, 1999, 80 ss. e 434 ss.).
Per ciò che concerne gli strumenti “paracatastali” di determinazione della ricchezza, collegati
a coefficienti o indici, utilizzati in sede d’accertamento per la determinazione del presupposto o della
base imponibile, la loro conformità all’art. 53 è vincolata da alcune condizioni: i risultati ai quali
conducono devono, anzitutto, rispondere a canoni di ragionevolezza, logicità e normalità; ad essi deve
essere possibile opporre una diversa ricostruzione probatoria e le prove a tal fine utilizzabili devono
essere possibili e poter assumere concreto rilievo; essi, inoltre, quanto all’accertamento dei redditi
d’impresa e di lavoro autonomo, devono essere assistiti da ulteriori elementi probatori o, almeno,
indiziari, così da garantire alla “realtà” contributiva ricostruita per il loro tramite un elevato grado di
attendibilità.
Il postulato dell’effettività dovrebbe determinare, a stretto rigore, l’espulsione dalla base
imponibile delle componenti meramente nominali prodotte dal processo inflattivo della moneta; come
dovrebbe comportare l’espulsione dei meccanismi “forfetizzati” di misurazione del presupposto,
compreso quello determinato catastalmente, fin dalla fase procedimentale della dichiarazione del
contribuente.
La Corte costituzionale, seguendo un indirizzo pragmatico, ha però ragionato in termini
diversi: se per la ricchezza “nominale” ha ritenuto ininfluente, dal punto di vista del diritto, il processo
di svalutazione della moneta, atteso che il legislatore può legittimamente scegliere di riferirsi ad essa
quale unità nominale di misura (C. cost., 8.11.1979, n. 126, in Giur. it., 1980, I, 1, 353, e C. cost.,
25.7.1983, n. 239, in Foro it., 1983, I, 2954); per quella determinata catastalmente ha ritenuto che il
reddito medio ordinario corrispondente alla rendita catastale esprima una capacità contributiva non
già fittizia, ma “figurativa”, poiché quando oggetto dell’imposta sia una «cosa produttiva, la base per
la tassazione è data (e la capacità del contribuente è rivelata) dall’attitudine del bene a produrre un
reddito economico e non dal reddito che ne ricava il possessore, dalla produttività e non dal prodotto
reale» (C. cost. 31.3.1965, n. 16, in Foro it., 1965, I, 1127).
Il requisito di effettività, inoltre, impone che la capacità contributiva venga determinata al
netto dei costi sostenuti per produrre la ricchezza corrispondente. Sebbene l’ordinamento preveda
eccezioni, anche significative, per lo più a motivo di una discriminazione qualitativa degli averi che
in tal modo intende fondare, la regola generale rimane quella della “tassazione al netto”, regola che
trova la sua più estesa operatività nelle imposte sui redditi (C. cost., 12.7.1965, in Foro it., 1965, I,
1243; Manzoni, I., Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano,
Torino, 1965, 131; Giardina, E., Le basi teoriche del principio della capacità contributiva, cit., 207
ss.).
Il problema sul quale da tempo si discute è se a questo criterio si debba conformare anche la
determinazione del reddito prodotto da un’attività reato, ossia e per meglio dire, la determinazione
del profitto, prodotto o prezzo del reato che per la legge fiscale può, se non sottoposto a confisca o
sequestro penale, rilevare alla stregua di reddito tassabile, a mente dell’art. 14, co. 4, l. 24.12.1993,
n. 537 (Giovannini, A, Provento illecito e presupposto dell’imposta personale, Milano, 2000).
Ragionando per princìpi la risposta deve essere negativa (diversamente Falsitta, G., Spunti
critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore
detto “abuso del diritto”, in Riv. dir. trib., 2010, I, 349 ss.; Marongiu, G., Abuso del diritto o abuso
del potere?, in Corr. trib., 2009, 1076 ss.; Tesauro, F., Indeducibilità dei costi illeciti: profili critici
di una norma di assai dubbia costituzionalità, in Corr. trib., 2012, 426 ss.). Un elemento che nella
realtà pregiuridica è idoneo a manifestare forza economica di spesa, infatti, può non costituire oggetto
di conforme valutazione sul piano del diritto. Non tutti i fenomeni astrattamente sintomatici di quella
forza possono essere elevati a fattispecie giuridica e la circostanza che essi emergano sul terreno
economico non è sufficiente affinché la legge li recepisca e li riconosca. La ragione di questa
divergenza è semplice: la legge non è un guanto che calza a qualsiasi fenomeno poiché la forza di
spesa di un elemento guardato nella sua matrice originaria deve essere sempre riportata ai princìpi
posti a custodia del sistema. E la divaricazione tra qualificazione economica e qualificazione giuridica
non è certo superabile invocando la norma sull’inerenza dettata dal testo unico delle imposte sui
redditi: questo criterio, bensì utilizzabile nel procedimento interpretativo, interviene soltanto a
posteriori, dopo cioè che i singoli componenti economici hanno superato il vaglio di conformità e per
questa via sono stati elevati a fattispecie giuridica.
Per il diritto tributario si può qualificare alla stregua di costo la manifestazione di valore,
misurata finanziariamente, di un bene o servizio, sostenuto per il perseguimento di interessi
giuridicamente protetti riconducibili ad un’attività d’impresa o di lavoro autonomo.
L’art. 2 Cost. rafforza e, anzi, suggella queste considerazioni. Il principio di solidarietà impone
di ritenere che la determinazione della capacità contributiva non possa essere condizionata da
elementi economici finalizzati al conseguimento di interessi espulsi dalla qualificazione positiva
dell’ordinamento. Come si è già detto, dall’art. 2 discende una regola sistematica fondamentale, che
consente di dar corpo allo stesso vincolo solidaristico: la regola della redistribuzione di una porzione
della ricchezza privata; ricchezza che, se assunta a presupposto dell’imposta personale,
conformemente alle regole di determinazione dei redditi d’impresa e di lavoro autonomo, non può
che essere stabilita per somma algebrica, comprensiva, come tale, degli elementi negativi (costi o
spese) che concorrono a formarla. È così, è in questo modo che avviene la redistribuzione.
Ecco perché il costo di reato non può venire in considerazione come elemento negativo del
reddito: se fosse ricondotto in quella somma algebrica, al pari del costo per sanzione pecuniaria,
finirebbe per gravare, per essere ribaltato sulla collettività proprio in ragione dell’effetto
redistributivo, generando, così, una conseguenza inconciliabile con la dimensione della legalità,
presidio e cerniera del nostro ordinamento: i consociati sopporterebbero, seppure in frazione
millesimale, la spesa che il reo ha sostenuto per commettere l’illecito. Il costo del reato, insomma,
finirebbe per essere sopportato da chi è il soggetto passivo (diretto o indiretto, sulla base della
tipologia di illecito, qui poco importa) del reato stesso. Senza troppi arzigogoli, quel costo si
trasferirebbe (in parte) sulla collettività, che però è anche, contemporaneamente, vittima dell’illecito,
e ciò, a tacere da altre considerazioni, fonderebbe una conseguenza paradossale all’evidenza e
inaccettabile anche per il diritto (Giovannini, A., Principi costituzionali, cit., 609 ss., e Id., Costo e
sanzione nel reddito d’impresa, in Riv. dir. trib., 2002, I, 875 ss.).
Il co. 4 bis dell’art. 14 della l. 24.12.1993, n. 537, introdotto dall’art. 2 della l. 27.12.2002, n.
289, disponeva, con chiarezza, la indeducibilità integrale di siffatti costi. Più recentemente, con
disposizione improvvida e malamente formulata (art. 8, co. 1, d.l. 2.3.12, n. 16) il legislatore è
intervenuto prevedendo che «non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle
prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come
delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque,
qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 c.p.p.
ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla
sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 c.p.».
6. Capacità contributiva e risoluzione concordata delle controversie: sulla disponibilità
dell’obbligazione d’imposta
Alcuni strumenti normativi di recente conio finalizzati alla risoluzione concordata delle
controversie (accertamento con adesione, conciliazione giudiziale e, soprattutto, mediazione)
sembrano andare a scapito di una misurazione più accurata della capacità contributiva “effettiva”, per
come la si potrebbe determinare con il mezzo storicamente ritenuto preferibile, ossia il processo.
Un’analisi più attenta, in realtà, persuade come questa ricostruzione non sia la sola prospettabile. Gli
istituti richiamati e in particolare la mediazione tributaria, muovono dall’incertezza di fatto e di diritto
che caratterizza la ricostruzione unilaterale e vincolata dell’amministrazione, e dalla contestazione
dell’obbligazione momentaneamente cristallizzata nell’atto d’accertamento. Questa incertezza, che
può essere perfino profonda, per avere l’ufficio utilizzato presunzioni, anche “semplicissime”, o
metodologie “paracatastali” di determinazione della capacità contributiva, produce, per così dire, un
ingorgo di rapporti giuridici e il rischio che quell’ingorgo di rapporti si risolva in ingorgo del
processo. La causa della legge, così individuata, è proprio la stessa che legittima la novellata
determinazione della pretesa e che diviene, con perfetta coincidenza sul piano concreto, causa in
senso giuridico dell’accordo posto in esito alla contestazione (accordo pregiurisdizionale o
giurisdizionale, a seconda degli istituti di riferimento).
Stando le cose in questi termini, è manifesto come la capacità contributiva corrispondente a
quella nuova determinazione sia l’unica che il diritto recepisce come “vera”: non solo la sua
“effettività” non è accertabile ex post con mezzi ulteriori e diversi, atteso che la sua conformità alla
realtà è stata messa definitivamente fuori discussione per via pattizia. Ma, soprattutto, non è possibile,
anche astrattamente, verificare la sua maggiore o minore aderenza a quella realtà com’è all’infuori
della rappresentazione che ne ha dato l’accordo tra le parti.
Sarebbe discutibile, dunque, sostenere la maggiore effettività della capacità contributiva
“misurata” nell’originario atto impositivo o “misurata” nel processo rispetto a quella ricostruita in
contraddittorio tra le parti, sol perché determinata, la prima, d’autorità e, la seconda, col filtro della
funzione giurisdizionale. Di qui la possibilità di rileggere, inforcando nuovi occhiali
d’interpretazione, il principio della indisponibilità dell’obbligazione d’imposta, il quale, pur
autorevolmente sostenuto con argomentazioni rigorose, se assunto tralaticiamente o senza tenere in
debita considerazione il mutato quadro normativo di riferimento, rischia di non cogliere
proficuamente i mutamenti che stanno alla base del moderno diritto e che alimentano una rinnovata
interpretazione dei principi costituzionali (per l’indisponibilità, Falsitta, G., Natura e funzione
dell’imposta, con speciale riguardo al fondamento della sua “indisponibilità”, in Profili autoritativi
e consensuali, cit., 45 ss.; in termini opposti Russo, P., Indisponibilità del tributo e definizioni
consensuali delle controversie, ivi, cit., 89 ss.; Giovannini, A., Reclamo e mediazione tributaria: per
una ricostruzione sistematica, in Rass. trib., 2013, 15 ss.).
Del resto, neppure sarebbe convincente contestare questa impostazione invocando gli artt. 2 e
3 e, quindi, richiamando la regola della giusta distribuzione tra i consociati dei carichi pubblici. Anche
da questa prospettiva appare discutibile voler ricostruire il significato delle norme or ora richiamate
leggendole esclusivamente dall’angolo visuale dell’art. 53 e interpretando questo articolo come
espressivo della sola regola alla giusta distribuzione del carico. Non soltanto perché la Corte
costituzionale ha già escluso, rispetto a questa disposizione, la sua “monodimensionalità”,
affermando, con riguardo alle leggi di “condono”, che essa ha, per così dire, una doppia faccia: tutrice
del principio di solidarietà e di quello d’eguaglianza, ma anche guardiana dell’interesse primario dello
Stato alla riscossione e alla soddisfazione di altri interessi pubblici (C. cost., 7.7.1986, n. 172, in De
Mita, E., Fisco e Costituzione, II, 408 ss.). Ma anche per il concorrere di un altro motivo: perché i
princìpi che s’intendono desumere dagli artt. 2 e 3 non possono che essere in concreto innervati da
molteplici interessi costituzionali, anche di diverso contenuto, ma tutti parimenti rilevanti nella
definizione dell’assetto normativo con il quale il legislatore intende dar loro tutela e attuazione.
In conclusione, l’art. 2 e l’art. 3 non possono essere letti soltanto col monocolo dell’art. 53,
ponendoli in linea su una sorta di asse orizzontale figurato. E non perché ad essi si voglia negare
funzione di norme coessenziali all’ordinamento, di colonne portanti della sua architettura e perfino
della forma di Stato. Piuttosto perché, per riprendere la metafora geometrica in precedenza utilizzata,
essi costituiscono il centro di una costellazione radiante di princìpi e pertanto su di essi si riverberano,
per il “naturale” intreccio intessuto dalla Costituzione, altri interessi di pari pregio e rango rispetto a
quello alla perequata imposizione (interesse all’economia processuale, alla ragionevole durata dei
processi residui, alla pronta riscossione del credito, alla definizione del rapporto giuridico d’imposta,
all’efficienza dell’azione pubblica); interessi che, nel rispetto della ragionevolezza, proporzionalità,
adeguatezza e coerenza intrinseca, possono legittimare, con una preliminare ponderazione generale
ed astratta degli interessi compiuta dal legislatore, valutazioni “concordate” in sede di rivisitazione
contenziosa dell’obbligazione provvisoriamente determinata nel provvedimento d’accertamento e,
dunque, valutazioni dispositive del credito, secondo criteri e regole stabiliti dalla legge, tutti incentrati
sull’incertezza dell’esito processuale della lite.
Fonti normative
Art. 53 Cost., art. 2 Cost., art. 3 Cost.
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